A Mal Foi Pacte.

di sophyakarenina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prelude. ***
Capitolo 2: *** Visions come. ***
Capitolo 3: *** Cracks in the walls. ***
Capitolo 4: *** When I look into your eyes, there's nothing left to see. ***
Capitolo 5: *** Bleed well. ***
Capitolo 6: *** Whispers. ***



Capitolo 1
*** Prelude. ***


Prelude.


Camminava da circa un paio d’ore nel parco della scuola.     

Quel biglietto di carta pregiato ormai sgualcito nella mano destra, stretto nella morsa di un pugno che non ricordava nemmeno di aver chiuso.
Non importava se quel giorno un insolito vento faceva fremere le fronde degli platani, le cui foglie iniziavano ad assumere la classica tinta gialla dell’autunno, e le entrava fin dentro le ossa, costringendola a rabbrividire nella camicia bianca.

Doveva continuare a camminare, a vagare senza meta, se voleva restare integra, se non voleva lasciare che quel vento lambisse anche lei e la facesse a pezzi.
Tante, minuscole parti di lei lasciate a marcire sul terreno, come foglie morenti.

Si schernì mentalmente una dozzina di volte: sapeva fin troppo bene che quel momento sarebbe arrivato alla fine.
Eppure, scioccamente aveva creduto che la primavera, l’estate, non avrebbero avuto mai fine. Che avrebbe avuto tutto il tempo del mondo per farsene una ragione.
Povera stupida.

Lui non aveva fatto promesse, se non quella di rispettare il patto: non avrebbe creato complicazioni e non avrebbe avanzato pretese su di lei.
Era stato fin troppo chiaro sin dall’inizio: non era un legame fatto per durare per sempre. Era esattamente tutto quello che lei non avrebbe mai potuto accettare; andava troppo al di là delle sue convinzioni, dei suoi valori. Non comprendeva una relazione dove non c’era amore, dove non si progettava nulla insieme.
Cionondimeno, forte del suo orgoglio e della sua presunta superiorità, aveva creduto che le sarebbe bastato. Che avrebbe potuto divertirsi con lui, senza rimpiangerlo.

L’orario dell’appuntamento era passato da un paio di minuti, ma non avrebbe potuto mancarlo per nulla al mondo: in fin dei conti erano settimane che non lo vedeva.
Tuttavia, soltanto Dio poteva immaginare quanto avrebbe voluto svanire in quel preciso istante, avere un modo per non affrontarlo, per evitare tutto quanto.
E, sebbene fosse tante cose, Hermione Granger non era una codarda.

Avrebbe indossato la sua maschera migliore e recitato la parte che intimamente aveva provato miliardi di volte nella sua testa.
Non avrebbe pianto, né supplicato. Non avrebbe esitato, non si sarebbe piegata. Non avrebbe provato niente.
E sarebbe stata una perfetta bugiarda, proprio come lui le aveva insegnato.
 
 La guferia sembrava un rudere abbandonato a se stesso in mezzo al parco.
Le ombre che il sole, tramontando, iniziava a proiettare sui mattoni grezzi, facevano sembrare quel torrione ancora più vecchio e malandato.
Le strida dei gufi e delle civette riempivano l’aria, riecheggiando come un lamento e salendo fin sopra al tetto circolare.

Si fermò un istante a guardarsi intorno, sia per accertarsi che nessuno l’avesse notata, ma soprattutto per assicurarsi che nessuno si stesse avventurando verso la torre.
Concesse a se stessa un ultimo respiro profondo, prima di varcare la soglia ed iniziare a salire le scale fino al primo piano.
Non poté non storcere il naso al sentire l’odore acre che si levava attorno a lei, come una nube persistente, gradino dopo gradino, né poté evitare di soffermarsi qualche istante accanto alla feritoia in cima alle scale, che affacciando sull’esterno permetteva di respirare una sana boccata di aria pulita.

Lui era là, seduto alla spartana scrivania di legno che faceva bella mostra di sé accanto ad una rastrelliera dove riposavano un paio di gufi, gli occhi gialli socchiusi e con il collo infossato tra le piume rigonfie. Aveva tra le mani una penna, che rigirava distrattamente tra le lunghe dita affusolate. La cravatta allentata ed il colletto sbottonato come se facesse fatica a respirare.
I capelli gli ricadevano intorno al viso, sulla fronte, stranamente scomposti. Considerò che non era da lui presentarsi in modo così sciatto, eppure fu un pensiero che balenò nella sua mente solo per un secondo, prima che tornasse alla realtà e realizzasse che gli occhi di lui la scrutavano da lontano.

“Sei in ritardo. Iniziavo seriamente a dubitare che saresti venuta.” Un accenno di un sorriso sardonico increspò le sue labbra.

“Ho avuto da fare e non mi sono resa conto dell’orario. Ebbene?” Impazienza.

Non sembrava affatto intenzionato a rispondere; seguitò a roteare la penna tra le dita come se nulla fosse. Si rese conto in quell’istante che stava cercando di farle perdere la pazienza e ci stava riuscendo dannatamente bene. Non le restava che prendere parte a quel gioco, di cui ancora a stento riusciva a comprendere le regole.

Fece un paio di passi in avanti ed iniziò a curiosare nello stanzone, prendendo tempo. Era un gioco stupido, per certi versi: ferirsi l’un l’altro, come se non significasse nulla, convincendosi di essere intoccabili.

“Ho ricevuto il tuo biglietto, anche se giuro di non capire il senso del chiedermi di venire. Quindi, eccomi. Sono qui. Ti prego di illuminarmi!”
Aprì teatralmente le braccia nel voltarsi a guardarlo.

Lui prese la penna e la poggiò sul ripiano della scrivania, poi si alzò in piedi, dandole le spalle. Sembrava ancora più alto e più magro dell’ultima volta che l’aveva visto.

“Volevo soltanto essere sicuro che avessi compreso realmente quanto ho scritto. Non volevo che potessi metterti in testa strane idee.”

 “Che intendi dire?” Modulare la voce con noncuranza, senza esitare.

“Intendo dire che sono annoiato e la situazione non mi diverte più.”

“E questo che cosa significa? Io credevo che noi…”

“Noi?” Si girò finalmente a guardarla inarcando un sopracciglio sottile.

“Che…noi…avessimo un patto da rispettare. Fino in fondo.”

“Giuro che per un momento pensavo che tu…” Interruppe la frase ridendo lievemente tra sé e sé, portandosi una mano tra i capelli.
“Hai ragione, comunque. Avevamo un patto e correggimi se dico male, ma non mi pare di aver mai detto che non avrei potuto svincolarmi da esso, se non ne avessi più tratto benefici.”

“Quindi, avere qualcuno che lavora per te non è più un beneficio?”

“Non ne ho più bisogno. Ho raggiunto il punteggio che mi serviva in tutte le materie. Ad ogni modo, era solo un agio, avrei potuto cavarmela da solo.”

Convenne, nonostante detestasse ammetterlo, che era semplicemente la verità: lui aveva una mente brillante. Lo invidiava da sempre perché avrebbe potuto prendere il massimo dei voti senza sforzarsi più di tanto, quando lei, al contrario, doveva impegnarsi, rinchiudendosi in biblioteca per ore e ore solo per raggiungere quel livello.
Essere un caposcuola, primo della sua casata.

“Nemmeno venire a letto con me non lo è?”
Si meravigliò di se stessa quando sentì la sua stessa voce pronunciare quelle parole ad alta voce. Anche lui esitò nell’ascoltarle, eppure puntò gli occhi nei suoi senza mostrare pietà.

“Sinceramente? No, non lo è. Non lo è mai stato.”

“Ah no? Pensavo che ti piacesse.” Fece spallucce, ma il suo cuore sanguinava.

“Piacermi? Naturalmente, adoro il sesso, non è certo un segreto. Ma non ho mai detto che mi piacesse farlo solo con te.”

“Su questo mi trovi pienamente d’accordo.” Bugie su bugie. Ma come difendersi da quella voce così distaccata e stanca? Come proteggersi da quelle parole?

Lui incassò il colpo senza scomporsi. La guardò dall’alto in basso, come per verificare se fosse possibile che lei avesse conosciuto un altro uomo.
I suoi occhi grigi accarezzavano quelle curve e non riuscivano a credere che qualcuno avesse osato toccare quel corpo. Tuttavia, poteva essere vero.
Non la controllava, lei non gli apparteneva. Poteva essere vero?

“E così Weasley ha avuto il suo momento di gloria? Quelle joie!” Sarcasmo.

Giocherellò con il sacco delle sementi abbandonato nell’angolo opposto della stanza, facendo cadere quei semi come sabbia inarrestabile in una clessidra.

“Beh, a dire il vero non ne ha avuto solo uno. Ma se non ti dispiace, vorrei risparmiarti dettagli che, ora come ora, non hanno alcuna importanza. Se non hai altro da aggiungere, me ne andrei”. Si guardò le dita per vedere se fossero rimaste tracce di polvere e fece finta di pulirsi strofinandole lievemente sulla gonna di panno grigia.

“Quindi finisce tutto così…”

Fu il suo turno di inarcare il sopracciglio, chiedendosi se avesse realmente capito bene quanto appena ascoltato o fosse stato soltanto uno scherzo del suo cervello.

“Mi pareva che avessi detto che accettavi il patto per come era.” Schernirlo ora, proprio quando aveva dimostrato un lato di sé vulnerabile.

“Touché.”

Raccolse la giacca della divisa e se la gettò negligentemente sulla spalla, senza aggiungere altro. La sorpassò con paio di falcate, facendola rabbrividire per lo spostamento repentino d’aria. Imboccò le scale svanendo velocemente dalla sua vista.
 

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Capitolo 2
*** Visions come. ***


Visions come.


Posò la mano sulla maniglia in ottone, fredda e liscia, nonostante gli intarsi floreali.
La porta in mogano ruotò sui cardini silenziosamente, disegnando un piccolo cono di luce su un pavimento magistralmente piastrellato.
La sua stanza era rimasta inalterata in tutti quegli anni, come se non ci avesse mai realmente abitato.


E probabilmente era davvero così.

Sua madre l’aveva fatta ammobiliare appositamente per lui da un costosissimo arredatore francese, utilizzando il mobilio antico di secoli presente nel maniero, un simbolo
della potenza e del prestigio ereditato dai Malfoy e dai Black.
I drappi di velluto verde alle finestre, il grande letto a baldacchino in legno massello, i dipinti a olio in pesanti cornici dorate, lo scrittoio poggiato su grandi spire di serpente.
Difficilmente riusciva a guardarsi intorno e non pensare a quanto quella camera fosse un cliché.
Lui era un cliché, in fin dei conti.

Promettente rampollo di una temuta e “rispettabile” famiglia di maghi purosangue, sicuramente destinato a compiere grandi cose nelle file oscure della comunità magica.
Certo, come no. Era stato cresciuto come un principe, abituato ad ottenere tutto e a sottomettere tutti, proprio come un condottiero.
Aveva conosciuto la sofferenza del castigo e la necessità di non piegarsi mai al dolore.
Andando avanti giorno dopo giorno con l’unico proposito di coltivare uno spirito fiero, arrogante ed orgoglioso del proprio lignaggio.

Anche se, ad onor del vero, era semplicemente un ragazzo. Di razza, con un pedigree impeccabile, certo.
Ma lui poteva considerarsi soltanto come una proprietà di suo padre: un costoso purosangue da corsa su cui investire, da spremere fino all’ultima goccia di sangue.

Sedette sul bordo del letto, che si infossò appena sotto al suo peso, e lasciò che la mano destra vagasse distratta sul copriletto di lucido raso.
Quella stanza non sembrava affatto appartenergli: non rispecchiava minimamente la sua personalità e lo faceva sentire come un perfetto estraneo in casa sua.
Gli occhi vagarono ancora, perlustrando stancamente l’ambiente circostante, fin quando vennero catturati dalla sua vecchia Firebolt, abbandonata in un angolo vicino alla finestra.
Fu solo allora che una smorfia gli contrasse i lineamenti del viso, mentre fissava il fascio di ramoscelli di betulla curvati dolcemente a formarne la coda, per risalire poi, lungo il rigido manico di legno, ormai usurato dalla presa delle sue mani nelle interminabili ore di allenamento a Quidditch. Poter volare.

Si alzò ed afferrò la scopa stringendo la presa intorno alla consistenza del legno, bilanciando il peso. Stupenda, proprio come la ricordava.
In un attimo un vortice di ricordi si impossessò della sua mente: la prima volta che una scopa aveva risposto al suo richiamo, la prima volta che aveva volato, il primo allenamento, la prima volta che aveva preso il boccino d’oro tra le dita. La velocità, il vento tra i capelli, la pioggia sul viso.
Il sudore, la fatica, le vittorie e le sconfitte.

“Mettila giù, Draco.”

Quell’accento sottile e raffinato che, malgrado gli anni passati a Londra, non sembrava abbandonarla mai.
Il tono reso inflessibile dall’abitudine, soltanto per celare l’amore che una madre prova per il suo stesso figlio e mantenere così le apparenze di una condotta morale irreprensibile. Ma, nonostante ciò, spesso dimenticava quanto la sua famiglia sapesse esser priva di buone maniere.

“Suppongo di dovermi aggiornare: da quando bussare è diventato un costume demodé?”

Inclinò appena il capo in avanti nel dirlo; restare solo, era chiedere tanto?
Eppure, le ubbidì lo stesso riponendo il manico di scopa nell’angolo, esattamente dov’era, destinato ormai a prendere polvere.

“Ne dis pas de bêtises! E poi non essere così melodrammatico, sono solo preoccupata per te.”

Lo disse tutto in un fiato, avvinandosi al figlio così come una persona si sarebbe avvicinata ad un animale ferito.
Allungò una mano pallida verso di lui, quella dove il massiccio anello dei Malfoy faceva sembrare quelle dita ancora più piccole e fragili come grissini.
Ma non si permise di toccarlo. Non ancora.
Era sempre come una scommessa trattare con un Malfoy: una parola, un gesto appena un po’ più maldestro e si poteva rischiare di gettare tutto alle ortiche.
Delicatezza, era tutta questione di pazienza e delicatezza.

“Ti dispiacerebbe non preoccuparti, madre? Guardami, sto bene e tra una settimana tornerò ad Hogwarts, togliendomi dai piedi e facendo ritornare tutti quanti alla stessa amabile routine a cui siamo così abituati. Fidati di me.”

“Dubito che sia una buona idea.”

“Fidarsi di me?” Sorrise, volgendo finalmente lo sguardo per incontrare quello di lei. “Come darti torto?”

E a quel punto vide quegli occhi – dannatamente simili ai suoi – farsi di vetro, incrinarsi in miriadi di schegge grigie.
Lucidi di lacrime che non avrebbe mai lasciato cadere. Gli apparve improvvisamente molto vecchia: notò le ossa magre sotto al tubino nero, fili d’argento tra i lunghi capelli, le sottili rughe ai lati degli occhi. Lei era stata l’unica persona ad averlo veramente amato.
In un modo tutto suo, questo era chiaro, ma era pur sempre amore. E aveva sempre contato per lui.
Non sopportava l’idea di vederla così fragile, disposta a mostrare palesemente la sua sofferenza. La freddezza ed il distacco era in grado di gestirli.
Ma, quelle emozioni, la profonda tristezza e la rassegnazione su quel viso, lo lasciavano del tutto impreparato.
Aveva già i suoi problemi e non voleva dover essere forte anche per gli altri: del resto, non gli avevano forse insegnato che era giusto essere egoisti?

No, non poteva sopportare quella vista. Già suo padre lo guardava con gli occhi di un disilluso, di uno che aveva scommesso tutto per ritrovarsi con un pugno di mosche.
Non aveva bisogno di qualcun altro che lo guardasse in quel modo, che gli facesse capire che il suo futuro era già segnato e non ci sarebbe stato nessun colpo di scena.

Distolse lo sguardo, scrollandosi quel momento di dosso come se non avesse avuto alcun valore.
Aveva il cuore ferito di Narcissa Black Malfoy tra le mani – quasi riusciva a percepirne il battito – e fece la sola cosa che sapeva fare: lo gettò via.

“Vattene.” Distruggere tutto. Senza pietà.

Già prima che lui aprisse la bocca, seppe di essere caduta in fallo.
E quando le parole furono un eco nella stanza, ebbe la prova che lui non glielo avrebbe perdonato.
Non vi fu quasi nemmeno lo stupore, o un tremito di ciglia, nell’udire la forza di quel latrato pieno di risentimento.
Ma, era pur sempre una madre, dopotutto.
Avrebbe voluto avere la possibilità di fermarlo, nondimeno, sapeva fin troppo bene dove questo li avrebbe portati.
Ad una sofferenza estremamente più violenta.
Draco non si aspettava una replica e, difatti, non ne giunse alcuna.
Lei restò ferma ancora un instante, come ad imprimere nella memoria la sua immagine.
Proprio come era arrivata, poi, se ne andò, lasciando soltanto la scia discreta del suo profumo.

Il rumore della porta che veniva richiusa con cautela. E poi il silenzio.

Di nuovo solo in quella stanza, gli parve di affogare.
Slacciò bruscamente i bottoni del colletto della camicia e si appoggiò con la schiena alla colonnina del letto.
Respirare. Un concetto facile: aria che entra ed esce dai polmoni, il cuore che batte con il suo ritmo regolare, sangue che scorre nelle vene.
Semplice meccanica. Però, le mani iniziarono a tremargli leggermente. Aveva sempre dominato se stesso e gli altri, ordito piani diabolici e avuto successo, era arrivato all’apice della vetta e si disse che era pressoché inevitabile quella folle corsa verso il declino.
L’ombra di se stesso, una patetica imitazione di quello che avrebbe potuto essere.

Avrebbe dovuto iniziare a fare i conti con quell’insolente sensazione di impotenza, delle cose che sfuggono dal proprio controllo.
La rabbia sorda e cieca, quella vecchia compagna solitaria di un’infanzia lunga e difficile, era tornata per reclamarlo.
L’aveva covata e nutrita dentro di sé come un animale cura i suoi piccoli e al pari di una bestia in cattività questa gli si stava rivoltando contro, ormai stanca di accettare il giogo di una catena troppo corta e bramando soltanto vendetta.

Si accasciò sul materasso, tentando di sedare l’ira che gli attanagliava il petto.
Ripeté come una cantilena che doveva concentrarsi su pensieri di poco conto, liberando la mente il più possibile.
Chiuse gli occhi e per un assurdo scherzo del destino un’immagine iniziò a prendere lentamente forma.
All’inizio completamente sbiadita, ad ogni battito assumeva una nitidezza tale da farla sembrare davvero reale.
Di colpo quell’angoscia intollerabile si ritirò nei reconditi del suo pensiero.

Riusciva a distinguere facilmente il corridoio della scuola invaso dai raggi di sole all’alba di una pallida mattina di Settembre.
Era ancora troppo presto per essere affollato dagli studenti, eppure, c’era qualcuno che si incamminava solerte verso l’aula di Trasfigurazione.
Si concentrò meglio nel vedere le pieghe di quel mantello nero, oscillare ritmicamente al suono dei tacchi di usurate scarpe basse.
Fece risalire lo sguardo lungo quella schiena diritta ed incontrò una cascata di riccioli castani.
La luce di una finestra li accese improvvisamente di riflessi dorati e scarlatti, in una combinazione quasi impossibile.
Passi incessanti e svelti sul freddo lastricato quando tutto si arrestò di scatto.
Come in una scena al rallentatore, lei si voltò su se stessa, il mantello ruotò intorno alla sua figura, avvolgendola.
Fu in quel preciso istante che vide i suoi occhi. Grandi, espressive perle castane, ricolme di sorpresa.

Sbatté le palpebre una, due volte, prima di tornare alla realtà e ritrovarsi a fissare il tessuto damascato che costituiva il tetto del baldacchino.
La confusione gli lasciò un retrogusto amaro in bocca, che avrebbe voluto sputare a terra. Forse stava semplicemente diventando matto, proprio come sua zia.
Geni, niente di più. Gradualmente trovò la forza di rimettersi seduto e si portò una mano al volto.
Era un’idea malsana, la più irrazionale che avesse mai avuto in tutta la sua vita.
Ma, era anche quella che gli dava una ragione in più per ribellarsi ancora una volta a quel macabro gioco del destino.

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Capitolo 3
*** Cracks in the walls. ***


Cracks in the walls.


Pioveva ininterrottamente, ormai, da quarantotto ore e – sebbene fossero solo all’inizio del mese di Settembre – l’umidità e l’abbassamento delle temperature avevano costretto tutti a ripararsi indossando capi più pesanti.

Strinse con più decisione la sciarpa a grandi righe gialle e rosse attorno al collo, più per nervosismo che per reale necessità di coprirsi meglio dal freddo.
In piedi sulla banchina, tesa come la corda di un arco e con le mani affondate nelle tasche del suo parka color senape, non riusciva a smettere di portare lo sguardo al grande orologio rotondo. Non erano passati nemmeno cinque minuti dall’ultima volta che aveva controllato l’orario, ma le sembravano ore. Venti minuti di ritardo.
Maledisse ancora una volta i suoi amici. O meglio, maledisse Ron Weasley, dal momento che la colpa doveva essere senza dubbio solo sua.

Di fronte a lei la stazione era un alveare in piena attività: una miriade di persone senza volto che si affrettavano a scendere e a salire sulle carrozze in un turbinare di ombrelli colorati. Il rumore rullante e fastidioso del tabellone che segnava il susseguirsi delle destinazioni, dei numeri dei binari. Le cancellazioni, i ritardi. Sbuffò.
Si domandò se avesse fatto veramente la cosa giusta nello scegliere di andare da sola alla stazione quell’anno.
Aveva caricato le sue cose sul taxi e salutato i suoi con un gesto silenzioso della mano, lasciandoli immobili sul cancelletto di casa.

Eppure, quella mattina, dopo aver spalancato gli occhi alle prime luci dell’alba, si era ritrovata a fissare il soffitto con un brutto presentimento impigliato nel fondo della gola.
Le tornarono in mente le parole recitate come un mantra della professoressa Cooman durante le sue assurde lezioni.

«La preziosa opportunità di squarciare il velo di Maya e guardare alla nuda realtà nella sua interezza, senza restare obnubilati dalle false apparenze.
Intuire l’ordito del destino ed avere una speranza di riuscire a mutarlo. Miei giovani maghi, non sottovalutate mai il potere dei presentimenti.»

Mentre l’acqua della doccia continuava a scivolarle addosso come una gelida carezza, non fece altro che ripensare a quella sensazione.
Comprese che quell’anno di scuola sarebbe stato sicuramente diverso, ciononostante, non seppe decidersi se quell’eventualità rappresentasse più un bene che un male.

Aveva fatto colazione seduta al piccolo tavolo della cucina, con sua madre che spadellava una quantità indefinita di pancakes e suo padre che leggeva ad alta voce alcune curiosità dall’ultimo numero della sua rivista scientifica in abbonamento, il regalo di compleanno ricevuto solo qualche mese prima da parte sua e della mamma.
Di nuovo quel senso di oppressione in fondo alla gola.

“Sapevate che i rumori possono influenzare l’attività delle nostre pupille? E’ stato condotto uno studio che ha dimostrato come anche i suoni più piccoli possono causare la dilatazione delle pupille. E non è un caso che i chirurghi pretendano religioso silenzio durante le operazioni più complicate, al fine di evitare disturbi nella vista che comporterebbero errori. Dovrò dire a Maggy di fare lo stesso durante le visite in studio…non mi piacerebbe ricevere un altro morso da Robbie Fenwick.”

“Ho deciso di andare da sola.”

Fu come se qualcuno avesse lanciato un incantesimo, un Aresto Momentum. Abbassò gli occhi sulla tazza di latte caldo, stretta tra le mani.
Una carrellata di emozioni si alternò sui loro visi mentre la fissarono come se le fosse improvvisamente spuntata una seconda testa al lato del collo.
Doveva aspettarselo: l’avevano accompagnata ad ogni primo giorno di scuola di tutta la sua vita. Poteva forse biasimarli?

Jane Granger poggiò finalmente la padella vuota nel lavandino e spense il fornello. Arricciava le mani nel grembiule, forse per asciugarsi le mani, anche se sua figlia sapeva trattarsi di un gesto inconscio per nascondere la sua confusione.

“Ma tesoro, è una tradizione di famiglia. Perché non vuoi che veniamo con te?”

Realizzò che era finalmente giunta a quel punto di non ritorno che aspettava da anni.
Avrebbe potuto scrollare le spalle e far finta di aver parlato a vanvera, facendo tirare un sospiro di sollievo ai suoi genitori. Cosa sarebbe successo poi?
Desiderò davvero poterlo fare, tornando alla sicurezza delle consuetudini a cui era abituata.
Scoprì di non esserne più in grado: cercò dentro di lei il coraggio per andare avanti per la propria strada. Così, inspirò profondamente prima di rispondere.

 “No, non è che non voglio. E’ solo che penso che sia arrivato il momento per me di cavarmela da sola, tutto qui.”

Era pienamente consapevole di recare loro un dispiacere, quindi, mentre restava seduta su quella sedia, temette di dover affrontare per la prima volta una discussione con loro. Il solo pensiero di un litigio, delle urla che non aveva mai udito, non fece che enfatizzare ancor di più lo strano stato d’animo in cui era piombata quel giorno.
 
Tuttavia, i suoi genitori l’adoravano. Amavano tutto di lei ed erano orgogliosi della giovane donna che stava diventando: una studentessa modello, chiaramente destinata ad avere un futuro radioso e di successo nella comunità di cui ora faceva parte. Per questo e per il bene che le volevano, in nome della grande stima e della fiducia che riponevano in lei, non fecero troppe storie né avanzarono alcuna obiezione. Suo padre chiamò un taxi, mentre sua madre finiva di servire la colazione.

Si riscosse e tornò alla realtà del binario nove e tre quarti. Iniziava a sentirsi fuori luogo: completamente sola e con un vecchio baule arroccato su un carrellino ed un gatto rosso acciambellato dentro ad una gabbia in sottile ferro battuto.

Ancor prima di riuscire ad intravederli, lì sentì arrivare di corsa: un chiassoso gruppo di persone sbucare disinvolte, dal nulla, attraverso una colonna del binario.
Come sempre la famiglia Weasley era al gran completo, zazzere rosse e guance puntinate da lentiggini al seguito.
Le parve di poter respirare un pochino meglio non appena le braccia di Harry le cinsero le spalle in un caldo abbraccio, forte e deciso.
Era sempre lo stesso, gli occhi verdi ancora stropicciati di sonno dietro agli occhiali rotondi, i capelli scuri perennemente scompigliati.

“Scusa. Scusa. Scusa.”

Ronald. Da sopra la spalla del ragazzo sopravvissuto, lo vedeva farsi piccolo piccolo, nel ripetere quella parola come se da questo dipendesse la sua intera esistenza.
Il moto di tenerezza che la coglieva sempre in quelle situazioni, le fece tentennare un sorriso sulle labbra. Sentì le braccia di Harry scivolare via e si ritrovò di fronte a lui.

Ron rimase in attesa, come per assicurarsi che avesse il permesso di poterla toccare.
Dopo un istante che sembrò durare un’eternità, si decise finalmente ad abbracciarla.
Quello che provò fu come sentirsi a casa. Portò a sua volta le braccia attorno al suo collo ed inspirò a pieni polmoni il profumo di bucato pulito e di biscotti fatti in casa.
Le era mancato tanto quell’estate. Si staccarono quel poco che bastava a tornare a guardarsi negli occhi e l’usuale velo di imbarazzo calò tra loro come un invisibile sipario, rendendo i loro movimenti impacciati e legnosi mentre si allontanavano definitamente l’una dall’altro.
Con tutta probabilità, quell’imbarazzo non gli avrebbe mai permesso di ammettere apertamente che c’era qualcosa di più tra loro due.
Qualcosa che non aveva nulla a che fare con l’amicizia.

Fu il turno di salutare il resto del gruppo e ad ogni abbraccio si sentiva leggermente meglio. Quando arrivò il turno della signora Weasley, immaginò che non sarebbe sopravvissuta alla sua stretta poderosa. Nondimeno, le sorrise lo stesso, godendosi quello scintillio di pura gioia accendere i suoi occhi.
Molly la tratteneva ancora per le spalle rivolgendole lo sguardo divertito e pieno d’affetto di chi è capace di leggere tra le righe della vita, poi iniziò a guardarsi intorno.

“Dove sono i tuoi genitori, cara? Mi piacerebbe molto salutarli.”

“Non sono venuti, avevano un importante convegno di lavoro stamattina.”

Non ebbe neppure il tempo di rendersi conto di quello che aveva detto; le parole rotolarono fuori dalla sua bocca senza che potesse controllarle. Che diavolo le era preso?
Non aveva nulla di cui vergognarsi se non aveva voluto la compagnia dei suoi genitori e gli Weasley non l’avrebbero di certo giudicata per questo. Allora perché mentire?

“Oh. Che peccato. Jane e John sono persone così adorabili, li avrei incontrati così volentieri, non lo pensi anche tu caro?”

“Ma certo, Molly. Troveremo occasione per vederli durante l’anno, anzi, potremmo invitarli alla Tana per una cena. E John potrebbe mostrarmi gli attrezzi del mestiere: tenaglie per strappare via i denti, vi rendete conto?”

A corto di parole ed incerta su come rispondere, Hermione si ritrovò a balbettare un assenso e ringraziò mentalmente Fred per aver attirato su di sé l’attenzione di tutti.

“Forza pigroni, sbrigatevi a caricate i bauli: hanno aperto le porte delle carrozze!”

Harry e Ron l’aiutarono cavallerescamente a caricare il suo pesante baule e mentre i due cercavano di coordinarsi per oltrepassare la porta del vagone, qualcosa di nero catturò la sua attenzione. Quasi al fondo del binario, un capannello di studenti alteri e silenziosi attendeva di poter prendere posto nel loro scompartimento di prima classe.
Slytherin. Anche solamente pensandolo, quel nome aveva un sapore acre sulla lingua. Eppure, si ritrovò a considerare che quegli studenti, sebbene meschini ed inaffidabili, dall’animale che costituiva il simbolo della loro casata avevano ereditato anche classe e sensualità.
Avevano un alone intorno a loro, al punto che in mezzo a quel mare di Babbani non riuscivano – o non volevano – passare inosservati.

Vide Daphne Greengrass calzare un paio di corti guantini di pelle nera che, anche a quella distanza, davano tutta l’aria di essere morbidi come burro.
Portava i lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle, tenuti indietro da un sottile cerchietto d’argento.
La divisa della scuola, confezionata su misura, si intravedeva a malapena sotto al trench nero avvitato.
Conversava amabilmente con Pansy Parkinson, l’altra faccia di quella luna.
Forse, non era alta quanto Daphne, né possedeva la sua innata eleganza. E, forse, i suoi capelli scuri erano meno brillanti ed erano legati in una coda alta che non la valorizzava. Ma, malgrado ciò, non si poteva dire che non fosse comunque altrettanto bella.
Ebbe la conferma che quella mattina le stavano accadendo cose che non parevano aver alcun senso, visto che che non era proprio da lei fare caso a simili sciocchezze.
Eppure, non riuscì ad evitarsi di esaminare le proprie sneakers e di confrontarle con le costose scarpe di vernice dal tacco alto ai piedi delle due ragazze.

Doveva esserci seriamente qualcosa che non andava in lei.

Tornò ad osservare il suo mondo, così familiare e, allo stesso tempo, così inspiegabilmente diverso. Harry e Ron che si azzuffavano tra loro su chi avesse sviluppato maggiormente i muscoli delle braccia durante le vacanze estive, ridendo e scherzando come due bambini. Molly che continuava a redarguire Ginny sulla buona condotta che una giovane strega doveva tenere a scuola, Fred e George che si scambiavano di identità facendo impazzire loro padre.

L’istinto, però, la fece voltare nuovamente alla sua destra: anche tutti gli Slytherin erano ormai saliti diligentemente sul treno. Tutti tranne uno.

Era rimasto in disparte tutto il tempo, indossando un serioso completo nero che rendeva la sua pelle impossibilmente esangue. I suoi genitori gli stavano addosso come cavallette, continuando ad investirlo con un fiume di parole che tradiva tutta la loro ansia. E accadde qualcosa che non si aspettava: l’uomo viscido che aveva sempre schernito sia lei che i suoi amici, gli stava stringendo con forza la spalla destra. Le parve essere il primo vero gesto d’affetto che quell’uomo avesse mai rivolto in pubblico a suo figlio da quando li conosceva. Narcissa Malfoy si avvolse meglio nella sua pelliccia ed iniziò a camminare verso l’uscita, seguita dal marito a pochi passi di distanza.
Draco Malfoy era rimasto ancora una volta solo e la stava guardando.

Colta sul fatto, si affrettò a salire sul treno, quasi lasciandosi cadere sul sedile accanto ad Harry.
Quella strana sensazione tornò prepotente a far capolino tra i suoi pensieri, facendole girare la testa.

Ron si sporse repentinamente verso il sedile di Harry, cercando di bisbigliare, senza successo: il tono della sua voce saliva di ottava come aggiungeva nuovi dettagli.

“Miseriaccia, ti giuro che è tutto vero. L’ho sentito dire da Dean che l’ha saputo da Roger Davies che l’ha sentito dire da Adrian Pucey giusto poco fa. E’ una notizia dell’ultimo minuto. E pare che lo abbiano anche già rimpiazzato, nel giro di un quarto d’ora!"

“Dai Ron, è ridicolo: non esiste che si sia ritirato. Non dopo tutto quello che hanno fatto per farlo entrare in squadra al secondo anno. Vero Hermione? Hermione?”

“Terra chiama Hermione. Hai sentito quello che ha detto Harry?”

“Scusatemi, io ero…devo essermi…di che stavate parlando?”

Lo sguardo d'apprensione che le rivolsero non prometteva niente di buono. Chiuse gli occhi e sospirò: non aveva proprio bisogno di altra pressione.

“Ti senti bene? Sei così pallida, sembri la brutta copia della Dama Grigia.”

“Molto divertente, Ronald. Ad ogni modo, sto bene, devo recuperare solo qualche ora di sonno. Allora?”

“Draco Malfoy ha appena annunciato alla squadra di Quidditch il suo ritiro ufficiale.”
 
 

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Capitolo 4
*** When I look into your eyes, there's nothing left to see. ***


When I look into your eyes, there’s nothing left to see.
 
Era passata soltanto un’ora da quando, con un fischio deciso ed un breve scossone, il treno aveva lasciato la stazione di King’s Cross.
L’aperta campagna londinese si apriva attorno a loro e dominava incontrastata la visuale dei finestrini, al pari di una grossa macchia di colore ad olio, gettata sulla tela con la negligenza tipica di un quadro d’arte contemporanea.

Aveva fatto finta di partecipare alle chiacchere leggere dei suoi amici, annuendo distrattamente di quando in quando, ma non aveva la minima idea di cosa stessero dicendo.
Dalle risate, qualcosa di divertente. Forse. Non ci avrebbe scommesso.

Le sembrava impossibile trovare una posizione comoda – seguitare ad accavallare alternativamente le gambe non la aiutava affatto.
Malgrado ciò, cullata dalle voci spensierate dei due ragazzi, dagli schiamazzi provenienti dai sedili poco distanti e dal tintinnio sommesso del campanello del carrello dei dolciumi, iniziò ad affondare nel vortice nei suoi pensieri. Era troppo avveduta per non comprendere che – aprendo la porta dietro alla quale aveva trincerato i pensieri e quell’angosciante presagio – sarebbe stata costretta ad affrontarne le conseguenze. Non seppe trattenersi: la tentazione di scoprire che cosa le stava passando per la testa era troppo allettante.

Si sforzò di concentrarsi esclusivamente sul paesaggio: in quel caos di colore verde, puntini scuri e gialli, l’unica certezza era la sottile linea delle rotaie che, seppur sfocata, scorreva fluida come una serpe proprio sotto di loro.

Inconsciamente ripensò a Malfoy. Alla scena a cui aveva assistito alla stazione e alla notizia che aveva già fatto il giro del treno un paio di volte, riportando versioni sempre più improbabili, condite con dettagli piccanti. E il suo magone risalì dallo stomaco alla bocca, come un boccone indigesto. Le venne la nausea.

Luna Lovegood passò arrancando nello stretto corridoio proprio davanti a loro.
Portava con sé due ingombranti pile di riviste ed ignorava il mucchio di bolidi di pergamena che le venivano lanciati dietro dai suoi stessi compagni di casata.
Quel giorno, la sua proverbiale stravaganza nel vestire era rappresentata dalla terribile mantella da pioggia azzurro cielo con nuvolette bianche che indossava e dalla quale faceva scivolare via i resti bruciacchiati dei bolidi di Seamus Finnigan con un gesto indifferente delle spalle minute.
Per non menzionare, poi, gli strampalati occhiali da saldatore sollevati sulla fronte e che le scarmigliavano la frangetta.

“Ciao Harry! Una copia del Cavillo? C’è uno speciale sugli animali da compagnia posseduti dai membri del Ministero della Magia. Il Ministro ha un simpatico Crup di tre anni, l’ha chiamato Taffy.”

Harry era uno dei pochi a trattare Luna con un minimo di riguardo; la difendeva sempre e cercava di assecondare le sue manie perché nessuno sembrava voler essere suo amico.
Per certi versi, lui riusciva a capirla. Un vago senso di disagio le fece abbassare lo sguardo.

Fra tutti gli studenti Griffyndor, in fondo, chi meglio di lei avrebbe dovuto capire i sentimenti di Luna? Sopravvivere in un mondo in cui si era prede facili, disprezzate e guardate dall’alto in basso, dove il livello di emarginazione era direttamente proporzionale al grado di purezza del sangue.

Il sangue. La sola ragione per cui aveva sofferto le pene dell’inferno da quando aveva scoperto di essere una strega.
Si era dedicata strenuamente allo studio della magia, passando ore che sembravano infinite sui tomi polverosi della biblioteca che tanto amava, con la convinzione che – se avesse continuato a lottare e avesse dimostrato a tutti il proprio talento – alla fine avrebbero smesso di dirle che quello non era il suo posto.
Era il sogno di una bambina che voleva a tutti i costi appartenere a qualcosa più grande di lei. Ma, di lì a poco, giunse il disincanto.

Aveva reso i suoi occhi aridi dalle lacrime salate versate nei cubicoli dei bagni, sul cuscino del suo letto fino ad addormentarsi sfinita ed affranta.
Sarebbe anche potuta diventare la strega più temibile di tutta la scuola, ciononostante, non avrebbe mai potuto cancellare il proprio retaggio. Quella era la verità.
Per quanto Luna fosse una ragazza strana, venisse derisa, assieme a suo padre, e le facessero continui dispetti, nessuno avrebbe mai potuto farla sentire come riuscivano a far sentire lei. Indegna. Sporca. Senza valore.

E c’era soltanto una persona che sapeva padroneggiare quell’arte crudele con spiccata maestria; colui che quella mattina, soltanto guardandola, l’aveva fatta sentire trasparente come un pezzo di vetro.

Non c’era niente di niente per lei negli occhi d’argento di Draco Malfoy.

Harry sorrise di rimando nell’accettare di buon grado il giornale che la ragazza gli stava offrendo.
Ron, al contrario, aveva quell’espressione smarrita di chi si era perso un passaggio e non si curava nemmeno di nasconderlo in qualche maniera.
Non curandosi di lui, Luna sorrise soddisfatta, poi fece una piccola piroetta, sistemò alla meglio il carico di riviste e se ne andò.

Soltanto allora Ron Weasley si azzardò a pronunciare ad alta voce quella domanda che aveva tenuto occupate le sinapsi del suo pigro cervello.

“Ma che diavolo sarebbe un Crup?”

“Non ne ho idea. Anche se non mi fido…proviamo a leggere?”

“Figuriamoci! E’ un cumulo di idiozie. Se soltanto aveste seguito seriamente le lezioni di Cura delle Creature Magiche, sapreste che il Crup è una creatura molto simile al Jack Russell Terrier, ma che viene tradita da una coda biforcuta.”

Le sue riflessioni le avevano fatto cambiare repentinamente umore, dunque, parlò sfoggiando il miglior tono saccente di chi deve spiegare persino l’ovvio e roteò platealmente gli occhi al cielo.

 “E adesso se non vi dispiace, vado a dare una mano a Luna con le sue riviste. Sembrava un carico molto pesante per lei, come Caposcuola è mio dovere aiutarla.”

Se ne stava là, dritta in piedi, cercando di darsi un contegno che era lungi dal possedere in quel frangente e decisa a fare l’ennesima cosa assurda della giornata.
E come se ciò non fosse già abbastanza, si stava perfino giustificando. Con i suoi amici!

 “Luna!!! Aspetta!” Scattò nel corridoio e la rincorse. “Hai bisogno di una mano per portare quelle riviste…sembrano pesanti…”

Si. Doveva essere impazzita. Non c’erano più dubbi a riguardo.
 
Quando si fu allontanata, Harry si allungò sul sedile per richiudere la porta scorrevole del loro scompartimento, cercando di creare un po’ di privacy. Improvvisamente, l’aria si fece densa di dubbi e di preoccupazione. Si erano accorti entrambi di come Hermione fosse assente quella mattina e del fatto che non aveva praticamente detto una parola da quando erano partiti dalla stazione. Era un fatto del tutto insolito: non era mai successo prima d’ora.
 
“L’hai vista? E’ scappata via come una matta. Certe volte fa proprio paura. E poi è andata ad aiutare Luna con le sue riviste, quando solo un minuto prima le aveva definite idiozie.
Pagherei per sapere cosa ha in mente.”

“Hai ragione Ron, questo comportamento non è da lei, era così…nervosa. Hai notato come si muoveva sul sedile? Non riusciva a stare ferma! Forse è successo qualcosa durante le vacanze estive che deve averla turbata. Ma perché non dircelo? Voglio dire, a te ha scritto qualcosa nelle sue lettere?”

“No, non ha fatto riferimento a niente di particolare. Parlava per lo più di quanto sentisse la nostra mancanza e quella della scuola, dei compiti facoltativi che avremmo dovuto fare anche noi per metterci in pari. Però, ora che ci penso, mi ha scritto anche di una importantissima borsa di studio a cui voleva candidarsi e nella quale dovrà prendere un punteggio altissimo per classificarsi tra i primi quattro studenti.”

“Ne ha parlato anche a me. Deve essere qualcosa a cui tiene molto. Pensi che la sua agitazione possa dipendere da questo? Voglio dire Hermione è un genio, non dovrebbe essere così preoccupata per una cosa simile.”

“Già, sa sempre tutto. E’ quasi inquietante. Però, potrebbe anche essere. Se dovessi studiare come studia lei, credo che anch’io mi sentirei sotto pressione.”

“Puoi dirlo forte.”
 

Camminando dietro Luna con una pila di giornali inutili tra le braccia, non avrebbe mai pensato che quella si sarebbe rivelata un’esperienza interessante.
Ad esempio, da quando Neville Paciock faceva fatica a guardare Luna Lovegood negli occhi?
Al suo passaggio negli scompartimenti dei Ravenclaw, la maggior parte degli studenti si affrettava a far sparire ampolle contenenti pozioni sospette, bottiglie di Firewiskey e carte da poker. Marcus Belby e Roger Davies, decisamente alticci, la salutarono con un gesto buffo della mano, tentando di coprire coi loro corpi un tondo tavolino galleggiante.

Era pur sempre una Caposcuola, probabilmente tra le più pignole che si fossero mai viste ad Hogwarts, quindi non c’era da stupirsi che si comportassero in quel modo.
Eppure, si ritrovò a sorridere divertita: aveva sempre creduto che fossero gli Slytherin i più avvezzi ad infrangere le regole della scuola. Dopo i Griffyndor, naturalmente.

Arrivarono all’ultime due carrozze del convoglio; il finestrino della porta scorrevole in legno chiaro era oscurato da una tendina dove faceva bella mostra di sé il blasone della casata.
Non si riusciva ad intravedere nient’altro che poche sagome.

Quando Luna posò la mano sulla maniglia, fu quasi tentata di chiederle se fosse realmente intenzionata a voler entrare lì dentro.
Gli Slytherin non sarebbero andati molto per il sottile con Luna ed il giornale di suo padre, né tantomeno con lei.

Nel varcare quella soglia le parve di trovarsi su un altro treno: non c’erano scompartimenti e si poteva vedere tutta la carrozza senza impedimenti.
Le linee dell’arredo erano semplici e pulite, ma lasciavano percepire ugualmente il lusso che le caratterizzavano. I sedili in pelle, di un verde talmente scuro da passare per nero, erano più larghi degli altri e persino le cappelliere erano più capienti.

Era inspiegabile come Luna riuscisse a restare completamente indifferente ai commenti che gli studenti facevano ad alta voce sulla rivista e sulla sua mantella.
Hermione considerò che, probabilmente, non era stata affatto una buona idea seguire Luna in quella carrozza. Perché, anche se ostentava sempre in pubblico una sana dose di menefreghismo nei confronti delle offese, quelle parole, nel profondo, avevano tuttora un forte ascendente su di lei. E la facevano stare male.

“Guarda Pansy, Lunatica si è finalmente trovata un’amica. Non sono adorabili?”

Millicent Bulstrode, seduta comodamente nella sua poltrona, le rivolse uno sguardo che le sembrò scavarle dentro. Aveva due occhi da gatto, sottili ed imperscrutabili.
Non riusciva a reggere il confronto con le altre due ragazze sedute affianco a lei: aveva un fisico corpulento, i tratti del viso marcati e messi ancor più in risalto dal taglio corto dei capelli castani. La sua espressione era di vero disprezzo. Pansy Parkinson rise di gusto, facendo oscillare lievemente la coda dietro di lei.

“Suvvia, Millicent, non dimostriamoci così sgarbati nei confronti della nostra nuova ospite. In più non credo che il termine amica sia appropriato…carica com’è di quel ciarpame, sembra più una serva, non trovate?”

Dal fondo del vagone, sedeva dandole le spalle. Maledetto, Draco Malfoy.

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Capitolo 5
*** Bleed well. ***


Bleed well.
 
Hermione Granger era rimasta immobile.  

Il vagone si riempì di risate sguaiate, fischi d’approvazione e commenti sarcastici.
Non poteva vederla, ma avvertiva la collera montarle dentro come un fiume in piena.
In quel baccano, riuscì comunque a distinguere un rumore crepitante di carta appena stropicciata e seppe di averla nuovamente umiliata.
Lei stringeva le braccia – e quindi il loro contenuto – al petto come se quel misero gesto potesse rappresentare uno scudo in grado di salvarla.

Fece un piccolo ghigno compiaciuto: da quando l’aveva conosciuta, c’era un che di liberatorio nel ferirla. In una sorta di perverso meccanismo di catarsi, se riusciva a lordare con il fango degli insulti e delle provocazioni quella sua irritante aria stoica ed intoccabile, qualcosa dentro di lui sembrava placarsi.
Era quasi del tutto certo che fremeva per rispondergli a tono. Tutto pur di salvare la briciola di dignità che difendeva con le unghie. Benedette apparenze.

Voltò la pagina del libro che stava leggendo, senza mai alzare lo sguardo.

Quando conosci talmente bene il tuo nemico, si è capaci di optare per le tattiche che sai andranno certamente a segno. In quel loro gioco fatto di minacce più o meno velate, insulti ed incantesimi, sapeva che non degnarla neppure di un’occhiata mentre le rivolgeva la parola, aveva il potere di farla inviperire.

Curioso per una che, per natura, non era e non sarebbe mai stata una serpe.
Ad ogni modo, era quanto di meglio potesse aspettarsi: la rabbia poteva rendere una conversazione stupida alquanto stimolante.  

“Dicci, Granger, come mai non indossi anche tu la mantella degli sfigati?”

“Draco, per favore, non vale nemmeno la pena di infierire. Smettila.”

Daphne Greengrass. La schiena ben eretta nel sedile di pelle, teneva tra le mani una mela verde che faceva rigirare con eleganza tra le dita affusolate.
Fra tutte le studentesse Slytherin lei era la più ambigua: bella come una bambola, possedeva tuttavia un’intelligenza vivace che non lasciava trasparire nessuno dei suoi pensieri.

Quando gli occhi di Hermione Granger si voltarono per incontrare i suoi, addentò il frutto senza smettere di guardarla. Teatralmente inquietante.
Quello che poteva apparire come un debole tentativo di difenderla, altro non era che l’ennesima offesa.
Non si era intromessa in quella discussione perché provava compassione per la Granger, né tantomeno perché volesse offrirle il suo aiuto e tirarla fuori da quella situazione. Lei non provava niente, per nessuno.
Questo Draco lo capiva benissimo ed era assolutamente consapevole di quanto Daphne si sentisse superiore a chiunque altro su quel treno, cionondimeno, il suo intervento indesiderato lo infastidì.

“Non credo di aver chiesto un tuo parere, Daphne.”

“Spreca pure il tuo tempo, Draco. Per quel che me ne importa.”

Seguitò ad addentare la sua mela, senza distogliere lo sguardo da Hermione.

Durante quello scambio piccato di battute, qualcosa di scuro entrò nel ristretto campo visivo della coda del suo occhio sinistro.
Attese paziente la sequela di insulti poco originali che, di lì a poco, gli sarebbero piovuti addosso come pioggia torrenziale.
Ma, andando contro ogni sua aspettativa e prendendolo in contro piede, lei gli spiattellò un numero del Cavillo sul libro che teneva tra le mani.

“Ecco la tua copia, Malfoy. Vedrò cosa posso fare nel mettere una buona parola per te con il padre di Luna: chissà, magari riuscirai finalmente a rilasciare un’intervista in cui potrai spiegare a tutti come mai il più scarso dei cercatori nella storia del Quidditch, abbia avuto la decenza di dimettersi dopo essersi comprato l’ammissione in squadra.”

Quando si decise a guardarla, lei era lì, dritta come un fuso e con un’espressione bieca dipinta sul viso. Non diede affatto peso alle sue parole: credeva sul serio che quel patetico tentativo potesse turbare il suo umore? Diversamente, ciò che lo fece davvero adombrare di più fu il fatto che, per una volta, era proprio lei a guardarlo dall’alto in basso.

Allontanando da sé la rivista e chiudendo con un tonfo sordo il libro, si costrinse a dissimulare.
Quindi, inclinò lievemente il capo nella sua direzione, proprio come un uccello intento a studiare un insetto prelibato.

“Allora è vero che sei entrata ufficialmente a far parte del clan degli sfigati. Accidenti, non credevo che potessi scendere ancora più in basso, anche se, riflettendoci bene,” E nel dirlo si portò un dito al mento. “Effettivamente tu ti trovavi già all’ultimo gradino della catena alimentare, mezzosangue.” Sorrise. “Ad ogni modo, sebbene io fatichi a credere che la notizia non abbia già fatto il giro del treno, a me sta bene, Granger. Con la condizione che sia proprio tu la galoppina che terrà l’intervista.”

Le fece l’occhiolino e scoppiò a ridere di gusto. E non gli sfuggì come lei iniziò gradualmente ad arrossire, chiaramente non per la vergogna.  
Non lo sopportava, era così lampante. Era furiosa e in quel gioco di ruolo aveva ancora troppo da imparare.
Del resto, non aveva avuto l’allenamento privilegiato che aveva avuto lui.
Era una ragazzina ingenua ed impulsiva e lui sapeva esattamente quali corde tendere per tirare fuori il peggio di lei.

Lui la sfidava, creando trappole in cui lei sembrava non vedere l’ora di cacciarsi.
E ancora si chiedeva come facesse a non rendersi conto di quel subdolo trucchetto.
Theodor Nott, che sedeva alle spalle di Malfoy, si voltò mettendosi in ginocchio sul sedile per bisbigliare un commento osceno al suo orecchio.
Draco annuiva sogghignando, poi l’altro decise di proseguire alzando apposta il tono sbiascicato della voce affinché tutti potessero ascoltare.

“Guardala, Draco: da come ti guarda, sembra proprio che non veda l’ora di farti un bel servizio completo.”

Puntò gli occhi nei suoi, come spilli. Si permise di osservarli, alla fine, ed erano esattamente come li aveva visti in quella sorta di allucinazione: grandi baratri scuri, pieni di sordo rancore. Cedette per un solo momento al piacere effimero di sapere che quella era tutta opera sua.
E poi fu tentato di mandare in pezzi lo specchio di quello sguardo, soltanto per il gusto di scoprire quali segreti, quali paure, fossero nascoste nel recondito di quell’anima.

Ma per il momento, si limitò a rispondere all’insinuazione di Theodore.

 “Già, il tuo sguardo ti tradisce Granger. Servizio completo, eh?”

Hermione lasciò cadere il suo carico a terra ed i giornali raggiunsero il pavimento con un floscio rumore tamburellante.
Aveva divaricato leggermente le gambe per non perdere l’equilibrio, mentre stampava le sue cinque dita sulla faccia di Draco Malfoy.
Lo schiaffo centrò perfettamente la sua guancia destra e, nel giro di pochi attimi, un sottile rivolo di sangue prese a colargli dal naso.
Doveva concederglielo, era stato un colpo ben assestato, vigoroso, ma sicuramente non abbastanza forte da giustificare un epistassi.

Lei sgranò appena gli occhi nel guardare le minuscole gocce cremisi scivolare lentamente verso il basso, perdendosi nel nero della sua camicia.
Totalmente impressionata dalla sua stessa reazione, fece un passo indietro incespicando sulla carta, afferrò con decisione il polso di Luna Lovegood ed uscì immediatamente dal vagone. La porta scorrevole sbatté un paio di volte prima di restare chiusa.

Gli Slytherin restarono a guardare senza emettere un fiato, inamovibili, come se non fosse accaduto nulla di tutto ciò.
Per certi versi, fu grato della loro mancanza di istinto di protezione nei suoi confronti. Ne aveva avuto già a sufficienza.

Si ritrovò a sorridere ancora una volta: era proprio diventato l’ombra di se stesso. Il vecchio Draco Malfoy non sanguinato sotto il colpo di una donna.
Specialmente se la donna in questione era una infida mezzosangue. Il destino aveva un bizzarro senso dell’umorismo.

“Chi è causa del suo mal, pianga se stesso. Tieni, ripulisciti, così posso fermare l’emorragia.”

Blaise Zabini lo guardò con disapprovazione, ma gli porse un fazzoletto di stoffa, indicando con quel gesto le sue narici.
Poi estrasse dalla tasca del mantello la sottile bacchetta ed aspettò.

“Non preoccuparti, Blaise. Non c'è bisogno di  guardarmi in quel modo. In fondo è solo una manifestazione d’affetto.”

Passandosi la stoffa sulla pelle, avvertì un lieve capogiro, ma non disse nulla. Quando finì, la gettò con una smorfia sul tavolino.
Blaise che era un ottimo osservatore, fece finta di non notare le impercettibili goccioline di sudore freddo che gli imperlavano la fronte, sotto ai capelli biondi.

“Epismendo.” Poi volgendo la bacchetta verso il fazzoletto sporco, con un movimento leggero del polso disse “Evanesco.”
 
 

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Capitolo 6
*** Whispers. ***


Whispers.
 
Sospeso sul fiume nero, il treno sfrecciava sull’alto ponte di legno, sobbalzando nervosamente sui raccordi delle rotaie. Questo significava che erano quasi arrivati a destinazione e si sentì sollevata. Voleva scendere. Doveva scendere.

Continuò a camminare rapida nello stretto corridoio, sballottata di qua e di là, ignorando i colpi ricevuti a ciascuna oscillazione. Stringeva ancora saldamente tra le dita l’esile polso di Luna, trascinandola dietro di sé e facendole male. Tuttavia, non un gemito di dolore o di protesta abbandonò le sue labbra da bambina.

Lo aveva colpito. Come una povera sciocca aveva nuovamente perso il controllo: lui se ne era approfittato ancora, facendola abbassare al suo livello.
Sentiva il tarlo del senso di colpa cominciare a tormentarla, anche se non avrebbe dovuto affatto sentirsi colpevole. Lo aveva già colpito in passato, anzi, era stata persino capace di tirargli un pugno sul naso una volta. All’epoca quel gesto l’aveva fatta sentire potente e sicura, come se potesse finalmente liberarsi di un fardello fin troppo pesante. Ma, in quel momento, era tutto completamente diverso.

Lui l’aveva guardata in modo insolito, proprio come se il suo sguardo freddo e distaccato riuscisse a scavarle nel profondo, privandola di ogni difesa. Per quello e per la paura di essere troppo vulnerabile in quelle mani pallide, aveva desiderato punirlo. Eppure, mai avrebbe pensato di arrivare a farlo sanguinare.

Le tornavano in mente scene confuse e dettagli che non si ricordava nemmeno di aver colto: un curvarsi insolente di labbra, sottili ciocche bionde che seguivano il movimento del capo, piccole perle cremisi precipitare giù e venir inghiottite da un mare di tessuto nero, l’espressione sorpresa di un paio d’occhi grigi.

“Hermione, abbiamo sorpassato il mio vagone. Forse, dovrei tornare al mio posto.” 

Quelle parole ebbero l’effetto di un getto d’acqua gelida contro la pelle; si fermò di scatto, espirando lentamente per evitare che la voce uscisse rauca e malferma. E così quando si voltò verso Luna, era già tornata l’irreprensibile e disciplinata caposcuola della casa Griffyndor.  

La lasciò andare ignorando l’alone rossastro rimasto impresso sulla pelle diafana.

“Si Luna, ormai manca poco. Torna pure dai tuoi compagni di casata e dì loro di indossare la divisa se non lo hanno già fatto.”
 
Si attardò ancora un momento nell’osservare la figura minuta della ragazza più stramba della scuola, saltellare via in punta di piedi, come se questo potesse giustificare il fatto che non era ancora pronta a tornarne al suo vagone.

Rimasta completamente sola nel corridoio, sospirò. L’espressione stravolta del suo riflesso nel finestrino le confermò chiaramente che sarebbe stato un anno complicato e che aveva un assoluto bisogno di sistemarsi i capelli. Imprecando mentalmente, ravviò i lunghi riccioli dietro alle spalle, senza ottenere alcun risultato.

Quando si decise a far ritorno al suo vagone, lo trovò inspiegabilmente vuoto.

Ricontrollò i bauli e le due gabbiette degli animali, fece evanescere carte di cioccorane dal pavimento, cercando di concentrarsi su attività pratiche per evitare di rimuginare.

Il rumore improvviso della porta scorrevole la fece sobbalzare. Blaise Zabini, chinando lievemente il capo per entrare nello scompartimento, richiuse la porta dietro di sé.

“Sarebbe il caso che nulla di quanto successo nel vagone trapelasse all’esterno. Sono consapevole di quanto possa essere gratificante per te gloriarti di una simile vittoria con il resto della scuola, ma sono altrettanto certo che seguirai il mio buon consiglio.”

Nemmeno un preambolo, dritto al punto.

“Ti ha mandato Malfoy? Un gesto proprio degno di lui…in effetti, prenderle da una ragazza, scusami, da una mezzosangue, deve essere un affronto troppo grande da digerire persino per uno avvezzo come lui.”

Zabini sorrise, illuminando con la chiostra regolare dei suoi denti bianchissimi il volto scuro come l’ebano. Non vi era traccia di scherno, soltanto un sano divertimento. Si ritrovò a considerare che, malgrado fosse uno Slytherin, niente nel suo atteggiamento lo faceva apparire malvagio o calcolatore. E questo, probabilmente, lo rendeva ancor più temibile: non doveva fidarsi di lui.

“Ti sbagli. Sebbene credo sia impossibile dissuaderti dal contrario, anche perché in fondo hai perfettamente ragione: sarebbe proprio un’azione da Draco Malfoy. Comunque, per dovere di cronaca, sono venuto di mia spontanea volontà. E te lo ripeto ancora una volta, credo sia nel bene di tutti che questo episodio non diventi di dominio pubblico.”

Hermione si lasciò cadere pigramente su un sedile, accavallando le gambe ed incrociando le braccia. Non le era affatto sfuggita la solerzia con cui aveva ribadito il concetto e poteva anche comprendere che il ragazzo di fronte a lei stesse cercando di proteggere un amico da quello che poteva essere l’ennesimo scandalo della giornata, ciononostante, le sembrava quasi incredibile che Blaise Zabini arrivasse così vicino al supplicarla di fare la brava mezzosangue superiore e non farne parola con nessuno, soltanto per il bene di quella serpe di Draco Malfoy.

Un subdolo sentimento di potere e di rivincita sembrò, allora, far capolino nella sua testa, come una leggera vertigine inebriante di dolce trionfo. Aveva senso, dopo tutto quello che aveva passato, aver tanta premura nei confronti di un vile codardo come Malfoy?

“Non lo so, Zabini. Hai visto anche tu in quanti modi sono stata ripetutamente insultata oggi. Quanto valore credi che abbia per me una tua richiesta, seppur formulata in modo gentile, per difendere l’onore e la reputazione di chi mi ha ridicolizzata?” Lo guardò negli occhi, riducendoli a due fessure. “Per di più, non mi risulta che il nostro signor Malfoy si stia logorando nel pentimento né, tantomeno, che abbia avuto la decenza di presentarmi le sue scuse – che per inciso, non avrei comunque accettato – perciò, alla luce dei fatti, penso che non ci sia proprio nient’altro da aggiungere.”  

Il lungo fischio del treno e il progressivo rallentamento sentenziarono in modo inequivocabile la fine di quella conversazione. Blaise le rivolse nuovamente il suo sorriso aperto e si accomiatò con un cenno sbrigativo del capo.

L’aveva avuta vinta. Malgrado ciò, non appena se ne fu andato, la sensazione di veemenza di poco prima scemò via da lei bruscamente, lasciandola con un retrogusto amaro e la certezza di aver appena fatto l’ennesima scelta sbagliata.

Harry e Ron sbucarono dal corridoio giusto in tempo per vedere la larga schiena di Blaise Zabini uscire dallo scompartimento e defilarsi nella direzione opposta, verso il fondo del convoglio.

“Non era Blaise Zabini quello che è appena uscito dal nostro scompartimento?”

“Si, era proprio lui, Harry.” Hermione rispose senza dare troppa importanza all’argomento, si rialzò stirandosi pigramente ed iniziò ad allungarsi verso la cappelliera cercando di tirare giù il suo baule.

“E che diavolo voleva? Ti ha forse dato fastidio?” Il riguardo di Ron nei suoi confronti le scaldò il cuore. Quando gli rispose, si voltò verso di lui rivolgendogli un sorriso carico di affetto.

“Certo che no! Lui è…è soltanto venuto per informarmi della riunione di domani mattina. Per la borsa di studio. Essendo uno dei candidati, il professor Vitious lo ha mandato a fare il giro del treno ed avvisare gli altri.”

Bugie su bugie. Le uscivano dalla bocca senza sforzo e i suoi migliori amici non avrebbero mai messo in discussione la sua sincerità. Perché avrebbero dovuto? Detestava quello che stava facendo, ma pareva come se non potesse farne a meno.

Senza nemmeno parlare Harry e Ron la scansarono e presero il suo posto nel tirare giù i bagagli. Dalle facce che avevano, dovevano star faticando parecchio.

“Miseriaccia, Harry, ma perché soltanto il suo baule diventa sempre più pensante di anno in anno?”

Facendo una smorfia, tra uno sforzo e l’altro, Harry provò a rispondere.

“I libri, Ron, devono essere senza dubbio…”

Un allarmante scricchiolio preannunciò l’apertura delle fibbie usurate del baule, rovesciando tutto il proprio contenuto sulle teste dei due ragazzi. I tomi caddero tutto intorno con numerosi tonfi sordi e un forte odore di polvere e pergamena saturò l’ambiente circostante. 

“…i libri.” Concluse Ron, togliendosi un rotolo di pergamena aperto dalla testa quando ci fu finalmente silenzio.

Hermione roteò gli occhi al cielo, ma scoppiarono a ridere tutti e tre. 

 
Quando finalmente riuscirono a disporre i tre bauli sulla pensilina della stazione di Hogsmead, stavano ancora ridendo tra loro. Lentamente, si unirono alla coda formata dagli altri studenti per prendere una carrozza che li avrebbe portarti all’entrata della scuola.

Dean Thomas, passò svelto accanto al trio e dando una pacca sulla spalla ad Hermione le disse con tono fiero “Davvero ben fatto, Hermione.”

Hermione inarcò un sopracciglio facendo del proprio meglio nell’ignorare le occhiate curiose dei suoi migliori amici. Fu un compito piuttosto arduo: al loro passaggio si levavano mormorii e bisbigli, gli studenti più giovani e sfacciati continuavano a fissarli ed indicare verso la loro direzione prima di essere ripresi da quelli più grandi. Confusi, i tre ragazzi continuarono a camminare piano nella folla.

Anche Ernie Macmillan si fermò vicino ad Hermione per stringerle la mano e a lui si aggregarono anche alcuni studenti più piccoli di Ravenclaw e Hufflepuff.

“Complimenti, sei stata grandissima!”

“Davvero brava!”

“Gliene hai cantate quattro!”

“Vorrei così tanto essere coraggiosa come te!!”

Nel giro di pochi istanti, erano ormai circondati da un gremito gruppo di ragazzi, finché Padma e Calì Patil si aprirono un varco spintonando da parte due bambine e reclamando l’attenzione di Hermione con un tocco alla spalla.

“Hermione hai tutta la nostra stima ed il nostro supporto incondizionato.”

“Ragazze, sinceramente non ho la più pallida idea di cosa stiate parlando.”

Le due ragazze spalancarono gli occhi leggermente per la sorpresa.

“Abbiamo saputo TUTTO su come hai trattato Malfoy, questo pomeriggio. Non credo che nessuno mai abbia osato tanto nei suoi confronti. E comunque, se lo meritava davvero. Sei stata fantastica!”

Sorridendole ancora una volta e facendole l’occhiolino, si dileguarono così come erano apparse lasciando Harry e Ron ancora più disorientati ed attoniti che mai. Hermione, al contrario, sapeva perfettamente la ragione di tutta quella confusione ed il terribile presentimento che l’aveva afflitta tutta la giornata tornò prepotentemente alla carica.

Rimasero nuovamente soli e a quel punto Harry, che non sopportava l’idea di non essere stato messo al corrente di quello che stava accadendo proprio davanti ai suoi occhi, afferrò Hermione per un braccio.

“Hermione Granger, vuoi farci la grazia di spiegarci che diavolo sta succedendo qui?”

 

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