Fathers

di OtoyaIttoki
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo Due ***
Capitolo 3: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo Cinque ***



Capitolo 1
*** Capitolo Uno ***


Noi essere umani siamo creature davvero strane.

Perché fatichiamo a cancellare dalla nostra memoria i momenti tristi e ci lasciamo sfuggire quelli felici (seppur brevi)?

Non dovrebbe funzionare come con i messaggi che si ricevono via cellulare? Cestiniamo quelli che ci fanno schifo e salviamo quelli che ci rallegrano.

Evidentemente non è una cosa altrettanto meccanica, e all’inizio credevo anche io che fosse facile gestire gli alti e bassi della mia vita.

Vivevo in un mondo tutto mio, in cui mi rinchiudevo per proteggermi dagli altri e per non venire ferita. Sì, perché io ho sempre odiato rimproveri et similia.

Mi consideravo inattaccabile ed immune al giudizio altrui.

Stupidità o ingenuità? Interpretatela a vostro piacimento.

Ero cresciuta nella convinzione (utopica, s’intende) che potessi andare d’accordo con tutti se avessi mantenuto una certa neutralità, ma non avevo fatto i conti con la Vita che, ben presto, mi ha mostrato la crudeltà di cui è capace, nello stesso modo in cui un croupier dichiara la vittoria del proprio avversario durante una partita di poker.

E’ stato come aprire la finestra di casa in pieno dicembre e ricevere una ventata d’aria gelida sul volto.

Casa. Ecco, probabilmente ritenevo casa mia un rifugio sicuro, un luogo dove gli altri non avrebbero scalfito la corazza che avevo faticosamente costruito nel corso degli anni. Eppure, oltre ad un soffice nido, si era pian piano trasformata nella mia prigione.

Non vedevo vie d’uscita, mi sembrava di essere nel bel mezzo di una galleria con i fari della macchina spenti.

Ciò nonostante il problema era mio e, orgogliosa com’ero (e come sono tuttora), volevo superarlo da sola.

Che presuntuosa.

All’epoca non sapevo cosa volevo e quali fossero le mie priorità: volevo avere il ragazzo perché in diciannove anni di vita ero sempre stata single? Volevo la considerazione degli altri o un amico vero?

Forse volevo solo che mia madre mi indicasse quale strada prendere, come aveva fatto fino a quel momento. Non ricevere un input da parte sua, mi aveva lasciata spiazzata e incapace di riflettere.

Poi, finalmente, capii.

Io non avevo mai vissuto. Gli altri avevano sempre deciso al mio posto e io mi ero accodata alle loro scelte, accontentandomi di essere una mera controfigura e non la protagonista della mia esistenza. Tuttavia, ho finto che tutto ciò mi andasse bene perché avevo paura di rimanere sola (anche se, me ne resi conto in un secondo tempo, lo ero già da allora).

Ebbene sì, la solitudine è la mia più grande paura.

Con le mie cosiddette amiche non ero mai riuscita ad essere me stessa e ad aprirmi completamente, perché loro non avevano guadagnato la mia fiducia.

La fiducia, una specie di punto bonus dei videogames che si ottiene dopo aver superato livelli parecchio complessi.

Complice anche il mio carattere non proprio facile, mi allontanai da tutto e da tutti per rinchiudermi nel mio castello incantato, dove ero l’indiscussa principessa.

«È colpa degli altri se mi sono trasformata in un’asociale.» pensavo continuamente, arrovellandomi il cervello. Complessi, paranoie e via dicendo scandivano ogni mia giornata che scorreva lentamente.

Ormai mi ero abituata alla solita, monotona routine: andavo a scuola, tornavo a casa, facevo i compiti e poi navigavo in Internet, cercando di essere consolata da qualcuno che potesse comprendermi veramente.

Sì, ero soddisfatta della mia “nuova” vita, o meglio mi cullavo nell’illusione che andasse tutto bene o che la mia situazione potesse arrivare ad una svolta. Avevo preso troppe batoste e non riponevo la benché minima speranza negli altri che mi avevano fatto diventare quella che ero: una persona perennemente nervosa, scontrosa e incapace di tessere qualsiasi rapporto sociale, persino quello più banale.

Avevo paura, paura di tutto.

Erano tutti cattivi per me, tranne mia madre che, nonostante la sua rigidità, mi aveva cresciuto con amore, senza farmi mancare mai nulla. Contavo troppo sul suo appoggio e faticavo, dunque, a crearmi una mia indipendenza, probabilmente perché mi faceva comodo così.

Continuavo a recitare la parte della ragazza modello educata e per bene, incassavo i commenti sarcastici altrui senza ribattere perché temevo gli altri, e alla classica domanda “come va?”, rispondevo sovente “tutto bene, grazie”, inserendo anche un sorriso preconfezionato per essere maggiormente credibile.

All’esterno apparivo perfetta sotto ogni punto di vista.

La figlia o l’amica che chiunque avrebbe bramato.

In realtà ero debole e desideravo soltanto che qualcuno cogliesse la mia muta richiesta d’aiuto. Mi vergognavo a parlare con gli altri dei miei problemi o delle mie passioni perché temevo che mi giudicassero, che mi reputassero strana.

Così come evitavo di contattare i miei compagni per uscire: aspettavo che fossero loro a fare il fatidico primo passo, e quando mi chiedevano di uscire, mi sentivo quasi obbligata ad andarci, giusto per non sentirmi diversa dagli altri miei coetanei.

Gli argomenti restavano invariati ogni volta che ci vedevamo: al tavolo delle ragazze si spettegolava sui trucchi, sui vestiti o sul figo della scuola, mentre in quello dei ragazzi i topic principali erano il calcio e le avventure sentimentali (la versione edulcorata di “scopate”).

Che noia tremenda.

Continuavo a guardare l’orologio, pregando che le lancette si muovessero velocemente e che qualcuno si alzasse e proponesse di rientrare.

Ricordo anche che la volta successiva mi inventavo qualche scusa, una febbre improvvisa o un imprevisto, per saltare l’uscita serale.

Chiamatela presunzione, ma ritenevo i miei compagni totalmente diversi da me: non avevamo niente in comune e mi ero stancata di fingere interesse verso i loro inutili discorsi, quindi perché perdere tempo con persone del genere?

Con i maschi, soprattutto, mi sentivo a disagio. Se mi facevano dei complimenti o tentavano di baciarmi, mi ritraevo all’istante, temendo che avrebbero riso della mia inesperienza. Invidiavo un po’ quelle che si lasciavano andare senza alcun tipo di remora.

Volevo essere più coraggiosa, migliore.

Da chi potevo prendere spunto?

Ancora una volta da mia madre, che aveva messo da parte la sua brillante carriera da poliziotta per crescermi. E aveva dovuto arrangiarsi da sola, dato che mio padre aveva ben pensato di sparire nel nulla, lasciandola sola con una bambina a carico.

Avrei voluto ripagarla per tutto ciò che aveva fatto per me, e allo stesso tempo volevo godere ancora delle sue attenzioni.

Che egoista che ero.

Forse, se avessi avuto mio padre accanto, lui avrebbe posto un limite a certi miei capricci. Mamma mi ha raccontato che era un poco di buono e che aveva fatto soffrire molte persone. Chissà se anche lei rientrava tra queste.

Non parlava mai esplicitamente di lui ed escogitava sempre un modo per tenere a freno la mia curiosità; però, una sera in cui era particolarmente di buonumore, si lasciò sfuggire un’informazione preziosa: scoprii che avevo ereditato da mio padre il colore dei miei occhi. Non possedendo sue fotografie su cui basarmi, fu un vero successo per me.

Decisi che da quel momento avrei impiegato il mio tempo libero a ricostruire la sua vita per avere sue notizie, ammesso che fosse ancora vivo e che fosse al corrente della mia esistenza.

Diciamo che mio padre fu un pretesto per accantonare momentaneamente i miei problemi che si stavano moltiplicando come i fogli sulla scrivania di una segretaria.

Necessitavo una valvola di sfogo per interrompere la piattezza dei miei pomeriggi e per staccare la spina dai compiti che, ormai, mi riducevo a fare in tarda serata.

Avevo perso ogni stimolo, mi sentivo vuota e inutile.

Non volevo deludere mia madre che credeva in me nonostante i miei momenti di sconforto, ma nemmeno io credevo in me stessa.

Semplicemente, mi odiavo. Sì, è vero che durante l’adolescenza capita di non piacersi, tuttavia il mio non accettarmi era ben radicato dentro di me.

Mi consideravo inferiore agli altri e non avevo fiducia nelle mie capacità.

La ricerca di mio padre era un pretesto per mettermi alla prova, per vedere cosa riuscivo a combinare con le mie sole forze. La mia determinazione ogni tanto sconfiggeva la timidezza che mi teneva in scacco e dava sfoggio di sé, fiera come una leonessa.

Speravo in qualche modo di capire cosa volessi dalla vita.

Anzi, lo sapevo già: desideravo avere vicino a me una persona che mi accettasse per quella che ero.

Una persona speciale tutta per me, da non dividere con nessuno; lo ammetto, se mi affeziono a qualcuno, tendo ad essere leggermente possessiva e gelosa (questo perché ho costante bisogno di essere rassicurata).

E la trovai.

Il fatto è che accadde tutto talmente in fretta che non ebbi nemmeno il tempo di metabolizzare e rendermi conto della piega inaspettata che aveva preso la mia vita. Volevo cambiare, ma avevo paura a mettere in un angolo la mia quotidianità.

Avevo finito il liceo da un anno e vagavo pigramente per le strade di Tokyo, la città natale dei miei nonni: il lavoro come commessa in un negozio di calzature non era affatto appagante e cercavo qualcosa che mi caricasse a livello personale e che fosse in linea con ciò che avevo studiato.

Fin da piccola, sono stata molto ambiziosa, tratto in comune che condivido con mia mamma e affermarmi personalmente sarebbe stato un traguardo importante per una perenne insicura come me.

Con un paio di curriculum tra le mani, passai sotto l’imponente torre televisiva e attraversai la strada per dirigermi verso delle aziende che avevano destato il mio interesse. Le vetrine dei negozi mi lasciavano del tutto indifferente, nonostante fossero colme di cartelli che indicavano sconti e ribassi.

Lo shopping poteva aspettare.

Le indagini per ritrovare mio padre procedevano, seppur lentamente, anche se la mia fantasia non aveva resistito a tracciare un suo ipotetico identikit: lo associavo ad uno di quegli impiegati sulla quarantina che rientra dal lavoro sbronzo e che non ha la minima considerazione della propria famiglia.

Tuttavia, molti misteri ruotavano intorno alla sua figura e, sotto un certo punto di vista, questo lo rendeva affascinante ai miei occhi.

Solo questo, precisiamo.

Non avevo certo dimenticato la sua assenza nella mia crescita e non potevo perdonarlo così su due piedi.

Non avevo certo dimenticato i pomeriggi chiusi in camera mia a singhiozzare e a invidiare le famiglie felici degli altri.

Come al solito, avevo la testa tra le nuvole e non mi accorsi che ero finita addosso a qualcuno.

«Mi scusi, ero sovrappensiero.» dissi prontamente, chinando il capo e alzando poi lo sguardo verso lo sconosciuto. Aveva i capelli bianchi e soffici, gli occhi dorati e si stava massaggiando lo stomaco. Era decisamente più alto di me e dovevo averlo urtato in quel punto.

Inizialmente lo scambiai per un anziano, ma dopo averlo osservato con più attenzione mi resi conto che, ad occhio e croce, doveva avere più o meno la mia età.

«E’ così strambo che pare uscito dal mondo di “Alice Nel Paese delle Meraviglie”.»

Non so per quale motivo, ma mi venne spontaneo trovare una vaga somiglianza con il Bianconiglio. La gente intorno a noi continuava imperterrita a camminare, senza badare minimamente alla nostra presenza.

Era questo il bello di Tokyo: riuscire a passare inosservati in mezzo alla moltitudine.

«Tranquilla, non mi sono fatto niente. Certo che hai proprio la testa dura, eh!» ribatté divertito, sfoggiando un ampio sorriso e fissando con curiosità i miei occhi.

Come osava prendersi gioco di me in quel modo? Inammissibile. Corrucciai le labbra, iniziando ad elencare mentalmente tutti i difetti possibili di quel ragazzo.

Sorriso da ebete, pessimo senso dell’umorismo e…camice da medico.

Ok, quello non era propriamente un difetto, però nutrivo una spiccata antipatia nei confronti dei medici e degli ospedali in generale, dovuta ad un episodio che mi era capitato da piccola.

Brutti ricordi.

«Bene, scusami ancora, orsacchiotto.» lo punzecchiai ironicamente, imitando il suo sorriso perfetto.

«Mmh, è la prima volta che qualcuno mi chiama così…» ribatté lui, grattandosi la testa imbarazzato « Ah, io sono…»

«Nia River.»

«Co-come hai fatto?»

«Ho semplicemente letto il nome sul cartellino.» gli risposi con semplicità, indicandoglielo. Mi scappò quasi da ridere, notando la sua espressione sbalordita, come se avessi risolto un’espressione difficilissima.

Sembrava un bambino che si stupiva di ogni cosa.

«G-già, è vero che stupido…» biascicò lui con una risatina nervosa. Ancora mi stupivo di come, a volte, riuscivo a mettere a disagio chi mi stava di fronte.

«Posso offrirti un caffè per farmi perdonare...» il ragazzo rimase un attimo in silenzio, dopodiché riprese a parlare, portandosi il dito indice sotto il mento «non mi hai ancora detto il tuo nome.»

Cavolo, stavolta mi aveva colto in flagrante. Come avevo potuto commettere un errore così madornale? Proprio io che badavo in maniera maniacale all’etichetta.

«Hai ragione, mi chiamo…» all’improvviso il mio cellulare prese a squillare piuttosto insistentemente. Era raro che qualcuno mi cercasse, soprattutto di mattina.

«Forse una delle mie colleghe ha bisogno di un cambio turno…»

«Scusami.» gli diedi un attimo le spalle e mi affrettai a rispondere alla chiamata.

Le parole del mio interlocutore mi suonavano lontane, ovattate.

Tutt’a un tratto mi sentivo pesante e la gola si era fatta secca.

Metabolizzare. Ecco cosa dovevo fare.

Logica. Ecco cosa dovevo adottare.

Pareva che non mi ricordassi più come si faceva a parlare e che il tempo intorno a me si fosse fermato, nonostante le persone continuassero a svolgere le loro attività quotidiane.

Solo io mi sentivo fuoriposto, un’estranea.

«Ehi, va tutto bene?» la voce calma e pacata di Nia mi giunse all’orecchio con qualche secondo di ritardo.

Mi voltai lentamente e meccanicamente verso di lui e gli toccai un braccio.

Non avevo idea di quale espressione aleggiasse sul mio volto in quel momento, ma doveva essere veramente terribile, dato che Nia sembrava quasi preoccupato per me.

«Portami subito all’ospedale, ti prego.»

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Capitolo 2
*** Capitolo Due ***


Orsacchiotto.

Sospirai.

Tutto sommato l’incontro con quella ragazza era stata una delle cose migliori che mi erano capitate nell’ultimo periodo.

Trovavo faticoso alzarmi ogni giorno e indossare la solita maschera che ti condiziona totalmente la vita.

Vieni bidonato dai tuoi amici? Sorridi e porgi l’altra guancia.

Vieni deriso e umiliato? Sorridi e porgi l’altra guancia.

Vieni…ignorato da tuo padre? Sorridi e…

No, non ce la facevo più. Io desideravo, come tutti i figli, l’attenzione di mio padre.

Dopotutto era un mio diritto, no?

Io stimo mio padre, ma sono convinto che la cosa non sia reciproca. E’ sempre stato un tipo piuttosto restio a mostrare apertamente le proprie emozioni, però speravo che almeno con il proprio figlio smettesse di essere il terzo L, e si comportasse semplicemente da papà. Al contrario, è sempre stato distante, lontano.

Irraggiungibile, come la cima di una montagna difficile da scalare.

In fondo, io e lui siamo uguali (e non mi sto riferendo solo all’aspetto fisico): entrambi salviamo le persone, anche se in modo diverso. Lui è un famoso detective, la cui identità è protetta da uno pseudonimo, e tramite le sue strabilianti capacità deduttive riesce a risolvere anche i casi più complessi. Io, invece, aspiro a diventare un brillante medico nell’ospedale in cui pratico il tirocinio. Tuttavia, non ho mai voluto essere come quei medici finti che compaiono nei telefilm: belli ma superficiali, e con una lista di amanti lunga quanto un’autostrada.

Ecco, io vorrei rimanere me stesso, anche se tutti sostengono che questo sarà impossibile.

Dicono che prima o poi mi farò corrompere anche io dal dio denaro e che commetterò qualche azione sporca per emergere professionalmente.

Onestamente non so come andrà a finire, ma devo ammettere che le soddisfazioni migliori le ho ricevute proprio dal mio lavoro.

Un lavoro a cui ora mi aggrappo strenuamente, proprio come un paziente che lotta tra la vita e la morte.

Perché, a parte quello, non ho nient’altro.

Nessun’altro.

Sarò sincero: inizialmente, mi sono iscritto alla facoltà di medicina per dimostrare a mio padre che anche io ero in grado di  combinare qualcosa di buono nella vita.

Credo che inconsciamente l’ho fatto per farlo sentire fiero di me.

Per essere lusingato e lodato da lui.

Volevo fargli capire che la mia imperfezione non era un difetto.

Volevo fargli capire che, benché fossi totalmente diverso da mio fratello, anche io meritavo una possibilità.

La possibilità di parlargli, di stargli accanto.

Ma lui mi ha negato anche questo.

Da quando mia madre è venuta a mancare qualche anno fa, si è rinchiuso nella sua stanza, nel suo perenne mutismo e da lì esce raramente.

Diciamo che è sempre stato un solitario, ma ho notato che da quel particolare evento, questa sua attitudine è nettamente peggiorata.

Sono dell’opinione che il silenzio e l’indifferenza siano molto più “dolorosi” di un pugno, perché feriscono l’anima, il nostro essere.

Tra me e lui si è creato una sorta di muro, rappresentato fisicamente da una porta e “idealmente” dal suo “rifiuto” verso il mondo esterno, e quindi indirettamente anche verso di me.

Mi sono sempre chiesto cosa non andasse in me, se gli desse fastidio il fatto che avessi ereditato da mia madre il suo carattere ingenuo e sbadato.

Se assomigliassi troppo a lei.

Oppure, semplicemente, provava una sorta di rimorso per non aver potuto evitare la morte di sua moglie?

No, doveva esserci un’altra ragione.

Sì, perché Nate River è sinonimo di logica.

Peccato che con quella stessa logica avesse fatto terra bruciata intorno a sé.

Quando dobbiamo comunicare ci serviamo di mio fratello che è l’unico, oltre agli stretti collaboratori di mio padre, a poter accedere alla sua stanza.

Lo ammetto, un po’ lo invidio per questo.

Lui ha ereditato la genialità e il modo di fare di mio padre e io mi sono sempre sentito inferiore a lui, inadeguato, nonostante fossi io il più grande.

In pratica, non sapevo niente di lui, tralasciando la sua pagella scolastica, dato che toccava a me andare ai colloqui con i professori.

Decisamente squallida come cosa.

Spesso e volentieri, prima di coricarmi, mi sono chiesto se importasse solo a me della nostra famiglia.

Se valeva davvero la pena preoccuparsi per questa situazione.

Mi sentivo un po’ come un clown che cerca di attirare l’attenzione della folla.

Probabilmente ero solamente un patetico clown.

Mi mancava mia madre che, con la sua spontaneità e la sua sferzante allegria, era una fonte inesauribile di ottimismo.

Come avrà fatto a stare con un musone come mio padre? Avranno stabilito qualche compromesso?

Esisteva una persona capace come lei di rassicurarmi, di dirmi che si sarebbe risolto tutto?

Le ragazze con cui ero stato fino a quel momento erano interessate solo al mio aspetto fisico e al mio carattere troppo permissivo per comprendermi veramente.

I miei amici sostengono che io sia uno “stupido idealista romantico”, convinto dell’esistenza del vero amore, e che a ventitré anni ero, sotto certi aspetti, ancora infantile.

Non ho mai creduto nell’amore perfetto, però suppongo che da qualche parte nel mondo, o chissà magari proprio a Tokyo, ci sia una donna disposta a “sopportarmi”.

Una donna capace di valorizzarmi e di apprezzare la mia franchezza.

Lo ammetto, spesso capita che non riesco a tenere a freno la mia lingua e che dica la prima sciocchezza che mi passa per la testa.

Può darsi che la parola “stranezza” fosse un tratto comune della mia famiglia.

Ciò nonostante, arrivai alla conclusione che deprimermi non sarebbe servito a niente, solo a rodermi il fegato e a riempirmi il cervello di inutili paranoie.

Dovevo reagire e cambiare le cose.

Forse se gli fossi andato incontro, prima o poi mio fratello e mio padre avrebbero apprezzato i miei sforzi; fortunatamente la buona volontà non mi è mai mancata e prima di arrendermi volevo tentare l’impossibile.

E quella stessa mattina avevo ricevuto la mia prima soddisfazione personale.

Mio fratello Ate stava uscendo dalla camera di nostro padre, tenendo tra le mani un vassoio e una tazzina vuota. Solitamente ci dividevamo i compiti, improvvisandoci cuochi o dedicandoci alle faccende domestiche con risultati talvolta disastrosi.

Sia io che Ate eravamo dovuti crescere in fretta.

«Vado a scuola. Mi ha detto di augurarti buona giornata.» sentenziò mio fratello senza particolari inflessioni nella voce, dirigendosi prima in cucina e poi verso la porta con la cartella sulle spalle.

«Grazie, portavoce.» cinguettai ironicamente, mentre frugavo nella mia tasca e allungavo qualcosa verso di lui.

«E’ un portafortuna, l’ho comprato in un tempio shintoista. So che sabato avrai un concorso di pianoforte, verrò senz’altro a vederti.»

Ate mi lanciò un’occhiata perplessa: sicuramente stava pensando che fossi un idiota, però fu lui a sorprendermi maggiormente, accettando il mio amuleto.

«Fa’ come ti pare.» detto questo, se ne andò e io esultai euforico.

Che stessi iniziando a guadagnarmi la sua fiducia? Ci tenevo davvero tanto a costruire un rapporto con mio fratello che aveva sempre giudicato male il mio essere protettivo nei suoi confronti. Grazie al suo aiuto, avrei potuto parlare anche con mio padre.

«Meglio non fantasticare troppo, adesso è meglio che mi sbrighi o arriverò tardi al lavoro.»

 

                                                                       ~

 

«Ehi, va tutto bene?» le domandai, preoccupandomi per la sua reazione. Era diventata rigida come il marmo tutto ad un tratto e la sentii appoggiarsi a me.

Era la prima volta che qualcuno mi chiedeva aiuto e mi sentivo un po’ impacciato.

«Portami all’ospedale, ti prego.» sussurrò debolmente, socchiudendo gli occhi.

Essendo una metropoli, Tokyo vantava diversi ospedali e non sapevo dove volesse essere accompagnata lei.

« In quale ospedale vuoi andare? Dimmi almeno come ti chiami.» la esortai, appoggiandole le mani sulle spalle. La guardai negli occhi, incurante del loro colore rosso rubino, e accorgendomi solo in quell’istante del fatto che fosse sotto shock.

Cercai di rimanere lucido e di non comportarmi da semplice passante, bensì da medico.

«Al Tokyo International Hospital o qualcosa del genere. Mi chiamo Miho, Miho Misora.»

Conoscevo bene quel posto, dato che ci lavoravo. Senza perdere altro tempo, chiamai un taxi e in venti minuti (il traffico dell’ora di punta non perdona), giungemmo a destinazione. La porta scorrevole si aprì automaticamente al nostro passaggio, mentre le nostre narici vennero stuzzicate dall’odore di disinfettante che si respira in ogni ospedale.

Oltre a questo anche la sofferenza e il dolore erano facilmente palpabili.

Io, ormai, ne ero assuefatto, invece Miho storse leggermente il naso. Si fermò alla reception, dove c’era sempre un via vai di dottori e infermiere, e chiese qualcosa alla segretaria.

«La camera mortuaria è al piano inferiore.» le rispose l’impiegata con fare professionale, indicandole poi la direzione da prendere.

Dovevo chiederle cos’era successo o dovevo starmene zitto?

Dubbio amletico.

«Una mia amica è stata trovata morta nel suo appartamento, in circostanze ancora misteriose.» fu lei a rompere il silenzio e io gliene fui infinitamente grato. Prendere l’iniziativa non era mai stato facile per me, soprattutto in situazioni estremamente delicate.

«Mi dispiace.»

Cos’altro potevo dirle per consolarla? Dopotutto ci eravamo conosciuti da poco e non sapevo minimamente come comportarmi con lei. Miho chinò il capo in segno di ringraziamento, ma non si azzardò a parlare, persa com’era nel suo mondo.

 Le scale mi sembravano infinite, come se le avessi ripercorse in continuazione, fino a quando non arrivai davanti al timbratore.

«Precedimi pure, devi svoltare a destra. Sarò da te in un attimo.» mi accomiatai da lei per qualche attimo, staccando il badge che avevo attaccato al camice e passandolo la banda magnetica nel timbratore.

Solo in quel frangente mi accorsi di una cosa.

Pareva quasi che fossi il protagonista di un thriller che scopre un indizio di vitale importanza.

«Sul mio cartellino non è segnato il mio nome…come avrà fatto ad indovinarlo?»

 

                                                                         ~

 

Nel frattempo Miho giunse in prossimità della camera mortuaria, notando una piccola folla riunita intorno ai genitori di Emiko, la sua amica defunta.

Preferì rimanere in disparte e attendere il momento giusto per avvicinarsi, quando una voce, per lei sgradevole, la chiamò all’improvviso.

«Miho-san, è da un sacco che non ci vediamo.»

Raye Penber, uno degli investigatori a capo della squadra omicidi, si era appena materializzato davanti a lei.

 

 

 

Ringraziamenti et similia:

Volevo ringraziare chi ha recensito la mia storia, chi l’ha messa in una delle tre liste e chi ha letto soltanto: grazie per avermi dedicato un po’ del vostro tempo.

Lo stile e la grammatica sono molto importanti, tuttavia sarei ancora più felice se riuscissi nell’intento di dare una buona caratterizzazione ai miei personaggi, di renderli in qualche modo “veri”.

Forse pecco di presunzione, ma mi piacerebbe farveli amare così come li amo io.

Per concludere, cercherò di  aggiornare una volta a settimana e mi auguro di migliorare sempre di più.

Stay tuned!

OtoyaIttoki

 

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Capitolo 3
*** Capitolo Tre ***


«Miho-san, è da un sacco di tempo che non ci vediamo.»

Quella voce cordiale, condita da un sorriso pre-confezionato, risultava alquanto odiosa alle mie orecchie. Non era tanto la voce a infastidirmi, quanto il suo possessore: Raye Penber, uno dei detective a capo della squadra omicidi, trasferitosi diversi anni fa in Giappone dall’America.

Fisicamente, nonostante ormai non fosse più un giovincello, era ancora prestante e quindi appetibile per tutte le donne sulla quarantina rimaste single; per quanto ne so spesso i poliziotti esercitano un certo fascino sulle rappresentanti del gentil sesso.

Se sono americani ancora meglio, dato che vengono idolatrati e considerati gli “eroi” del mondo.

Anzi, diciamo che loro si divertono a farci credere di essere così, quando in realtà sono i carnefici di molti conflitti.

Al contrario, Penber era solo il protagonista di alcuni miei conflitti interiori…roba da poco.

«Buongiorno, Penber-san.» esordii formale, accennando un inchino ed evitando volutamente di guardarlo negli occhi.

Forse perché non volevo fluttuare nel falso perbenismo che dettava la maggior parte dei miei comportamenti.

O forse perché non volevo incontrare il suo sguardo indagatore che, in un certo qual senso, mi faceva sentire nuda, priva di qualsivoglia protezione.

Quanto mi piacerebbe dire tutto ciò che mi passa per la testa e, invece, come sempre devo adeguarmi agli schemi imposti dalla società.

In fondo, anche la libertà d’espressione ha le catene come i cani.

Sono convinta che se rivelassi a Penber la mia ostilità nei suoi confronti, mia madre ne rimarrebbe delusa, e questa è l’ultima cosa che voglio.

Non merita di soffrire ancora ed è giusto che si rifaccia la vita con un uomo che la stimi e la ami.

Ma che io, a pelle, non sopporto.

Nemmeno io ricordo bene come sia riuscito ad intrufolarsi in casa nostra, tuttavia so che in passato lui e mia madre hanno collaborato insieme a diversi casi; e a quanto pare oltre ad un legame lavorativo, se n’è creato un altro nella sfera sentimentale.

Comunque, la cosa che mi fa maggiormente innervosire è la sua apparente mancanza di difetti: è bello, gentile, onesto, disponibile e riempie di attenzioni mia madre.

Senza dubbio, il principe azzurro che tutte le donne sognano.

Che nel mio subconscio provassi una punta di invidia nei suoi confronti, dato che io non avevo ancora trovato una persona tanto speciale?

Talvolta mi è capitato di chiedermi se io fossi nata da una semplice avventura, frutto di un’attrazione reciproca, o se mia madre e mio padre fossero stati innamorati.

Almeno nel momento in cui mi hanno concepito.

«Mi dispiace molto per quello che è accaduto alla tua amica Emiko. Prima abbiamo interrogato velocemente i suoi genitori e sono sconvolti quanto te.» continuò Penber, appoggiandosi al muro e sistemandosi l’impermeabile, stropicciato in alcuni punti.

Se devo essere sincera, apprezzai il fatto che volesse mantenere una certa distanza da me e che non si fosse prodigato in qualche discorso strappalacrime o dal gusto ipocrita.

Essere compatita era l’ultima cosa che volevo in quell’istante.

Cercai di ritrovare la voce e di mettere da parte i pensieri riguardanti mio padre, nonostante non riuscissi ancora a capacitarmi della scomparsa di una delle poche persone che mi erano state accanto in questi anni.

«Miho-san, immagino come ti senti, ma visto che, a detta dei coniugi Sugiyama qualche sera fa sei uscita con Emiko, vorrei farti qualche domanda. Sai, le tue informazioni possono risultare molto utili per le nostre indagini.» aggiunse con un sorriso incoraggiante.

Ecco, avevo parlato troppo presto.

Raye Penber in realtà era un gran manipolatore: con il suo finto atteggiamento comprensivo e il suo sorrisetto “pulito”, ti metteva in trappola.

Mi guardai in giro alla spasmodica ricerca di un qualche espediente che mi sottraesse a quella tortura, ma l’ambiente circostante non offriva granché: il soffitto stinto in vari punti conferiva a quel luogo, già tetro di per sé, un’atmosfera ancora più lugubre e triste; il custode, intento a masticare un chewingum e a leggere una rivista porno, non poteva certo rappresentare una “valida scappatoia” e tantomeno il gruppetto di medici e infermiere che sostavano poco distanti da noi.

Eppure, tra di loro scorsi qualcuno di famigliare.

Nia.

Prima mi aveva detto che dopo aver timbrato mi avrebbe raggiunto, tuttavia lo vidi sparire insieme ad un collega proprio nella stanza dove giaceva il cadavere di Emiko.

Dalla sua espressione tesa e preoccupata, capii che non avrebbe assistito a qualcosa di bello e che non era il caso di disturbarlo per il momento.

Probabilmente era meglio dimostrarsi accondiscendente e collaborare con Penber, il quale mi fece accomodare su una sedia, forse nel vano tentativo di farmi rilassare.

Mi vestii del mio solito manto di indifferenza e provai a mostrarmi il più sicura possibile.

«Che cosa vuole sapere esattamente?»

«In che rapporti eravate tu ed Emiko? Dove siete andate quella sera?»

Trovai finalmente il coraggio di reggere il suo sguardo e notai che era diventato impenetrabile e professionale.

In quel frangente i suoi occhi mi sembravano uguali a due iceberg: non trasmettevano alcuna emozione e io non mi sentivo affatto a mio agio.

Necessitavo della presenza di mia madre e per tentare di dissimulare la mia paura, iniziai a tormentare il lembo della mia maglietta.

Era un’abitudine che avevo sin da piccola che “fuoriusciva” soprattutto quando mia madre mi esortava ad andare a giocare con gli altri bambini.

Cavolo, sarei stata un soggetto perfetto per qualsiasi psicanalista.

«Emiko ed io eravamo compagne di classe al liceo e, data la sua bravura nel canto, era stata ingaggiata da una casa discografica che le aveva promesso di farla emergere come idol. Era da tanto tempo che non ci vedevamo, visti i suoi impegni professionali, poi settimana scorsa mi ha mandato un’e-mail[1], dove mi chiedeva di incontrarci in un pub di Ikebukuro.» gli raccontai sommariamente, mentre un sommesso vociare riempiva il corridoio della camera mortuaria.

«E in quell’occasione lei ti ha confidato qualcosa? Aveva qualche problema o qualche nemico, magari proprio nel mondo dello spettacolo?» continuò Penber, annotandosi mentalmente il nostro dialogo e cercando di tracciare una sorta di identikit di Emiko.

«No, abbiamo chiacchierato del più e del meno, e le posso assicurare che Emiko non è, anzi non era, quel genere di persona.» puntualizzai vagamente piccata dall’insinuazione del detective «è sempre stata una ragazza socievole e altruista.»

Odiavo quando la gente saltava a conclusioni affrettate o si divertiva ad “etichettare” il prossimo.

«Perdonami, Miho, non volevo essere scortese e intaccare la memoria della tua amica, però dobbiamo vagliare tutte le piste possibili per giungere al colpevole. Non escludiamo la possibilità che possa essere l’ennesima vittima di un serial killer.»

Sentendo quell’ultima frase mi si gelò il sangue nelle vene.

«Quindi…pensate che Emiko sia stata uccisa da qualcuno?»

Bevvi avidamente ogni istante di silenzio del mio interlocutore, ansiosa di ricevere una sua risposta in merito. Mi si mozzò quasi il respiro in gola, tanta era la mia agitazione.

«Può darsi.» era chiaro come il sole che Penber preferisse non sbottonarsi, anche se, a mio modo, avrei escogitato qualcosa per tenermi sempre aggiornata sui risvolti delle indagini.

Magari sfruttando proprio mia madre.

All’improvviso, venimmo entrambi distratti dallo sbattere di una porta e da Nia che, facendosi largo tra la piccola folla appostata in prossimità della camera mortuaria, andò a sbattere contro Raye Penber.

Scrutai di sfuggita la sua faccia, dove aleggiavano lo sconforto e la disperazione, al contrario dei suoi senpai che uscirono tranquillamente e compostamente dalla stanza.

«Dovrà abituarsi.» sentii mormorare qualcuno di loro, mentre si toglieva la mascherina ed avvisava Penber dei risultati dell’autopsia.

La facevano facile, loro.

Abituarsi alla morte era tutt’altro che un gioco da ragazzi e io ne sapevo qualcosa.

Io stessa avevo visto la durata vitale di Emiko diminuire poco a poco.

Eppure non potevo rivelare a nessuno questo particolare, altrimenti mi avrebbero sicuramente preso per pazza.

Non so cosa mi spinse verso il bagno, dove Nia si era nascosto: con tutta probabilità volevo sdebitarmi con lui per avermi accompagnato all’ospedale.

E tutto sommato, mi aveva anche fornito il pretesto per allontanarmi dall’amante di mia madre; dovevo ringraziarlo anche per questo.

Un conato, due conati e tre conati.

Infine il silenzio.

«Hai bisogno di una mano o di un dito?» azzardai goffamente, appoggiandomi alla porta della toilette e sbirciando all’interno per controllare le sue condizioni

«Ah, Miho sei tu…no, ti ringrazio. Vedi, io sono a dir poco terrorizzato dalla morte e ogni volta che mi tocca fare questo genere di cose, sto male.»

La sua voce era debole, quasi un sussurro e il suo corpo piegato su stesso a causa degli spasmi.

Scommetto che se avessi accennato al mio potere, sarebbe svenuto seduta stante.

Ciò nonostante, non me la sentivo di colpevolizzarlo: noi esseri umani siamo spaventati dall’ignoto, da ciò che non conosciamo, quindi il suo comportamento era del tutto naturale.

«E’ stato orribile deturpare il corpo di quella povera ragazza…» si bloccò prontamente, come se si fosse reso conto di aver detto un’assurdità «scusa, dimenticavo che si tratta di una tua amica. Tu piuttosto come stai?»

Era ancora presto per elaborare un giudizio su di lui, ma Nia mi sembrava eccessivamente sensibile. Avevo imparato a mie spese che una sensibilità troppo spiccata, ti rende vulnerabile e vittima del prossimo, quindi comprendevo molto bene la sua sofferenza.

Mi sembrava quasi di rivedere la me stessa di qualche anno fa, prima che cambiassi “pelle”.

«Sto. Cos’è emerso dall’autopsia?» gli domandai, dopo aver deglutito un paio di volte.

«Sembrerebbe che si tratti di suicidio. Sul comodino della sua stanza da letto e’ stato trovato un blister di tranquillanti vuoto.»

Non riuscivo a credere a ciò che avevo appena sentito: una ragazza solare ed estroversa come Emiko aveva deciso di farla finita senza una motivazione più che convincente?

Condannavo a priori l’atto del suicidio, però non contemplavo una simile possibilità.

No, i medici si sbagliavano sicuramente.

Nia si sbagliava.

Dovevo scoprire com’era andata veramente e sapevo che c’era un solo modo per farlo: scavare nella vita privata di Emiko per ricostruire le sue ultime ore di vita.

«Miho, vorrei chiederti una cosa: stamattina ero sovrappensiero e non ci ho fatto molto caso, comunque sul mio badge non è riportato il mio nome per tutelare la privacy. Mmh, come hai fatto ad indovinarlo?» mi domandò Nia, osservandomi incuriosito.

«E adesso cosa mi invento?»

Ero talmente intenta ad escogitare una scusa plausibile che non mi accorsi minimamente di uno strano infermiere, dalla postura incurvata e dai capelli corvini che gli coprivano gli occhi, particolarmente interessato al nostro discorso.

 

 

 

Ringraziamenti et similia:

Salve a tutti e scusate la mia scomparsa, ma maggio è stato un mese completamente dedito allo studio e ho avuto davvero poco tempo libero.

Questo capitolo è stato un esperimento, dato che l’ho scritto sul treno, di ritorno da Trieste e con lo sguardo verso il castello di Miramare che, ahimè, non ho potuto visitare.

Spero che la mia storia vi piaccia ancora e grazie ancora una volta a chi ha commentato lo scorso capitolo^^

Yours sincerely,

Otoya Ittoki

 

 



[1] In Giappone, se non sbaglio, i cellulari non inviano sms, bensì e-mail.

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Capitolo 4
*** Capitolo Quattro ***


Armato di un cappuccino da passeggio e di una pazienza incrollabile, Stephen Loud, meglio conosciuto come Gevanni, percorreva a grandi passi un lungo viale asfaltato, puntellato di ciliegi in fiore che segnavano l’arrivo della primavera.

E la primavera, per milioni di persone, coincide anche con…

«Etciù! La mia solita allergia stagionale, cavolo.» borbottò l’uomo, mentre si soffiava il naso e si inoltrava in un complesso residenziale che ormai conosceva bene. Infatti, anche dopo che la vicenda Kira era stata archiviata, aveva deciso di rimanere un collaboratore di Near, trasformandosi anche in una sorta di suo “tuttofare”.

Se da un lato la mente brillante di Near “firmava” la risoluzione dei casi, dall’altro era lui a doversi occupare di interrogare le persone coinvolte negli omicidi o di recarsi sui luoghi dei delitti per ottenere maggiori informazioni.

In poche parole, era lui a rimetterci la pelle e a vivere sotto stretto contatto con il pericolo. Tuttavia, fin dai tempi in cui frequentava l’accademia, Gevanni aveva mostrato una certa insofferenza per il lavoro d’ufficio, preferendo essere operativo sul campo per mostrare il proprio valore effettivo. Preparatissimo sull’impiego di qualunque arma da fuoco o sulle più efficienti tecniche di spionaggio, non era, però, in grado di stilare un semplice verbale.

«Devo muovermi, altrimenti il cappuccio si raffredderà e Near mi sgriderà come al solito…»

Near andava protetto sempre e comunque, perché rappresentava una sorta di “speranza invisibile” per il genere umano.

Una speranza vicina, eppure così distante.

Con la morte del vero L, Near si era fatto carico di tutti gli oneri che comportava quella posizione e, agendo nell’ombra, cercava di far rispettare l’ideale di giustizia, protetto strenuamente dal suo predecessore.

Ovviamente agendo a modo suo.

Giunto in prossimità di un cancello grigio, rovinato in alcuni punti dalla ruggine, suonò al terzo citofono alla sua sinistra e gli venne aperto immediatamente.

Gli sembrava ancora impossibile il fatto che Near, per lui assolutamente incapace di tessere legami con qualcuno, si fosse sposato e avesse avuto addirittura due figli; anche perché nel corso degli anni non era affatto cambiato (forse aveva solo guadagnato qualche centimetro in altezza e un paio di occhiaie che diventavano ogni giorno più marcate): era rimasto il solito “nanetto” asociale.

Eppure, nonostante Near non concedesse agli altri la possibilità di conoscerlo, lui era riuscito a guadagnarsi uno spicchio della sua fiducia, che lo portò ad usare un tono più confidenziale e colloquiale, ma pur sempre rispettoso, con il suo capo. Al contrario, quando dovevano dare la caccia a Light Yagami, si sentiva quasi impacciato con lui, o addirittura inferiore.

Schiacciato dal suo genio.

Invece, con il passare del tempo, si era reso conto che Near fosse simile in tutto e per tutto ad un regalo: andava “scartato” poco alla volta per conoscerne il reale contenuto.

Oltrepassato il cancello e salita una rampa di scale, Gevanni trovò Ate ad accoglierlo sulla porta, il quale, colore dei capelli a parte, era praticamente la copia esatta di suo padre. L’uomo considerava sia lui che Nia come una sorta di figli adottivi, dato che li aveva visti crescere giorno dopo giorno: si ricordava ancora dei primi passi di Ate, dell’imbarazzo di Nia nel raccontargli la sua prima volta e dei guai che combinavano quando erano entrambi più piccoli.

Nella maggior parte dei casi i loro disastri e i loro capricci erano dei chiari segnali che lanciavano al padre per richiedere la sua attenzione, e Gevanni non aveva potuto fare a meno di chiedersi perché Near li ignorasse in quel modo.

Non si sentiva all’altezza?

Non era in grado di trasmettere loro un po’ di affetto?

O semplicemente non aveva recepito i loro messaggi?

Quest’ultima ipotesi era pressoché impossibile, dato che Near era in grado di capire ogni cosa con una facilità disarmante.

«Salve, Gevanni. Lui la stava aspettando piuttosto impazientemente.»

L’agente salutò il secondogenito, entrando poi in casa e sospirando alla vista di una moltitudine di spartiti, sparpagliati a terra insieme alla divisa scolastica dell’istituto privato che il ragazzo frequentava.

Evidentemente, il concetto di “ordine” non era stato geneticamente trasmesso ai figli di Near.

«Ate, capisco che ti stia esercitando per…»

«Perdoni la mia intromissione, ma sono io il responsabile di questo disordine. Stavo aiutando Ate a scegliere il brano da portare al prossimo concorso.»

La ramanzina di Gevanni venne interrotta dalla comparsa di un coetaneo di Ate che si prodigò a raccogliere con solerzia tutti i fogli abbandonati sul pavimento. Aveva i capelli rossi (chiaramente tinti), gli occhi castani e un piercing all’altezza del labbro inferiore.

«Mmh, pare un teppista travestito da bravo ragazzo.»

«Mi chiamo Kai Teshigawara e sono un compagno di classe di Ate. Piacere di conoscerla!» il ragazzo accompagnò la sua presentazione con un inchino e un sorriso cordiale, riconsegnando poi all’amico i suoi preziosi spartiti.

«Però, a prima vista, sembra più affabile di Ate.»

«Il piacere è mio, Teshigawara-kun. Il mio nome è Gevanni e sono…»

«Il nostro maggiordomo.» Ate completò la frase con naturalezza, lanciando al sottoposto di suo padre uno sguardo neutro «non le conviene perdere altro tempo o quel cappuccino sarà imbevibile.»

«Mi sa che hai demolito il vecchietto, Ate.»  mormorò Teshigawara divertito.

Gevanni fissò Ate con gli occhi spalancati: stava diventando dispotico quanto Near. Dov’era finito il tenero Ate che da piccolo si divertiva un sacco a giocare con lui?

Probabilmente, era scomparso con la madre.

Se da un lato Nia aveva trovato la forza di reagire di fronte a una perdita così grande, Ate si era chiuso a riccio in se stesso, rifiutando lo scorrere del tempo e reagendo apaticamente a ciò che gli accadeva intorno.

Era come se avesse negato a se stesso la condizione di vivere.

Viveva aspettando.

L’unica cosa che riusciva a scuotere il suo animo era il pianoforte e Gevanni era stato ben felice quando lui gli aveva chiesto di comprargliene uno, perché significava che anche Ate aveva trovato un appiglio.

Un appiglio che lo aveva salvato dal baratro.

Infine l’agente, rassegnato, si congedò dai due ragazzi, per poi dirigersi verso una porta, chiusa da un dispositivo computerizzato. Gevanni digitò una sequenza di numeri e questa si aprì, mostrandogli il “regno” di Near: una stanza circondata da monitor, perennemente accesi, tramite i quali il detective osservava il mondo e anche la vita in casa sua.

Si era sempre chiesto se Near non trovasse frustrante “spiare” i propri figli con delle telecamere, piuttosto che parlargli apertamente.

In mezzo a quel locale enorme e illuminato soltanto dalla luce artificiale dei computer, spiccava una figura bianca, rannicchiata su una poltrona.

«Ciuf, ciuf.» biascicò Near con voce atona, facendo scorrere un trenino sulla propria scrivania, dove stava studiando i dati relativi ad un caso.

«Ciao, Near. Ti ho portato il tuo solito cappuccino.» sentenziò l’ex membro dell’FBI, avvicinandosi al suo superiore e porgendogli la bevanda nella mano libera.

«Salve a te, Gevanni e grazie. Ci sono novità?»

Ormai Gevanni era abituato al fatto che Near gli desse sovente le spalle e si girasse a guardarlo solo nel momento in cui qualcosa destava il suo interesse.

E parecchie persone erano state ferite dalla sua costante freddezza.

«Sì, e per nulla confortanti. E’ stato trovato un altro cadavere; questa volta si tratta di una certa Emiko Sugiyama, un’idol. La polizia si è già messa all’opera e, se vuoi la mia opinione, credo che ci sia lo zampino di quel serial killer.»

Near sorseggiò il suo cappuccino, mettendo un attimo da parte il suo giocattolo e arricciandosi una ciocca di capelli intorno al dito indice. Ogni volta che rifletteva, ripeteva involontariamente quel gesto che si portava dietro fin dalla sua infanzia.

«La penso anche io allo stesso modo. Inoltre, sono convinto che molto presto la polizia chiederà il mio aiuto…fanno sempre così quando sono con l’acqua alla gola.»

«A proposito, Near, prima sono stato all’ospedale in cui lavora tuo figlio e, oltre ad aver incontrato Penber, mi sono imbattuto proprio in Nia. Gli ho parlato per qualche istante e mi ha riferito che ha assistito all’autopsia di quella ragazza. Era davvero sconvolto, forse…»

«Cosa ti aspetti che faccia, Gevanni? Ha scelto lui questa strada, sapendo a cosa andava incontro. E’ un’esperienza che gli servirà per crescere.» ribatté Near perfettamente calmo, mentre terminava di bere il suo cappuccino.

Per la seconda volta in quella giornata, Gevanni era stato interrotto da un componente della famiglia River.

In quel frangente, però, decise di obiettare.

«Near, stiamo parlando di Nia, non di uno dei tuoi giocattoli. Perché fuggi dai tuoi figli? Perché non hai il coraggio di dire loro la verità? Hanno il diritto di sapere che la loro madre è stata uccisa da quel serial killer, da quel B…»

Gevanni si pentì istantaneamente dell’ultima frase che aveva pronunciato con una certa durezza; con Near non aveva mai affrontato l’argomento, perché gli aveva sempre dato l’impressione che si sentisse in qualche modo colpevole per la morte della moglie.

«Mi dispiace, Near. Non volevo rievocarti brutti ricordi.» si scusò Gevanni, imbarazzandosi come quando un bambino viene colto con le mani in un barattolo di marmellata.

Il cigolio delle rotelle della poltrona e lo scricchiolio del tessuto di cui era formata, lo fecero sobbalzare leggermente, e notò con un certo ritardo che Near si fosse finalmente girato verso di lui.

Incontrava di rado quelle iridi color carbone, solitamente fisse sui giocattoli o sui computer, e si stupiva ogni volta di come fossero in grado di “trattenere” le emozioni.

«Gevanni, ascolta.» esordì apaticamente, torturando uno dei bottoni della sua camicia immacolata.

L’uomo tese le orecchie e sentì una melodia provenire dalla sala, segno che Ate si stava nuovamente allenando con il pianoforte.

Era una melodia delicata, ma impetuosa al tempo stesso che ben rappresentava i sentimenti contrastanti che si agitavano nell’animo di Ate: il suo comportamento distaccato e indifferente celava in realtà una grande solitudine e un’altrettanto grande insicurezza.

«Fino a qualche giorno fa sbagliava questo passaggio di continuo, adesso deve averlo imparato.»

 

 

«Near, quindi tu…»

Il detective tornò a dare le spalle al suo collaboratore e a concentrarsi sui monitor.

«Le batterie del mio treno elettrico si sono scaricate, potresti andare a comprarne delle altre, per favore?»

 

 

Ringraziamenti et similia:

Questo capitolo è stato un parto nel vero senso della parola.

Ho cercato di rendere Near il più IC possibile, dato che io per prima storco il naso quando sento puzza di OOC.

Grazie a tutti quelli che commentano, leggono in silenzio e inseriscono la storia in una delle tre liste <3

Yours sincerely,

OtoyaIttoki

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Capitolo 5
*** Capitolo Cinque ***


«Come hai fatto ad indovinare il mio nome?»

Le parole di Nia mi rimbalzavano nella mente  come uno di quei fastidiosi jingles pubblicitari che le reti televisive trasmettevano a raffica poco prima dell’ora di cena, per cercare di convincerti a comprare qualsivoglia tipo di prodotto (nella maggior parte dei casi inutile).

Fin da quando frequentavo la scuola, mi ero resa conto che viviamo in una società pervasa dal consumismo, in cui l’apparenza la fa da padrona: infatti, tutti i miei compagni di classe possedevano cellulari ipertecnologici ed erano iscritti a tutti i social network esistenti, dove si vantavano di avere mille e più amicizie.

Io, invece, non sono mai appartenuta al loro mondo, forse perché mia madre mi ha cresciuto nella semplicità e con la convinzione che le cose importanti fossero ben altre, come ad esempio il rispetto, la lealtà e la giustizia.

E’ proprio decantando e sottolineando l’importanza di quest’ultima che mia madre diventava assillante e monotona, anche se, a dire il vero, sono sempre rimasta indifferente a ciò che mi accadeva intorno.

Tuttavia, anche io mi ritengo in parte un’ipocrita perché, per compiacere il prossimo, mi sono finta qualcuno che non sono.

Mi sono crogiolata nell’illusione che con un’abbagliante esteriorità avrei potuto proteggere la mia parte più intima e vulnerabile.

Ma in che modo potevo spiegare tutto questo a Nia? Perché avrei dovuto regalare la mia fiducia ad un perfetto sconosciuto?

Perché avrei dovuto permettergli di investigare il mio animo?

Ero convinta che se gli avessi raccontato che ero in possesso di un potere che mi permetteva di vedere dei numeri sulle teste delle persone, mi avrebbe scambiato per una di quelle majokko[1] che popolano gli shoujo manga che mi capita di leggere occasionalmente.

O, nella peggiore delle ipotesi,  per un mostro.

Avrebbe potuto denunciarmi alla polizia (magari proprio a quell’odioso di Raye Penber) o, peggio ancora, farmi rinchiudere in uno di quei laboratori di ricerca, dove mi avrebbero trattato alla stregua di un’aliena.

Nia stesso poco prima mi aveva rivelato di essere spaventato dalla morte, quindi gli avrei sicuramente procurato un trauma.

Ops.

L’ho fatto di nuovo, o meglio, lo sto facendo di nuovo.

Ho dato qualcosa per scontato, senza dare all’altra persona la possibilità di conoscermi. Era questo il problema: chiudevo la porta del mio cuore per evitare che gli altri potessero rimanere delusi da me.

Era come se negassi a priori la mia stessa esistenza.

 Ciononostante ero consapevole del fatto che dovevo smetterla di accontentarmi della mia situazione, dovevo reagire ed essere io stessa l’artefice del mio cambiamento.

Solo rischiando e vincendo la paura dell’ignoto, avrei potuto crescere e trasformarmi in una persona matura e responsabile come mia madre.

Nia sarebbe stato inconsciamente il trampolino di lancio per uscire dalla mia prigione interiore; in quel frangente mi sentivo onnipotente, ma la mia insicurezza era sempre pronta a farmi desistere dai miei buoni propositi.

«Bè, adesso sarà meglio dare un taglio al mio trip mentale, altrimenti penserà sul serio che sono pazza.»

«A-a che ora stacchi dal lavoro stasera? P-prometto che ti spiegherò tutto.» la voce mi era uscita più tremolante e stridula del previsto, la gola era arsa come se fossi sperduta in mezzo al deserto. Perché non riuscivo a dimostrarmi distaccata come sempre? Probabilmente perché sentivo che la situazione mi stava sfuggendo di mano, quasi come se non sapessi nuotare e stessi annaspando verso il bordo di una piscina.

Nia sarebbe stato un valido salvagente? Mi sarebbe stato a sentire senza scoppiare a ridere?

«Mmh, stacco alle otto.» mi rispose lui, rialzandosi da terra e ripulendosi velocemente il camice.

Solo in quel momento mi ricordai che era un aspirante medico. Lui, a differenza mia, aveva trovato la sua strada e si stava dando da fare per realizzare il suo obiettivo.

Chissà se diventare un dottore per Nia era un semplice scopo oppure un vero e proprio sogno?

«Allora, ti aspetto all’uscita dell’ospedale per quell’ora, sii puntuale.»

«D’accordo, Miho-san, a più tardi!»

Il  caldo sorriso con cui Nia si congedò, mi spinse a volerne sapere di più su di lui e, mentre mi dirigevo fuori dall’ospedale, mi ritrovai a sperare che il tempo scorresse velocemente.

                                                                         

                                                                         ~

 

«E quindi, siccome la polizia non sa più che pesci pigliare con il caso Sugiyama, ha chiesto l’aiuto di Near. Mossa che lui peraltro aveva già previsto.»

Gevanni si muoveva con disinvoltura tra le strade di Ginza[2], alla ricerca di un locale dove poter mangiare un boccone e, nonostante non fosse più un giovincello, si divertiva a fissare il turbinio di gente che vorticava nel quartiere. Il sole era tramontato da un paio d’ore, ma il cuore della metropoli non accennava a smettere di pulsare.

Quando il lavoro, o meglio Near, gli concedeva una tregua, gli piaceva esplorare angoli della capitale sconosciuti ai più, dato che quei posti nascondevano sempre sorprese interessanti. L’ultima volta, ad esempio, aveva scovato un negozio di antiquariato gestito dai discendenti di una casata di valorosi samurai, vissuti nell’epoca Sengoku.

«Bah, eppure credevo che la polizia giapponese fosse più…»

«Gevanni, mi risparmi la solita filippica sull’inefficienza della polizia giapponese.» tagliò corto il suo accompagnatore con fare autoritario «piuttosto, perché non mi spiega il motivo per cui è venuto a prendermi a lezione di musica.»

Il profilo di Ate River era illuminato ad intermittenza dai neon delle insegne dei negozi e questo contrastava terribilmente con la sua espressione spenta. Di recente stava passando più tempo del previsto ad esercitarsi in vista del prossimo concorso, dove avrebbe voluto piazzarsi almeno tra i primi quattro. La maggior parte dei suoi avversari erano figli di musicisti di fama mondiale, tuttavia in quanto a determinazione e bravura lui non si sentiva secondo a nessuno. Inoltre, suonare il pianoforte lo aiutava ad accantonare i pensieri che di solito lo tormentavano, benchè sapesse che non poteva scappare all’infinito e che la realtà andava prima o poi affrontata.

«Mio fratello è stato più in gamba di me nel superare la morte di nostra madre.»

Era tipico di Ate mettersi costantemente a confronto con Nia, perché si sentiva in qualche modo inferiore a lui.

Nia riusciva a palesare con facilità i propri sentimenti rispetto a lui, che da quel maledetto giorno aveva sigillato le proprie emozioni nella parte più recondita del suo animo. Nonostante fossero trascorsi degli anni e lui era poco più che un bambino, ricordava tutto: le urla e le lacrime di disperazione del fratello, la rigidità e l’imperturbabilità di suo padre, l’odore di incenso che si spargeva per la casa e le forti braccia di Gevanni che lo avvolgevano. Eppure quell’abbraccio non era bastato a cancellare il vuoto lasciato da sua madre, colei che gli aveva trasmesso la passione per il pianoforte e che, come una sirena[3], aveva “divorato” parte dell’anima del figlio.

«Oh, andiamo, Ate potresti essere un po’ più gentile con il tuo vecchio compagno di giochi, no? Comunque, pensavo che potremmo andare a mangiare insieme da qualche parte, visto che oggi pomeriggio Nia mi ha telefonato, avvertendomi che non rincasava per cena. Cosa proponi? Un fastfood oppure…»

«Sta cercando di sostituire mio padre, Gevanni?» lo interruppe il ragazzino,bloccandosi e guardandolo di sottecchi «non è necessario, sono in grado di cavarmela da solo, come ho fatto finora. »

Ate River non aveva bisogno di niente e di nessuno, o almeno questo era ciò di cui era convinto lui.  Ate River doveva limitarsi a soddisfare le aspettative che il padre e Nia avevano nei suoi confronti. Ate River, in realtà, voleva essere compreso.

Oppure protetto?

Protezione: una brutta parola che conferisce una certa vulnerabilità e fragilità. O semplicemente è sinonimo di debolezza.

«E’ tale e quale a Near, orgoglioso e testardo fino al midollo. Accidenti, se solo si lasciasse aiutare…bah, farò a modo mio.» pensò Gevanni tra sé e sé, rifiutando di arrendersi e trascinando letteralmente Ate in un locale a caso.

«Ma che diavolo…?!»

«Coraggio Ate, sii meno orso e cerca di goederti la vita! »

Il ragazzino iniziò a protestare e a divincolarsi, accorgendosi dopo qualche secondo di aver urtato qualcuno che stava cercando di entrare a sua volta. Si trattava di un uomo di mezz’età, coi capelli neri e spettinati, gli occhi circondati da due profonde occhiaie e la schiena curva; inoltre vestiva un paio di jeans sgualciti e una maglietta bianca aderente che metteva in risalto la sua magrezza.

«Mi scusi, non l’avevo vista.» si giustificò Ate apaticamente, mentre l’altro gli rivolse un’occhiata lugubre per poi andare ad accucciarsi ad un tavolino poco distante da una coppia di ragazzi.

«Che strano tipo…pare uno zombie. Ehi, ma quello laggiù è…»

 

                                                                       ~

 

Il cambio di stagione equivale a una completa rivoluzione per i negozianti: bisogna allestire con cura e fantasia la vetrina con i nuovi modelli, riordinare il magazzino, controllare che i fornitori non si siano dimenticati di consegnare degli articoli; tutti compiti che richiedono un minimo di concentrazione e che io quel giorno non avevo. Ero riuscita ad infilare ad un manichino due scarpe di colori diversi, suscitando l’ilarità delle mie colleghe che si complimentarono con me per aver lanciato una nuova moda.

Diventai subito paonazza, sentendomi in qualche modo giudicata da loro.

La morte di Emiko, la corsa all’ospedale, lo sgradito incontro con Raye Penber avevano generato in me uno strano miscuglio di emozioni che andavano dalla tristezza alla rabbia, anche se, a mio parere, non era così facile classificare i sentimenti, così densi di sfumature.

Ripensai anche a Nia e a come avrei potuto introdurgli il discorso riguardo ai miei poteri: se da un lato avevo paura, dall’altro non vedevo l’ora di confessare la verità a qualcuno; senza contare che Nia mi aveva incuriosito non poco e…cavolo, avrei dovuto mentire a mia madre.

Sia chiaro, non mi aveva mai proibito di frequentare i ragazzi, ma se le avessi detto che mi sarei dovuta incontrare con uno sconosciuto, non l’avrebbe presa sicuramente bene, apprensiva com’è.

«Miho-chan, ti va di venire al karaoke insieme a noi? E’ uscito il nuovo singolo delle Morning Musume[4] e abbiamo una voglia matta di cantarlo!» mi propose Yoshida, una delle mie colleghe, a fine turno.

«Mi spiace, stasera ho già un altro impegno, ma la prossima volta verrò volentieri.»

Bugiarda.

A te il karaoke non piace e, allo stesso modo, fatichi a scendere a compromessi.

Mi accomiatai sbrigativamente, prendendo la metropolitana (stracolma di lavoratori esausti che desideravano arrivare a casa il prima possibile) e raggiungendo poi a piedi l’ospedale in cui lavorava Nia.

«Mmh, manca ancora qualche minuto alle otto…lo aspetterò qua fuori.» mi sedetti su uno dei gradini della hall e, senza rendermene conto, iniziai a scandagliare le persone tramite i numeri che vedevo fluttuare sopra le loro teste.

75929.

3610.

891.

24.

Più le cifre si assottigliavano, più la morte dell’individuo in questione si avvicinava.

Possedere questa capacità mi ricordava costantemente quanto fosse cruda e preziosa al tempo stesso la vita, ciò nonostante in quel momento decisi di accantonare quei pensieri cupi e avvisai mia madre tramite sms che quella sera avrei rincasato un po’ tardi perché ero fuori con delle amiche.

«Miho-saaaaaaaaan!»

Mi voltai verso la voce che mi aveva chiamato e vidi Nia corrermi incontro trafelato.

Avrei dovuto spiegargli che non sopporto sentire il mio nome sbandierato ai quattro venti, dato che non amo essere al centro dell’attenzione come gli idol.

«Ciao Nia-kun, com’è andata oggi? A proposito grazie ancora per stamattina.» mi interruppi un attimo, fissandolo da capo a piedi. Senza camice sembrava un ragazzo come tutti gli altri.

«Figurati, anzi mi dispiace per la tua amica. Oggi abbiamo parlato con un sacco di poliziotti ed è stato estenuante rispondere a tutte le loro domande… sono convinti che Sugiyama-san si sia suicidata.» si passò una mano tra i capelli, come se quel gesto potesse scrollargli di dosso la tensione accumulata nel corso della giornata «qui vicino c’è un posto dove fanno delle okonomiyaki spettacolari. Ti va se andiamo lì? Scommetto che tra poco sentirai il mio stomaco brontolare…ho una fame!»

Ammiravo Nia per la naturalezza con cui mi parlava, mentre io, a differenza sua, ero piuttosto tesa e nervosa.

«D’accordo, anzi affrettiamoci…sai, non vorrei averti sulla coscienza e improvvisarmi medico per soccorrerti.»

Se non altro, conservavo ancora il mio senso dell’umorismo e fui sollevata nel sentire Nia ridere.

La serata era cominciata nel migliore dei modi ed ero fermamente intenzionata a mostrarmi il più sincera possibile.

Dopo aver camminato per una decina minuti, approdammo nel locale scelto da Nia: era molto semplice e accogliente e, sebbene lo conoscessi solo da poche ore, rispecchiava in qualche modo la sua personalità. Dal modo affabile con cui lo salutarono i proprietari, ne dedussi che lui era una specie di habitué in quel posto, anche perché ci fecero accomodare ad uno dei tavoli migliori.

«Miho-san, sei sicura di stare bene?» mi domandò sinceramente preoccupato.

Mi aspettavo che mi sommergesse di domande riguardo alla mia vita privata e, invece, cogliendomi totalmente di sorpresa, si è informato del mio stato d’animo (fornendomi indirettamente lo spunto necessario ad introdurgli la questione del mio potere). Forse ero così meravigliata perchè oggigiorno sono poche le persone a cui importa concretamente sapere come stai.

«No, Nia-kun, non sto bene. La morte di Emiko mi ha scosso profondamente, soprattutto…»

«Ciao Nia, per te sempre il solito, vero? E la tua graziosa accompagnatrice cosa prende? »

Ok, avrei dovuto fare un discorsetto con il destino: ero finalmente riuscita a raccogliere la decisione necessaria per parlargli ed ecco che davanti a noi si palesa una vivace cameriera che mi fa addirittura un complimento.

Cavolo, un complimento.

Suona così rassicurante per la mia autostima e, senza dubbio, aveva smorzato il mio ennesimo dramma interiore.

«Sì, il solito, Mami-chan e per Miho-san invece...»

«Per me un okonomiyaki a base di pesce, grazie.» le risposi educatamente, osservandola allontanarsi «quindi sei un tipo abitudinario, Nia-kun.»

«Già, deve essere una caratteristica comune di noi River. Mio padre, ad esempio, manda il suo collaboratore tutte le mattine a prendergli il cappuccio nello stesso bar da almeno dieci anni. Ah, scusa per l’interruzione di poco fa, mi stavi dicendo qualcosa a proposito della scomparsa della tua amica…» si scusò Nia imbarazzato, giocherellando con la bottiglietta della salsa di soia.

“River” non era un cognome tipicamente giapponese, ma non fu quello a stupirmi maggiormente, quanto il ricordo di uno stralcio di conversazione avuta con Emiko l’ultima sera che l’avevo vista viva in quel pub.

«E visto che la mia ultima canzone ha spopolato, il mio manager ha preso accordi con una nuova casa discografica per farmi incidere un cd. Ma ci pensi, Miho?! Un intero cd di mie canzoni! Finalmente il mio sogno sta per avverarsi!» Emiko era al settimo cielo e strinse le mie mani nelle sue, esili e curatissime.

«Davvero?! Sono felicissima per te, Emiko-chan! Quando uscirà il tuo cd, dobbiamo assolutamente festeggiare!» le feci eco io, sinceramente contenta per la mia migliore amica. Avevo seguito tutta la sua carriera sin dall’inizio, accompagnandola ai provini e offrendole la mia spalla su cui piangere quando veniva scartata, quindi era come se quel successo fosse anche mio. Tuttavia per un attimo rabbrividii, ricordandomi di quanto poco tempo le rimanesse per portare a termine quell’ambizioso progetto; speravo con tutto il cuore di sbagliarmi e che non sarebbe toccato proprio a lei morire.

«Certo! E senti qua: il direttore dell’agenzia per cui lavoro ha pensato di far accompagnare al pianoforte una delle canzoni del mio album. Pare che per questo genere di cose si appoggino ad una delle scuole di musica più raffinate di Tokyo che sforna continuamente giovani talenti.» continuò Emiko, gesticolando concitatamente e controllando che il suo make-up fosse a posto.

«Capisco. Il pianoforte è uno strumento molto elegante e che sa trasmettere emozioni forti. Sai già il nome della persona con cui collaborerai?»

«Sì, è un ragazzino di nome Ate River. Domani il mio manager parlerà con il suo insegnante per combinarci un incontro! Chissà che la sua musica combinata alla mia voce non mi porti ancora più in alto!»

Mi portai una mano sulla fronte, scioccata. Dovevo assolutamente scovare quell'Ate River che, forse, avrebbe saputo fornirmi dei dettagli importanti riguardo alla mia amica.

In quel momento rivelare a Nia la particolarità del mio potere era passato in secondo piano.

«N-non preoccuparti. Piuttosto, Nia, vorrei chiederti una cosa, se non sono troppo indiscreta. Quando ho incontrato Emiko per l’ultima volta, lei mi aveva parlato di un certo Ate River che avrebbe dovuto duettare con lei. E’ per caso un tuo parente?» gli chiesi prontamente, guardandolo dritto negli occhi.

«Sì, è mio fratello minore, però non…»

«Nia, cosa ci fai qui?»

Una terza voce si era unita inaspettatamente alla nostra conversazione.

Una voce bassa, profonda e priva di inflessioni.

Una voce apatica che, però, mi scosse nel profondo dell’animo e che mi costrinse a voltarmi per vedere a chi appartenesse.

Dietro di me vi era un ragazzino non particolarmente alto, coi capelli e gli occhi neri come la pece, e l’espressione indifferente.

«Che tempismo, Ate! Stavamo giusto parlando di te. Io e questa ragazza ci siamo conosciuti stamattina, si chiama Miho Misora. Miho-san, questo è il mio fratellino, Ate!» proclamò Nia con un ampio sorriso, abbracciando scherzosamente il fratello che sembrò non gradire.

Come per magia, o per clichè, Ate River si era appena materializzato alle mie spalle.

 

 

 

Ringraziamenti et similia:

Uau, è da un sacco di tempo che non passo da queste parti, chissà se c’è ancora qualcuno interessato alle elucubrazioni mentali dei miei cari personaggi :P

Volevo ringraziare infinitamente tutti coloro che hanno recensito finora e anche quelli che hanno letto in silenzio e/o inserito la mia creatura in una delle tre liste; ho notato che, nonostante il mio periodo di inattività, le letture sono aumentate comunque <3

Yours sincerely,

Otoya Ittoki.



[1] Ragazzina umana che ottiene poteri magici da un essere magico. Alcuni esempi di majokko sono Magica Emi, Creamy Mamy, Sailor Moon.

[2] Quartiere di Tokyo rinomato per lo shopping di lusso, i bar e i ristoranti.

[3] Riferimento alle Sirene di Ulisse che con le loro voci ammaliavano e divoravano gli ignari pescatori.

[4] Gruppo femminile J-pop.

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