Cacciatori e Vittime

di Eriok
(/viewuser.php?uid=89301)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12. ***
Capitolo 13: *** 13. ***
Capitolo 14: *** 14. ***
Capitolo 15: *** 15. ***
Capitolo 16: *** 16. ***
Capitolo 17: *** 17. ***
Capitolo 18: *** 18. ***
Capitolo 19: *** 19. ***
Capitolo 20: *** 20. ***
Capitolo 21: *** 21. ***
Capitolo 22: *** 22. ***
Capitolo 23: *** 23. ***
Capitolo 24: *** 24. ***
Capitolo 25: *** 25. ***
Capitolo 26: *** 26. ***
Capitolo 27: *** 27. ***
Capitolo 28: *** 28. ***
Capitolo 29: *** 29. ***
Capitolo 30: *** 30. ***
Capitolo 31: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


Cacciatori e Vittime

1.

 

 

Compresi troppo tardi, nella mia corta vita, che ci sono solo due categorie d’esseri nel mondo: i Cacciatori e le Vittime. E imparai troppo tardi a quale delle due categorie io appartenevo.

Troppo tardi.

 

«Capo, dove cazzo sei!? Qui ci stanno massacrando!» Chiara urlava nella radio, mentre rumori di pallottole e grida risuonavano nella valle. La castana sparò contro il ghepardo che stava per azzannarla. Il suo cadavere venne scavalcato, mentre correva in aiuto dei compagni.

«CAPO!» chiamò ancora, mentre con velocità infilzava una tigre imbestialita che tentava di ghermire un compagno.

 

“Correre, correre.” Le foglie erano piccole frustate sugli occhi di Elisa, mentre correva alla velocità della luce. I suoi compagni stavano per perire. Dove intervenire.

 

«Eleonora! Dietro di te!» Chiara salvò la vita all’amica, che mitragliò un felino dietro di lei. D’un tratto il branco si fermò nell’attaccare, e si ritirò velocemente.

Chiara, con lo sguardo dubbioso osservava il fuggi fuggi generale degli animali selvatici, mentre i ragazzi sopravvissuti urlavano di gioia per la battaglia vinta.

«Questa fuga non mi convince…» mormorò alla compagna dai capelli neri. Eleonora fece un cenno d’intesa, intuendo i pensieri dell’amica.

«Ragazzi! Aiutate i feriti e torniamo alla base! Coloro che sono in forze e non trasportano feriti raccolgano più carne che possono!» urlò, per poi lanciare uno sguardo alla castana.

«La loro resa non mi convince Chiara, meglio battere in ritirata…» disse.

La castana osservò il cielo, color piombo dal giorno fatidico dell’esplosione. I suoi occhi castani si mischiarono a quelli azzurri della compagna.

«Neanche a me. Andiamocene.» e con velocità raggiunse il battaglione.

La maggior parte dei ragazzi era ormai partita alla volta della base, solo pochi erano rimasti, per racimolare ancora cibo e aiutare i superstiti.

Ma, d’un tratto, un urlo stridulo spezzò il silenzio forzato della foresta.

Eleonora alzò lo sguardo, scorgendo uno stormo di uccelli neri e zampe affilate dirigersi verso di loro.

«Dannazione, i battaglioni aerei! RITIRATA!» urlò agli uomini restanti, mentre altri tentavano di sciogliere lo stormo con spari di mitraglia.

«Non sprecate proiettili, FUGGITE NEI BOSCHI!» Eleonora intravide Chiara ancora nel mezzo della valle, ad aiutare una giovane ferita ad una gamba.

«Chiara, và via!» ma il suo richiamo non fece desistere l’amica. Con la rabbia disegnata sul volto la raggiunse, afferrando la ragazza ferita caricandola sulle spalle.

«Andiamocene, presto!» urlò la castana, mitragliando gli uccelli ormai a pochi metri da loro per coprire la compagna.

Eleonora intanto aveva raggiunto un manipolo di ragazzi, scaricando la ferita e lasciandola a loro.

Con orrore intravide la compagna cadere in mezzo alla valle, alla mercé dei rapaci.

«CHIARA!».

 

“Correre, correre” veloce e decisa, l’ordine nella sua mente rimbombava. La radura ormai a pochi metri da lei, e la sua vista colse i rapaci in posizione d’attacco. E Chiara ferita a terra.

“Correre, correre… Correre ed attaccare” e il comando cambiò.

 

La ragazza dai capelli neri tentò di correre in aiuto dell’amica, sparando agli uccelli intorno a lei, tentando di darle una via di fuga. Ma non si alzava, e stringeva con dolore una gamba.

«Chiara, alzati!» urlò, prima di mitragliare un rapace a pochi metri da lei. l’essere cadde a terra, tra i rantoli del dolore. Eleonora afferrò il braccio dell’amica per sollevarla, ma si ritrovò sbalzata a terra da delle forti tenaglie acuminate.

«AH!» urlò dal dolore, il braccio completamente scorticato.

«Eleonora!» la castana l’afferrò, portandola a terra. E alzando lo sguardo si scoprirono entrambe finite.

I rapaci puntavano a loro, con i loro becchi affilati e le loro zampe acuminate.

Fu un ruggito a distanziarli da loro.

Un ruggito di rabbia e potenza.

Davanti a loro un essere, né donna né pantera. Il volto trasfigurato, con tratti animaleschi. Il corpo leggermente deformato e ingigantito.

Un nuovo ruggito si propagò nella valle, disperdendo temporaneamente i rapaci nel cielo plumbeo.

«Fuggite!» urlò l’essere, con voce roca e gutturale. Parlare le risultava faticoso.

Ma Chiara rispose.

«Io non riesco a camminare, ed Eleonora è svenuta!» rispose trillando, tentando di far rinvenire la compagna dagli occhi azzurri.

Ele… te ne prego, riprenditi…” nel cuore un timore mai avuto prima.

Un rumore di ossa scricchiolanti e leggeri rumori ringhianti le fece levare lo sguardo, trovandosi davanti la vera essenza della bestia: una donna dai corti capelli scuri e occhi castani.

Afferrò con forza Eleonora, caricandola su di una spalla, per poi tentare di afferrare anche l’altra, non riuscendoci.

«Va via senza di me, salva lei!» le disse, capendo le intenzioni della donna. Elisa la guardò, scorgendo nei suoi occhi un timore per l’amica mai scorto fino a quel momento.

«Va! Te ne prego!» e nei suoi occhi neri scorse la paura. Mista a lacrime.

Silenzio. E un ricordo doloroso riaffiorò nell’animo della donna dagli occhi scuri.

«No.» e con quella parola ritentò, prendendole entrambe sulla schiena.

Di nuovo quel suono di ossa incrociate e ringhi sottomessi.

E Chiara si ritrovò sul dorso di una pantera, con Eleonora stretta davanti a sé, mentre fuggivano veloci alla base.

I rapaci, riprendendo coraggio però, stavano già ritornando alla carica, tentando di afferrare le due donne ferite sul dorso del mezzo animale. Un nuovo ruggito si propagò, ma stavolta non funzionò. L’essere tentò di disperderli, fuggendo attraverso la vegetazione fitta. Nel verde acceso della foresta, Elisa tentava di arrivare alla base, unico luogo sicuro.

Raggiunsero in fretta la città vicina, e il grigio del cielo si mischiò alla terra, rinnovando la maledizione dell’uomo: il cemento. Correndo per le vie abbandonate e saltando gli ingorghi di macchine arrugginite raggiunsero il centro, dove a pochi passi stava la base. Gli uccelli erano ancora su di loro.

“Correre, correre.” Nella mente della donna rimbombava solo quella parola. E sulla sua schiena sentiva le mani di Chiara stringerla forte, mentre il corpo di Eleonora stava morto trattenuto dal corpo della compagna.

L’apertura dell’edificio era a pochi metri.

“Correre, correre.” I rapaci continuavano ad attaccarle in picchiata ed Elisa tentava di correre zigzagando, per evitare i colpi d’artigli. L’avevano accerchiata, e Chiara stava urlando per i rapaci che tentavano di ucciderla. Meno male che aveva ancora con sé una pistola. Colpi di proiettile mandavano urli acuti nella piazzetta, mentre Elisa saltava da una parte all’altra per aprirsi uno spazio in mezzo alla miriade di piume e becchi acuminati. Poi, un buco creatogli dalla mora.

Con un balzo Elisa si buttò letteralmente nell’imboccatura, salvando entrambe le ragazze e se stessa.

 

«Bravo, Capo! Le hai salvate!» urla di vittoria giovanili si proruppero nell’entrata. Mentre la donna, tra i rumori di ossa scricchiolanti e ruggiti trattenuti, ritornava alla forma umana.

«Presto, portale in infermeria!» ordinò la giovane, autoritaria. Chiara ed Eleonora vennero poste su delle barelle e portate di corsa nei corridoi.

Pacche amichevoli e urla di vittoria ancora echeggiavano nell’entrata.

«Silenzio!» urlò. Un urlo selvaggio, autoritario. Con un leggero sentore animalesco nella voce. E silenzio fu.

«Voglio un rapporto immediato della spedizione.» parlò, per poi dirigersi a passi sicuri verso la centrale operativa. La donna, soprannominata Capo, in realtà si chiamava Elisa. Il cognome nessuno lo conosceva. Aveva solo 23 anni, eppure in quello stabile, era la più vecchia. L’unica persona che aveva più anni di lei era Amir, il medico di colore, che di anni ne aveva 26. Non aveva neanche l’intero dottorato in medicina.

Elisa camminava, contornata da ragazzi giovani che parlavano come soldati.

«Abbiamo perso due ragazzi e una ragazza nello scontro, ma in compenso abbiamo guadagnato almeno sei cadaveri di felini.» parlò un ragazzo moro e alto alla sua destra. Una cicatrice profonda deturpava la sua guancia, finendo fin in fondo al collo.

«Hanno combattuto con onore. Che riposino in pace.» mormorò, per poi farsi il segno della croce, subito imitata dal resto del gruppo.

Raggiunse un portone, subito aperto da ragazzini, nel salone un grande tavolo elettronico.

«Giacomo, il rapporto dell’area?» chiese la donna, parlando ad un giovine dalla cresta viola vestito di un camice troppo grande per lui. Una catena cingeva il suo collo.

«Abbiamo analizzato i dati che i tuoi combattenti mi hanno consegnato, e abbiamo scoperto un’altra zona acquifera qui vicino.» rispose, parlando da una postazione computerizzata.

«Dobbiamo impadronircene il più presto possibile. La nostra vecchia fonte ormai è quasi prosciugata… Adrian!» urlò la donna trovandosi subito scattante un ragazzo dai biondi capelli, lunghi fino alle spalle.

«Agli ordini!» rispose, facendo il saluto militare.

La donna sospirò scocciata.

«Smettila di fare il pagliaccio e ascoltami. Fatti dare le coordinate della fonte d’acqua da Giacomo, poi prendi una squadra di ricognizione e d’idraulica e vai a prenderne possesso. Quell’acqua ci serve il più presto possibile.» ordinò severa. L’uomo fece un cenno d’intesa e corse a compiere il suo dovere.

Quando raggiunse un enorme tavolo rotondo, si sedette su l’unica sedia lì vicino.

Sul tavolo un enorme mappa della zona fino ad ora conosciuta da loro.

Al centro la città, con le vie agibili e quelle bloccate dalle macchine. Con bandierine rosse le tane dei felini. Quelle verdi le tane degli erbivori ancora esistenti.

In giallo le altre basi sicure, proprio come quella, dislocate una nella foresta, ben mimetizzata. L’altra nelle montagne, ingoiata dalle imboccature tutte uguali. Mentre analizzava con sguardo deciso la mappa interattiva sentì un rumore di radio.

«Qui parla Amir, Infermeria.» una voce profonda e scura.

La donna sorrise, afferrando il talkie walkie e rispondendo.

«Qui parla Elisa, ti ascolto.» affermò, poi lasciò la presa sul bottone, aspettando il tono scuro.

«Raggiungimi, ho bisogno di te.» il tono preoccupato dell’uomo fece dubitare la ragazza, facendola inquietare.

«Arrivo subito.» e con quello abbandonò la sedia per dirigersi con passo veloce per i corridoi dell’edificio.

I corti capelli scuri, con semplice taglio militare, non faceva intuire la natura di essi. Gli occhi scuri, castani e profondamente indefiniti erano indecifrabili. Dei graffi sulla guancia sinistra facevano intuire una ferita di guerra contro un felino. Il semplice corpetto militare lasciava poco all’immaginazione. I pantaloni, militari anch’essi, nascondevano armi in ogni anfratto, e le pistole in bella vista non stonavano con le lame al loro fianco, ben arpionate al corpo della donna. Gli anfibi ai piedi davano un suono sordo al suo passo sicuro, e il tintinnio continuo delle lame lo rendeva inquietante. In apparenza una donna normale, se non fosse per una coda felina che spuntava dal dietro dei pantaloni, completamente nera.

«Cosa c’è Amir?» domandò la donna, raggiungendo l’uomo su un paziente urlante e scatenato.

«Non riesco a fermarlo, e i miei aiutanti vengono sbalzati da lui. Aiutami.» parlò l’uomo con calma, mentre in mano teneva fermo una siringa ripiena di liquido trasparente.

La donna afferrò con forza le braccia del ragazzo, bloccandogli le gambe con la presa a forbice. L’uomo fu veloce e preciso nell’iniettare il calmante e dopo pochi secondi il ragazzo cadde in un sonno profondo.

«Grazie.» rispose cordiale l’uomo, per poi curare il malessere del ragazzo.

Elisa fissò il ragazzino biondo che aveva bloccato. All’apparenza aveva 13, forse 14 anni.

“Così stramaledettamente giovani, e già dati in pasto al mondo…” pensò la donna, indagando le altre barelle, piene. Intravide i capelli castani di Chiara chini su di una, e decise di raggiungerla.

Chiara stava piangendo, poggiata sul corpo dell’Eleonora completamente insanguinato. Un braccio completamente martoriato, arrivando fino alle ossa.

Elisa posò una mano sulla schiena della compagna, facendola sussultare. E i suoi occhi neri incontrarono quelli color cioccolato.

«Elisa…» mormorò tra le lacrime, per poi tentare di alzarsi. Ma la gamba ferita le fermò a metà l’azione.

«Sta buona, e non ti preoccupare… sta pure seduta…» e per cordialità si chinò, arrivando all’altezza dell’amica.

«Elisa… l’Ele… si è sacrificata… per me…» soffiò tra le lacrime, mentre tentava in tutti i modi di asciugarsi e di fermarsi. Ma non ci riusciva.

Elisa l’avvolse, prendendola in un abbraccio duro, ma confortevole.

Chiara scoppiò, piangendo ancora di più, mentre da dietro di lei Amir indagava il braccio della donna sulla barella.

«Sii sincero Amir.» chiese la mora, parlando da sopra la testa della compagna castana.

«Come sempre, amica mia.» rispose, sistemandosi gli occhiali sul setto nasale. Fissò lievemente le condizioni della mora, per poi leggere una cartella poggiata sul comodino vicino.

«Non è messa bene… ma se la caverà.» parlò poi, mentre con velocità e sicurezza si metteva i guanti per intervenire.

Chiara sussultò dalla spalla di Elisa, mentre la donna la guardava sorridendo. Scorgendo nei suoi occhi un sollievo tale da non farla smettere di piangere. Versava lacrime per un motivo totalmente diverso ora.

Le diede delle leggere pacche sulla spalla per poi sussurrarle delle parole che fecero strabuzzare i suoi occhi neri:

«Non avere paura di parlare con lei di questo nuovo sentimento che provi… Non è male, Chiara. È amore. E l’amore non è mai un errore.» e con quelle parole si alzò, sorridendo alla ragazzina seduta su quella sedia, con le lacrime agli occhi.

Sorrise di quel sorriso luminoso che pochi potevano scorgere.

Sorrise di quella luce che raramente si poteva intravedere nel buio di quella era.

 

Nel mondo che ora conosciamo ho visto poca luce, Elisa. Ho pochi ricordi dell’era precedente all’esplosione. Ma il ricordo più vivo e folgorante è la luce del Sole. Caldo. Avvolgente.

E ti dirò di più… Quel sole che da anni non vediamo più, io, Elisa, lo vedo ogni volta. Nei tuoi occhi. Nei tuoi avvolgenti e caldi sorrisi.

E il mio cuore si spezzava nella domanda che ogni volta m’assaliva.

“Perché quel sorriso adesso io non lo vedo più?”.

E adesso mi viene da ridere, perché conosco la risposta.

Ed era solo una stupidaggine.

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 2. ***


Cacciatori e Vittime

2.

 

Osservo il cielo plumbeo da ormai troppo tempo. Mi manca l’azzurro, quel colore chiaro che continuavo a scorgere nei tuoi occhi. Ho iniziato a pensare a te come al mio cielo.

E da quel giorno il sole tornò a brillare nel mio cuore.

 

Elisa osservava il buio fare preda quella misera città, persa nei propri pensieri. Nei propri ricordi fatti di sangue e cemento.

 

Il cielo esplose di un grigio cupo, rosso. Nell’aria l’odore ferroso dello zolfo.

«Mamma!» il corpo della madre protesse il corpo della figlia dall’esplosione galattica avvenuta nell’universo.

Una pioggia di stelle roventi cadde sulla terra, e una cadde proprio sulla loro casa.

Fuoco, dolore, macerie e puzza di gas.

«Mamma…» la figlia piange strattonando il corpo freddo e duro della donna.

Un ruggito penetrò le sue orecchie, attirando la sua attenzione.

Una pantera, nera come la pece e la notte mischiate insieme, la osservava. Quegli occhi gialli, felini, le penetrarono l’anima e le sue unghie penetrarono la sua carne. La sua guancia sinistra esplose, e la bambina piangendo, scappò. Tentando di fuggire inciampò, cadendo di faccia in un liquido nero, profondo e freddo. Sentì il ghiaccio del ferro entrarle nelle viscere e nella bocca, e la ferita sulla guancia si cicatrizzò, stampandole nel suo corpo non solo il passaggio della pantera, ma la pantera stessa nella sua essenza.

Da quel fatidico giorno, il Giorno dell’Apocalisse, tutto cambiò.

Ogni cosa cambiò.

 

«Parla Eleonora.» mormorò, facendo sussultare la mora dietro di lei.

«Ho l’orecchio fine, dovresti saperlo.» disse, ridacchiando per la reazione della donna, mentre si avvicinava incerta. Il braccio fasciato faceva intuire un altro miracolo di Amir. Elisa, seduta a cavalcioni sul parapetto del tetto dell’edificio, dava le spalle alla donna che seguiva il suo sguardo perso nella vastità dell’ambiente silenzioso e cupo. La coda, docile, muoveva con sinuosità la punta, completamente adagiata al freddo cemento armato.

«Sai Capo…» iniziò Eleonora.

«… io non ho mai visto il cielo di notte… dev’essere una meraviglia.» ipotizzò, persa nei fiochi ricordi dell’infanzia.

Elisa sogghignò, al pensiero di un ricordo lontano.

 

«Sai Elisa, qui tutti hanno paura.» mormorò la bionda, guardando la mora osservare il cielo grigio malinconica.

«E tutti dicono che il cielo non è più lo stesso da quel giorno.» continuò, catturando l’attenzione delle iridi castane scure.

«Ma io non ho paura. Perché ci sei tu, qui con me.» rispose sorridendo, passando un braccio dietro la sua schiena.

«E il cielo è identico alla scorsa era. Perché è sempre con quel nome che lo chiamiamo: cielo. Che sia azzurro, nero, rosso o grigio non importa. Sempre cielo è.» e con quelle parole appoggiò la testa alla spalla della compagna, beandosi della sua presa delicata vicino alla vita.

 

«Oh, è uno spettacolo. Una coperta vellutata, colorata di quel blu scuro chiamato “notte” e bucherellato qui e là di puntini luminosi chiamate “stelle”. e nel suo centro, la regina della sera: “la luna”.» descrisse Elisa rapita dai ricordi vividi come fossero ieri. Eleonora ascoltava ammirata le parole della giovine, mentre nelle sua mente l’immaginazione cavalcava.

«Ma ci scommetto la coda che non è questo il motivo per cui sei venuta qui a parlare con me.» affermò poi, notando la ragazza arrossire vistosamente. La coda, sentendosi chiamata in causa, si riscosse.

Il silenzio calò come una coperta fredda sulle due donne.

«Chiara ti vuole bene, Eleonora.» affermò sicura, continuando ad osservare il cielo.

«Lo so… ma non è lo stesso che io provo per lei.» rispose ferma.

Elisa spostò lo sguardo dal cielo grigio agli occhi azzurri di lei.

“Assomigliano tanto a te, amica mia. Ma non sono uguali ai tuoi. I tuoi avevano il cielo, l’oceano e la rugiada racchiusi dentro te.”.

«Ne sei proprio sicura?» chiese Elisa, fissandola con sicurezza negli occhi. E vide nascere in lei il seme dell’incertezza. Eleonora, imbarazzata, li spostò da quelli scuri, portandoli al pavimento.

“Questi, invece, hanno solo il dubbio dell’esistenza in essi. Lo stesso dubbio che io leggevo nei tuoi, tempo fa. Tanto tempo fa.”

«Non domandarti il perché dubiti, Eleonora. Chiediti piuttosto i motivi della tua incertezza. E nella tua domanda scoprirai che la risposta non è in me…» disse, saltando con acrobazia giù dalla muretto, affiancandosi alla ragazza, rimasta bloccata.

«… la risposta è dentro di te.» affermò sicura, per poi entrare con passo sicuro nella porta vicina, rientrando nella base. Lasciando la mora di capelli e chiara d’occhi sola con i suoi interrogativi.

Interrogativi che avevano dentro di sé già la risposta.

 

Fu una notte travagliata per Elisa, che difficilmente riusciva a dormire. Quando arrivò l’alba, la mora stava dormendo da poco. Un bussare sommesso la fece sobbalzare, armata di coltello. I sensi sviluppatasi erano pronti per l’autodifesa.

«Chi è?» chiese cauta, prima di aprire. La spalla adagiata lievemente alla superficie liscia del legno, lo spioncino piccolo lasciava una breccia di verità.

«Capo, è ora dell’allenamento mensile.» Adrian era alla sua porta, cauto.

Elisa sospirò, per poi sbloccare la porta dal catenaccio che la teneva serrata.

«Arrivo subito, intanto tu…» iniziò a parlare automaticamente, ma venne interrotta dal ragazzo.

«Ho già fatto tutto, non preoccuparti Capo. Aspettiamo solo te.» rispose, scattando di fronte alla figura autoritaria della donna che usciva dalla stanza.

«Oh…» la sua bocca formò un cerchio perfetto, mentre si passava la mano nei capelli corti.

«Bravo, hai fatto un buon lavoro…» disse, guardandolo. L’osservò ancora. Si era finalmente tagliato i capelli, enfatizzando il volto ovale e gli occhi verdi che non aveva mai visto prima.

«Buon lavoro, soldato Adrian.» disse sorridendo, stando per una volta al suo gioco che poi non gioco non era.

«Sono fiera di te.» affermò, mettendo una mano nei corti capelli e sorridendo.

Sentì l’animo del ragazzo ormai diventato uomo crescere e crebbe lievemente di più in se stesso.

«Grazie…» mormorò, diventando rosso.

Elisa riportò la mano al fianco, ritornando seria.

«Bene… adesso andiamo, che siamo in ritardo.» disse, chiudendo il momento di rilassamento.

Adrian scattò all’attenti.

«Agli ordini!» disse, portando la mano alla fronte, come a saluto.

Elisa sogghignò.

«Facciamo a chi arriva prima?» sfidò la donna, pregustando la vittoria.

Adrian riflesse il ghigno della donna. Elisa incominciò a contare.

«Uno… due… tre!» e al terzo numero scattarono, lasciando Adrian con lieve vantaggio prima che di rimontare all’ultima porta.

 

Sai Elisa, ho sempre amato questo edificio, questa base, questo rifugio. L’hai creato tu, con le tue mani, racimolando e raccogliendo questi sperduti che adesso tu chiami “famiglia”. Riunendo fratelli e sorelle. Facendoci diventare tutti fratelli e sorelle. Hai raccolto noi, povere anime senza speranze. Ci hai dato una casa. Un tetto. Tre pasti sicuri al giorno. Una famiglia.

Ci hai donato la cosa più difficile, la speranza. La speranza di un nuovo mondo, di vivere in felicità, senza la paura di addormentarci da soli, al freddo, con lo stomaco vuoto e con il terrore quotidiano della morte.

Tu neanche ti rendi conto di cosa ci hai dato. Di cosa mi hai donato.

La felicità.

La fiducia di credere nella rinascita di un essere umano nuovo.

… e l’amore.

Hai fatto rifiorire l’amore in questa landa desolata che noi chiamiamo Terra. Hai dato a molti cuori l’aiuto e il sostegno di cui avevano bisogno.

L’amore di cui persino io avevo bisogno.

 

 

 

 

 

 

 

Ringrazio Adhara, la mia compagna di penna e di realtà quotidiane che ha commentato questa storia nata in un giorno desolato. E le sta dando forza. Sta imprimendo speranza in questa scrittrice angosciata.

Che si sente cieca in confronto a questa storia che si sta letteralmente partorendo da sola.

Grazie. E ringrazio coloro che leggono senza commentare.

Grazie mille ^_^

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 3. ***


Cacciatori e Vittime

3.

 

Era buio. Doloroso. Ricordo il respiro profondo del dolore incanalarsi in me, diventare forte, potente… e nero. Quel nero manto di pelle e forza entrò in me con la forza di un uragano indomabile. Una belva che divorò la mia essenza e annullò la mia coscienza.

E seppi che da quel momento, ogni cosa era in pericolo.

E seppi che tra tutti, proprio te avrebbe scelto.

E seppi che a morire, non saresti stata tu, ma io.

 

Elisa, dal basso della sala conferenze parlava, e la sua voce era forte, potente, autoritaria.

«… è per questo che oggi, di fronte a voi, illustrerò come di consueto, cosa succede ad un essere contaminato.» affermò, per poi fare un cenno verso le quinte. Dei ragazzi trasportarono una cassa traballante. Ruggiti e graffi si rompevano contro la parete lignea, ma la donna era intransigente.

«Dentro questa cassa c’è una mia compagna. Una ragazza ammantata dal male dell’Infezione.» spiegò, facendo innalzare delle barriere di ferro intorno a sé e alla cassa.

«Sebbene il virus sia mortale per la maggior parte degli esseri umani alcuni, con caratteristiche sconosciute alla nostra mente, resistono. Ma mutano completamente nella loro natura e soprattutto… nella loro mente.» osservava con forza l’assemblea intera che pendeva letteralmente dalle sue labbra. Giovani, tanti giovani.

«Vengono divorati dall’animale che li ha infettati. E solo un contrasto mentale può farli rinsavire. Se lo spirito umano è abbastanza forte, può soverchiare e sottomettere l’animo animale entrato in lui.» portò la sua concentrazione alla cassa di legno, prigioniera di una furia cieca. E le unghie dell’essere intrappolato in sé raschiavano con rabbia.

«Ora, in tutta sicurezza io, Elisa, vi mostrerò come si può sottomettere e sfruttare la natura dell’Infezione.» e con quelle ultime parole ruggiti e rumori di ossa scricchiolanti si diffusero nella sala, leggermente soffocati dall’altro animale. Elisa, soverchiata apparentemente dalla natura della pantera, era rimasta in piedi. Le mani e i piedi erano ora zampe ricoperte di pelo nero. Il volto trasfigurato, le zanne uscivano dal muso lievemente sproporzionato. La vista lievemente dominata. Nei suoi occhi una leggera spaccatura di giallo.

Le orecchie nere spuntavano curiose dal capo. Il corpo più snello, più affusolato.

«Ora voglio silenzio. La concentrazione è importante.» disse, con voce strozzata e gutturale. Ovviamente la voce dell’umano era soffocata dall’animale.

«Liberatela.» ordinò ai giovani, che con una corda squarciarono la scatola.

Una ragazzina bionda, rannicchiata su se stessa osservata l’ambiente intorno a sé, annusando e scrutando con gli occhi completamente gialli la gabbia distrutta. Un soffio minaccioso uscì dalla sua gola, contornata di zanne lievi. Sulla maggior parte del suo corpo si poteva intravedere una pelliccia a macchie  nere su sfondo giallo. Una coda lunga, dello stesso colore del manto con una punta bianca. Nel folto dei capelli biondi si potevano intravedere le orecchie, piccole e nere. Il volto completamente tramutato dall’animale che l’aveva contaminata: un ghepardo.

Elisa s’acquattò, portandosi alla stessa altezza della ragazzina scrutandola. Quando finalmente la giovane gheparda s’accorse di lei, la guardò minacciosa e le ringhiò con rabbia. Elisa rispose con un altrettanto ruggito più forte, più potente, tipico della pantera nera.

La piccola, presa alla sprovvista, indietreggiò, scrutandola. Elisa si mise in posizione prepotente, mostrando il petto gonfio e le zanne scoperte.

E fu veloce. Fu immediato.

La donna pantera si ritrovò le zanne della piccola gheparda a pochi centimetri. Li evitò con difficoltà, dandole una zampata, mandandola a sbattere contro la ringhiera di ferro. Fu feroce il contrattacco, che Elisa tentò di evitare. Quando le saltò addosso la pantera la prese, rotolando, in modo tale da fermarla sotto il suo peso. Le bloccò le zampe con le sue, impedendole i movimenti. Ma la piccola gheparda non smetteva di tentare di azzannarla, muovendosi frenetica.

E fu un ruggito potente.

Forte, che scosse l’intera assemblea osservatrice.

E fu paura.

La gheparda fermò il suo tentativo di salvarsi. Si fermò, completamente annegata negli occhi castani misti al giallo selvatico. E la coscienza della ragazzina si fece forza. Divenne talmente potente da soverchiare e sottomettere il ghepardo in lei. Rumori di soffi soffocati e ossa articolate si proruppe nella sala, e la pantera sotto di sé non aveva più un piccolo mostro, metà uomo e metà ghepardo. Ma una ragazzina completamente sudata e provata. La pantera mollò la presa, riprendendo con gli stessi rumori la sua forma originale. Porse una mano alla ragazzina bionda, aiutandola ad alzarsi.

«Bentornata fra di noi, Giulia.» affermò sorridendo lievemente. Portò una mano sopra quei capelli biondi accarezzandola leggermente.

«Capo…» mormorò, con la voce strozzata e provata. Le lacrime insorsero negli occhi scuri della ragazzina, facendosi abbracciare dalla donna adulta.

«… è tutto passato, Giulia… è tutto passato.» mormorò, stringendo al seno quella bambina. Sì, perché era una ragazzina di soli undici anni. Undici anni di vita erano già tanti il quella radura di freddo cemento e armato di artigli velenosi. Sapeva cosa aveva passato nella sua mente.

Almeno lei non aveva ucciso qualcuno.

 

Era stato un semplice scatto d’ira. In una battaglia furente, Elisa combatteva per difendere lo squadrone. Era stata solo una missione di ricognizione, e in pochi istanti si ritrovarono attaccati da un gruppo di leoni e leonesse. Elisa stava schiena contro schiena con la sua migliore amica. L’unica ancora sopravvissuta dopo l’Apocalisse. La bionda sparava a raffica contro le bestie portentose, i suoi occhi color cielo rilucevano di fredda determinazione. Quando finì i proiettili però, dovette incorrere nella fredda lama che portava sulla schiena.

Quando vide un leone tentare di colpirla sentì la fredda sensazione della rabbia prenderla, trasformandola per la prima volta nella sua natura intrinseca.

fu nera cieca. E fu rabbia.

Uccise con crudeltà il felino più grosso di lei con facilità. Trasformata nella sua forma brutale, osservava la compagna bionda che la scrutava sorpresa. Con la paura che colorava quegli occhi color cielo.

E fu scattante. E fu veloce.

Elisa con una zampata squarciò completamente le interiora della compagna, facendola rovinare a terra. La guardò tormentarsi di dolore, fredda con i suoi occhi completamente gialli.

«E…li…sa…» l’animale s’avvicinò, guardandola dall’alto, fermamente convinta di mangiarla.

Sentì la sua mano sanguinante accarezzarle la testa, grattandola sotto l’orecchio sinistro. Una dolce carezza che creò in quell’animale grezzo la quiete.

Elisa ritornò in sé, fu come se la sua coscienza sfondasse una diga, irrompendo e prendendo possesso di quel corpo. Quando riprese coscienza, completamente distrutta e sudata, poté scorgere l’ultimo barlume di vita nell’azzurro cielo dei suoi occhi. Poté sentire per un ultimo secondo il suo tocco leggero sulla sua guancia. Poté sentire per un ultimo momento il suo cuore battere, prima di fermarsi.

E fu dolore. E fu sofferenza.

«CELESTE!» urlò il suo nome. Ma fu vano.

 

Quando la piccola Giulia si sfogò abbastanza, la distaccò, asciugandole le lacrime.

«Ora va, e riposati.» mormorò, mentre intorno a loro la gabbia veniva smontata. La bionda scese dal palco, mentre Elisa ridava attenzione all’enorme platea.

«Ora ponderate, amici miei. Giulia si è ribellata alla natura animale, e ha ripreso il controllo di sé. Ma chi non ci riesce come diventa?» chiese, guardando il brusio della folla crescere.

«Ve lo spiego io, se mi ascolterete.» disse, alzando la voce per contrastare il rumore. Il silenzio calò, l’enorme assemblea era curiosa. Lasciò passare pochi secondi prima di rispondere.

«Ebbene, chi non è abbastanza forte da contrastare l’infezione si trasforma completamente nell’animale che lo possiede. Diventando un animale che noi, ogni giorno, uccidiamo per mangiare. Diventando un animale per niente differente dagli altri.» spiegò, e la notizia di ciò cadde nell’assemblea come una bomba crudele e fredda.

«Ora, domandatevi una cosa. Se loro sono i Cacciatori, e noi le Vittime, con questa nuova conoscenza che io vi dono, chi è, ora, la Vittima?» e con quella questione bruciante e cruciale Elisa abbandonò il palco.

 

Elisa, cosa è alla fine un Cacciatore? Chi è colui che ha il diritto d’indossare questa maschera?

Io penso che ognuno di noi sia libero di chiamarsi come vuole. Ma se poi tu vieni ad imporre che io sia Vittima o Cacciatore no.

Io sono fermamente convinta, Elisa, che la libertà di ognuno sia inviolabile.

Che la mia libertà inizia dove finisce la tua.

Ma ora spiegami Elisa, perché piangi? Ti manco forse?

Anche tu mi manchi, amica mia. Mi manca il tuo calore. Quel calore che tu mi donavi ogni volta che mi guardavi. Amavo quella tonalità di marrone che avevi nei tuoi occhi, sai?

Come scommetto che tu amavi i miei. Io ero il tuo cielo, Elisa, me lo hai detto.

Ma tu, amica mia, eri la mia terra. Il colore caldo che su questa arida distesa di terreno, io non ho ancora visto.

Ma aspetterò il giorno in cui il caldo colore dei tuoi occhi si spanderà su tutta la terra.

Aspetterò qui, quieta e calma, sopra questa nuvola. Osservandoti lottare con il mio nome stampato a fiamme e sangue nel tuo cuore.

Elisa, aspetterò, quindi non aver fretta.

Aspetterò.

 

 

 

 

E con l’ispirazione nelle vene vi consegno il nuovo capitolo.

E con il cuore ringrazio Adhara, la mia compagna di penna, che m’incita a continuare a scrivere questa storia. Sperando che un fine logico ce l’abbia.

Ma ho paura che niente a questo mondo abbia un fine logico.

Grazie per chi legge soltanto, aspetto che qualcuno mi dica che cosa sto costruendo, perché nemmeno io lo so.

Eriok

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 4. ***


Cacciatori e Vittime

4.

 

Quando presi per la prima volta in mano un’arma, non riconobbi nemmeno la forma. Giocai col fuoco, senza nemmeno rendermene conto.

Fu la fortuna a salvarmi.

Perché il destino di quella bambina in fasce non era destinato ad un tragico incidente.

 

Elisa, avvolta in una tuta ermetica correva, un fucile armato nelle mani, mentre avanzava nella foresta sotto la pioggia incessante. Gli occhi avvolti nella mascherina contro la pioggia acida.

Il mondo non è più come lo ricordiamo.

 

Elisa con le gambe incrociate meditava, pensando intensamente al nulla. Si calò lentamente nella pozza scura e fredda della sua anima animale. Si fece avvolgere, mantenendo quella spessa corazza che si costruiva ogni volta che prendeva la forma animalesca.

Studiava incessantemente, ogni giorno. Chimica, fisica, biotecnologia… magia.

Tentava in tutti i modi di definire cosa rendesse gli esseri umani come lei speciali.

Quella fusione tra ragione e istinto che ogni filosofo reputava impossibile in ogni altro essere se non l’umano. Ma ora com’è possibile che l’uomo abbia due istinti primordiali?

Iniziò lentamente dentro sé a spogliarsi della corazza, cedendo pezzi della sua pelle al liquido freddo, percependolo duro e doloroso sulla sua pelle. Come un muscolo diverso, anomalo, che vuole predominarla.

Sentì una strana sensazione nella mente, ma non perse la concentrazione bensì tentò d’ascoltare quel sibilo nella sua testa. Pareva lontano, come proveniente da un mondo diverso, pieno di rumore e inascoltabile.

Corrugò lievemente la fronte, aumentando la concentrazione e liberandosi ancora di pezzi della sua corazza. Il sibilo divenne urlo, ringhi, ruggiti.

Il linguaggio della natura.

Il linguaggio dell’animale in lei.

Qualcuno bussò alla sua porta, e la corazza ritornò al suo posto, il ghiacciato pozzo dell’animale ritornò a bollire nel profondo della sua coscienza, e la jungla in lei si silenziò del tutto.

Ma gli occhi erano completamente gialli fino a pochi istanti fa.

 

«Forza, muovetevi!» urlò allo squadrone dietro di lei, facendo segno di proseguire più velocemente mentre osservava una figura sinuosa saltare da un ramo all’altro degli alberi.

«Giulia, contieniti, siamo ancora in territorio non sicuro!» le urlò, ma fu vano.

Una miriade di scimmie nere, grandi come orsi, si scagliarono su di lei, trascinandola giù sul terreno, creando un rumore sordo. La squadra prese a sparare in direzione del gruppo di gorilla, mentre Elisa si trasformava.

 

«Questi vestiti sono fatti con tessuto speciale. Le poche scimmie che avete ucciso hanno una pelle speciale, che resiste all’acido della pioggia. Sicuramente pioverà mentre avanzerete verso l’altra base, quindi indosserete queste e maschere contro l’acido.» spiegò Giacomo, mentre mostrava tute completamente nere, colorate di verde in alcuni punti. Parevano lucide, quasi simili a pelli di serpente. Elisa le toccò, sentendole dure, rigide.

«… e per le trasformazioni?» chiese, rivolgendo la domanda con gli occhi scuri immersi in quelli verde del ragazzo.

Sorrise, illuminandosi. Quel ragazzo si applicava così profondamente nella chimica da renderlo più colto di lei, che ricercava nei libri più introvabili nel mondo di allora.

«Per te e Giulia, che basta avere semplice materiale plastico e aderente, ho applicato una particolare tessuto in modo tale da non crearvi problemi.» rispose, continuando però a spiegare alcuni punti.

«L’unica pecca che posso trovarvi è quella del limite di armi che ti puoi portare dietro. La divisa che di solito porti è fatta apposta per essere aderente ma per avere munizioni e lame sempre pronte. Con la tuta antiacido è più difficile, perché non si possono creare tasche comode in una tuta che deve avvolgere quasi totalmente il corpo. È comoda per esserlo, ma svantaggiosa per una persona che s’affida maggiormente alle armi.» spiegò.

Elisa ragionò, per poi chiarire un punto.

«… quindi non posso portarmi tante armi.» ma il ragazzo dai capelli rosa fece di no col dito, sorridendo.

«È per questo che ho ideato una cintura in grado di trattenere e restringere al suo interno lame e persino fucili, scomodi per individui da attacchi ravvicinati come te e la Giulia.» illustrò, tirando fuori da un cassetto una cintura grossa. Fece fatica a metterla sul tavolo, che fece un rumore tonfo.

«… l’unica pecca che ha purtroppo, è un notevole peso.» affermò, sbuffando per lo sforzo.

Elisa si illuminò, per poi sorridere.

«Giacomo, te l’ho mai detto che sei un genio?» chiese, sapendo che il giovane le avrebbe risposto come il solito ormai.

«Ovvio che sì, e fiero d’esserlo.» rispose gonfiando il petto orgoglioso.

 

Il fucile, con un rumore elettronico venne letteralmente assorbito dalla cintura portata a tracolla dalla giovane, mentre mutava forma.

Con una semplice zampata scaraventò un gorilla contro un tronco lì vicino, notando che la piccola gheparda rispondeva all’attacco ricevuto. Fu semplice farli fuggire. Anche se avevano la pelle grossa, erano goffi, e lenti nei movimenti.

«Sì! Abbiamo vinto!» urlò la piccola bionda, mentre saltellava sul posto, la coda lunga e bianca riluceva alla base della sua schiena. Uno scappellotto veloce e doloroso raggiunge la sua testa, facendola trillare dal dolore.

«Tu non ascoltarmi ancora una volta, ragazzina, e la prossima volta ti faccio far parte del terreno.» rispose, guardandola negli occhi dall’alto, pochi centimetri che fecero inquietare Giulia. Elisa aveva l’iride completamente spaccata a metà dal giallo dell’animale, mentre la ragazza bionda aveva un lieve spicchio di iride oro nei suoi.

«Scusa Capo.» mormorò sottovoce, abbassando gli occhi e riprendendo forma umana.

Elisa aspettò in forma animalesca il gruppo che lenti li raggiungeva. Quando i giovani arrivarono, completamente bardati nelle loro tute antiacido Elisa parlò.

«Siamo quasi arrivati ragazzi, presto correre!» e con quell’ordine saltò sul primo albero.

«Giulia, tu segui i miei spostamenti dal basso. Voi, seguitela. Tutto chiaro?» ricevette solo cenni positivi dalle maschere scure. Giulia rispose con un lieve mormorio.

«Forza Andiamo!» e con quelle parola balzò, scorrendo veloce sui rami, calcolando la forza da dare nelle zampe e la distanza da compiere. Pochi minuti di corsa forzata e raggiunsero la base sicura nella foresta. Un enorme baobab verde, alto tanto quanto un grattacielo, si stagliò di fronte alla piccola squadriglia. Liane verdi e grosse collegavano i numerosi rami alla foresta intorno, rendendolo come un centro nevralgico. Scimmie saltavano pacifiche da una liana a liana lì vicino a loro. Uccelli di vario genere volavano e nidificavano tranquilli tra le sue rientranze. Elisa, silenziosa e agile atterrò, riprendendo la forma umana.

«Ragazzi, so che non la conoscete, perché questa è la prima volta che venite ad una spedizione, quindi… Benvenuti alla base numero due, l’Albero dai Mille anni.» e con quelle parole s’infilò in una delle innumerevoli insenature, seguita dal gruppo perplesso e meravigliato.

 

Camminarono rannicchiati per pochi metri prima di imbattersi in una porta in legno scuro. Un uomo, armato di lancia gli intimò l’alt, pretendendo l’identità degli estranei.

«Calmati, siamo lo squadrone della base numero uno in visita. Siamo venuti per un motivo che il tuo Capo conosce bene.» rispose, rivelando il volto nascosto dalla maschera. Il ragazzo sbiancò alla vista della strana coda nera che si muoveva sinuosa dietro di lei.

«Scusi se non l’avevo riconosciuta… prego, entri pure.» e con un lieve inchino e due copi sordi la porta s’aprì, rivelando un altro corridoio, simile al precedente. Trovarono altre guardie, con altre porte. Ma stavolta non ebbero problemi. Quando varcarono l’ultima porta, la vista dei ragazzi s’illuminò. Al centro dell’enorme sala illuminata da luci e fari troneggiava una enorme scaletta a chiocciola, che conduceva ai rami e al livello superiore. Uomini vestiti da indigeni si muovevano organizzati, accenti forti e diversi tra loro assordarono i ragazzi, abituati alla tranquillità della loro piccola sala d’intrattenimento.

«Elisa!» una voce femminile, con forte accento, richiamò l’attenzione della mora che si voltò raggiante.

Una donna bassa, tanto quando la bionda Giulia, dai folti capelli rossi portati lievemente corti, avvolse il corpo della donna, cingendole i fianchi dolcemente.

«Ciao, Ros! Quanto tempo!» e rispose con forza all’abbraccio dell’amica.

«Finalmente sei venuta a trovarmi! Mi mancavi!» e con quel sorriso dolce e l’accento mieloso incantò l’intero squadrone della giovane mora dai capelli corti.

«Anche tu mi mancavi, amica mia… scusaci, siamo spossati, abbiamo avuto un attacco, ma ce la siamo cavati.» spiegò, guardando torva la bionda, che tentava di nascondersi nella maschera portata al collo.

«Come sempre, d’altronde.» rispose, facendo l’occhiolino.

La piccola ragazzina rimase abbagliata. Quella ragazzina, poco più alta di lei, si comportava in modo così intimo con il suo capo, che il rispetto per lei nacque spontaneo.

«Ragazzi, questa è La Rossa, Capo di questa base operativa.» spiegò, guardando con serietà i ragazzi completamente fradici.

«Pretendo che abbiate lo stesso rispetto che avete con me con lei.» intimò, scrutando con occhi roventi gli occhi intimoriti o timidi dei ragazzi. Quella ragazza dai capelli rossi, così bianca e fragile, un Capo?

«Capito!?» e con quel tono autoritario, ricevette un “Sì signore!” unanime del gruppo.

Solo la bionda Giulia, rimasta incantata dagli occhi scuri della rossa rispose in ritardo, ricevendo uno sgu

ardo curioso dalla stessa. La bionda sentì il suo cuore vibrare forte, e il rossore colorò il suo volto, tentando invano di nascondersi nella maschera.

«Forza Ros, aggiornami, mentre i miei compagni fanno i turisti.» chiese, facendo segno al gruppo di ritrovarsi in quel punto tra due ore.

«Giulia, vieni con me.» intimò poi la mora, portandosi dietro come un cagnolino la piccola gheparda, mentre sul suo capo le piccole orecchie nere stavano ritte, e la punta bianca della coda si muoveva veloce, segno dell’agitazione e della confusione dentro di lei.

 

Non compresi il perché. Né il come.

Capii solo che quegli occhi castani, così in contrasto con quel rosso, m’azzannarono.

Proprio come fa un leone con la propria preda.

E sentii dentro di me il rumore d’una orchestra di ubriachi e sordi farsi largo.

Assordandomi. Uccidendo ciò che pensavo di conoscere già.

Mandando a farsi fottere quelle dannatissime convinzioni che nella mia mente io avevo già fatto mie.

Eppure io sono un felino. Un elegante e veloce ghepardo, l’essere più veloce nel mondo.

E allora perché sento che la mia mente è così lenta?

Perché il mio cuore pulsa così velocemente ora che correndo non sto?

Chi sei tu, fiamma vivente, che fai banchetto col mio cuore?

Chi è questo leone che caccia e uccide il ghepardo?

Chi è il Cacciatore? Tu, dolce dama rossa?

Chi è la Vittima qui?

Io forse…?

 

 

E con un nuovo capitolo ponderato dopo un po’, io vi lascio.

Visto che ormai ho capito.

Ho compreso lievemente la natura di questa storia. Ed è un lieve barlume di una vita precedente. Un figlio morto ancor prima di nascere. Unico ovulo non fecondato della mia mente.

L’unica cosa che mi manca è la fine. O il proseguimento.

E il senso, ovviamente.

Vi saluto, ringraziando la mia compagna di penne e di interrogazioni Adhara XD

Per non parlare di Ulisse 999 che ringrazio per il suo commento illuminante. Sono contento che il contenuto del primo capitolo lo abbia colpito e interessato. Spero che continui a leggere e commentare i futuri capitoli di questa storia.

Eriok

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 5. ***


Cacciatori e Vittime

5.

 

Il Destino mi donò un nome, un’esistenza, una coscienza di me.

Mi donò un mondo.

Adesso, quel mondo donatomi, mi supplica la salvezza.

Ora quel mondo chiama me.

 

Elisa osservava la mappa mentre La Rossa spiegava le indagini condotte fino alla data odierna.

«I miei esploratori hanno scoperto poco, visto il poco numero di Infettati Sopravvissuti all’interno della mia base. Ma siamo arrivati alla fine della foresta. E indovina cosa vi abbiamo trovato?» la ragazza spiegava, mentre con un piccolo bastoncino indicava su un tavolo interattivo la mappa disegnata.

«Montagne.» rispose Elisa, passandosi una mano sul viso, fissando pollice ed indice sulla base del naso.

«Dannazione.» mormorò, prima di lasciar cadere il braccio.

«Mi dispiace Elisa, pensavo di trovare una via d’uscita e invece…».

«Non preoccuparti.» la interruppe la mora, mentre poggiava i palmi sul tavolo, analizzando con occhio rapido i nuovi territori.

«Lo sai questo cosa vuol dire, vero Ros?»sussurrò Elisa, guardando negli occhi scuri La Rossa. Un cenno positivo mosse la sua testa.

«R.G.G.S.» scandirono entrambe, facendo cadere l’immenso salone nel silenzio più totale.

Gli occhi dei giovani in divisa erano fissi sui loro rispettivi capi, pieni d’ansia e spaventati. In sottofondo il rumore di qualcuno che tossiva. Qualcuno che faceva cadere qualcosa.

Giulia non sapeva decidere chi osservare dei due Capi davanti a lei. Infine il suo sguardo si concentrò sulla Rossa, che percepì la tensione nei suoi occhi. Stavolta la piccola bionda non cedette alla vergogna. Ros incurvò verso l’alto gli angoli della bocca, sorridendo parzialmente. La piccola gheparda piegò lievemente le punte nere delle orecchie, sentendo il suo cuore sciogliersi lentamente in un vaso di miele.

 

«Miei cari compagni, benvenuti.» La Rossa parlò dal tavolo rotondo, alzandosi per prendere la parola. Diviso in tre parti eguali il tavolo rotondo, vuoto al centro, mostrava le tre parti del R.G.G.S. : il bianco, il rosso e il nero.

Un uomo giovane sedeva dalla parte del bianco, con i capelli biondi, quasi platinati, e stava accomodato in posata posizione, con alle spalle un piccolo gruppetto di ragazzi seduti su scalini in crescendo. Lo stesso piccolo anfiteatro si ripeteva dietro Elisa e La Rossa. Erano i sottotenenti, i diretti superiori subito dopo il loro Capo.

Giulia stava seduta poco prima dalla destra della Rossa.

 

«Elisa, dimmi, chi è quella piccola ragazza dai capelli biondi e dalla coda bianca?» chiese, sussurrandole all’orecchio, mentre con la coda dell’occhio la scrutava.

Elisa sorrise, divertita.

«Lo sapevo che me lo avresti chiesto…» Elisa chiamò a sé la piccola sottoposta, presentandola all’amica.

«Ros, questa è Giulia. Giulia, questa è La Rossa, il tuo nuovo Capo.» l’ultima affermazione fece cadere le mascelle di entrambe.

«Cosa?» chiesero all’unisono, per poi scorgere nel viso della piccola gheparda un lieve rossore e un battito accelerato.

«Ros, ti affido questa piccola screanzata. A me non dà ascolto, forgiala tu, visto che questo territorio è più propenso alla sua natura che al mio.» rispose, dando un piccolo spinta alla bionda, portandola a pochi centimetri della rossa. L’emozione, questa volta, prese entrambe. Il rosso dominò lo sguardo scuro della bionda, che si concentrò sul pavimento. Mentre il colore del viso di Ros si confuse con il colore dei capelli.

 

La bionda la guardava ammirata, mentre la coda stava rilassata tra le sue mani.

Le donne superavano di gran numero i maschi all’interno delle fazioni, presenti in qualche numero dalla parte nera di Elisa, in forma totale dallo schieramento bianco e completamente assente dietro a Ros.

«Amici miei, il giorno è giunto. Dichiaro la Riunione Generale dei Giovani Sopravvissuti aperta.» e con quello la piccola ragazza dai capelli rossi si sedette. Portò una gamba al bracciolo, poggiandolo, per poi dare il peso della schiena al lato destro, sostenendosi con il braccio. Giulia sentì il cuore correrle in gola alla vista del collo scoperto di lei.

Elisa si alzò, facendo segno a Giacomo dietro di lei di far calare la mappa. Un rumore sinistro di marchingegni fece scendere, in mezzo al vuoto tavolo, una mappa dettagliata e tridimensionale della zona conosciuta fino ad allora.

«Ci siamo riuniti oggi per decidere cosa fare di noi ora. Avevamo già avuto conferme da Ippolito che risiedevamo in una valle, ma le speranze non avevano ancora abbandonato i nostri cuori fino ad oggi. Ieri Ros mi ha confermato l’ipotesi di Ippolito e qui, di fronte a voi, abbiamo l’intera mappa della valle.»

Sul piccolo plastico si poteva notare una mezza luna, divisa tra la vegetazione delle foreste e dal grigio della città. Intorno montagne innevate. Le basi individuate con bandierine colorate.

«Vi avevo avvisate, mie illuse compagne, che da qui non v’è via d’uscita.» il modo mellifluo e antico parlato dal ragazzo biondo entrò in merito, non scomponendosi però dalla sua postura.

Elisa si sedette, perché come da regolamento, chi voleva parlare bastava si alzasse.

Un ragazzo dalla parte di Elisa, che la donna riconobbe dalla voce come Adrian, s’alzò, ottenendo subito la parola.

«E cosa dovremmo fare allora? Abbandonare l’idea che al di fuori di noi, il mondo sia una completa distesa di montagne e deserti aridi e infruttuosi? No, mi spiace. Ci dev’essere una via d’uscita.» finito di parlare si sedette, donando la parola a Giacomo, che aspettava paziente il proprio turno.

«Ebbene sì, osservando e analizzando i dati datomi ho potuto confutare che siamo in una valle. Ma per quanto le montagne siano impervie e profonde, avranno una fine. Nella mia memoria e nei libri letti vi sono stampate immagini di un mondo ricoperto per due terzi d’acqua. E qui di monti stiamo parlando. Semplici protuberanze rocciose, facilmente aggirabili.» il biondo, al suono di quelle parole, s’alzò. Aspettando con volto furente la parola donatagli.

«Or dunque io dichiaro che le montagne, di cui conosco ogni anfratto e rientranza, non sono così fattibili d’aggirare come credi. La sua superficie è tagliente, i suoi lati impervi e privi di qualsiasi vegetazione. Gli animali che hanno il coraggio di viverci si cibano dei loro morti e dei loro anziani, oltre che agli insetti. Ho già provato con mie svariate truppe ad attraversarle. Nessuno tornò vivo.» finì di parlare, mentre si passò una mano avvolta dai un guanto nero, nei capelli, lisciandoli.

Ros s’alzò, in contemporanea con Elisa. La mora fece un cenno, donando la parola alla compagna.

«Grazie Elisa. Ora ti dico, amico Ippolito, io non diffido di te, né tantomeno dei tuoi squadroni. Ma qui stiamo parlando di esseri umani. Ragazzi estremamente giovani. Non penso che essi fossero preparati per una, chiamiamola, “missione suicida”.» Ippolito fece per rispondere, ma Elisa lo fulminò con lo sguardo, zittendolo.

Ros si sedette, cedendo la parola all’amica.

«Ippolito, conosco già la tua protesta e la sostengo. Ma Ros è in mancanza di una informazione che tu non hai riferito prima.» affermò, facendo nascere nella rossa una curiosità.

«Ippolito, pochi giorni fa, tentando un altro approccio, diverso dai precedenti con più uomini e con più viveri, scoprì un campo. Non un campo verde. Era un terreno arido, composto di trucioli di terra e piccole pietre ovali. Fu per fortuna, o chiamiamolo “caso” che uno dei suoi compagni scavò, curioso del nuovo materiale. Poche manate di quel materiale scoprirono uno scheletro umano, susseguito da un altro. Lo squadrone, alla fine della giornata, avevano disseppellito più di una ventina di corpi umani. In poche parole avevano trovato una “fossa comune”.» la parola cadde nell’assemblea, pesante come un macigno, e fecero tribolare gli animi dei presenti. Elisa in silenzio fece un veloce segno della croce, seguita da tutti.

«La cosa ancora più macabra, che mette in dubbio il fatto che siamo i soli sopravvissuti in questo mondo, è che alcuni corpi erano ancora in decomposizione. Seppelliti da pochi giorni. I cadaveri, tutti appartenenti al genere maschile, erano stati fortemente mutilati e, a seconda delle analisi dei medici al loro interno, possono affermare che furono torturati prima della loro triste dipartita.» il silenzio dovuto ai morti calò nell’aula.

Giulia sussurrò, quasi desse voce ad un pensiero comune.

«Chi può aver fatto questo?» chiese, scoprendo poi che gli occhi dell’assemblea intera erano su di lei.

«È questo quello che vorremmo scoprire, mia cara.» rispose Ros, guardandola dalla sua posa malcostumata.

La donna, dopo aver sorriso al rossore della piccola ragazza s’alzò, fiera come un leone.

 

Elisa squarciava da ore ormai lo stesso animale, che non voleva abbandonare a tutti i costi l’attacco alla base.

Era stato un attacco di massa, interi squadroni di animali selvatici quali gorilla e felini di tutte le razze. Elisa e Giulia erano le ragazze che tra tutte mietevano vittime nella scaramuccia generale di fronte alla probabile entrata.

Ma quando Giulia si vide sconfitta, accerchiata da forzuti e mastodontici gorilla neri, fu il ruggito d’un leone a diradarli. Un leone rosso che urlava la sua forza al nemico, spaventandolo.

Cadde con grazia, il manto rosso elegante e sciolto. Gli occhi castani ammantati dal giallo felino. La coda che frustava l’aria. Ros entrò in campo, sfoderando l’arma segreta del Capo dell’Albero dai Mille Anni. I gorilla scapparono, seguiti poi dai felini umiliati, mentre nella piccola foresta il ruggito del re della jungla risuonava forte nel cuore dei sudditi.

 

«Quindi qui, ora, in questa assemblea io chiedo un volontario. Un volontario soltanto per una missione oserei dire “suicida”. Dovrebbe prendere, solitario e armato solo della sua forza di volontà, attraversare le montagne impervie d’Ippolito, e cercare chi ha seppellito quei corpi.» il muto parlare dell’assemblea fece intervenire di nuovo la rossa.

«Capisco il vostro titubare. Ognuno di noi ha un motivo per restare. Siano essi parenti stretti…» e Elisa vide stringere Adrian al suo fianco la sorellina.

«… persone a noi care…» Elisa vide lo sguardo di Eleonora incontrare quello di Chiara.

«… amati…» e questa volta fu Ros a deviare lo sguardo, incrociandolo per pochi istanti con quello di Giulia.

«… ma non per questo dove...» ma venne interrotta da Elisa, che s’alzò, parlando.

«Mi offro volontaria.» affermò, e l’assemblea intera s’avventò, diventando una baraonda di vociare e proteste fortemente sostenute. Le voci più forti s’udirono dai suoi sottoposti.

«SILENZIO!» intimò Elisa, con quel ruggito basso, insito nella sua rabbia.

«Non accetterò nessuna contrapposizione, e chi oserà tentare di fermarmi dovrà vedersela direttamente con me!» affermò, voltando lo sguardo per aspettare che qualcuno parlasse. Ma il silenzio regnò, proprio come lei voleva. Elisa fece un cenno all’amica, che con sguardo dispiaciuto proferì il verdetto finale della Riunione Generale.

«L’unico volontario presentatosi è Elisa, che accetta in tutti i sensi lati la missione prima descrittasi. La Riunione Generale dei Giovani Sopravvissuti si dichiara quindi favorevole al compimento di essa. In data odierna si scioglie.» e con quelle parole, che come lama cadevano paragonati ad una sentenza sopra la testa dei presenti, e un colpo di pugno di tutti e tre i Capi, l’assemblea si slegò.

 

 

Oh, qui si discute. La politica risuona in questa Riunione Generale. Eppure l’età in quest’aula non supera i ventisei anni di età. Può allora il durare di una vita determinare la coscienza umana?

Mah… chiediamolo ai politici di oggi!

Per non alzare troppe proteste io vi lascio, sperando di avervi incuriosito. Sposterò nel più breve tempo possibile il prossimo capitolo, prima che l’idea mi sfugga di mente. ^.^

Ringrazio la mia piccola Adhara che mi sostiene nel lento parto di questa storia. Per questo nel prossimo ci sarà una sorpresa per te, anche se forse hai già intuito cosa ;)

Tanti saluti al prossimo!

Eriok

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** 6. ***


Cacciatori e Vittime

6.

 

Quando vidi il mio cielo diventar plumbeo persi la speranza di rivedere quell’azzurro.

Persino la notte mi venne negata.

E il sogno di ogni notte era quello di poter di nuovo rimirar le stelle.

 

Elisa s’alzò, guardandosi intorno con gli occhi scuri spaccati dal giallo. La trasformazione in territori non sicuri era d’obbligo. Il corpo misto alla pantera si mosse liscio e levigato, silenzioso ed allenato. Erano giorni che dormiva all’addiaccio, che mangiava delle piccole prede che riusciva a catturare, che beveva soltanto il loro sangue in assenza d’acqua. I vestiti strappati in più punti, le mani scorticare dallo sfiorare quella pietra tagliente.

Era un mese ormai che non toccava altro cibo se non la carne cruda che il suo corpo ingeriva. E trenta giorni in cui non vedeva altro liquido se non il ferroso sangue o qualche pozzanghera.

Meno male che le papille gustative s’annullavano con la trasformazione. Il silenzio poi, in quella vallata la stordiva e assordava. Non c’è niente di peggio del silenzio per non ascoltare. Il pulsare del sangue nelle orecchie rimbomba e tu, tutto d’un tratto, nel silenzio diventi sordo.

Un rumore udito però la destò, portandola ad avvicinarsi alla fonte.

Pochi giorni fa aveva perso ormai l’orientamento. Fu facile perdersi in questo dedalo di pietre taglienti tutte uguali.

“Tutte stramaledettamente uguali.”.

S’arrampicò fluida sopra una pietra, mirando dall’alto la fonte del rumore, rivelandosi un urlo.

“Cosa?” le sembrò quasi un sogno vedere delle persone nella piccola rientranza di pietre che ieri aveva battuto palmo dopo palmo, non scoprendo niente.

Degli uomini, armati di lancia, portavano delle figure snelle e giovani verso il centro. Vestite soltanto di stracci, Elisa poté constatare che erano giovani donne, di 15, forse 16 anni.

Elisa, con gli occhi giallo castani rimase completamente di sasso quando vide le mani degli uomini levarsi, creando dal nulla tre pali contigui, spuntati fuori dal terreno tremante.

«Ma come…?» le parole uscirono gutturali, da giorni che non parlava e dall’animale in lei.

Silenziosamente e con cautela si lasciò scivolare, avvicinandosi a quello che sembrava una esecuzione in piena regola. Con ancora più curiosità e sorpresa poté constatare che gli uomini erano adulti, con trenta o quarant’anni alle spalle. Essi, con modi rozzi e irosi, spinsero le povere vittime verso i pali, con la precisa intenzione di legarle.

Le ragazze, impaurite e minacciate si diressero verso i legni, fortemente preoccupate.

«Vi prego lasciateci…» implorò una.

«… risparmiateci, ve ne prego…» mormorò un’altra.

La terza invece tacè guardando con freddo distaccamento e furioso i suoi carcerieri. E fu quella giovine a colpire l’anima reticente di Elisa nel correre in loro aiuto.

 

«Elisa, se troverai coloro che hanno fatto queste stragi…» parlò La Rossa, cedendole una piccola lama da mettere negli stivali.

«… te ne prego, non intrometterti. Stanne fuori.» gli occhi scuri della rossa fissavano con forza quelli simili della mora, sperando in un loro giuramento. Ma la bocca di Elisa rimase chiusa. Né un sì, né un no.

“Perché promettere qualcosa che non posso fare?”.

 

Tentò di avvicinarsi, rimanendo celata dalle pietre taglienti, mentre estraeva il coltello seghettato. Le donne vennero slegate, per poi esser fissate sui pali, con il volto contro il tronco nudo dei pali. Le urla disperate già si propagavano nella valle pietrificata, immune e neutrale davanti a quel massacro che tra poco si sarebbe consumato.

Dalla piccola casacca che portava estrasse un guanto.

 

«Questo Capo è un guanto speciale.» disse Giacomo, guardandola con quegli occhi verdi che Elisa ormai conosceva. Ma non erano tinti della stessa emozione delle volte scorse. Ora erano spenti. Tristi.

«Spiegami come posso usarlo.» chiese Elisa mentre lo indossava. Appena le dita uscirono dai buchi sul dorso della mano si creò una patina d’argento, che si diramò per tutto l’avambraccio, creando una corazza puntellata di aculei.

«Ehi!» affermò la mora, saggiando la presa e la forza di quel metallo. Era robusto, e molto più rigido dell’argento.

«… è una lega speciale, Capo. Esso si propaga e riveste l’arto in cui viene indossato. Infatti se lo indosserai nella destra, esso lo ricoprirà. Ma se lo toglierai…» e il giovane Capo lo tolse, scoprendo come l’effetto resistente del metallo si sciogliesse nel momento stesso in cui Elisa lasciava il guanto vuoto, mentre veniva come risucchiato dal guanto nero.

«… il metallo ritornerà nella sua sede. Può assumere varie forme. Dipenderà da come lo impugnerai. La mano chiusa a pugno imporrà la difesa immediata, creando li aculei di prima. La mano aperta creerà degli artigli lunghi e affilati… le altre forme staranno a te crearle. Io ho solo imposto queste come basilari.» l’uomo prese il guanto e ne riportò un altro nella sua mano.

«Prenditene cura, e usali se necessario. Sono più utili e meno ingombranti di una pistola o di qualsiasi lama.» il ragazzo sorrise cupo, mentre lasciava la coppia di guanti nelle mani della giovane.

«Giacomo… ti ringrazio. Sei un buon amico.» disse la mora, sorridendo.

«… vorrei poter fare di più.» mormorò l’uomo, guardando il pavimento. La mano di lei sulla sua guancia la fece rialzare.

«Hai fatto abbastanza. Grazie…» rispose seria. L’uomo sorrise.

«… e tagliati questa barba, che punge!» gli disse, mollandoli un piccolo schiaffo sulla guancia scherzando. Sorridendo per sdrammatizzare.

 

Lo indossò nella destra, proteggendosi l’arto disarmato. La forma animale svanì, cedendo il posto alla forma umana. Intanto la scena nel centro della radura pietrosa si stava sviluppando in peggio.

Gli uomini avevano legato le donne con la schiena rivolte verso l’esterno, mentre un uomo pelato sguinzagliava una pesante frusta. Le ragazze di prima iniziarono ad urlare, una a destra e l’altra a sinistra, pregandoli e supplicandoli di non iniziare. La ragazza al centro non si muoveva, come pronta ad assorbire la sua punizione in silenzio.

«Tacete, puttane!» urlò l’uomo, schioccando una pesante frustata alle due ragazzine, provocando i loro urli disperati, mentre sulle loro schiene, nude al freddo e al contatto diretto con la pelle dello strumento di tortura e ai pezzi di ferro al suo interno, si disegnavano crudeli ghirigori irregolari di pelle scorticata e sangue.

Elisa le guardava urlare, ancora indecisa. Poteva vederle in faccia, quelle ragazzine. Quella in mezzo la notò. E il suo sguardo, sorpreso nel vederla, si spezzò in una smorfia di dolore quando la frusta toccò la sua pelle. Dalle sue labbra scaturì un urlò smorzato e costretto al silenzio, mentre con forza chiudeva gli occhi e si mordeva i labbri a sangue.

Quello fu troppo.

La furia in lei esplose, facendola correre in mezzo alla landa desolata urlando. Gli uomini, sorpresi, tentarono un attacco collettivo. Ma le unghie del guanto e il coltello seghettato fecero strage di due uomini, mentre gli altri si trovavano in netta difficoltà.

Fu la striscia della frusta a farla cadere a terra. Intorno alla sua caviglia la punta ferrata della frusta, che crudele arpionava la pelle sanguinante della ragazza. Con un colpo netto tagliò il pezzo di pelle, liberandosi. Ma gli uomini con le loro lance, le furono subito sopra. Sentì ondate di elettricità ad alto voltaggio trapassarle il corpo, facendole perdere la presa sulla lama. I piedi degli uomini la stavano letteralmente massacrando.

E fu furia.

L’animale in lei esplose, spezzando con una sola zampata le lance che continuavano a torturarla. Con lo stupore degli uomini Elisa poté sbudellare due di loro, lasciando soltanto un superstite che, spaventato, scappò via. Stette per attaccarlo quando l’uomo pelato richiamò la sua attenzione.

«Uccidi anche lui e io ammazzo questa ragazza!» urlò, mostrando il suo ostaggio. Nella sua presa ferrea, la ragazza che era collocata al centro, fredda e irosa, tentava di mantenere la calma. Ma le sue mani tremavano nel tenere il braccio dell’uomo allentato intorno al suo collo. La punta di un coltellino che minacciava di tagliarglielo.

Elisa placò la sua rabbia, mostrando i denti all’uomo, ringhiando minacciosa.

«Non pensare di farmi paura, mostro, ne ho uccisi a migliaia come te, e tu non farai eccezione.» parlò l’uomo, non facendosi intimorire dal ruggito della donna pantera.

La ragazza, con i suoi lunghi capelli ricci e gli occhi castani fissi in quelli congruenti di Elisa, tentò di parlare, soffocata dal braccio del pelato.

Elisa, sfruttando l’attimo di distrazione dell’uomo nel cercare di contenere la ragazza che voleva parlare, guardò il terreno, notando il suo coltello a pochi centimetri dal suo piede.

«Lasciala andare…» parlò gutturale, mentre tentò d’avvicinarsi.

«Ferma dove sei ti ho detto!» disse, facendo un lieve tagli alla gola della ragazza. I suoi occhi si chiusero, mentre una lacrima scendeva, silenziosa.

E fu sconforto.

«Va bene, basta che ti calmi.» disse, riprendendo la forma umana. Le mani tenute basse, a far intendere nessuna intenzione da parte sua. Il coltello ormai vicinissimo al suo piede, a portata di mano.

«Bene… vedo che hai capito chi comanda…» disse l’uomo, dando una veloce occhiata dietro di sé.

Fu quello a tradirlo. Con velocità Elisa s’abbassò, lanciando il coltello verso l’uomo. Con un rumore sordo trapassò la sua testa, lasciando libera la ragazza che, osservando fredda il suo corpo cadere, sputò sul cadavere.

Elisa si avvicinò, guardandola col fiatone. La ragazza però si limitò a fissarla, con quella freddezza che aveva fortemente colpito la mora.

«Beh, non si ringrazia!?» chiese la donna dai capelli corti, ritornando umana. La riccia continuò a scrutarla, come se si stesse concentrando per capire un quadro astratto.

Le grida d’aiuto delle due ragazze ancora legate richiamarono l’attenzione della mora, andando a slegarle.

«Grazie!» dissero, abbracciando con le lacrime la loro salvatrice.

­Ma la loro felicità durò pochi istanti, quando dal nulla spuntò fuori un intero squadrone di uomini armati e corazzati, accerchiando le quattro ragazze.

Le lance appuntite puntate alla gola dell’estranea, mentre le due ragazze venivano afferrate e portate fuori dalla vista di Elisa.

«È questa qui soldato l’estranea?» chiese un ufficiale in divisa da pompa magna.

Un soldato impaurito al suo fianco, quello fuggito precedentemente, la guardava stranito.

«Sì signore…» mormorò, dirigendo lo sguardo all’uomo dagli occhi azzurri.

«… ed è questa ragazza, quella capace di “trasformarsi in una belva”?» chiese con tono ironico.

«S-sì signore…» rispose titubante, deglutendo.

L’uomo osservò la donna con occhio critico e approssimativo. Disegnando un ghigno nel suo volto, accentuato dalle rughe. I capelli bianchi tagliati corti.

«A me sembra una normale donna…» affermò, ridendo. Lo squadrone intorno a Elisa si mosse, ridendo.

«Non osate sottovalutarmi, chi l’ha fatto ha pagato con la vita. E ne avrete le prove, se guarderete i resti dei vostri soldati.» rispose Elisa alzando il mento fiera.

«Le vostre lance non mi impauriscono, né il numero dei vostri soldati.» ribadì, sogghignando.

«… non siete voi, quello ad avere il coltello dalla parte del manico.» e con quelle parole, si trasformò. Aumentando il volume del suo corpo e la sua forma. Arrivando alla forma rozza e forzuta della pantera più pura. Le zampe e le fauci ruppero con semplicità le lance che la puntavano e la pelle ignorò le scosse infertole. Numerosi furono i soldati che, sfoderate le lame al loro cospetto, si lanciarono valorosi. Ma nessuno di loro domò quella pantera in apparenza instancabile e invincibile.

«Fermati mostro, o loro moriranno.» disse l’uomo, quando la donna pantera trafisse con le sue zanne l’ultimo uomo.

Quattro soldati tenevano sotto lame le tre ragazze, e la terza, sempre impassibile, la fissava fredda. Un leggero ghignò regnò nel suo volto, prima di ritornare impassibile come prima.

Elisa, riducendo il volume del proprio corpo, continuò a fissare l’uomo dagli occhi ghiacciati.

«… di loro non mi importa niente.» rispose la donna, con tono gutturale.

Senza preamboli una ragazza cadde a terra, con la gola squarciata. L’urlo della seconda ragazza si levò alta. La terza osservò il cadere della compagna fredda, stringendo le labbra.

«Quindi non ti importa se le ucciderò proprio adesso, davanti ai tuoi occhi?» chiese l’uomo, vedendo lo sguardo della donna irradiarsi di brillante odio.

«… ti consiglio di non farlo più.» minacciò Elisa, chiudendo a pugno la zampa, conficcandosi nella carne quelle unghie smisuratamente grandi e affilate. Iniziando a perder sangue.

La ragazza fredda la guardava, come conscia del fatto che tra poco sarebbe toccata a lei. Aprì lievemente le labbra, respirando profondamente.

La seconda ragazza urlante venne passata a fil di spada, morta con le lacrime ancora calde negli occhi. Un ruggito potente si elevò dalla piccola valle pietrosa.

«Non osare darmi ordini mostro. Io di queste vite posso far quel che voglio…» affermò duro l’uomo in divisa, prendendo con forza il mento della terza, che lo guardava irosa ma continuamente fredda. Trattenendo le labbra dallo dar voce alla sua furia.

«… prolungare la loro misera esistenza…» e con un colpo basso la fece inginocchiare.

La ragazza mescolò i suoi occhi scuri a quelli spezzati di giallo della donna di fronte a lei, furiosa.

«… o spezzarla.» con quelle parole, sfoderò la sciabola al suo fianco, facendo per tagliare la testa alla ragazza.

Fu un secondo in cui la pantera si lanciò su di lui, con gli occhi completamente gialli, dominati dalla furia dell’animale.

Fu un secondo in cui l’elettricità la oltrepassò, solamente sfiorata dalla lama della spada.

Fu un secondo di luce, in cui vide gli uomini andare su di lei e bloccarla con corde e catene.

Fu un secondo in cui poté vedere gli occhi della ragazza finalmente brillanti di vita, finalmente illuminati da qualcosa: la sorpresa.

Fu un secondo in cui poté udire la sua voce che le parlava.

Grazie.

 

Fu un bagliore illuminante prima del buio.

 

Ho sempre incoraggiato le mie compagne a tenere la testa alta, a ribadire i loro diritti.

Quando morì la mia migliore amica davanti ai miei occhi, diventai presto una di loro.

Continuando a tenere la bocca chiusa.

Continuando a guardare da un’altra parte.

Continuando a ignorare.

E quando decisero la mia orrenda fine, risi.

Ero stanca di vivere così, se così si può chiamar vita.

Ma furono i suoi occhi a riscattarmi.

Furono i suoi occhi a ridarmi speranza.

Furono i suoi occhi a ridarmi la vita.

 

 

Ennesimo capitolo, ennesima questione. Dove vuole andare a parare la mia mente?

Lasciandovi e lasciandomi con questa domanda io vi lascio, inseguendo questo pensiero che continuamente mi sfugge.

A voi, che forse cogliete più di me.

 

Ringrazio Adhara che commenta ogni volta i miei scritti, inseguendomi come una nuvola insegue il vento.

Anche se, ovviamente, del suo blaterare politico io non ho compreso niente. ^_^

 

Al prossimo capitolo

Eriok

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** 7. ***


Cacciatori e Vittime

7.

 

Ero furia, rabbia cieca.

Cieca dalla luce, dalla verità, dalla realtà.

L’animale si trasforma, se rilegato in gabbia.

E io, per quanto umana possa apparire, non son altro che bestia.

 

Giorno 1

Elisa era seduta. Nella calma quiete del dormiveglia si svegliò, aprendo a fatica gli occhi. Le braccia e le gambe pesavano come macigni, e il dolore le fermava.

Il muro duro e freddo la sorreggeva, mentre percepiva nell’aria la forte umidità dell’ambiente. L’odore pregnante di marcio e putrido le entrò nelle narici, facendole disegnare un viso disgustato. Lo stomaco si ribellò, voltandosi, facendo venire in Elisa un istintivo conato di vomito.

Tentò di muoversi, ma le ossa e soprattutto i muscoli non rispondevano. La mente che intanto riceveva messaggi negativi. Abbandonò la dolorosa esperienza del movimento, concentrandosi sulla vista.

Il corpo era ferito, in più punti, superficialmente. I vestiti strappati, rovinati e sporchi. Polsini di ferro bloccavano sia le sue caviglie che i suoi polsi. Provò un improvviso moto di rabbia.

L’avevano privata della libertà.

«Fanculo…» mormorò a voce roca. Intanto analizzò la situazione. La cella non era più grande di uno stanzino. Putrida, sporca, con un angolino ricoperto di paglia e un buco troppo piccolo per fuggire utilizzato per i bisogni corporali dei detenuti.

Le sbarre, logore ma forti, erano spesse quanto un polso da uomo. Acuì la vista, notando un’altra cella uguale alla sua dall’altra parte. Non badò se fosse piena o vuota.

La porta, completamente ricoperta da infissi di legno, era l’unico aspetto forte e robusto, forse l’unico veramente curato.

Ma le forze le vennero meno. Indagare era troppo per quel corpo spossato per così poco. Si abbandonò, chiudendo gli occhi. E l’oblio la fece sua, come sua preda.

 

Giorno 2

Elisa si risvegliò stavolta per un rumore fastidioso, come di due superfici lisce e metalliche a collisione.

«Mangia mostro.» parlò una voce non individuata, mentre rotolava verso di lei un piatto con dentro un tozzo di pane rancido e una ciotola d’acqua, già mezza rovesciata.

Elisa, famelica, vi si buttò, ingurgitando senza badare agli innumerevoli attacchi di rigurgito che le esplosero nella testa nell’azzannare quel pane, fatto di muffa e vermi.

Finito il pasto frugale si sentì subito meglio. Ma un ruggito sommesso dentro di lei le ricordò i bisogni di un Infetto: la carne.

«Carne…» mormorò, mentre la guardia di prima ripassava per riprendere i piatti.

«Te le sogni certe cose in questo posto.» le rispose l’uomo ghignando allegramente. Elisa non diede segno di voler restituire il piatto. Aveva ancora fame. Quel tipo di fame animalesca che, purtroppo, se non sedata non può controllare.

«Stronza.» mormorò l’uomo, entrando armato con uno di quei famosi bastoni scarica elettricità.

Fu veloce, fu netto.

Il soldato nemmeno s’accorse della rapidità con cui la donna l’aveva afferrato e poi spezzato l’osso del collo.

Il sangue caldo, la carne fresca. E l’impulso della pantera, insito in lei, bisognosa di carne, prese il sopravvento. Debole com’era Elisa non poté non resistervi. Crollò, dando modo alla belva di banchettare con quel corpo ormai morto.

E fu così che la pantera si prese la sua carne.

Era stato facile occultare il corpo. Le ossa, se ben pulite, potevano scivolare nel buco nel pavimento.

Il cranio semplicemente fratturato e poi buttato nello stesso posto.

Rise di gusto quando le guardie impazzirono non trovando la guardia al suo posto.

Rise più che non mai, con la pancia piena e l’animo animale sedato. Stava già impazzendo in quel misero buco, e ogni giorno la mente fredda e subdola della pantera prendeva il sopravvento su di lei.

«Perché ridi?» una voce l’interruppe, facendola scattare.

«Chi è?» chiese, avvicinandosi alle sbarre, le catene le impedirono di andare oltre la metà del percorso.

Silenzio. Elisa pensò ad un frutto della sua immaginazione, del suo animo povero da tempo ormai di interazioni con altri esseri umani.

«Tu rispondi alla mia di domanda, e io risponderò alla tua.» ancora quella voce.

Elisa corrugò la fronte.

«Rido perché mi va. Chi sei?» buttò lì Elisa, curiosa di identificare la voce femminile.

Proveniva di fronte a lei. Cercò con lo sguardo di spezzare il buio che la divideva da lei.

«Io non ho nome perché non esisto. E chi non esiste non ha nome.» rispose con un aforisma, mettendo in confusione la mente, già sforzata, della donna dai capelli corti.

«Silenzio! È vietato parlare!» la guardia passò nel corridoio angusto che divideva le due celle, e la voce misteriosa stesse in silenzio.

Nemmeno si accorse di essersi addormentata rivolta verso le sbarre.

 

Giorno 8

Parlare con quella voce calda la faceva sentire… bene. Un conforto nell’anima e nel cuore che nemmeno si accorse di allungare con il suo suono. Per quei pochi istanti di collegamento con lei, lei sorrideva.

E neanche si rese conto che così diventò la volpe del piccolo principe.

«Dimmi… cos’è quel potere che prende possesso del tuo corpo?» la voce melodiosa, ora tranquilla, arrivava flebile ma udibile per Elisa.

I suoi occhi, per metà posseduti dal colore giallo dell’animale, si mossero a guardare davanti a sé, come ormai erano abituati. Si strinse le mani alle braccia, mani quasi trasfigurate in zampe.

Il volto un misto incongruo di uomo e bestia.

E la voce un suono gutturale e quasi disumano.

«È lei… mi prende. E quando lo fa… fa male, tanto.» gorgogliò, muovendosi avanti e indietro col busto, seduta a gambe incrociate. Le catene ai suoi polsi si erano, poco a poco, spezzate dagli attacchi sempre più frequenti dell’animale.

L’unica che ancora resisteva alla forza brutale era quella alla gamba sinistra. Quella che, in pochi giorni, si era infettata per colpa dei pezzi di ferro rimasti nel suo interno da quel giorno alla luce apparente del sole.

Quel colpo di frusta l’aveva penetrata in profondità. E ogni giorno erano fitte che impedivano alla ragazza di dormire sonni tranquilli.

 

Giorno 11

Fino a quel giorno la sua fame era rimasta nascosta. Ma un osso, scappato alla sua fine pulizia e occultamento era rotolato inevitabilmente fuori dalla cella. Le guardie ci misero poco a collegare le misteriose sparizioni con lei.

Era da giorni ormai che non aveva più la capacità nemmeno di rispondere a quella voce che ormai reputava l’unica salvezza dalla pazzia.

I suoi occhi, colorati di gialli intenso, rilucevano nella gabbia, mentre si muovevano avanti e indietro.

Avanti e indietro, continuamente.

Nemmeno un minuto di pace.

Affamati di libertà.

Un intero squadrone era posizionato di fronte alla sua cella, l’uomo in uniforme che l’aveva sconfitta ora stava fermo immobile, pompato nel suo vecchio petto, mentre la guardava muoversi angosciata nel piccolo spazio in cui l’avevano lasciata a marcire.

Le forme che quella donna mostrava non erano neanche lontanamente paragonabili ad un deterioramento del corpo. Esso infatti mostrava muscoli scattanti e nervosi sotto la pelle scura, zampe affilate e fauci spalancate, pronte all’attacco. Perché l’animale lo sentiva.

Il sentore della battaglia.

L’unica senso che si poteva trovare nei suoi gorgoglii continui era il bisogno di carne. Lo ripeteva, come una litania. La pantera che lentamente prendeva possesso di quel corpo ormai abbandonato a se stesso.

«Che facciamo, signore?» chiese un soldato, apparentemente il capo dello squadrone.

L’uomo sembrò riflettere, continuando a fissare Elisa che intanto osservava quella carne famelica. Un rivolo di bava inevitabilmente colò.

«Non darò un uomo in più in pasto a questa belva, sicuro.» rispose, mentre il comandante con il bastone in mano aspettava l’ordine del maggiore.

«Ma è vero anche che non possiamo tenere questa bestia così piena di energia rilegata qua sotto. Ne abbiamo fortemente bisogno… ora che siamo a pochi passi dalla nostra meta.» l’uomo parlava tranquillo, mentre la mora continuava a guardare quell’uomo con gli occhi gialli iniettati d’odio e fame.

«Io le darei ciò che vuole.» affermò dunque l’uomo.

«Cosa?» chiese il capo al suo fianco, guardandolo sbigottito.

«Diamogli ciò che vuole: carne. E visto che prediletta quella umana, beh…» l’uomo si voltò, cercando apparentemente una vittima da darle in pasto.

«Datele lei.» fece, indicando la cella frontale a quella di Elisa.

La bestia continuava incessantemente a camminare, affamata. Fu quasi con gioia che vide la carne tanto ambita pararsi davanti a lei, a disposizione di zanne.

Un corpo fatto di carne, ossa, cuore e sangue.

Una ragazza magra, dai capelli ricci e occhi castani, colorati di vivo terrore.

 

Quando capii che proprio tu avresti deciso la mia orrenda fine…

… ebbi paura.

Per la prima volta, da quando sono rilegata qui, ebbi paura.

Paura della morte… ma non di te.

… perché sentivo che, in fondo al mio cuore…

Che infondo a quegli occhi profondamente gialli, ci fosse ancora un po’ di terra calda.

Quel colore di cui, subito, io, me ne innamorai.

 

 

Ecco un altro capitolo, partorito a fatica per colpa del Natale e delle sue cene da reggimento.

>.< a buon intenditore…

Ringrazio Adhara per i suoi commenti, sempre azzeccati e accorati… fatti col quel cuore che io, beh… non posso non pensare d’amare…

E ringrazio hacky87 che, stranamente, mi insegue dappertutto O.o paragonabile ad Hachi quasi XD (speriamo che tu colga il collegamento ^_^)

 

Il capitolo successivo potrebbe essere pubblicato con un lieve ritardo, colpa delle festività e soprattutto della pigrizia della scrittrice >.< (dovuta alla digestione ancora in corso del cenone di Natale ç_ç)

 

Buon Natale a tutti! (anche se in ritardo… sorry)

E Buon Anno a tutti! (per questo faccio ancora in tempo ^_^)

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** 8. ***


Cacciatori e Vittime

8.

 

Lo sento.

È nell’aria…

Quel profumo acre e dolce…

… che sa di te.

 

Gli occhi gialli, annegati nell’oscurità, scrutavano con ingordigia la nuova entrata. Il respiro calmo e bollente dell’animale era strano in confronto con quello accelerato e breve della ragazza appena entrata.

Muta, osservava la bestia con occhi sgranati, mentre le sue mani sfioravano la superficie ruvida del muro umido e sporco. Lo straccio che ricopriva la sua pelle era larga, una tunica sporca e rozza.

Quando le diedero una piccola spinta per poi chiudere la porta con un rumore secco sobbalzò spaventata, emettendo un piccolo squittio.

Gli occhi castani di lei ancora non si erano staccati da quelli della bestia. Quel giallo che la incantava e le insinuava la paura nell’animo.

Scivolò lentamente verso l’angolo, tentando di aderire il più possibile alla parete. La bestia, con il respiro mischiato al rantolo di fame, chiuse con rumore secco la mascella, i denti che stridevano. Poggiata pesantemente sulle zampe, quasi fossero stanche di reggere quel corpo.

«Buon appetito mostro.» mormorò, mentre l’uomo, seguito poi dall’armata, se ne scivolava tranquillo verso l’uscita.

Gli ospiti della cella nemmeno badarono all’affermazione dell’uomo. La bestia ormai era completamente dedicata alla sua cena. La lingua andò a leccare i baffi. E il cuore già impazzito della giovine accelerò il suo battito. Una mano sporca e graffiata corse al collo, afferrando una catenina quasi invisibile sulla pelle scura.

Elisa, completamente rapita dall’animo della pantera, si mosse, muovendo un passo verso la sua vittima.

Cacciatore e Vittima.

Ma chi è veramente la Vittima, qui?

Al collo una pietra blu, con una forma quasi simile alla figura del cuore.

Chi è il Cacciatore, Elisa? Tu, forse? Non eri Vittima, prima?

Le labbra si schiusero, tremolanti. La bestia spalancò le fauci, lenta nei suoi movimenti. Forse perché convinta che non la preda non scapperà.

La pietra si rifugiò nel pugno della ragazza, stretta con forza. Una lacrima che lenta scivolava sulla mascella, disegnando un singolare percorso pulito sulla pelle.

Sei sicura che è questo il destino di un Cacciatore e della sua Vittima, Elisa?

Lo sguardo giallo determinato della bestia, a pochi centimetri dal volto della giovine, si soffermò sul percorso della lacrima. Seguendola con lo sguardo e, stranamente, anche col cuore.

Fu quando la lacrima cadde dal suo viso, che gli occhi gialli tornarono a quelli castani. Si immersero in essi. Annegarono dolcemente in essi. Si persero in essi.

Può, dopotutto, la Pantera risparmiare la sua Vittima? Può tralasciarla, magari consolarla…

La mano della ragazza, tremolante, si avvicinò alla testa della bestia. L’istinto di prenderla e morderla si impadronì della pantera. La testa non si tocca. È zona tabù, è luogo proibito. È delicata, è debole. Indifendibile.

Eppure le sue dita secche, calde, tremanti e insicure toccarono la sua pelle. I suoi capelli. La sua testa. E un movimento dolce, rilassante e per niente doloroso iniziò a prenderla. E vi si abbandonò. Si accorse poi che la pantera si stava ritirando. La fame era sparita. Il ruggito stesso della bestia non risuonava più a gran voce nella mente della giovane dai capelli corti. E ricordando il proprio nome, ne prese possesso e coscienza.

Fu quasi con stupore che la giovane vide la donna riprendere forma tale. E pure coscienza. Con il sottofondo di fusa Elisa si ritrovò a pochi centimetri da quella ragazza che solo ora ricordava chi fosse.

Nella mente quel pezzo di ricordo di una giovane fredda, come condannata ad un destino che lei voleva ardentemente.

Ma ora, ciò che lei tempo fa aveva visto freddo, ora ardevano. I suoi occhi ardevano.

E annegò dolcemente in quel castano chiaro, quasi caramellato misto all’oro prezioso del miele. Si beò della sensazione dolce che dava.

Cadde a peso morto su di lei, sul suo petto, accorgendosi solo in quel momento che aveva ripreso a respirare. A vivere.

Fu con gli ultimi istanti di coscienza prima dell’oblio che si accorse, con enorme sorpresa mista a gratitudine, che le sue mani stringevano dolcemente il suo capo.

S’addormentò con il rumore sordo del suo cuore all’orecchio.

Può la Pantera abbandonarsi alla Vittima?

Può darle il potere di toglierle o di lasciarle la vita così?

… può concederle quella libertà?

 

Fu un movimento dolce a svegliarla. Aprendo gli occhi, ritrovò all’oscuro della cella una presenza in più.

Una persona in più di lei.

Una ragazza.

Una donna.

Si mosse, ricordandosi il dolore ormai quotidiano della gamba. Ma fu portando la mano alla ferita, che la trovò avvolta da un straccio.

«Cos…?» provò a dire, ma ne uscì solo un lieve sentore di parola, arrochita.

La ragazza stava seduta davanti a lei, poggiata sulle gambe.

«Mi sono permessa di curartela… dopotutto non ti sei lamentata nemmeno un istante nel sonno.» rispose, con una voce melodica, sul volto un sorriso.

E nella sua mente quella voce era lei. Quel filo che la tratteneva dalla follia. Quella voce che non aveva mai avuto volto. Che situava dall’altra parte del corridoio.

«M-ma tu sei…» questa volta la voce risuonò più forte, più udibile e più comprensibile.

E poi s’ammutolì. Perché il suo sguardo era caduto sul sorriso. E persino la mente si spense. I ricordi s’acquietarono. E un lieve brivido scese lungo la schiena, mentre fissava le sue labbra.

«Io sono cosa?» chiese, lievemente imbarazzata dallo sguardo della giovine, leggermente troppo concentrato sulle sue labbra.

La sua voce fece ritornare lucida la piccola pantera.

«Tu sei…» e issandosi con fatica con l’indice indicò al di là delle sbarre, al di là del corridoio.

Fu con armoniosa bellezza che i suoi occhi s’oscurarono per poi illuminarsi della comprensione. Quegli occhi castano chiaro.

“è bellissima.” E quel pensiero venne quasi con naturalezza assorbito e reso verità indissolubile.

«Oh, sì. Ero io la voce che ti parlava al di là del corridoio.» rispose.

Elisa, tentando di issarsi su con le braccia per sedersi, vide le proprie braccia tremare come budino, per poi vederle crollare.

«Aspetta, t’aiuto io…» e con sicurezza l’afferrò dalle spalle, per poi aiutarla ad adagiarsi sul muro lì vicino.

La fissò, guardandola mentre dolcemente la prendeva e l’accompagnava al muro. La guardò stranita, quasi fosse inusuale. Quando gli occhi di lei si scontrarono con i suoi, li rifuggì con imbarazzo. Sentì le gote arrossarsi.

“Chi sei tu? Questo essere che arrossisce nello scontrare uno sguardo d’una ragazza?” pensò, mentre guardava ancora stranita la gamba, accorgendosi che era veramente bendata bene. Una benda che non sapeva da dove provenisse.

“… In che cosa mi ha trasformata? Che cosa m’ha fatto?” si domandò, mentre vide la ragazza alzarsi per andare a prendere il mangiare dalla guardia. Notò che la tunica era più corta. Arrossì di nuovo, mentre osservava il suo movimento sinuoso e ammaliante.

«Non ti ha ancora fatto fuori, ragazzina?» chiese l’uomo, sghignazzando. Le passò con rabbia la ciotola.

«A quanto pare no.» rispose atona, con un lieve tono sarcastico nella voce, mentre afferrava l’oggetto. Attraverso le sbarre l’uomo l’afferrò per la tunica, facendole cadere il piatto con un sonoro rumore. Un moto di rabbia prese Elisa mentre osservava le sue mani sfiorarle il viso.

«Vedrai che prima o poi lo farà. Quella lì che accudisci con tanto amore, ti sbranerà. Dopotutto è soltanto una bestia.» rispose, guardandola. E lo sguardo cadde quasi inesorabilmente allo spiraglio che la tunica lasciava.

«Lasciami!» fece la ragazza, tentando d’allontanare l’uomo con gli occhi accesi di una frenesia disgustosamente pericolosa. L’uomo non la badò, guardandosi a destra e a sinistra.

«Penso che una cosa veloce la possiamo fare, piccolina, se non fai troppe storie.» rispose, prendendo con frenesia le chiavi dal mazzo, lasciando la ragazza che corse dalla compagna di cella. Elisa le diede la possibilità di nascondersi dietro di sé, mentre lentamente si era alzata. Con una mano appoggiata al muro le gambe tremavano, deboli nel reggere quel corpo pesante. Lo sguardo iroso fissato all’uomo frenetico.

Il rumore secco della porta che si apriva fece sussultare la ragazza, e la donna dai capelli corti sentì le sue mani stringerle i vestiti con forza. La sua mano libera la strinse al suo fianco, portandola ancora più dietro sé. La sua mano sopra la propria. E ancora quel brivido. Ancora quel lieve sentore di frenesia sconosciuto.

L’uomo, socchiudendo la porta si fermò di fronte alla donna dai capelli corti.

«Spostati, bestia.» mormorò, mostrando il bastone elettrizzante.

Ma la donna non si scompose, scrutandolo con gli occhi scuri. L’uomo, veloce come un’anguilla, le colpì una gamba, quella ferita, facendola capitolare. Un mugugno di dolore le uscì a tradimento, mentre si stringeva la gamba ferita a terra.

«Finalmente mia, piccolina.» mormorò l’uomo con voce vorace. La strattonò con forza, obbligandola all’angolo, mentre tentava di bloccarle i polsi con una mano sola.

«Lasciami! Non mi toccare!» urlò disperata.

“La sua voce. Lontana, eppure così tangibile. Sento il rumore delle sue lacrime. La sua disperazione.” E con quello Elisa esplose, gli occhi per un momento completamente gialli.

L’uomo, con la vittoria ormai in pugno e le braghe quasi calate si sentì strattonato dalla maglia. Sollevato in aria, il volto della bestia a pochi centimetri, che ruggì con forza, mostrando le zanne.

La guardia urlò come una donnina, mentre la bestia la lanciava contro le sbarre, piegandole al colpo. L’uomo cadde a peso morto, stordito. La bestia ritornò a quattro zampe, guardando l’uomo e poi la porta aperta. Portò lo sguardo alla giovane, ancora spaventata da ciò che le stava per accadere. Guardò gli occhi spezzati della bestia e vide che la testa le faceva cenno di uscire dalla porta aperta.

Fissò per tanto tempo la porta socchiusa, e poi gli occhi scuri e gialli della bestia. E il suo cuore decise.

«I-io non me ne vado… senza te.» rispose con voce tremolante ma spirito fermo, ribadendo il concetto scuotendo la testa.

E fu con lo scalpiccio delle guardie che accorrevano al rumore avvertito che la bestia, in un certo qual modo, sorrise. O almeno sembrò, secondo la ragazza dai capelli ricci.

La ragazza scivolò nell’angolo, sedendosi stringendosi alle gambe. Le guardie, notando le condizioni del compagno tentarono di riprenderlo, chiudendo la porta dietro di loro. Con lo sguardo assassino la bestia osservò le guardie allontanarsi dubbiose e spaventate. Quando tornò la quiete Elisa riprese forma umana, seguita da un rumore di ossa scricchiolanti e gorgoglii sommessi.

La ragazza, stretta nel suo pianto silenzioso sentì una mano stringerle affettuosamente il capo. Quando alzò lo sguardo bagnato, singhiozzando leggermente, vide il cielo.

La luce. Il sole. La luna e la terra sorridere.

Fu quasi con naturalezza che si abbandonò nelle sue braccia, piangendo disperata come non aveva mai fatto. Cadendo in quelle braccia calde e forti che la stringevano con fermezza e dolcezza. Inspirò a fondo il suo odore, mentre annegava nel suo petto.

 

Assaporai l’odore di casa.

Percepii la sensazione meravigliosa di sicurezza e calore.

Quel calore che non ho mai sentito.

Cosa mi sta accadendo?

 

Sai Elisa, ho sempre saputo che tu avevi qualcosa di magico… qualcosa di speciale.

Qualcosa che non si poteva insegnare, né imparare. Qualcosa che è insito nell’animo umano.

Quel particolare aspetto che ti rendeva brillante ai miei occhi. Così bella e magica da paragonarti ad un angelo.

Tsk, e tu pensavi che fossi io, l’angelo. Solo perché assomiglio ad un angelo non significa che lo sono, Elisa. Ma la tua stupida testardaggine ormai mi aveva etichettato come tale. E visto che ti conosco bene - più che bene oserei dire - te lo lasciavo fare. Dopotutto quando ti metti in testa una cosa, è quella. Punto.

Solo perché avevo gli occhi color del cielo non significa che gli appartengo, Elisa.

Solo perché avevo i capelli color dell’oro non significa che abbiano lo stesso valore, Elisa.

Ma tu ne eri fortemente convinta. Davi valore a cose che valore non avevano.

Ma il solo fatto di darglielo, un valore, esso d’un tratto diventava più prezioso di una gemma.

Mi hai fatto apprezzare per quello che ero, Elisa.

Quella tua stupida magia… aveva incatenato persino me. Con quegli occhi color terra. Quella terra calda, accogliente e fertile.

Dio… sei capace di esprimere così tanto con quegli occhi Elisa, che nemmeno te ne rendi conto.

Felicità, agonia, tristezza, solitudine, apprezzamento…

Così tanto in così poco spazio, in così poche tonalità di colore.

Un intero mondo di sentimenti in così pochi istanti. Ogni volta che ti fermavi a guardarmi io… io morivo. Erano troppo per me. Non li meritavo.

Non ti potevo dare quello che volevi, Elisa.

… non ero io la principessa che dovevi salvare.

Ma ora, da quassù, noto con grande piacere che l’hai trovata.

 

 

E con l’ispirazione nella mente e i brividi che corrono nel mio cuore io ho potuto vergare un nuovo capitolo, sperando che vi abbia soddisfatti.

Spero, vivamente ç_ç

Ringrazio Adhara che recensisce ogni volta. E apprezzo questo suo gesto. Con tutto il cuore. Contenta? Non t’ho divorato ;) XD

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** 9. ***


Cacciatori e Vittime

9.

 

Cacciatore e Vittima. Ho forse invertito il giusto col sbagliato?

Ma alla fine, cose’è giusto e cos’è sbagliato?

Il tuo profumo mi ha stregato…

… e quegli occhi castani mi hanno fatto tua.

Ma io non posso essere amata.

Un mostro non è degno d’esser amato…

… soprattutto da te.

 

Elisa sedeva nell’angolo più lontano dalla porta, con la schiena appoggiata al muro. Le braccia stringevano dolcemente il corpo gracile e ancora singhiozzante della ragazzina. Le gambe abbandonate nella loro lunghezza sul pavimento sudicio, la gamba ferita ancora ancorata alla catena fissata al muro. Lei si era raggomitolata nella sua stretta, come un gatto tenta di mantenere il proprio calore. Si era dolcemente addormentata, sentendosi al sicuro tra quelle braccia avvolgenti e calde. Quanti brividi dolci percorrevano quella donna in quel momento. E più ne sentiva, più ne voleva.

Il triste percorso delle lacrime avevano lavato una buona parte del suo viso, e le mani, strette quasi con paura al suo braccio, mantenevano ancora la forte presa. Mosse una gamba, poggiandola sul piede. Il movimento disturbò il sonno della compagna di cella, facendola leggermente mugugnare. Elisa sorrise, scusandosi silenziosamente, passandogli una mano nei suoi capelli. Erano dolci, morbidi ricci che cadevano fin quasi a metà della schiena. Fu scostando una sua ciocca che vide un segno alla base del collo. Non una cicatrice, ma una parvenza di tatuaggio. Una croce posta sopra una specie di girandola a quattro capi.

Lo sfiorò, incuriosita, ma facendo ciò svegliò la ragazza di soprassalto. La ragazza scattò immediatamente lontana da lei.

«Che stavi facendo?!» le chiese, guardandola irata. A un metro da lei, a carponi. Elisa si perse nei suoi occhi per poco prima di rispondere con una domanda.

«Cos’è quel tatuaggio che hai sul collo?» chiese, guardandola con curiosità mista a lieve eccitazione. La sua pelle era morbida come aveva immaginato.

«Io non ho nessun tatuaggio… è una voglia, quella che hai visto, niente più.» rispose, mettendosi apposto i capelli in modo nervoso, lo sguardo basso.

«Menti.» affermò Elisa, rimanendo composta. Gli occhi marroni che tentavano d’avere l’attenzione dei colori gemelli.

La riccia iniziò a giocare con una ciocca, sedendosi a gambe incrociate davanti alla mora, non avendo il coraggio d’alzare lo sguardo.

“Non ci riesco… non riesco ad alzare gli occhi e a dirle una bugia.” E mentre pensò questo lanciò una sguardo alla compagna, notando che la fissava. Abbassò gli occhi, sentendo le gote arrossarsi.

“Che cosa mi sta facendo?” si domandò, continuando a giocare con la ciocca. Rigirandola nelle dita affusolate, mentre Elisa continuava a fissarla. Quando la sua attenzione slittò su altro.

L’uomo in uniforme la stava osservando dalle sbarre piegate, proprio di fronte a lei. Lo guardò come la tigre guarda il proprio carceriere. Con odio. L’elettricità usciva così potente dai suoi occhi che persino la riccia lo sentì, e seguì lo sguardo assassino fino al suo destinatario.

«Si può sapere cosa vuoi, mostro? Ti ho dato la carne che tanto desideravi, ma a quanto sembra non è di tuo gusto…» parlò l’uomo, guardando con disprezzo la donna seduta e buttando un occhio alla castana, subito scattata al fianco della donna dai capelli corti.

«La libertà.» rispose dopo un po’, percependo il suo tocco vicino alla spalla. Di nuovo quel brivido.

L’uomo sghignazzò, per poi iniziare a camminare intorno alle grate quasi divelte.

«… come puoi notare, posso controllarmi… se mi dà una buona motivazione.» disse, tentando di guidare quel discorso.

«… una buona motivazione?» ripeté, smettendo di camminare e appoggiando di nuovo lo sguardo alla donna, che rimaneva seduta, nell’angusta cella.

«Mangio per non esser mangiata. Uccido per non esser uccisa.» mormorò, facendosi lo stesso udire dall’uomo impettito.

«Tsk, questa è solo una stupida legge. Si uccide per mangiare.» rispose il capo.

La donna, passò lo sguardo sugli occhi scuri della compagna, sorridendo lievemente.

«Ma c’è chi uccide per molto meno. Io uccido se qualcuno minaccia la mia incolumità o quelle d’altri. E poi, proprio per ultimo, per mangiare. Mai per altro.» rispose la donna, riportando lo sguardo all’uomo, che la fissava stupito.

«Vana gloria. Arriverai anche tu, prima o poi, ad uccidere per soldi, per potere… o per vendetta.» buttò l’uomo, in preda a insanguinati ricordi. La mano che si grattava il mento.

La donna non rispose, ferma nelle proprie convinzioni. Desiderava la libertà, e non sarebbe andata di certo a patti con quell’uomo.

«Avrai la libertà, donna. Ma in cambio di cibo e acqua dovrai lavorare nella miniera dove lavorerà anche la tua amica.» affermò l’uomo, guardando negli occhi la donna dai capelli scuri. Elisa sentì un sussulto della compagna alla parola “miniera” ma non vi badò. L’importante era uscire da quel buco.

«Va bene. » accettò la donna, alzandosi, pronta per andare. La mano di lei che stringeva con forza la sua maglia.

«Stammi vicino e non ti succederà niente.» sussurrò la mora, portandola dietro di sé. La porta s’aprì, e un uomo senz’armi entrò tutto tremolante con in mano un grande mazzo di chiavi. La donna lo guardò, fredda, ma non dimostrò aggressività. La guardia con velocità le liberò la gamba, indugiando sui polsini già rotti. Con un certo sollievo Elisa si massaggiò la gamba, notando già la pelle rovinata dal continuo strofinamento del ferro su di essa.

Le imposero di uscire, pungolandola con i bastoni elettrizzanti. Bastò un ruggito per non sentire più la loro punta fastidiosa. Percorsero tutto l’angusto corridoio, salirono delle scale. Elisa ebbe delle difficoltà nella salita, per colpa della gamba, ma con l’aiuto della compagna senza nome riuscì ad arrivare fino in alto.

«Grazie…» mormorò sorridendole. Ricevette un sorriso mesto come risposta.

Lo sentiva. Aveva paura. Gli occhi di lei sfrecciavano veloci da una guardia all’altra, e le sue mani stringevano con forza la vicina.

Arrivarono in una grande sala bianca. Quel bianco luminoso accecò lievemente le due prigioniere, abituate all’oscurità delle celle. Entrarono poi in un corridoio, inoltrandosi in un labirinto in cui Elisa perse subito l’orientamento. Vennero poi spinte in una aperta al buio. La donna dai capelli corti capitolò, e la compagna cadde sopra il suo petto. I loro visi si stavano per scontrare, a poca distanza l’una dalle labbra dell’altra. E la tempesta dei brividi di Elisa esplose, guardando le sue labbra con così forte desiderio che la voglia di prenderle e averle diventò più forte della sua coscienza. Ma si alzò veloce la ragazza, diventata tutta d’un tratto rossa.

Elisa, riprendendo mano a mano il controllo di sé s’alzò anch’essa, tossendo fintamente.

«Scusa…» le mormorò la ragazzina, guardando il pavimento, ricoperto di paglia. I piedi nudi iniziarono a muoversi, e le dita, birichine, si stringevano.

«Fa niente… dove siamo?» chiese la donna, guardandosi intorno. Ora che lo sguardo iniziava ad abituarsi, notò una stufa di medie dimensioni, e tutti intorno letti fino a dove la luce delle fiamme riuscivano ad arrivare.

«Siamo nel dormitorio.» rispose la ragazza, con tono amareggiato. Osservò cupa i letti disfatti, quando entrambe sobbalzarono all’aprirsi della porta. Un gruppo di ragazze entrò, tutte d’altezza media-bassa, a parte alcune alte tanto quanto Elisa o forse di più. Le donne appena entrate mostravano tutte una giovane età, scure di capelli e di occhi. Occhi spenti, notò Elisa. Sconfitti. Amareggiati.

Quando si accorsero delle due nuove entrare rimasero un poco sorprese. Una donna passò in mezzo al gruppo, facendosi spazio, portandosi proprio di fronte alla donna dai capelli corti.

Questa ragazza, dai capelli lisci e scuri, vicini al nero, la guardava con arroganza. Quasi con rabbia. Gli occhi scuri, quasi neri, irati.

«Chi sei tu?» chiese con prepotenza.

Elisa sentì subito un moto d’antipatia verso la donna che si comportava come il capo della combriccola di ragazze.

«Elisa… e sono venuta per salvarvi.» rispose, osservando con  la medesima forza quegli occhi scuri. E in fondo vi vide una piccola paura. La donna sghignazzò e d’un tratto notò una somiglianza con l’uomo altezzoso di prima.

«Tu, salvarci? Ma non farmi ridere!» rispose, passandole oltre, urtandola con la spalla. Il resto delle ragazzine, che avevano assistito inermi a ciò che era appena successo, la oltrepassarono senza badarla nemmeno d’uno sguardo. Gli occhi bassi.

Elisa rimase stupita di come quelle persone fossero sconfitte.

Si diressero verso i giacigli, buttandosi sotto le leggere coperte concesse a loro. Elisa rimase l’unica in piedi, ancora shockata.

«Ve lo dimostrerò.» disse a voce fiera, sedendosi davanti alla stufa e di fronte alla porta, determinata nel fare la guardia. Sentì lo stesso però, sul suo capo, lo sguardo bruciante della giovane senza nome.

 

Era tardi. Lo sentiva, che ormai era notte fonda. Ma uno spiffero di vento stranamente la rapì.

“Vento?” si domandò la giovine, guardandosi intorno. Buttò un occhio verso la giovane dai capelli ricci, prima di scrutare il buio più totale con gli occhi spezzati di giallo. La caverna in cui erano state buttate era enorme. Talmente alta e profonda che persino la vista acuta della pantera non riusciva a spezzare il buio che oscurava quella enorme stanza. S’alzò, guardando la porta indecisa e poi le ragazze assopite alla grossa.

Diede un ultimo sguardo alla piccola ragazza dai capelli ricci tutta rannicchiata per mantenere il calore sotto una coperta lisa e sporca prima di trasformarmi e scomparire a grandi falcate nel buio.

Ma pochi minuti dopo che la donna era stata inghiottita dall’oscurità, la porta s’aprì rivelando una figura sinistra.

 

Elisa correva a grandi falcate, fermandosi alcuni secondi per annusare l’aria.

Odore salmastro. Un odore che ricordava nella sua mente una cosa da tempo dimenticata.

“Impossibile…” mormorò, riprendendo la corsa, con falcate ancora più forti.

Quando sentì un folata di freddo investirla completamente.

 

«No, non mi toccare! Lasciami!» la ragazza dai capelli ricci tentava in ogni modo di allontanare l’uomo di ieri che aveva tentato di possederla. Il ghigno dell’essere si poteva scorgere dalla poca luce che la stufa emetteva. Le compagne che, in silenzio, stavano immobili aspettando che la tragedia avvenisse. Implorando, sempre in silenzio, che non venissero prese di mira loro. Sperando che l’uomo trovi soddisfazione in solo quella vittima e non in altre. Ringraziando che, per quella volta, non siano state scelte loro, come sfogo.

 

Una vista panoramica dall’alto incantò Elisa, facendole sentire un’esplosione silenziosa di emozioni ambivalenti nel cuore. Una distesa di pietre grigie e taglienti possedeva la maggior parte della superficie visibile ma, in lontananza, poteva scorgere i palazzi alti della sua città. La sua base. E poco più in là la foresta di Ros.

Poté scorgere, poco più in basso di lei un sentiero stretto tra le pietre, che puntava dritto alla città. Il desiderio di imboccare quel sentiero e tornare indietro fu grande. Ma fu un presentimento che la fece ritornare indietro, a grandi falcate.

 

«NO! Lasciami! Aiuto!» la riccia urlava, tentando di dimenarsi mentre l’uomo la buttava a terra, obbligandola al pavimento.

«Zitta puttana! Mi prenderò ciò che voglio quando lo voglio! E stavolta non ci sarà la tua amica bestia a salvarti! Morirà di sicuro, visto che si è inabissata nel buio!» rispose l’uomo mentre con la mano teneva strette le sue mani sopra la sua testa. Le lacrime che scorrevano, lo sguardo fisso al buio liquido nei meandri della grotta. La presenza dell’uomo che le bloccava le gambe aperte.

«No…» supplicò con la voce, con il singhiozzo nella gola. La mano frettolosa dell’uomo che si sganciava la cintura. Il sorriso che prendeva il suo volto non sarebbe da comparare nemmeno ad una bestia.

La ragazza aveva ormai abbandonato le speranze. Cercando con lo sguardo un aiuto nelle ragazze intorno a lei, nascoste sotto le coperte.

Incontrò gli occhi scuri della giovane di prima, che aveva deriso Elisa e la sua missione di salvataggio. Sembrano dicessero “te lo avevo detto”. Un rimprovero che non aiutava, né insegnava.

Pianse ancora, tentando invano di sfuggire alla presa ferrea dell’uomo, se così si può chiamare.

«Ora vedrai come godi con questo…» mormorò l’uomo, abbassandosi tutto tremolante per il piacere le braghe. Ma l’unica cosa che la ragazza vide fu la testa dell’uomo afferrata da una zampa nera.

E un ruggito così minaccioso che uccideva al solo sentirlo.

Ma, soltanto per lei, urlava la salvezza.

Urlava realtà.

Urlava verità.

 

Non dormii più notti tranquille se non tra le tue braccia.

Il terrore di svegliarmi ancora da sola per colpa di un corpo bisognoso solo di piacere mi uccideva.

La paura profonda di perderti, nel sonno, mi impose le tue braccia come coperta.

E il tuo cuore come cuscino.

E mai giaciglio fu sì dolce e caldo…

… come te.

 

Mi hai sempre parlato della tua vita passata Elisa. Quella ragazza il cui padre rendeva disgustosamente succubi sia la madre che la figlia. Distruggendole mentalmente e fisicamente. Donando a loro solo dolore.

Mi è sempre morto il cuore, amica mia, sapere questo di te. Ogni volta che ti sentivo narrarla, con quella voce quasi triste, malinconica, le mie mani tremavano. E non per la paura nella tua voce, ma per la foga di poter tornare indietro e riparare a questa “ingiustizia”.

Sei una persona così fantastica, dolce e buona come un pezzo di pane… pensare che hai sofferto così tanto mi fa solo salire la bile.

“Ma ora è passato.” Mi dicevi sempre. “Non puoi cambiarlo”. E sorridevi.

E le mani smettevano di tremare, quando sentivo le tue mani prenderle. Svaniva la rabbia, con quel calore.

E i tuoi occhi, così spenti in fondo, bruciavano.

Hai sempre avuto un profondo senso della giustizia. E del giusto e sbagliato.

Non della morale, quella serve solo a rompere e a traviare queste parole del loro significato.

Ma parlo di quella forza tale da impedire l’accadere di episodi negativi. Quella forza che impedisca all’uomo di ridursi peggio di una bestia.

Ho visto la tua anima soffrire, davanti alla mia morte.

Ho sentito il tuo urlo di dolore, di fronte alla mia salita in cielo.

E mi spiace.

Ti ho visto torturarti l’anima, e qualche volta anche il corpo, per essere quel mostro che tu non volevi diventare.

Un mostro, pensi di essere?

E cos’è, Elisa, un mostro?

Solo perché muti d’aspetto pensi di essere una creatura abominevole e a cui non si deve nemmeno la libertà di vivere?

Tu pensi veramente di non avere il “diritto” alla vita? o, ancor peggio, all’amore?

Se osi rispondere di sì, amica mia, scendo e ti prendo a randellate finché non ti riprendi.

 

 

Ecco un altro capitolo. Un altro evento spiacevole, un altro fantastico salvataggio di Elisa. Una prigione bianca. E un passaggio alla libertà.

Riuscirà Elisa a mantenere la sua promessa di salvare tutte le donne di quella prigione?

 

Ringrazio Adhara di cuore, sperando che continui ad apprezzare questa storia e questo cuore malandato, che ama oltre le linee tracciate dagli altri. Che, come Icaro, vuole volare fino a raggiungere il sole. Peccato che io voglia la fredda luna della sera.

 

Ringrazio Mameofan che, con la sua meravigliosa recensione, ha acceso un barlume di speranza in me. Pensavo di scrivere un’emerita bidonata. E invece, con la sua sincerità e cordialità, mi ha invitato a continuare a scrivere. Ed è proprio quello che ho intenzione di fare.

 

Ringrazio anche Hacky87 Pensi che ora abbiano un barlume di speranza o no? Lascio a te l’immaginazione ;)

 

Al prossimo capitolo.

Eriok

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** 10. ***


Cacciatori e Vittime

10.

 

Pensavo fossi una come tante.

Una donna del tutto uguale alle altre, deboli, insensibili e… spaventate.

Quando ormai avevo perso persino la speranza vidi la tua forza diventare tangibile.

Il tuo urlo di rabbia diventare tempesta.

E la tua furia colorarsi di nero.

Eri così dannatamente sensuale…

Dea, che mi sta facendo questa donna?

 

Elisa, con la presa forte alla testa dell’uomo, lo sollevò in aria. Gli artigli che penetravano il viso della guardia che, invano, tentava di liberarsi dalla presa forte della donna pantera.

«Allora non hai recepito il messaggio.» mormorò, con la voce gutturale. Gli occhi gialli che fissavano l’uomo che urlava come una donnina di dolore. Il sangue che colava dai buchi che gli artigli stavano creando. Elisa, sorridendo sadicamente, strinse lievemente la presa, facendo aumentare gli spasmi dell’uomo, disperato e dolorante. Senza speranza, l’uomo urlava pietà, chiedendo d’esser liberato.

La donna rimase quasi sorpresa delle parole dell’uomo.

«Pietà…?» chiese, quasi non credesse alle invocazioni dell’uomo disperato.

«S-sì…» rispose l’uomo, con le mani che tentavano di staccare l’origine della tortura e del dolore.

Gli occhi si riempirono d’un tratto di giallo.

«PIETÁ!?» urlò ruggendo con rabbia, le fauci spalancate di fronte al viso dell’uomo. I denti affilati che mostravano tutta la sua spaventosa lucentezza.

 

Di nuovo mostro.

Di nuovo bestia.

Di nuovo… crudele.

 

Il corpo dell’uomo finì sul muro bianco fuori dalla porta, schiantandosi con tale forza da creare una voragine. Le schegge di legno ancora volavano nell’aria mentre il ruggito della ragazza si alzava alto, creando un spaventoso silenzio.

 

Il giudizio.

La condanna.

Bestia ancora.

Il potere della Morte nelle mani.

 

La coppia di uomini in divisa che facevano da sorveglianti alle ragazze scattarono, spaventati dalla fine che il loro compagno aveva fatto. Si misero all’attenti, i bastoni elettrificanti al massimo. Le scosse correvano sul bastone di lucente metallo blu, proprio come scorreva veloce il sangue sul pavimento. Le interiora dell’uomo si mostravo inermi, mentre l’odore ferroso e maleodorante di cadavere iniziò a premere nel corridoio.

«Esci!» urlarono gli uomini, vedendo un’ombra che ferma respirava con forza. Il rantolo che creava il suo ansimare era così profondo che faceva da sottofondo. L’unico respiro che si poteva udire veloce tanto quanto il suo era quello della ragazza sul pavimento, sollevatasi sui ginocchi e stringendosi le braccia con forza, tentando di fermare le lacrime che scorrevano.

I passi felpati non vennero uditi dagli uomini, che videro solo un illusione di fantasma colorato di morte fulminare verso di loro. Un uomo si ritrovò trapassato da parte a parte da un braccio. La zampa nera usciva dalla schiena dell’uomo, nella presa ferrea la spina dorsale insanguinata. Un rantolo indefinito uscì dalla gola dell’uomo, spirando sul colpo. Non soddisfatta, la bestia staccò di netto la spina osservando il corpo annichilire su se stesso. Lasciando cadere l’osso rosso di sangue, portò lo sguardo all’unico superstite, rimasto inorridito dal gelido omicidio commesso di fronte ai suoi occhi. Il sudore freddo colava veloce sul viso, mentre le mani iniziarono a tremare.

La donna s’avvicinò, sicura che la preda non sarebbe scappata, paralizzata dalla paura.

Sì, perché lo sento…

Un ghigno brutale, misto tra ciò che ancora rimaneva di umano all’animale che predominava.

… puzzi di paura.

Sobbalzò, quando vide alzare un braccio. E chiuse gli occhi, aspettando inconsciamente la fine. Ma si sentì solo afferrare la mano, per depositarci sopra qualcosa di viscido, caldo e consistente. Quasi con timore, aprì lievemente gli occhi, guardando l’oggetto inorridito. E uno spasimo di terrore uscì lieve dalla sua gola.

Sulla mano i resti ancora caldi del pene del suo amico.

«Ancora una visita del genere, e lo strapperò a tutti voi… qualcosa in contrario?» domandò, intuendo la risposta dell’uomo che, sobbalzando di nuovo, portò gli occhi iniettati di orrore a quelli che, in parte, avevano ripreso un pezzo di castano scuro. Con fatica l’uomo mosse la testa, in un gesto che stava ad indicare la più totale comprensione.

La donna continuò ad osservarlo, imprimendogli i suoi occhi gialli nell’anima, mentre con la coda dell’occhio vide i suoi pantaloni colorarsi di scuro.

«Tsk.» mormorò, alzando il labbro dimostrando disprezzo. Rientrò nella stanza, la coda che si muoveva sinuosa e sicura fu l’ultima cosa che l’uomo vide prima di far cadere, gelato dal panico, l’arma che non era riuscito ad utilizzare.

Rientrando Elisa vide che la situazione non era cambiata, a parte che alcune si erano alzate, cercando di avvicinarsi alla ragazza dai capelli ricci, ancora inginocchiata sul pavimento. Singhiozzando talmente forte da sobbalzare. Riprese quasi con tranquillità la forma umana.

Due volte. Si è sentita annullata e resa oggetto in meno di ventiquattr’ore.

Elisa osservò gli occhi delle compagne guardarla sorprese. Sorprese di vedere qualcuno combattere per qualcun altro oltre che per se stessi. La donna che prima l’aveva contestualizzata era seduta su un letto, guardando con freddo distacco le condizioni della giovane compagna di dormitorio.

Elisa, disgustata dal comportamento del gruppo di ragazze si pulì velocemente le mani in una coperta inutilizzata per poi dirigersi con ansia verso la sua ex compagna di cella.

Con dolcezza le afferrò le spalle, facendola sussultare.

«Calmati… è tutto finito…» sussurrò con voce dolce. Quel tono calmo e caldo, così completamente diverso da prima. Dal ruggito della bestia di prima.

La ragazza levò lo sguardo, con le lacrime agli occhi, incontrando quelli di Elisa.

 

Terra bruciata bagnata da una pioggia di cristalli.

Scoglio di un mare in tempesta, preda della neve e del terrore.

 

Le si gettò con bisogno nelle braccia, stringendola con forza singhiozzando e gemendo di paura. Una paura che Elisa era uscita a sbaragliare di nuovo.

«È tutto finito…» continuò a sussurrare, accarezzando i suoi dolci ricci, muovendoli dolcemente. Le sue lacrime che bagnavano la sua maglia. Si issò in piedi, prendendo in braccio la ragazza che non aveva intenzione di staccarsi. La sua stretta prese più forza intorno al suo collo.

“Ha un così buon profumo…” pensò la ragazza, stringendosi a lei ancor di più. La paura di rimanere di nuovo da sola che la dominava.

Quando portò lo sguardo alle ragazze erano tutte in piedi, di fronte a lei, in silenzio.

«… quante di voi hanno subito violenze del genere?» domandò schietta, facendo sussultare quelle in prima fila. Molte evitarono lo sguardo, guardando il pavimento. Alcune piangevano, di nascosto.

«… oggi ho salvato lei…» rispose, facendo levare il viso della ragazza nelle sue braccia, che la guardava dal basso. Gli occhi che si muovevano, tanto erano pieni di emozioni contrastanti.

«… domani potrebbero riprovarci… ma io vi giuro che difenderò ognuna di voi. Dovessi pagare con la mia stessa vita.» parlò, guardando con forza ogni singola ragazzina nei loro occhi scuri, fissando in ognuna la sua promessa in silenzio.

«Ora dormiamo…» disse, dirigendosi verso un letto, poggiandovi la ragazza che aveva sostenuto tranquillamente in braccio. Un sorriso calmo sul viso.

Fece per abbandonarla nel letto quando lei non lasciò la presa sul suo collo.

«Non abbandonarmi.» disse disperata, ancora una lacrima che cadeva. Elisa, sorridendo, le rubò quella lacrima, asciugandogliela. E si distese vicino a lei.

«Va bene…» mormorò, mettendole una coperta sulle spalle. Distesa sulla schiena, lasciò che la ragazza si accoccolasse al suo fianco, stringendosi tra il suo busto e il braccio che Elisa poggiò sulle sue spalle. Sentì le gambe strette dalle sue e la testa sistemarsi meglio sul seno. Sentirla così vicina, avvinghiata al suo corpo, le mandava, ad ondate continue e crescenti, brividi incessanti.

Mentre pensava di passare una ennesima notte insonne la guardò quietarsi e rilassarsi al dolce battito del cuore della donna.

«Sei calda…» disse in un soffio appena udibile. Con la coda dell’occhio la vide sorridere e inevitabilmente Eli

sa non poté non ricambiare. Mentre una piccola pallina di dolcezza si spezzava, tra lo stomaco e il cuore, infondendole quella lieve sensazione d’ubriachezza.

Continuando a guardare il buio soffitto si domandò, per tutta la notte restante, il motivo di questa sensazione d’allegria immotivata.

Ma, con sorpresa nuova, ogni volta che si voltava trovava la risposta nella pace della notte della sua compagna.

 

Iniziai a sentire una sensazione che pensavo persa da tempo.

L’ombra di un ricordo.

E, nelle sue braccia, sentii dentro il mio cuore…

… le parole di una poesia mai imparata,

la foto di un album mai scattato,

le note di una canzone forse mai esistita

e un luogo che inevitabilmente profuma di…

… Mele e rose.

 

… Elisa, amica mia…

Oh, sono così talmente felice di leggere queste parole dentro te.

Sorridendo quasi divertita per la tua incomprensione.

Di tutte le qualità che hai, Elisa, quella che purtroppo non posso darti è la velocità di comprensione.

Ma sai, è proprio nei momenti difficili che la vicinanza di certe persone ti apre gli occhi.

… non sei più sola, amica mia…

Ti sembrerà strano, ma il Destino ha deciso che fosse lei la tua anima gemella.

L’opposto di te. La metà di quella mela che si spezzò, ai primordi.

Ed è proprio lei che, come dici tu, amerà la “Bestia” che sei.

Tu, amica mia, sei il primo caso in cui il Cacciatore s’innamora della Vittima.

 

 

Ecco un nuovo capitolo. Una traccia di sogno che ho prodotto.

E una traccia di profumo che ancora mi inebria e mi ricorda, inevitabilmente, te.

Mele e Rose.

 

Ringrazio Adhara… a cui non so dare altre parole se non… grazie. Grazie di quella bellissima domenica. Un sogno che diventa realtà.

 

Ringrazio hacky87 che si scalda per la storia :) proprio l’effetto che io volevo creare… spero che anche questo capitolo sia di tuo gradimento… ^_^

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** 11. ***


Cacciatori e Vittime

10.

 

Fuoco, stella e bagliori di luna.

Son sempre stati così, i sogni miei.

Ma stanotte, per qualche strana ragione, han cambiato soggetto e colori.

Tu, al centro del mio mondo,

illuminata da un bagliore di sole.

E una sensazione di vertigine dolce nel cuore.

 

M’abbandonai al sonno con tranquillità.

Quel battito così indeciso tra il calmo e l’emozionato mi accompagnò nel mondo onirico.

E il tuo respiro, leggero, quasi timoroso di potermi svegliare.

Eri così calda…

… non sapevo fosse così bello dormire con te.

 

Furono svegliate rozzamente, prese e trascinate per i corridoi lindi della labirintica base sotterranea. E giù, verso il basso, dirigendosi quasi al centro della terra. Una bollente e chiusa miniera si mostrò davanti agli occhi della donna dai capelli corti, la coda si mosse esprimendo il nervosismo della stessa. Gli animali odiano i posti chiusi. La pantera che stava trattenuta in Elisa si mosse contrariata.

Mossero pietre e massi di ogni tipo e dimensione, smuovendoli e scavando sempre più, facendole sgobbare tutto il tempo senza mai fermare il ritmo incessante del lavoro. Il calore della terra si mischiava insieme a quelli dei movimenti delle donne, spostando enormi secchi ripieni di terra e sassi. Su e giù da quel buco di terra dove non sapevano il motivo del loro sfruttamento. Elisa tentò varie volte di avere risposta, ma l’ottenne appena vide una ragazza estrarre un sasso delle dimensioni di un pugno lucente, strappata subito dalle mani di una guardia ingorda.

“Oro. Ecco quello per cui sfruttano queste ragazze. Ecco il motivo della loro crudeltà.” Un moto di stizza prese la donna, ma la forte sorveglianza non le permise colpi di testa. Non voleva essere una rivoltosa. Non doveva farsi mettere in punizione. Aveva delle ragazze da difendere. E venire meno alla sua promessa non è da lei.

Lavorò, continuando a star china in quel buco, in mezzo al fango e all’odore di sudore e terra. Sporcandosi fino all’inverosimile. Quasi non s’accorse che la ragazza a cui passava i secchi pieni di fango e pietre era la sua ex compagna di cella.

Aveva gli occhi fissati nel vuoto, spenti. Quasi estraniata dal mondo, compiendo sempre lo stesso movimento e in silenzio, a capo chino. Elisa fissò gli occhi nei suoi, facendoli brillare. Se sotto la forte coltra di fango secco avesse potuto scorgere, avrebbe notato un intenso rossore.

Sorrise sotto i baffi, mentre la coda s’aggrappava ad un palo e si chinava per scavare ancora. Acqua.

«Passatemi un secchio, qui c’è acqua!» urlò, ricevendo un secchio pieno di bozze e senza manico, sporco di fango. Allungando il braccio si sporse troppo, sentendo la sua presa sul palo venire meno. Il legno perse la sua solidità, spezzandosi. La giovine vide il soffitto smuoversi sopra la propria testa, e il terrore di finire seppellita la ghiacciò su posto, guardando con terrore le crepe espandersi e minuscoli grammi di polvere scendere sulla sua testa. Fu una piccola mano sporca a trascinarla via prima che il soffitto cedesse. Quando il suo corpo riprese di vita, notando i massi giganteschi crollare, iniziò a correre anche lei, prendendo d’istinto  la ragazza dai capelli ricci in braccio. Il crollo si stava allargando.

«Crolla tutto! Via di qui!» iniziò ad urlare la donna, correndo agile saltando i massi davanti a lei. Le altre piccole operaie che iniziarono a correre anch’esse, tentando di fuggire dal crollo. Le guardie già scampate al pericolo.

Uscite per miracolo, distese a terra, sentirono un tonfo e un rumore d’acqua. E l’urlo irato di un uomo dai capelli bianchi in pompa magna.

 

«La ronda della notte scorsa è tornata senza risultati, Capo.» parlò un ragazzino armato di lancia, vestito di verde. La donna dai forti capelli rossi stava davanti lo schermo, con il pollice e l’indice a coprire la bocca, mentre il resto della mano avvolgeva il mento. Gli occhi scuri di lei che schizzavano, come leoni intrappolati in una gabbia di nero cemento. La coda, che presentava un ciuffo di peli rossastri in punta si mosse, congedando silenziosamente il soldato, che si dileguò.

“Dannazione Elisa… dove cazzo sei?!” i pensieri della piccola donna erano immensi, mentre la coda si muoveva sinuosa, destra e sinistra, come un pendolo che scandiva il tempo. Un muoversi armonico e fluido, come tutti i felini d’altronde.

La mappa davanti a lei mostrava percorsi segnati in bianco, rosso e nero. Numerosi e sottili i tracciati bianchi, spessi quelli in rosso. Il nero, quasi assente.

La ricerca iniziò subito dopo aver perso le comunicazioni radio con la ragazza dai capelli corti.

Numerose le ronde negli angusti corridoi e gallerie presenti in tutte le montagne rocciose e nel sottosuolo. Ma, fino ad ora, tutte avevano miseramente fallito.

«Dannazione!» urlò, dando un pugno al tavolo di plastica, piegandolo leggermente. Giulia, apparsa dietro le spalle della donna, sussultò, per poi parlare a scossoni.

«C-Capo… la ronda di Ippolito ha trovato qualcosa…» mormorò la ragazza ghepardo. Girandosi, ottenne la più completa attenzione della Rossa, creando in lei la classica tempesta di brividi che ancora non riusciva a dominare. I suoi occhi, due lame di bronzo nel petto.

«Cosa?» chiese, mostrando la propria impazienza, avvicinandosi per poterla scrutare più da vicino. La ragazza, ogni volta che la guardava o le parlava, sussultava. E sembrava, in certi momenti, che evitasse persino di toccarla.

“Probabilmente le starò antipatica… l’ho dovuta separare da Elisa e le ho fatto perdere il proprio Capo…” suppose, mentre fissava negli occhi brillanti la ragazzina, che tentava di evitare il suo sguardo. La coda che si muoveva a scatti, nervosa.

«Hanno trovato.. L-la borsa del nostro Capo… stracciata.» mormorò, a fil di voce, trovando il coraggio di fissare i suoi occhi. E, nel suo cuore Ros seppe, che la mente della ragazza aveva elaborato le tesi peggiori. Fu un moto di compassione e dolcezza che la portò ad abbracciarla.

«Non temere, la troveremo. Dovessi anche morire per riportarvi il suo corpo.» mormorò, stringendola al collo, sentendo il suo corpo irrigidirsi, per poi sciogliersi in un pianto liberatorio, ma silenzioso. Il suo leggero pigolio creò nella ragazza dai capelli rossi una tempesta di brividi che non seppe riconoscere. Un moto al cuore sconosciuto. Esplose all’interno del proprio corpo nel momento stesso in cui le labbra di Giulia si giunsero con le proprie.

 

Ippolito stava seduto nello scranno fatto di liscia e povera pietra fredda. Aspettava Lucio, impaziente. Infatti il tacco dei suoi stivali neri provocava un rumore secco che echeggiava nella sua stanza.

Un uomo alto tanto quanto lui si presentò, con lo stesso volto serio di Ippolito.

Gli occhi neri come la brace spenta, ma pieni di fuoco scuro. I capelli portati con un codino erano rasati ai lati, neri anch’essi e lucidi. Esprimeva una bellezza proporzionata, da uomo maturo, che raramente si trova in ragazzi giovani come lui.

Ippolito, scorgendolo sulla porta, allargò le gambe in modo quasi voluto, mentre Lucio chiudeva la porta a chiave.

Gli occhi scuri del Capo rilucevano, mentre il bacino fremeva sapendo quello che sarebbe successo di lì a poco. Si passò una mano nei capelli lisci, biondi quasi a sfiorare il bianco.

«Ai vostri ordini, Capo.» rispose l’uomo, intuendo sin da subito cosa l’altro voleva. Gli occhi corsero febbrilmente al cavallo dei pantaloni bianchi del biondo, cogliendoli stretti per ciò che stava sotto di essi. Le sue mani tremavano leggermente. La mano nivea e ben curata di Ippolito, invece, corse alla zip dei jeans, abbassandoli sonoramente.

«Sai cosa fare, Lucio…» parlò l’uomo serio, gli occhi accesi di passione.

«… muoviti.» intimò, ordinando.

 

«Chi è stato?!» urlò il capo in divisa, impettito nella sua linda divisa, in confronto al colore di fango sul corpo di Elisa. S’alzò, fiera e con occhi di brace. Passando in mezzo al gruppo di ragazze spaventate e luride di terra. Uscì dal cerchio, parlando.

«La colpa è mia.» rispose, sentendo sulle proprie spalle il colore degli occhi di lei. Percepì la presa delle guardie su di sé. La ragazza tentò di ribellarsi, ma memore della promessa si lasciò condurre. Obbligata, si mise in ginocchio di fronte al gruppo di ragazze, dando le spalle al capo. Aveva visto l’uomo con in mano una frusta. Gli occhi di Elisa fiammeggiarono, mentre i denti si sfregavano tra di loro nella bocca, le labbra serrate e il respiro veloce. Sapeva, nella sua mente, cosa sarebbe successo. Lo sentiva, e si abbandonò al suo destino, per l’ennesima volta.

Le mani stringevano in modo convulsivo i vestiti mentre la striscia di pelle segnava rozza righe di rosso sulla sua schiena, lacerandole la pelle e i vestiti. Non urlò, il suo orgoglio non glielo permetteva.  Si morse un labbro a sangue, pur di non dare la soddisfazione a quell’essere mostruoso, anche se il dolore era immane. La rabbia della bestia dentro di lei urlava, e scalpitava, ma con la poca forza disponibile in Elisa, gli impedì di uscire. Quando le sue forze venivano meno, e la rabbia della bestia predominava la sua coscienza, l’unico espediente dal dolore e dalla furia erano gli occhi dall’unica ragazza che aveva il coraggio di fissarla, languendo in un pianto silenzioso. Lacrime silenti ma bollenti, che tracciavano percorsi lindi sulle sue guance, come quel giorno lontano nella cella.

Quando l’uomo finì, ordinò con un leggero ghigno di soddisfazione di riportarle nella loro stanza.

«Domani lei riparerà al danno provocato.» sentenziò, mentre osservava il corpo della giovane presa e trascinata dalle spalle verso il corridoio. Il sangue colava sul pavimento bianco, tracciando silenziose ma sofferte strisce di indelebile gocce di dolore.

Vennero portate ai bagni, dove chiuse a chiave, avevano trenta minuti per potersi lavare, medicare e cambiare di vesti. Elisa, in piedi per miracolo, osservò l’ambiente, del tutto simile ad un banale spogliatoio. Panche, docce, e asciugamani. Tutti bianchi, tutti lindi.

Tutto disgustosamente bianco.

Aiutata dalla sua anonima compagna, si appoggiò alla panchina. Un conto alla rovescia sui bagni troneggiava sopra la porta, che scandiva quanto tempo avevano.

Il suo volto, ancora sporco, la guardava timorosa. I tracciati delle lacrime ancora solcate.

«Non piangere.» le chiese, sorridendole mestamente. E la ragazza tentò di pulirsi il volto, ottenendone un nuovo miscuglio di sporco. Con una faccia insoddisfatta disegnata, provocò nella mora una risata spontanea che risuonò roca per tutto il bagno. Sembrò come un fantasma di un’era passata. Le ragazze, per quel secondo avevano smesso di muoversi, di lavarsi. Tutte a guardarla per poco, prima di riprendere il lavoro. Tutte che tentavano di ricordare la propria, di risata.

Elisa non capì la reazione di tutte, ma fu chiaro che a quello non erano abituate.

«Hai una bella risata, sai?» le disse la compagna dai ricci capelli ancora in piedi di fronte a lei.

Elisa sorrise mestamente, mentre tentò di togliersi la maglia per potersi lavare le ferite prima che si infettino. Ma il dolore le smorzò il movimento a metà, provocandole un soffio contrario.

«Aspetta, ti aiuto io…» le rispose l’altra, prendendole i bordi della maglia e sfilandogliela lentamente. La mora intanto, mordendosi le labbra, represse il dolore della stoffa attaccata alle ferite fresche. Quando la maglia venne gettata in una cesta, ormai inutilizzabile, Elisa sentì, in modo tangibile quasi, gli occhi scuri della sua amica sfiorare e accarezzare la sua pelle. Li incrociò, ottenendo la vista dei suoi sfuggirle, e un rossore nascosto. Le sue mani che si torturavano tra di loro, che presto si nascosero dietro la sua schiena.

«Mi dai una mano a raggiungere una doccia… per favore?» disse poi, spezzando il silenzio imbarazzante che la ragazza aveva creato. Sussultò quasi e, continuando a fissare il pavimento, annuì prendendole timorosa un braccio per poi portarla lentamente ad una doccia.

«Apri l’acqua calda al massimo. Il calore ammazza i microbi.» aggiunse, ottenendo un gesto veloce ma tremante della ragazza che correva al bottone.

«N-non vuoi toglierti… i-il resto dei vestiti?» chiese, fissando i pantaloni e gli stivali. La voce tremante per un motivo a Elisa sconosciuto. La mora andò sotto il gesto con tranquillità, ricevendo il getto direttamente sulla schiena. S’irrigidì per poco, ma il sollievo arrivò presto alle ferite.

«Oh… no grazie...» rispose, mentre portava anche il volto sotto l’acqua bollente e benefica, gli occhi chiusi.

“Dea, è così bella…” i pensieri della giovine dai capelli ricci erano strani. Rimasta davanti alla donna dai capelli corti sotto il getto, completamente bagnata, nel suo corpo correvano brividi sconosciuti. Osservò le mani di lei correre sulla pelle togliendo lo sporco, il reggiseno umido mostrava forme tonde su cui la ragazza si soffermò per poco, imbarazzata. I pantaloni, bagnati, aderivano alle cosce disegnate e perfette della donna. Sentendosi quasi una spia nel fissarla, si portò sotto un getto anche lei, preferendo l’acqua fredda. Aveva fin troppo caldo in quel momento. E chissà perché, passando le proprie mani sul proprio corpo, desiderò per un istante che fossero le sue mani, a percorrerlo.

 

Quando ne uscì, vide che Elisa non era più sotto il getto. Con un asciugamano avvolto intorno al corpo pulito si diresse verso una pila di vestiti, prendendone uno a caso. Dopo averlo indossato in velocità cercò con lo sguardo la ragazza ferita, ma non la vide.

«Ehi, quanto sei lenta!» una voce squillante dietro di lei la fece sussultare, vedendo la ragazza asciutta e pimpante, non più dolorante.

«Ma come...! La schiena, non ti fa male?!» chiese, guardandola con occhio critico. Indossava una delle casacche larghe, infilata in parte dentro i pantaloni lavati alla meglio. Gli stivali erano ancora lievemente sporchi.

«Per quei graffi! Sono già guarita, guarda!» e con quell’affermazione si girò, alzandosi la casacca da dietro. La ragazza sentì un colpo al cuore per poi venir sostituito dalla sorpresa nel vedere la schiena pulita e senza un graffio.

«Come hai…?» e, quasi non volesse credere, portò la mano a sfiorare la pelle bollente della ragazza. Un brivido corse nelle vene della donna pantera, facendola allontanare dal suo tocco. La coda si mosse, agitata. Un’ondata di caldo nel corpo che non giustificava.

«Diciamo che esser infettata porta dei vantaggi… una di questi è la guarigione accelerata.» fece, sistemandosi la maglia. Un rossore sulle gote.

«… ti ricordi la ferita alla gamba?» le ricordò la donna, facendo fulminare la mente della giovine.

«Sì, me lo ricordo…» rispose, osservando come Elisa si sfilava lo stivale per mostrare il polpaccio, liscio e senza nemmeno un graffio. Solo un alone bianco, quasi invisibile, che disegnava la vecchia ferita sulla pelle.

«Wow…» mormorò, ancora sorpresa. Gli occhi che ancora non si erano staccati dalla sua pelle.

«Già… ascolta, quando si mangia? Io sto morendo di fame.» chiese la donna, provocando un risolino soffocato alla ragazza.

«Quando usciremo ci porteranno nella mensa…» aggiunse, ma quando notò lo sguardo trasognato della donna, si sentì avvampare, presa dal solito moto accelerato del cuore.

«P-perché mi fissi?» domandò, balbettando. Inconsciamente si nascose dietro il ciuffo che le cadeva sul volto. I capelli ancora umidi.

«… la tua risata… è adorabile.» mormorò, per poi portare una mano a sfiorarle la guancia, scostando i capelli dietro cui si era nascosta.

Il cuore pompava così forte il sangue nelle vene che assordò le orecchie della ragazza. Il resto non lo sentiva, né lo percepiva più. Osservava solo in modo maniacale i suoi occhi.

E un desiderio sconcio le entrò nella testa, sorprendendola.

«Sai… non mi hai ancora detto come ti chiami…» le disse la mora, aspettando che la ragazza rispondesse.

Ma un suono cupo e rugginoso fece intuire lo scadere del tempo. La porta si aprì immediatamente, con le guardie che incitavano con bestemmie e offese le ragazze a muoversi. Elisa ritrasse la mano, quasi imbarazzata.

Trascinate ancora per il labirintico corridoio bianco, entrarono in una saletta. Gli vennero dati dei vassoi contenenti cibo. Elisa, sedutasi vicino alla ragazza dai capelli ricci mangiò tutta la ciotola. Poi, ricordando la domanda senza risposta gliela riformulò. L’anonima ragazza quasi si soffocò con l’acqua.

«Te l’ho già detto…» rispose la ragazza, riprendendosi dalla tosse.

«… non ho un nome.».

«Tutti al mondo vengono chiamati con un nome, tu ne avrai pur uno!» affermò, parlando ad alta voce. Una guardia le ordinò di tacere, ed Elisa abbassò il capo.

«Non ho un nome t’ho detto… e se vuoi tanto saperlo se devo esser chiamata usano certi nomi che non sono tanto piacevoli…» rispose sussurrando la ragazza, piluccando il pane a piccoli morsi.

«… e allora perché non ti dai un nome tu?» domandò allora la mora, bevendo un bicchiere d’acqua.

«Perché non mi serve. A nessuno importerebbe del mio nome, e non lo utilizzerebbe nessuno, a parte me stessa.» affermò, guardando con tristezza il piatto, giocherellando con la forchetta.

Elisa notò gli occhi spenti della ragazza, e soggiunse nel suo animo un moto d’affetto per lei. Iniziò ad osservare anche lei il piatto, come le era stato suggerito di fare, mentre passava una guardia di fronte a loro.

Quando fu abbastanza lontana sussurrò una cosa, prima che intimassero l’ordine di alzarsi.

«… a me importerebbe.».

Gli occhi spalancati della ragazza furono il motivo del suo sorriso.

E il suo sorriso fu il motivo della sua gioia.

 

 

Sono crudele, lo so… ma so quanto possa essere snervante un capitolo troppo lungo, quindi ho preferito spezzarlo… sperando di non aver richiamato l’odio dei miei accaniti lettori sulla mia testa ç_ç

Un ringraziamento speciale alla mia eterna compagna Adhara, che mi segue costantemente e commenta con le sue adorabili parole. Sei così speciale, che non saprei chi ringraziare per averti trovato.

Ringrazio Hacky87 che ormai si scalda ogni giorno di più per questa storia :-) adoro vedere lettori così accaniti… ^_^ sii fiduciosa, la tua pazienza verrà premiata… prima o poi XD

Ringrazio Noir_Sky che continua a seguire i miei scritti con passione ^_^ i three days grace son un gruppo mitico *.* aspetto un tuo commento per questo capitolo :-)

 

Alla prossima!

 

SEE YA! XD

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** 12. ***


Cacciatori e Vittime

12.

 

Cassandra…

… ti supplico…

Va via…

Lasciami qui… a morire.

 

Come, come è possibile staccarsi dal proprio cuore?

Perché la mia coscienza, la mia razionalità s’ammutolisce quando guardo te? I tuoi occhi…?

Eppure qui, sotto una pioggia di pietre e polvere, dominata da qualcosa che non so, io…

… non posso che portarti con me.

Sia la meta la vita o la morte, non importa.

Mi basti tu.

 

Fu in una notte che Elisa mostrò la via di fuga alla ragazza dai capelli ricci. In groppa a lei, stretta con forza alla sua casacca, ormai sporca.

«È… è… sublime.» balbettò la ragazza, ritornata bambina di fronte all’immensità che Elisa sì, pensava non avesse mai visto. La luce del sole che veniva a mancare, nascosto dalle nubi, permetteva una visione della foresta, mentre la luce della luna permise la visione della città eternamente illuminata, con i riflessi che spezzavano il buio delle montagne, la neve in alcuni picchi.

La sua bellezza nell’ammirare la natura colpì Elisa all’imboccatura dello stomaco. E gli occhi spezzati dal giallo si concentrarono in quelli castani, così presi nel guardare altrove. Quando si accorsero d’esser fissati passarono su quelli della donna pantera, ottenendo un leggero imbarazzo sul viso impassibile della mezza bestia.

Il rumore udito flebile da Elisa interruppe però quel momento magico. La mano della ragazza non si era ancora staccata dalla spalla della ragazza dai capelli corti.

Fu una corsa forsennata, il grido di aiuto che rimbombava nella grotta per tutta la sua lunghezza, creando un eco ghiacciante.

Elisa balzò in silenzio sul gruppo di uomini, mentre tentava di seviziare, ancora, una ragazza. Ci fu meno sangue stavolta, più fragore di bastoni e fulminate di dolore.

La scena finale fu, seppur dolorante e tremante, un Elisa che mostrava i denti a quattro uomini feriti. La ragazza che, terrorizzata, si stringeva ad un’altra sopraggiunta in soccorso. Se ne andarono così come vennero, in silenzio, insoddisfatti e combattuti.

Accaddero altre volte che gli uomini tentassero di soddisfare le loro voglie carnali con il gruppo, ma Elisa sopprimeva sul nascere queste idee sempre più spesso. Per poi metter termine alle imprese degli uomini e, se ritornavano, bastava lo sguardo bruciante e ardente della belva nascosta nel buio per sfumare il loro misero tentativo.

Grazie a questa difesa intramontabile il gruppo iniziò ad esser meno teso, e più aperto alla fiducia e alla comunicazione con la donna pantera.

 

Nel buio della caverna e nel silenzio della notte, Elisa parlava sempre fino a tardi con la ragazza riccia, raccontando tutto di sé. Da quel giorno, la sua ex compagna di cella non si staccò mai da lei, pretendendo continuamente la sua presenza, soprattutto la notte. E fu in una sera che, ascoltando un mito che la riccia conosceva a memoria, battezzò lei.

«Cassandra… lo sai che ti potrei chiamar così per il resto della tua vita?» le fece, mentre fissava il buio del soffitto. La testa della castana, poggiata sul suo ormai cuscino preferito alias la spalla della donna, sorrise, regalando alla mora dai capelli corti un nuovo balzo al cuore.

«Sei proprio strana tu sai… ancora su con questo nome…» le fece, stringendosi di più a lei, fissando lo stesso impossibile punto nell’infinito della non luce.

«Cassandra… Cassandra… mi piace.» mormorò, ripetendo quell’insieme di sillabe come per gustarne il sapore.

«… mi piace proprio… e d’ora in poi tu sarai Cassandra.» fece, con tono solenne. E gli occhi della neobattezzata si puntarono sulla sua mascella bianca. Le labbra desiderate a pochi passi da lei. Di nuovo quell’ondata di calore che, la mente stupida, bloccò per l’ennesima volta.

«Cassandra, eh?» mormorò, sfiorandosi le labbra con le mani. Una lacrima che lieve scivolava. I capelli che asciugavano quella stilla d’anima.

«Sì, tu sei Cassandra… e se vorrai, di nomi te ne darò altri tre… se me lo chiederai!» fece ridendo, stringendole la spalla, sapendo che stava piangendo.  L’abbracciò, sentendola sussultare, e non la lasciò fino al mattino. Ed Elisa, fissandola per tutta la notte, notando la pace di quel piccolo angelo dimenticato, si stampò l’odore dei suoi capelli, della sua pelle, i suoi mormorii notturni e il movimento delle sue labbra. Desiderando che un momento simile non finisse mai.

 

Un giorno però, mentre riposavano, Elisa venne richiamata alla presenza dell’uomo dai capelli bianchi in pompa magna, entrato nella caverna. Cassandra, la neo battezzata, la guardava timorosa, al di là delle guardie che le tenevano in cerchio, lontane dai dialoganti.

La donna, con i capelli cresciuti talmente tanto da cadere, mossi, sulla fronte, scrutava l’uomo odiato con occhi di brace.

«La notte sta per calare…» proferì l’uomo. Un sussurro sommesso venne dal gruppo delle donne, Cassandra trattenne un grido che la mora udì comunque.

«… la luna piena è prossima.» finì la frase. Gli uomini l’accerchiarono, le lance elettrificate pronti ad ogni sua ribellione.

«No!» urlò la riccia, mentre tentava di fuggire dal resto degli uomini che le trascinavano verso la porta.

«Cosa significa!?» chiese Elisa, mentre la belva prendeva il controllo della ragazza, parandosi di fronte all’unica uscita. Un controllo mantenuto a fatica. Uno sguardo di preoccupazione sempre rivolto alla compagna di tante chiacchierate.

«È giunta l’ora del rito sacrificale.» mormorò una guardia, mentre sogghignava. La donna non comprese subito. Poi, un ricordo.

 

«Ippolito, pochi giorni fa, tentando un altro approccio, diverso dai precedenti con più uomini e con più viveri, scoprì un campo. Non un campo verde. Era un terreno arido, composto di trucioli di terra e piccole pietre ovali. Fu per fortuna, o chiamiamolo “caso” che uno dei suoi compagni scavò, curioso del nuovo materiale. Poche manate di quel materiale scoprirono uno scheletro umano, susseguito da un altro. Lo squadrone, alla fine della giornata, avevano disseppellito più di una ventina di corpi umani. In poche parole avevano trovato una “fossa comune”.»

 

E il gruppo delle donne, con lei, raggiungevano venti individui.

«Non vi permetterò di ucciderci tutte per un Dio inesistente!» gridò, scagliandosi contro le guardie. Buttando giù pochi uomini alcune ragazze, più coraggiose d’altre, si buttarono sulle armi, iniziando anche loro una debole difesa. Cassandra, notando come gli uomini le spingevano verso il buio della caverna, si ricordò la strada tracciata da Elisa, quella sera, nel buio della grotta.

 

«Se, per qualsiasi evenienza, io non riesca a scappare con voi, tu dovrai guidarle.» sussurrò, mostrando alla giovine il tracciato quasi invisibile sul terreno.

«Come?» chiese, non vedendo nulla a parte il buio.

«Guarda attentamente.» suggerì, zittendosi all’istante.

Pochi istanti e Cassandra sussultò.

 

«Seguitemi, ragazze! Prendetevi tutte per mano e seguitemi! Non lasciate la presa per qualsiasi motivo!» gridò, inoltrandosi nel buio. Elisa, nel furore della battaglia, atterrò l’ultimo uomo prima di scorgere l’ultima ragazza dissolversi nel buio della grotta.

«Stolte! Non vivrete a lungo nella grotta! Nessuno vi è mai ritornato!» urlò il capo, intimando agli uomini di seguirle. Ma nessuno di loro si mosse.

Elisa si avventò sugli ultimi uomini rimasti, prima di lanciarsi anche lei nel vuoto.

 

«Oddio, moriremo tutte!» trillò qualcuna, ma la riccia zittiva tutte.

«State zitte, o ci troveranno!» rispondeva, mentre gli occhi si concentravano nel seguire quel lieve colore viola a forma di impronta sul terreno.

Poi, vicino a lei, un sospiro.

«Sono qui.» sussurrò, prendendole la mano che seguiva sul terreno le lievi colorazioni profonde.

«Ora vi guido io.» parlò abbastanza alto da farsi sentire dal gruppo. Il silenzio di terrore rispose.

Camminarono nel buio per un tempo impossibile. Sul dorso di una bestia è molto più breve il tragitto, ma al passo d’uomo, anche se affrettato, allunga i tempi.

Ma, finalmente, sul volto Elisa percepì quel lieve venticello che poi diventò bufera. Di fronte alla loro unica via di fuga, una tempesta tuonava fulmini e pioggia a catinelle.

«Presto, muovetevi a scendere. Il terreno è scosceso, ma se vi calerete lentamente nessuno si farà male!» gridò per farsi sentire al di sopra dell’urlo del vento. E intanto, poco a poco, piccoli individui iniziarono a scendere all’interno di quel ripido passo che Elisa aveva indagato solo fino ad una grotta.

«Voi…» fece, parlando a quelle ragazze armate.

«… rimanete qui per coprirci le spalle nel caso qualcuno riesca a seguire le nostre tracce…» ordinò, e lesse negli sguardi scuri delle donne un cenno di intesa, mentre si voltavano nell’osservare l’oscurità che poco prima le aveva avvolte.

Cassandra, prendendole un braccio, notò una sua ferita profonda.

«M-ma…! Tu sei ferita!» fece, notando come il sangue, colando ad una intermittenza frequente, seguita un tracciato fino nel tessuto permeo del buio.

 

«DANNAZIONE!» bestemmiò l’uomo, guardando l’oscurità come un nemico che non riusciva a sconfiggere. Si diresse adirato contro il buio, tentando di attaccarlo con la spada irradiata di elettricità ma, prima che desistesse e tornasse indietro, notò una traccia di sangue che, piano piano, tracciava una linea retta che sferzava il buio. E un ghigno disumano dominò l’uomo dai capelli bianchi, prima di farsi ingoiare dall’oscurità.

 

Elisa, mentre aiutava l’ultima ragazza armata a scendere, percepì un rumore strano. Ma fu allungando la mano che percepì come un grido d’avvertimento dalla pantera a farla rotolare di lato.

«Ti ucciderò!» urlò l’uomo fanatico. La pioggia che bagnava il suo volto dominato da un’essenza maligna.

«Elisa!» urlò Cassandra, mentre aiutava la compagna a scendere. Doveva risalire.

Doveva aiutarla. A tutti i costi.

Elisa scansava tutti i suoi attacchi senza un preciso schema, memore del fatto che bastava essere sfiorata per venir stordita.

«Muori, mostro!» urlò, mentre tentava un affondo. La mora, per scansarlo, inciampò. Il dirupo dietro di lei. la pantera che urlava per uscire. Un ruggito ruppe l’urlo della tempesta, e il volo dell’uomo soggiunse sino al soffitto della grotta. Caddero pochi massi sopra l’avversario, che pareva stordito. Un mostro che respira, mentre la pioggia lo bagna.

 

Non di nuovo, no!

Non ho… la forza… per fermarmi.

 

Un ruggito che ancora spezza le fiamme della tempesta, un urlo di rabbia e odio che taglia il vento e lo sguardo di Cassandra.

«No…» un sussurro ingoiato dalla tempesta. Una lacrima che si confonde con le stille della pioggia.

Gli occhi gialli che godono mentre il suo avversario si rialza dalle macerie.

«Devi… morire…» la litania dell’uomo riempiva le sue orecchie, impedendogli di sentire il dolore. La spada che, morta delle fiamme blu, ancora riluceva per la lama affilata.

«… MOSTRO!» urlò, gli occhi dipanati dall’odio e dall’estasi del rito che ormai si sarebbe consumato. Sacerdote di una cerimonia sanguinaria.

Un balzo ferino portò la bestia posseduta da un’ombra oscura a pochi centimetri dal suo avversario, che menava fendenti a vista. Il sangue che colava aumentò. Sia di l’uno che dell’altro. I tuoni della tempesta scandivano il ritmo della battaglia. Eppure, di fronte alla forza possente della bestia, l’uomo stava avendo la meglio.

«Car…ne…» nei suoi gorgoglii il bisogno di energia vitale per la bestia. Gli occhi che andavano a schiarirsi, pronti per l’oblio della mente. Il ghigno dell’uomo che, ferito, alzava alta la mannaia pronta per il sacrificio finale. La bestia che, inerme, giaceva ormai a terra.

«E ora tu…» fece, gli occhi dilatati. Il sorriso non ancora sparito.

«… MORIRAI!» la lama che cade. Un ruggito di rabbia. Un urlo di disperazione.

 

Il tempo che si ferma.

 

Fu con un colpo di dolore che l’uomo si ritrovò a terra. Nell’arco di un secondo sbalzato lontano.

Di fronte a lui non più la bestia sinuosa ed elegante che ha combattuto con facilità. Più una donna, che una pantera.

Davanti ai suoi occhi, un’ombra oscura, avvolta da un tessuto di fumo nerastro. Gli occhi, semplici luci gialle di verità, che risplendevano nella tela di viva oscurità.

«M-ma cosa…?» e poi, come se fosse nel potere dell’essere uccidergli l’anima, il suo corpo rovinò a terra per l’ultima volta, senza nemmeno esalare l’ultimo respiro. Mentre il corpo di Elisa giaceva nudo a terra, con gli occhi vitrei, annaspando alla ricerca d’aria e calore.

«Cassandra…» la voce roca, come se le corde stesse fossero state tutte recise… tranne una. Gli occhi vitrei alla tentata ricerca delle lanterne di verità dell’essere oscuro.

«… ti supplico… va via.» una preghiera lanciata al buio dei suoi occhi, cieca, mentre l’ombra la osservava, imperscrutabile. Elisa lo sentiva, il suo sguardo.

La grotta sopra di loro che stava lentamente crollando.

 

Perché sta nell’anima di ognuno possederne almeno un’altra. Completarsi in un altro essere simile a noi.

Mi sentii come risucchiare via l’animo e il respiro. Persino la belva che ero, oltre alla vista.

Ero solo un corpo. Una mente.

E, lo sentivo, la perfezione di un essere oscuro mi fissava.

A decidere con pazienza della mia vita.

Mentre io, come un nuovo essere appena partorito sulla terra, annaspavo in cerca d’aria.

 

 

Finalmente, il continuo.

E ora, una risposta veloce ai commenti, perché son di fretta J

Scusatemi >.<

A Noir_Sky, che spero abbia trovato soddisfacente, ringrazio di seguirmi costantemente ^_^ P.S. Non è giusto, io nooooooooo! >.<

A Adhara, che amo con tutto il cuore, ti dirò… tu puoi approfittare quando vuoi, di quella persona… sai? ;)

Amorevolmente ti ringrazio, piccola mia :)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** 13. ***


Cacciatori e Vittime

13.

 

Mi venne quasi naturale prender forza, vigore, da una fonte lì vicino.

Così naturale strapparle quasi la vita… le tolsi tutto.

Un essere perfetto che in realtà non ero.

Una maledizione che risorge da riti pagani e antichi tanto quanto il tempo.

Come si può chiamare una Maledizione la Salvezza?

Come si può chiamare Vittima un Cacciatore?

 

Era stato in quello spazio vuoto, tra un secondo e l’altro, che quell’innocente simbolo sulla schiena della ragazza dai capelli ricci luccicò, quasi della stessa intensità delle sue lacrime.

La mano tesa, quasi a voler portar via la donna che l’aveva salvata, strapparla dall’agonia.

Gli occhi marroni che d’un tratto s’illuminano di una luce chiara e nera. Il simbolo che, funzionando come un vortice, risucchia la belva in sé.

E come una nuvola nera ricopre tutto il suo corpo. La luce chiara e nera che riluce nell’ombra. La mente divisa in due. Due esseri completi in sé. Un urlo silenzioso nella mente.

E poi silenzio. Cassandra, in quel momento, non esistette più.

Non era più lei. non era né umana, né bestia.

Solo essere.

 

Elisa, sotto la pioggia battente, tentata di guardare al di là del buio, ma non ci riusciva. Non sentiva più quel muscolo fastidioso nella sua mente, che calcava e stringeva la sua anima. Non sentiva più la belva graffiarle la mente e cibarsi della sua coscienza. Era libera. Ma si sentiva vuota, sola, vulnerabile e nuda. La pioggia batteva sulla sua pelle. Le mani che tremavano. La coda senza vita ancora collegata al corpo. Il respiro roco, affannato. Alla ricerca di quell’aria che sembrava mancare. Il cuore che stava impazzendo.

«Cassandra…» lo sapeva, che era stata lei. E chi altro.

“Ma come?” sentiva la sua presenza di fronte a lei. La sua perfetta essenza.

«Ti supplico… va via…» doveva andare via. Scappare. Non poteva rischiare che rimanendo lì la donna potesse perdere il controllo della belva. Conosceva la potenza della bestia. E conoscendo la ragazza non si sarebbe mai perdonata di averla uccisa.

La vita le stava fuggendo dalle dita. Scivolò sulle rocce, senza nemmeno avere la forza per reggersi sulle braccia.

“Lasciami qui… a morire.” Gli occhi scuri si chiusero. L’ossigeno che mancava arrivava sempre meno.

Le lanterne di viva verità ancora l’osservavano. Poi una cosa viscida le toccò la cosca. I brividi milioni, la paura nel non sapere cosa fosse forte. Ma non aveva la forza nemmeno per ribellarsi. Troppo debole anche per vivere. Quella lingua viscida la stava leccando. Le mani, tentarono di raggiungere l’ombra che la sovrastava, presa nel tastare il suo corpo. Gli occhi castani che s’aprirono di nuovo. Forze nuove che ritornavano. Brividi forti che attraversavano il suo essere. quei brividi familiari…

Riuscì ad accarezzare la pelle dell’essere oscuro. Era vellutata, i capelli che riusciva a toccare delicati e ricci. Strinse la presa.

«Cassandra…» il nome della ragazza nella mente e nella voce, ritornata, quasi invocasse qualcosa di più. Le forze che ritornavano in lei, una voglia strana nel corpo.

La lingua che s’alzava verso il bacino. Piccoli denti che mordono. Un ansimo represso a forza. Ma non sentì più il tocco della donna su di sé. La cecità che ancora la prendeva.

Poi due labbra morbide. Un respiro infuso. Una luce abbagliante. Un rumore assordante e poi…

… il nulla.

 

Si risvegliò di soprassalto. La vista che le sembrava nuova. La vita nuova. Si guardò intorno, scoprendo un ambiente arido. Una grotta chiusa, adibita a stanza. Un abbraccio non previsto avvolse il suo collo, la voce spezzata di Cassandra che mormorava il suo nome dalla spalla.

La mano che stringeva inconsciamente i suoi capelli. I ricordi ancora vividi nella mente. Gli occhi sbalorditi che fissavano le persone intorno a lei.

«Era ora che ti riprendessi…» Ros sorrise, reprimendo una lacrima. Giulia le stava affianco, la mano intrecciata alla sua. Un sorriso umido era il suo. Ippolito, appoggiato al muro con le braccia incrociate, guardava di nascosto la donna dai capelli corti, un ghigno di soddisfazione sul volto. Amir che sopraggiunse poco più tardi, sorridendole.

«Non avrei mai pensato che ti avessi ancora come convalescente…» fece l’uomo, mostrando i denti bianchi in forte contrasto con la pelle scura.

«Ma come…?» finalmente diede voce alle mille domande che balenavano nella sua mente.

Cassandra si staccò, asciugandosi velocemente le lacrime. Aveva una mano fasciata.

«Ti spiegherò poi io con calma ok?» fece, sorridendole tra la gioia. E la luce tornò. Di nuovo. Veramente, questa volta.

«Sì…» fece, parlando con voce roca la mora.

Annuì con forza, sorridendo stavolta.

«Sì.» e strinse la presa sulle sue spalle.

 

La mente, nella sua limitatezza e semplicità, ricorda soltanto quello che gli occhi vedono. La nostra memoria è fatta di immagini, colori sgargianti e veloci che scorrono, come un film.

Menti aguzze sono coloro che ricordano le sensazioni provate con precisione. Perché nella mente le emozioni si sovrappongono e mischiano, troppo sfuggevoli per la nostra mente calcolatrice e razionale.

Dimmi Elisa, nella tua poco brillante mente, cosa ricordi di quel piccolo sprazzo, quel singolo momento, di piacere che hai provato?

Cosa?

Perché vedi… potrebbe esserti utile nel capire ciò che non capisci.

A volte la risposta non va cercata in capo al mondo, ma pensarla. Capirla. E accettarla.

Non cercare la risposta chissà dove, amica mia. Perché è lì, di fianco a te.

È ciò che si stringe a te con bisogno ed amore sincero.

Comprendila, ed accettala.

Non ci vuole mica tanto sai?!

 

 

E nell’ardore di un pensiero acceso io vi lascio questo nuovo capitolo.

Sperando che cogliate ciò che io ho seminato con attenzione.

Rispondo alla recensione intanto J

A Adhara, che mi segue sempre, nel bene e nel male (ma soprattutto nel bene ^w^) e che amo con tutta me stessa. Grazie paperotta, nel seguirmi con così tanto ardore. È come se questa storia fosse di entrambe, invece che soltanto mia… chissà perché :)

Amorevolmente tua ^_^

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** 14. ***


Cacciatori e Vittime

14.

 

Un viaggio. Una domanda bisognosa di risposte. Un nuovo mondo da esplorare.

Con te, amica mia. Mi servi tu.

Perché sei tu la mia domanda.

 

La convalescenza durò poco. Dopotutto un infetto ci mette poco a guarire le ferite. E poi, Elisa non era capace di stare ferma. Era stata per pura casualità che ci fosse una grotta usata come base nelle vicinanze del luogo dell’accaduto. E fu per mera fortuna che in quel momento ci fosse un gruppo di soldati al suo interno. Le ragazze vennero ospitate immediatamente, concesso acqua e cibo, un riparo dalla pioggia. Gli uomini di Ippolito, abituati alla presenza fortemente maschile, divennero incredibilmente gentili con loro. Ma gli occhi scuri delle ragazze grondavano ancora di orribili violenze perpetuati da uomini poco più grandi di quei ragazzi. Nei loro corpi ancora i segni delle mani violente di quegli esseri ignobili.

Cassandra, l’unica ragazza che aveva il coraggio di parlarne, informò i ragazzi di evitare di comportarsi così, e di chiamare dei medici, perché alcune di loro avevano delle ferite per la scalata. La voce che Elisa era tornata, dopo due mesi di silenzio, con un gruppo di giovani donne al seguito, corse veloce, arrivando fino alla base di Ros. I Capi delle tre forze si riunirono e decisero di raggiungere la donna, non ancora sveglia.

Amir stesso decise di venire, lui che mai prendeva decisioni ferme, se non in campo medico.

Giacomo al comando nella base nera, chiese al compagno di dare un colpo alla nuca della donna, per la paura che ha fatto passare a tutti, e così fece.

 

«Ahi!» protestò la donna, al sentire la mano scura dell’uomo arrivargli alla coppa.

«Così impari a farci prendere uno spavento simile.» sentenziò l’uomo, con voce lievemente spezzata. La donna, sorrise, sfiorando il volto di Amir.

«Scusatemi.» affermò, con un sorriso, guardando gli occhi di neri di lui, per passare poi a tutti i presenti nella stanza.

«Ma avevo una promessa da mantenere.» disse, guardando gli occhi scuri di Cassandra, lievemente umidi. Le labbra di lei composero un silenzioso “grazie”.

 

I Capi, contenti di scorgere la loro pari in salute, partirono per tornare alle loro rispettive basi. Dopo due giorni Elisa partì anch’essa, insieme al gruppo di donne che non aveva intenzione di staccarsi da lei. Furono giorni di marcia difficili, le ragazze non erano abituate e la mora non apprezzava il chiuso delle grotte dove dovevano scivolare per raggiungere la valle. Ma ci riuscirono. Raggiunsero sani e salvi la base Nera, dopo tre giorni di cammino. Elisa riunì nella sala riunioni tutti i ragazzi, per dichiarare il suo stato di salute.

«Salve a tutti! Qui, oggi, io mi ripresento a voi in salute, e portatrice di nuovi arrivati.» fece, mostrando con la mano il gruppo di ragazze intimorite dalla moltitudine di persone. Un vociare si alzò.

«Hanno la vostra età o poco più, mettetele a loro agio. È vero, non abbiamo più molti posti ormai, e l’aula nuova ha riscontrato difficoltà durante i lavori per cui sarà ancora impossibile avere camere nuove ma, sarà solo per poco. Alcune di loro vivranno in due, in una camera, e io stessa accetterò una di loro nelle mie stanze, se per questo. Mi aspetto la stessa cordialità da voi, non deludetemi.» e dicendo ciò, sciolse la riunione. Cassandra si avvicinò ad Elisa, mai separatasi da lei durante il viaggio.

«E chi sarebbe questa che verrebbe con te in camera, tanto per sapere…?» domandò la riccia, divorata dalla curiosità e, inconsciamente, dalla gelosia. La donna rise di gusto, prima di risponderle con un ciglio alzato.

«Ma tu, sciocchina. E chi altro?» chiese, guardandola.

Ovviamente la ragazza si nascose dietro il ciuffo, rossa di vergogna.

«Forza, seguimi…» fece, mentre si districava tra la miriade di gente che chiedeva alle nuove arrivate di mettersi con loro in stanza. La riccia guardava tutti con meraviglia, come se fosse strano che così tanta gente fosse generosa.

«Come mai qui sono tutti così… gentili?» domandò alla donna dai capelli corti, guardandola dall’alto.

«Qui tutti sappiamo cosa significa soffrire. E cosa significa non avere nessuno a cui aggrapparsi, a cui stringersi la notte per sentirsi al sicuro.» affermò con voce bassa, guardando la sorella di Adrian sorridere alla più piccola del gruppo, stringendole la mano.

«Qui tutti sanno cosa significa perdere tutto: famiglia, casa, amici, amori.» gli occhi che indugiavano su un Giacomo tutto rosso, mentre porgeva dei fiori alla più grande delle nuove arrivate.

«Non sorprenderti di questo. Essere gentili ed onesti non risulta per noi fatica, è un segno di comprensione. Qui tutti siamo così. Nel mondo prima del giorno dell’Apocalisse queste doti erano rare, oltre che difficili da costruire. Questo è il Nuovo Mondo. Costruito sui giovani. Costruito sulla sincerità, e sul significato del dolore. Gli uomini che hai conosciuto tu, quelli all’interno della vostra prigione, erano del Mondo Vecchio, quello ormai distrutto e sepolto. Questa è una nuova era.» affermò Elisa, intanto che camminavano per corridoi, ormai sole, a parte qualche ragazzo o ragazza che correva.

Elisa si fermò di fronte ad una porta, con un simbolo sopra: un cerchio nero.

«Siamo arrivate, mia nuova coinquilina. Prego.» fece, aprendo la porta per farla passare. Cassandra entrò, dubitante, guardandosi intorno e scoprendo un piccolo spazio vitale, molto spartano.

Il letto, che stava a ridosso del muro, era di una piazza e mezza, perfettamente in ordine. Una cassettiera sotto un oblò, che dava al di fuori, coperto da una lamina di ferro. La scrivania, l’elemento dominante nella stanza, era pieno di libri su libri, vecchi e ultra vecchi, fogli volanti e inchiostro ovunque.

«Scusa il disordine.» affermò lievemente rossa, entrando e chiudendo la porta alle spalle.

«Nessun problema…» rispose Cassandra, con voce piccola e con gli occhi fissi sul letto, spalancati.

«Il bagno è qui… come puoi vedere, è provvisto di chiave, così quando ti fai il bagno puoi chiuderti dentro…» disse Elisa, attirando l’attenzione della ragazza.

«Posso farmi il bagno… quando voglio?» domandò, come se non fosse vero. Gli occhi che luccicavano.

«Sì, però non esagerare nello spreco d’acqua, le sorgenti sono poche qui in giro… ok?» fece, e la ragazza annuì, ancora illuminata.

«Posso...?» domandò, indicando il bagno rossa in volto.

«Come?» fece Elisa, non afferrando al volo.

«Oh, certo, sì, nessun problema…» ribadì, sfregandosi i capelli con una mano, nervosa.

«Grazie…» affermò la ragazza, entrando, chiudendo la porta.

«Oh, se hai bisogno di vestiti, sono nel primo cassetto!» la informò la mora, fuori dalla porta. Gli arrivò un mormorio come segno di comprensione.

«Bene… io devo andare alla sala di comando, quando finisci se vuoi raggiungermi, ho delle cose da spiegarti, va bene?» disse, aprendo la porta. Di nuovo un mormorio. L’acqua che inizia a scorrere.

Elisa corse per i corridoi, tentando di cancellare il pensiero contorto che tentava di prendere la sua mente. Se avesse voluto, avrebbe potuto aprire quella porta con facilità…

«No! Elisa, ritorna in te!» Si disse, arrivando alla sala di comando.

«Giacomo!» chiamò la donna dai capelli corti, vedendo l’uomo sopraggiungere con il classico camice bianco.

«Elisa, c’è una chiamata urgente da Ros, stavo per venirti a chiamare!» affermò, aprendo una finestra allo schermo grande.

L’immagine sfocata della donna dai capelli rossi apparve, il rumore di grida e di ringhi che quasi sovrastava la sua voce.

«Elisa! Siamo sotto attacco! È da stamattina che non si ritirano, e mi sembrano più feroci!» disse la donna, guardandola sporca in volto di fuliggine.

«Hanno dato fuoco all’albero! Gli animali sono più intelligenti, sembrano quasi…controllati da qualcosa!» affermò la rossa, lo schermo si contorceva, le parole percepite poche.

«Ros, non avevi con te una squadra per controllare gli incendi all’albero?» chiese, e il panico stava prendendo anche il suo corpo.

“Come è possibile… gli animali attaccano per fame o durante il periodo dell’accoppiamento… non li ho mai visti così determinati a conquistare qualcosa…” e si sorprese della parola che usò: conquistare. Una mania tipica dell’uomo.

“Sono controllati da qualcosa… o da qualcuno.” Gli occhi determinati della donna si rivolsero allo schermo.

«Ros, ti invio uno squadrone di supporto, resisti! Stiamo arrivando!» disse, e la comunicazione si chiuse.

«Giacomo, chiama in appello tutti i guerrieri pronti a combattere, ci servono più persone possibili, non indebolire le difese, attiva le barriere di sicurezza a livello 3 e non abbassarle per nessun motivo, spegni tutto ciò che non sia essenziale e trasferisci tutta l’energia alle barriere. Sento puzza di bruciato in questo attacco di massa.» affermò la donna, guardando il ragazzo con la cresta, stavolta nera, col dubbio disegnato in faccia.

 

«Cassandra!» Elisa irruppe nella camera, quasi urlando il suo nome. La donna sobbalzò, lasciandosi quasi sfuggire l’asciugamano che ricopriva il suo corpo.

«Scusami!» affermò Elisa, chiudendo subito la porta dietro di sé, le gote lievemente arrossate, e non per la corsa.

«Dimmi, che c’è? È successo qualcosa?» chiese la ragazza, chiudendo il cassetto, la mano che nervosa teneva l’asciugamano stretto in petto.

«La base di Ros è sotto assedio da un gruppo di animali, come se fossero controllati da qualcosa… o da qualcuno.» asserì, gli occhi fissi in quelli castani di lei.

«E quindi devi andare ad aiutarla, giusto?» affermò la ragazza, quasi delusa. Gli occhi che caddero in basso.

«Sì, devo andare. Ma prima devo farti una domanda.» disse la mora, guardando lo sguardo della ragazza illuminarsi.

«Dimmi, Elisa…» la voce di lei quasi spezzata. Non era sua, quella donna. Aveva promesso di salvare il mondo, e non solo lei. Eppure questa sensazione di bruciore nello stomaco le dava fastidio.

«Questa “maledizione” di cui mi hai parlato, quella che hai incisa sulla schiena, che sorta di magia è?» interpellò, con una intuizione da confermare nella mente.

«Un rito della religione antica della Luna, la Dea della Notte, perché mi chiedi questo?» chiese, non comprendendo il furore della mora.

«Lo sapevo! Me lo sentivo!» ribadì, correndo alla scrivania, cercando un libro. Vittoriosa, impugnò un libro nero, con simboli gotici disegnati sopra.

«La religione della Luna, o detta Dea della Notte è in contrasto con la religione del Sole, detto Dio del Giorno, e una delle loro magie più potenti è il controllo degli animali… potrebbe essere questo, quello che ha creato questa insurrezione.» affermò la donna, mostrando gli scritti alla giovane.

«Come… come fai a sapere tante cose su questo argomento?» chiese, passando lo sguardo dal libro agli occhi di lei e viceversa.

«Beh, le ho lette qui.» disse, mostrando il passo.

Gli occhi della giovane si fecero sottili, concentrati nella scrittura gotica quasi sbiadita della pagina.

«Tu… non sai leggere?» chiese, guardandola con dolore nella voce.

«Cosa?» domandò Cassandra, alzando lo sguardo quasi colpevole.

«No, no, so leggere… è solo che… è passato tanto tempo…» affermò, cupa nell’anima e negli occhi.

Elisa chiuse il libro, lanciandolo sulla scrivania. Le afferrò le spalle, facendola sussultare. Le sue mani calde che sfioravano il suo corpo crearono in lei quella miriade di pensieri ed emozioni che ancora non riusciva a decifrare.

«Ascoltami, se vuoi riprendere a leggere, c’è un corso la sera, impartito da Giacomo… potresti seguirlo, mentre combatto alla base Rossa… che ne dici?» fece, sorridendole per infonderle coraggio.

 

O luce, o mare, o miriade di stelle in un giorno piovoso.

Mai vidi un paesaggio così bello, mai vidi così begli occhi illuminati nel nulla.

Mai sentii crescermi un fuoco sì grande dentro me, grazie ad un suo sguardo.

Dea, donna… come fai, tu, a farmi sentire così…così… speciale? Unica?

Viva?

 

«Va bene… Ti aspetterò qui, e quando tornerai, ti leggerò un libro.» rispose, guardandola illuminata e con il cuore pulsante di gioia e amore.

Elisa la strinse a sé, le sfiorò i capelli, la mano che cingeva il suo fianco con amore e dolcezza.

«Non so quando tornerò… ma farò il più presto possibile.» affermò. Gli occhi che pizzicavano, una lacrima silente che cade dagli occhi della piccola Cassandra, mentre stringeva le mani ai suoi fianchi. L’odore di lei, così animalesco eppure dolce, le infondeva coraggio. Il suo corpo, così morbido, le regalava la dolcezza di cui sentiva, lei ne aveva assoluto bisogno.

«Non piangere. Tornerò presto, te lo prometto.» dal collo tolse un filo marrone. La pietra azzurra a forma di cuore.

«Oh, Elisa, pensavo di averlo perso! Grazie…» disse, guardandola, nuove lacrime, di gioia.

«L’ho ritrovata sulla cima del dirupo…» rispose, porgendola a lei. Ma le mani di Cassandra le imposero di tenerlo su di sé.

«Tienilo tu. Quando tornerai, me lo restituirai.» chiese, asciugandosi con le mani le guance umide.

Elisa annuì, indossando il gioiello.

«Ti augurerò buonanotte con questo, finché staremo lontane. Non sarai mai sola la notte, amica mia. È una promessa che ti ho fatto, e ho intenzione di mantenerla.» affermò, per poi darle un bacio sulla fronte.

Cassandra perse un colpo al cuore. Le lacrime che non si fermavano.

La mano di lei le asciugò.

«A presto, Cassandra…» affermò, dirigendosi verso la porta.

La gola era bloccata da un nodo difficile da sciogliere, ma le uscì lo stesso un “ciao” soffocato. Quando la mora chiuse la porta con un ultimo sguardo e un sorriso illuminante la riccia si tuffò sul letto, stringendo il cuscino a sé. Soffocando il pianto e le urla su quell’ammasso di piume e sogni che, anche se fredda come compagnia, aveva su di sé il dolce profumo di Elisa.

 

Dolce poesia, parole e disegni sei tu per me Elisa. Un ricordo del passato, dolce, che riaffiora nella mia mente e che mi spinge in là, dandomi un motivo di vita e rinascita.

Sei, per me, una prospettiva. Una promessa di vita.

Rimarrò qui ad aspettarti, Elisa.

E se dovessi aspettare una vita, per poter stare con te, beh… aspetterò.

L’attesa non mi spaventa, se so che alla fine avrò te.

 

 

 

Ecco qua un nuovo capitolo, nato con le parole dolci della mia ragazza in mente. E nel cuore.

Rispondo ad Adhara, intanto, visto che per ora nessun’altro si è avvicinato alla zona recensioni. Ciao, bellissima! ;) quest’ultimo tuo commento mi ha aiutato molto, perché ero in un momento di ferma a proposito di questa storia. E avevo paura a testare questo nuovo modo di scrivere che mi sapeva tanto di lacunoso dal punto di vista descrittivo.

Spero quest’ultimo ti piaccia, e che questa Cassandra che senti tanto vicina a te (chissà perché! XD) rispecchi un certo sentimento che secondo me ti ritrovi spesso ad affrontare, purtroppo, da sola.

Amorevolmente tua,

Eriok

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** 15. ***


Cacciatori e Vittime

15.

 

Perché dopotutto non riesco a non guardare il cielo.

Aspetto te, e intanto occupo la mia mente in sollazzi che non mi aggradano per niente.

Dove sei, Elisa…? A cosa stai pensando…?

…con che donna dormi, la notte?

 

Elisa aggredì un gorilla, sbranandogli la gola, squartandola. Il sangue colava a fiotti, mentre i gorgoglii dell’animale si facevano sempre più sottili. Gli occhi dell’essere spezzati nell’animale che la caratterizzava. Con un salto disumano evitò l’attacco di un lupo, e gridò, ruggendo. Il fuoco che ancora toccava la sua pelle. Ferita, cadde a terra, gli occhi sottili, le fauci che si stringevano, le zampe che graffiavano il terreno nero colorato di rosso, sangue coagulato.

«Arrendetevi!» urlò il lupo, con in mano un ennesima bomba. Si avventò su di lei, ancora il fuoco che la divora. Di nuovo un urlo, più umano, che animalesco. Stava tornando normale, era due giorni che non si riposava.

«Cosa volete da noi!?» domandò la donna, mentre con la mano nel terreno cercava qualcosa di aguzzo.

Il lupo, con fattezze mostruose e, in parte umane, l’afferrò per il colletto della tuta.

«Vogliamo le vostre donne, i vostri figli, il vostro terreno…» parlò, scuotendola, Elisa sentì una punta di lancia, la strinse con la mano quasi allo spasimo. L’immagine di Cassandra sorridente le passò nella mente.

«Non avrete mai nulla di tutto ciò!» urlò, guardandolo, i suoi occhi rossi sorridevano.

«Vinceremo noi, siamo più forti di voi poveri esseri umani.» disse sogghignando, alzando la zampa per inferirle un colpo letale. Elisa scattò, usando la punta affilata per tagliarli la gola. L’essere mostruoso crollò, gorgogliando un poco prima di spirare.

In testa ancora l’immagine della compagna riccia.

«Non vincerete. Ho troppo da perdere per lasciarti prendere tutto.» mormorò, prima di trasformarsi e riprendere il combattimento.

La sanguinosa battaglia prese una pausa al calare del sole. I feriti portati in infermeria, i morti lasciati sul terreno di battaglia, gli animali raccolti per cibarsi.

«Ci stanno decimando poco a poco, Ros…» mormorò la castana, ingurgitando una brodaglia di carne.

La coda si muoveva agitata, i nervi scattanti, la pelle scura per il fuoco e per le scottature. Gli occhi accesi di odio e forza.

La Rossa, seduta su un tavolo, aveva già mangiato due ciotole. Giulia la guardava triste. Uno sfregio sul suo viso. Gli occhi scuri della rossa la guardarono, cercando una forza che delle volte le mancava. La mano della ragazza le strinse la sua. E il Capo riprese vita.

«Sanno che non abbiamo quasi più armi, e i pochi Infetti a disposizione sono sempre impiegati al fronte.» disse, con un filo di voce per cercare di non farsi sentire dalle truppe, che stavano mangiando nella sala comune.

«Ci vogliono logorare. Dobbiamo colpire il loro cuore.» disse Elisa, stringendo con forza la posata, piegandola di netto.

«Non accetteranno.» la scoraggiò Ros.

«E invece ti dico di no. Si sentono superiori Ros… pensano di vincere. Una battaglia tra il loro e il nostro capo li obbligherebbe a ritirarsi, senza una guida.» disse la castana, guardando Giulia.

«Ha ragione, ti prego ascoltala…» mormorò la bionda, cercando di convincere la compagna.

Il Capo la guardò, con gli occhi ormai stanchi di combattere, e di vedere conoscenti e amici morti tutti intorno a lei.

«E chi combatterà?» disse, guardando la donna-pantera.

«Io.» disse, ricambiando lo sguardo della rossa, che spalancò gli occhi.

«Non perderò anche te.» guardandola irata, alzandosi e dirigendosi verso le sue stanze.

«Lo sai che io sono diversa da voi!» disse, scattando e fermando la leonessa.

«Ci andrò io!» Ros urlò, e Giulia perse un colpo.

«No… ti prego, tutto ma non te!» disse, alzandosi e correndo verso lei, abbracciandola. Ros rimase paralizzata. Giulia stava piangendo. E le moriva il cuore sentire le sue lacrime bagnare la sua spalla.

«Tu hai qualcosa da perdere Ros…» disse, sorridendo, mentre la rossa stringeva i capelli della ragazza, lacrimando un poco anche lei.

«… io no.» mormorò, passando la mano sulla sua spalla. Andò via, dirigendosi verso una brandina, corricandosi nel corridoio affollato. Chiuse gli occhi, poggiando la testa sul cuscino. E i sogni erano un continuo turbinare di dolori e sangue, con un angelo dai capelli ricci dalle ali rosse che urlava disperata guardandola lacrimante.

Si alzò di scatto, sentendo i rumori della lotta fuori dall’albero ormai morto. Iniziò a correre, dirigendosi fuori, nell’aria l’odore dello zinco e del sangue.

Si trasformò, correndo nella baraonda.

 

Cassandra osservava il cielo, proprio come si fa con un quadro, gli occhi sottili concentrati. Apparentemente guardavano il vuoto. Eppure la sua mente vedeva mille sfondi, mille volti, mille tramonti. Mille soli che calano nel suo cuore, e mille albe. Quanta luce vi scaturiva. Gli occhi sempre fermi, osservando il cielo fuori dall’oblò della stanza di Elisa. I compiti abbandonati sulla scrivania, l’inchiostro ancora fresco stava asciugando sul foglio che stava scrivendo, una firma minuta e tondeggiante, ma ancora insicura.

Un filo di aria portò l’odore di zinco fino alle narici della riccia, e lo sguardo si adombrò. Gli occhi che erano passati al colore rossastro della foresta. Il cuore palpitante e dolorante.

 

«Chissà cosa pensi…» mormorò Elisa, osservando anche lei il cielo plumbeo, le nuvole che impedivano la vista delle stelle. L’odore di futura pioggia era nell’aria. La battaglia non si era ancora spenta, ma Elisa aveva un piano. Scattò, nascondendosi nella selva ormai morta, uccisa dal fuoco. Sporca di fuliggine si diresse all’accampamento nemico. Nera come la notte scivolava, la donna-pantera, al collo un ciondolo blu.

 

Eppure la riccia, con le braccia incrociate sull’oblò, non pensava. Semplicemente volava con la mente a quel cuore blu lontano, agli occhi castani lontani, così caldi e belli, così dolci e passionali, così espressivi. La mano corse a stringere qualcosa che mancava, intorno al collo. L’anima che si contorceva nella ricerca di qualcosa, l’assenza di una presenza che bruciava e logorava dentro. Una lacrima cadde, mentre la mano sentiva il cuore palpitare.

«Quanto ancora deve durare tutto ciò…?» sussurrò con voce spezzata la ragazza, lasciando questa preghiera al vento. Una lacrima cadde dal cielo. La città iniziò a profumare di bagnato, e il concerto della natura iniziò a suonare i suoi violini in quel tetro palcoscenico di colore e sofferenza.

 

Elisa scivolò silenziosa, bagnata dalla pioggia il suo odore non poteva essere percepito dai nemici. Gli occhi spezzati fissavano la capanna primordiale con più decorazioni. Quella del loro capo, sicuramente. Osservando, si lanciò dall’albero, atterrandovi dietro, silenziosamente. Respirò lungamente, calmando il cuore, sotto la pioggia. Gli occhi rivolti verso l’alto. Il bisogno di dire qualcosa, prima di affrontare una importante battaglia.

«Tornerò, presto…» mormorò, con un filo di voce, la determinazione che colorava i suoi occhi dei riflessi del fuoco.

«… è una promessa.» e la furia colorò i suoi occhi di giallo, prima di infiltrarsi nella capanna strappando la tela di pelle.

 

A volte la lontananza uccide. Spezza, rovina tutto.

Eppure, prima di conoscer te, Cassandra, non davo valore a niente, se non alle promesse fatte agli altri.

Ora so, con una sicurezza quasi totale, che oggi devo sopravvivere per te. Per me.

Perché non posso lasciarti da sola. Devo proteggerti.

Perché io…

Perché io…

 

 

Ecco un capitolo che odora di pioggia e di zinco. L’odore del fuoco, e di lacrime colpisce anche me.

Scrivo perché mi rilassa. Scrivo perché sto bene con me stessa.

E ora rispondo ai commenti, anche se ormai commenta solo Adhara.

Tu ti aspetti sempre finali bollenti, e io ti ho detto che sarà più avanti quello che vuoi ;) spero che questo capitolo ti piaccia, amore mio, mia vallata fiorita, perché voglio correre con te in una giornata di pioggia e ridere. Perché, come ho già detto, con il tuo sorriso io vedo il sole.

Amorevolmente tua,

Eriok

 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** 16. ***


Cacciatori e Vittime

16.

 

Come una piuma di vento, percepii l’eleganza dello scivolare in me.

Nessuno s’accorse della mia silenziosa ombra, che aspettava solo il buio per mimetizzarsi e fondersi.

La lama bianca pronta a ferire.

Gli occhi di un felino pronti all’assalto.

 

Era sbucata proprio dietro ad una tenda secondaria, pochi cuscini rotti sotto i suoi piedi. Ascoltò, respirando con il naso il più lentamente possibile l’aria. Il cuore fermo, calmo. L’odore di sudore tipico di un animale le spiccò vivo alla narice. Come l’odore di intrighi amorosi e poca pulizia. Smosse la punta, odori troppo forti.

Si avvicinò con cautela al limite della tenda. Una luce di candela che ancora poteva celare la sua presenza.

Il rumore di un fluire di pensieri che le entrava nella mente.

Elisa non capiva, quel vorticare di parole, e cercò di non darvi ascolto. Ma più s’avvicinava all’ombra, più le voci aumentavano, assordandola. Parlavano tutte insieme, ad alta voce, e le orecchie della mente si stavano chiudendo.

Poi, un discorso verbale, e il turbinare cessò.

«Tenente!» chiamò una voce fredda, dura e giovane. Rumore di tende, ferraglia che si muove e uno scatto.

«Sì signore! Agli ordini!» tono cupo, atono, soldato pronto al comando.

«Ritira le truppe, s’avvicina la luna piena…» ordinò, e un seguitare di muoversi scricchiolante si allontanò. Poi uno sbuffo di stanchezza, e la luce svanì. Un ordine di non disturbare lanciato alle guardie esterne. Pochi istanti più tardi un tonfo poco educato alla sua sinistra, pochi metri dall’uscita della sua tenda. Gli occhi felini spezzati dal castano si fecero più larghi. La vista del felino le favoriva i movimenti notturni, e la percezione dei sensi al massimo. L’udito finissimo concentrato nell’ascoltare possibili ritorni della ferraglia arrugginita di prima. Iniziò a muoversi, Elisa, appena percepì un respiro più pesante. Sfilò lentamente un pugnale dalla casacca umida. Il respiro calmo. Il cuore calmo. Il silenzio del suo corpo che lentamente scivolava nella notte. Perfetto.

Alzò il braccio, pronta all’assassinio, quando un pensiero stupido le balenò nella mente. Andava contro il suo codice, uccidere un essere senza che questo provi a difendersi.

“Dannazione!” pensò, stringendo la presa al pugnale. Aveva poco tempo, era troppo esposta.

Un mormorio dell’uomo lo fece girare su se stesso, distendendosi a pancia in giù. Un lampo di genio, nella mente piena d’adrenalina della ragazza.

Gli afferrò velocemente il braccio, bloccandoglielo dietro la schiena. La lama a pochi centimetri dall’occhio.

«Urla, e di uccido.» mormorò, con poco fiato. La presa ferrea e rigida.

«Chi sei? Che vuoi da me?» sussurrò, tentando di vedere l’aggressore in volto. Elisa dava tutto il peso alla presa, a cavalcioni sopra il busto dell’uomo. L’obbligò a mantenere lo sguardo di fronte a sé.

«Un semplice emissario. Ti porto una sfida.» sentenziò Elisa, arrochendo la voce.

L’uomo si fermò dal dimenarsi interessato.

«Che tipo di sfida?» chiese, curioso. Gli occhi che vibravano.

«Una lotta tra te e il capo della resistenza. Per mettere fine a tutto.» spiegò Elisa, non mollando la presa. Le orecchie che controllavano ogni respiro fuori dalla tenda.

«Perché dovrei accettare una simile offerta? Potrei soffocarvi lentamente, e otterrei lo stesso la vittoria…» affermò, con voce bassa. Elisa fece scivolare la lama dagli occhi alla guancia, lo graffiò lievemente, un goccio di sangue colò sul filo dell’arma.

«Sei un uomo d’azione… odi farti strada pulita grazie ad altri. Il capo della resistenza ti aspetta, tra due notti sul campo di battaglia, al sorgere del sole. Se otterremo la vittoria, ci lascerete liberi, tornando da dove siete venuti. Se perdiamo annetterete questa piccola vittoria… ma di certo non la guerra.» spiegò Elisa in velocità, il tono basso per non farsi sentire. Un fruscio fastidioso alla porta le fece suonare un campanello d’allarme.

«Fino a quel giorno niente incursioni, o tornerò senza pietà.» disse, portando la punta sul cranio dell’uomo, calcando per far percepire la punta.

«Qual è il tuo nome, emissario?» domandò l’uomo. Elisa non si aspettò questa domanda, infatti tacce.

«Lo saprai quando io saprò il tuo, dead man walking.» mormorò, ricordando una lingua sconosciuta. Sorrise Elisa, a quella piccola sentenza che l’uomo non avrebbe compreso.

Si avvicinò all’orecchio, il tessuto che si muove.

«Addio.» e con quella parola saltò rapida, svanendo nel buio. L’uomo scattò pochi secondi dopo, troppo lento per i movimenti della donna-pantera, già persa nei meandri della foresta oscura, morta di fuliggine.

 

Cassandra scriveva su un pezzo di carta, guardando la lavagna ogni tanto, riscrivendo la stessa parola più e più volte. Una decina di ragazzi e ragazze in tutto nell’aula, che facevano la stessa cosa. Giacomo che passava di banco in banco per controllare e correggere i passaggi.

«Kessy…» la chiamò, con un nomignolo affibbiatogli dal ragazzo. La riccia si girò, vedendolo dietro di sé.

«Dimmi…» disse, guardandolo dal basso, seduta. Giacomo stava osservando la sua scrittura.

«Tu non hai più bisogno di venire al corso.» disse, schietto. Gli occhi che passarono ai suoi, sorridenti.

­«Davvero?» chiese la ragazza, non credendoci. Saltò sul posto, felice.

«Certo, l’unica cosa che ti manca è l’allenamento, ma quello puoi farlo benissimo da sola.» ribadì, porgendogli un libro.

«Tieni, Elisa mi ha detto di consegnartelo, quando non avresti avuto più bisogno di me.» mormorò, passandoglielo. Cassandra lo analizzò, era di vecchia fattura, rilegato in cartone, mangiucchiato qui e là, eroso dal tempo e dall’usura. La copertina dorata, il titolo citava “Il Piccolo Principe”. Poco spesso.

«Mi ha detto che avresti capito.» disse misterioso, tornando al consueto giro di classe. Gli augurò buonanotte, visto che l’orario era ormai tardo, e la salutò mentre usciva dall’aula con il libro in mano.

Mentre percorreva i corridoi ormai consueti per la sua camera – e quella di Elisa – Cassandra esaminò il libro, curiosa.

 

«Tu… non sai leggere?» chiese, guardandola con dolore nella voce.

«Cosa?» domandò Cassandra, alzando lo sguardo quasi colpevole.

«No, no, so leggere… è solo che… è passato tanto tempo…» affermò, cupa nell’anima e negli occhi.

«Ascoltami, se vuoi riprendere a leggere, c’è un corso la sera, impartito da Giacomo… potresti seguirlo, mentre combatto alla base Rossa… che ne dici?» fece, sorridendole per infonderle coraggio.

«Va bene… Ti aspetterò qui, e quando tornerai, ti leggerò un libro.» rispose, guardandola illuminata e con il cuore pulsante di gioia e amore.

 

Quindi era quello, il libro che aveva promesso di leggerle. Lo aprì, e una scritta tondeggiante e spigolosa le si presentò scritta a matita.

“Da leggere davanti a un fuoco, seduta comoda, e in dolce compagnia.” Faceva la citazione. Poco mancò che Cassandra andasse a sbattere contro un muro. Le guance rosse.

«Dolce…compagnia?!» mormorò, sconvolta. E un batticuore le giunse rapido, colpita da una frenesia quasi impronunciabile.

«Oddio…» disse, entrando nella stanza, lanciando con poca delicatezza la piccola casacca sul letto disfatto. Si sedette sulla sedia alla scrivania, poggiando il libro sul legno. Gli occhi fissi su di esso.

«E ora che faccio…?!» si domandò, completamente in pallone. Passandosi una mano nei capelli, disperata.

 

I due giorni di calma furono essenziali per riabilitare e ristabilire un poco d’ordine alla base Rossa. Elisa, aiutata da Ros e Giulia, ridiedero energia a tutto lo stabile, e offrirono la loro forza per guarire i feriti. Ovviamente il Capo della base Rossa non capiva il perché di questa pausa da parte dei nemici. E imputava Elisa di questo, interrogandola ogni volta che ne aveva l’occasione. Ma con una scusa, o con un’altra, la mora schivava ogni tentativo di dialogo dell’amica, arrivando al giorno del combattimento. Fu facile svuotare il sacco, e Ros ovviamente andò su tutte le furie. Ma ormai il gioco era fatto, affermò Giulia. Non potevano tirarsi indietro. Elisa si presentò sul campo di battaglia, una tuta protettiva minima, nera, contornava il suo corpo. Gli occhi fissi davanti a sé.

L’uomo, che aveva minacciato quella sera era di fronte a lei, in pompa magna, completamente vestito di bianco.

«Donne, mostratemi il vostro capo, non accetto doni di questo genere per…» aveva iniziato a parlare, fraintendendo tutto.

«Risparmia il fiato per il combattimento, uomo.» sentenziò Ros, autoritaria e di poche parole come sempre. Preferiva sempre i fatti, che alle parole, lei.

Il viso dell’uomo si colorò d’indignazione.

«Come osi tu!» fece, sfilando la spada portata al fianco.

«Combatti con me, uomo, non con lei. Sono io il tuo nemico.» disse Elisa, parandosi davanti a Ros infuriata. Il capo nemico rimase sorpreso. Per poi mutarsi in divertimento.

«Una donna…?! Ah!» e rise di gusto, creando un onda d’ilarità anche nell’esercito alle sue spalle. Elisa, sorrise, rispondendo a tono.

«Eppure non hai riso, quando ti ho preso di sorpresa due notti fa…» stuzzicò la mora, creando silenzio alla sua affermazione. Ros percepì un brivido di piacere, vedendo il viso dell’uomo colorarsi di rosso.

«Quindi eri tu!» fece, muovendo la lama, prima inerme, al suo fianco.

«Esattamente… ma ora lascia che parlino le spade.» sentenziò, sfilando una spada dalla cintura di Giacomo, che portava in cinta.

«Hai sfidato l’uomo sbagliato, donna…» fece il capo nemico, sorridendo mutando i suoi occhi in un rosso vermiglio.

«Ho un nome, stronzo. Ed è Elisa. E ora taci…» disse, irata, gli occhi che iniziarono a spezzarsi, mutandosi in giallo. Scattò, veloce, cogliendolo al suo fianco di sorpresa. Il profumo della battaglia la estasiava.

«… e combatti!».

E fu così che la battaglia iniziò.

 

Quel libro stette tra le mie mani così tanto tempo, che logorai ancora di più la sua copertina.

La storia era magnifica, i personaggi così intriganti, la trama semplice eppure… profonda.

E la tristezza, in quel libro… trasudava da ogni pagina.

Elisa, addomesticami… per favore…

O l’hai già fatto…?

 

 

Ecco un capitolo pieno di significati. Pieni di niente, e di tutto.

Pieni di campi di grano e di rose. A buon intenditore, poche parole.

Passando alle recensioni…

 

@m4rry990: Ben tornata! Sono sempre felice di sapere che non ho perso il mio tocco J e soprattutto che non senti la mancanza di certe scene che qualcuno invece lamenta xD le sventure ci devono essere, se no sai che palle xD

Aspetto un tuo commento ^_^

Eriok

 

@Adhara: Dovresti sapere che il personaggio che voglio rispecchiare deve essere fedele all’originale J compresi i sentimenti. Ma questo non significa che Elisa dormi con altre donne, la notte.

Con dolcezza, ti bacio, perché delle volte ne hai bisogno

Amorevolmente tua,

Eriok

 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** 17. ***


Cacciatori e Vittime

17.

 

Ho il batticuore. Qualcosa sta accadendo, lontano da me.

Elisa, cosa sta succedendo?!

Ho paura…dove sei? Dove sono le tue confortanti braccia, che mi scaldavano i sogni?

 

«Elisa!» Ros scattò nervosa sul posto, Giulia che la trattenne. I suoi bei capelli biondi che si scossero. La mora incassò il colpo, pulendosi il rivo di sangue al labbro col polso e rialzandosi, riprendendo a combattere.

«Non ti intromettere. Un combattimento come questo non va compromesso.» le disse, guardandola con i suoi occhi castani. Lo specchio dei propri. Si arrese, uno scatto alla mascella, invisibile per tutti ma non per la compagna.

«Capisco la tua rabbia, ma devi solo stare ferma e…aspettare.» e con quello terminò, non lasciando la mano di Ros, stringendogliela forte.

Elisa, concentrata nel combattimento, non sentì per niente il fermento dei suoi compagni, ma il peso del finale di questa battaglia sì. Elisa impugnò bene l’elsa, diventata instabile per il sangue colato. Il combattimento era fatto di risposte alle stuzzicate, due ore incessanti di chi con la propria tecnica riusciva a rispondere all’attacco dell’altro. Più un combattimento di menti, che di forza bruta. Elisa rispondeva bene, ma la fatica iniziò pian piano a ledere la sua determinazione. Il fiatone e il sudore furono i primi segni che la portarono a subire ferite.

L’ennesimo colpo che la porta a gambe all’aria.

«Donna, o come orgogliosamente vuoi farti chiamare “Elisa”, quando inizierai a supplicare il mio perdono?» fece l’uomo, abbassando l’arme, convinto di aver vinto la mora, rimasta a terra per riprender fiato. Elisa guardò Ros dal basso. I suoi occhi fissavano l’uomo dietro di lei, i suoi pugni tesi facevano capire l’ansia che aveva. Elisa si guardò le mani, ferite. E la determinazione si colorò di quel rosso sangue che scorreva su di essa.

L’uomo si avvicinò, alzando la lama per calarla su di lei. Uno sgambetto lo fece volare per terra, in mezzo alla fanghiglia.

«Quando l’inferno gelerà, uomo!» urlò, ruggendo di rabbia, saltandogli addosso e iniziando a usare le mani chiuse con forza, abbandonando l’arma bianca.

L’uomo incassò i primi colpi, ma con un colpo di reni capovolse la situazione, portando la ragazza sotto di lei. Gli bloccò le mani, sorridente.

«Sai, con le belle donne preferisco questa posizione…» mormorò, gli occhi luccicanti di una voglia nascosta. Elisa sentì il suo desiderio farsi fisico, sotto la veste. Altro colpo di reni inaspettato portò l’uomo sotto la presa d’acciaio della mora.

«A me piace questa, sai? Te, in mezzo al fango.» rispose, sputandogli in volto riprendendo ad usare i pugni in serie.

Un calcio dell’uomo fece leva, facendola rotolare lontana. Elisa si portò ad una posizione animalesca, gli occhi spezzati da quelli felini. L’uomo, sorrise, pregustando il vero combattimento. S’alzò, togliendosi l’armatura che gli impediva i movimenti.

«Sai, dovresti stare attenta, scegliere con cura chi sfidare…» mormorò, strappando la giubba, mostrando il petto niveo, perfetto nel suo fisico scolpito. Elisa continuava a fissarlo, fredda come solo una pantera poteva essere.

«… e soprattutto il quando.» fece, guardando il cielo, che prometteva pioggia. Una goccia cadde, e gli occhi dell’uomo si colorarono completamente di rosso vermiglio. Il suo corpo subì in un istante una forte trasformazione: si ricoprì di pelo scuro, stopposo, i tratti umani persi, la muscolatura ingigantirsi sino all’inverosimile. Di fronte a lei non più un uomo, ma un essere disgustoso, uomo frammisto al lupo famelico delle foreste.

Poté scorgere un sorriso vorace in quel volto trasfigurato, prima di attaccarla in una velocità pazzesca, togliendole il fiato.

 

Cassandra percepì un colpo strano al cuore, guardando il luogo del combattimento che ormai perdurava da una settimana. Aveva letto così tanto quel libro, che poteva dire di conoscerlo ormai a memoria.

Riprese a leggere i libri che stavano nella confusionaria scrivania della camera, mettendoli silenziosamente in ordine. Quando finiva di leggerne uno lo riponeva in una composta pila, sorridendo ai fogli scritti in fretta dalla donna dai capelli corti, capendo poco o niente di quello che vi era stato vergato sopra.

Un foglio giallo cadde da un libro, la riccia lo raccolse, guardandolo strana. Era una mappa, più uno di schizzo, del mondo che era conosciuto prima del Giorno dell’Apocalisse.

Vi passò un dito sopra, vari cerchi cercavano di identificare il luogo in cui erano loro, ma migliaia avevano punti di domanda.

«Ah!» un colpo d’emicrania le impedì di mantenere la presa salta sul foglio, negli occhi ricordi passati.

 

Una grande biblioteca, su più piani, completamente costruita di cristallo.

La bambina guardava stupita, una mano calda la guidava. Era morbida, quella mano. Gli occhi ripieni di quella meraviglia.

Fu in quella biblioteca che imparò a leggere. E nella sua corta vita doveva leggere tutto quello che vi era contenuto in uno scaffale solo. Erano così strani quei libri… non erano favole, né divertenti storie buffe.

Parlavano di riti, parole strane, disegni arabeschi e… morte.

«Non mi piacciono quei libri, mamma…» mugugnò la bambina, ridando il libro a quelle mani calde. La luce era tanta, in quella biblioteca, anche di notte. Una sola candela posta nel luogo giusto, illuminata tutto.

Ma sapeva dentro di sé che Cassandra doveva leggere tutto, doveva sapere tutto quello che vi era contenuto in quei libri… perché gli serviva. Gli sarebbe servito per salvare l’eroe del Nuovo Mondo.

Ma lei non voleva salvare nessuno, aveva paura di non riuscirci.

Fu in quella biblioteca che sulla sua schiena si disegnò il suo destino.

 

Era caduta dalla sedia Cassandra, tenendosi le mani sulla testa. Rannicchiata a terra, sospirava disperata un nome solo.

«Elisa… Elisa... dove sei?» chiese, le lacrime agli occhi che pizzicavano. Ma non ottenne risposta.

 

Elisa incassò l’ennesimo colpo che le tolse il fiato, ricadendo a terra, in mezzo al fango e bagnata dalla pioggia. Sputò l’ennesimo grumo di bile e sangue, rannicchiandosi per il dolore.

«Arrenditi donna, o ti ammazzo!» urlò l’essere, con voce umana. La prese per la gola, sollevandola in aria. Elisa incominciò a scalciare, cercando di prenderlo in volto, l’ossigeno che manca. La vista che inizia a calare. Le braccia crollano dalla presa sul suo collo. Le gambe molli, lo sguardo appannato verso il cielo.

La vita che vuole sfuggirti dalle dita.

«Elisa!» Ros che urla. Ma la mora non la sente, non sente più niente, solo le gocce di pioggia che si fermano a piangere sul suo viso.

Un suono di campane nel cuore.

Il silenzio della dipartita.

«No, non è ancora giunta la tua ora Elisa… la Sacerdotessa ha ancora bisogno di luce. Il Mondo ha ancora bisogno del suo eroe.».

Una voce chiara nelle orecchie. Ritorna a vedere distintamente le nuvole.

Riprende la presa sul suo collo, spingendo forte. Gli occhi completamente gialli, preda della pantera.

 

Elisa… Elisa… Dove sei?

 

«AH!» urlò, aprendo la presa ferrea liberandosi, la pantera che prende forza, la collana blu che rimbomba un suono cupo, la luce sprigionata le infonde forza e calma allo stesso tempo.

«Che magia è mai questa?!» urlò l’essere, sorpreso di come la donna, in fin di vita, ha ritrovato le forze, liberandosi persino.

Elisa scattò, lanciò un coltello comparso dal nulla. L’uomo-lupo lo evita di striscio, scattando verso di lei e attaccandola a pugno aperto. Gli artigli luccicanti neri. Elisa fermò il colpo con un fermo braccio. Gli occhi che incenerirono quelli rossi dell’uomo.

«Muori.» gorgogliò la donna-pantera, scattando con la mandibola e tranciando di netto l’arteria principale con un colpo preciso delle fauci. L’essere si strinse la parte lesa per pochi secondi prima di cadere a terra, in un bagno di sangue.

Elisa, guardò la scena fredda, gli occhi scuri glaciali. Al collo la collana che l’aveva salvata.

Quando l’uomo sputò l’ultimo respiro, il suo corteo intero esplose in un urlo di gioia. Sentì pacche accorate, e urla di giubilo. Ma fu ancor più bello vedere le truppe nemiche dirigersi verso l’accampamento, per smontarlo, pronti a partire, demoralizzati.

«Ce l’abbiamo fatta!» urlò Ros, saltando al collo della mora, facendola piegare.

«Ehi calma, sono ancora ferita… ricordi?» fece, mostrandole i numerosi tagli al corpo e al ventre.

La rossa lasciò la presa, gli occhi luccicanti. Elisa sorrise, guardando verso la cittadina poco lontana.

“È finita, finalmente… Cassandra, sto tornando da te.” Con un ultimo sguardo alle truppe, Elisa lanciò una ricetrasmittente a un carico. Il suo secondo piano era di sapere da dove quei nemici erano spuntati fuori.

E, magari, capire una via di fuga da quella valle che era stata per tanto tempo la loro casa.

 

 

Ricordi persi che riemergono, il destino di una donna deviato da una semplice pietra azzurra. Qual è il destino di Elisa? E cosa ci faceva Cassandra in quella biblioteca?

Lasciandovi alle vostre supposizioni, io rispondo alle recensioni:

 

@Adhara: Pensi, volpina? ;) comunque sono felice che tu senta questa Cassandra molto vicina, perché è a te che mi ispiro, mentre scrivo di lei, e dei suoi sentimenti…che in parte, o del tutto, sono anche i miei J

Questa “scapestrata” che ami tanto non ha intenzione di allontanarsi da te per nulla al mondo. Invece degli amici ha trovato l’amore in questo pianeta. Non lascio la Terra. A meno che non ti porti con me.

Un bacio, mia gentil donzella che dolcemente alberghi nel mio cuor J

Ti amo :*

Amorevolmente tua,

E.

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** 18. ***


Cacciatori e Vittime

18.

 

Sentirti stringermi. Oh, Cassandra…che bello poterti riabbracciare.

Ancora.

 

Elisa e l’intero plotone, o almeno quello che ne rimaneva, entrarono trionfanti, sorridenti sotto le fasciature e le menomazioni riportate. Elisa vide amici e sorelle riabbracciare i fratelli e amici partiti. E alcuni piangere in silenzio nel non scorgere chi era partito, ma non tornato.

Giacomo si presentò davanti a Elisa, con le lacrime agli occhi.

«Sono tornata intera, non ti preoccupare.» le fece lei, sorridendo. Lui annuì, asciugandosi gli occhi.

«Lo sapevo…che non mi avresti lasciato qui a capo ancora per molto.» disse ridendo, dando una pacca leggera alla spalla della ragazza.

Poi un gridolino, e un paio di braccia che le avvolgono il collo, un ammasso di dolci e profumati capelli ricci che le inondano la faccia. Le strinse le braccia ai fianchi, stringendo forte.

«Cassandra…» mormorò, sentendola singhiozzare in silenzio.

«Elisa…» sussurrò la riccia, stringendola ancora, sentendo il nodo alla gola sciogliersi. Elisa si beò del dolce suo profumo. Rose.

«Sono qui, non preoccuparti…» sussurrò, sentendola piangere. La coccolò un poco, dondolandola piano.

«No, no… non piangere… sssh, sono qui…» mormorava, passandole una mano tra i capelli, il suo volto nascosto nel suo seno. Cassandra sentiva il suo cuore a mille. Sembrava quasi che si confondesse con il cuore di lei, altrettanto emozionato.

«Oh, Elisa… mi sei mancata…da morire…» rispose, alzando lo sguardo arrossato. Vide quelle pietre d’ambra colorate, così belli, magicamente accesi di vita dorata.

«Dai, su su…» disse Elisa, asciugandole le lacrime con il dorso della mano. Cassandra si beò di quel tocco dolce e delicato, ma leggermente ruvido. E notò la mano ferita.

«Ma tu sei ferita…!» affermò, spaventata.

«Oh, solo qualche graffio, non preoccuparti.» ma non fece in tempo a rispondere che si vide trascinata in infermeria.

«Tu adesso ti fai vedere da Amir, subito!» affermò, protettiva. Elisa si fece trascinare, sorridendo.

 

Elisa entrò in stanza, sbuffando, e lanciandosi cadere sul letto di peso, stanca per la lunga camminata sostenuta.

«Come ti senti…?» chiese Cassandra, sottovoce. La luce della luna filtrava dalla finestra, disegnando un cerchio perfetto sul pavimento.

«Distrutta.» rispose, con voce stanca. Cassandra poggiò la sua borsa per terra, chiudendo la porta. Non accese la luce. La scorse sul letto, le pupille accese nel buio la attraevano come una vittima verso gli occhi del suo cacciatore. Era così ammaliante, nella fosca luce della Dea della Notte…

«Cassandra…» la chiamò, e la riccia sentì un batticuore salirle in gola. Forse si è accorta che la stava fissando.

«Dimmi…» disse, rossa in volto. Sperava che la dolce coperta della notte la stesse nascondendo. Eppure nella sua mente, i pensieri correvano, rapidi, per le colline dell’immaginazione. Cadendo tutti, inevitabilmente, sulle labbra di lei.

«Mi racconti una storia…?» chiese, girandosi e sbucando dal cono di oscurità che avvolgeva il letto. La testa appoggiata sulle braccia incrociate, aspettandola paziente. Cassandra si sedette sulla sedia della scrivania, proprio di fronte a lei. Sorrise alla domanda innocente della ragazza, afferrando il libro del Piccolo Principe.

«Sei riuscita a capire perché ti ho dato quel libro…?» domandò, guardandola con occhi di brace. Quando la fissava così Cassandra perdeva completamente il fiato. Era di una bellezza statuaria.

«Beh, sì… almeno credo.» disse, aprendo il libro, imbarazzata. Accese una candela, per vedere le pagine.

Elisa si alzò, togliendosi la casacca.

«Ehm…» mormorò la riccia, imbarazzata. Elisa si stava velocemente denudando, lanciando i vestiti sulla cassiera.

«Scusami, ma c’è un caldo pazzesco, e ho voglia di liberarmi di questi vestiti antiacido…» disse, come scusante. Cassandra ringraziò il fatto che decise di rimanere in canotta e boxer (indumento non tanto femminile, ma la riccia lo trovava arrapante comunque), altrimenti non avrebbe avuto il fiato per leggere.

«Ora puoi iniziare, scusami.» affermò Elisa, rimessasi nella posizione iniziale. La canottiera lasciava uno spiraglio ai seni, avvolti dal reggiseno. Cassandra distolse velocemente lo sguardo e iniziò a leggere, con voce tremante.

 

«Fine.» mormorò, chiudendo il libro trionfante. Respirò profondamente e guardò la candela, quasi finita. Passò lo sguardo su Elisa, che aveva gli occhi quasi chiusi. Il sonno la stava lentamente prendendo, ma ebbe la forza di guardarla leggere per tutto il tempo. Con la mano le fece segno d’avvicinarsi. La riccia pose il libro sulla scrivania e spense la candela con un soffio. La luce della luna ora filtrava di meno dalla finestra, e mentre tentennava verso il letto Elisa le afferrò la mano, facendola cadere su di sé.

«Dormi con me, stanotte.» le chiese Elisa, con voce bisognosa. Nel buio Cassandra vide i suoi occhi. E il suo cuore perse un battito. La sua presa sulla sua vita, il suo bacino vicino al suo, le sue gambe aperte su di lei.

«I-io…» mormorò, sentendo la gola chiudersi.

Tante emozioni in colpo solo. E Cassandra vacillò.

«F-forse è meglio…che ognuna dorma per sé.» paura. Tanta paura.

Elisa capì. La sentiva fremere, tremante. Impaurita.

Fece un sorriso di circostanza. Non doveva dare peso a quel rifiuto. Eppure…

«Va bene.» affermò, atona. Leggermente ferita nell’animo. Lasciò la presa su di lei, e si distese nella parte sinistra del letto, dandole le spalle.

«Elisa…» sussurrò la riccia, quasi supplicandola. Ma la mora non ascoltò, evitò di farsi vedere piangere.

Eppure, durante la notte, Elisa sentiva che qualcosa le mancava. Come il bisogno continuo di una presenza accanto, nel sonno. Per tutta la notte, non dormì. Si alzò, quando mancava poco all’alba, senza svegliare la riccia. Si vestì, indossando gli indumenti della scorsa notte. E mentre si allacciò l’ultimo bottone perse lo sguardo su di lei.

Era così bella, Cassandra, nel sonno. Tranquilla, raggomitolata su di sé, le mani leggermente chiuse, gli occhi celati dalle palpebre, i suoi capelli che cadevano sparsi sul cuscino. Si girò, con gli occhi umidi, vergò poche scritte su un foglio e uscì senza farsi sentire.

 

“Ho una missione da compiere, da sola.

Non cercatemi, non contattatemi, prima o poi tornerò.

Devo capire da dove sono usciti questi aggressori.

E lo devo fare da sola.

 

P.S. Cassandra, spero che tu un giorno possa perdonarmi per quello che ti ho chiesto.

Scusami.

 

Tua,

Elisa”

 

Quando Cassandra lesse queste righe, svegliatasi per colpa di un presentimento, si vestì in fretta. Doveva raggiungerla. Il più in fretta possibile. Sentendosi colpevole per la fuga della mora. Al bordo delle lacrime uscì dalla base, armata di un fucile e di una spada. Nel silenzio del mattino andando.

 

 

Ecco il nuovo capitolo. Chiedo venia per il lungo tempo passato ma gli esami e una nuova storia iniziata mi hanno fatto perdere di vista questa. Sono ritornata sulla retta via ora ^_^

Rispondendo alle recensioni, mia cara Adhara anche se stai facendo le pulizie in camera tua (era ora!) ti rispondo comunque anche se non potrai leggere subitissimo questo capitolo ;) però questa volta ti perdono ù.ù la battaglia l’abbiamo vinta amore J l’abbiamo vinta…e ne sono completamente felice.

Amorevolmente tua,

per sempre ti amo e ti amerò :*

E.

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** 19. ***


Cacciatori e Vittime

19.

 

Corri, corri, Elisa.

Corri.

Il vento asciuga le tue lacrime.

Una pantera non può piangere.

 

Elisa, trasformata nel suo animale, correva veloce e scattante per la foresta incontaminata, correva e piangeva, correva e non pensava, semplicemente agiva, evitando rami, foglie, tronchi morti con gli occhi freddi, gialli da felino.

Ormai la luce era diventata più forte, secondo il suo visore era mattino ormai. Nella base si saranno già svegliati… ma ora che scoprano la sua fuga sarà troppo tardi. Aveva rubato un visore a Giacomo, e l’aveva impostato per il segnalatore che aveva lanciato al carro. Ora un quadrato, debole, pulsava nello schermo arancione, posto sugli occhi.

“Giacomo è un genio.” Pensò, continuando a correre. Era arrivata alle montagne. Si alzò ritta sulle zampe, gli occhi concentrati. Con un tocco lo schermo scompare.

«Qui inizia il difficile.» mormorò, e dalla cintura fece uscire uno dei guanti di Giacomo. Lo adattò, e iniziò ad infilzare la parete, mano dopo mano, per salire sul ripido muro.

 

Cassandra corre, in mano il fucile, col fiatone solo dopo pochi metri. La gonna le impedisce i movimenti ma non aveva trovato altro che le potesse andar bene.

«Elisa!» iniziò ad urlare, cercando di farsi sentire dalla compagna. Un piede in fallo la fece rovinare a terra.

«Ahia…» disse, portando una mano alla caviglia. Le doleva da morire. Poi, come un sesto senso, voltò lo sguardo. Due occhi gialli la fissavano, fermi su di lei.

«O Dea…» mormorò, vedendo davanti a lei un felino dalla pelliccia rossa, un leone con la criniera folta. Si passò la lingua sul muso, come se assaporasse già il sapore ferroso della sua carne. Iniziò ad avvicinarsi.

«Aiuto!» iniziò ad urlare, prendendo in mano il fucile e iniziando a sparare. Non colpì l’animale che, spaventato, si rifugiò in un cespuglio. La ragazza però dallo spavento continuava a sparare alla rinfusa, creando confusione.

Peccato che si fosse dimenticata delle munizioni.

 

Elisa passò la mano sul bordo, alzandosi finalmente dalla rientranza che voleva raggiungere. Osservò dall’alto la foresta, così calma, silenziosa, sbuffando un poco per la fatica. Si passò una mano sulla fronte, togliendosi il guanto.

Un rumore strano le rubò l’udito. Gli occhi si concentrarono su un punto, un movimento di foglie inappropriato.

Attivò il visore, e il rilevatore di calore individuò due figure.

Protese le orecchie, tentando d’ascoltare.

 

«Aiuto! Elisa!» chiamò disperata la ragazza, piangendo lacrime mentre finì l’ultima raffica di pallottole. Quando buttò l’arma via, prese la spada, e si mise distesa.

«Dea, aiutami, non posso morire così… te ne prego…» mormorava, stringendo la caviglia dolorante. Quando la belva uscì, affamata e ormai sicura della morte della sua vittima, sembrava quasi sorridente, e con andamento tranquillo si avvicinò a lei, aprendo lentamente le fauci. Gli occhi dilatati per il piacere. Occhi gialli.

Occhi affamati.

«Elisa…» disse, per l’ultima volta. La spada non le sarebbe servita a niente, pensò, e così l’abbandonò a terra. Le mani tremanti. Gli occhi supplicanti.

«… ti prego…» e non seppe se si rivolgeva al leone ormai a pochi metri da lei o alla ragazza.

 

Elisa si lanciò dalla montagna, lasciandosi cadere. Il visore attivato, gli occhi spezzati di giallo.

Atterrò così silenziosamente, che nemmeno una foglia si spostò. Iniziò a correre, sentendo come il bisogno di tornare indietro un ultima volta, prima di andare.

 

Poteva sentire l’alito puzzolente di carne putrida, Cassandra, ormai arresasi all’evidenza della morte violenta. Gli occhi abbandonati fissarono vacui il leone.

E poi, un ringhio.

Il leone. Stava ringhiando.

“Ma contro chi…?” pensò la ragazza, vedendo una figura nera, più in là.

«Cassandra, stai bene?!». La sua voce. Non era un miraggio.

«Elisa!» disse, con così tanta gioia nel tono da quasi saltare sul posto, se non fosse per la caviglia.

«Ho la caviglia storta! Non riesco a camminare!» disse, cercando di trascinarsi lontana dal felino. Allungò una zampa, tenendola ferma con gli artigli, entrando nella carne.

Cassandra urlò dal dolore, ed Elisa scattò, trafiggendo l’animale con l’arma lasciata a terra dalla ragazza. Il leone spirò senza colpo ferire, e la riccia fu salva.

«Elisa!» disse, lanciandosi al suo collo, stringendola forte. La staccò, dolcemente sì ma con forza.

«Perché sei qui?» domandò seria, guardandola dal visore.

«Io…tu non devi andare via, per colpa mia. No.» disse, rossa in volto e con una punta di vergogna nella voce. Elisa la guardò, e poi rise.

«Cosa c’è?! Non c’è niente da ridere…» disse, immusonendosi. Elisa la guardò, e tolse lo schermo con un tocco.

«Non è per te che me ne sono andata.» le rispose, prendendole la caviglia.

Cassandra la guardò, come sorpresa, mentre le toccava un punto dolente.

«Ahi!» disse, guardandola offesa. Elisa la guardò, e rise ancora.

­«Sai, sei ancora più adorabile quando ti offendi…» le mormorò, facendola tacere. Il viso ancora più rosso.

Strappò una parte della gonna che portava lei, e le legò un legnetto alla caviglia.

«E lo sei ancora di più quando arrossisci…» aggiunse, stringendo il nodo. Passò lo sguardo cupo sul suo viso, e si alzò.

«Non importa come sono.» rispose, seria. Elisa si sorprese di come reagì.

«Io vengo con te, dovunque tu vada. Non mi lasci qui da sola.» disse, alzandosi, zoppicante.

«Mi rallenteresti soltanto.» aggiunse, dura.

«Non puoi viaggiare da sola, e se non mi vuoi puoi anche lasciarmi qui…ma io seguirò le tue tracce.» disse, rispondendo con la stessa freddezza.

«Perché sei così fissata con me!?» le chiese, iniziando a urlare.

«Perché TU sei fissata con me!?» ribatté, zittendola. I loro occhi irati che si fissavano.

«E va bene, ti porto con me. Contenta?» le disse, guardandola seria. Lei annuì, e iniziò a marciare, zoppicando per l’infortunio.

«Dove vai? Non andrai da nessuna parte finché non sarai ben equipaggiata…» disse, tirando fuori dalla cintura una tuta.

«Avevo quasi sperato di utilizzarla. E così è… indossala. Ti servirà contro il freddo delle montagne.» intimò, aspettandola.

Cassandra guardò la tuta, poi lei, e poi un dubbio nella testa affiorò.

«…ora?» le chiese, con un ciglio alzato. Elisa incrociò le braccia, con una faccia da schiaffi.

«Se vuoi venire con me, devi stare alle mie regole. E questa è la prima e la più importante: obbedire a Elisa, senza ribattere.» affermò, con gli occhi fissi nei suoi, determinati.

«E ora io ti sto chiedendo di spogliarti e di mettere quella tuta. Ah, e sia chiaro, devi indossare solamente quella tuta.» aggiunse, e fece l’occhiolino. Il volto di Cassandra si infiammò, ma lo sguardo era determinato.

Si tolse il maglione, gettandolo a terra, rivelando una seconda maglia. Si sciolse la gonna, facendola scendere lungo le gambe, sode, la ferita leggera del felino non perdeva sangue, e si era già mezza rimarginata. Indignata per lo sguardo eloquente di Elisa si voltò, negandole la piena visione. Sentì un sogghigno della ragazza, che continuava lo stesso a far pesare lo sguardo sulla figura esile della riccia.

Tolta la maglia rimase il reggiseno. Sulla schiena svettò forte il tatuaggio che Elisa aveva visto solo di poco nel bunker di quegli uomini pazzi. Una croce, con quattro gambe di ugual lunghezza, posta sopra una girandola di petali che si evidenziavano negli spazi vuoti della croce.

Andò con le mani, nervosa, al reggiseno. Lo sguardo bruciante della donna sulla schiena. Bruciava sì, ma di desiderio. Sentì le sue mani sul gancio, un brivido caldo.

«Aspetta, ti aiuto…» mormorò, con voce bollente. Il suo respiro caldo sulla spalla.

“Dea, che piacevole sensazione…” pensò, muovendo la testa e guardandola, di scorcio, tra i capelli ricci.

Le scostò le spalline, lasciandolo cadere. Le baciò una spalla. Miriade di brividi.

Le sue mani stuzzicavano il bordo delle mutande. Desiderò con tutta se stessa che continuasse, quando non la sentì più vicina a sé. Il suo calore era sparito.

«Finisci di vestirti, se no ci mettiamo tutta la giornata!» le disse scherzando, tornata alla posizione di prima, a pochi metri di distanza. La guardò, rossa e irata, per poi sfilarsi velocemente le mutande per infilarsi la tuta.

Aderiva completamente alla sua figura, era laccata di nero, e non dava nessun fastidio, appariva quasi come una seconda pelle.

Non sentiva freddo, e constatò che una ventata di freddo le arrivò alla faccia, non le fece sopraggiungere un brivido.

«Ora che sei pronta, mettiti questo.» disse, porgendole un caschetto con visore arancione, spuntato fuori dalla cintura di Giacomo, assomigliante in tutto e per tutto alla borsa di Mary Poppins.

«A me non va bene, mi è piccolo.» aggiunse, vedendo che a lei calzava a pennello. Nascose bene i capelli sotto il casco, e tentò di accendere il visore.

«No, non funziona, è rotto. Ma lo tieni per proteggere gli occhi. Se però schiacci quest’altro bottone…» le spiegò, toccando un preciso bottone sul casco, e la tuta avvolse la parte della bocca, scoperta, riparandola completamente.

«Ti proteggerà dai venti freddi che ci saranno là. Bene, ora andiamo.» disse, trasformandosi e intimandole di salire sul dorso.

Cassandra sussultò, quando sentì la voce gracchiante di Elisa dentro il casco.

«Tieniti al collo, e appoggia i piedi sulle mie gambe. Stringi tranquillamente il pelo, quando perdi la presa.» la voce di Elisa, soffocata dall’animale, comunicava dal visore che indossava. E quando sentì la riccia avere una presa salda scattò, iniziando il loro viaggio verso l’ignoto.

 

Il suo sguardo sul mio corpo, le sue mani, il suo respiro… era una cosa così eccitante, ma allo stesso tempo dolce.

Quest’ultimo aspetto non l’avevo calcolato, con te, Elisa.

Tu sei dolce, e confortevole, a discapito di qualsiasi altro. Il corpo degli uomini, invece è… rozzo.

Completamente differente, rispetto a te… e alle tue labbra.

Dea, perché ti desidero così tanto!?

Non capisco… ho troppa confusione nella mia mente, Elisa…

… mi aspetterai?

Aspetterai che io faccia ordine nella mia testa e, soprattutto, nel mio cuore?

Elisa…

… Ti prego…

… Aspettami.

 

 

Ecco il nuovo capitolo, partorito oggi, con lentezza. Oggi sì, che ho l’ispirazione J

Spero che questo capitolo, con scene tendenti all’erotico ma che alla fine…! Scherzetto! xD

Sì, lo ammetto, sono perfida ù_ù

Rispondendo alle recensioni, Adhara, sperando che questo bacio e questa toccata e fuggi ti sia piaciuta ;) ti dico che ho voglia di covare UOVA xD e potevi dirmelo che ti do fastidio, quando fischietto ù_ù comunque, anche se quella settimana è passata, io ti amo ancora di più e sì… voglio raggiungere casa mia il prima possibile.

Ti amo,

Tua e sempre

E.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** 20. ***


Cacciatori e Vittime

20.

 

Non avevo mai visto un panorama simile.

Manca solo il sole… e la luna.

Il sangue sulle montagne non dovrebbe scorrere così tanto…

 

Elisa continuava a correre, silenziosa, saltando sulle punte e sulle pareti delle montagne senza mai fermarsi. Dopo delle ore Cassandra accusò un forte mal di schiena, e Elisa le suggerì, con poche parole, di assecondare i suoi movimenti. Ci provò, ma dopotutto era come imparare a montare un cavallo: ci vogliono dei giorni per imparare. Il viaggio fu lungo e soprattutto silenzioso, fatto di brevi pause per i bisogni corporali e di spuntini veloci, a seguire un segnale che solo Elisa poteva vedere, lampeggiante, ma sempre più intenso.

Si fermarono quando l’ultima parvenza di luce scese, e il freddo aumentò.

«Ci appostiamo qui per la notte.» grugnì Elisa, intimando di scendere alla ragazza in groppa. Cassandra fece ciò, zoppicando, la caviglia che ancora le doleva.

Riprendendo forma umana, fece sparire il visore e Cassandra la guardò, per poi ricopiarla nei gesti.

Dalla cintura dell’amico la donna dai capelli corti fece spuntare fuori un preparato per tende, e iniziò a montare, mentre Cassandra la fissava, immobile.

«E io cosa faccio?» domandò, guardandola mentre avvitava un’asta. Elisa la fissò, si guardò in giro e poi parlò.

«Siediti su quella roccia, sei ferita, finché non ti ristabilisci non ti muoverai più di tanto.» la riccia annuì, guardandola di sbieco. Finì la tenda in pochi minuti e sbuffando per la fatica aprì la tenda per farla entrare, porgendole una mano.

«Prego.» mormorò sorridente. Cassandra mantenne la faccia da offesa, ed entrò cercando di ignorarla. Ma non ci riusciva, dopotutto c’era soltanto lei come presenza umana nel raggio di chilometri.

«Spero non ti dispiaccia se dormirai con me in questo unico sacco a pelo.» mormorò, guardandola con un sorrisetto nascosto sotto i baffi che non aveva.

Un leggero rossore passò nel volto della donna, e fece un diniego con la testa. Tirò fuori sempre dalla cintura un fornello da campeggio, e un pentolino. Iniziando a cucinare le sprovviste portatesi dietro.

«Hai fame?» domandò poi Elisa, guardando la riccia con sguardo sincero. Cassandra la fissò, per un tempo indefinito, prima di rispondere.

«Sì.» sussurrò, con poca voce, e divenne rossa alla sonora risposta del suo stomaco. Quando poté assaggiare lo stufato di verdure di Elisa, Cassandra andò in visibilio. Era gustosa e molto buona, e la mangiò tutta.

«Ora dormiamo, domani sarà una giornata lunga come questa, e tu sei stanca.» mormorò con voce dolce, bassa. Perché in quella vallata deserta non vi era bisogno di urlare. Perché lei la ascoltava comunque, lo sapeva.

Cassandra, sbadigliando sonoramente, annuì, infilandosi nel sacco a pelo.

Si strinsero insieme, in un dolce abbraccio, quella notte. Come quelle sere di paura in quella gabbia sotterranea di pochi giorni fa.

Un passato lontano anni, ma che ancora, nella notte, spaventava la riccia, stringendosi alla mora che contraccambiava, ai suoi mugugni di paura notturni. Le sussurrava dolci parole, mentre dormiva, e lei si calmava, facendo un lieve sorriso. Elisa, guardandola, si riempiva di così piacevoli sensi ed emozioni, che non le mancava di porle un piccolo velo di bacio sulla fronte.

Perché le era concesso solo quello, nelle notti fredde di quel deserto aguzzo di montagna.

 

Elisa corre, corre nel deserto di alberi secchi e cadaveri di macchine ormai abbandonate. Corre per la strada, fugge, salta gli ostacoli. In mano un fucile, ancora troppo giovane, troppo stupida per capire che il giorno dell’Apocalisse è giunto troppo presto.

Un leone di fronte a lei le balza addosso. Uno sparo. Una donna. Un ricordo vomitato dal passato.

 

Elisa sobbalzò, spalancando gli occhi, i sensi allerta, Cassandra che la fissa con una fiaschetta in mano.

«Come ti senti?» le domandò la riccia, passandole l’acqua. Elisa bevve, assetata. Poi la guardò, si passò una mano sulla fronte. Aveva sudato freddo.

«Niente… un incubo… un vecchio ricordo.» rispose, non fissandola negli occhi. Cassandra scostò il suo sguardo verso il proprio, con la mano, con dolcezza.

«Raccontami tutto, non ho più sonno… e a quanto pare nemmeno tu.» affermò, ritornando nel sacco a pelo con lei, guardandosi negli occhi una di fronte all’altra.

«Va bene…» sorrise la donna, e sistemandosi meglio sul cuscino iniziò a raccontare.

 

Elisa fissava la donna che l’aveva salvata con dubbia fiducia. Sporca, i capelli a caschetto non curati, in apparenza una selvaggia salvata da una Cacciatrice passata di lì, per caso. Lei sono una Vittima, una Sacrificabile.

«Come ti chiami?» domandò la donna, fissandola con quegli occhi spezzati di giallo, quella coda che si muove sinuosa, nera come la notte. Nera, come la morte.

«Non ho nome.» rispose, e strinse di più il fucile, il colpo in canna, il cuore che batte all’impazzata.

«Non ci provare. Non faresti in tempo a mirare che già saresti morta.» la informò, e la ragazza impallidì.

«Molla quell’arma e seguimi.» intimò, gli occhi tornati normali, la coda che si muove sinuosa, tranquilla. Gli occhi di ghiaccio che la fissano imperscrutabile. Elisa si mosse, fissandola male per tutto il tempo. Il fucile abbandonato su una pietra di cemento.

 

«Chi era quella donna?» domandò Cassandra, interrompendo il racconto. Elisa sorrise, e rispose con un barlume di vecchia felicità.

«Diventò ciò che mi è stato tolto dall’Apocalisse… una madre.».

 

«Elisa, devi stringere e poi sentire il clic…» disse la donna, istruendo la bambina a montare e smontare un’arma.

«Così?» chiese la ragazza, i capelli lunghi raccolti in una debole coda.

«Sì…» e un clic leggero venne percepito dalle orecchie di entrambe. Elisa sorrise, e la donna la guardò, facendo altrettanto.

 

«Sai, mia madre è morta il giorno della Pioggia di Fuoco, per proteggermi dalle pietre della nostra casa che cadevano.» informò, guardandola di sbieco.

«Io non ricordo nemmeno mia madre… solo le sue mani.» aggiunse, guardando le sue. La mano di Elisa la strinse. E guardandosi un secondo negli occhi luccicanti riprese a raccontare.

 

«Forza Elisa! Ora!» e la ragazza spinse l’ennesima presa, dando luce all’intero edificio.

«Sì! Resiste, ce l’abbiamo fatta!» urla, gioiosa. La donna la prende in braccio, la stringe, a bordo delle lacrime.

«Finalmente la base funziona!» risponde Elisa e la stringe forte. L’ultimo abbraccio prima dell’assalto.

 

Gli occhi di Elisa si velarono di scuro, e abbassò lo sguardo. Cassandra pose il palmo sulla guancia e la guardò. Gli occhi accesi, pieni di conforto.

«Cosa è successo quel giorno?» domandò, con un fil di voce. Paura di sentire la risposta. Paura di sentire il suo ennesimo fardello, peso, tortura e dolore.

«Lei morì… per salvare me.» sussurrò, tra le lacrime, nella memoria ancora l’immagine di un ricordo.

 

«Rientra! Ti prego!» urlava Elisa, dal portone, la barriera antianimali non era ancora attivata, ci voleva tempo per ricaricarsi.

«No, resisterò fin quando non si attiva!» urlava, mentre sbranò l’ennesimo lupo. I più feroci in battaglia, assalivano in branco. In branchi di centinaia di individui.

«Ti prego…! Non voglio perdere anche te…!» pregava ad alta voce, tra le lacrime. Poi un allarme. Un animale che stava entrando. Il portone di emergenza si attivò.

«No!» nell’ultimo spiraglio la donna si distrasse per uccidere il lupo che stava per azzannarla. Poi il branco si addossò a lei.

Vide il suo sorriso soddisfatto per aver salvato la sua figliuola, Elisa, prima di sparire sotto i lupi e dietro il portone.

Rimase davanti a quella porta a piangere lacrime amare fino al giorno dopo, per seppellire ciò che era rimasto del suo corpo.

 

«Elisa…» ora due mani le stringevano il volto. Le lacrime della bruna dai capelli corti continuavano a cadere.

«Ogni persona che amo… prima o poi mi viene strappata via…» sussurra, tra in singhiozzi e poi scoppiò, stringendo la ragazza dai capelli ricci, raggomitolandosi a lei come ferita, chiedendole calore.

Cassandra, lacrimante, continuava a stringerla a sé, passarle la mano nei capelli corti, sulla schiena, dondolandola piano.

«Sssh… calma…» mormorava, mentre dondolava, come se fosse una bambina piccola, da addormentare.

Il dolore si assottigliò, diventando un gemito sommesso. Per poi mutarsi in un respiro profondo. Si era addormentata.

Cassandra sorrise, mettendosi ad accarezzarla dolcemente. Scostandole ciuffi ribelli qui e la, rivelando il suo volto diventato tranquillo, cullato dalla calma del sonno.

«Sei così piena di fardelli, piccola mia… Vorrei poterli prendere io, e liberarti dall’anima pesante di dolore che ti porti dietro…» mormorava, parlando alla donna addormentata «Non so te ma, questa donna che ti sta cullando nel sonno, non ha la minima intenzione di farsi strappare dalle tue forti e dolci braccia.» e detto ciò si accoccolò più vicina a lei, e chiuse gli occhi, poggiando un flebile bacio d’amore sulle labbra rosee della donna pantera, dai corti capelli scuri e dal sorriso illuminante.

 

Non faccio mai tanti sogni.

Ma tu, sì tu, sei sempre lì. Qualsiasi immagine produca la mia mente.

Stanotte, addormentandomi col tuo profumo, ho sentito un calore…

… sì, un calore mai provato prima.

Ho sognato di darti un bacio stanotte, angelo mio.

Chissà, magari l’hai sognato anche tu…

… perché ho potuto sentire il gusto delle tue labbra attraverso il Velo di Maya.

 

 

Ecco un nuovo capitolo partorito con difficoltà visto gli imprevisti (dolci e non) che ho avuto in questo periodo.

Chiedo venia per il ritardo, ma gli impegni purtroppo rendono la mia produzione più lenta… dopotutto sono un essere umano!

 

Passiamo alle recensioni:

 

@Adhara: Visto che mi hai scritto a punti, allora risponderò tale e quale ù_ù

1)      Lo so che non ci vogliono 3 week di leva, ma era di fretta ù_ù

2)      Se non te lo ricordi hai qualche problema di testa O.O

3)      IO SONO DIO, quindi lei deve obbedire ad ogni mio ordine sia quello di “spogliarsi” o meno ù_ù ihihihihihi *W*

4)      Le uova io le faccio in salmì!

Lettore incauto che leggi questa risposta a QUESTA recensione, non ci badare ù_ù ho risposto per le rime ad una non normale lettrice xD

Grazie per i complimenti amore ^W^

Ti amo, tua per sempre :*

E.  

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** 21. ***


Cacciatori e Vittime

21.

 

Perché la neve, bianca carta, arriva e ti strappa la vita con facilità.

Basta poco.

È lenta, costante, si prende quello che vuole:

il tuo calore, la tua vita…il tuo colore.

E rimane sempre bianca.

Sempre dannatamente bianca.

 

Avevano ripreso la marcia, le due ragazze. Dopo poche falcate, Elisa si fermò su una parete, le unghie che perforavano la pietra, lo sguardo perso chissà dove.

«Cosa c’è’» domandò Cassandra, stringendosi a lei con le gambe.

«Odore di neve. C’è odore di neve nell’aria.» rispose, riprendendo la marcia. Il viso truce.

«Beh, non capisco che cosa c’è di male…» aggiunse la ragazza, ricordando con immagini da bambina la neve che cade.

«Porta freddo, vento, e aridità. Non bene, per la nostra marcia. La neve è ingannatrice, non indica dove ci sia roccia, né quanta.» informò la riccia, continuando a grandi falcate, gli occhi puntati al segnale pulsante.

«Come hai fatto a sentirne l’odore? La neve è pura, non ha odore…» disse sovrappensiero la riccia, tentando di annusare ella stessa l’aria.

Elisa rispose con un tono dolorante, guardando il primo cumulo di neve, nascosto dietro una roccia.

«Perché potrà anche essere pura, ma ha l’odore di tutti i calori che ha strappato via agli ignari corpi che hanno incrociato la loro strada, o che l’hanno sfidata. La neve è un mostro con una maschera di purità. È insidiosa. Non fidarti mai della neve, né della montagna. Sono fredde, e come tali reagiscono. Non ci metteranno poco a strapparti la vita.» la informò, memore di tanti libri letti di alpinisti partiti con amici e parenti, e tornati dalla montagna poi…soli.

«Ok…» Cassandra rimase ammutolita da quante informazioni brutali aveva ricevuto dalla donna-pantera.

Corsero per tutto il giorno, ma alla fine la bufera predetta da Elisa arrivò, e dovettero procedere a tentoni, Elisa tastava tutto il terreno con cura, paura di trovarsi sopra una lastra di ghiaccio, o peggio sopra il ciglio di un burrone.

Quando raggiunsero il centro della bufera, decisero di appostarsi. Elisa osservò con occhi scuri un bagliore tenue provenire da alcuni metri più in basso, in un passo che fino ad allora aveva seguito dall’alto.

Stette un poco fuori, guardando la situazione, ferma, con respiro regolare, come se la neve non le facesse niente. Osservava gli uomini lupo laboriosi nei loro controlli alle carovane, e con un sbuffo decise di ritornare, scoprendo l’ormai imminente notte.

Rientrò nella tenda montata, in cui aveva acceso il fornello, Cassandra si stringeva in una coperta, con il fiato che diventava nuvola di vapore, e gli occhi fissi al pentolino, che lentamente scioglieva della neve.

«M-ma non avevi detto che… queste tute isolavano il calore corporeo?» balbettò la riccia, guardando la mora dai capelli corti rientrare ricoperta di neve.

«Sì, ma guarda, siamo un bel po’ sotto lo zero qui sai?» aggiunse la donna, guardandola con un mezzo sorriso, scrollandosi la neve di dosso con una mano scoperta. Cassandra la guardò stralunata.

«Scusami, ma non hai freddo?! Io sto gelando!» balbettò di nuovo, i denti che battevano. Elisa si sedette di fianco a lei, stringendola in un abbraccio.

«Io ho una temperatura più alta e meno variabile della tua. Ricorda, sono per metà animale. Un giorno, misurando la mia temperatura, Amir mi disse che avevo la costante dei quaranta gradi corporei. In poche parole ho sempre la febbre!» dicendo l’ultima frase rise di gusto, ma non sentendo nessun commento dalla riccia, si porse verso di lei, guardandola strana.

«Ehi, ti si è gelata la lingua?» Domandò, poi notò che non apriva gli occhi.

«Cassandra?» domandò, portandole una mano alla pelle, e la sentì secca, fredda.

«Cassandra!» la chiamò, sbattendo la mano leggermente sulle guancie, la ragazza la guardava con occhi socchiusi, ferma immobile.

«Cassandra, mi senti? Riesci a muoverti?» la liberò dalla coperta, e la scoprì bagnata, della neve dietro di lei era filtrata.

«Dannazione!» bestemmiò, prendendo la neve all’interno per buttarla all’esterno con il pentolino, ancora freddo. Riparò alla bell’e meglio il buco creatosi e andò alla riccia, vedendola immobile, presa dai brividi che andavano assottigliandosi, il respiro sempre più lento.

«Dannazione, dannazione!» portò l’orecchio al petto, il cuore pulsava troppo poco. Ipotermia.

«Stupida! Non morire!» iniziò a bestemmiare, preparando il sacco a pelo vicino al cucinino, portò la fiamma al massimo, riscaldando appena l’ambiente, controllò se non ci fossero altre fughe d’aria o cosa. Nulla.

«Scusami.» mormorò la donna, iniziando a toglierle la tuta, bagnata dalla coperta. Il suo seno sotto la tuta si mosse, e alla fine della cerniera il pelo dell’inguine la fece costare lo sguardo, concentrandosi nel sfilargli le braccia e poi togliergli la tuta dalle gambe. Fece in tutta fretta, senza perdersi in pensieri. L’intervento doveva essere immediato.

Con cura la ripose nel sacco, nuda, e richiuse subito.

«Ehm…» momento di panico, osservò il fuoco. Non sentiva molta differenza di temperatura. Doveva entrare anche lei nel sacco. Scambio di calore corporeo.

La guardò, gli occhi chiusi, come in un sonno, le labbra bianche.

«Dannazione, fanculo Elisa, te e la tua timidezza!» e con quello si tolse velocemente la tuta, ricordandosi di mettere quella della ragazza vicino al fuoco ad asciugare.

Entrò, quasi spaventata nel sfiorarla. Non sapeva dove mettere le mani. Era completamente rossa in volto.

Quando le sfiorò un braccio, e lo sentì freddo, decise di abbracciarla con tutto il corpo. La strinse forte, e sembrò di abbracciare un pezzo di ghiaccio.

«Ti prego, no…» iniziò a mugugnare, di nuovo le lacrime.

«Non…non voglio perdere anche te!» e con quello iniziò a cullarla, stringendola a sé come non aveva mai fatto, donandole il calore che il suo corpo aveva bisogno.

Si addormentò, perdendosi nell’annusare l’odore dei suoi capelli, baciando le sue labbra fredde come la dama dei ghiacci, sperando che diventino di nuovo calde.

 

Neve, neve… com’è incantevole, giocare con la neve.

Neve, neve… dove sono? Perché questo freddo?

Oh, Elisa… stringimi forte, fammi sentire il tuo calore…

Mi manca tanto sai, quella tenerezza che avevi un tempo, in quella prigione di roccia.

Sei cambiata… o forse sono io quella cambiata?

Sono colpevole, lo ammetto.

Ma dopotutto sono io quella in crisi con me stessa…

Elisa, l’unica base che ho sei tu…non mi lasciare…

Non mi lasciare.

 

 

Ecco il capitolo, scusatemi il ritardo, ma molti eventi mi hanno limitato nella produzione del capitolo successivo. Per non parlare dell’università appena iniziata, che mi porta via tanto tempo e voglia di scrivere.

Chiedendo di nuovo venia, rispondo alle recensioni.

 

@Adhara: Amore, sei sempre piena di confortanti parole per me, ti ringrazio. Mi sostieni sempre, e io amo solo te, ricordatelo. Io non voglio nessun’altra. Io amo te.

Amore, ora starai dormendo, mentre posto il capitolo, ma ti mando lo stesso un bacio :*

Ti amo :*

Mia principessa, mia gioia, mio tesoro… mia vita!

E.

 

@Tanin: ti ringrazio per questi complimenti, sono contenta che questa storia ti abbia appassionata così tanto da leggerla tutta d’un fiato :) comunque non ti preoccupare, recensisci quando vuoi, dopotutto sei tu che devi farlo ahime >.< :)

La foresta piace anche a me ù_ù comunque l’albero è chiamato così non perché è vecchio, bensì per le sue dimensioni molto simili ai baobab. Ecco, un baobab molto cresciuto ù_ù forse troppo >.<”

L’angelo è un punto di vista al di fuori di tutto e tutti. Diciamo che ora è sparito per un motivo…ma ritornerà solo alla fine. Ma non dirò di più, se no finisco nello SPOILER >.<

Ringrazio ancora per i complimenti, le poesie fanno parte della mia vita e del mio percorso di autrice…mi definisco una poeta maledettamente brava ù_ù (oh! >.<”).

Ho costruito una popolazione perfetta nel più difficoltoso dei terreni, la fine del mondo. Forse li ho idealizzati troppo, ma conoscendo il dolore di una perdita, io so che nel dolore, nonostante si abbia pelle o sangue differente, si diventa tutti fratelli, e ci si aiuta sempre, l’uno verso l’altro. Spero accada, se mai succedesse.

Il capo delle donne tenute prigioniere in realtà fungeva da esempio di come fossero ridotte, anche psicologicamente, a utensili. Ho espresso più punti di vista in un gruppo numeroso, lei il punto di vista pessimistico, le ragazze silenti le neutrali, quelle che nella battaglia finale prendono le armi a terra per combattere le battagliere.

Non le ho dato un nome, solo una breve descrizione fisica. Un personaggio secondario, che ha un peso solo spirituale.

Eleonora e Chiara sì, è vero, sono scomparse, ma ti dirò, mi sembrava di averle fatte scorgere, in capitoli indietro quali nella riunione dei tre capi come strette una nella mano dell’altra, con uno sguardo complice. Pensavo di aver fatto intuire la loro conclusione da quello…se ho sbagliato, ti chiedo venia.

Elisa si chiama mostro lei in primis, memore ancora di come ha ucciso Celeste. Odia se stessa per l’animale che è dentro, eppure lo indaga, lo ascolta. Entra quasi in trance per carpirne i pensieri. Tentando, come penso facciano i monaci buddisti, di entrare in un’altra dimensione della propria mente.

Scoprirà chi è alla fine del viaggio. Cacciatore o Vittima? Questo non si sa, perché quand’era giovane aveva un’idea (capitolo precedente, si considera una Sacrificabile, alias Vittima) ma ora non sa più chi è. Cacciatore? Eppure aiuta gli umani, suoi compari, coetanei. Vittima? No, perché lo era prima della trasformazione. La trasformazione ha cambiato tante cose in lei. un sasso lanciato in un lago.

L’idea delle cartucce mancanti è stata molto bassa x.x e gli ordini, da “despota perversa” come dice la mia ragazza xD

Chiedo ENORME venia per i verbi, ma in grammatica sono carente >.<” una enorme falla per una scrittrice ahime >.<”

Ancora grazie per i complimenti, sono troppi, dopotutto non sono nemmeno a metà xD come farai quando arriverò alla fine? O.o

Ti ringrazio per la recensione, mi hai dato una speranza, perché pensavo che oltre alla mia ragazza non ci fosse nessun altro che leggesse la mia storia >.<

A presto!

Eriok

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** 22. ***


Cacciatori e Vittime

22.

 

Sto aspettando il tuo risveglio, io, qui, aggrappata con forza alla vita.

Cassandra, svegliati ti prego.

Non mi abbandonare, non tu…ti prego.

Non ho mai pregato nessuno, ma ora prego te, il Dio che mi guarda da lassù.

Please, stay with me.

 

Occhi scuri, occhi di ghiaccio, biblioteca di ghiaccio. Tanti scaffali, tanti libri, libri oscuri, libri pieni di oscuro inchiostro.

Mamma, no, non farmeli leggere. Non voglio…mi fanno paura.

Il destino dell’Eroe sarà quello di vegliare sul sacrificio finale, portarla fino alla vetta del burrone, e avere il coraggio di perpetuare il suo sacrificio alla Dea.

Se la Luna sarà clemente, il servo verrà salvato.

Mai, per nessun motivo, l’Eroe deve sostituire il servo.

Porterà Caos, e il malvolere della Dea.

 

«Elisa…» le sue labbra che sussurrano il suo nome, Elisa sembra di immaginarselo, quel flebile suono mentre fissa il suo volto. Uno spiffero del vento, pensa, gli occhi rossi.

«Cassandra… ti prego, svegliati.» l’avvolge a sé ancora, e non per dovere ma per bisogno. La sua anima si sentiva sola, triste, avvolta da una coperta stretta che non la riscaldava. La strinse a sé, le braccia a stringere quel corpo che non reagiva, che non ricambiava.

“Non ricambierà mai…nulla.” Le lacrime, i singulti del pianto.

 

Lentamente cadere in un burrone ripieno di colla.

Appiccicosa, ripiena di disgustoso bile che l’avvolge e la soffoca.

Sporca di petrolio, di inchiostro, sporca, non più linda.

Mostro.

 

Poi, una mano che si muove, le stringe la spalla in modo blando. Scosta la testa, quasi scattante, gli occhi spalancati, gli occhi creduti persi del loro bagliore ora brillavano a poche spanne da quelle di Elisa.

«Elisa…» la chiama, la guarda, la osserva. Come due lacrime di essenza la guardano, come gocce di rugiada e sentimenti.

«Cassandra…!» e l’abbraccia, stringendola a sé, così felice da sfiorare la felicità con un dito, le lacrime di disperazione diventare di gioia, i singulti del dolore tramutarsi in sorrisini. Poi, la coscienza si fece lampante.

Fu un fulmine ad uscire dalla sacca, dando le spalle alla rediviva riccia.

«S-Scusa…!» disse Elisa afferrando la tuta e infilare una gamba in tutta fretta. Cassandra la scrutò, come appena sveglia, non comprendendo il motivo del forte rossore sul viso della compagna di viaggio.

Poi sentì uno spiffero, e notò, con particolare imbarazzo di essere completamente nuda. Cacciò un urlo, rintanandosi in fondo alla sacca, nascondendo persino la testa.

«Che c’è?» domandò la donna, girandosi di scatto e perdendo, inevitabilmente l’equilibrio inciampando nella tuta mezza indossata. Cadde, con un tondo, cacciando un “Ahi!” particolarmente sonoro.

«Sono nuda!» ribadì a gran voce la ragazza, ed Elisa rialzandosi finì di indossare la tuta con bocca tremante.

«Ehm…ecco…eri andata in ipotermia…» le disse, alzando la zip con un suono secco.

La riccia, da sotto il sacco, se possibile, divenne ancora più rossa.

«Posso riavere la mia tuta, per favore?!» chiese, con tono spazientito e fortemente imbarazzato. Elisa le porse la tuta, appoggiandola vicino al sacco. Una mano fugace afferrò l’indumento, e un frugare iniziò a percepirsi dalla sacca, oltre al vistoso movimento della ragazza.

«Se esci forse riesci a metterlo con più facilità…» suggerì la donna-pantera, ma un ruggito la fece zittire. La ragazza non era in vene di battute spiritose. Dopo pochi minuti uscì, con i capelli completamente arruffati e una espressione sul volto da aquila.

«Ipotermia hai detto.» disse, fissandola con quegli occhi che parevano due mine, perforandole l’anima come con la carta.

«Sì…» ammise la donna, guardando con particolare intensità il pentolino. Rossa in volto.

Poi un rumore sordo provenne da entrambi gli stomachi delle presenti. Si guardarono, prima rosse, poi sull’orlo di una risata che scoppiò come un palloncino, come una festa e il freddo nella tenda. Risero fine alle lacrime, per poi sedersi e mangiare qualcosa con la sicurezza che né l’una né l’altra avrebbero ma rimembrato quel particolare imbarazzante episodio.

 

Io…la mia mente, a pensare che ho passato la notte a sentirti vicina, con la tua pelle a contatto con la mia, va in confusione.

Come un fiocco di neve, sono preda dei vizi del vento.

Il mio cuore è servo dei gioghi del caso.

Sta di fatto che, se ancora ci penso, mi vengono i brividi.

…di piacere.

 

 

Ecco il nuovo capitolo, niente di nuovo, niente risvolti strani, solo…una tranquillità da donare. Avevo bisogno di una tenda calda e di un focolare stanotte, e descrivere questa scena sì imbarazzante ma anche dolce mi ha accarezzato l’anima.

Sperando che la mia ragazza, stasera preda di tristi pensieri, rinnovi di nuova vita e linfa i propri pensieri lascio questo capitolo di tranquillità a voi miei cari lettori.

Rispondo alle recensioni:

 

@Tanin: Ti prego, non farlo, perderei una valente lettrice ç_ç comunque grazie ancora per i complimenti, che sono sempre troppi >.<” diciamo che non volevo cadere nella banalità di dire “oh, che bella, la neve” *W* e poi sono un’appassionata di letture d’alpinismo, quindi so quanto possa essere ingannatrice.

Forse la legge di Murphy ci stava meglio come titolo che non “Cacciatori e Vittime” xD

Comunque i tuoi desideri sono stati avverati ^^ erro: Cassandra ce l’ha fatta ^^

Aspettando un tuo commento

Eriok

 

@Adhara: La neve è così magica, e lo sarebbe ancora di più con te. Comunque no, non mi piace questo tuo vizio di stare fuori a prendere freddo u.u per niente u.u comunque spero che questo capitolo abbia reso, ti abbia fatto sentire al caldo, nell’ormai inverno che colpisce le mie mani…e il tuo cuore.

Ti amo, neve delle mie lande, perché mi stringi in un grandissimo abbraccio, sempre.

Dolce notte, perché ora starai dormendo, sperando che tu, leggendo questo capitolo, ti senta meglio.

TiAmo (perché non c’è spazio per amare altro)

TuaPerSempre

E.

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** 23. ***


Cacciatori e Vittime

23.

 

Non ricordo cosa accadde poi...

Elisa, le tue braccia, le tue labbra. Ne sentii il calore, il profumo, il tuo odore.

Ogni volta che nevica...mi ricorda il tuo profumo.

Eppure la neve non ha odore.

E tu sei neve.

Sei Luna.

 

Ripresero la loro marcia appena la burrasca si trasformò in lieve nevischio. Il freddo vento pungente ora non ostacolava la marcia della lenta carovana, ed Elisa non osò rischiare di nuovo, decidendo di seguirli non più scalando le montagne sopra di loro - con il rischio di cadere in un burrone - ma di fare i loro stessi passi.

Da lontano la lenta e lingua striscia di mezzi lupi e servi ciechi non aveva nemmeno il dubbio che ci fosse qualcosa dietro di loro che li seguiva.

Di nuovo, un giorno passato nel bianco, ma raggiunsero un lieve posto di controllo. Due lunghe torri di mattone scuro svettavano in mezzo al grande sentiero, apparentemente armate.

Elisa le aggirò, con non poca difficoltà, e osservò con sospetto gli uomini sulle torri, armate di vecchie mitraglie. Le aveva viste in libri di storia, assomigliavano tanto alle armi che vennero usate nella seconda guerra mondiale, solo molto più maneggevoli e più nuove.

Poco più in là, in una distesa bianca, come una pozzanghera intaccata, si ergeva una città. Scura, grigia, avvolta da alberi bianchi.

Elisa cancellò il segnale. Erano arrivati.

«Elisa, cosa cerchiamo?» domandò Cassandra, seguendo con lo sguardo ciò che aveva scrutato Elisa, con occhi truci. Per la prima volta Elisa si fece la stessa domanda, e non seppe rispondersi.

Decisero di allontanarsi dal luogo di controllo, tentando di non farsi vedere. Quando Elisa si convinse del fatto che era inutile controllare le montagne silenziose per gli abitanti della città, corse. Corse nella distesa bianca, incontrando ogni tanto palizzate, piccole casette completamente bianche.

Quegli spazi infiniti prima delle montagne erano campi.

Elisa non perse la concentrazione, e impiegò ogni singola forza per percorrere nel minor tempo possibile la distesa bianca. Come un punto nero, erano una preda facile, invece, nel bel mezzo del grigio, era più possibile mimetizzarsi.

Eppure il peso di Cassandra, non abituata a quella velocità, la impedì non poco.

Erano a poche spanne dall’entrare nei primi edifici, quando intravide un’ombra che li osservava. Fu tardi quando venne colpita.

Fecero entrambe una rovinosa caduta. Elisa, tornando normale, si guardò il braccio sinistro, inondato di sangue, e ringhiò, inforcando con la destra una lama.

Due figure sinuose e spigolose si avvicinavano lente. Sapevano di averle in pugno. Con uno sguardo individuò la compagna, seduta in modo scomposto in un detrito lì vicino, immobile. Aveva perso il casco, i suoi capelli fluenti erano preda del lieve vento che s’alzava, un lieve rivolo di sangue colò dalla fronte.

Si trasformò Elisa, scattando davanti alla ragazza, pronta a difenderla.

«Chi siete?» domandò Elisa, sperando che parlassero la loro lingua. I due individui si fermarono. Erano ricoperti di stracci, pelliccia e caschi protettivi. Quello più affusolato osò avvicinarsi di più, e si levò il casco.

Una donna dai fluenti capelli lunghi, biondi come il grano, e gli occhi felini la scrutavano, come sospettosa.

«Codice di riconoscimento.» ordinò, pretendendo una risposta che Elisa non sapeva. Ringhiò, stringendo più forte la lama, che fendeva il vento.

«Sono in pace, voglio solo sapere chi siete.» ribatté. Lo sguardo della donna sembrò divertito. Fece cadere il casco, che con rumore ovattato atterrò, e nell’istante in cui toccò terra la donna-pantera sentì la lama della donna sfiorarle il volto, penetrando nel cemento. I suoi occhi brillavano.

«Risposta errata.» ammise, con tono divertito. La lama iniziò a colorarsi di una strana sostanza azzurrina. L’odore di magia pungeva l’aria. Un fiocco cadde poveramente sulla lama, fece intuire il danno che poteva creare, visto l’evaporazione istantanea di esso.

Elisa rispose con un ruggito, tentando di colpirla al viso. La donna parò con velocità, ma non il calcio al ventre, fece alcuni metri, in cui il compagno accorse alla donna, ed Elisa prese il corpo della riccia, ancora svenuta, e corse, diretta verso la città e verso un nascondiglio.

Li sentiva, gli stavano alle canaglie. Erano veloci, troppo, per essere completamente umani. Erano Cacciatori. Elisa ricordava l’esistenza di altri, come lei, ma non sapeva fossero sopravvissuti.

Tentò di tagliare tra quelle strade, cimiteri di vecchie macchine, fogli volanti descriventi una vita passata, aperture di metrò chiuse.

Tentò in un palazzo alto una montagna, percorrendo le scale una dopo l’altra a balzi. Erano in svantaggio, e la mora lo sapeva. Conoscevano ogni singolo anfratto di quella città.

Quando arrivò in cima, si perse pochi secondi a capire dove era arrivata. Riconosceva quelle cime grigie. La sua città natale.

Si avvicinò ai bordi, per cercare di trovare una via di fuga, ma erano troppo in alto.

La porta fu sfondata. Un’onda iniziò a bruciare la porta di metallo, ed Elisa capì che erano in trappola. Si guardò in basso, era l’unica via.

La donna con la potenza della lama fuse il metallo in pochi secondi. Quando uscì, scossa da un vento freddo, vide Elisa, tenendo con un braccio la sua compagna, lanciarsi.

Il vento le sferzava il volto, ma sapeva quello che faceva. Estrasse un congegno di Giacomo, che sparò una corda, penetrando il cemento dell’edificio. Col braccio ferito tentò di reggersi, perdendo altro sangue che colò piano fino a raggiungerle il volto. La donna strinse i denti, e quando la corda terminò le fece rimbalzare e ruotare, fino ad arrivare alla dura superficie del piano, rovinando per la seconda volta sul duro cemento.

Elisa si issò, debole, ricercando la sua compagna, persa di presa. La ritrovò poco più in là, in mezzo alla neve.

Si alzò, e sentì un dolore acuto prenderle la spalla. La guardò e vide una punta blu oltrepassarla. Un calcio la fece rovinare a terra, urlando dal dolore. La pelle frizzava come messa a contatto col rovente. Gli occhi iniziarono a lacrimargli, e fu afferrata da due braccia dure come la roccia e tenerla in piedi. Quando intravide la donna con gli occhi ghiacciati, urlò tutta la sua potenza, la pantera urlava dal dolore, le zanne si fecero grandi, il corpo ricoperto di pelo, la rabbia cresceva.

Il dolore divenne ombra, la ragione follia.

Eppure con la forza dell’animale non riuscì a districarsi dalla forte presa dell’anonimo compagno.

La lama si presentò di nuovo di fronte a lei, poteva sentirne il calore, tanto era vicino al suo viso, ma non distaccò il filo comunicatore con la donna, che faceva danzare la lama come una minaccia.

Poi sentì di nuovo il filo rovente inciderla, le fregiò la faccia, tracciandole di netto una riga da parte a parte del viso. Il dolore arrivò come un urlo, all’improvviso, e imponente come una diga rotta.

Elisa urlò, eppure la rabbia animale non poté sfogare la sua rabbia contro quella sadica. Il suo ghigno era di una perfezione malvagia. Gli occhi brillavano.

Un colpo al volto la prese di sorpresa, facendo partire schegge di legno ovunque, ma non sortirono alcuno effetto sulla donna. Cassandra, risvegliatasi, tentò di difendere la compagna con la prima cosa capitatagli sotto mano.

Quando notò il poco effetto del suo misero attacco tremò. La bionda si girò, osservandola con sguardo felino affamato di sangue.

Elisa ruggì, dietro le esili spalle della donna, ma non richiamò la sua attenzione. Ora gli occhi della sadica erano puntati su lei. Fece un passo indietro Cassandra, intimorita dal pungente sguardo. Poi un colpo talmente immediato da farla rovinare a terra senza nemmeno accorgersene. Di nuovo, un ruggito di pantera sferzò l’aria. Ma non serviva a niente, non cambiava le cose.

La riccia si rialzò a fatica, notando un lieve rivolo di sangue colarle dalle labbra. Poi, un rintocco di campana.

Non seppe come fece, né intuì quando l’aveva fatto, eppure nelle sue mani reggeva un bastone, e aveva bloccato con precisione l’attacco di lama della donna ghiacciata. Il medaglione al collo urlava blu.

Ma la sorpresa la ingannò, facendole perdere il controllo del bastone, e la lama azzurrina della donna le oltrepassò la coscia, provocando un urlo di dolore. Il bastone svanì nell’aria, alla presa di mano della ragazza, così come era comparso, in una polvere di luna.

La donna sogghignava, assaporando l’istante prima dell’omicidio. Cassandra era seduta, a terra, con gli occhi appannati dal dolore. Un ringhio si elevò nella strada. Elisa fremeva, voleva intervenire, salvarla.

Eppure la lama si stava alzando, per tagliare di netto la testa alla povera riccia. Tese un braccio verso Elisa, non come supplica, ma come bisogno di darle lei, la sua mano, la sua forza.

Gli occhi brillavano.

Poi, come comprendendo il pericolo, balzò di lato la bionda, evitando una lama bianca.

Una scheggia di luna conficcò l’aria, penetrando il cemento dell’edificio vicino, per poi volatilizzarsi nell’aria.

Oltre la coltre di nuvole perenni, si intravedeva una sfera luminosa.

Luna.

 

L’Eroe deve proteggere il sacrificio.

A costo della vita, proteggerlo.

Ogni potere le verrà donato.

 

Elisa aveva gli occhi avvolti da una lieve nebbia bianca, il corpo scosso da una furia nera impalpabile nell’aria. L’uomo, sbalzato via, era infisso alla parete opposta, completamente trafitto da schegge bianche intrise di sangue.

 

Non compresi in quale momento il mio corpo ubbidì al mio desiderio di salvarla.

Ne sentii il potere poi, e la velocità del vento per me divenne come calma brezza. I miei occhi intravedevano i fiocchi fermi nell’aria, brillanti. Gli occhi intravidero la luna, l’uomo sbalzato e ucciso con facilità. Sentiva che bastava desiderarlo, per avere un arma. Una lama dal materiale non identificato, bianca, affilata. Pronta per sangue.

 

La donna scattò, dirigendosi verso la pericolosa ombra nera. La figura di Elisa si perse, dietro la fiamma nera sempre più tetra. Cassandra, ancora a terra, gli occhi di una leggera patina azzurrina, fissavano la luna.

 

Il sacrifico osserverà la Dea, in attesa delle sue risposte.

L’Eroe non deve avere pietà.

L’ora del destino arriverà lentamente, ma senza interferenze.

Come un nuovo sorriso della Dea.

 

Il cuore allacciato al suo collo pulsava, sotto la tuta brillava. Gli occhi scorrevano come mille e mille pagine nell’aria, i fiocchi cadevano in balia del vento, e nelle nuvole l’ombra della luna non calava.

Lesse Cassandra, ed Elisa impiegò pochi istanti nel terminare l’ostacolo della donna sadica. Era riversa nella neve, rossa di sangue. Il pugnale azzurrino nel cuore, il volto rivolto alla luna, insanguinato.

 

“Nessuna pietà” mi urlava la mia mente, e la sconfissi con facilità... troppa. non comprendevo, non capivo. Cosa mi era successo? Sentivo dentro di me come qualcosa di famigliare, di assimilato, di dolce e profumato. Qualcosa che sapeva di lei.

Qualcosa che sapeva di Cassandra.

 

Gli occhi non brillavano più.

L’ombra nera che avvolgeva la figura sinuosa di Elisa si eclissò lentamente, come l’ombra della luna dietro le nuvole.

Lo sguardo fisso su Cassandra. Gli occhi vitrei smisero di essere tali quando l’ultima parvenza di ombra nera si dissolse nell’aria.

E la riccia crollò, con un sorriso.

 

Non mi ricordo bene cosa successe. Mi ricordo solo un’infinità di parole, vissi milioni di vite in quel momento, fiore, farfalla, albero, roccia. Vidi la luce, e annegai nel buio senza paura.

Vidi tutto, conobbi ciò che avevo dimenticato.

Imparai ciò che non ero riuscita ad imparare nella Biblioteca di Cristallo.

Mamma ci aveva provato, vero mamma? Ma non volevo, avevo paura delle ombre, e tu mi portavi solo di notte alla Biblioteca...

Ma ora ho capito. Ho capito tutto.

Eppure il mio corpo non riesce ancora ad elaborare le complesse figure nella mia mente. Non ubbidisce.

Non riesco a capire.

...

Eppure mi ricordo le braccia di Elisa che mi avvolgevano, calde, come lo sono sempre state.

 

Ecco un nuovo capitolo, dopo mesi di mancanza di ispirazione. Chiedo venia, come sempre.

Spero che questo capitolo vi ispiri. E siate ancora più confusi di prima, scommetto.

Ma tutto più avanti. L’attesa e l’arma migliore per uno scrittore.

 

Rispondo alle recensioni:

 

@Tanin: Mi sa che invece di rispondere alle tue domande, ne ho prodotte altre >.< beh, non posso di certo risponderti, la storia risponderà da sé.

Dopotutto, prima o poi, questa storia risponderà a tutto.

“Genio colui che trasforma la soluzione in enigma.”

Il sogno di Cassandra ricorda la paura della ragazza per le ombre... tramano sempre qualcosa, dietro la fiamma della luce.

Aspettando una tua risposta,

Eriok

 

@Adhara: Tesoro mio, so già che quando saprai della storia, andrai a leggerla di corsa, eppure mi è venuta l’ispirazione e ho deciso di scrivere, anche se ormai sono le due suonate x.x Io l’ho disegnata come una scenetta divertente, e Cassandra più che arrabbiata era imbarazzata, nuda, completamente, di fronte ad Elisa. Io non so dirti perché l’ho vista così, ma l’ho visto come un tacito ringraziamento nascosto dall’imbarazzo. E le risa contornano tutto come una corolla di fiori freschi in mezzo alla neve.

Ti ringrazio per i complimenti, amore mio, sempre accettati e contano più di altri, perché sei sempre tu il mio giudice ultimo.

Ti amo, da morire...

Sempre tua,

E.

 

P.S. Buon San Valentino, per quanto l’abbiamo già festeggiato assieme

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** 24. ***


Cacciatori e Vittime

24.

 

Sweet love, sweet love

[Dolce amore, dolce amore]

Trapped in your love

[Sono intrappolata nel tuo amore]

I’ve opened up, unsure I can trust

[Mi sono aperta, incerta se mi possa fidare]

My heart and I were buried in dust

[Del mio cuore e sono stata sepolta nella polvere]

Free me, free us

[Liberami, liberaci]

I am terrified to love for the first time
[Sono terrorizzata dall’amare per la prima volta]

(Bound tu you - Christina Aguilera)

 

Elisa, in braccio una svenuta Cassandra, cammina.

Medita, pensa la donna, le sue ferite urlano, ma batte di più il cuore, pompa sangue che inesorabile cola, lascia tracce profumate di vittoria e dolore.

Gli occhi lacrimanti, spaventata da quello che aveva sentito, visto, oltre quella coltre di nera furia. Si faceva più paura che mai, sapendo che non avrebbe mai dovuto cedere a quell’ombra. Non poteva farlo, sì, inesorabilmente non sapeva controllarsi, ma si sarebbe fermata. Doveva farlo.

Si rintanarono in un rientro di casa, dove la neve e il freddo non potevano colpirle. Oltre alle finestre e alle tende svolazzanti ombre, ombre correvano, sentiva le loro zampe correre. Sottovento Elisa nascondeva le loro orme con astuzia, evitando di rimanere ferma per pochi istanti, per curarsi e ricominciare a muoversi. Intravide, da lontano, una fermata della metro. Sottoterra, per quanto le desse un lieve fastidio animalesco, decise di inoltrarsi, scardinando la porta in ferro arrugginito.

Riponendolo accuratamente per evitare segni di movimento, si fermarono a respirare quell’aria tersa e il buio del ventre cittadino. Gli occhi gialli di Elisa risplendevano in quella tomba di pubblicità e giornali spiegazzati dalla polvere.

Vecchi tornanti e treni fermi a metà nella banchina. Elisa decise di entrarvi, le porte aperte, riponendo la compagna ancora svenuta in una di quelle panchine a quattro posti. Il buio totale, il silenzio terso di aria leggermente viziata. Polvere ovunque, silenzio. Topi che corrono a rifugiarsi in qualche cumolo di vestiti.

Gli occhi scrutavano l’oscurità, torce di luce in mezzo all’oscurità, carezzando i capelli a Cassandra, immersa in un sonno distrutto.

Elisa era distrutta, non sentiva né la voglia né la forza di resistere ancora a lungo al richiamo di un sonno ristoratore. Aveva difficilmente sentito questo bisogno, lei, animale vitale per metà, assopito quasi sempre, attivo in ogni momento. Si sedette appoggiando le spalle alla sedia, allungando una gamba, in mano una lama per prudenza. Le orecchie tese mentre gli occhi si chiudevano, sprofondando nel buio.

 

Don, suono di campana.

La dea ti chiama. Ricorda la missione.

Ricorda la luna.

 

Elisa si agita nel sonno, una voce dura, fredda, le parla al di là del velo di Maya, ombre scure corrono, furtive, intorno ai tornanti, seguendo le tracce nella polvere della donna.

Sono esili, sono sfuggenti, come l’aria, eppure organizzate, bisbigliano, nel buio, fasci di luce che corrono da una colonna all’altra.

 

Non smettere di proteggere il sacrificio, essenziale alla rinascita del mondo.

Il sacrificio, Eroe. Proteggilo.

Non avrai pace, né perdono, se non proteggi il sacrificio.

Ricorda la tua missione.

Ricorda la luna.

 

Scendono le scale furtive, intravedono il riflesso della lama data dal fascio di luce. Elisa è così distrutta da non percepire la goffaggine degli individui che lentamente si avvicinano a loro, armati.

La mano crolla, abbandonando l’unica arma che teneva.

I muscoli urlano stanchezza e dolore, e la mente riposo.

 

Niente riposo per l’Eroe, se il sacrificio perde la sua missione.

Niente pietà, il mondo non se lo può permettere, come la sconfitta.

Niente emozioni, né sconforto.

Niente vite nemiche intorno.

La vita del sacrificio è molto più importante della tua, ricorda.

Ricorda la luna.

...

Don, suono di campana.

 

E un fazzoletto di sonnifero venne posto sulla sua bocca, svegliandola bruscamente, si dimenò, cercando di scatenare la sua furia, trovandola però senza forze, cercò con gli occhi Cassandra, legata ma ancora stordita, volti giovani, umani, occhi rilucenti nell’oscurità, lame. Poi una rete intorno a lei, buio negli occhi e oblio nella mente.

 

Un rumore di folla, assordata, provenne alle orecchie di una assonnata Elisa; aprendo gli occhi, sfocando ciò che prima era fosco, individuò un’arena, un vecchio campo di calcio, immerso nei palazzi. Alle finestre urla, schiamazzi, lance in alto, urlando contro loro. Cassandra di fronte a lei che la guarda disperata. Le orecchie riprendono vita. E il fragore del mondo l’assordò con il suo cicaleccio di urla sgorganti odio e desiderio di sangue.

«Elisa, sei sveglia finalmente!» la guardava con bisogno estremo, guardandosi intorno, come preoccupata da un male non ancora individuato.

«Che cosa è successo?» domandò, alzandosi repentina. Il ricordo del braccio ferito arrivò con un rumore sordo. Cassandra indicò il bordo campo. Dei cani, trattenuti con delle corde, abbaiavano con furore contro di loro, come se fossero degli alettanti conigli pronti per esser divorati. Le loro bave pendevano dai loro canini, in mostra, il pelo a tratti perso mostrava la pelle, piena di tagli. Cani da combattimento. Occhi ripieni di rabbia.

«Che cosa volete?!» urlò, cercando con lo sguardo le persone intorno, cercando una risposta. Tentò di allontanarsi dalla minaccia dei canidi, e rivolse lo sguardo a una figura che le fissava dall’altra parte della rete.

«Chi siete? Da dove venite?» quando questa figura parlò il fragore di prima si spense come una fiamma dopo una folata di vento. Solo alcune voci aleggiavano nell’aria come il fumo del tizzone.

«Siamo estranee giunte dalle terre al di là delle montagne.» disse Elisa, con voce sicura, sapendo che i cani non avrebbero attaccato senza il consenso di quella figura autorevole. Eppure all’apparenza, sembrava appena un ragazzino. Lo sguardo brillò.

«Non esiste nessuno al di là delle montagne. La pioggia di meteoriti ha ucciso tutto.» affermò, convinto delle sue affermazioni.

«E invece no!» interruppe Cassandra «C’è vento, c’è foresta, c’è persino una città! C’è tanta gente come me, come voi!» proruppe, come se avesse ripetuto quelle parole per tanto tempo, ma senza risultati. I cani continuavano ad abbaiare nel sottofondo, ringhi acuti che ricordavano una silente ma presente minaccia.

Il ragazzo non ascoltò, stizzito.

«Siete estranei per noi, persone di cui non fidarsi. Ma se sarete abbastanza forti, come avete dimostrato nel campo innevato, avrete la possibilità di esser credute.» affermò, guardando con sguardo d’intesa gli uomini con le spade tratte alle corde dei cani.

«Almeno dateci la possibilità di difenderci!» affermò Elisa, intuendo i giochi del ragazzo. L’uomo interruppe il gesto della mano, sorridendogli affabile.

«Perché mai? Non avete poteri magici capaci di creare armi dal nulla?».

Elisa rimase sgomenta, intuendo come quei sudditi silenti avevano assistito a parte di quella strage. Quindi non sapevano che era una Cacciatrice.

Si preparò all’assalto, cercando una via di riparo per Cassandra.

L’uomo diede il segno.

Solo un cane partì all’assalto, dirigendo con velocità feroce verso Elisa, sicuro di sé e della sua rabbia, le saltò alla gola, ma Elisa lo evitò, spostando Cassandra di lato.

«Sta lontana!» le intimò, mentre cercava con lo sguardo qualcosa da usare come arma. Il cane, dopo pochi minuti, riprese l’attacco, dirigendosi di nuovo verso la gola di Elisa. La polvere dell’ebra gli colpì gli occhi, facendolo uggiolare. Elisa scattò, afferrandogli il muso e le fauci, chiudendole. Dopo pochi minuti di lotta e di dimenamenti, il suono sordo dell’osso del collo del cane che si spezza. Il corpo cade a terra, con un tonfo.

Il ragazzo si alzò, infuriato. Non era quello ciò che voleva vedere.

«Mostratemi la vostra magia, non la vostra bravura nel combattimento a mani nude!» ordinò, come se bastasse quello a far attuare i suoi piani. Cassandra, dal basso della rete lo guardò, poco lontano. Era alto quasi quanto lei.

«Non è una cosa che sappiamo evocare a comando!» giustificò, sperando che questo bastasse a fermare l’attacco. Il sogghigno di prima si ripresentò.

«Allora è meglio mettervi in difficoltà.» e stavolta l’ennesimo ordine liberò tre cani. Elisa vide il panico, quando uno si diresse verso Cassandra.

Si trasformò, sperando di attirarne l’attenzione. Un ruggito dalla folla, la donna-pantera scattò, e con una spallata lo stampò sul recinto, ma i due cani dietro di lei si avventarono sulla sua schiena, mordendo con ferocia. Elisa urlò, per poi afferrarli e lanciarli lontani, sempre contro le grate, stordendoli.

«È un Cacciatore!».

«Uccidiamolo!».

«Facciamolo a pezzi e diamolo ai cani!».

La folla ruggiva dalla rabbia, scoprendo una cosa che Elisa sperava di tenere segreta. Forse quello avrebbe fermato il combattimento. Di nuovo il ragazzo parlò, interrompendo il fervore della lotta.

«Da quando in qua un Cacciatore difende un umano?» la domanda cadde nel silenzio degli spalti. Bisbigli, mormorii. Elisa non si sorprese della domanda.

«Perché io non sono come gli altri.» rispose, e attese la risposta dei due cani, ripresisi. Di nuovo ossa rotte, colli spezzati. La calma era di nuovo tornata in quel campo ludico, ma con quattro cadaveri in più.

Si diresse poi verso lo spalto, fissando con occhi felini il ragazzino.

«Liberateci.» disse, con voce autoritaria, forte nella sua voce adulta. Il ragazzo sentì un brivido di paura scendergli lungo la schiena.

«I Cacciatori devono essere uccisi.» e con quella sentenza vennero liberati tutti i cani. Un intero branco di affamati e ringhianti cani di varie taglie e forme si lanciò.

Elisa, sapendo che non sarebbe riuscita a fermarli, afferrò Cassandra e balzando si afferrò alla rete alta, che contornava il campo come una cupola, mettendosi al riparo dalle zanne del branco affamato.

La folla era imbestialita, vedendo negato loro il divertimento. Alcune lance cercarono di raggiungere la coppia che si arrampicava, inutilmente.

Elisa tentò, con forza di aprire uno squarcio nel ferro, abbastanza grande da permettergli di fuggire. Ma aveva le mani impegnate.

Poi una mano che scivola.

«Cassandra!» vide il suo corpo cadere in mezzo al gruppo famelico dei cani, i capelli volare al vento. Bloccata nell’atto di afferrarla con un braccio, prendendola per la veste. Ma la presa era debole.

«Cassandra!» urlò, vedendola dimenarsi.

«Elisa! Lasciami cadere!» l’affermazione spiazzò Elisa, il vestito che lentamente si strappa sotto le mani della mora.

«Che stai dicendo?!» disse, gli occhi annebbiati dalle lacrime. Non poteva, no, perdere anche lei.

«Io non perdo anche te! Non farai la sua stessa fine, Cassandra!» urlò, piccole gocce di acqua salata cadono sul volto della riccia, stupita.

 «Fidati di me!» rispose, guardandola. I cani si azzuffano per poter afferrare quel corpo appeso su di loro. La folla urla, le lacrime cadono.

«Io non voglio!...io...io ti amo!» urlò, con tutta la forza della sua disperazione. Il braccio ferito ricominciò a urlare sangue. Elisa la guardò, disperata.

Ancora un sottile strato di vestiti la teneva attaccata alla riccia. I suoi occhi si appannarono, diventando d’un tratto bianchi. Elisa si spaventò. Non aveva mai visto il suo volto così risoluto. La collana brillava, sotto la veste, di un blu accecante.

Il vestito si ruppe, ed Elisa tentò invano di afferrarla di nuovo, ma non ci riuscì.

«CASSANDRA!» urlò con disperazione.

Cassandra atterrò in mezzo ai feroci canidi, in mano un bastone apparso dal nulla, colpendo il terreno con la punta, circondata da una simil forca al cui interno contenente una pietra dello stesso colore del cuore.

Il colpo fu silenzioso, ma i risultati potenti. I cani, come colpiti da un’onda d’urto potentissima e inesistente, vennero scagliati lontani da Cassandra, sbattendo contro l’inferriata, atterrandoli tutti all’istante. Elisa si lasciò cadere, afferrando una debole Cassandra, stordita dal suo stesso colpo. Il bastone che si dissolve nell’aria.

«Cassandra...» mormorò, guardandola lentamente svenire.

«Scusami...non ho fatto in tempo a dirtelo...» Cassandra vide lo sguardo appannarsi, il corpo abbandonarsi, la forza mancarle. Poi fu tutto buio. Poi fu tutto silenzio.

....

«Cassandra!».

 

Era lì, nelle mie sfuggenti mani, calare lentamente verso la morte. E io, stupida debole, non sono riuscita a trattenerla a me. Perdere la sua presa fu come lasciar cadere me nel buio.

Io...Cassandra...io ti amo.

Ti amo con tutto questo mio cuore violento di dolore.

 

Ero sicura del mio potere, ero sicura delle mie azioni.

Ma non aver informato Elisa di ciò mi fece star male, come se glielo avessi nascosto.

Scusami, Elisa...

 

Fui così felice di vederla risorgere dall’oscurità ancora viva. Anche se rimasi sorpresa dei suoi poteri. Quello stesso fluido ultracorporeo che aveva preso anche me nella vallata. Sapeva di freddo.

Avevo paura che quel freddo ingoiasse anche te.

 

Non udii bene cosa mi disse Elisa prima di farmi prendere dal potere della Luna. Me ne rammarico, perché dalla voce mi sembrava importante...

Chissà cosa mi ha detto...

Elisa, cosa mi hai detto di così forte da impedirti ora di guardarmi negli occhi?

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** 25. ***


Cacciatori e Vittime

25.

 

Don, suono di campana.

La dea ti chiama. Ricorda la missione.

Ricorda la luna.

Elisa...finalmente accetti te stessa e il tuo cuore.

La missione chiede un sacrificio prossimo al suo compimento. Una guerra verrà fermata da ciò, il mondo purgato da questo male infernale. La Dea mi parla, sai...dice che ha grandi piani per te. Ma ovviamente non li rivelerà a me di certo. La sola cosa che mi può dire è che verrà il giorno in cui tutti, Cacciatori e Vittime, vivranno insieme in armonia.

La sua profezia cadrà sulla terra con un risuono di campane.

E la sua messaggera è quella ragazza. Ha letto tutto il volere della Dea, e lei lo compirà.

È lei il sacrificio, Elisa.

Ma tu...tu accetterai i piani che la Dea della Notte ha predisposto per lei...e per te?

O farai come Lucifero, Elisa...? Pretenderai di esser al di sopra di Lei?

 

Elisa aprì gli occhi, scorgendo la gabbia in cui era stata rinchiusa insieme a Cassandra, ancora svenuta. Riposava con il volto appoggiato al suo grembo, le sue mani iniziarono a giocare con i suoi ricci, diventati lunghi quasi fino alla vita. Le labbra rosee erano socchiuse, il respiro calmo si intuiva dalla tuta. Elisa si analizzò il braccio, incrostato dal sangue. La ferita non era infetta, ma non era ancora rimarginata del tutto. Era spessa, e senza un’adeguata cucitura ci avrebbe messo più tempo del previsto per guarire.

La gabbia non permetteva di rimanere in piedi, e le due donne erano riposte in fondo, appoggiate alle sbarre fredde, sorvegliate a vista.

Elisa sapeva benissimo che poteva piegare quelle sbarre con la sua forza, ma la spalla glielo impediva, oltre alla sua mente. Era meglio sottostare a quelle persone, migliori sicuramente e meno pericolosi di quei Cacciatori fuori, alla neve.

La cosa che le scocciava non poco era che gli avessero tratto via la cintura di Giacomo.

Poi un movimento concitato degli armati mise in guardia la donna-pantera, osservando con gli occhi scuri un ragazzino avvicinarsi, lo stesso che era al di fuori del campo da calcio.

«Perché proteggi un umano?» domandò, guardandola con occhi seri. Elisa continuava ad accarezzare i capelli di Cassandra, un lenitivo contro la frustrazione di una donna e di una pantera imprigionata.

«Proteggo chiunque abbia bisogno di esser protetto.» affermò, sostenendo quello sguardo.

«Da dove provenite?» domandò ancora, una domanda a cui aveva ricevuto varie volte risposta, ma non l’aveva soddisfatto.

«Da oltre le montagne, da una vallata contenente una città alla deriva e una foresta.» affermò «Lì c’è la mia città, una base che protegge dagli animali Infettati gente come voi e gente come me, che coabitano senza risentimenti, accumunati dal dolore della perdita di una famiglia e della casa. Non capisco invece come mai questa città abbia una guerra al suo interno tra razze.» ammise Elisa, evidenziando i suoi dubbi, sapendo che se porgeva domande non avrebbe ottenuto risposte.

«I Cacciatori ci uccidono per puro divertimento o per mangiarci, gli animali selvatici non sono sopravvissuti, perché nessuno ha regolato le uccisioni. Viviamo dei frutti della campagna intorno a noi e delle scorte che sono sopravvissute nei magazzini della città. È da quando c’è stata la pioggia di fuoco che nessuno è venuto in nostro aiuto.» il ragazzo parlava con un leggero nodo alla gola, segno che questo ancora bruciava la sua giovane anima ferita «Gli adulti sono morti o trasformati in mostri. La malattia che tu chiami Infezione deriva dalle pietre cadute dal cielo, dagli asteroidi precipitati e che hanno raso al suolo la maggior parte della terra e sconvolto il suo fragile equilibrio.».

Elisa ascoltò, silenziosa, sapendo che quel ragazzo aspettava soltanto di esser ascoltato.

«Lo so, sono stata vittima anch’io di questa malattia, e l’ho studiata, molto approfonditamente. E so anche come salvare gli uomini che vengono colpiti da essi.» aggiunse, colpendo il giovane.

«Esser colpiti da un animale ferito è una maniera più facile per sopravvivere. Molti sono quelli che sono morti toccando la materia stessa che sgorga da un asteroide. Io sono uno di quei pochi che è sopravvissuto a una esperienza simile, e per questo non ho ancora una giustificazione. Colpita successivamente da un animale ho assunto la sua consistenza fisica e la sua anima. Coloro che invece vengono colpiti da un animale infetto assumono soltanto l’aspetto fisico dell’animale che lo ha colpito.» spiegò la giovane, vedendo nel giovane un accurato interesse e bevendo ogni sua parola «Per sopravvivere e non trasformarsi in un animale infetto bisogna essere forti nello spirito e sconfiggere l’animale dentro di noi, prendere la sua supremazia. Allora avrai il potere su di esso, e quindi ottenere la sua potenza e la sua forza, proprio come ho fatto io e come ha fatto tanta altra gente dopo di me.» Nella mente il ricordo dello scontro con tanti giovani che combattevano dentro di essi per vincere, tanti che hanno perso, ma altri che invece hanno vinto.

 

Una ragazzina bionda, rannicchiata su se stessa osservata l’ambiente intorno a sé, annusando e scrutando con gli occhi completamente gialli la gabbia distrutta. Un soffio minaccioso uscì dalla sua gola, contornata di zanne lievi. Sulla maggior parte del suo corpo si poteva intravedere una pelliccia a macchie nere su sfondo giallo. Una coda lunga, dello stesso colore del manto con una punta bianca. Nel folto dei capelli biondi si potevano intravedere le orecchie, piccole e nere. Il volto completamente tramutato dall’animale che l’aveva contaminata: un ghepardo.

Elisa s’acquattò, portandosi alla stessa altezza della ragazzina scrutandola. Quando finalmente la giovane gheparda s’accorse di lei, la guardò minacciosa e le ringhiò con rabbia. Elisa rispose con un altrettanto ruggito più forte, più potente, tipico della pantera nera.

Le bloccò le zampe con le sue, impedendole i movimenti. Ma la piccola gheparda non smetteva di tentare di azzannarla, muovendosi frenetica.

E fu un ruggito potente.

La gheparda fermò il suo tentativo di salvarsi. Completamente annegata negli occhi castani misti al giallo selvatico. E la coscienza della ragazzina si fece forza. Divenne talmente potente da soverchiare e sottomettere il ghepardo in lei. Rumori di soffi soffocati e ossa articolate si proruppe nella sala, e la pantera sotto di sé non aveva più un piccolo mostro, metà uomo e metà ghepardo. Ma una ragazzina completamente sudata e provata. La pantera mollò la presa, riprendendo con gli stessi rumori la sua forma originale. Porse una mano alla ragazzina bionda, aiutandola ad alzarsi.

«Bentornata fra di noi, Giulia.» affermò sorridendo lievemente.

 

«Non ho mai visto un umana e un Cacciatore generare armi dal nulla però.» ecco dove voleva arrivare, il ragazzino. Elisa lo sapeva, e avrebbe risposto con le cattive.

«E io non ho mai visto una città governata da un ragazzino.» aggiunse, dando man forte alla sua età, molto più alta della sua.

«Sono il più anziano di tutti.» Affermò, ma Elisa non vi credette.

«Menti, e si vede.» aggiunse, fissandolo con forza.

«Fammi parlare con il vero capo di questa comitiva, e cercherò di spiegarvi questa magia che ci accade, in qualche modo.» adesso bisognava vedere se il ragazzino abboccava all’amo.

Il ragazzino sembrò meditare, lasciando tralasciare una conferma per i sospetti della donna, ed Elisa silenziosamente esaltò quando si voltò, rivelando una presenza precedentemente avvertita da Elisa, e non si finse sorpresa quando entrò.

«Vedo che sei intelligente per essere un Cacciatore.» affermò la nuova voce, entrando sotto il fascio di luce.

Una donna dalla pronunciata età avanzò, reggendosi a un bastone. Elisa non aveva mai visto una donna così anziana muoversi verso di lei con il petto gonfio di orgoglio ma con una curvatura della schiena tipica della saggezza. Aveva capelli bianchi e uno sguardo velato di bianco, impronta di una vista più lunga della sua nel leggere le persone. Vestiva di abiti bianchi e azzurri con ideogrammi dalle forme circolari, tipici della religione della Dea della Notte.

Elisa la scrutò, quasi intimorita dal notare come quella donna, ricca di rughe, emanasse un aura tutta sua di forza.

«Diciamo che capisco quando un giovane mente...» ammise, abbassando lo sguardo.

«Come ti chiami?» domandò la donna, avanzando con il tipico rumore trascinato di un corpo dal bastone.

Il giovane rimase al suo fianco, come guardia.

«Elisa, signora, e lei è Cassandra.» riferì, non sentendo il bisogno di mentire.

«Piacere di conoscervi, e vi chiedo scusa per il brutto benvenuto, ma non sapevamo se dicevate la verità sulla vostra provenienza e sulla vostra bontà d’animo.» ammise la donna con un ombra di rammarico per l’episodio di quel giorno. Elisa ricordò con uno strappo al cuore Cassandra che cala nel branco di belve affamate. «Il mio nome non me lo ricordo più, e qui mi chiamano Oracolo. Qui noi siamo seguaci della religione della Dea della Notte...e a quanto pare anche la tua amica lo è.» aggiunse, guardando la collana pendente della ragazza riccia, ancora svenuta.

«Io non lo so signora...» confessò Elisa, abbassando lo sguardo su Cassandra, osservandola bene. Dopotutto non aveva mai visto la compagna come rappresentante di una religione del cui credo aveva solo letto in qualche libro.

«Vorrei poterle parlare, quando si riprenderà.» chiese, guardandola con quello sguardo che a Elisa faceva inquietudine e con quella dolcezza nella voce vecchia e roca. Accettò con un cenno del capo.

«Ma ti chiedo di giurarmi che non vorrai male né a me né a questi giovani che sono rifugiati qui, proprio come i tuoi amici nella fortezza nella tua valle.» domandò ulteriormente l’anziana, con occhi seri e velati di bianco.

«Lo giuro, purché non mettiate più in pericolo né me né Cassandra.» precisò Elisa, e ricevette un consenso dal capo dell’Oracolo. Poi si voltò verso il giovane e gli indicò di liberarli, facendogli aprire la gabbia.

Elisa scivolò fuori trascinando la giovane amica ancora svenuta con premura, prendendola in braccio.

Gli venne silenziosamente indicato dal giovane una branda dove poter riposare, nella stanza vicino. Dallo scuro che regnava Elisa intuì fosse notte inoltrata. Vide una branda abbastanza ampia per ospitare due corpi, e il resto della struttura rimase all’oscuro per lei, colpita da un’improvvisa stanchezza. Venne congedata dall’anziana e dal giovane, lasciandole sole in questa stanza dove ripose con cura la riccia vicino a sé nello scranno e chiuse gli occhi Elisa, lasciandosi cullare dall’odore inebriante dei capelli di lei, che le solleticavano dolcemente il collo.

 

Cosa ci capiterà domani? Cassandra si risveglierà?

Dannazione, un giorno so cosa accadrà domani, e il giorno dopo no.

Odio non avere tutto sotto il mio controllo.

E questa donna che afferma che Cassandra segue questo credo...

...Cassandra, perché non me lo hai mai detto?

...Perché non parli più con me?

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** 26. ***


Cacciatori e Vittime

26.

 

Un rumore di spade che scozzavano tra di loro ed Elisa si alzò, scattante. Era sola, in quella brandina dove si era riposata. Aveva dormito profondamente, intuendo i rumori ora forti nelle sue orecchie sensibili. Si agitò, non vedendo la donna amata affianco, e sì alzò guardinga, dirigendosi verso il probabile corridoio. Era una specie di galleria bianca, che terminava in un enorme salone, il portone sfondato ricoperto di polvere che dava accesso a una vecchia sala, forse una palestra. Qui e là c’erano vecchi mobili lignei, il pavimento sporco. La luce filtrava dai vetri alti e sporchi, la polvere si muoveva sinuosa, depositandosi sulle spade tese in uno scontro. Due giovani si stavano approcciando a uno scontro per allenamento, intuendo il materiale ligneo delle armi. Poco più in là una ragazza dai capelli raccolti si allenava a lanciare pugnali affilati, un ragazzo menava larghi fendenti con un’ascia. Sorrise, cogliendo come l’ultimo ragazzo si allenava con corda e pugnale.

Si girò, andando dalla porta opposta, grande tanto quanto quella scardinata, ma fortemente chiusa. Un ragazzino, vestito come l’anziana del giorno prima, di bianco e azzurro, con l’assenza di ideogrammi, probabilmente un grado inferiore.

«Hai visto la mia compagna?» chiese, guardando il ragazzino, dall’alto della sua postura.

«Sta compiendo il rito di inizializzazione.» con un singhiozzo il giovane si ritrovò scagliato contro il duro legno, sollevato dalla presa forte della donna al collo.

«Sta facendo cosa?» domandò, con rabbia e tremore. I suoi occhi tagliavano l’aria. Che cosa stava facendo Cassandra? Perché non l’aveva svegliata? Perché gli nascondeva le cose...?

«Ha chiesto di non essere disturbata, nemmeno da te. È un ordine.» sussurrò il giovane con paura, un tonfo e il ragazzo toccò terra, che cercò di rimettersi in piedi. Elisa sbuffò, guardando il portone con la rabbia ferina che scalpitava. Lo sconforto, la frustrazione navigavano in lei, come onde, come frotte di piccoli ululanti lupi e stracciavano l’anima, offuscavano la mente. Voleva solo poter vedere e constatare che Cassandra stava bene, e invece che trattamento le riservava...? Le ordinava di farsi da parte, come se fosse una serva da tenere a bada.

 

Nessuno mi dà ordini.

Io sono fiera, sono animale, sono donna.

Solo l’unica padrona delle mie azioni e del mio corpo.

Io sono Elisa.

Nessuno mi dà ordini.

 

Ritornò alla palestra. Aveva della rabbia da scaricare e nervi da far scattare. La ferita non si poteva più chiamare tale. Lo sconforto si era tramutato in ira, voleva urlare, correre, combattere.

«Ehi, voi tutti.» e i giovani che si stavano allenando si fermarono, gli occhi che rispecchiavano la sua stessa adrenalina. Desiderio di sangue nascosto da una patina di paura.

«Fatemi vedere cosa sapete fare.» e afferrò una lama, dalla forgiatura giapponese. Sentì l’aria spostarsi, e con un balzo evitò il pesante colpo di ascia del ragazzo forzuto. Era stato veloce nonostante la stazza.

Afferrò un coltello al volo lanciato dalla ragazza e lo rilanciò. Una corda le afferrò il braccio, e sentì il legno di una spada colpire fortemente la schiena, facendole mancare il fiato.

«Uff... siete forti, dopotutto.» ammise, e intrappolò la spada nella corda, lanciandola lontano. Un pugnale lanciato le liberò il braccio, e la lama della sua spada bloccò l’altra spada di legno, spezzandola. Una capriola all’indietro evitò un ennesimo colpo di ascia.

«Dovete fare di più! Qui mi sto soltanto riscaldando!» un pugnale arrivò al suo volto, sfregiandola, prima di sferrare due colpi ben assestati ai due giovani avventatisi a mani nude. Un pugno le fece mancare il fiato, e l’ascia stava per tagliarle la testa se non avesse rotolato per terra all’ultimo secondo. Si lanciò con le mani verso il soffitto, la forma della pantera si udì in tutta la sala echeggiando, un ruggito e scricchiolii di ossa fecero accapponare la pelle ai giovani, che osservavano come la donna-pantera li scrutava con i suoi occhi gialli.

Era fulminea, nella sua forma, e l’ascia si conficcò nella muratura, la corda legò i due giovani lottatori a un chiodo del muro, e la giovane lanciatrice rimase senza munizioni, sprecate nel fermare quel fulmine prima di atterrarla con un colpo di karate.

Si fermò ad odorare l’odore di paura e adrenalina dei due giovani rimasti ancora in piedi, la luce filtrava colpiva il suo pelo, rendendolo lucido e brillante, gli occhi scuri e gialli così ammalianti, un battito di ciglia e iniziò un corpo a corpo serrato, bloccando lame che comparivano da tasche nascoste dei nemici. Sentì lievi ferite propagare il suo corpo, per quando assestasse colpi leggeri con le sue zampe.

Loro combattevano per ferire, lei per disarmare. Un taglio più profondo del concesso scatenò la rabbia. Scagliò contro il muro il forzuto ragazzo, stordendolo, e l’altro combattente, senz’aria, rimase appeso alla sua zampa tesa, sopra al livello delle sue scarpe, affannato. Gli occhi che si chiudevano, il cuore che pulsava più lentamente...

Un colpo improvviso la scagliò contro un cumulo di legna, lanciando scaglie scure nell’aria, alzando un polverone.

«Ora basta.» una voce cristallina e autoritaria si erse dalla polvere, e la donna-pantera fece fatica a riconoscere in lei Cassandra. Indossava delle vesti del culto, ma che indicavano un grado altissimo e di combattente della Dea. I capelli ricci, lasciati sciolti, erano fermati alla tempia da una tiara, le spalle e gli avambracci erano ricoperti da un’armatura leggera di acciaio, un reggipetto - anch’esso di acciaio - avvolgeva il suo dolce seno. Il ventre, nudo, mostrava al bacino, avvolto da una cinta, il cuore azzurro ora brillante di una luce tutta sua, rendendolo sfavillante.

La gonna di tessuto bianco e azzurro disegnato con l’ideogramma della Dea - minimale nelle dimensioni - nascondeva le sue grazie. I piedi non si potevano scorgere dal vestito se non nel movimento, nudi, una cavigliera di campanule scandiva il suo passo.

Il bastone, quello apparso nell’arena, era in mano alla giovane, e dalla fiamma eterea che reggeva fece intuire come la ragazza sapesse usarlo molto bene.

«Chi sei tu, per dirmi quando fermarmi?» disse, sprezzante. Gli occhi della donna erano scuri, la forma lasciata sotto un velo di tristezza e dolore. Quella donna non era più la giovane che aveva salvato tante volte in quella grotta tra le montagne. E l’ordine di prima rimbombava ancora nella sua anima e tagliava tutto.

L’anziana si fece avanti, parlando con voce alta per la sua veneranda età.

«Porta rispetto, Cacciatore, costei è la messaggera della Dea, la Voce della Verità Suprema, in contatto perpetuo e diretto con l’Altissima, e Sterminatrice dei suoi nemici.» e Cassandra sorrise, maliziosa.

Elisa sentì un flebile tremito nel corpo, e un brivido conosciuto correrle per la schiena.

Si scostò la polvere dalla tuta, e si diresse verso la compagna con passo militare, gli occhi puntati alla giovane.

«Lei?» indicò, ghignando «Ma per favore, non è capace nemmeno di impugnare una lama.» sbottando una risata. Il volto di Cassandra si deformò in un gesto contrariato. Il bastone brillò, e il suono di una campana risuonò lontano. Elisa sentì un pezzo di legno esplodere di fianco a lei. Ma non batté ciglio.

«Non ho bisogno di lame, Elisa, ho il potere della Dea dalla mia.» proferì la ragazza, ormai donna, di fronte a lei. Che caratteraccio. Quanta esuberanza, quanto superiore si sentiva, Cassandra, in confronto a lei? Non lo sapeva, eppure ogni passo - passo di donna sicura di sé - era come una conferma, un chiaro segno dei suoi intenti e delle sue convinzioni. Camminava, avvicinandosi sempre di più. Ed Elisa sentì come invece fossero lontane chilometri. Cosa le era successo? Che lavaggio del cervello gli avevano fatto quegli esseri?

«Potere... ma per attuare cosa?» Cassandra sorrise alla domanda fattole dalla giovane donna dai capelli scuri.

«Una guerra per la liberazione. Contro i Cacciatori. Non credono nella Dea, ma nel suo antagonista, il Dio del Giorno.» e gli occhi le brillavano come se avesse preso una qualche droga, erano leggermente opachi, come quelli della vecchia. Occhi da fanatici.

«Sono compresa anch’io, allora.» il silenzio calò nella sala «Non ho mai creduto a nessun dio, che fosse maschile o femminile.».

Cassandra la fissava costernata.

«E soprattutto... i Cacciatori non sono così facili da sconfiggere, se veramente gli vuoi muovere guerra.» aggiunse Elisa, continuando a non staccare gli occhi dalla giovane. Non poté prevedere il movimento fulmineo della compagna, Cassandra, quando con un colpo la fece rovinare a terra. La sua presa forte al petto, il suo fiato pesante al volto, gli occhi gialli.

«Ti consiglio vivamente di abbassare la cresta, Cassandra, tu non sei più forte di me, figuriamoci di quelli là.» e lasciando la presa uscì con passo nervoso e aura nera dalla sala. I credenti si fecero da parte, lasciando libero il suo passaggio, guardandola con timore.

«Un’atea.» proruppe la vecchia, passando lo sguardo alla giovane protetta della Dea, rialzatasi.

«La Dea non ha detto niente a proposito di loro.» sbottò, come giustificazione. Ed uscì anche lei dalla sala.

 

Chi è questa donna?

Non è la mia Cassandra...

Una fanatica. Una religiosa, ligia al suo credo.

Diventerà mia nemica, per il suo stupido credo?

Non mi piacciono gli dei... giocano troppo con la vita degli esseri umani.

E io, la mia vita, la dirigo da me.

Non mi serve nessun dio, solo me stessa.

Il mio destino lo traccio io.

...

Sarò pur sempre un mostro, ma il mio destino, per quando bestiale sia, è mio.

Non loro.

 

Lo sapevo, Elisa.

La Dea non è contenta.

Cambia atteggiamento, amica mia. Non andare contro gli dei, loro ci sorvegliano dall’alto, e ci proteggono.

Non pretendere di essere al di sopra di loro.

Se sono quassù e noi laggiù ci sarà un motivo no?

Ma sei ancora umana, Elisa, ed è giusto sbagliare, per la tua natura.

Ma non ti innalzare al di sopra della Dea, amica mia.

Non fare Lucifero.

La Dea ha un disegno preciso per te, non distorcere i suoi perfetti piani per tutti, solo per la tua testardaggine.

 

 

Ecco il modello che avevo in mente per i vestiti da sacerdotessa di Cassandra.

Image and video hosting by TinyPic

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** 27. ***


Cacciatori e Vittime

27.

 

«Mi senti, Giacomo?» parlava a una radio, Elisa. Una voce crocchiante rispondeva a sbalzi.

«Non...Elisa...cercar...» le nocche diventarono bianche dal nervoso, spostò qualche leva, girò una manopola, e la comunicazione diventò più chiara. Era una sala buia quella da dove comunicava la giovane, ma si sentiva nell’aria un respiro diverso dalla donna-pantera. Una luce azzurra sferzava l’oscurità, e pulsava di vita propria.

«Mi recepisci?» domandò ancora la donna, parlando al microfono. Sforzandosi di percepire la voce dell’amico dal ricevitore.

«Ora ti ricevo forte e chiaro.» rispose la voce maschile al di là della comunicazione, Giacomo trattenne un sorriso «Ora ti posso dire una cosa: vaffanculo! Porca puttana, ci hai fatto preoccupare! Dove sei?» domandò il giovane, con la sua esuberanza. Elisa sogghignò prima di rispondere.

«Sono a quattro giorni di cammino dalla base, ti sto inviando le coordinate dei segnalatori che indicano la strada.» aggiunse, digitando numeri su una tastiera a cui mancavano alcuni numeri. Pochi minuti e, confermato l’invio, parlò di nuovo «È importante. Voglio che registri il seguente messaggio vocale, e inoltrarlo agli altri due capi delle basi.» Aspettò il via e parlò.

«Sono Elisa, e voglio che ascoltiate le mie parole. Il mondo esiste al di là della nostra conca, se seguirete le indicazioni che ho inviato, raggiungerete una cancellata sorvegliata, voglio che la evitiate virando a ovest, raggiungendo un vecchio raggruppamento di abitazioni. Laggiù io vi aspetterò. Ho bisogno di rinforzi, tutti coloro che possono combattere rispondano al mio appello. Questa è una guerra, e per la sopravvivenza. Se perderemo saremo tutti condannati.» inspirò, sapendo che stava condannando delle persone a morte certa «Vi avviso, se non vorrete combattere vi capisco, ma è una emergenza. Quegli esseri che ci hanno attaccato, nemmeno un mese fa, torneranno, e più forti di prima. Quindi pensate ai vostri cari e rispondetemi: volete davvero che cadano in mano loro? Vi chiedo di combattere per loro, per la vita. Per la libertà.» Elisa si voltò all’ultima parola, guardando un paio di occhi scuri al di là della coltre di buio. La fissavano con fastidio trattenuto. Ritornò a parlare.

«So che vi chiedo molto, ma vi prego, seguite le mie indicazioni, vi aspetterò tra 5 giorni, in quel raggruppamento di case. Portate munizioni, armi, e voi Infetti portate le vostre energie. Ros, Ippolito, chiedo anche la vostra presenza. Abbiamo bisogno di combattenti esperti, medici e di buoni cecchini. Più saremo, più forti saremo. Sperando che il mio messaggio raggiunga tutti e vi spinga a venire. Vi aspetto, per la libertà.» e con quello comandò che il messaggio finisse di essere registrato. La voce di Giacomo era ora molto più seria e poco propensa allo scherzo. Elisa poteva quasi scorgere il suo volto giovane ferma in una espressione grave.

«Elisa, è tutto vero? Dobbiamo combattere...per la sopravvivenza?» la sua voce era preoccupata. Elisa rispose affermativamente. Lo sentì bestemmiare al di là del ricevitore.

«Dannazione... ci mancava solo questa. Comunque porterò il materiale necessario. Le cinture da me ideate sono comode per gli infetti.» il giovane ormai aveva la voce da capo, da chi sa cosa fare. La giovane sogghignò.

«Vedo che ti sei subito accomodato sul trono, eh, Giacomo?» stuzzicò Elisa, poi tornò seria «Gli infetti devono portare chi non lo è sulle groppe, dovrete essere veloci e leggeri, usate le tute per la foresta, state attenti, la via è ardua, ma ora la neve non intacca più il campo...si sta avvicinando il vento caldo del sud.» aggiunse, e poi salutò, ricordando il luogo e riconfermando le coordinate.

Appoggiò il microfono sullo strumento ormai spento.

«Questa guerra serve a tutti, per poterci liberare.» una voce fuori dalla fioca luce della lampada raggiunse le orecchie della giovane. Elisa diede un pugno al tavolo, irata.

«Loro combatteranno solo ad un mio ordine. Tu non hai nessun esercito al tuo seguito, Cassandra. Noi non combattiamo per la religione.» aggiunse la donna, alzandosi ribaltando la sedia di plastica. I suoi occhi dardeggiavano ira, raggiunse con una falcata la presenza nel buio «Tu stai giocando con la vita della mia gente, donna.» disse, colpendola con l’indice sul petto. Elisa era ancora sotto la luce, ma vedeva al di là dei fiochi raggi della lampada. Cassandra aveva un volto impassibile.

«La Dea lo ordina.» soffiò, osservandola con dignità dalla sua altezza. Elisa sputò per terra.

«Io non ricevo ordini da nessuno. Combatto per la libertà, non per un dio inesistente.» e si allontanò. Cassandra, nell’oscurità la guardò uscire dalla stanza, una porta illuminò la stanza della luce del giorno che fuori imperava. Vento, grigiore, e gocce di acqua cadevano come lame di ferro.

Cassandra si soffermò ad osservarla, lì ad ammirare il cielo, immobile nella sua postura ferina, la coda che, agitata, si muoveva veloce. I vestiti datole dai Resistenti enfatizzavano le sue forme scattanti e morbide. La riccia si era quasi dimenticata della morbidezza del suo abbraccio, del calore insito nel suo petto. Della delicatezza della sua pelle bronzea. Della dolcezza delle sue carezze... nella mente i ricordi di quelle notti passate a dormire accanto a lei.

Svaniti.

Elisa scostò il volto, guardandola in tralice. Cassandra notò i suoi capelli. Erano cresciuti. Troppo.

«Una volta...stavamo una affianco all’altra.» parlò Elisa, con un tono malinconico. Si poteva vedere la tristezza trasparire tra i ciuffi ribelli sul suo volto «Cosa è cambiato da allora?» domandò «È forse... colpa mia?» la mente della donna che corre alla sua dichiarazione d’amore, le infligge un colpo nero nel cuore rosso gonfio d’amore. Silenzio.

«Sono cambiata io, Elisa.» disse Cassandra, nel silenzio spezzato «Non puoi cambiare ciò che sono. Ciò che penso. Io sono devota alla Dea, sin dalla nascita. Ero predestinata a lei sin dall’inizio. Questo è il mio destino, disegnato dalle mani sacre della Somma Dea della Luna.» la sua voce esaltava il nome del dio, come se il fatto di essere scelta da lei fosse un grande merito. Elisa sorrise mestamente, nascondendolo alla giovane. Gli occhi al cielo. Erano umidi come lui.

«Peccato che ognuna di noi disegna il proprio destino, Cassandra, giorno dopo giorno. Non gli dei.» e con quella frase Elisa uscì alla pioggia. Cassandra la guardò varcare la porta.

Sorrise.

 

È così bella e struggente sotto la pioggia... così invitante nel suo peccato...

E i suoi capelli sono così amorevolmente ricci...

Oh dea, come posso resisterle...?

È forse questo quello che devo sconfiggere, è forse questo il mio punto debole...?

...

La lussuria?

 

Ti ricorderò come eri, amore mio.

Dolce, affettuosa, simpatica, sorridente.

Ti ricorderò come quando mi sono innamorata di te, amore mio.

Orgogliosa e combattiva.

Proprio come me.

Ma a quanto pare l’amore non fa per me.

 

Elisa abbassò la testa sotto la pioggia. Le lacrime si fondevano con l’acqua dolce che frustava la sua pelle sotto la superficie dei vestiti. I capelli le andavano sugli occhi, saturi di acqua. Li costò con rabbia, urlando nell’aria grigia della pioggia che cade.

 

Piove, amore mio. Dentro me.

Ti ricorderò com’eri, e nulla più.

Mi avevi chiesto aiuto, e te l’ho dato.

Mi hai chiesto guerra, ed è quello che ti darò.

...

Desideravo soltanto che tu mi chiedessi amore. Perché questa è l’unica cosa che vorrei donarti: me stessa.

 

Elisa singhiozzava sotto la pioggia, dentro quel campo di calcio dove aveva confessato il suo amore. La rete sulla sua testa era satura di acqua. Poi, come un colpo nella mente un suono dentro la testa le urlò.

Tum, rombo di tamburo.

Elisa cadde sulle ginocchia, sferzata dal dolore, un suono la scuoteva nelle orecchie della sua testa e la riempiva di fitte.

Ricorda il Sole.

Poi il dolore se ne andò, e arrivò una calma silenziosa. La pioggia non suonava più, come prima. Ora era silenzio. Si alzò, gli occhi verso la grata. Erano completamente gialli. Con un balzo incredibile arrivò alle grate e le tranciò con un colpo secco delle mani, la trasformazione in stato avanzato, la pantera governava quel corpo che ora avanzava a falcate nella grigia città, ricoperta di acqua e silenzio.

Ricorda il Sole.

Ricorda la missione.

Ricorda la carne.

Ricorda il sangue.

 

 

Ecco l’ennesimo capitolo partorito dalla mia mente malata. Cosa è successo ad Elisa? Quanti rinforzi arriveranno? Cos’è questa guerra che Elisa deve affrontare?

Domande a cui avremo risposta - forse - nel prossimo capitolo, che partorirò forse sicuramente dopo le vacanze natalizie.

Buona fine del mondo a tutti e Buone Feste ^W^

Eriok

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** 28. ***


Cacciatori e Vittime

28.

 

Corri, pantera.

Sii veloce, lesta.

Il tuo padrone ti aspetta.

 

La figura fulminea attraversò tutta la città presa da falcate enormi, il cemento quasi cedeva sotto la sua possente spinta, gli occhi iniettati del giallo rispecchiavano l’anima che ormai governava quel corpo scattante e veloce sotto la pioggia che si stava trasformando in lame. La fine dello spirito pervadeva quel corpo nero, le fauci spalancate inspiravano velocemente il respiro e lasciavano quiete nuvole bianchicce nell’aria pesante di quel mattino grigio di lacrime.

La mente dell’umana era sotto controllo, sotto quella superficie di muscoli e odio, costretta sotto quello strato di forza e dolore, rinchiusa nel suo pianto. Elisa spingeva per uscire, ma era debole, era come cercare di respirare sotto l’acqua. Più ci provava, più sprofondava. Era come quella volta...

 

NO!

Non ancora!

Ti prego, fermati...!

 

Il padrone ora chiamava la sua mente, e la pantera obbediva. Sembrava quasi di scorgere un ghigno soddisfatto su quel volto così trasfigurato dalla malignità della pantera, finalmente libera. Quel tamburo l’aveva come rinvigorita di vita. Arrivò ad una strana barriera di rottami, arrugginiti sotto la superficie bagnata, e li fermò la sua corsa. Odore di sangue nell’aria. Era così ferroso e così buono. Ne inspirò a pieni polmoni la potenza. Il sangue la richiamava. Elisa sobbalzò, nell’animo. Cos’era quel sapore così languido e dolce nella gola? Strappò gli occhi e vide la luce del mondo.

«Arrivo, padrone.» sputò la voce acerba e profonda della pantera, non più umana, con tono umile.

Una lama comparve sotto la sua gola, un occhio giallo la fissava. La pantera non mosse nessun muscolo. Sapeva già cosa fare. Grugnì qualcosa e la lama si abbassò, comprendendo nel linguaggio animale un messaggio. Era un lupo, con fattezze umane. Il pelo sporco, incrostato di sangue, forse non suo. Puzzava di carne fresca. La pantera lo seguì, rallentando l’andamento.

Attraversarono la piazza, una volta bianca, ora tinta di rosso sangue, che impregnava il pavimento. La pantera entrò dalle porte scardinate - bronzo - di quel grande fantasma che era l’edificio che governava il tutto intorno a lui. Era bianco, pieno di quelle picche e braccia da voler raggiungere il cielo. Statue, occhi, vetri taglienti la osservavano e, seppur nell’animo non lo volesse ammettere, ebbe timore di entrare. Quelle ombre tappezzavano la sua superficie come potevano essere le cicatrici su un corpo di un uomo afflitto.

Le porte erano a terra, come divelte da un forte vento. Una navata possente, alta come le più alte montagne, la dominò. E si sentì piccola. Colonne si susseguivano, come tentacoli, ricoperti di graffi e alcune deperite, dentro questo edificio. Ai suoi lati vide legna da ardere spezzata, più in là panchine ancora integre. Una marmaglia di uomini-lupo nella loro danza tribale governava il centro dell’edificio, presi da una musica di tamburi, inneggiando al sangue, alla carne, nella loro danza intorno ad un fuoco che cucinava un cadavere di umano. Il pavimento, di marmo, era ricoperto di ossa. La pantera sogghignò. L’odore della carne le fece produrre saliva. Aveva fame, voleva soddisfare il suo bisogno di carne che da troppi giorni nascondeva.

Ma una presenza, dal profondo della grande chiesa bianca, si erse nella baldanza. D’un tratto la musica si fermò, così come le danze. Gli occhi gialli tutti puntati verso quell’uomo, di mezza età, allargare le braccia, davanti a questo enorme tavolo di marmo sporco di sangue. Osservò la marea di occhi, affamati, con superiorità e nascosto disgusto. Ora tutti si disponevano ad ascoltare lui.

Ma non parlò. Casomai nella testa della pantera risuonò la sua voce, autoritaria, e così come in lei, in tutti coloro che erano presenti all’appello del “sacerdote”.

«Qui, oggi, abbiamo una nuova recluta.» la voce parlava, la pantera sorrise, spingendo per avanzare verso l’uomo, intuendo che fosse il capo di quell’esercito. Era ormai a quasi pochi metri dal patibolo quando i suoi muscoli si fermarono. Elisa spezzò un muscolo coi pugni. Stava riprendendo il controllo, e la pantera digrignò. Il patibolo era alla fine della navata, che culminava in una maestosa vetrata, disegni che ricordavano una vecchia religione. La luce rada traspariva da questi vetri. Alla sua sinistra si erse una musica strana. Era un organo. Un lupo suonava con le sue dita pesanti il maestoso strumento, producendo suoni lugubri e profondi. I tamburi iniziarono a produrre un richiamo della battaglia. Gli occhi della pantera si fermarono su un ragazzo che stava salendo ora i pochi scalini, avvicinandosi all’uomo. Quel ragazzo. Lo aveva già visto. Ed Elisa bussò alla porta della coscienza.

«È uno dei nostri nemici, ma vuole diventare uno di noi.» i grugniti della marmaglia si elevarono alti, per dimostrare il loro disappunto. La pantera affilò lo sguardo. Occhi scuri, vacui. Giovane. Il giovane. La mente dell’umana collegò quella figura al ragazzo che faceva finta di essere il capo dei ribelli.

 

TRADITORE!

 

L’eco della rabbia rimbombò nel petto della pantera. E sogghignò.

«E oggi verrà trasformato.» con quella frase davanti al patibolo venne posta una vasca, straripante di sangue che a volte, per colpa dei lupi incapaci, cadeva a terra. Era di marmo anch’essa. Il giovane si tolse la tunica, rivelandosi completamente nudo, e si immerse nel sangue come se fosse acqua. I suoi occhi decisi. Erano dilatati, come assuefatto da una droga. La pantera si leccò i baffi. I lupi iniziarono come a cantare, gorgogliando e grugnando all’unisono, creando come un rimbombo di battaglia, i tamburi alzarono il loro ritmo. L’organo sputava fantasmi di polvere e graffi.

L’uomo lo spinse sotto il sangue, trattenendolo sotto la superficie del sangue. Bolle uscirono dal liquido. Il giovane stava affogando. La pantera indietreggiò, come scossa. Il potere dell’umana stava ritornando, e stava riprendendo il controllo anche del corpo. Tentò di muoversi, ma non ci riuscì. Elisa stava risorgendo da quella pozza di sangue in cui invece stava affondando il giovane.

Quando lui riemerse completamente ricoperto di sangue, così come era nato al mondo, ora era un essere nuovo, i suoi occhi gialli, e si tramutò nel mostro di incrocio tra uomo e lupo che governava la stanza. «Salutate Samuel, il traditore della Luna.» Elisa riacquistò il controllo e, mentre l’ultima frase dell’uomo rimbombava nella testa della donna e un ululato alto le invadeva le orecchie, scivolò silenziosamente dal rito a cui era stata richiamata. Gli occhi castani sovrastavano il giallo nei suoi occhi. Cercò di controllarsi. Il corpo tremava tutto, per l’esperienza appena vissuta. Per ciò a cui aveva appena assistito.

Varcata la soglia della chiesa corse, sperando che nessuno la vedesse, scivolando nei meandri di quella città ricoperta di sangue per tornare all’asfalto. Si girò per un secondo, osservando l’edificio che si ergeva in quella moltitudine di sangue e carne, bianco e lindo come poteva essere un angelo, come uno dei tanti che decorava le sue facciate. Ne rimase incantata ma allo stesso tempo addolorata.

Era una chiesa. Quella chiesa che aveva visto tante volte con i suoi genitori. Un luogo dedito a un culto ormai perso nella memoria di quell’epoca.

Scivolò, bagnata dalla pioggia, nelle profondità della città e corse su binari che ancora sfavillavano scintille.

 

Corse finché non gli mancò il respiro, arrivando ad una stazione. Si appoggiò al pavimento polveroso e vomitò. L’odore di sangue le era rimasto impregnato addosso e il ricordo di quel cadavere a cuocere le rivoltò lo stomaco già provato in quei giorni.

Poi nella mente l’immagine del giovane le ricordò il tradimento, e vibrò di odio e rabbia, rialzandosi.

Scagliò un pugno contro il muro, una nuvola di cemento si sparse per la colonna, e la giovane uscì al giorno. La mano colava sangue.

Ritornò alla base, coricandosi su una brandina. Nessuno la notò.

Nessuno badò alla donna che puzzava di sangue.

Nessuno badò alla donna che stringeva la mano ferita in uno straccio.

Non chiamò nessun dio a sorreggerla in quel momento di paura. Si accucciò su se stessa e pianse silenziosamente, fino alla stanchezza, fino a quando l’oblio non ebbe pietà di lei, accogliendola nelle sue nere braccia.

...

Elisa, nel sonno, sorrise.

L’oblio aveva il profumo di Cassandra.

 

 

 

 

Ecco il nuovo capitolo, qui abbiamo potuto avere uno stralcio di come può essere la religione del Dio del Giorno, o il Dio Sole.

Le vacanze sono finite, la fine del mondo non è ancora arrivata, e a me tocca riprendere a studiare ç_ç

Almeno mi posso distrarre scrivendo u.u

Buona lettura,

Alla prossima

Eriok

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** 29. ***


Cacciatori e Vittime

29.

 

Il gruppo di nuovi arrivati, di cui la maggior parte Infetti, entrarono con il fiatone nella struttura principale dei rifugiati e sopravvissuti della allora grande metropoli. Alcuni osservavano con occhi meravigliati case alte quante montagne, l’odore di zolfo e sangue che scorreva per le vie piccole, e di come quel piccolo treno potesse correre sotto il terreno a quella velocità.

Sorrise, Elisa, nel riabbracciare i suoi amici e a prendersi le dovute strigliate per la fuga, ma si fece perdonare con un dovuto banchetto. I credenti della Dea accolsero con giubilo i combattenti, per quanto alcuni non fossero di quelli da loro preferiti.

Gli occhi, sempre attenti, scrutavano con occhio critico e cattivo i giovani con occhi e code d’animali. Alcuni ebbero anche scontri verbali, ma tutto si sistemava con uno sguardo affilato di Elisa e qualche parola buona di Ippolito.

Cassandra osservava stranita quel giovane alto e androgino, non sembrava mischiarsi ai giovani intorno a lui ma, anzi, se ne distaccava volontariamente. Quando seppe che era uno dei capi della loro combriccola, la giovane strabuzzò gli occhi. Sapeva di Ottocento e peccato. Si allontanò da quella malsana figura.

Fu una notte ballata alle danze di fuochi e piccoli falò dove si arrostiva la carne di buona qualità.

Ma la maggioranza si lamentava delle verdure, che i rifugiati mangiavano quotidianamente. La carne era privilegio dei Cacciatori, non loro.

Elisa, d’altro canto, aveva un moto dentro, un fastidio interno che bruciava dentro di sé. Quel giovane, il sottoposto della donna anziana dagli occhi cechi.

Lei sapeva. E lui sapeva che lei sapeva.

Ma parlare del suo tradimento sarebbe come ammettere di essere stata là di sua volontà. E zittì la propria lingua, stringendo i pugni a quell’inghippo. L’ultima invasione della pantera nella sua mente non le era per niente piaciuta anzi, le faceva paura. Questo significava che non la controllava adeguatamente, e che quell’uomo anziano possedeva il potere di domare i Cacciatori.

Si era ritirata in una stanza privata a pensare, mentre nella vicina sala i giovani gioivano e sorridevano, come se non ci fosse un domani, mangiando fino allo sfinimento e ballando fino allo stremo. Elisa meditava, svestendosi della tuta. Apprezzò la gentilezza di Giacomo di riportarle le sue vesti militari. Quando indossò la maglia si sentì finalmente se stessa. Inspirò l’odore di nuovo. Li aveva pure lavati, che gentile...

«Disturbo?» domandò Cassandra, entrando nella stanza bussando col bastone sulla porta. Elisa si voltò, e indossò la maglia in velocità. Non notò il rossore della riccia.

«Parla.» affermò, afferrando una pistola e saggiando la presa. Iniziò a smontarla per pulirla.

«So che ti ho chiesto di spiegarmelo almeno tre volte, ma non riesco proprio a capire...» iniziò a parlare la giovane, camminando. I suoi piedi nudi sul pavimento non provocavano nessun suono. Come se ogni passo fosse studiato. L’eleganza del portamento, l’ancheggiare delle sue forme distrasse Elisa, e ascoltò solo metà del discorso. Come non poteva accorgersi, lei, di cosa le provocasse il suo solo muoversi? Come poteva non capire che lei era tutto quello che desiderava? Corpo e mente?

Un tramestio interno la scosse.

«Allora?» domandò Cassandra, guardandola. Notò il suo sguardo perso in un punto indefinito dietro di sé.

«Elisa?» la chiamò, notando la sua assenza. La donna montò l’arma e la poggiò sul ripiano vicino al letto su cui si era seduta per l’operazione. Un leggero cigolio uscì dalle molle vecchie del letto.

«Cos’hai?» Elisa fece qualche falcata, avanzando velocemente verso di lei, gli occhi gialli nella penombra della stanza illuminata da una luce di candela. Un colpo di vento la spense. Poi un tramestio, un fruscio, un ansimo mancato.

«Elisa...» la donna dai capelli corti aveva afferrato senza cortesia la giovane e l’aveva bloccata al muro, e l’aveva baciata. Con furia, con voracità. Cassandra tentò di staccarsi da lei. La paura si poteva palpare nella sua voce. Ricordò la notte di dolcezza e quella richiesta nel silenzio della stanza, prima della fuga. E quelle lacrime cadute senza scuse.

«Che stai facendo?!» domandò, scossa, spaventata...eccitata.

La donna-pantera non badò alle sue parole e riafferrò le sue labbra, suggendo calore e vorace di dolcezza. Le sue labbra...avevano davvero il gusto del miele sul filo.

«Basta...» mormorò, tra un bacio e l’altro, ma più la mora continuava più Cassandra desiderava che continuasse. E perse la propria coscienza e la propria religione, Cassandra, ma non seppe quando, di precisione. Se quando l’avesse afferrata per i glutei e portata sul letto a peso o quando l’aveva spogliata della corazza, avendo accesso al seno ancora acerbo, di giovane donna.

Elisa non si fermò dalle sue azioni, non profetizzando parole, ma respirando veloce, eccitata. Le mani, la bocca, si muovevano tutte per loro volontà, e più ne suggeva dolcezza più si caricava di piacere e fretta. Il suo profumo era fuoco che bruciava gola e carni.

«Elisa...!» la chiamò una seconda volta, ma non era di paura, era di desiderio.

Scostò le vesti di poco, sentendo la sua intimità oltre la coltre dell’intimo. Cassandra trasalì, percependo una cascata di sensi tali da sconvolgerla.

 

Se mi distrugge così solo con il tocco, non oso immaginare...

 

Elisa zittì i suoi pensieri con la bocca, baciandole labbra e pelle, collo e spalle, seno e ventre. Poteva sentire i suoi muscoli tendersi, le sue mani fremere. Gli occhi gialli luccicavano nella stanza ora buia, ma Cassandra aveva gli occhi chiusi. La mano che reggeva il bastone perse poco a poco la presa.

Una mano, lenta, distratta, scivolò, e il contatto con esso fu come una scarica di dinamite e fulmini nei bulbi della donna-pantera.

 

Cassandra, insinuata in un cono di luce e polvere, sorride, lo sguardo rivolto verso l’alto, nella contemplazione divina. Elisa è lì, a terra, ferita, nella vecchia chiesa bianca distrutta. Vide, nell’ultimo barlume di vita, il corpo della persona che amava lentamente sgretolarsi, il sangue vaporizzarsi, il suo sorriso frammentarsi e diventare aria. Un’onda d’urto colpì il mondo. E fu buio. E fu luce.

Don, suono di campana.

I Cacciatori si trasformarono in polvere, proprio come Cassandra. Elisa si dissolse nell’aria, urlando il suo nome invano.

 

Cassandra. Morta.

Lei. Morta.

Sacrificio.

Eroe.

Cacciatore.

Vittima.

Dea.

 

Elisa si fermò, come scossa da quella visione. Cassandra, sotto il suo peso, notò i suoi muscoli ghiacciarsi.

«Elisa...?» domandò, con un ansimo, come se fosse colpa sua.

E lei, in un secondo, capì.

E scelse.

Scelse, finalmente, cosa era. Cosa fosse. Capì, in fondo, nel proprio cuore, che fine doveva fare quel mondo.

E sprofondò, e risorse, a nuova vita.

Afferrò con forza il bastone, e nella mente della sacerdotessa urlò una voce candida. Si sentì come risucchiata da un imbuto, la sua linfa, la sua vita, il suo intero essere, compresso, dentro un unico e piccolo spazio vitale.

Elisa, nel buio della stanza, sogghignò. Gli occhi gialli.

 

Finalmente, ti sei decisa, stupida umana.

 

La pantera, nel pieno della sua abnorme forma pesava sul giovane corpo della giovane sacerdotessa, ora spaventata e conscia di quello che era accaduto. Un inganno.

 

Tradimento.

 

La pantera risucchiò, come una sanguisuga, ogni singola particella di quel potere immenso contenuto nel corpo di quella stupida giovane chiamata “sacerdotessa”.

Fu solo ad un colpo infertole dalla stessa, con una pistola, che perse la presa e quindi il vantaggio che traeva da esso.

Ma fu soddisfatta.

L’energia accumulata in sé era così enorme da bastare a radere al suolo un esercito. Da non essere danneggiata da un colpo di pistola.

«Mi hai tradita!» urlò Cassandra, tra le lacrime, coprendosi con un velo. Elisa, tornando alla forma umana, sogghignò. Gli occhi gialli. La voce distorta.

«Stupida umana, che credevi? Che mi fossi innamorata di te?».

 

Non avrei mai pensato che facesse questo rumore, un cuore spezzato.

 

Una risata agghiacciante si propagò nell’aria, dalla porta entrarono Giacomo e Ros, spaventati dal colpo di pistola.

«Elisa, che è successo?» ma un’onda d’urto scagliò i due oltre la soglia, lontano. Elisa sorrise. Nelle mani, trasformate in zampe, non erano più nere, ma bianche. Il potere della Dea scorreva nelle sue vene, rubato alla sacerdotessa stessa. Poteva persino notare nei suoi occhi appannati dal pianto la Vista assente. Il suo castano era così scuro, adesso, nel suo volto.

 

Ma ora i miei occhi vedono la realtà. Finalmente, ho capito.

Ora so cosa fare.

 

Elisa si voltò e con un semplice gesto delle mani si aprì una voragine nel cemento della struttura. Calcinacci e polvere invasero la stanza, Cassandra trillò, sommersa da macerie.

La donna-pantera, nel pieno della sua potenza, più pantera che donna, si erse nella sua mostruosa altezza, gli occhi gialli, le braccia ricoperte da un pelo liscio e bianco.

«Ci vediamo domani, alla piazza. E morirete.» urlò, come avviso, e corse fuori dalla struttura, veloce e rapida come il Cacciatore che aveva scelto di essere.

Come era sempre stata.

Che non aveva mai avuto il coraggio di accettare.

 

Compresi troppo tardi, nella mia corta vita, che ci sono solo due categorie d’esseri nel mondo: i Cacciatori e le Vittime. E imparai troppo tardi a quale delle due categorie io appartenevo.

Troppo tardi.

Io sono Cacciatore.

Cacciatore è oscurità.

Perché l'oscurità della disperazione è profonda, non posso fermarmi dal distruggere il mondo.

Prendendo tutto ciò che desidero, e gettandolo in un inferno senza fondo che tutto consuma.

Il lato oscuro, che per sempre dominerà il mio destino.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** 30. ***


Cacciatori e Vittime

30.

 

La notte calò nella radura rossa di fronte alla chiesa, un tramestio. Un ululato di dolore. L’allarme era scattato, silenzioso nella radura ma lampante nella mente degli Infetti, che sbraitavano ordini e digrignavano i denti, agitati come piccole formiche mute nella loro frenesia. Nel mezzo del loro via vai Elisa, rivestita di succinte vesti, appoggiata in modo blando e scomposto, le sue grazie in mostra, zittì con un urlo mentale i suoi adepti. L’uomo dai capelli bianchi la guardò, e quel piccolo fulmine fece muovere la donna. Ancheggiò in modo vistoso, la coda sciolta e lenta nei suoi movimenti, la bava degli esseri colava e le fantasie si potevano scorrere come film sugli occhi degli schiavi e lei li vedeva tutti. Sogghignò, scoprendosi forte e irraggiungibile.

Uscì, il buio dominava tutto. Ma, in fondo, una macchia bianca. Una figura. Cassandra.

Scostò un ciuffo dai suoi occhi, e con un semplice battito di ciglia due dei lupi neri si scagliarono su di lei. Corsero come fulmini, raggiungendola in poche falcate. Un veloce movimento del bastone, un bagliore muto di luce ed eccoli riversi a terra, in forme umane.

In un battito di cuore cinque altri lupi si avventarono su Cassandra che lentamente camminava, gli occhi che la vedevano, al di là dell’oscurità, totalmente bianchi. Aveva raggiunto il maggiore contatto.

Cassandra impiegò pochi movimenti per fermare quei nuovi avversari con quelli precedenti. L’energia che la muoveva era la rabbia. Era il dolore.

 

Tradita. Ingannata.

Non sai quante persone hai deluso, per le tue azioni, per le tue parole.

 

«No!» urlò Giacomo, mentre il suo braccio veniva fasciato con un’asta.

«Io non accetterò mai questo! Lei non è una di loro! Non può esserlo! Devono averla manipolata!» urlava, le lacrime agli occhi senza che avesse il coraggio di cacciarle via. Cassandra giaceva inerme, avvolta ancora da quel lenzuolo ormai rotto e sporco di polvere. Se respirava, poteva inspirare il suo odore. Era ancora lì, caldo, rintanato nel suo cuore. Spine.

«Elisa non può essere una di loro!» sbraitò ancora, stringendo forsennatamente la mano che ancora reggeva la pistola.

«Non lo accetterò...mai...». Cassandra, gli occhi vacui, persi nel fissare il nulla ricordò, a menadito, il percorso delle sue labbra su di lei. Prima era dolce, confortante, eccitante. Ora pungente. Il suo cuore urlò. Il bastone vibrò di energia. Gli occhi si appannarono di bianco e vide.

Vide la luce.

Vide il buio.

Vide la verità.

Il velo silente e invisibile della bugia scivolò via come polvere dai suoi occhi.

Si alzò nel silenzio generale, si rivestì in velocità e uscì fuori, preda del vento soffiante e di una nuova forza dettata dalla rabbia.

 

Di quanto dolore hai inferto a questo cuore.

Elisa, da te, un inganno simile, mai me lo sarei aspettato.

Ma dovevo dedurlo forse.

Dopotutto sei una di loro, un Cacciatore.

E io la Vittima.

Ma ora vi redimerò tutti. Vi distruggerò tutti.

...

Vi farò capire che non bisogna farla arrabbiare, una sacerdotessa.

 

Elisa sogghignò. La sua risata riempì tutti i silenzi. Ed era agghiacciante, quanto uno stridio di denti su una lavagna madida di sangue.

Si scagliò su di lei a una velocità assurda, un attacco che sfiorava la perfezione, schivato al millimetro. Le unghie di Elisa aprirono solo lievi ferite sulla pelle candida e morbida di Cassandra, mentre lei concentrava la potenza del bastone in quel piccolo anfratto del suo ventre, per scagliarla lontano e con il maggior dolore possibile. La donna lo evitò, scivolando nell’aria, di nuovo, un altro graffio al volto, tentato, che la donna dagli occhi bianchi evitò con maestria e silenziosità, come se stesse vedendo i suoi movimenti a rallentatore. Elisa vide il fianco scoprirsi, e l’energia concentrarsi nelle mani di Cassandra. Il rumore dei calcinacci fu l’unico, di quel turbinare di movimenti, a propagarsi. Elisa riemerse, digrignando.

I lupi fremevano, ma il chiaro comando era il non attaccare.

Lei era la prescelta.

Stavolta, l’impatto silenzioso sfiorò la spalla di Cassandra, scagliando la sua parziale protezione per terra.

La polvere non fece in tempo a rivoltarsi su se stessa che Elisa aveva già raggiunto la gamba di Cassandra, afferrandola per farle perdere l’equilibrio.

La donna usò il vuoto prima dell’impatto come appoggio per l’ennesimo attacco. Elisa schizzò in aria, colpita di nuovo, stavolta in volto. Gli spruzzi di sangue raggiunsero il volto della giovane sacerdotessa, ma non vi badò.

Gli occhi seguirono il percorso del corpo di Elisa, scattante e sensuale arrivare a terra e atterrare con dolcezza. Scattò di nuovo, attaccò di astuzia, fingendo un attacco a destra per colpirla a manca. Il bastone compì una giravolta, puntando alle ginocchia. La pantera si ribaltò su se stessa, appoggiandosi con le mani e spingendosi fuori portata. Si rialzò, elegante e femminile. Il sorriso sprezzante.

«I felini cadono sempre sulle zampe, Cassandra.» la sua voce, strascicata e sibillina si insinuò nelle sue orecchie come un dolce tessuto di seta impregnato di profumo e ormoni.

Erano a poche decine di metri di distanza, ma sapevano che sarebbe bastato poco per ridurli a zero.

«Raggiunta la Vista allora?» la riccia ancora non rispondeva alle insinuazioni della sua nemica, mentre questa, parlando come per assaggiare e assaporare il sapore delle parole, si muoveva in modo provocatorio, la coda sciolta come acqua in un torrente. Cassandra la guardava con freddezza. Le parole per lei erano vacue e inutili, in un combattimento.

«Guarda che è scortese non rispondere.» una ferita si aprì senza motivo alla guancia destra di Elisa, che era rimasta ferma immobile.

Cassandra aveva puntato il bastone contro di lei in pochi istanti. I suoi occhi vomitavano dolore.

Odio.

Rabbia.

Frustrazione.

Ma nascondevano solo lacrime.

Cassandra, in quegli occhi gialli, non ci vedeva niente. Nessuna bava di emozione, nemmeno la paura, l’istinto più primordiale. Era come una scorza vuota. La donna si passò il dito sul sangue versato, e lo leccò, un gioco di sguardi e intese.

Possibile che dietro alle emozioni che tante volte aveva visto in Elisa non ci fosse niente? Il vuoto?

Era veramente questo, un Cacciatore? Solo desiderio, brama di sopravvivenza e sangue?

Un colpo di pistola sfiorò la testa di Elisa. Gli occhi raggiunsero in pochi istanti il punto preciso da cui era stato sparato.

«Ah, non sei sola, a quanto vedo...» l’intera squadra dei sopravvissuti si era riunita, in opposto alla bianca chiesa occupata, per combattere.

Cassandra non si era ancora mossa. I suoi sensi e la sua concentrazione erano su un’altra scala.

«Rimarrai ancora così impassibile anche di fronte ai tuoi “sudditi” che vengono ammazzati?». Il fine della frase fece susseguire un intero flusso ininterrotto di lupi neri che si scagliarono sul piccolo gruppo di giovani armati di pistole e Infetti.

Una piccola gemma in mezzo al carbone.

La chiesa bianca vomitò tutto il nero che portava dentro, tutto il sangue e il desiderio di morte, tutti i Cacciatori raggiunsero il piccolo fronte nemico, e lo spaccò.

Cassandra abbassò l’arme e raggiunse gli amici. Elisa la guardò girarsi e correre.

E sorrise quando sentì il primo cranio fracassarsi, sogghignò alla prima ferita mortale aperta, rise di gusto al primo ragazzino squartato vivo.

E la riccia, nel suo incedere, nel suo combattere quei mostri che di malvagio avevano tutto e niente, udì nel vuoto della sua anima la voce di Elisa rimbombarle e disgustarla.

L’odio cresceva sempre di più, e non retrocedeva.

 

«Serrate i ranghi! Contrastateli con tutto! Non permettetegli di passare!» urlava Ros, ferendo alla gola l’ennesimo lupo nero nella radura, scivolando sul terreno ormai madido di sangue fresco. L’aria era pregna dell’odore di ferro e dolore.

Le urla si alzavano di ottave, mentre i proiettili non si potevano più sentire nell’aria. I tiratori erano stati eliminati quasi subito, impegnati in un corpo a corpo.

«Cassandra!» chiamò la donna coi capelli rossi, stringendo l’impugnatura viscida del fucile, sparando una raffica sterminatrice. Cinque lupi caddero nel dolore. La riccia raggiunse il capo in prima linea con poche eleganti mosse.

«Mi servono solo cinque minuti.» informò, per poi retrocedere. Raggiunse la postazione di controllo di Giacomo, con un braccio fasciato e il sudore che colava dalla fronte. Il colore azzurro dei suoi capelli stava sbiadendo ormai.

«Sono pronto, quando vuoi!» urlò, e diede un comando a Cassandra. La donna spinse il pulsante al segnale di Giulia, affiancata da Ros, entrambe madide di sangue e tramutate in bestia.

Un boato ruppe le file nemiche, il pavimento venne a mancare sotto le zampe dei lupi, facendoli sprofondare nel livello sottostante, contornato di pali acuminati.

Molti rimasero trafitti, altri gravemente feriti. Il numero dei nemici venne dimezzato.

I ranghi dei sopravvissuti esultarono, poi un rintocco di campana si sentì lontano. Cassandra mormorava in una lingua sconosciuta parole come una preghiera, una litania dolce e suadente, le mani componevano simboli nell’aria, il bastone fermo immobile nell’aria, sospeso nel nulla. Poi un rumore grondante uscì dal pavimento, muri di bianca superficie lunare si spansero nell’aria, stringendo i nemici in una presa micidiale, fatta di aculei e lame. Gli uggiolii di dolore furono l’ultima richiesta di aiuto, prima del silenzio.

Elisa, ferma sugli scalini della chiesa urlò di rabbia. Il ruggito della pantera si espanse nella radura.

No, Cassandra non poteva avere tutto quel potere.

Nella sua mano si formò un aculeo dalla forma sottile, che la donna pantera scagliò con rabbia nell’aria, trafiggendola e raggiungendo il muro vicino a Cassandra, spaccandolo. Giacomo sussultò al colpo e la riccia si voltò. Sulla superficie vi era inciso un messaggio.

I loro occhi, a centinaia di metri di distanza, tra ossa rotte, urla di dolore, sangue e sudore, si incrociarono e annuirono.

«Ritirata!» urlò Cassandra, osservando come la luce fosse cambiata da prima, vi era più chiaro nell’aria. Era ormai l’alba.

«Perché!?» urlò Ros, dalle prime righe «Abbiamo vinto!».

«Sbagli. Era solo un piccolo gruppo di principianti. Una squadra esplorativa.» a quelle parole Ros e Giacomo sbiancarono. Anche se avevano vinto, la loro unità si era dimezzata. Molti i feriti a cui prestare soccorso.

«Ho accettato un accordo. Andrò solo io, e combatterò con il loro capo.» le parole di protesta si elevarono alte, ma furono zittite dal suo sguardo. Era decisa, Cassandra. Nessuno l’avrebbe fermata. Aveva il potere della Dea nelle sue mani.

Elisa, dall’altra parte, sogghignò, gli occhi ripieni di giubilo. L’aveva ingannata.

Entrò dal portone divelto, ingoiata dal buio della chiesa.

 

La figura bianca ed eterea di Cassandra spaccò il buio della Chiesa, immersa nell’oscurità. Osservò con freddezza lo stato di degradazione della chiesa, luogo di culto.

In fondo, vicino a un piccolo altare, in mezzo ad un cerchio bianco, vide Elisa e un uomo dai capelli bianchi. La tunica nera, i ricami rossi, facevano desumere un sacerdote del culto del Dio del Sole.

Sul suo volto si disegnò il disprezzo.

«Sei ingenua, Cassandra. E disgustosamente superba.» la voce dell’uomo si unì all’aria spezzarsi intorno a sé. Cassandra fu atterrata con un colpo alla nuca, facendole perdere leggermente i sensi. Riversa a terra, gli occhi si appannarono, la Vista persa. Intravide Elisa sogghignare, vicino a lei, artefice del colpo basso.

Si sentì sollevare per i capelli, un braccio ritorto all’indietro per metterla in ginocchio. Tentò di liberarsi, ma il colpo ancora le impediva la vista e le forze. Un lupo la teneva bloccata. Poteva sentire l’odore fetido della sua bava attraverso l’aria.

«Non dimenarti, il rito durerà poco.» Cassandra sbiancò, intuendo le sue intenzioni «Un singolo colpo, e il tuo cuore sarà mio. Basterà solo quello, per liberarmi da tutti voi. E così il Dio del Sole potrà governare su questa terra!» il fanatismo si poteva intuire dal tono della sua voce. Si avvicinò, il pugnale puntato al cuore. Gli occhi dell’uomo erano dilatati, il sudore e l’esaltazione avevano scompigliato i suoi capelli laccati, bianchi per l’anzianità. Le mani ruvide tremanti, per l’emozione che gli correva in corpo.

Furono queste le ultime sensazioni che ricordò, prima di trapassare. Una mano insanguinata spuntava dal petto dell’uomo, il cuore strappato dalla sua sede, non più pulsante, nelle dita affilate della donna dagli occhi gialli dietro di lui. Il rumore di ossa spezzate susseguì la caduta del corpo del sacerdote, ormai morto.

Elisa si scrollò il sangue di dosso, i lupi gorgogliavano confusi. Quell’uomo era il loro capo, ma era morto. Era stato ucciso da Elisa.

Cassandra rimase shockata dalla brutalità dell’assassinio, dalla freddezza delle sue azioni.

Da come Elisa aveva impedito il suo omicidio.

 

Cuore, ancora sussulti alle azioni della traditrice?

 

Elisa sogghignò. Il ragionamento dei lupi le era gradito.

Se lui era morto questo sta a significare che lui era debole. Quindi Elisa è più forte di lui, che era il capo. Adesso quindi il capo è lei.

Elisa si appoggiò alla spalla della riccia, ora Cassandra poteva vedere con chiarezza. Gli occhi castani incrociarono quelli gialli della pantera.

«È ora che il rito cominci, giusto, sacerdotessa?» la riccia non capiva. Il tono di della donna pantera era cordiale, morbida, come l’aveva sempre sentita. «È oggi la data fissata per il nostro sterminio?».

 

No.

Non può essere.

Come può, un Cacciatore, essere a conoscenza del disegno divino che io ho solo intravisto?!

 

«Il tuo silenzio conferma i miei sospetti allora.» la presa sulla sua spalla si fece più forte. Abbassò lo sguardo.

«Elisa, non vorrai mica...» soffiò la riccia in un sussurro.

«Scusami.» la interruppe Elisa. Un leggero sorriso solcò il suo volto.

Dall’esterno la scena si consumò in pochi attimi. Ma nello spirito delle due donne quello fu un combattimento all’ultimo sangue, all’ultimo spirito, durata millenni.

Rubare una parte dell’altra era molto più difficile del concederla. Era già successo più di una volta. Come quella volta che Cassandra rubò lo spirito della pantera, su quel dirupo, mentre Elisa stava per morire per mano di quell’uomo dai capelli bianchi.

Come quella volta che Elisa rubò l’energia di Cassandra, quella della Dea, per proteggerla dagli Infetti.

 

Perché Elisa e Cassandra sono l’Eroe e il Sacrificio.

L’uno non può esistere senza l’altro.

Entrambi si supportano fino al giorno del giudizio, e compiono il volere della Dea.

Il Sacrificio, giunto il giorno, avrebbe dato la sua vita per raggiungere lo scopo comune.

L’Eroe avrebbe protetto il Sacrificio fino a quel giorno.

Elisa doveva proteggere Cassandra, fino al giorno del giudizio, e poi lasciarla morire.

Questo era il Disegno Divino della Dea.

Ma tu, Elisa, nel tuo ceco egoismo, non lo hai accettato.

Non sopporti di separarti dalla persona che ami.

E ti capisco, un poco.

Ma sei folle, nel volerti prendere le responsabilità di due esseri sulle tue sole ed uniche spalle.

 

Elisa vinse la battaglia. Contornata da una luce aurea, avvolta in morbide vesti bianche, i capelli diventati lunghi erano sciolti, ricci, e si librava nell’aria come senza gravità. Gli occhi non più gialli, ma castani. Nella mano il bastone che prima era di proprietà della sacerdotessa Cassandra, ora riversa a terra sconfitta e distrutta, vestita solo di una blanda tunica bianca.

Cassandra si sentì strappare una parte di sé, vedendo come metà del suo mondo precipitava nel buio. I capelli persero il loro naturale colore, diventando bianchi. L’occhio si appannò, diventando cieca per metà.

«Elisa...no!» urlò, liberandosi e lanciandosi in modo disperato verso la donna avvolta nella candida protezione della Dea. Vi era stato uno scambio. Una cosa proibita.

Un onda silenziosa si disperse nella chiesa, e tutti i lupi gracchianti si riversarono a terra, liberi e purificati. Ora vi erano solo i corpi degli ignavi vittime, perse in un sonno collettivo. Il rito disgustoso dell’uomo venne purificato.

Cassandra piangeva, disperata.

Elisa ora era la sacerdotessa.

L’Eroe e il Sacrificio, tutto in uno.

Due spiriti in un unico corpo.

Cassandra ora sapeva. Aveva capito tutto. Le azioni di Elisa, il suo odio, i suoi comportamenti, le sue emozioni.

Ma era troppo tardi. Aveva capito tutto troppo tardi.

Fu con disperazione vedere come Elisa recitava con drammatica voce e un sospiro di malinconia l’incantesimo finale. L’ultimo compito del Sacrificio.

Il Risanamento. La distruzione totale dell’umanità.

Ma le parole erano diverse, l’intento dell’incantesimo era diverso. Elisa si tagliò il polso. Il sangue sgorgò, per poi cristallizzarsi nell’aria ed evaporare. L’ultima parola dell’incantesimo venne soffiata con malinconia. Gli occhi di Elisa si adagiarono per un istante in quelli di Cassandra. E si persero in quell’istante.

 

Ho fatto tutto questo per un unico motivo.

Mi sono fatta odiare, mi sono trasformata in un essere disgustoso, mi sono fatta toccare, giudicare. Mi sono trasformata in serva e padrona. In giudice e giustiziere.

In combattente e condottiera. Da amica a nemica.

Da donna a mero oggetto.

Avrei persino toccato i fondi dell’Ade o degli inferi per avere quello che desideravo: il potere di fermarti.

Di non permetterti di morire. Di non morire vedendoti sparire nell’aria.

Ti giurai una volta che ti avrei protetta, qualsiasi cosa fosse successa.

Ti sei forse dimenticata? Io no. Io non dimentico mai una promessa.

Tutte le persone che ho amato se ne sono andate.

Non avrei più accettato la vita, se tu fossi morta.

Quindi ho fatto la mia scelta, ho corrotto la mia anima, il mio corpo, il mio spirito, il mio cuore, la mia mente.

Tutto, tutto, pur di non vederti morta.

E ora, ce l’ho fatta. Vivi, ama, sorridi in un mondo dove non ci saranno più Cacciatori.

Vivi, almeno tu, anche per me.

 

Un sorriso, una lacrima, un bagliore, un onda d’aria e magia.

La luce del sole segnò l’inizio di una nuova era.

 

Ora erano solo loro due, in mezzo a un luogo indefinito, contornate solo dal bianco.

«Ho delle domande che non hanno ancora avuto una risposta, Elisa.» la voce di Cassandra era seria e Elisa, sollevata in quello spazio senza gravità la ascoltava, assorta. Sapeva che quei pochi minuti le sarebbero costati.

Sorrise, dolcemente, come non aveva fatto mai.

«Allora domanda, e io risponderò.».

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** Epilogo. ***


Cacciatori e Vittime

Epilogo.

 

Ora erano solo loro due, in mezzo a un luogo indefinito, contornate solo dal bianco.

«Ho delle domande che non hanno ancora avuto una risposta, Elisa.» la voce di Cassandra era seria e Elisa, sollevata in quello spazio senza gravità la ascoltava, assorta. Sapeva che quei pochi minuti le sarebbero costati.

Sorrise, dolcemente, come non aveva fatto mai.

«Allora domanda, e io risponderò.».

 

«Perché? Perché tutto questo?» domandò. Nel lento progredire del tempo, gli occhi e i capelli di Cassandra perdevano sostanza. Gli occhi sbiancavano lentamente, e i capelli perdevano il loro naturale colore, come se stesse invecchiando.

Elisa scostò lo sguardo. Non voleva che lei sacrificasse troppo, per quelle domande.

«Perché?» sospirò. Eppure, pensava che si potesse facilmente intuire. Sorrise malinconicamente. «Perché ora sei viva. È questo l’importante per me.» Cassandra strabuzzò gli occhi, nel profondo del suo petto, il cuore sussultò ancora. «La cosa più importante per me sei tu.».

«E quelle parole allora?» chiese Cassandra, stringendo i pugni. La rabbia colorava i suoi occhi, anche se ormai erano come un foglio bianco. Eppure si poteva ancora vedere la traccia del suo colore, come una penna che non ha più inchiostro. Ricordò il tradimento.

E i suoi ricordi divennero immagine. Elisa vide. E sentì. In quel momento, il cuore di Cassandra si era spezzato. Aveva impiegato così tanto tempo a ricomporsi, a ricostruirsi, a ricucire le ferite, a guarirle. E lei lo aveva spezzato di nuovo.

 

«Mi hai tradita!» urlò Cassandra, tra le lacrime, coprendosi con un velo. Elisa, tornando alla forma umana, sogghignò. Gli occhi gialli. La voce distorta.

«Stupida umana, che credevi? Che mi fossi innamorata di te?».

Una risata agghiacciante si propagò nell’aria...

 

«Era una bugia.» confessò Elisa, nel silenzio di quello spazio etereo.

Cassandra rimase stupita. Basita. Non sapeva cosa dire.

«Il tempo sta per scadere...ma io ho ancora una cosa da chiederti, prima di andarmene.» parlò Elisa, spezzando il silenzio. Cassandra vedeva la sua figura a stenti. La vista stava per sparire, completamente. Sapeva che un occhio era sparito, e non sarebbe più tornato. L’altro, lo stava sacrificando per scambiare quelle ultime parole con lei. Sarebbe diventata cieca, lo sapeva, e lo accettava.

 

Non mi importa, di diventare cieca. Dopotutto, se lei sparisse...

... se lei sparisse, non ci sarebbe più niente da guardare, in questo mondo.

Non sopporterei una vista dove non ci sei tu, Elisa.

 

«Aspettami. Tornerò.» disse, sorridendo malinconica. Ma a Cassandra sembrava solo una bugia. Una come l’altra che le aveva detto, ma che continuava a pesare sul suo cuore.

«Nel frattempo, amore mio, conta le stelle... per me.» la luce divenne forte, e non vedeva più il suo volto. Non poteva capire se stava piangendo.

No, lo sentiva. Sentiva la sua voce spezzarsi. Stava piangendo.

Aspetta!

 

Amore mio...?

Ma allora...!

 

«No, aspetta! ELISA!» ma la sua voce si consumò in un tempio dove non c’era più nessuno. Si ritrovò, conscia, nella realtà, nella chiesa profanata, sulla terra, china sulle ginocchia, priva della vista e di parte della sua giovinezza.

«Elisa...» mormorò, nel pianto. Si strinse le mani sul volto, cercando di controllare il respiro. Non poteva nemmeno vedere le proprie lacrime.

 

Stupida... Non posso mantenere quella promessa.

Ho perso la vista...

... Ricordi?

 

«ELISA!» urlò, facendo riecheggiare la sua voce nella distesa silenziosa della città.

 

Elisa rimase lì, in quello spazio bianco. Aspettando.

Sapeva che sarebbe venuta.

«Elisa.».

 

Questa voce...

 

Una sberla in pieno volto la colse, ma non vide nessuno intorno a sé.

Poi, un’altra voce, più potente e più incontrollabile di tutto, la pervase.

Non capì, né cosa disse, né cosa voleva dire.

Aveva lasciato la terra, aveva lasciato lei. La sua spinta di sopravvivenza, in quel momento, era sparita.

«Sei una folle. Hai rovinato i miei piani, cercando di fare di testa tua!» la voce parlava. Ma Elisa non ascoltava. Poi parlò.

«Io non prendo ordini da nessun Dio o Dea che gioca con la vita degli esseri umani e della mia. I tuoi piani mi ripugnano. Tu non hai il diritto di disegnare il mio destino, né quello degli altri. Io ho compiuto il destino che io stessa ho scelto. Ora lasciami stare.» e con quello cadde in ginocchio, per quanto non ci fosse una superficie su cui appoggiarsi. E pianse.

Poi lo sconforto, così come il dolore, scomparve. E la voce tornò, prepotente.

«Ti punirò per questo. Sconterai la peggiore delle punizioni. E quando avrà fine, tu sarai il mio araldo durante l’alba dell’Apocalisse.» Elisa sussultò.

«Potrò tornare da lei?» domandò, e sentì un sì come risposta.

Sorrise.

«Allora puniscimi. Non mi importa cosa mi possa accadere. Se posso tornare da lei...» ma non finì la frase. Si ritrovò a cadere in un burrone, scuro come la morte.

E cadeva, cadeva.

Ma non aveva fine.

L’aria le sferzava il volto, le vesti, gli occhi. Le impediva di muoversi, di cercare un appiglio a cui appoggiarsi.

E alla fine capì. Quella era la sua punizione.

Cadere, senza nessun appiglio. Era come lei, che combatteva da sola le sue battaglie senza nessun supporto.

E poi ricordò i suoi amici.

E poi ricordò lei.

E sorrise.

 

Non è vero, io non combattevo da sola le mie battaglie.

Io avevo delle persone che mi sostenevano e che mi amavano.

 

I volti di Ros, Giulia, Giacomo, e tutti i soldati, i ragazzi le scorrevano nella mente. Sua madre, la sua maestra. Tutte le persone che aveva amato l’avevano supportata.

Cassandra fu il culmine della gioia.

Allargò le braccia, cadendo di testa.

 

No, non ero sola.

E non sto cadendo.

Io...

Io...

... io sto volando.

 

Fine...?

 

Cacciatori e Vittime.

La Profezia

Anticipazioni.

 

Una folla vociante strepitava al centro della piazza, l’aria era carica di elettricità e fermento. Su un patibolo eretto, in legno, si poteva scorgere un tronco morto di albero, sporco di sangue ormai secco.

Una donna fu strappata a un gruppetto di persone, tenute sotto catene vicino a una rampa sulla destra che, seguendo la pianta della piazza, saliva fino al centro del palchetto.

La folla urlava, inneggiando alla violenza e desiderosa del loro spettacolo. Urlava, bramosa di sangue.

Questa donna, con un rozzo sacco calato sul volto, impediva di scorgerla in volto.

Alla sinistra, con una vista esclusiva sull’esecuzione, stava un trono, coperto di sontuosi veli e protetto dal sole corroborante e pesante di quel giorno. Una figura, nell’ombra, gioiva delle urla, e sorrise, stringendo un bastone nelle sue mani giovani. La folla, ignara del sole, lanciava pomodori e uova marce verso la condannata a morte, che però camminava con passo sicuro verso la propria morte. Le spalle ritte, sebbene avesse le mani incatenate e ricoperte di lividi e croste. Era vestita di stracci puzzolenti, e il boia, un energumeno dal volto celato da un cappuccio nero, affilava per l’ultima volta la sua enorme scimitarra prima del colpo.

Il cappuccio fu tolto, e una cascata di capelli rossi come il fuoco nel camino di un castello incantato scese dolcemente, rilucendo alla luce del sole cocente.

La folla urlava, inneggiando cori di odio.

«Morte all’eretica!».

«Bastarda!».

«Muori eretica!».

La figura, prima celata, si alzò, e batté per tre volte il bastone per terra. Il silenzio si propagò nella piazza come vento. E divenne il centro dell’attenzione della folla, ora diventata pubblico.

 

Luce. C’è luce, sui miei occhi.

Non vedo.

Sto... cadendo?

 

«Pietà!» urlò una voce, nel silenzio, grigia nel tono e roca.

Una vecchia, incatenata insieme a un giovane uomo, gridava con tutto il suo povero corpo, pieno di rughe e di malori. Cercò di muoversi verso il patibolo, e la rossa incrociò gli occhi dell’anziana, bianchi come un foglio intonso. Sorrise malinconica, conscia della sua imminente fine, e ringraziò silenziosamente quell’ultimo impeto prima della fine. La vecchia fu bloccata da un soldato, ma non smise di urlare, come se andasse della sua vita.

 

Ora ho capito.

Sto arrivando... amor mio.

 

«Abbiate pietà per mia figlia, ve ne prego!» urlò, disperata. Le lacrime solcavano la sua pelle rugosa, piegata dal tempo. China nella sua postura scoordinata, perse subito le forze del suo impeto, e crollò sulle ginocchia, tremando vistosamente. La rossa fremette alle sue parole, una lacrima invisibile si formò agli angoli degli occhi.

L’uomo, ricoperto di vesti di sacerdote, bianchi e azzurri, sogghignò di fronte alla patetica richiesta dell’anziana e con un cenno del capo fece intuire al boia di continuare.

La ragazza venne obbligata e legata sul ceppo, i capelli scostati per permettere al collo di brillare, bianco come la luna sotto il sole.

La giovane,tremò al silenzio della piazza, e strinse convulsamente le mani sulle catene, aspettando il momento fatidico della morte istantanea. Tutto era in tensione, per il momento culminante.

«Andrea, no!» l’ultimo urlo della vecchia, prima che l’arma venisse alzata. Brillò come oro, sotto il sole impassibile.

E poi...

... un tonfo scosse la terra.

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=592171