Slivers [A Tekken One-shot Collection]

di alister_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #01_Anna Williams_Heels and Lovers ***
Capitolo 2: *** #02_Julia Chang_Coffee ***
Capitolo 3: *** #03_Emily Rochefort_Butterfly Mask ***
Capitolo 4: *** #04_Nina Williams_Empty ***



Capitolo 1
*** #01_Anna Williams_Heels and Lovers ***


Slivers

[A Tekken One-shot Collection]

 

 

Doverosa premessa:


Io sono pazza. Impelagarmi in un progettone simile proprio quando mi lamento di non avere tempo. Nell'anno della maturità. Con altre due o tre storie che aspettano di essere aggiornate.

Sono pazza, e la colpa è soltanto vostra. Sì, dico proprio a voi, poche ma ottime commentatrici che con le vostre recensioni lusinghiere mi avete gasato all'inverosimile e convinta a slanciarmi con ardore in un progetto del genere.

A questo punto vi chiederete: quale progetto? Calma. Non aspettatevi grandi cose. Non verrò meno alla mia natura di one-shottara convinta che mi porta a produrre solo robette autoconclusive molto confuse e poco significative. Semplicemente lo farò in serie. Tante robette confuse e poco significative, un po' coi personaggi che mi capitano a tiro, finchè non mi stufo. Orbene, si cominci:

 

 

[Anna Williams]

Heels and Lovers

 

 

 

 

Il letto è sfatto, le lenzuola ammassate in un angolo e ormai del tutto scalzate dal materasso, e lei, seduta in un angolo, fa scivolare la calza ricamata lungo la sua gamba tonica e affusolata. Sta in silenzio, ascoltando distrattamente lo scroscio della doccia nel piccolo bagno attiguo. Quella in cui si trova è solo l'ennesima camera d'albergo della sua vita, e non è neanche una delle più belle. E' un modesto hotel a tre stelle, arredamento sobrio e lenzuola spesse e bianche, niente idromassaggio né accessori tecnologici.


La luce intensa del mattino filtra attraverso le tende tirate e infittisce la trama delle sue calze con nuovi arabeschi, mentre lei si sporge a cercare la scarpa destra, tacco dodici come piace a lei. Ha imparato presto a camminare sui tacchi, a tredici anni, per non essere costretta a lasciare nessun primato a sua sorella: in quel periodo si comportava da alternativa e metteva solo vecchie felpe consunte per rafforzare la sua nascente immagine di dura, ma con lei non si poteva mai sapere.


Si alza e si sistema il reggiseno sotto il vestito rosso sfoggiato la sera prima. Lo specchio di fronte a lei le rimanda un'immagine sbiadita e allora si avvicina, chiedendosi se la leggera miopia che ha sempre ignorato sia davvero peggiorata o se i suoi occhi siano ancora intorpiditi dal sonno. A cinque centimetri si vede nitida, ma ciò che trova non le piace. Il suo volto è tirato, scolorito e reso ancora più sciupato dalle traccie di trucco che non ha avuto il tempo di rimuovere, e sotto i suoi occhi sta facendo la sua entrata in scena l'unico tipo di borse che non ama. I capelli poi, scarmigliati, non recano alcuna traccia del pomeriggio piuttosto costoso che ha speso dal parrucchiere solo due giorni prima e il vestito sembra calzarle male, e ogni tentativo di sistemarselo non dà risultati: la donna accattivante della sera prima pare essersi persa nella notte. Ma la cosa che più la infastidisce è quella tonalità spenta che torna ad infestarle lo sguardo e sembra dar voce a quel senso di fastidio che cerca di reprimere da quando si è svegliata.


E' una sensazione tanto familiare quanto sgradevole che da anni cerca di ignorare ma che quella mattina sembra proprio non volerla lasciare. Quand'è sola pensa, e pensare non le fa bene. Meditare su stessa non le fa bene- l'ha capito, ormai- e per questo cerca di esaminarsi solo quando si tratta di decidere quale colore le stia meglio. Eppure, talvolta, dopo serate come quella, le piomba addosso come un macigno quel vago senso di nausea che la opprime e le toglie l'aria, così tenta di metterlo a tacere, concentrandosi su le piccole cose davvero importanti, come rendersi presentabile. Cerca la trousse all'interno della sua nuova Luis-Vuitton e ne tira fuori il rossetto e il correttore, due delle cose senza le quali non potrebbe vivere. Passa lo stick sotto le orribili occhiaie che si stanno allargando come chiazze di petrolio e affretta i gesti quando si accorge che l'acqua ha smesso di scorrere. Tampona il rossetto con il fazzoletto di seta che Lee le ha regalato più di vent'anni prima, dopo uno dei loro primi incontri e che lei ha conservato gelosamente. E' pregiato e ci sono le sue iniziali ricamate, un segno di grande raffinatezza. Nulla di più, le piace e basta.


La porta del bagno cigola e attraverso lo specchio, mentre è intenta a marcare il contorno della palpebra con la matita nera, lo vede, l'uomo con cui ha trascorso la notte finita da poco. L'asciugamano stretto in vita lo copre ben poco, esibendo ancora una volta tutti i muscoli che Anna ha avuto modo di saggiare nella notte. Ancora quel corpo tonico porta i segni del passaggio delle sue unghie laccate e delle sue labbra morbide, quel corpo atletico, forte, bello. E' un bel esemplare, non c'è dubbio. Muy caliente, tanto per usare un termine adatto a quel bel torero spagnolo che sembra incarnare in pieno il fascino dell'uomo mediterraneo. Con i riccioli ancora bagnati e l'ombra della barba che si estende sul viso è ancora più attraente, e Anna sorride compiaciuta della sua ultima preda, sostituendo i rimorsi di poco prima con il desiderio di tornare a stringere quel concentrato di virilità.


Lui, come se avesse colto quel lampo di malizia, le si avvicina e le sfiora le spalle da dietro, abbassando lo sguardo per incontrare il suo viso riflesso nello specchio.

“Le belle donne come te non hanno bisogno di trucchi”, sussurra, con la stessa voce calda che le ha accarezzato l'orecchio nella notte.

Lei sorride, e dissimula.

“Lo dici solo perchè non mi hai visto cinque minuti fa”, replica asciutta, ma lusingata.

Ti sbagli. Ti ho guardata dormire fino a quindici minuti fa, ed eri bellissima, querida”.


Il sorriso sulle sue labbra, di nuovo vive grazie al tocco di rossetto, si espande e ritrova, nel riflesso del suo volto, quell'energica bellezza che prima le sembrava sparita nel corso della notte. Ritrova sé stessa.

Anna Williams è una donna libera, indipendente, che sa il fatto suo. E' vero, ha tanti amanti, ma non si svende mai. Sono sempre uomini che le piacciono quelli a cui si concede, e se lo fa senza farsi sciocche illusioni di amore eterno è solo perchè è troppo avveduta per essere tanto stupida.


C'è Kazuya, al cui fianco lavora ogni giorno, e che ogni tanto la guarda in un altro modo, non più come sottoposta ma come donna, e lei rabbrividisce sotto quello sguardo.


C'è Lee, uno su tutti, il suo ideale di uomo e il suo “amico” di sempre, con le sue parole gentili e i modi eleganti che la costringono, ancora ora, a tenere i piedi ben piantati per terra. La colpisce una breve fitta al cuore al ricordo delle ingenue speranze che ha nutrito su di lui: si era illusa, quando l'aveva rincontrato dopo vent'anni, di poter trasformare i loro incontri nella favola d'amore che ogni donna sogna. Ma Lee, oltre ad essere il prototipo del principe azzurro, bello e ricco, è anche un libertino incallito che ama godersi la vita al cento per cento, e gli anni trascorsi non hanno cambiato la sua prospettiva. Ama Anna, ma ama anche l'altro cinquanta percento di donne avvenenti, e questo lei ormai l'ha capito. Per questo cede volentieri agli sguardi di Kazuya: Lee Chaolan non ha l'esclusiva su di lei, anzi, riceve lo stesso identico trattamento del fratellastro che tanto detesta. Capisce bene cosa si prova a crescere all'ombra di un fratello scomodo, ma un bastardo che fa gli occhi languidi anche a Nina non si merita niente di più.


E poi c'è l'ultimo acquisto, Miguel Rojo Caballero, quel bel torero conosciuto in un bar dopo un pomeriggio di combattimenti all'ultimo Tekken. Si sono scambiati un lungo sguardo e poi lui, con sorriso ammiccante, ha fatto la prima mossa come il più tradizionale degli uomini e le ha offerto da bere. E così, tra maledizioni alla Mishima Zaibatsu e drink, si sono ritrovati a letto insieme, nella modesta camera d'albergo in cui alloggia lo spagnolo.


Le è simpatico, Miguel, da quello che ha potuto conoscere la sera prima: le piace l'uomo semplice e passionale che le si è presentato senza sotterfugi o indecisioni. E poi deve proprio ammettere che sa davvero come maneggiare una donna, glielo sta dimostrando ancora una volta proprio in quel momento, mentre le accarezza distrattamente il corpo e osserva con attenzione compiacente le sue reazioni attraverso lo specchio.


Anna è sul punto di cedere e di lasciarsi spogliare di nuovo, e di mandare a monte la fatica fatta per ritornare presentabile, ma, insieme al languore, torna quel senso di fastidio che la tormenta da quando a quindici anni ha perso la verginità. Fa fatica ad ammetterlo a sé stessa, ma a volte- spesso- si sente un oggetto, una mera cosa, niente di più niente di meno di un utensile da giardino.


Sospira, piano ma decisa, e poi si lascia andare ad un sorriso, un sorriso che viene da sé ed è per sé.

Con uno scatto veloce afferra la borsa posata sul comò e sguscia via sinuosa dalla presa seducente di Miguel. Lui, interdetto nella sua semplicità, sbatte le palpebre, e lei approfitta del suo momento di incertezza per stampargli un bacio sulla guancia già ispida, lasciandogli una traccia scarlatta là dove la barba imbrunisce ancor di più il suo incarnato.

Goodbye, darling”, cinguetta, seducente e sicura di sé.


Le bastano due falcate per lasciarsi alle spalle il suo amante, che non tenta neppure di fermarla. Si compiace del rumore che i tacchi producono mentre si allontana senza esitazioni. Lo specchio nella hall riflette la figura di una donna bella, impeccabile nel suo abito rosso e nella sua espressione determinata.


Miguel l'aspetta affacciato dalla finestra, ancora a torso nudo, e lei gli strizza l'occhio, con un sorriso.

“Ci vediamo sul ring, la prossima volta”, dice tra sé e sé. E si ripromette di evitare colpi bassi, per non precludersi il piacere di replicare notti come quella appena passata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

-COMING NEXT SOON: Julia Chang

 

 

 

 

 

 

 

Doverosa nota dell'autrice:

Nel suo meraviglioso e apprezzatissimo commento alla mia ultima fan fiction, Evilcassy professa il suo amore per il pairing Anna/Lee con tanta devozione che quasi mi convince. E io, ovviamente, che adoro lei, le sue storie e le sue recensioni, passo dall'accostamento Anna/Kazuya a quest'accoppiata inusuale che mi è venuta in mente così, senza che ci dovessi pensare su. Però qualche accenno Anna/Lee c'è, visto? Perchè anche a me piacciono quei due, in fondo, e probabilmente anche per merito delle tue storie.

Oltre a Evilcassy, rinnovo i ringraziamenti a DevilJinNina, e ringrazio anche i lettori muti e i recensori che verranno!

Per tornare alla storia, questa volta, come avrete notato, ho scelto il presente. Fatto strano, perchè di solito se uso il presente uso anche la prima persona, e invece qui ho tenuto la terza. Potrei aver commesso- o commettere in futuro- qualche svista, perchè mi sono accorta che, mentre il presente mi risulta congeniale per le descrizioni, nelle parti introspettive a volte mi trovo involontariamente ad usare il passato, e devo correggermi. E mi viene qualche dubbio su questioni di anteriorità e consecutio temporum varia. Quindi, se trovate insopportabili sfasature di tempi verbali, redarguitemi all'istante, perchè questi sono errori che odio.

Merci, o, per restare in tema, muchas gracias, chicas!


 

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Capitolo 2
*** #02_Julia Chang_Coffee ***


 

[Julia Chang]

Coffee


 

 

 

 

In basso, nell'angolo destro. E' un piccolo sprazzo di nebbia che ombreggia la sua visuale e la infastidisce e lei vorrebbe rimuoverlo, ma non ha la voglia, né il tempo, di alzarsi e recuperare la custodia degli occhiali. La cerca mentalmente, senza staccare gli occhi dal suo pc, e ne conclude, dopo una breve ricerca, che molto probabilmente se ne sta a languire in fondo alla sua borsa, quella con le perline e le frange che sua madre le ha regalato per Natale, in mezzo a tutti quei libri che le servono per la tesi.


Si rassegna a convivere con quella macchia sulle lente destra, e in tutta risposta sposta lo sguardo più a sinistra. Odia le macchie sugli occhiali, ma ancora di più odia le lenti a contatto, e quell'insopportabile mezzora passata ad aprirsi a forza gli occhi per cacciarci dentro quel guscio sottile e scivoloso, quel perenne senso di fastidio e irritazione che, come una ciglia fastidiosa, non l'abbandona finchè non si pizzica gli occhi per levare i gusci ormai secchi e tornare alla sua vecchia e ammaccata montatura. Combattimenti, ricorrenze dei Nativi e cerimonie di gala a cui il suo datore di lavoro, Lee Chaolan, la costringe di tanto in tanto: sono queste le uniche circostanze in cui accetta di scendere a patti con quelle diavolerie.


Cerca di tornare a concentrarsi sulla schermata di numeri e diagrammi che si trova davanti ma è inutile: la statistica è soporifera. Sin da piccola ha sempre avuto aspirazioni modeste: il suo unico desiderio era fare l'archeologa, passare le sue giornate a scavare sotto il solo cocente della sua amata Arizona e trovare qualche vecchio vaso tribale da spennellare e portare al suo professore al college. E invece la storia della riforestazione le aveva preso la mano, e così si ritrova invischiata nei loschi affari della G Corporation, impegnata da anni in un progetto che le risucchia l'anima, e lontana ancora dall'ottenere la sua tanto desiderata laurea, a scrivere una tesi che ormai nulla ha a che fare con i vasetti aztechi e i monili indiani.


Avrebbe dovuto ascoltare sua madre e starsene lontana dai Mishima. Ma Michelle era stata la prima a dare il cattivo esempio, correndo da Heihachi Mishima per torchiarlo e sparendo in circostanze misteriose: quella era stata la molla che l'aveva spinta a iscriversi al suo primo torneo, a far sì che l'Iron Fist Tournament diventasse un'abitudine, una fuga dalle ricerche e dallo schermo del computer e un'occasione per rivedere quelli che per lei erano ormai diventati amici, neanche si trattasse di una cena di ritrovo tra vecchi compagni delle superiori. Eppure le fa sempre piacere rivedere Xiaoyu, l'amica di sempre, e lasciarsi convincere a consolarsi dalle fatiche da ricercatrice abbracciando quell'ammasso di pelouche che è Panda- perchè sì, ammettiamolo, è il sogno di tutti abbarbicarsi ad un panda!-, vedere come se la passa Christie, salutare King, osservare da lontano l'ultima litigata tra le sorelle Williams, ascoltare gli improperi che Asuka riversa, a turno, sul nemico, il cugino o la rivale, chiedersi a chi andrà, per quell'edizione, il premio di personaggio più strambo del torneo. Qualsiasi cosa pur di staccare la spina.


E' ossessionata dal lavoro, se ne rende conto da sola e sua madre glielo fa notare almeno due volte al giorno durante le loro brevi ma immancabili telefonate.

“Hai vent'anni, Julia. Per l'amor del cielo, trovati un ragazzo, fatti delle amiche ed esci di casa!”

Di nuovo, Michelle ha ragione, ma lei, irrimediabilmente presa dal lavoro, non riesce a frenarsi. E ormai non può più.


Non ha detto a sua madre di come Lee Chaolan, qualche mese fa, le abbia proposto di lavorare come sua spia. Sa che lei non l'ha mai visto di buon occhio, considerandolo solo un altro dei Mishima, e che cercherebbe in ogni modo di farle cambiare idea, di allontanarla da quello che per lei è solo un incarico pericoloso. E Julia non è intenzionata a farlo.


Lee Chaolan le ha parlato facendo sfoggio di tutte le sue carismatiche doti oratorie, ma l'ha fatto con sincerità. Non è solo mosso da una secolare antipatia nei confronti del fratellastro, né dall'odio maturato con gli anni verso tutti i Mishima; è sinceramente preoccupato dalle due potenze opposte che si sono venute a creare. Mishima contro Mishima, diavolo contro diavolo: il pensiero di vedere padre e figlio l'uno contro l'altro mette i brividi, e la profezia della vecchia c'entra solo fino ad un certo punto.


Ha sempre avuto un doveroso rispetto per la tradizione religiosa del suo popolo, ma non è mai stata superstiziosa. Da ricercatrice qual è, crede nel potere della mente umana, non nella preveggenza o in altre sciocchezze. Eppure le parole di quell'anziana signora, pronunciate con voce ormai arrochita e tenebrosa, le tornano in mente la sera, quando stremata si infila sotto le coperte, e, accompagnate dalle immagini dell'ultima glaciale apparizione pubblica di Jin, le impediscono di dormire tranquillamente.


Sospira, chiudendo rassegnata il portatile. Lo lascia acceso, sa che tornerà presto a lavorare, o alla sua tesi, o alla sua ricerca, o al suo rapporto per Lee- la scelta è vasta- ma ora ha bisogno di una tazza di caffè per schiarirsi le idee. Un tempo beveva solo del sano thè, ma nell'ultimo anno ha capito che se vuole rimanere in piedi ha bisogno di una discreta dose di caffeina. Ora che ha staccato gli occhi dallo schermo si accorge che si è fatta sera e che la sua camera è ormai diventata completamente buia. Finalmente la macchia sulla lente smette di darle fastidio, mentre esce dalla stanza facendo affidamento unicamente sulla sua memoria. In soggiorno accende la luce e trova senza difficoltà la borsa, gettata sul piccolo divano a due posti, dove il suo gatto Pancho dorme placidamente ormai del tutto mimetizzato. Le sfugge un sorriso e decide di non disturbare il suo coinquilino e di tenersi gli occhiali sporchi, o di pulirli, al massimo, con uno tovagliolo di carta in cucina- azione assai dannosa per le lenti, ma di cui ormai, viste le condizioni in cui si trovano, le importa ben poco.


La macchinetta del caffè rotta è la peggior perdita che potesse subire: si deve sforzare di prepararselo da sola, perchè anche il suo fidato termos è totalmente vuoto.


Jin Kazama, pensa, mentre svita meccanicamente la base della caffetteria. Si ricorda ancora della prima volta che l'ha visto, solitario e vagamente imbronciato all'angolo del ring, mentre suo nonno si prodigava in una delle sue solite esibizioni di forza mettendo al tappeto il mal capitato di turno. Erano più o meno coetanei e le loro madri, ai tempi del secondo torneo, prima che entrambi nascessero, erano state buone amiche, unite dal disgusto per la Mishima e dall'amore per la natura, così aveva pensato di avvicinarglisi, la volta dopo che l'aveva visto. Aveva accennato un sorriso, e, scioccamente, gli aveva chiesto se fosse Jin Kazama. Lui aveva risposto con un rapido e quasi impercettibile cenno del capo, ma un vago bagliore di curiosità era balenato nei suoi occhi, così, incoraggiata, si era presentata e gli aveva svelato di conoscere sua madre dai racconti di Michelle.


“Mia madre è morta”, era stato il suo commento lapidario. “Uccisa da Ogre”.

“Ho sentito”. Julia non si era scomposta. “Mi dispiace molto. Mia madre invece è scomparsa. Sono qui per cercarla”.

Incuriosito, Jin le aveva chiesto dettagli e lei gli aveva raccontato quel poco che sapeva, omettendo i numerosi insulti che Michelle rivolgeva quotidianamente alla Mishima per non offenderlo. Ma era stato proprio lui, ad un certo punto, a lasciarsi sfuggire un “bastardo” a denti stretti, rivolgendosi proprio al nonno, e allora lei si era sentita rincuorata e aveva continuato a parlare in tutta libertà.


Sono passati poco meno di tre anni da quel momento, e ancora le fa strano pensare a Jin Kazama come all'ennesimo despota senza cuore sfornato dalla fabbrica Mishima, le fa strano trovarlo sempre più freddo e simile al padre dietro lo schermo del televisore, a fare nuovi annunci di guerra, le fa strano convincersi ogni giorno di più che quel ragazzo triste e sensibile sia sparito nel nulla.


Il singhiozzo spezzato della caffetteria la riporta al presente e al suo caffè. Cerca la presina fatta all'uncinetto da Michelle- un esperimento mal riuscito di vita da tranquilla massaia- e la usa per riempirsi una tazza di liquido fumante.


Sorseggia appoggiandosi al bordo del tavolo la sua tazza di caffè, godendosi i suoi minuti di relax. Il telefono squilla, ma lei non ha voglia di far raffreddare la sua meritata ricompensa, e resta immobile. Tre, due, uno, e la segreteria scatta.

Quando ancora dall'altra parte della cornetta sua madre deve cominciare a parlare, riconosce il suo respiro, e anticipa le sue parole:


“Julia, per tutti gli Spiriti, c'è un mondo là fuori. Staccati da quel maledetto pc!”


Le strappa un sorriso, mentre finisce di sorseggiare il caffè. Neppure la sfiora l'idea che possa essere uscita: la conosce troppo bene, ed essere tanto banalmente prevedibile è un po' triste, in fondo.


Posa la tazza sporca sul lavello, in mezzo alle stoviglie sporche del pranzo fugace che ha consumato qualche ora prima, e lo sguardo le cade sulla foto attaccata alla credenza: lei e Michelle l'estate prima nella riserva, abbracciate e sorridenti. Sembrano sorelle, stessa altezza, stessi capelli castani decorati dalla fascetta indiana, stessa carnagione abbronzata dal sole cocente dell'Arizona. Decisamente troppo cocente da qualche anno a questa parte. Il suo sorriso si allarga quando si sofferma a notare il profilo del paesaggio scarno che fa da sfondo al loro abbraccio. E' la sua terra e la ama: manca poco e poi, finalmente, riuscirà finalmente a ritrovare il verde che l'ha accompagnata nella sua infanzia spensierata. Ancora qualche piccolo sforzo, un paio di dati da sistemare, qualche risultato da verificare... Ora che ha recuperato i dati e ha trovato dei finanziatori, non deve fermarsi.


Si dirige spedita al suo tavolo da lavoro. Non c'è tempo da perdere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

-COMING NEXT (SOONER OR LATER): Emily "Lili" Rochefort

(...maybe)   

 

 

 

 

 

 

 

Nota dell'autrice:

Okay, questa storia ha meno senso del solito. In sostanza, non succede proprio un bel niente.

Però a me Julia piace e ho cercato di trovare una logica a tutti ruoli insensati che i capoccia della Namco le fanno ricoprire nei vari capitoli della saga. Bah.

Ah sì. Anche in questa storia (che poi è quella che ho scritto per prima) ho parecchi dubbi sui passati. Pardon.


 





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Capitolo 3
*** #03_Emily Rochefort_Butterfly Mask ***


[Emily Rochefort]

Butterfly Mask

 

 

 

 

 

 

La sua unghia rosata picchietta una goccia e la fa scivolare verso il basso. Lungo il tragitto, la prima goccia ne incontra un'altra e la trascina con sé nella sua caduta. Cambia la fantasia stampata sul vetro, ma lei non è soddisfatta.


Piove, e la pioggia non le è mai piaciuta. Non sopporta quel cielo carico di nuvoloni grigi pronti a scoppiare da un momento all'altro, e ancor meno tollera il momento dell'esplosione. Potrebbe dire- da perfetta ragazzina viziata qual è- che odia le si bagnino i capelli. Ma la verità è un'altra. La verità è che la pioggia le mette tristezza. La fa sentire sola. Non è venuta in Giappone per sentirsi sola, quindi non riesce a capire perchè debba piovere.


A stento trattiene tra le labbra un “Sebastian, non puoi far smettere?”. Né la sua voce cantilenante, né la disponibilità del suo maggiordomo possono qualcosa contro gli eventi atmosferici. Perciò sospira, annoiata e seccata. Viaggiare è noioso. Sono solo lei e Sebastian, come sempre: gli argomenti di conversazione scarseggiano. E anche una limousine fornita di ogni comfort e tecnologia stanca, quando la si usa come mezzo di trasporto ogni maledetto giorno.


“Tra poco saremo all'hotel, signorina”.


A Sebastian non sfugge mai nulla. La conosce così bene che si chiede come faccia a non essersi ancora licenziato. Suo padre deve pagarlo davvero profumatamente.


“E' la terza volta che lo dici”, ribatte, piccata.


“E' la terza volta che sospira”.


Deve avergli dato un aumento, suo padre, per convincerlo ad accompagnarla nel suo semestre di studio all'estero. Un soggiorno in Giappone che, agli occhi del signor Rochefort, nulla ha a che spartire con il torneo mondiale di arti marziali che sta per avere luogo e al quale Lili ha tutte le intenzioni di partecipare. Sebastian, invece, sa tutto e come sempre non rimprovera, non giudica.


E' sciocca quando dice che il suo maggiordomo è ben pagato per farle da balia; sa che le vuole sinceramente bene. L'ha vista crescere e le è sempre rimasto accanto: le è affezionato tanto quanto lo è lei a lui. Ma ancora non si capacita del perchè sia così.


E' insopportabile. Ne è perfettamente cosciente. E' sempre piena di lamentele e capricci e sfoga ogni sua frustrazione sul suo innocente maggiordomo, aspettandosi che lui l'accontenti sempre. E il bello è che Sebastian cerca davvero di farlo, qualsiasi cosa gli chieda. L'ha accompagnata in Giappone per farla felice, altro che aumento; anzi, sarebbe pronta a scommettere che sia stato proprio lui a persuadere suo padre a lasciarla partire, promettendogli di occuparsi di lei. La accudisce con l'amore di un padre e la devozione di un suddito, silenzioso e paziente. E che cosa riceve in cambio da lei? Capricci, solo capricci.


Perchè fare i capricci è il suo lavoro, no? Cos'altro è richiesto all'unica figlia di uno degli uomini più ricchi del mondo? Un bell'aspetto, certo, un portamento aggraziato, un modo di vestire consono all'alta società, un sorriso cortese... Ecco i requisiti della perfetta ereditiera, che ha fatto suoi appiccicandoseli addosso come una maschera.


Si ricorda di quando, qualche mese prima, ha partecipato ad una grande festa organizzata dalla compagnia di suo padre. Un ballo in maschera, in primavera, in occasione della quale sua madre- sua madre in persona!- l'aveva accompagnata da una sua amica stilista con mesi di anticipo perchè scegliesse quale abito indossare. Doveva fare bella figura, la piccola Emily: tutti gli occhi sarebbero stati puntati su di lei, la giovane sedicenne quasi prossima al suo debutto in società, e lei avrebbe dovuto essere impeccabile e mettere in mostra tutte le regole di bon ton che le hanno impartito sin dalla prima infanzia. Sua madre l'aveva sommersa di così tante raccomandazioni e istruzioni che la contentezza per l'abito confezionato apposta per lei si era subito spenta e la voglia di mettersi in mostra- o, per essere precisi, di essere messa in mostra- in una folla di ricconi di ogni genere le era del tutto passata.


Ciononostante, aveva fatto il suo trionfale ingresso in scena, e, tra il compiacimento suo e di sua madre, nessuno degli invitati si era risparmiato un complimento o un' occhiata d'ammirazione. Perchè Lili Rochefort quella sera era davvero bellissima. Il suo bel viso era parzialmente velato da una mascherina di stoffa a forma di farfalla e il suo corpo snello era avvolto dal vestito più ricercato della festa: le spalle erano lasciate scoperte dal corpetto di seta verde, mentre la gonna vaporosa che le velava le lunghe gambe affusolate era formata da tante altre farfalle, anch'esse verdi, ma di un verde di diverse tonalità e sfumatura.


Sì, tutti, davanti a lei, avevano fatto i complimenti ai suoi genitori per la loro bellissima figlia, e Lili aveva mantenuto l'atteggiamento che si esigeva da lei- delicati silenzi e sorrisi affettati- per l'intera serata. Non aveva tolto la maschera neppure un istante, e aveva reso felici mamma e papà.


In realtà la maschera- a forma di farfalla o meno- l'aveva avuto addosso anche prima di quella serata, e l'indossa ancora adesso. E' cucita sulla sua pelle, ormai, e, quando dopo numerosi sforzi riesce a staccarla, subito ne arriva un'altra a coprirle il viso. Quando finalmente, lontana dai coniugi Rochefort e da tutti i loro amici dell'alta società, può smettere di recitare il ruolo della figlia perfetta, ecco che corre a ricoprire quello di ragazzina capricciosa che tiranneggia il povero maggiordomo. Quand'è libera di essere sé stessa, dà il peggio di sé, forse perchè ad essere davvero sé stessa non riesce. Perchè in fondo chi è Emily?


Non lo sa. Potrebbe fare una lista delle cose che vorrebbe fare e che il suo ruolo di figlia del signor Rochefort le proibisce ma non saprebbe dire se facendole riuscirebbe ad acquisire una propria personalità. Essere una combattente con i capelli tinti di azzurro e un look cyber punk la renderebbe un individuo particolare, o sarebbe per lei l'ennesimo camuffamento?


E' uno stereotipo vivente, Lili Rochefort. O meglio, è una serie di stereotipi viventi che si danno il cambio. La sua fornitura di maschera a forma di farfalla sembra non esaurirsi mai.


“Sebastian”, si lamenta, per scacciare le riflessioni che si è ritrovata a fare per l'ennesima volta. “Allora?”

“Signorina Lili, anche se non siamo più in Europa, i semafori esistono ugualmente”.

“Uffaaaa... Potresti anche bruciartelo qualche semaforo, Sebastian. Non credo succederebbe nulla di male”.

“La vostra sicurezza prima di tutto, signorina”.


Sbuffa, insoddisfatta. Il suo stesso moto di stizza la irrita ancora di più. Perchè diavolo non riesce a staccarsi la maschera da bambinetta viziata che riserva al suo fedele maggiordomo e non dà il via ad una conversazione civile? Perchè dalla sua bocca escono solo frasi sciocche, che neppure una marmocchia di cinque anni pronuncerebbe? Oh, quanto è stupida, quanto è viziata! Chissà cosa penseranno di lei i partecipanti del torneo: la etichetteranno subito come la classica ragazzina ricca e annoiata che cerca di fare qualcosa di trasgressivo per movimentare la sua vita. E, in realtà, è davvero così.


“Un clichè ambulante”, borbotta distrattamente, a denti stretti, e subito si morde il labbro. Ma a Sebastian non sfugge mai nulla, se si tratta di lei.


“Come dice, signorina?”


Sospira, esita. Poi si decide a fare una prova di quello che potrebbe- vorrebbe- essere:


“Ti ricordi del ballo in maschera della scorsa primavera, Sebastian?”

“Certo, signorina”.

“E ti ricordi del mio costume?”

“Come potrei averlo dimenticato”.


Il suo incisivo affonda di più nel labbro morbido. Non è facile trovare le parole.

 

“Ho paura di avercelo ancora addosso, ecco”, mormora infine, in un sussurro appena percettibile per l'uomo alla guida della limousine.


Chissà se Sebastian è in grado di capire, di decifrare il codice. Solo a lui potrebbe fare una confidenza del genere, come tante altre gliene ha fatte in passato: è l'unico ad essere a conoscenza di tutte le malefatte della piccola Rochefort, di tutti i vasi rotti, i soprammobili spostati, di tutti gli allenamenti segreti e le fughe per partecipare a tornei clandestini. Non ha mai avuto nessun altro con cui parlare e Sebastian si è sempre dimostrato un ottimo ascoltatore, nonché un confidente molto discreto. Ma in questo momento ha bisogno di parole, non del solito silenzio da fedele subalterno.


“Oh sì”, dice, lentamente, e lei drizza le orecchie in allerta. Il suo cuore batte veloce e si scopre inspiegabilmente agitata, ansiosa di ottenere il resto della risposta. “Di certo tutti i partecipanti al torneo la vedranno come se avesse quel vestito addosso”. Lili sussulta. Sebastian ha capito. Tutto. Allora non riesce davvero a scollarsi di dosso quella maledetta maschera...


“La guarderanno e, come quella sera, vedranno una bellissima farfalla, elegante e leggiadra. E di nuovo non riusciranno a staccarle gli occhi di dosso”.


Un attimo di esitazione, e Lili sorride.


La limousine svolta a destra e attraversa i cancelli di un lussuoso hotel a cinque stelle: sono arrivati.

 

 

 

 

 

 


Nota dell'autrice:

Lili mi è sempre stata antipatica. In generale, le ragazzine viziate e snob mi sono sempre state un po' (tanto) sull'anima. Però da quando ho iniziato ad usarla e ho scoperto che è una macchina omicida ho inziato a ricredermi. Quando poi io e Lili (e Alisa pompata al massimo) abbiamo buttato giù Devil Jin dal treno e abbiamo completato al 100% la modalità campagna, ho deciso che doveva diventarmi almeno un pochino simpatica. E pensa che ci ripensa, tra un calcio in faccia virtuale e l'altro, ecco che mi trovo piena di idee per scrivere su di lei!

Anche questa volta, rimando al mio LJ: nel delirio influenzale potrebbe venirmi voglia di scrivere qualche extra. O forse no.


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Capitolo 4
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[Nina Williams]
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Lo sguardo che si riflette nello specchio è sempre lo stesso – vuoto. 

Si chiede se i suoi occhi fossero così inespressivi anche prima. Si chiede se lo sarebbero se la sua vita avesse fatto il suo corso, senza che la scienza si mettesse di mezzo e la riducesse ad una bambola senz'anima. 

Toglie la giacca, la getta su una sedia vuota, nell'ennesima stanza vuota di un albergo troppo pieno. 

Si gira di fianco. Il top di pelle lascia scoperto il ventre piatto, liscio. 

Diffidente, ne segue il profilo con una mano. 

E così ha un figlio. 

E' la rivelazione che continua a risuonare nella sua testa vuota da giorni interi, il pensiero fisso che si è innestato tra i brandelli di ricordi che rincorre da due anni senza riuscire ad afferrare. 

Un figlio, che ha quasi l'età che ha lei biologicamente e che, per di più, è inglese. 

Il pensiero la fa sorridere anche in queste condizioni. Un briciolo di senso dell'umorismo particolarmente sui generis è sopravvissuto al sonno criogenico. 

Un figlio di cui non sapeva nulla fino a quando non le hanno inviato quel fascicolo sul prossimo bersaglio. Un figlio la cui esistenza le è stata tenuta nascosta.

Prova sentimenti contrastanti, al riguardo. Li analizza ogni notte con calma, con la pistola sotto al cuscino e lo sguardo perso nel vuoto. A poco a poco, scioglie pezzi dell'enigma. 

Una parte di lei è arrabbiata. C'è una percentuale bassa – un 10% scarso – che vorrebbe afferrare l'automatica ed aprire un buco in fronte a quegli scienziati che l'hanno usata come cavia da laboratorio senza darle niente in cambio.
E' la prima volta in cui desidera davvero uccidere qualcuno, e non considera l'ipotesi solo per obblighi professionali.

Quell'ardore svanisce presto e torna l'apatia. C'è un buon 35% che prova sollievo. Sollievo per aver scoperto l'esistenza di questo fantomatico figlio solo quando ormai è impossibile anche solo immaginare un avvicinamento.
Non riesce a figurarsi, altrimenti, con quale faccia avrebbe potuto presentarglisi davanti, fresca dei suoi vent'anni di sonno criogenico, e rivelargli di essere sua madre. In queste circostanze assurde, invece, è manlevata da ogni obbligo. No?

C'è un 5% che, però, ancora si chiede cosa fare. Una minuscola eco di coscienza che, in quell'assenza di emozioni, ha davvero vita dura. Nina infatti la ignora. Passa oltre, al suo 50% dominante: l'indifferenza. 

La verità è che la soluzione dell'enigma è ben più semplice di quanto non sembri ad un primo sguardo. Si inganna da sola, fingendo di dover analizzare i propri sentimenti, perché la prospettiva di non averne è ben più deprimente – eppure vera.

Quando ha visto suo figlio, non ha provato niente. Steve Fox è solo un nome sulla carta, un incarico che non ha portato a termine perché confusa da una rivelazione improvvisa. Niente di più.

Ed ora si guarda allo specchio, si studia. Se il suo corpo  si fosse trasformato come quello di ogni donna, se avesse ospitato al suo interno un figlio e l'avesse alimentato per mesi interi, cambierebbe davvero qualcosa?

Vorrebbe illudersi, e rispondersi di sì. Vorrebbe credere di essere stata una persona diversa, prima del sonno criogenico, il tipo di persona in grado di affezionarsi a qualcosa di più che ad un'arma funzionale alle sue esigenze. Ma, dentro di sé, conosce già la verità – l'ha vista riflessa nello sguardo di sua sorella dietro strati di inganni è bugie:
Nina è vuota ora come lo era prima. L'amnesia è solo un'ottima giustificazione alla sua apatia. 

Per questo, forse, non riesce a ricordare: non vuole realmente trovare conferma alle sue supposizioni. Non vuole scoprirsi identica a sé stessa. 

Come potrebbe, una persona così, essere madre?

Se anche l'avesse tenuto in grembo nove mesi, se anche l'avesse dato alla luce e sentito piangere, se anche l'avesse allattato al suo stesso seno... Quel figlio non sarebbe che un conoscente con cui condivide parte del DNA. Un altro membro di una famiglia fantasma da lasciare in disparte, proprio come Anna. 

La vita di Nina è vuota, ma non c'è spazio per nessuno, tanto meno per un figlio. 

Gli occhi di Steve non somigliano affatto ai suoi: ne condividono il colore, ma sono pieni – di tristezza, solitudine, smarrimento.

Un figlio così è in cerca di una madre che gli tenda la mano e riempia il vuoto di una vita passata da orfano. 
Nina, con il suo vuoto, non può riempire niente. E l'unico modo in cui sa tendere la mano è impugnando una pistola.




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N/A:

Uh hu. Alzi la mano chi si ricorda di questa raccolta. Io no.
Non so quanto senso abbia aggiornare dopo due anni e mezzo, ma nello scrivere questa fanfiction mi è tornato in mente questo progetto, e così mi sono detta: perché no?
Di sicuro si noterà un po' di divario con i capitoli precedenti - sono pur sempre passati anni e il mio stile è cambiato non so se in meglio o in peggio.
Anyway, questa fic risale a qualche mesetto fa, precisamente alla Staffetta in Piscina @ piscinadiprompt, ed è nata a partire dal prompt: Tekken, Nina&Steve, "When love is a gun/separating me from you" (The funeral of hearts - HIM). Come si sarà intuito, è ambientata subito dopo Tekken 4 e la scoperta che Nina fa nel finale.




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