L' estro armonico

di Ultimo bugiardo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tho tun's this world ***
Capitolo 2: *** Il combattimento di Tancredi e Clorinda ***
Capitolo 3: *** Wondrous machine ***
Capitolo 4: *** Altri canti di Marte ***



Capitolo 1
*** Tho tun's this world ***


<b>L’ESTRO ARMONICO</b>

Capitolo primo

THOU TUN'S THIS WORLD

Il ragazzo sostava immobile davanti ad un vecchio, solitario muretto. Lo fissava assente. La nebbia calava pesante sull’ imbrunire annoiato, il ragazzo si sdraiò sul piccolo rudere posando la schiena. sulla fatiscente colonnina da cui esso pareva germinare, era freddo e bagnato Sapeva che il muschio e la vegetazione marcescente che lo circondava gli avrebbero irrimediabilmente sporcato la già provatissima tuta scatenando le più tempestose ire materne, ma non se ne curò. Il ragazzo odiava quel muretto, odiava la sua assoluta mancanza di significato, odiava quella quiete mortifera, così patetica, che ormai sempre più spesso lo conduceva lì. Un vecchio quotidiano fradicio giaceva a poca distanza dai suoi piedi, soppesò l’idea di sfogliarlo ma optò per un’arcaica caramellina senza destino che da eoni vagava per la sua tasca.

“All’eucalipto…, appiccicosa…” in effetti bastava solo evitare di pensare, se l’avesse fatto non sarebbe riuscito ad evitare la caduta, ad evitare il pensiero che in troppo tempo fossero successe troppo poche cose, anzi, che non ne fosse successa nessuna! Non che gli fosse fondamentale illudersi di poter vincere la noia del viver quotidiano senza aggirarla, aveva imparato a sue spese il ruolo della riflessione. La noia nasconde i più densi significati, i significati più intimi della natura umana… Ma lui non era una persona qualunque!

“Salvi il mondo, risalvi il mondo e poi ti si chiede di rimanere immoto ad aspettare la fine? Chi sono loro per arrogarsi questo diritto! Loro non conoscono un solo particolare di tutto ciò che ho fatto, nulla di ciò che sono… di ciò che ero…di ciò che sono e che non posso più essere!” Ma la cosa più frustrante è che il ragazzo sapeva che non c’era nessun loro, che non aveva interlocutori, che era solo. Non era però sempre stato così, aveva avuto certi amici lui! Aveva goduto di un’amicizia così vera! Ora però si era inaridita tristemente, come un bicchiere d’acqua lasciato all’aperto: senza che si possa rendersene conto, si svuota silenzioso. Non voleva ripensare ai suoi amici, erano l’emblema del suo passato, e per quanto questo fosse per il suo animo burrascoso l’ unico elemento a cui permettesse di definirlo, rievocarlo lo devastava. Odiava il tempo, lo odiava nonostante in passato lo avesse amato più d’ogni altra cosa.

Improvvisamente il gelo della notte invernale ormai prossima lo risvegliò con un brivido dal suo torpore. Dense nuvole di vapore fuoriuscivano dalle rosse labbra screpolate e violenti brividi sconquassarono il suo corpo sudato ed ingenuamente perfetto.

La caramella gli si ruppe tra i denti. Ci era ricascato. Era caduto di nuovo in quel baratro.

Che fine aveva fatto la sua tanto ostentata determinazione? Si chiese se non si fosse rammollito e capì di non essere mai stato più forte di così: in quel baratro lo aveva condotto proprio la sua forza d’animo. Ed in fondo a lui quel baratro piaceva, era anzi l’unica cosa che riuscisse, per quanto solo in piccola parte, a confortare la sua inquietudine; ma quel baratro era anche così profondamente diverso dal naturale scorrere della vita! Non poteva sopportare , uscendovi, di dover ammettere d’aver, in quegli istanti, solo pensato. Che quella pace, per quanto incompleta, fosse solo una parentesi fallace, addirittura colpevole. Lo sguardo gli si posò involontariamente sul rigonfio borsone sportivo che aveva poco prima lasciato sgraziatamente cadere per il fangoso sentierino che portava fin lì e gli fu impossibile trattenere un pesante sospiro di rassegnazione.

Il ragazzo cercava qual’cosa di mitico, di trascendente ed era un desiderio che nasceva da una remotissima parte di se, una parte sfuggente, dal sapore sovrumano… ne poteva assaporare la pienezza intrinseca, così… bellicosa! Sapeva di non averla ancora raggiunta, ma sapeva anche che in un solo dove quel mito poteva tornare a pulsare: Digiworld. Solo a Digiworld riusciva a sentirsi pieno, denso.

“E si può forse farmene una colpa? Come si può vivere le esperienze che vi ho vissuto io ed improvvisamente accettare il ritorno ad una realtà in cui i maggiori drammi sono i brutti voti, i professori e le figuracce davanti alle ragazze…?”

No, c’era qual’cosa di più, questa spiegazione non era abbastanza mitica. D’altronde i suoi compagni d’avventura, tutti, avevano cambiato vita già da un bel po’; avrebbe potuto farlo anche lui, ma in tutto questo tempo non c’era riuscito, anzi, sinceramente non aveva mai voluto nemmeno provarci! Digiworld infatti era collassato. Era probabilmente ancora vivo, ma non si poteva esserne certi: parevano essere stati esclusi dal suo divenire ed irrimediabilmente ormai. Spento ogni contatto, inerte il digivice ( non funzionava più nemmeno da orologio ), non rimaneva che dimenticare tutto a detta dei più, come una sorta di allucinazione collettiva, come un sogno imbarazzante, persino come una patologia. Si doveva andare avanti!

“Vigliacchi, Codardi, tutti loro!”

Gli occhi divennero lucidi, le gote si arrossirono, il busto s’irrigidì mentre i pugni si serrarono,il nodo alla gola morì in uno starnuto deforme.

“Tutti loro…” ripensò.

Realizzò di non avere le idee chiare su quello che provava per i suoi vecchi compagni d’avventura. Se la rabbia apriva le danze, poi tutto si confondeva. E qui la consueta dilatazione toracica, ancora volutamente incompresa, che fece come se gli fosse esploso il cuore sospingendogli lo spirito a fior di pelle.

“Oddio, che stupido…”

-E CHE CI FARESTI TU LI’?!-

Quell’urlo fece letteralmente volare il ragazzo oltre il muretto.

Quando, facendo capolino dagli umidi mattoni, riconobbe l’esile figura che, tra nebbia e oscurità rideva divertita, si sentì ancora più stupido.

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Capitolo 2
*** Il combattimento di Tancredi e Clorinda ***


Capitolo secondo:

IL COMBATTIMENTO DI TANCREDI E CLORINDA

1) INVERNO

 

La porta si chiuse in maniera assolutamente normale e Sora rimase immobile per alcuni secondi ad aspettare che la strana sensazione d’attesa si compisse in qualche modo.
Il rumore si spense nella soddisfatta quiete di quella comunissima mattinata feriale.
Girò la chiave con fare inspiegabilmente perplesso.
Cos’era quell’urgenza?
Quante volte in quegli ultimi anni si era posta quella domanda?
In verità già ne conosceva la risposta.
Si voltò sospirando e si diresse verso scuola.

C’erano momenti della giornata, e quello era pienamente nella categoria, in cui veniva scossa da una sensazione tersa e lieve di…smarrimento.
Ed in effetti aveva più in generale la sensazione di vivere inseguendo un’ormai persa pienezza esistenziale, come una bimbetta al luna park che rincorra un palloncino lasciato andare per puro caso.
E quando aveva perso quel palloncino?
Quante volte in quegli ultimi anni si era posta anche quella domanda?
Conosceva la risposta anche di quella domanda ed era la stessa della domanda di prima.

Le irregolarità del marciapiede scivolavano rapidissime sotto di lei, era ormai a metà strada e si aspettava di incontrare Matt da un momento all’altro. E così fu.
Un ragazzo alto, biondo e magro la stava aspettando dietro l’angolo, le spalle a ridosso d’una cancellata frastagliata da una siepe rattrappita, gli azzurri occhi rivoltile dall’ombra di una leggera ciocca di capelli che gli ricadeva sulla faccia.
Le sorrise sincero, le si avvicinò sistemandosi l’acconciatura e la salutò pacato:

- Ciao Sora -

Sora lo salutò a sua volta; che tenerezza le faceva!
Che tenerezza le faceva il modo in cui ingenuamente preparava le sue entrate, o il suo modo misurato di parlare, o i vestiti scuri che indossava, o lo sguardo serio, o i movimenti tesi…
Questi accorgimenti gli avevano garantito un’indiscussa popolarità, ma andavano bene con le ragazzine dei primi anni, non certo con lei che lo conosceva da quando era un bambino!
E proprio non se ne rendeva conto!
Sia chiaro, non lo faceva per vanità, eh! Solo sembrava credere che il mondo andasse avanti così!
Lei scosse la testa sorridendogli e muovendogli così una momentanea perplessità, lo prese sotto braccio e riprese il tragitto per la scuola.

Matt era il suo compagno, lo era da molto tempo ormai, dal tempo delle medie.
Ma se lui aveva fatto di lei una droga, lei pareva considerarlo alla stregua di un fratello.
Gli voleva molto bene, certo, ma non provava quel tipico, viscerale trasporto che nel caso particolare da sempre si dice debba esser d’obbligo.
Ma se la cosa la inquietava anche solo superficialmente, allora non lo dava a vedere nemmeno a se stessa.
Aveva infatti troppo spesso un’aria assente, aveva spesso lo spirito altrove.
Aveva paure che non riusciva a raffigurare per intero, paure che le facevano dubitare che di una determinata parte della sua vita, parte che era riuscita solo con strazianti fatiche a concludere, non si avesse da dire più nulla.

“ Fin che è giorno, almeno, voglio evitare di pensarci ” si comandò.

Il silenzio rilassato di quei pochi minuti la risollevò moltissimo e l’aria frizzante della mattinata invernale le alimentò un purissimo sorriso.

Fu in quello spirito che vide…che videro Tai immettersi in strada dal giardino di una vecchia villetta abbandonata, con lo zaino su una spalla e l’andatura d’un gatto assonnato.
Matt fece per salutarlo ma Sora lo blocco e lo trascinò più indietro.
- Scusa…Perché? – domandò Matt.
Sora, agitatissima, lo trattenne per una manciata di frementi istanti mentre egli la guardava incredulo; ciò non era da lei. Il ragazzo s’incupì.

Tai sparì oltre un’altra curva e fu come se non l’avessero mai incontrato.
Era come aver evitato un predatore feroce, ecco cosa pensò li per li la fanciulla; il pulsare del petto le ovattò l’udito e gli occhi erano sbarrati.
Ciò che poi la sua parola el suo gesto fecero non la coinvolsero e non la interessarono affatto.
Ma pensò suo malgrado a quella “famelica bestia”.
Dio solo sa quanta parte della sua vita abbia passata ad evitare di pensare a quel ragazzo!
Dio solo sa quanta confusione…ma non poteva negare che egli, anche ora che lo evitava come la peste, fosse fondamentale per lei.
Si, ne era intensamente innamorata, anzi, probabilmente lo era sempre stata, ma il problema non era quello.
Il ruolo di Tai era molto più profondo: Tai era per lei una sorta di limite inconoscibile, un’entità trascendentale che per quanto la attraesse e spaventasse la rendeva al contempo speciale, e questo indipendentemente da tutte le cose del mondo.
Se ne avesse parlato con qualc’uno le avrebbero detto che lo stava ingiustificatamente divinizzando e che Tai era un ragazzo come tanti altri e che si stava rovinando la vita…
La verità era che non potevano capire, che non sarebbe mai riuscita a spiegare quanto questa sensazione le fosse superiore e quanto essa fosse per lei materna e confortevole!
Che lo si credesse o no Tai era davvero speciale!
Era così incredibilmente distante pur nella sua purissima spontaneità! E ciò era agli occhi di Sora quasi…angelico.
Tai era come un animale selvatico, si, questo era il giusto paragone: per quanto distante potesse sembrare era cosi incredibilmente umano! Molto più umano di quanto lo sia chiunque altro!
Eppure erano così in pochi ad averlo intuito e Sora sapeva che così chiaramente lo aveva capito solo lei.
Non aveva in verità mai saputo come comportarsi con lui, non aveva mai capito realmente cosa egli volesse.
Ma se in passato questo stato d’inespressa potenzialità la torturava, ora aveva capito che le era fondamentale che le cose rimanessero così.
Ora sapeva che la risoluzione di quello stato, lei non l’avrebbe mai potuta capire, e che per quanto male le avesse fatto, le aveva al contempo dato se stessa: quando la rifiutò, Tai le donò se stessa.
Aveva accettato quell’urgenza.
Aveva accettato di chiedersi perpetuamente che cosa fosse quell’urgenza e aveva accettato di non poterla capire.

Aveva accettato di passar la vita a rincorrere quel palloncino.
Queste erano le sue risposte.

2)  TRAUMEREI

 

La notte, però, tutto cambiava.

Da alcuni mesi a quella parte, la notte faceva fremere quell’equilibrio, come una colossale fera che sta per svegliarsi ed in quelle ore le sue risposte non valevano più.

Il male che tanto temeva era nel sonno e nei sogni che le portava.

Quei sogni scardinavano la chiave di volta della sua inquietudine e le mostravano Tai, irradiante una spettrale luce verde, che, in piedi ed immobile, fissava il vuoto ai piedi del suo letto.

Ma quello non era uno dei consueti sogni su Tai, quello era diverso!

Era imbevuto di una tragicità sussurrata così folle, piena ed incomprensibile che nessuno avrebbe potuto sostenere per intero.

C’entrava forse… Digiworld?

Aveva fatto così tanta fatica a chiudere definitivamente i ponti con quel passato, perché ora, perché ritornare proprio ora che era passato così tanto tempo!

Però più ci pensava più capiva di aver indovinato; non sapeva che c’entrasse Tai, che ruolo avesse  nel significato profondo di quella ”visione”, certo era che se pensava a Digiworld doveva pensare anche a Lui.

Non le era mai stato più vicino che in quel luogo senza senso.

Comunque non sapeva se voleva verificare se aveva ragione, se davvero voleva assistere all’avverarsi delle prospettive che una rivelazione simile apriva.

Sarebbero state sicuramente enormi.

“ Tanto, che ho da perdere ? ” si disse.

Non era quello il punto: non stava cercando la felicità, non le serviva agire, cambiare le cose per tornare sana. Sarebbe stato troppo ingenuo da parte sua ignorarlo.

Riportare il caos le era inutile ora le rimaneva da chiedersi se era giusto e se per quanto terribile non fosse però necessario.

“ Forse dovrei… parlarne… a…Tai…”

Facce invisibili la derisero silenziose.

 

Tornata alla realtà, Sora temeva solitaria il crepuscolo tra silenziosi fremiti e sudori freddi.

Ed anche quel giorno, nel compiersi dell’angosciosa e pallida luce invernale in un’oscurità densa e malata, le parole tornarono a non significare nulla per lei.

Era stata una giornata inutile, nulla era veramente successo dopo quella mattina e ora, nella notte prossima, muoveva assente verso casa.

 

L’atmosfera dei sogni era già su di lei quando, nella tetra luce arancione dei lampioni, rivide Tai.  Col suo solito moto felino stava entrando nella fatiscente proprietà di quella mattina.

Lo seguì.

A distanza.

Lo vide andare verso il giardino sul retro, lasciar cadere il borsone che teneva in spalla e dirigersi verso un insignificante muretto.

 

La nebbia calava pesante sull’imbrunire annoiato e lei, dietro un albero umido e marcescente fissava il ragazzo con stupore.

Sdraiato sul piccolo rudere, il vecchio compagno d’avventura le pareva un elemento naturale: era come guardare una cascata o un albero antico.

Scorrevano i secondi e lei lo fissava con sempre maggior trasporto finché, perso il controllo, lo chiamò vivacemente:

 

-  E  CHE  CI  FARESTI  TU  LI’  ?! –

 

 

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Capitolo 3
*** Wondrous machine ***


Capitolo terzo:

WONDROUS MACHINE

 

1) THE FIFE AND ALL THE HARMONY OF WAR

A ciascuno il suo.
Questo è un principio che sta a cuore a tutti perché dà dignità, ma soprattutto perché cela la possibilità d’avere sempre un’altra chance.
Preme a tutti poter ricominciare, soprattutto perché la mente lo esige indipendentemente dai fatti concreti.
Succede spesso che si decida, quando le cose vanno irrimediabilmente male, di lasciarsi il passato alle spalle vivendo una “nuova vita”, ci pensa poi il tempo ad illuderci che sia legittima.
Moltissime persone vivono così.
Per sua natura, Joe apparterrebbe a questa specie, eppure non gli è dato d’andare fin in fondo.
Si spiegherà meglio cosa s’intende: Joe apparteneva ad un gruppetto scelto di ragazzini col preciso compito di salvare un mondo digitale noto come Digiworld.
Sotto quella insegna aveva vissuto numerose avventure, imparato grandi cose e fatto scelte importanti.
Soprattutto aveva capito che tutto prima o poi arriva alla sua naturale conclusione, spetta a ciascuno accettarla o meno…
Per la verità quest’ultima cosa l’aveva imparata a vicenda conclusa, quando era già era tutto finito, ma si può comunque dire che ne sia la morale, no?
Ora Joe non ha più il ruolo di custode di Digiworld e quello che pretende è di poter guardare avanti.
Qualcosa in lui, però, non glielo permette.

Le parole dell’astruso testo di fisiologia erano solo una lontana cantilena senza senso.
Provò a leggere a voce più alta ma l’unico risultato fu l’incremento esponenziale del mal di testa.
Andava avanti così da tutto il pomeriggio ed ora era sera inoltrata.
L’esame era alle porte.
- Ora basta! -
Si alzò di scatto dalla sedia se si sdraiò sul letto chiudendo gli occhi.
Oltretutto aveva un raffreddore omicida che sembrava aver infuso vita propria al suo naso, costringendolo a soffiarselo ogni cinque minuti e a respirare con la bocca.
La testa gli pulsava.
A lui, in fondo, interessava solo trascorrere una vita ordinaria! Non poteva immaginare un comportamento più umile di quello, eppure continuava a provare la sensazione di aver lasciato qualcosa in sospeso dalle parti di Digiworld, sensazione tuttaltro che ordinaria e che sicuramente non era vera.
La cosa non aveva senso e soprattutto non era giusta! No, non lo era affatto!
Non lo era indipendentemente da checche ne potesse dire Izzy!

Si alzò a sedere sulle coperte disordinate, stiracchiandosi senza motivo.
Fare una breve passeggiata?
Chiacchierare telefonicamente con qualcuno? Oddio, questo no! In questo momento, causa vicissitudini autogene, era in contatto solo con Izzy e parlare con lui avrebbe significato inevitabilmente tornare a discutere di Digiworld!
Izzy giurava di aver tentato di smettere di pensarci un sacco di volte e che comunque se ci pensava ancora era solo per intrattenersi ludicamente, ma anche solo dalla passione con cui ne parlava si capiva che non era così.
Gli dispiaceva molto per lui, capiva la spaccatura che stava vivendo visto che qualcosa del genere lo stava vivendo anche lui, ma proprio per questo motivo non gli piaceva tirare in ballo quell’argomento.
Si avrebbe potuto dargli del codardo, certo, ma non biasimarlo, questo no! Non alla luce di ciò che aveva letto tra le righe dei discorsi che Izzy da un po’ di tempo faceva ed in più con la consapevolezza, limpidissima, che Izzy non sbaglia mai.
Perché, anche se non l’aveva mai manifestato, Joe sapeva che Izzy stava covando qualcosa di sconvolgente.
Intuiva che gli era venuto un dubbio fondamentale, ancora nebuloso, certo, ma mancava poco! Quando lo avesse scoperto sarebbe cambiato tutto.
Era solo questione di tempo.

Il cellulare squillò violentemente dimenandosi sulla scrivania, Joe lo afferrò goffamente…
“Oh, no!”
Rispose rassegnato:
- Che c’è? -
- Joe, ormai sono sicuro di aver capito tutto, quadra ogni cosa… tutto è finalmente trasparente! -
- Izzy, guarda, non voglio saperne più niente di questa faccenda! -
- Che vuoi dire… -
- Che voglio starmene alla larga da quelle cose ! -
- Come…Joe,sono confuso… l’ultima volta eri coinvolto almeno quanto me…non avrei capito quello che voglio dirti senza il tuo aiuto…senti, ci vediamo in biblioteca, così non rischierai le solite isterie da senso di colpa per aver interrotto lo studio. Chiariremo tutto lì. - La linea si interruppe.
Ora Joe non aveva più vie di fuga.
Gli era crollato il mondo addosso: il tono con cui Izzy gli aveva parlato, lo conosceva bene
Si tolse agilmente gli occhiali e si strofinò gli occhi con pollice ed indice.
Una smorfia, un singulto e poi la forza della rassegnazione.
Avrebbe dovuto brandire nuovamente la sua spada, lo sentiva! Tutti i suoi tentativi di vivere in serenità sprecati inutilmente.
“ Io non volevo saperne più niente, eppure… ancora !” Con questa frase si congedò definitivamente dal se stesso degli ultimi tempi.

Joe, in fondo, è una persona semplice e come ogni altra persona semplice usa affrontare le difficoltà direttamente, con i propri mezzi, con sincerità, prudenza e determinazione; Joe è come una formica.
In quel momento non capiva di che natura fosse quel suo stato d’animo, che cosa realmente provasse; frustrazione, certo, e paura e rabbia e altro ancora, ma nessuna di queste parole, e nemmeno tutte insieme, avrebbero potuto descrivere quella sensazione.
La cosa però non lo infastidiva: usava ignorare altamente la sua dimensione intima, la reprimeva combattendola con la caparbietà e con l’ottusità, riducendola a semplici emozioni che, per quanto forti, erano talmente elementari da risultare in se stesse del tutto innocue.
Questa era la sua maggiore forza ma era anche il suo tallone d’Achille poiché, in effetti, decidere cosa essere senza una radicale riflessione è necessariamente pericoloso: impressioni e sensazioni minacciano in tali casi di rivendicare con la forza il loro posto al sole e se vincono, in genere, si fanno sentire molto violentemente.

La nebbia calava pesante sull’imbrunire annoiato mentre Joe muoveva per la biblioteca, infreddolito e raffreddato, nella morsa indifferente del gelo invernale.
Aveva paura di Izzy.

2) LES INVALIDES

Seduto su un grosso tavolo di noce, Izzy rigirava tra le mani una vecchia bic blu opaca e fitta di crepe.
Stava aspettando Joe già da un quarto d’ora.
Guardò in alto, oltre i pesanti scaffali carichi di libri, la piccola finestra a grate ed al di là la nebbia calare pesante sull’imbrunire annoiato.
In verità quando gli aveva telefonato era già in biblioteca da alcune ore.
Si era recato lì per avere una risposta semplice e invece aveva ottenuto una rivelazione completa, un po’confusa forse, ma illuminante.
Aveva un’aria seria, concentrata, era ancora sconvolto dal fascino di quello che aveva capito, non riusciva che a contemplare mentalmente quell’idea.
Non aveva ancora iniziato a considerare le conseguenze concrete di quella sua nuova sicurezza, ma, in effetti, quello non era mai stato il suo compito, lui le cose le doveva solo capire.
Per questo serviva Joe: col suo piglio pratico sarebbe sicuramente riuscito a dare corpo alla sua scoperta.

Un movimento goffo del gomito fece cadere la logora penna senza tappo; si chinò per raccoglierla.
Ancora chino guardò la penna: non era sua, era di Joe!
Quel piccolo particolare era mastodonticamente significativo per lui, perché, onestamente, pensava che non avrebbe mai più potuto notarne uno così: aveva con sé qualcosa di un’altro che poteva chiamare amico.
Era già stato molto amico di qualcuno, di Tai, molto tempo fa; poi Tai si era inspiegabilmente allontanato e lui aveva altre cose in testa per farci troppo caso.
Ma non avrebbe mai pensato che sarebbe potuto succedere ancora, perché con Tai era diventato amico da bambino e, si sa, i bambini sono creature alquanto stravaganti.

Ma ora… ora non era più bambino; era davvero successo ancora?
E poi lui e Joe non erano mai stati particolarmente legati, solo in quegli ultimi mesi avevano iniziato a frequentarsi, e per puro caso poi, per quanto con convinzione.
Joe era stato contattato dalla scuola per integrare con racconti della propria esperienza universitaria il progetto di orientamento tanto caro ad a certi professori e da lì e da un pranzo al bar dell’istituto era iniziata la loro attuale frequentazione. Ed era una frequentazione sincera, era una vera amicizia.
O, più semplicemente, Joe era un vero amico.
Perché Izzy sapeva di non esserlo, sapeva di avere sempre la testa altrove e che aver a che fare con lui significava inevitabilmente sopportare il suo disinteresse per le cose semplici e quindi anche per l’amicizia stessa. Quella condizione non poteva durare, gli dispiaceva moltissimo ammetterlo, ma la sua esperienza gli aveva insegnato che l’inevitabile non poteva che essere accettato. Chi poteva saperlo meglio di lui, lui che era stato adottato?
Non aveva senso però aspettare la solitudine, si sarebbe perso molto, era assai più saggio goderselo quel periodo.
Poi sarebbe tornato tutto come prima.

Un improvviso fracasso gli fece risollevare lo sguardo dalla penna: Joe stava aiutando mortificatamente l’aiuto bibliotecario, stizzitissimo, a raccogliere una pila di libri precipitata da un carrello.
Si congedò con infiniti inchini e scuse troppo rumorose e si diresse rigido verso Izzy.
- Ho…ho fatto prima che ho potuto; ciao, Izzy -
- Ciao Joe, ah, la tua penna, ce l’avevo io -
- Tienila tu… allora, quale sarebbe la clamorosa scoperta? - Aveva il viso imperlato di sudore e lo sguardo inespressivo.
Izzy lo guardò e capì qual’era il vero motivo per cui aveva chiamato l’amico.
“ Oh mio Dio, ricomincerà tutto !” pensò. Ciò che prima era solo concettuale, ora si era caricato di significato, di sensazioni e di prospettive.
Gli serviva il pragmatismo di Joe per capire che la sua intuizione avrebbe inciso tanto a fondo nella sua vita.
- Izzy, ci sei? -
- Eh? Ah… siediti, è meglio! -
Joe prese rigidamente posto di fronte all’amico.
- Joe, hai presente i calcoli sulla presunta struttura di Digiworld ? - e così dicendo gli passò un quaderno malconcio dalla copertina ridicola.
Joe afferrò con familiarità il logoro quaderno.
- Presunta struttura che! Abbiamo controllato e ricontrollato formule e passaggi uno ad uno ed un sacco di volte! E guarda che Digiworld è stato creato da gente ben più esperta di noi… non ci può essere nulla di sbagliato in quei calcoli!-
- Shhh, parla più piano; si, a riguardo hai ragione, pero, per quanto questi calcoli spieghino perfettamente come ha preso corpo Digiworld, non spiegano… il perché. -
- Che vuol dire il perché! Doveva essere un mondo diverso no? E’stato creato per evadere dalla realtà, già lo sappiamo questo! -
- Non voglio dire questo… pensaci, come ha potuto un insieme di calcoli inghiottire creature fatte di materia? -
- Beh… era possibile che succedesse ed è successo per azione di variabili… -
- Le variabili sono state tutte considerate. Non abbiamo considerato la cosa più ovvia! -
- …Quindi…? -
- Esiste un piano più profondo dei calcoli, un motivo che ha approfittato dell’ingenuità del creatore di Digiworld per venire alla luce sottoforma di Digiworld stesso! Detto così sembra ridicolo, me ne rendo conto, ma per quanti calcoli si facciano non si riuscirà a spiegare il salto che c’è tra la procedura per creare Digiworld e la realizzazione dello stesso… è necessario qualcosa in più, qualcosa in grado di rendere i calcoli…reali!-
- Oddio… -
- Cosa? -
- Non avevamo capito niente… -
- Beh, non direi proprio niente… - disse Izzy masticandosi nervosamente l’unghia del pollice.
- Izzy, questo significa che siamo ancora digiprescelti, l’hai capito, no? –
Izzy lo fissò silenzioso.
- Izzy, se è vero potremmo venire richiamati a Digiworld in qualsiasi momento! E poi chissà cosa ci aspetterebbe! Abbiamo sempre creduto di aver combattuto per salvare Digiworld, ma ora come possiamo continuare ad esserne certi, chissà che abbiamo combinato in verità! Oddio, se ci penso… Gomamon, Gennai e tutto il resto…potrebbero non essere ciò che per noi sono sempre stati! Io mi sento completamente…-
-…Inerme? -
- Già, inerme. E smarrito. -

L’aiuto bibliotecario infranse maleducatamente la tensione tra gli sguardi pietrificati dei due amici:
- La biblioteca deve chiudere! - e detto questo si avviò a spegnere le luci.

Si annota, tardi ma convintamente, che i personaggi citati in questa storia non appartengono al sottoscritto e non sono sfruttati a scopo di lucro.
Ci si vuole poi scusare per la pessima impaginazione che la storia ha subito. E’ un male per lo sguado, certo, ma la simpatia che il sottoscritto nutre per internet e gli strumenti telematici non è mai stata ricambiata.

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Capitolo 4
*** Altri canti di Marte ***


Altri canti di Marte ALTRI CANTI DI MARTE

All’inizio venne la nausea, poi venne il dolore e per ultima la coscienza.
Così Izzy aprì gli occhi.
Giaceva disteso sotto le mostruose radici di un enorme albero, su un letto di terriccio mucoso, foglie morte e insetti enormi.
Un pungente odore di muffa permeava l’aria stagnante della nicchia; il giovane fisava assente i viscidi barbigli che calavano muti da quel tetto orrendo carezzandogli il viso da bambino.
Aspettava l’impetuoso assalto della memoria, quell’ingenuo!
Poi ricordò e in preda a una spece di spasmo ruzzolò dolorante fuori dal giaciglio e iniziò una disordinata ricerca nella bellissima radura circostante, tra gemiti e cadute.
La luce dorata sibilava tra le alte, nere fronde: il tramonto.
Doveva fare presto.
Si fermò di colpo: proprio davanti a lui si apriva una piccola pozza d’acqua fetida e stagnante, distesa supina, proprio al centro, giaceva una forma esile, schiacciata sotto un enorme corpo rigonfio e globuloso.
Izzy riconobbe la figura e nel panico urlò:
- Tk ! Tk, mi senti ? –
L’altro non rispose.
Izzy ruppe gli indugi e corse ad ampie falcate nello stagno a salvare il compagno.
Il fondo era irregolare e nel procedere tra gli spruzzi quasi affogò, ma riuscì comunque ad arrivare.
Si chinò su di lui per sentirgli il respiro; era ancora vivo! Bene, bene, ma come tirarlo fuori?
Ed era quasi notte, doveva fare presto!
L’enorme cosa che stava schiacciando Tk era evidentemente troppo pesante per essere spostata da lui solo.
Puzzava terribilmente ed era viscida al tatto; non aveva proprio idea di cosa potesse essere.
Provò ad aggirarla per comprenderne la forma, e si ritrovò a fissare un tumefatto grugno suino incorniciato da un denso, schiumoso grumo di bava e da due piccoli occhietti stupidi.
Il mostro produsse un sommesso vagito e agitò inutilmente un paio di piccolissime ali membranose,
allora Izzy capì:
- Patamon ? –

- Tk! Svegliati Tk! Sveglia! –
Il giovinetto biondo riprese coscienza tra uno strattone e l’altro e iniziò a tossire rumorosamente fino a vomitare.
Era all’asciutto ora, dolorante quasi ovunque, ma ancora vivo. Izzy lo fissava dall’alto, talmente terrorizzato da sembrare etereo.
Patamon giaceva ancora nello stagno, riverso e immobile.

- Ora penso che dovresti provare ad alzarti… è quasi notte e dobbiamo trovare un riparo… -
Le mani di Izzy tremavano come la voce.
Tk sedeva ancora sulla riva della pozza col torso escoriato esposto all’aria aliena della notte, lo sguardo appannato fisso sul digivice che teneva tra le mani… e su Patamon qualche metro più in là.
Il suo digimon non si muoveva più da otto minuti e sei… sette… otto secondi…
- Tk! Dobbiamo andare! C’è pericolo qui!-
- Sta zitto idiota! - Urlò il ragazzino di rimando – Vengo, e senza la tua carità meschina!-
Izzy fece per aiutarlo ad alzarsi ma l’altro lo scostò bruscamente:
- Non ti azzardare mai più a toccarmi, Verme! – Aveva lo sguardo incandescente.
Così i due si incamminarono alla ricerca di un riparo, distanziati, assorti nei loro pensieri.
Abbandonarono Patamon nello stagno, a morire in solitudine.
La ricompensa per la sua innocenza in quel nuovo tempo.

Il pericolo permeava l’aria, eppure era tutto così bello!
La cosa sembrava rendere il giovane Tk ancor più furente; aveva perso molto, forse tutto e in un lasso di tempo così incredibilmente breve!
Ogni suo pensiero era un fantasma sullo sfondo di una perpetua cascata di immagini, i ricordi di ciò che lo aveva riportato lì.
Non era più lui chi viveva la sua vita, non bastava la sua coscienza a coprire le sue sensazioni, le sue emozioni e gli impulsi. Ora era in balia della corrente.
Non gli restava più nulla! sarebbe stato più ortodosso se fosse morto, e doveva anche patire l’umiliazione di pensare di morire.
Ripensò a Patamon.
Ma i digimon possono morire? E quel luogo, quello pieno di digiuova… dovrebbe chiamarsi città della rinascita, o qualcosa di simile…Patamon non dovrebbe rinascere lì?
No! Questa volta è tutto diverso! Ricorda quel che è successo quando hai tentato di farlo digievolvere.
Dunque?
Che cosa vuoi Tk?
Vuoi comunque portare ordine e giustizia come al tuo solito?
O vuoi solo tornartene a casa questa volta?
Arde ancora il fuoco dell’indignazione in te di fronte di questo nuovo sopruso?
Questa volta però sei stato colto alla sprovvista, hai perso tutto sin dall’inizio e non hai più nulla da difendere.
Hai ancora il coraggio di lottare per la… giustizia?
Quale giustizia, Tk?

Intanto era arrivata, bellissima, la notte.
I lievi rumori e i delicati fruscii, all’udito disperso dei ragazzi, parevano note di una remota melodia fuori dal tempo e l’orrendo, che onnipresente regnava in quella foresta, diventava sublime.
Camminavano ormai da quasi quindici minuti e ancora non avevano incontrato nulla che potesse somigliare a un riparo.
Poi gli alberi si aprirono in un’altra piccola radura al cui centro si alzavano due muri diroccati disposti ad angolo. I resti di una casetta o di qualcosa di simile.
Sotto l’ombra di quelle misere protezioni giacevano un letto, un baule e, sul freddo pavimento di pietra, un fragile corpo di giovane donna coperto di terra e foglie.
La luce spettrale della luna bagnava d’argento le linee delicate, la camicia da notte e i lunghi capelli castani che le ricadevano sul volto come una larga macchia di sangue rappreso.
I due rimasero ad osservarla incantati per alcuni lunghi istanti: era irreale ed onirico.
- Chi sarà ?- sussurrò Izzy tra sé e così dicendo si avvicinò cautamente al centro dello spiazzo.
Un dubbio, tra i passi scostanti, si apriva la strada in lui.
Cercò lo sguardo di Tk, ma non lo trovò.
Allungò una mano verso la fanciulla, le scostò la chioma e la luce lunare che ora le rivelava i lineamenti delicati la destò.
La ragazza si mise lentamente a sedere e assonnata guardò i due ragazzi tra le palpebre ancora semi chiuse.
- Mio Dio, non è stato un incubo allora!-
Un nuovo fuoco si accese negli occhi di Tk:
- Invece è proprio un incubo, Mimi!- poi guardò izzy:
- Fin dove si è spinto il tuo egoismo, eh bastardo?- sibilò, e dopo un breve momento incerto si avventò su di lui buttandolo a terra e iniziò a tempestargli il viso di pugni mentre l’altro, tra lacrime e urla dimenava le mani convulsamente.
- Ora anche Mimi! E poi che altro succederà? Chi altri dovrà finire come noi, eh? Cos’altro dobbiamo perdere, eh?- Le sue nocche erano impastate di sangue ed il viso di Izzy quasi irriconoscibile.
Poi si fermò.
Mimi era immobile sopra di lui. Aveva tentato di fermarlo , ma lui non l’aveva nemmeno sentita.
Gli ochhi sgranati della ragazza tradivano incredulità e soprattutto un profondissimo disgusto.
Sotto di lui Izzy non dimenava più le braccia, non aveva più nemmeno un’espressione tanto era deformato il volto.
Allora il terrore s’impadronì di Tk.
- E’ancora vivo ! – disse con un filo di voce, ma Izzy non si muoveva.
- Ora basta ! Ora basta, svegliati ! Non puoi farmi anche questo! Non mi puoi punire con un simile rimorso! Con quello che hai fatto non hai diritto di difenderti! -
Fu allora che si accorse che respirava ancora.

- E’ tutto cambiato, Mimi. Digiworld è cambiato… e non solo lui!-
- E allora andiamocene!- disse Mimi indicando il digivice che Tk ancora stringeva in mano.
Il ragazzo scoppiò a ridere e la ragazza indietreggiò, lo sguardo tra il perplesso e lo spaventato.
Non era ancora svanita dalla sua mente quell’immagine bestiale di Tk che picciava Izzy, non era lui, non lo riconosceva! Il piccolo Tk non avrebbe mai fatto una cosa simile!
Non capiva più nulla, voleva solo tornare a casa.
Izzy, intanto si stava riprendendo, rigirandosi su un fianco per sollevarsi da terra.
- Non si torna a casa, Mimi!- disse Tk interrompendo bruscamente la sadica risata.
- Sono successe un sacco di cose mentre te la spassavi in America! Izzy…dai, spiegale tu che cos’è accaduto, spiegale cos’hai fatto!-
Con il volto tirato dal dolore, Izzy prese a spiegare…

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