ℭaptivity.

di Narcis
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Intro. ***
Capitolo 2: *** Ostaggio. ***



Capitolo 1
*** Intro. ***


Ci sono persone tremendamente attaccate al tempo, alla realtà che le circonda, al susseguirsi incessante degli avvenimenti che accompagnano la loro esistenza.
Solitamente sono quelle frettolose, indaffarate, stressate, che non hanno un minuto buono nemmeno per fermarsi ad osservare la bellezza di un semplice fiore, ma che pretendono di essere informate su tutto e tutti ogni istante, fidandosi delle chiacchiere altrui, del vociare dei giornalisti in televisione e delle parole inchiostrate nei quotidiani.

Ci sono persone invece che preferiscono vivere il momento, che non si spingono oltre la loro strada: percorrono la propria quotidianità senza alcuna deviazione, senza guardarsi intorno, senza il necessario bisogno di sapere ogni minima cosa.
Sono quelle più visionarie, più alla “carpe diem”, un po’ schive, perché non si fidano delle informazioni dettate da altri. Oppure, semplicemente, non vogliono rovinarsi una bella giornata accendendo la televisione e sentendo i pettegolezzi inutili dei talkshow o le tragiche notizie dei telegiornali.

Ci sono persone, infine, che, volenti o nolenti, non sanno nemmeno cosa accade oltre le mura di casa propria.
Restano lì, incoscienti della vita normale che continua a scorrere, rinchiuse in una palla di vetro oscurato che impedisce la percezione di qualsiasi rumore, di qualsiasi odore, di qualsiasi vista.
Immobili, come statue dotate di occhi che non vedono, impossibilitate a cambiare la loro condizione, mentre intorno la gente cammina indisturbata.
Io appartengo a quest’ultima categoria di persone.


L’unica cosa di cui non sono sicura, però, è la mia volontà.
Cerco di convincermi che il motivo della mia mancanza di curiosità e voglia di libertà sia l’impedimento di poter uscire, correre, scappare da questa casa, ma la verità è che sono io a non volermene andare. Se tutto questo dovesse sparire, se dovessero rimanere solo i ricordi come cicatrici della memoria, se dovessi essere spinta da qualcuno addirittura a rimuovere questa parte a detta di altri “infernale” della mia esistenza, credo che mi lascerei morire in un angolo.
Non ho intenzione di riprendere la mia vita, o meglio la mia vecchia vita, né di proseguirne una nuova da diciannovenne quale sono.

Sempre che io ne abbia diciannove, di anni.

Non ci sono calendari in casa, solo tanti orologi a ricordarmi che devo sbrigarmi a vivere ogni attimo fuggente che mi accompagna durante la giornata. Le tende delle finestre sono sempre chiuse, attraverso esse passa poca luce, giusto quella puntina di luminosità in più che serve a farmi distinguere la mattina dal pomeriggio e dalla sera.
Nonostante tutto questo, ho perso il conto dei giorni.
I giorni passati qui, nella mia nuova casa, tanto che non so più nemmeno se ho compiuto gli anni. Credo di sì, ma non da molto, al massimo.

 

Seicentoquarantadue giorni, sette ore, ventitré minuti.
Seicentoquarantadue giorni, sette ore, ventitré minuti che non vedo mia madre.
Seicentoquarantadue giorni, sette ore, ventitré minuti che non vedo mio padre.
Seicentoquarantadue giorni, sette ore, ventitré minuti che non vedo le mie amiche.
Seicentoquarantadue giorni, sette ore, ventitré minuti che non uso il mio cellulare.
Seicentoquarantadue giorni, sette ore, ventitré minuti che è cambiato tutto.
 

La mia memoria si ferma qui, a quando ho capito che tenere sotto controllo ogni istante della mia vita sarebbe solo servito ad aumentare la mia – ingiustificata – ansia di morire, perdendomi le piccolezze della realtà quotidiana.
Così, dopo il ventitreesimo minuto di un bel dì, ho deciso di smettere di contare il tempo con precisione certosina, visto che conoscerlo così perfettamente mi sarebbe solo servito ad impressionare di più i futuri lettori del libro riguardante i giorni di “agonia”, che avrei scritto dopo la mia liberazione da questo “inferno”.

Ma io non voglio essere liberata.
Come ho già detto, se tutto questo dovesse sparire, mi ridurrei ad uno stato vegetativo di pura sofferenza.
Perché, nonostante tutto, io amo stare qui.
Amo non sapere nulla dei miei genitori, dei miei vecchi amici, della città di Cracovia che fuori dalle mura di questa casa continua a vivere. Fin da piccola ho sempre adorato il mistero.
Ma più di ogni altra cosa, amo sentire il rumore della chiave che si infila e gira nella serratura della porta d’ingresso della casa la sera tardi; amo dover sbrigare ogni singola faccenda domestica anche se non mi è richiesto; amo vederlo rientrare stanco, affaticato, arrabbiato, dopo una giornata impegnativa di cui non mi è dato saper nulla; amo quando mi rivolge la parola, che sia per dirmi una cavolata, per offendermi o per fare un’osservazione carina che mi riguarda.


Se dovessi scrivere un libro, una testimonianza o chissà cos’altro seduta stante, penso proprio che lo inizierei così:

 


“ Il mio nome è Cecylia, Cecylia Dudziak, diciannove anni, e sono innamorata del mio rapitore.”





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Capitolo 2
*** Ostaggio. ***


Ricordo senza alcuna nostalgia come è cominciato tutto.


Era un giovedì d’agosto, faceva abbastanza caldo, ed io ero uscita a fare un giretto per la città.
Avevo sedici anni, un buon rendimento scolastico, una famiglia che mi voleva bene, nessun problema di alcun tipo. Ero una ragazza normale con una vita normale e normali hobby, come quello di andare a comprare qualcosa di carino insieme alle mie amiche.

Eravamo in un negozietto che vendeva accessori di ogni tipo, situato in una stradina secondaria transitabile solo dai pedoni, ma comunque praticamente sempre deserta. Non mi dimenticherò mai di quel braccialetto col simbolo dell’infinito dorato che avrei tanto voluto comprare.
Mi suonò il telefono, ed io risposi. Era mia madre. Solo che non c’era campo lì, la sua voce andava e veniva, così dissi alle mie amiche che uscivo un attimo dal negozio per parlare indisturbata.
Uscii, la voce di mamma si fece subito più capibile, ma pochi istanti dopo già non riuscì più a percepirla.

Ricordo un’improvvisa stretta da dietro alla vita, qualcosa di morbido – probabilmente un pezzo di stoffa – sulle mie labbra, l’impulso di gridare che però non portò a nulla di concreto, il cellulare che mi cadde di mano.
Perdetti i sensi.
 
 
 
Quando mi svegliai non realizzai subito quello che mi era appena successo.
 
 
 
Nonostante aprii gli occhi, non riuscivo a vedere nulla. Quando dormi hai gli occhi chiusi, di conseguenza vedi tutto nero. Penso che sollevare le palpebre e continuare a vedere solo e soltanto oscurità sia una delle cose peggiori che possano accadere, soprattutto se non sai dove ti trovi.
Era tutto nero, non c’era il minimo spiraglio di luce, non sentivo assolutamente nulla, nessun rumore, nessun suono. Niente.
Distesa, su di un fianco, il pavimento gelido cozzava contro la mia guancia attraversata dai brividi di freddo, così come tutto il resto del mio corpo. Gemetti, mi faceva male la testa, non riuscivo a fare un paio di ragionamenti in fila, non ricordavo come e quando ero tornata a casa, crollando addormentata a terra, senza nemmeno raggiungere il letto. Forse avevo bevuto, ma non potevo saperlo. Speravo con tutta me stessa che mi passasse in fretta quell’amnesia a mio avviso temporanea, provando già ad organizzare un discorso serio e soddisfacente da fare ai miei genitori, ai quali avrei dovuto giustificare la mia pietosa condizione.

Piantai le mani a terra, mi feci forza sulle braccia, provai ad alzarmi.
Non ci riuscii.

Inciampai sui miei stessi piedi, lanciando un gridolino di spavento involontario, ricadendo col sedere sul pavimento. La mia schiena si appoggiò alla parete vicina, producendo un lieve tonfo sordo.
D’istinto, piegai le ginocchia al petto, allungando le mani verso i miei piedi nudi.
Manette.

Quelle che avevo sempre visto mettere ai polsi dei criminali in televisione, adesso erano attanagliate alle mie caviglie, impedendomi di allargare le gambe e di compiere movimenti troppo ampi come quello di alzarsi in piedi e, di conseguenza, camminare.
 
Mi resi immediatamente conto di non essere in camera mia, né di essere in un sogno, o meglio in un incubo.

Il mio cuore dapprima perse un battito, per poi prendere a pompare sangue a raffica, con lo stesso impeto con cui una freccia, dopo essere lentamente indietreggiata, scocca rapidamente in avanti.
Cominciai a sentire la paura, la mia testa fu invasa da domande ed interrogativi a cui non sapevo rispondere: dove ero? Che mi era successo? Dove erano le mie amiche? I miei genitori? Perché ero ammanettata ai piedi?
Provai ad inspirare profondamente, ma ogni respiro mi morì in gola, tanto che non riuscivo nemmeno a gridare. Mi guardai intorno nella speranza di scrutare qualcosa oltre l’oscurità che mi circondava, premendo la schiena contro la parete come a cercare protezione.
 
 
 
Poi, d’un tratto, un rumore.


Rimasi immobile per qualche istante, con le orecchie ben tese e gli occhi fissi in un punto non ben definito, sparso nell’infinità del nero intorno a me.
Il rumore continuò. Era il rumore di un passo. No, di due passi, tre, quattro. Di passi. Qualcuno stava camminando.
Provai a concentrarmi su quel suono, cercando di ignorare l’impetuoso martellare del mio cuore che mi assordava le orecchie dall’interno, aumentando il mio mal di testa. Dubitai fin da subito che chiunque si stesse avvicinando volesse aiutarmi, fornirmi spiegazioni e, magari, portarmi a casa.
Deglutii più volte, cercando di ingoiare, oltre alla saliva, anche la paura, ma non ebbi risultato.

I passi si arrestarono, lasciando spazio ad un rumore più deciso, come quello prodotto da qualcosa di pesante spinto e lasciato strusciare a terra. Mi ricordò il fracasso prodotto da mamma quando, durante le pulizie di primavera, spostava il pianoforte del salotto, lasciandosi aiutare dalla sottoscritta.

Anche quel baccano si arrestò, e subentrò un altro rumore; quello metallico di una chiave che gira nella serratura, che in tutto quel silenzio accentuò il mio terrore. Grazie all’udito riuscii a captare la direzione da cui veniva il suono e verso la quale, attraverso il buio, puntai gli occhi, pregando che la parete mi inghiottisse.


Si aprì una porta.
La luce mi invase, squarciando in due la stanza buia, cozzando sui miei occhi stanchi ed affaticati dall’oscurità, che di conseguenza si chiusero per qualche secondo. Gemetti ancora, rumorosamente, in preda al più incontrollabile spavento , stringendomi le ginocchia al petto, tentando in tutti i modi di sollevare, almeno di poco, le palpebre. Pensai che sarei morta di lì a momenti e che avrei dovuto vedere in volto il mio aggressore per poterlo riconoscere dall’aldilà e tormentarlo da fantasma.
Riuscì ad aprire lentamente gli occhi, le mie iridi verdi e chiare erano acquose. Ci misi un po’ prima di mettere a fuoco la figura che mi si presentava davanti.
 
 
Era un uomo, non troppo alto, molto più grande di me, sulla trentina d’anni.
Capelli bruni, occhi scuri, qualche ruga sulla fronte e ai lati degli occhi.


Aveva un’aria vagamente preoccupata ma al tempo stesso sollevata, e mi sorrise.
Mi chiamò “Franciszka”, si avvicinò a me, e solo a quel punto trovai il fiato necessario per gridare. Avevo paura che mi facesse del male, che mi torturasse, che mi violentasse, che mi facesse qualsiasi cosa.
Strillai, gli urlai contro di non toccarmi. Non potevo scappare, non potevo correre, non potevo nascondermi. L’unica cosa che riuscii a fare fu di scivolare con la schiena di lato lungo la parete, facendo forza coi piedi sul pavimento per spingermi all’indietro, fino a che non mi ritrovai stretta seduta a terra in un angolo della stanza. Gridai, gridai ancora, sentendo gli occhi gonfiarsi di lacrime, che sgorgarono poco dopo da essi, rigandomi le guance gelide, facendomi scoppiare in un pianto disperato. Chiamai più volte mia madre, come fanno i bambini piccoli quando si perdono e non sanno se la mamma riuscirà mai a trovarli, stringendomi sempre di più nell’angolo. Ero un topo in trappola.

L’uomo non si arrabbiò, anzi sembrò farsi ancora più lieto, addolcendo il proprio sorriso mentre, passo dopo passo, si avvicinava a me, protraendo lentamente le braccia nella mia direzione.
Mi chiamò ancora “Franciszka”, accovacciandosi a circa un metro di distanza dai miei piedi, ed io urlai, con la voce rotta dal pianto. Pensai di allungare di scatto le gambe per dargli un calcio, ma non lo feci, troppo spaventata per fare qualsiasi cosa che non fosse piangere e disperarmi.
Non sapevo le sue intenzioni, non potevo saperle, tanto che l’ansia mi stava divorando al punto da farmi desiderare di essere uccisa all’improvviso, con un colpo netto alla testa o con un proiettile nel cuore. Non accadde niente di tutto ciò.

L’uomo parlò ancora, mi sussurrò qualcosa come “Franciszka, non piangere, bambina mia”, ed io non capii. Avrei tanto voluto chiedergli spiegazioni, gridargli che non mi chiamavo in quel modo e che si era sicuramente sbagliato con qualcun altro, ma mi mancava il fiato a causa dei singhiozzi scaturiti dal pianto.
Non so come riuscii a restare immobile, tremante e lacrimante nell’angolo, quando lui allungò una mano verso il mio viso, carezzandomi una guancia umida ed arrossata.
 
 
“Lo sapevo che non potevi essere morta.
Però ti proibisco di correre ancora. ”
 
 
Mi sentii morire, avevo mille domande in testa, catturata dalle grinfie del terrore più profondo, ma ancora una volta, tra un singhiozzo e l’altro, riuscii solo a implorarlo di lasciarmi andare.
L’uomo non disse nulla, limitandosi a sorridermi ancora.
Alla fine, drizzandosi nuovamente in piedi, si girò di spalle, dirigendosi verso l’uscita della stanza.

Gridai ancora, urlai con tutto il fiato che avevo, supplicandolo di non lasciarmi rinchiusa in quella stanza vuota dalle pareti grigie, ma lui non sentì ragioni: uscì, chiudendosi la porta alle spalle, girando la chiave.
 

Le tenebre mi inghiottirono come l’oceano inghiotte la sventurata barca.









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Ringrazio chiunque abbia letto i primi due capitoli e continuerà a farlo. (:
Ringrazio anche aria per la sua recensione, ricordando agli altri elettori di esprimere le loro opinioni e di dare qualche consiglio alla sottoscritta se ne hanno voglia. Mi rendereste molto felice. ^^
Dedico questa storia alla mia amica
betacchi, senza un motivo ben preciso. Semplicemente, le voglio bene. ~

Un bacio a tutti.

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