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Compresi troppo tardi,
nella mia corta vita, che ci sono solo due categorie d’esseri nel mondo: i
Cacciatori e le Vittime. E imparai troppo tardi a quale delle due categorie io
appartenevo.
Troppo tardi.
«Capo, dove cazzo sei!? Qui ci stanno massacrando!» Chiara
urlava nella radio, mentre rumori di pallottole e grida risuonavano nella valle.
La castana sparò contro il ghepardo che stava per azzannarla. Il suo cadavere
venne scavalcato, mentre correva in aiuto dei compagni.
«CAPO!» chiamò ancora, mentre con velocità infilzava una
tigre imbestialita che tentava di ghermire un compagno.
“Correre, correre.” Le foglie erano piccole frustate sugli
occhi di Elisa, mentre correva alla velocità della luce. I suoi compagni
stavano per perire. Dove intervenire.
«Eleonora! Dietro di te!» Chiara salvò la vita all’amica,
che mitragliò un felino dietro di lei. D’un tratto il branco si fermò nell’attaccare,
e si ritirò velocemente.
Chiara, con lo sguardo dubbioso osservava il fuggi fuggi
generale degli animali selvatici, mentre i ragazzi sopravvissuti urlavano di
gioia per la battaglia vinta.
«Questa fuga non mi convince…» mormorò alla compagna dai
capelli neri. Eleonora fece un cenno d’intesa, intuendo i pensieri dell’amica.
«Ragazzi! Aiutate i feriti e torniamo alla base! Coloro che
sono in forze e non trasportano feriti raccolgano più carne che possono!» urlò,
per poi lanciare uno sguardo alla castana.
«La loro resa non mi convince Chiara, meglio battere in
ritirata…» disse.
La castana osservò il cielo, color piombo dal giorno
fatidico dell’esplosione. I suoi occhi castani si mischiarono a quelli azzurri
della compagna.
«Neanche a me. Andiamocene.» e con velocità raggiunse il
battaglione.
La maggior parte dei ragazzi era ormai partita alla volta
della base, solo pochi erano rimasti, per racimolare ancora cibo e aiutare i
superstiti.
Ma, d’un tratto, un urlo stridulo spezzò il silenzio forzato
della foresta.
Eleonora alzò lo sguardo, scorgendo uno stormo di uccelli
neri e zampe affilate dirigersi verso di loro.
«Dannazione, i battaglioni aerei! RITIRATA!» urlò agli
uomini restanti, mentre altri tentavano di sciogliere lo stormo con spari di
mitraglia.
«Non sprecate proiettili, FUGGITE NEI BOSCHI!» Eleonora
intravide Chiara ancora nel mezzo della valle, ad aiutare una giovane ferita ad
una gamba.
«Chiara, và via!» ma il suo richiamo non fece desistere l’amica.
Con la rabbia disegnata sul volto la raggiunse, afferrando la ragazza ferita
caricandola sulle spalle.
«Andiamocene, presto!» urlò la castana, mitragliando gli
uccelli ormai a pochi metri da loro per coprire la compagna.
Eleonora intanto aveva raggiunto un manipolo di ragazzi,
scaricando la ferita e lasciandola a loro.
Con orrore intravide la compagna cadere in mezzo alla valle,
alla mercé dei rapaci.
«CHIARA!».
“Correre, correre” veloce e decisa, l’ordine nella sua mente
rimbombava. La radura ormai a pochi metri da lei, e la sua vista colse i rapaci
in posizione d’attacco. E Chiara ferita a terra.
“Correre, correre… Correre ed attaccare” e il comando
cambiò.
La ragazza dai capelli neri tentò di correre in aiuto dell’amica,
sparando agli uccelli intorno a lei, tentando di darle una via di fuga. Ma non
si alzava, e stringeva con dolore una gamba.
«Chiara, alzati!» urlò, prima di mitragliare un rapace a
pochi metri da lei. l’essere cadde a terra, tra i rantoli del dolore. Eleonora
afferrò il braccio dell’amica per sollevarla, ma si ritrovò sbalzata a terra da
delle forti tenaglie acuminate.
«AH!» urlò dal dolore, il braccio completamente scorticato.
«Eleonora!» la castana l’afferrò, portandola a terra. E
alzando lo sguardo si scoprirono entrambe finite.
I rapaci puntavano a loro, con i loro becchi affilati e le
loro zampe acuminate.
Fu un ruggito a distanziarli da loro.
Un ruggito di rabbia e potenza.
Davanti a loro un essere, né donna né pantera. Il volto
trasfigurato, con tratti animaleschi. Il corpo leggermente deformato e
ingigantito.
Un nuovo ruggito si propagò nella valle, disperdendo
temporaneamente i rapaci nel cielo plumbeo.
«Fuggite!» urlò l’essere, con voce roca e gutturale. Parlare
le risultava faticoso.
Ma Chiara rispose.
«Io non riesco a camminare, ed Eleonora è svenuta!» rispose
trillando, tentando di far rinvenire la compagna dagli occhi azzurri.
“Ele… te ne prego, riprenditi…”
nel cuore un timore mai avuto prima.
Un rumore di ossa scricchiolanti e leggeri rumori ringhianti
le fece levare lo sguardo, trovandosi davanti la vera essenza della bestia: una
donna dai corti capelli scuri e occhi castani.
Afferrò con forza Eleonora, caricandola su di una spalla,
per poi tentare di afferrare anche l’altra, non riuscendoci.
«Va via senza di me, salva lei!» le disse, capendo le
intenzioni della donna. Elisa la guardò, scorgendo nei suoi occhi un timore per
l’amica mai scorto fino a quel momento.
«Va! Te ne prego!» e nei suoi occhi neri scorse la paura. Mista
a lacrime.
Silenzio. E un ricordo doloroso riaffiorò nell’animo della
donna dagli occhi scuri.
«No.» e con quella parola ritentò, prendendole entrambe
sulla schiena.
Di nuovo quel suono di ossa incrociate e ringhi sottomessi.
E Chiara si ritrovò sul dorso di una pantera, con Eleonora
stretta davanti a sé, mentre fuggivano veloci alla base.
I rapaci, riprendendo coraggio però, stavano già ritornando
alla carica, tentando di afferrare le due donne ferite sul dorso del mezzo
animale. Un nuovo ruggito si propagò, ma stavolta non funzionò. L’essere tentò
di disperderli, fuggendo attraverso la vegetazione fitta. Nel verde acceso
della foresta, Elisa tentava di arrivare alla base, unico luogo sicuro.
Raggiunsero in fretta la città vicina, e il grigio del cielo
si mischiò alla terra, rinnovando la maledizione dell’uomo: il cemento.
Correndo per le vie abbandonate e saltando gli ingorghi di macchine arrugginite
raggiunsero il centro, dove a pochi passi stava la base. Gli uccelli erano
ancora su di loro.
“Correre, correre.” Nella mente della donna rimbombava solo
quella parola. E sulla sua schiena sentiva le mani di Chiara stringerla forte,
mentre il corpo di Eleonora stava morto trattenuto dal corpo della compagna.
L’apertura dell’edificio era a pochi metri.
“Correre, correre.” I rapaci continuavano ad attaccarle in
picchiata ed Elisa tentava di correre zigzagando, per evitare i colpi d’artigli.
L’avevano accerchiata, e Chiara stava urlando per i rapaci che tentavano di
ucciderla. Meno male che aveva ancora con sé una pistola. Colpi di proiettile
mandavano urli acuti nella piazzetta, mentre Elisa saltava da una parte all’altra
per aprirsi uno spazio in mezzo alla miriade di piume e becchi acuminati. Poi,
un buco creatogli dalla mora.
Con un balzo Elisa si buttò letteralmente nell’imboccatura,
salvando entrambe le ragazze e se stessa.
«Bravo, Capo! Le hai salvate!» urla di vittoria giovanili si
proruppero nell’entrata. Mentre la donna, tra i rumori di ossa scricchiolanti e
ruggiti trattenuti, ritornava alla forma umana.
«Presto, portale in infermeria!» ordinò la giovane,
autoritaria. Chiara ed Eleonora vennero poste su delle barelle e portate di
corsa nei corridoi.
Pacche amichevoli e urla di vittoria ancora echeggiavano
nell’entrata.
«Silenzio!» urlò. Un urlo selvaggio, autoritario. Con un
leggero sentore animalesco nella voce. E silenzio fu.
«Voglio un rapporto immediato della spedizione.» parlò, per
poi dirigersi a passi sicuri verso la centrale operativa. La donna,
soprannominata Capo, in realtà si chiamava Elisa. Il cognome nessuno lo
conosceva. Aveva solo 23 anni, eppure in quello stabile, era la più vecchia. L’unica
persona che aveva più anni di lei era Amir, il medico di colore, che di anni ne
aveva 26. Non aveva neanche l’intero dottorato in medicina.
Elisa camminava, contornata da ragazzi giovani che parlavano
come soldati.
«Abbiamo perso due ragazzi e una ragazza nello scontro, ma
in compenso abbiamo guadagnato almeno sei cadaveri di felini.» parlò un ragazzo
moro e alto alla sua destra. Una cicatrice profonda deturpava la sua guancia,
finendo fin in fondo al collo.
«Hanno combattuto con onore. Che riposino in pace.» mormorò,
per poi farsi il segno della croce, subito imitata dal resto del gruppo.
Raggiunse un portone, subito aperto da ragazzini, nel salone
un grande tavolo elettronico.
«Giacomo, il rapporto dell’area?» chiese la donna, parlando
ad un giovine dalla cresta viola vestito di un camice troppo grande per lui.
Una catena cingeva il suo collo.
«Abbiamo analizzato i dati che i tuoi combattenti mi hanno
consegnato, e abbiamo scoperto un’altra zona acquifera qui vicino.» rispose,
parlando da una postazione computerizzata.
«Dobbiamo impadronircene il più presto possibile. La nostra
vecchia fonte ormai è quasi prosciugata… Adrian!»
urlò la donna trovandosi subito scattante un ragazzo dai biondi capelli, lunghi
fino alle spalle.
«Agli ordini!» rispose, facendo il saluto militare.
La donna sospirò scocciata.
«Smettila di fare il pagliaccio e ascoltami. Fatti dare le
coordinate della fonte d’acqua da Giacomo, poi prendi una squadra di
ricognizione e d’idraulica e vai a prenderne possesso. Quell’acqua ci serve il
più presto possibile.» ordinò severa. L’uomo fece un cenno d’intesa e corse a
compiere il suo dovere.
Quando raggiunse un enorme tavolo rotondo, si sedette su l’unica
sedia lì vicino.
Sul tavolo un enorme mappa della zona fino ad ora conosciuta
da loro.
Al centro la città, con le vie agibili e quelle bloccate
dalle macchine. Con bandierine rosse le tane dei felini. Quelle verdi le tane
degli erbivori ancora esistenti.
In giallo le altre basi sicure, proprio come quella,
dislocate una nella foresta, ben mimetizzata. L’altra nelle montagne, ingoiata
dalle imboccature tutte uguali. Mentre analizzava con sguardo deciso la mappa
interattiva sentì un rumore di radio.
«Qui parla Amir, Infermeria.» una voce profonda e scura.
La donna sorrise, afferrando il talkie walkie e rispondendo.
«Qui parla Elisa, ti ascolto.» affermò, poi lasciò la presa
sul bottone, aspettando il tono scuro.
«Raggiungimi, ho bisogno di te.» il tono preoccupato dell’uomo
fece dubitare la ragazza, facendola inquietare.
«Arrivo subito.» e con quello abbandonò la sedia per
dirigersi con passo veloce per i corridoi dell’edificio.
I corti capelli scuri, con semplice taglio militare, non faceva
intuire la natura di essi. Gli occhi scuri, castani e profondamente indefiniti
erano indecifrabili. Dei graffi sulla guancia sinistra facevano intuire una
ferita di guerra contro un felino. Il semplice corpetto militare lasciava poco
all’immaginazione. I pantaloni, militari anch’essi, nascondevano armi in ogni
anfratto, e le pistole in bella vista non stonavano con le lame al loro fianco,
ben arpionate al corpo della donna. Gli anfibi ai piedi davano un suono sordo
al suo passo sicuro, e il tintinnio continuo delle lame lo rendeva inquietante.
In apparenza una donna normale, se non fosse per una coda felina che spuntava
dal dietro dei pantaloni, completamente nera.
«Cosa c’è Amir?» domandò la donna, raggiungendo l’uomo su un
paziente urlante e scatenato.
«Non riesco a fermarlo, e i miei aiutanti vengono sbalzati
da lui. Aiutami.» parlò l’uomo con calma, mentre in mano teneva fermo una
siringa ripiena di liquido trasparente.
La donna afferrò con forza le braccia del ragazzo,
bloccandogli le gambe con la presa a forbice. L’uomo fu veloce e preciso nell’iniettare
il calmante e dopo pochi secondi il ragazzo cadde in un sonno profondo.
«Grazie.» rispose cordiale l’uomo, per poi curare il
malessere del ragazzo.
Elisa fissò il ragazzino biondo che aveva bloccato. All’apparenza
aveva 13, forse 14 anni.
“Così stramaledettamente giovani, e già dati in pasto al
mondo…” pensò la donna, indagando le altre barelle, piene. Intravide i capelli
castani di Chiara chini su di una, e decise di raggiungerla.
Chiara stava piangendo, poggiata sul corpo dell’Eleonora
completamente insanguinato. Un braccio completamente martoriato, arrivando fino
alle ossa.
Elisa posò una mano sulla schiena della compagna, facendola
sussultare. E i suoi occhi neri incontrarono quelli color cioccolato.
«Elisa…» mormorò tra le lacrime, per poi tentare di alzarsi.
Ma la gamba ferita le fermò a metà l’azione.
«Sta buona, e non ti preoccupare… sta pure seduta…» e per
cordialità si chinò, arrivando all’altezza dell’amica.
«Elisa… l’Ele… si è sacrificata…
per me…» soffiò tra le lacrime, mentre tentava in tutti i modi di asciugarsi e
di fermarsi. Ma non ci riusciva.
Elisa l’avvolse, prendendola in un abbraccio duro, ma
confortevole.
Chiara scoppiò, piangendo ancora di più, mentre da dietro di
lei Amir indagava il braccio della donna sulla barella.
«Sii sincero Amir.» chiese la mora, parlando da sopra la
testa della compagna castana.
«Come sempre, amica mia.» rispose, sistemandosi gli occhiali
sul setto nasale. Fissò lievemente le condizioni della mora, per poi leggere
una cartella poggiata sul comodino vicino.
«Non è messa bene… ma se la caverà.» parlò poi, mentre con
velocità e sicurezza si metteva i guanti per intervenire.
Chiara sussultò dalla spalla di Elisa, mentre la donna la
guardava sorridendo. Scorgendo nei suoi occhi un sollievo tale da non farla
smettere di piangere. Versava lacrime per un motivo totalmente diverso ora.
Le diede delle leggere pacche sulla spalla per poi
sussurrarle delle parole che fecero strabuzzare i suoi occhi neri:
«Non avere paura di parlare con lei di questo nuovo
sentimento che provi… Non è male, Chiara. È amore. E l’amore non è mai un
errore.» e con quelle parole si alzò, sorridendo alla ragazzina seduta su
quella sedia, con le lacrime agli occhi.
Sorrise di quel sorriso luminoso che pochi potevano
scorgere.
Sorrise di quella luce che raramente si poteva intravedere
nel buio di quella era.
Nel mondo che ora
conosciamo ho visto poca luce, Elisa. Ho pochi ricordi dell’era precedente all’esplosione.
Ma il ricordo più vivo e folgorante è la luce del Sole. Caldo. Avvolgente.
E ti dirò di più… Quel
sole che da anni non vediamo più, io, Elisa, lo vedo ogni volta. Nei tuoi
occhi. Nei tuoi avvolgenti e caldi sorrisi.
E il mio cuore si
spezzava nella domanda che ogni volta m’assaliva.
“Perché quel sorriso
adesso io non lo vedo più?”.
E adesso mi viene da
ridere, perché conosco la risposta.
Osservo il
cielo plumbeo da ormai troppo tempo. Mi manca l’azzurro, quel colore chiaro che
continuavo a scorgere nei tuoi occhi. Ho iniziato a pensare a te come al mio
cielo.
E da quel
giorno il sole tornò a brillare nel mio cuore.
Elisa osservava il buio fare preda quella misera città,
persa nei propri pensieri. Nei propri ricordi fatti di sangue e cemento.
Il cielo esplose di un
grigio cupo, rosso. Nell’aria l’odore ferroso dello zolfo.
«Mamma!» il corpo
della madre protesse il corpo della figlia dall’esplosione galattica avvenuta
nell’universo.
Una pioggia di stelle
roventi cadde sulla terra, e una cadde proprio sulla loro casa.
Fuoco, dolore, macerie
e puzza di gas.
«Mamma…» la figlia
piange strattonando il corpo freddo e duro della donna.
Un ruggito penetrò le
sue orecchie, attirando la sua attenzione.
Una pantera, nera come
la pece e la notte mischiate insieme, la osservava. Quegli occhi gialli,
felini, le penetrarono l’anima e le sue unghie penetrarono la sua carne. La sua
guancia sinistra esplose, e la bambina piangendo, scappò. Tentando di fuggire
inciampò, cadendo di faccia in un liquido nero, profondo e freddo. Sentì il
ghiaccio del ferro entrarle nelle viscere e nella bocca, e la ferita sulla
guancia si cicatrizzò, stampandole nel suo corpo non solo il passaggio della
pantera, ma la pantera stessa nella
sua essenza.
Da quel fatidico
giorno, il Giorno dell’Apocalisse, tutto cambiò.
Ogni cosa cambiò.
«Parla Eleonora.» mormorò, facendo sussultare la mora dietro
di lei.
«Ho l’orecchio fine, dovresti saperlo.» disse, ridacchiando
per la reazione della donna, mentre si avvicinava incerta. Il braccio fasciato
faceva intuire un altro miracolo di Amir. Elisa, seduta a cavalcioni sul
parapetto del tetto dell’edificio, dava le spalle alla donna che seguiva il suo
sguardo perso nella vastità dell’ambiente silenzioso e cupo. La coda, docile,
muoveva con sinuosità la punta, completamente adagiata al freddo cemento
armato.
«Sai Capo…» iniziò Eleonora.
«… io non ho mai visto il cielo di notte… dev’essere una
meraviglia.» ipotizzò, persa nei fiochi ricordi dell’infanzia.
Elisa sogghignò, al pensiero di un ricordo lontano.
«Sai Elisa, qui tutti
hanno paura.» mormorò la bionda, guardando la mora osservare il cielo grigio
malinconica.
«E tutti dicono che il
cielo non è più lo stesso da quel
giorno.» continuò, catturando l’attenzione delle iridi castane scure.
«Ma io non ho paura.
Perché ci sei tu, qui con me.» rispose sorridendo, passando un braccio dietro
la sua schiena.
«E il cielo è identico
alla scorsa era. Perché è sempre con quel nome che lo chiamiamo: cielo. Che sia azzurro, nero, rosso o grigio non
importa. Sempre cielo è.» e con quelle parole appoggiò la testa alla spalla
della compagna, beandosi della sua presa delicata vicino alla vita.
«Oh, è uno spettacolo. Una coperta vellutata, colorata di
quel blu scuro chiamato “notte” e bucherellato qui e là di puntini luminosi
chiamate “stelle”. e nel suo centro, la regina della sera: “la luna”.»
descrisse Elisa rapita dai ricordi vividi come fossero ieri. Eleonora ascoltava
ammirata le parole della giovine, mentre nelle sua mente l’immaginazione
cavalcava.
«Ma ci scommetto la coda che non è questo il motivo per cui
sei venuta qui a parlare con me.» affermò poi, notando la ragazza arrossire
vistosamente. La coda, sentendosi chiamata in causa, si riscosse.
Il silenzio calò come una coperta fredda sulle due donne.
«Chiara ti vuole bene, Eleonora.» affermò sicura,
continuando ad osservare il cielo.
«Lo so… ma non è lo stesso che io provo per lei.» rispose
ferma.
Elisa spostò lo sguardo dal cielo grigio agli occhi azzurri
di lei.
“Assomigliano tanto a te, amica mia. Ma non sono uguali ai
tuoi. I tuoi avevano il cielo, l’oceano e la rugiada racchiusi dentro te.”.
«Ne sei proprio sicura?» chiese Elisa, fissandola con
sicurezza negli occhi. E vide nascere in lei il seme dell’incertezza. Eleonora,
imbarazzata, li spostò da quelli scuri, portandoli al pavimento.
“Questi, invece, hanno solo il dubbio dell’esistenza in
essi. Lo stesso dubbio che io leggevo nei tuoi, tempo fa. Tanto tempo fa.”
«Non domandarti il perché
dubiti, Eleonora. Chiediti piuttosto i motivi
della tua incertezza. E nella tua domanda scoprirai che la risposta non è in me…»
disse, saltando con acrobazia giù dalla muretto, affiancandosi alla ragazza,
rimasta bloccata.
«… la risposta è dentro di te.» affermò sicura, per poi
entrare con passo sicuro nella porta vicina, rientrando nella base. Lasciando
la mora di capelli e chiara d’occhi sola con i suoi interrogativi.
Interrogativi che avevano dentro di sé già la risposta.
Fu una notte travagliata per Elisa, che difficilmente
riusciva a dormire. Quando arrivò l’alba, la mora stava dormendo da poco. Un
bussare sommesso la fece sobbalzare, armata di coltello. I sensi sviluppatasi
erano pronti per l’autodifesa.
«Chi è?» chiese cauta, prima di aprire. La spalla adagiata
lievemente alla superficie liscia del legno, lo spioncino piccolo lasciava una
breccia di verità.
«Capo, è ora dell’allenamento mensile.» Adrian era alla sua
porta, cauto.
Elisa sospirò, per poi sbloccare la porta dal catenaccio che
la teneva serrata.
«Arrivo subito, intanto tu…» iniziò a parlare
automaticamente, ma venne interrotta dal ragazzo.
«Ho già fatto tutto, non preoccuparti Capo. Aspettiamo solo
te.» rispose, scattando di fronte alla figura autoritaria della donna che
usciva dalla stanza.
«Oh…» la sua bocca formò un cerchio perfetto, mentre si
passava la mano nei capelli corti.
«Bravo, hai fatto un buon lavoro…» disse, guardandolo.
L’osservò ancora. Si era finalmente tagliato i capelli, enfatizzando il volto
ovale e gli occhi verdi che non aveva mai visto prima.
«Buon lavoro, soldato Adrian.» disse sorridendo, stando per
una volta al suo gioco che poi non gioco non era.
«Sono fiera di te.» affermò, mettendo una mano nei corti
capelli e sorridendo.
Sentì l’animo del ragazzo ormai diventato uomo crescere e
crebbe lievemente di più in se stesso.
«Grazie…» mormorò, diventando rosso.
Elisa riportò la mano al fianco, ritornando seria.
«Bene… adesso andiamo, che siamo in ritardo.» disse,
chiudendo il momento di rilassamento.
Adrian scattò all’attenti.
«Agli ordini!» disse, portando la mano alla fronte, come a
saluto.
Elisa sogghignò.
«Facciamo a chi arriva prima?» sfidò la donna, pregustando
la vittoria.
Adrian riflesse il ghigno della donna. Elisa incominciò a
contare.
«Uno… due… tre!» e al terzo numero scattarono, lasciando
Adrian con lieve vantaggio prima che di rimontare all’ultima porta.
Sai Elisa, ho sempre amato
questo edificio, questa base, questo rifugio. L’hai creato tu, con le tue mani,
racimolando e raccogliendo questi sperduti che adesso tu chiami “famiglia”.
Riunendo fratelli e sorelle. Facendoci diventare tutti fratelli e sorelle. Hai
raccolto noi, povere anime senza speranze. Ci hai dato una casa. Un tetto. Tre
pasti sicuri al giorno. Una famiglia.
Ci hai donato la cosa più
difficile, la speranza. La speranza di un nuovo mondo, di vivere in felicità,
senza la paura di addormentarci da soli, al freddo, con lo stomaco vuoto e con
il terrore quotidiano della morte.
Tu neanche ti rendi conto di
cosa ci hai dato. Di cosa mi
hai donato.
La felicità.
La fiducia di credere nella
rinascita di un essere umano nuovo.
… e l’amore.
Hai fatto rifiorire l’amore in
questa landa desolata che noi chiamiamo Terra. Hai dato a molti cuori l’aiuto e
il sostegno di cui avevano bisogno.
L’amore di cui persino io avevo
bisogno.
Ringrazio
Adhara, la mia compagna di penna e di
realtà quotidiane che ha commentato questa storia nata in un giorno desolato. E
le sta dando forza. Sta imprimendo speranza in questa scrittrice angosciata.
Che si
sente cieca in confronto a questa storia che si sta letteralmente partorendo da
sola.
Grazie.
E ringrazio coloro che leggono senza commentare.
Era buio. Doloroso.
Ricordo il respiro profondo del dolore incanalarsi in me, diventare forte,
potente… e nero. Quel nero manto di pelle e forza entrò in me con la forza di
un uragano indomabile. Una belva che divorò la mia essenza e annullò la mia
coscienza.
E seppi che
da quel momento, ogni cosa era in pericolo.
E seppi che
tra tutti, proprio te avrebbe scelto.
E seppi che a
morire, non saresti stata tu, ma io.
Elisa,
dal basso della sala conferenze parlava, e la sua voce era forte, potente,
autoritaria.
«… è
per questo che oggi, di fronte a voi, illustrerò come di consueto, cosa succede
ad un essere contaminato.» affermò, per poi fare un cenno verso le quinte. Dei
ragazzi trasportarono una cassa traballante. Ruggiti e graffi si rompevano
contro la parete lignea, ma la donna era intransigente.
«Dentro
questa cassa c’è una mia compagna. Una ragazza ammantata dal male dell’Infezione.»
spiegò, facendo innalzare delle barriere di ferro intorno a sé e alla cassa.
«Sebbene
il virus sia mortale per la maggior parte degli esseri umani alcuni, con
caratteristiche sconosciute alla nostra mente, resistono. Ma mutano
completamente nella loro natura e soprattutto… nella loro mente.» osservava con
forza l’assemblea intera che pendeva letteralmente dalle sue labbra. Giovani,
tanti giovani.
«Vengono
divorati dall’animale che li ha infettati. E solo un contrasto mentale può
farli rinsavire. Se lo spirito umano è abbastanza forte, può soverchiare e
sottomettere l’animo animale entrato in lui.» portò la sua concentrazione alla
cassa di legno, prigioniera di una furia cieca. E le unghie dell’essere
intrappolato in sé raschiavano con rabbia.
«Ora,
in tutta sicurezza io, Elisa, vi mostrerò come si può sottomettere e sfruttare
la natura dell’Infezione.» e con quelle ultime parole ruggiti e rumori di ossa
scricchiolanti si diffusero nella sala, leggermente soffocati dall’altro
animale. Elisa, soverchiata apparentemente dalla natura della pantera, era
rimasta in piedi. Le mani e i piedi erano ora zampe ricoperte di pelo nero. Il
volto trasfigurato, le zanne uscivano dal muso lievemente sproporzionato. La vista
lievemente dominata. Nei suoi occhi una leggera spaccatura di giallo.
Le orecchie
nere spuntavano curiose dal capo. Il corpo più snello, più affusolato.
«Ora
voglio silenzio. La concentrazione è importante.» disse, con voce strozzata e
gutturale. Ovviamente la voce dell’umano era soffocata dall’animale.
«Liberatela.»
ordinò ai giovani, che con una corda squarciarono la scatola.
Una
ragazzina bionda, rannicchiata su se stessa osservata l’ambiente intorno a sé,
annusando e scrutando con gli occhi completamente gialli la gabbia distrutta.
Un soffio minaccioso uscì dalla sua gola, contornata di zanne lievi. Sulla maggior
parte del suo corpo si poteva intravedere una pelliccia a macchie nere su sfondo giallo. Una coda lunga, dello
stesso colore del manto con una punta bianca. Nel folto dei capelli biondi si
potevano intravedere le orecchie, piccole e nere. Il volto completamente
tramutato dall’animale che l’aveva contaminata: un ghepardo.
Elisa s’acquattò,
portandosi alla stessa altezza della ragazzina scrutandola. Quando finalmente
la giovane gheparda s’accorse di lei, la guardò minacciosa e le ringhiò con
rabbia. Elisa rispose con un altrettanto ruggito più forte, più potente, tipico
della pantera nera.
La
piccola, presa alla sprovvista, indietreggiò, scrutandola. Elisa si mise in
posizione prepotente, mostrando il petto gonfio e le zanne scoperte.
E fu veloce. Fu immediato.
La
donna pantera si ritrovò le zanne della piccola gheparda a pochi centimetri. Li
evitò con difficoltà, dandole una zampata, mandandola a sbattere contro la
ringhiera di ferro. Fu feroce il contrattacco, che Elisa tentò di evitare. Quando
le saltò addosso la pantera la prese, rotolando, in modo tale da fermarla sotto
il suo peso. Le bloccò le zampe con le sue, impedendole i movimenti. Ma la
piccola gheparda non smetteva di tentare di azzannarla, muovendosi frenetica.
E fu un ruggito potente.
Forte,
che scosse l’intera assemblea osservatrice.
E fu paura.
La
gheparda fermò il suo tentativo di salvarsi. Si fermò, completamente annegata
negli occhi castani misti al giallo selvatico. E la coscienza della ragazzina
si fece forza. Divenne talmente potente da soverchiare e sottomettere il
ghepardo in lei. Rumori di soffi soffocati e ossa articolate si proruppe nella
sala, e la pantera sotto di sé non aveva più un piccolo mostro, metà uomo e
metà ghepardo. Ma una ragazzina completamente sudata e provata. La pantera
mollò la presa, riprendendo con gli stessi rumori la sua forma originale. Porse
una mano alla ragazzina bionda, aiutandola ad alzarsi.
«Bentornata
fra di noi, Giulia.» affermò sorridendo lievemente. Portò una mano sopra quei
capelli biondi accarezzandola leggermente.
«Capo…»
mormorò, con la voce strozzata e provata. Le lacrime insorsero negli occhi
scuri della ragazzina, facendosi abbracciare dalla donna adulta.
«… è
tutto passato, Giulia… è tutto passato.» mormorò, stringendo al seno quella
bambina. Sì, perché era una ragazzina di soli undici anni. Undici anni di vita
erano già tanti il quella radura di freddo cemento e armato di artigli
velenosi. Sapeva cosa aveva passato nella sua mente.
Almeno
lei non aveva ucciso qualcuno.
Era stato un semplice scatto d’ira.
In una battaglia furente, Elisa combatteva per difendere lo squadrone. Era stata
solo una missione di ricognizione, e in pochi istanti si ritrovarono attaccati
da un gruppo di leoni e leonesse. Elisa stava schiena contro schiena con la sua
migliore amica. L’unica ancora sopravvissuta dopo l’Apocalisse. La bionda
sparava a raffica contro le bestie portentose, i suoi occhi color cielo
rilucevano di fredda determinazione. Quando finì i proiettili però, dovette
incorrere nella fredda lama che portava sulla schiena.
Quando vide un leone tentare di
colpirla sentì la fredda sensazione della rabbia prenderla, trasformandola per
la prima volta nella sua natura intrinseca.
fu nera cieca. E fu rabbia.
Uccise con crudeltà il felino
più grosso di lei con facilità. Trasformata nella sua forma brutale, osservava
la compagna bionda che la scrutava sorpresa. Con la paura che colorava quegli
occhi color cielo.
E fu scattante. E fu veloce.
Elisa con una zampata squarciò
completamente le interiora della compagna, facendola rovinare a terra. La guardò
tormentarsi di dolore, fredda con i suoi occhi completamente gialli.
«E…li…sa…» l’animale s’avvicinò,
guardandola dall’alto, fermamente convinta di mangiarla.
Sentì la sua mano sanguinante
accarezzarle la testa, grattandola sotto l’orecchio sinistro. Una dolce carezza
che creò in quell’animale grezzo la quiete.
Elisa ritornò in sé, fu come se
la sua coscienza sfondasse una diga, irrompendo e prendendo possesso di quel
corpo. Quando riprese coscienza, completamente distrutta e sudata, poté
scorgere l’ultimo barlume di vita nell’azzurro cielo dei suoi occhi. Poté sentire
per un ultimo secondo il suo tocco leggero sulla sua guancia. Poté sentire per
un ultimo momento il suo cuore battere, prima di fermarsi.
E fu dolore. E fu sofferenza.
«CELESTE!» urlò il suo nome. Ma fu
vano.
Quando
la piccola Giulia si sfogò abbastanza, la distaccò, asciugandole le lacrime.
«Ora
va, e riposati.» mormorò, mentre intorno a loro la gabbia veniva smontata. La bionda
scese dal palco, mentre Elisa ridava attenzione all’enorme platea.
«Ora
ponderate, amici miei. Giulia si è ribellata alla natura animale, e ha ripreso il
controllo di sé. Ma chi non ci riesce come diventa?» chiese, guardando il
brusio della folla crescere.
«Ve lo
spiego io, se mi ascolterete.» disse, alzando la voce per contrastare il
rumore. Il silenzio calò, l’enorme assemblea era curiosa. Lasciò passare pochi
secondi prima di rispondere.
«Ebbene,
chi non è abbastanza forte da contrastare l’infezione si trasforma
completamente nell’animale che lo possiede. Diventando un animale che noi, ogni
giorno, uccidiamo per mangiare. Diventando un animale per niente differente
dagli altri.» spiegò, e la notizia di ciò cadde nell’assemblea come una bomba
crudele e fredda.
«Ora,
domandatevi una cosa. Se loro sono i Cacciatori, e noi le Vittime, con questa
nuova conoscenza che io vi dono, chi è, ora, la Vittima?» e con quella
questione bruciante e cruciale Elisa abbandonò il palco.
Elisa,
cosa è alla fine un Cacciatore? Chi è colui che ha il diritto d’indossare
questa maschera?
Io
penso che ognuno di noi sia libero di chiamarsi come vuole. Ma se poi tu vieni
ad imporre che io sia Vittima o Cacciatore no.
Io
sono fermamente convinta, Elisa, che la libertà di ognuno sia inviolabile.
Che
la mia libertà inizia dove finisce la tua.
Ma
ora spiegami Elisa, perché piangi? Ti manco forse?
Anche
tu mi manchi, amica mia. Mi manca il tuo calore. Quel calore che tu mi donavi
ogni volta che mi guardavi. Amavo quella tonalità di marrone che avevi nei tuoi
occhi, sai?
Come
scommetto che tu amavi i miei. Io ero il tuo cielo, Elisa, me lo hai detto.
Ma
tu, amica mia, eri la mia terra. Il colore caldo che su questa arida distesa di
terreno, io non ho ancora visto.
Ma
aspetterò il giorno in cui il caldo colore dei tuoi occhi si spanderà su tutta
la terra.
Aspetterò
qui, quieta e calma, sopra questa nuvola. Osservandoti lottare con il mio nome
stampato a fiamme e sangue nel tuo cuore.
Elisa,
aspetterò, quindi non aver fretta.
Aspetterò.
E con l’ispirazione
nelle vene vi consegno il nuovo capitolo.
E con
il cuore ringrazio Adhara,
la mia compagna di penna, che m’incita a continuare a scrivere questa storia.
Sperando che un fine logico ce l’abbia.
Ma ho
paura che niente a questo mondo abbia un fine logico.
Grazie
per chi legge soltanto, aspetto che qualcuno mi dica che cosa sto costruendo, perché
nemmeno io lo so.
Quando presi
per la prima volta in mano un’arma, non riconobbi nemmeno la forma. Giocai col
fuoco, senza nemmeno rendermene conto.
Fu la fortuna
a salvarmi.
Perché il
destino di quella bambina in fasce non era destinato ad un tragico incidente.
Elisa,
avvolta in una tuta ermetica correva, un fucile armato nelle mani, mentre
avanzava nella foresta sotto la pioggia incessante. Gli occhi avvolti nella
mascherina contro la pioggia acida.
Il mondo non è più come lo
ricordiamo.
Elisa con le gambe incrociate
meditava, pensando intensamente al nulla. Si calò lentamente nella pozza scura
e fredda della sua anima animale. Si fece avvolgere, mantenendo quella spessa
corazza che si costruiva ogni volta che prendeva la forma animalesca.
Studiava incessantemente, ogni
giorno. Chimica, fisica, biotecnologia… magia.
Tentava in tutti i modi di
definire cosa rendesse gli esseri umani come lei speciali.
Quella fusione tra ragione e
istinto che ogni filosofo reputava impossibile in ogni altro essere se non
l’umano. Ma ora com’è possibile che l’uomo abbia due istinti primordiali?
Iniziò lentamente dentro sé a
spogliarsi della corazza, cedendo pezzi della sua pelle al liquido freddo,
percependolo duro e doloroso sulla sua pelle. Come un muscolo diverso, anomalo,
che vuole predominarla.
Sentì una strana sensazione
nella mente, ma non perse la concentrazione bensì tentò d’ascoltare quel sibilo
nella sua testa. Pareva lontano, come proveniente da un mondo diverso, pieno di
rumore e inascoltabile.
Corrugò lievemente la fronte,
aumentando la concentrazione e liberandosi ancora di pezzi della sua corazza.
Il sibilo divenne urlo, ringhi, ruggiti.
Il linguaggio della natura.
Il linguaggio dell’animale in
lei.
Qualcuno bussò alla sua porta, e
la corazza ritornò al suo posto, il ghiacciato pozzo dell’animale ritornò a
bollire nel profondo della sua coscienza, e la jungla in lei si silenziò del
tutto.
Ma gli occhi erano completamente gialli fino a pochi istanti fa.
«Forza,
muovetevi!» urlò allo squadrone dietro di lei, facendo segno di proseguire più
velocemente mentre osservava una figura sinuosa saltare da un ramo all’altro
degli alberi.
«Giulia,
contieniti, siamo ancora in territorio non sicuro!» le urlò, ma fu vano.
Una
miriade di scimmie nere, grandi come orsi, si scagliarono su di lei,
trascinandola giù sul terreno, creando un rumore sordo. La squadra prese a
sparare in direzione del gruppo di gorilla, mentre Elisa si trasformava.
«Questi vestiti sono fatti con
tessuto speciale. Le poche scimmie che avete ucciso hanno una pelle speciale,
che resiste all’acido della pioggia. Sicuramente pioverà mentre avanzerete
verso l’altra base, quindi indosserete queste e maschere contro l’acido.»
spiegò Giacomo, mentre mostrava tute completamente nere, colorate di verde in
alcuni punti. Parevano lucide, quasi simili a pelli di serpente. Elisa le
toccò, sentendole dure, rigide.
«… e per le trasformazioni?»
chiese, rivolgendo la domanda con gli occhi scuri immersi in quelli verde del
ragazzo.
Sorrise, illuminandosi. Quel ragazzo
si applicava così profondamente nella chimica da renderlo più colto di lei, che
ricercava nei libri più introvabili nel mondo di allora.
«Per te e Giulia, che basta
avere semplice materiale plastico e aderente, ho applicato una particolare
tessuto in modo tale da non crearvi problemi.» rispose, continuando però a
spiegare alcuni punti.
«L’unica pecca che posso
trovarvi è quella del limite di armi che ti puoi portare dietro. La divisa che
di solito porti è fatta apposta per essere aderente ma per avere munizioni e
lame sempre pronte. Con la tuta antiacido è più difficile, perché non si
possono creare tasche comode in una tuta che deve avvolgere quasi totalmente il
corpo. È comoda per esserlo, ma svantaggiosa per una persona che s’affida
maggiormente alle armi.» spiegò.
Elisa ragionò, per poi chiarire
un punto.
«… quindi non posso portarmi
tante armi.» ma il ragazzo dai capelli rosa fece di no col dito, sorridendo.
«È per questo che ho ideato una
cintura in grado di trattenere e restringere al suo interno lame e persino
fucili, scomodi per individui da attacchi ravvicinati come te e la Giulia.»
illustrò, tirando fuori da un cassetto una cintura grossa. Fece fatica a
metterla sul tavolo, che fece un rumore tonfo.
«… l’unica pecca che ha
purtroppo, è un notevole peso.» affermò, sbuffando per lo sforzo.
Elisa si illuminò, per poi
sorridere.
«Giacomo, te l’ho mai detto che
sei un genio?» chiese, sapendo che il giovane le avrebbe risposto come il
solito ormai.
«Ovvio che sì, e fiero
d’esserlo.» rispose gonfiando il petto orgoglioso.
Il
fucile, con un rumore elettronico venne letteralmente assorbito dalla cintura
portata a tracolla dalla giovane, mentre mutava forma.
Con una
semplice zampata scaraventò un gorilla contro un tronco lì vicino, notando che
la piccola gheparda rispondeva all’attacco ricevuto.
Fu semplice farli fuggire. Anche se avevano la pelle grossa, erano goffi, e
lenti nei movimenti.
«Sì!
Abbiamo vinto!» urlò la piccola bionda, mentre saltellava sul posto, la coda
lunga e bianca riluceva alla base della sua schiena. Uno scappellotto veloce e
doloroso raggiunge la sua testa, facendola trillare dal dolore.
«Tu non
ascoltarmi ancora una volta, ragazzina, e la prossima volta ti faccio far parte
del terreno.» rispose, guardandola negli occhi dall’alto, pochi centimetri che
fecero inquietare Giulia. Elisa aveva l’iride completamente spaccata a metà dal
giallo dell’animale, mentre la ragazza bionda aveva un lieve spicchio di iride
oro nei suoi.
«Scusa
Capo.» mormorò sottovoce, abbassando gli occhi e riprendendo forma umana.
Elisa
aspettò in forma animalesca il gruppo che lenti li raggiungeva. Quando i
giovani arrivarono, completamente bardati nelle loro tute antiacido Elisa
parlò.
«Siamo
quasi arrivati ragazzi, presto correre!» e con quell’ordine saltò sul primo
albero.
«Giulia,
tu segui i miei spostamenti dal basso. Voi, seguitela.
Tutto chiaro?» ricevette solo cenni positivi dalle maschere scure. Giulia
rispose con un lieve mormorio.
«Forza
Andiamo!» e con quelle parola balzò, scorrendo veloce sui rami, calcolando la
forza da dare nelle zampe e la distanza da compiere. Pochi minuti di corsa
forzata e raggiunsero la base sicura nella foresta. Un enorme baobab verde,
alto tanto quanto un grattacielo, si stagliò di fronte alla piccola
squadriglia. Liane verdi e grosse collegavano i numerosi rami alla foresta
intorno, rendendolo come un centro nevralgico. Scimmie saltavano pacifiche da
una liana a liana lì vicino a loro. Uccelli di vario genere volavano e
nidificavano tranquilli tra le sue rientranze. Elisa, silenziosa e agile
atterrò, riprendendo la forma umana.
«Ragazzi,
so che non la conoscete, perché questa è la prima volta che venite ad una
spedizione, quindi… Benvenuti alla base numero due, l’Albero dai Mille anni.» e con quelle parole s’infilò in una delle
innumerevoli insenature, seguita dal gruppo perplesso e meravigliato.
Camminarono
rannicchiati per pochi metri prima di imbattersi in una porta in legno scuro.
Un uomo, armato di lancia gli intimò l’alt, pretendendo l’identità degli
estranei.
«Calmati,
siamo lo squadrone della base numero uno in visita. Siamo venuti per un motivo
che il tuo Capo conosce bene.» rispose, rivelando il volto nascosto dalla
maschera. Il ragazzo sbiancò alla vista della strana coda nera che si muoveva
sinuosa dietro di lei.
«Scusi
se non l’avevo riconosciuta… prego, entri pure.» e con un lieve inchino e due
copi sordi la porta s’aprì, rivelando un altro corridoio, simile al precedente.
Trovarono altre guardie, con altre porte. Ma stavolta non ebbero problemi.
Quando varcarono l’ultima porta, la vista dei ragazzi s’illuminò. Al centro
dell’enorme sala illuminata da luci e fari troneggiava una enorme scaletta a
chiocciola, che conduceva ai rami e al livello superiore. Uomini vestiti da
indigeni si muovevano organizzati, accenti forti e diversi tra loro assordarono
i ragazzi, abituati alla tranquillità della loro piccola sala
d’intrattenimento.
«Elisa!»
una voce femminile, con forte accento, richiamò l’attenzione della mora che si
voltò raggiante.
Una
donna bassa, tanto quando la bionda Giulia, dai folti capelli rossi portati
lievemente corti, avvolse il corpo della donna, cingendole i fianchi dolcemente.
«Ciao,
Ros! Quanto tempo!» e rispose con forza all’abbraccio dell’amica.
«Finalmente
sei venuta a trovarmi! Mi mancavi!» e con quel sorriso dolce e l’accento
mieloso incantò l’intero squadrone della giovane mora dai capelli corti.
«Anche
tu mi mancavi, amica mia… scusaci, siamo spossati, abbiamo avuto un attacco, ma
ce la siamo cavati.» spiegò, guardando torva la bionda, che tentava di
nascondersi nella maschera portata al collo.
La
piccola ragazzina rimase abbagliata. Quella ragazzina, poco più alta di lei, si
comportava in modo così intimo con il suo capo, che il rispetto per lei nacque
spontaneo.
«Ragazzi,
questa è La Rossa, Capo di questa base operativa.» spiegò, guardando con
serietà i ragazzi completamente fradici.
«Pretendo
che abbiate lo stesso rispetto che avete con me con lei.» intimò, scrutando con
occhi roventi gli occhi intimoriti o timidi dei ragazzi. Quella ragazza dai
capelli rossi, così bianca e fragile, un Capo?
«Capito!?»
e con quel tono autoritario, ricevette un “Sì signore!” unanime del gruppo.
Solo la
bionda Giulia, rimasta incantata dagli occhi scuri della rossa rispose in
ritardo, ricevendo uno sgu
ardo
curioso dalla stessa. La bionda sentì il suo cuore vibrare forte, e il rossore
colorò il suo volto, tentando invano di nascondersi nella maschera.
«Forza
Ros, aggiornami, mentre i miei compagni fanno i turisti.» chiese, facendo segno
al gruppo di ritrovarsi in quel punto tra due ore.
«Giulia,
vieni con me.» intimò poi la mora, portandosi dietro come un cagnolino la
piccola gheparda, mentre sul suo capo le piccole
orecchie nere stavano ritte, e la punta bianca della coda si muoveva veloce,
segno dell’agitazione e della confusione dentro di lei.
Non compresi il perché. Né il come.
Capii solo che quegli occhi castani,
così in contrasto con quel rosso, m’azzannarono.
Proprio come fa un leone con la propria
preda.
E sentii dentro di me il rumore d’una
orchestra di ubriachi e sordi farsi largo.
Assordandomi. Uccidendo ciò che pensavo
di conoscere già.
Mandando a farsi fottere quelle
dannatissime convinzioni che nella mia mente io avevo già fatto mie.
Eppure io sono un felino. Un elegante e
veloce ghepardo, l’essere più veloce nel mondo.
E allora perché sento che la mia mente
è così lenta?
Perché il mio cuore pulsa così
velocemente ora che correndo non sto?
Chi sei tu, fiamma vivente, che fai
banchetto col mio cuore?
Chi è questo leone che caccia e uccide
il ghepardo?
…
Chi è il Cacciatore? Tu, dolce dama
rossa?
Chi è la Vittima qui?
Io forse…?
E con
un nuovo capitolo ponderato dopo un po’, io vi lascio.
Visto
che ormai ho capito.
Ho
compreso lievemente la natura di questa storia. Ed è un lieve barlume di una
vita precedente. Un figlio morto ancor prima di nascere. Unico ovulo non
fecondato della mia mente.
L’unica
cosa che mi manca è la fine. O il proseguimento.
E il
senso, ovviamente.
Vi
saluto, ringraziando la mia compagna di penne e di interrogazioni Adhara XD
Per non
parlare di Ulisse 999 che ringrazio
per il suo commento illuminante. Sono contento che il contenuto del primo
capitolo lo abbia colpito e interessato. Spero che continui a leggere e commentare
i futuri capitoli di questa storia.
Il Destino mi
donò un nome, un’esistenza, una coscienza di me.
Mi donò un
mondo.
Adesso, quel
mondo donatomi, mi supplica la salvezza.
Ora quel
mondo chiama me.
Elisa
osservava la mappa mentre La Rossa spiegava le indagini condotte fino alla data
odierna.
«I miei
esploratori hanno scoperto poco, visto il poco numero di Infettati Sopravvissuti
all’interno della mia base. Ma siamo arrivati alla fine della foresta. E indovina
cosa vi abbiamo trovato?» la ragazza spiegava, mentre con un piccolo bastoncino
indicava su un tavolo interattivo la mappa disegnata.
«Montagne.»
rispose Elisa, passandosi una mano sul viso, fissando pollice ed indice sulla
base del naso.
«Dannazione.»
mormorò, prima di lasciar cadere il braccio.
«Mi
dispiace Elisa, pensavo di trovare una via d’uscita e invece…».
«Non
preoccuparti.» la interruppe la mora, mentre poggiava i palmi sul tavolo,
analizzando con occhio rapido i nuovi territori.
«Lo sai
questo cosa vuol dire, vero Ros?»sussurrò Elisa, guardando negli occhi scuri La
Rossa. Un cenno positivo mosse la sua testa.
«R.G.G.S.»
scandirono entrambe, facendo cadere l’immenso salone nel silenzio più totale.
Gli
occhi dei giovani in divisa erano fissi sui loro rispettivi capi, pieni d’ansia
e spaventati. In sottofondo il rumore di qualcuno che tossiva. Qualcuno che
faceva cadere qualcosa.
Giulia
non sapeva decidere chi osservare dei due Capi davanti a lei. Infine il suo
sguardo si concentrò sulla Rossa, che percepì la tensione nei suoi occhi.
Stavolta la piccola bionda non cedette alla vergogna. Ros incurvò verso l’alto
gli angoli della bocca, sorridendo parzialmente. La piccola gheparda piegò
lievemente le punte nere delle orecchie, sentendo il suo cuore sciogliersi lentamente
in un vaso di miele.
«Miei
cari compagni, benvenuti.» La Rossa parlò dal tavolo rotondo, alzandosi per
prendere la parola. Diviso in tre parti eguali il tavolo rotondo, vuoto al
centro, mostrava le tre parti del R.G.G.S. : il bianco, il rosso e il nero.
Un uomo
giovane sedeva dalla parte del bianco, con i capelli biondi, quasi platinati, e
stava accomodato in posata posizione, con alle spalle un piccolo gruppetto di
ragazzi seduti su scalini in crescendo. Lo stesso piccolo anfiteatro si
ripeteva dietro Elisa e La Rossa. Erano i sottotenenti, i diretti superiori
subito dopo il loro Capo.
Giulia
stava seduta poco prima dalla destra della Rossa.
«Elisa, dimmi, chi è quella
piccola ragazza dai capelli biondi e dalla coda bianca?» chiese, sussurrandole
all’orecchio, mentre con la coda dell’occhio la scrutava.
Elisa sorrise, divertita.
«Lo sapevo che me lo avresti
chiesto…» Elisa chiamò a sé la piccola sottoposta, presentandola all’amica.
«Ros, questa è Giulia. Giulia,
questa è La Rossa, il tuo nuovo Capo.» l’ultima affermazione fece cadere le
mascelle di entrambe.
«Cosa?» chiesero all’unisono,
per poi scorgere nel viso della piccola gheparda un lieve rossore e un battito accelerato.
«Ros, ti affido questa piccola
screanzata. A me non dà ascolto, forgiala tu, visto che questo territorio è più
propenso alla sua natura che al mio.» rispose, dando un piccolo spinta alla
bionda, portandola a pochi centimetri della rossa. L’emozione, questa volta,
prese entrambe. Il rosso dominò lo sguardo scuro della bionda, che si concentrò
sul pavimento. Mentre il colore del viso di Ros si confuse con il colore dei
capelli.
La
bionda la guardava ammirata, mentre la coda stava rilassata tra le sue mani.
Le
donne superavano di gran numero i maschi all’interno delle fazioni, presenti in
qualche numero dalla parte nera di Elisa, in forma totale dallo schieramento bianco
e completamente assente dietro a Ros.
«Amici
miei, il giorno è giunto. Dichiaro la Riunione Generale dei Giovani
Sopravvissuti aperta.» e con quello la piccola ragazza dai capelli rossi si
sedette. Portò una gamba al bracciolo, poggiandolo, per poi dare il peso della
schiena al lato destro, sostenendosi con il braccio. Giulia sentì il cuore
correrle in gola alla vista del collo scoperto di lei.
Elisa
si alzò, facendo segno a Giacomo dietro di lei di far calare la mappa. Un rumore
sinistro di marchingegni fece scendere, in mezzo al vuoto tavolo, una mappa
dettagliata e tridimensionale della zona conosciuta fino ad allora.
«Ci
siamo riuniti oggi per decidere cosa fare di noi ora. Avevamo già avuto
conferme da Ippolito che risiedevamo in una valle, ma le speranze non avevano
ancora abbandonato i nostri cuori fino ad oggi. Ieri Ros mi ha confermato l’ipotesi
di Ippolito e qui, di fronte a voi, abbiamo l’intera mappa della valle.»
Sul
piccolo plastico si poteva notare una mezza luna, divisa tra la vegetazione
delle foreste e dal grigio della città. Intorno montagne innevate. Le basi
individuate con bandierine colorate.
«Vi
avevo avvisate, mie illuse compagne, che da qui non v’è via d’uscita.» il modo mellifluo
e antico parlato dal ragazzo biondo entrò in merito, non scomponendosi però
dalla sua postura.
Elisa
si sedette, perché come da regolamento, chi voleva parlare bastava si alzasse.
Un ragazzo
dalla parte di Elisa, che la donna riconobbe dalla voce come Adrian, s’alzò,
ottenendo subito la parola.
«E cosa
dovremmo fare allora? Abbandonare l’idea che al di fuori di noi, il mondo sia
una completa distesa di montagne e deserti aridi e infruttuosi? No, mi spiace. Ci
dev’essere una via d’uscita.» finito di parlare si sedette, donando la parola a
Giacomo, che aspettava paziente il proprio turno.
«Ebbene
sì, osservando e analizzando i dati datomi ho potuto confutare che siamo in una
valle. Ma per quanto le montagne siano impervie e profonde, avranno una fine. Nella
mia memoria e nei libri letti vi sono stampate immagini di un mondo ricoperto per
due terzi d’acqua. E qui di monti stiamo parlando. Semplici protuberanze
rocciose, facilmente aggirabili.» il biondo, al suono di quelle parole, s’alzò.
Aspettando con volto furente la parola donatagli.
«Or
dunque io dichiaro che le montagne, di cui conosco ogni anfratto e rientranza,
non sono così fattibili d’aggirare come credi. La sua superficie è tagliente, i
suoi lati impervi e privi di qualsiasi vegetazione. Gli animali che hanno il
coraggio di viverci si cibano dei loro morti e dei loro anziani, oltre che agli
insetti. Ho già provato con mie svariate truppe ad attraversarle. Nessuno tornò
vivo.» finì di parlare, mentre si passò una mano avvolta dai un guanto nero,
nei capelli, lisciandoli.
Ros s’alzò,
in contemporanea con Elisa. La mora fece un cenno, donando la parola alla
compagna.
«Grazie
Elisa. Ora ti dico, amico Ippolito, io non diffido di te, né tantomeno dei tuoi
squadroni. Ma qui stiamo parlando di esseri umani. Ragazzi estremamente giovani. Non penso che essi fossero
preparati per una, chiamiamola, “missione suicida”.» Ippolito fece per
rispondere, ma Elisa lo fulminò con lo sguardo, zittendolo.
Ros si
sedette, cedendo la parola all’amica.
«Ippolito,
conosco già la tua protesta e la sostengo. Ma Ros è in mancanza di una
informazione che tu non hai riferito prima.» affermò, facendo nascere nella
rossa una curiosità.
«Ippolito,
pochi giorni fa, tentando un altro approccio, diverso dai precedenti con più uomini
e con più viveri, scoprì un campo. Non un campo verde. Era un terreno arido,
composto di trucioli di terra e piccole pietre ovali. Fu per fortuna, o
chiamiamolo “caso” che uno dei suoi compagni scavò, curioso del nuovo
materiale. Poche manate di quel materiale scoprirono uno scheletro umano,
susseguito da un altro. Lo squadrone, alla fine della giornata, avevano
disseppellito più di una ventina di corpi umani. In poche parole avevano
trovato una “fossa comune”.» la parola cadde nell’assemblea, pesante come un
macigno, e fecero tribolare gli animi dei presenti. Elisa in silenzio fece un veloce
segno della croce, seguita da tutti.
«La
cosa ancora più macabra, che mette in dubbio il fatto che siamo i soli sopravvissuti
in questo mondo, è che alcuni corpi erano ancora in decomposizione. Seppelliti
da pochi giorni. I cadaveri, tutti appartenenti al genere maschile, erano stati
fortemente mutilati e, a seconda delle analisi dei medici al loro interno,
possono affermare che furono torturati prima della loro triste dipartita.» il
silenzio dovuto ai morti calò nell’aula.
Giulia
sussurrò, quasi desse voce ad un pensiero comune.
«Chi
può aver fatto questo?» chiese, scoprendo poi che gli occhi dell’assemblea
intera erano su di lei.
«È
questo quello che vorremmo scoprire, mia cara.» rispose Ros, guardandola dalla
sua posa malcostumata.
La donna,
dopo aver sorriso al rossore della piccola ragazza s’alzò, fiera come un leone.
Elisa squarciava da ore ormai lo
stesso animale, che non voleva abbandonare a tutti i costi l’attacco alla base.
Era stato un attacco di massa,
interi squadroni di animali selvatici quali gorilla e felini di tutte le razze.
Elisa e Giulia erano le ragazze che tra tutte mietevano vittime nella
scaramuccia generale di fronte alla probabile entrata.
Ma quando Giulia si vide
sconfitta, accerchiata da forzuti e mastodontici gorilla neri, fu il ruggito d’un
leone a diradarli. Un leone rosso che urlava la sua forza al nemico,
spaventandolo.
Cadde con grazia, il manto rosso
elegante e sciolto. Gli occhi castani ammantati dal giallo felino. La coda che
frustava l’aria. Ros entrò in campo, sfoderando l’arma segreta del Capo dell’Albero
dai Mille Anni. I gorilla scapparono, seguiti poi dai felini umiliati, mentre
nella piccola foresta il ruggito del re della jungla risuonava forte nel cuore
dei sudditi.
«Quindi
qui, ora, in questa assemblea io chiedo un volontario. Un volontario soltanto
per una missione oserei dire “suicida”. Dovrebbe prendere, solitario e armato
solo della sua forza di volontà, attraversare le montagne impervie d’Ippolito,
e cercare chi ha seppellito quei corpi.» il muto parlare dell’assemblea fece
intervenire di nuovo la rossa.
«Capisco
il vostro titubare. Ognuno di noi ha un motivo per restare. Siano essi parenti
stretti…» e Elisa vide stringere Adrian al suo fianco la sorellina.
«…
persone a noi care…» Elisa vide lo sguardo di Eleonora incontrare quello di
Chiara.
«…
amati…» e questa volta fu Ros a deviare lo sguardo, incrociandolo per pochi
istanti con quello di Giulia.
«… ma
non per questo dove...» ma venne interrotta da Elisa, che s’alzò, parlando.
«Mi
offro volontaria.» affermò, e l’assemblea intera s’avventò, diventando una
baraonda di vociare e proteste fortemente sostenute. Le voci più forti s’udirono
dai suoi sottoposti.
«SILENZIO!»
intimò Elisa, con quel ruggito basso, insito nella sua rabbia.
«Non
accetterò nessuna contrapposizione, e chi oserà tentare di fermarmi dovrà
vedersela direttamente con me!» affermò, voltando lo sguardo per aspettare che
qualcuno parlasse. Ma il silenzio regnò, proprio come lei voleva. Elisa fece un
cenno all’amica, che con sguardo dispiaciuto proferì il verdetto finale della
Riunione Generale.
«L’unico
volontario presentatosi è Elisa, che accetta in tutti i sensi lati la missione
prima descrittasi. La Riunione Generale dei Giovani Sopravvissuti si dichiara
quindi favorevole al compimento di essa. In data odierna si scioglie.» e con
quelle parole, che come lama cadevano paragonati ad una sentenza sopra la testa
dei presenti, e un colpo di pugno di tutti e tre i Capi, l’assemblea si slegò.
Oh, qui
si discute. La politica risuona in questa Riunione Generale. Eppure l’età in
quest’aula non supera i ventisei anni di età. Può allora il durare di una vita determinare
la coscienza umana?
Mah…
chiediamolo ai politici di oggi!
Per non
alzare troppe proteste io vi lascio, sperando di avervi incuriosito. Sposterò nel
più breve tempo possibile il prossimo capitolo, prima che l’idea mi sfugga di
mente. ^.^
Ringrazio
la mia piccola Adhara
che mi sostiene nel lento parto di questa storia. Per questo nel prossimo ci
sarà una sorpresa per te, anche se forse hai già intuito cosa ;)
Quando vidi
il mio cielo diventar plumbeo persi la speranza di rivedere quell’azzurro.
Persino la
notte mi venne negata.
E il sogno di
ogni notte era quello di poter di nuovo rimirar le stelle.
Elisa
s’alzò, guardandosi intorno con gli occhi scuri spaccati dal giallo. La
trasformazione in territori non sicuri era d’obbligo. Il corpo misto alla
pantera si mosse liscio e levigato, silenzioso ed allenato. Erano giorni che
dormiva all’addiaccio, che mangiava delle piccole prede che riusciva a
catturare, che beveva soltanto il loro sangue in assenza d’acqua. I vestiti
strappati in più punti, le mani scorticare dallo sfiorare quella pietra
tagliente.
Era un
mese ormai che non toccava altro cibo se non la carne cruda che il suo corpo
ingeriva. E trenta giorni in cui non vedeva altro liquido se non il ferroso
sangue o qualche pozzanghera.
Meno
male che le papille gustative s’annullavano con la trasformazione. Il silenzio
poi, in quella vallata la stordiva e assordava. Non c’è niente di peggio del
silenzio per non ascoltare. Il pulsare del sangue nelle orecchie rimbomba e tu,
tutto d’un tratto, nel silenzio diventi sordo.
Un
rumore udito però la destò, portandola ad avvicinarsi alla fonte.
Pochi
giorni fa aveva perso ormai l’orientamento. Fu facile perdersi in questo dedalo
di pietre taglienti tutte uguali.
“Tutte
stramaledettamente uguali.”.
S’arrampicò
fluida sopra una pietra, mirando dall’alto la fonte del rumore, rivelandosi un
urlo.
“Cosa?”
le sembrò quasi un sogno vedere delle persone nella piccola rientranza di
pietre che ieri aveva battuto palmo dopo palmo, non scoprendo niente.
Degli
uomini, armati di lancia, portavano delle figure snelle e giovani verso il
centro. Vestite soltanto di stracci, Elisa poté constatare che erano giovani
donne, di 15, forse 16 anni.
Elisa,
con gli occhi giallo castani rimase completamente di sasso quando vide le mani
degli uomini levarsi, creando dal nulla tre pali contigui, spuntati fuori dal
terreno tremante.
«Ma
come…?» le parole uscirono gutturali, da giorni che non parlava e dall’animale
in lei.
Silenziosamente
e con cautela si lasciò scivolare, avvicinandosi a quello che sembrava una
esecuzione in piena regola. Con ancora più curiosità e sorpresa poté constatare
che gli uomini erano adulti, con trenta o quarant’anni alle spalle. Essi, con
modi rozzi e irosi, spinsero le povere vittime verso i pali, con la precisa
intenzione di legarle.
Le
ragazze, impaurite e minacciate si diressero verso i legni, fortemente preoccupate.
«Vi
prego lasciateci…» implorò una.
«…
risparmiateci, ve ne prego…» mormorò un’altra.
La
terza invece tacè guardando con freddo distaccamento e furioso i suoi
carcerieri. E fu quella giovine a colpire l’anima reticente di Elisa nel
correre in loro aiuto.
«Elisa, se troverai coloro che
hanno fatto queste stragi…» parlò La Rossa, cedendole una piccola lama da
mettere negli stivali.
«… te ne prego, non
intrometterti. Stanne fuori.» gli occhi scuri della rossa fissavano con forza
quelli simili della mora, sperando in un loro giuramento. Ma la bocca di Elisa
rimase chiusa. Né un sì, né un no.
“Perché promettere qualcosa che
non posso fare?”.
Tentò
di avvicinarsi, rimanendo celata dalle pietre taglienti, mentre estraeva il
coltello seghettato. Le donne vennero slegate, per poi esser fissate sui pali,
con il volto contro il tronco nudo dei pali. Le urla disperate già si
propagavano nella valle pietrificata, immune e neutrale davanti a quel massacro
che tra poco si sarebbe consumato.
Dalla
piccola casacca che portava estrasse un guanto.
«Questo Capo è un guanto
speciale.» disse Giacomo, guardandola con quegli occhi verdi che Elisa ormai
conosceva. Ma non erano tinti della stessa emozione delle volte scorse. Ora
erano spenti. Tristi.
«Spiegami come posso usarlo.»
chiese Elisa mentre lo indossava. Appena le dita uscirono dai buchi sul dorso
della mano si creò una patina d’argento, che si diramò per tutto l’avambraccio,
creando una corazza puntellata di aculei.
«Ehi!» affermò la mora,
saggiando la presa e la forza di quel metallo. Era robusto, e molto più rigido
dell’argento.
«… è una lega speciale, Capo.
Esso si propaga e riveste l’arto in cui viene indossato. Infatti se lo
indosserai nella destra, esso lo ricoprirà. Ma se lo toglierai…» e il giovane Capo
lo tolse, scoprendo come l’effetto resistente del metallo si sciogliesse nel
momento stesso in cui Elisa lasciava il guanto vuoto, mentre veniva come
risucchiato dal guanto nero.
«… il metallo ritornerà nella
sua sede. Può assumere varie forme. Dipenderà da come lo impugnerai. La mano
chiusa a pugno imporrà la difesa immediata, creando li aculei di prima. La mano
aperta creerà degli artigli lunghi e affilati… le altre forme staranno a te
crearle. Io ho solo imposto queste come basilari.» l’uomo prese il guanto e ne
riportò un altro nella sua mano.
«Prenditene cura, e usali se
necessario. Sono più utili e meno ingombranti di una pistola o di qualsiasi
lama.» il ragazzo sorrise cupo, mentre lasciava la coppia di guanti nelle mani
della giovane.
«Giacomo… ti ringrazio. Sei un
buon amico.» disse la mora, sorridendo.
«… vorrei poter fare di più.»
mormorò l’uomo, guardando il pavimento. La mano di lei sulla sua guancia la
fece rialzare.
«Hai fatto abbastanza. Grazie…»
rispose seria. L’uomo sorrise.
«… e tagliati questa barba, che
punge!» gli disse, mollandoli un piccolo schiaffo sulla guancia scherzando.
Sorridendo per sdrammatizzare.
Lo
indossò nella destra, proteggendosi l’arto disarmato. La forma animale svanì,
cedendo il posto alla forma umana. Intanto la scena nel centro della radura
pietrosa si stava sviluppando in peggio.
Gli
uomini avevano legato le donne con la schiena rivolte verso l’esterno, mentre
un uomo pelato sguinzagliava una pesante frusta. Le ragazze di prima iniziarono
ad urlare, una a destra e l’altra a sinistra, pregandoli e supplicandoli di non
iniziare. La ragazza al centro non si muoveva, come pronta ad assorbire la sua
punizione in silenzio.
«Tacete,
puttane!» urlò l’uomo, schioccando una pesante frustata alle due ragazzine,
provocando i loro urli disperati, mentre sulle loro schiene, nude al freddo e
al contatto diretto con la pelle dello strumento di tortura e ai pezzi di ferro
al suo interno, si disegnavano crudeli ghirigori irregolari di pelle scorticata
e sangue.
Elisa
le guardava urlare, ancora indecisa. Poteva vederle in faccia, quelle ragazzine.
Quella in mezzo la notò. E il suo sguardo, sorpreso nel vederla, si spezzò in
una smorfia di dolore quando la frusta toccò la sua pelle. Dalle sue labbra
scaturì un urlò smorzato e costretto al silenzio, mentre con forza chiudeva gli
occhi e si mordeva i labbri a sangue.
Quello fu troppo.
La
furia in lei esplose, facendola correre in mezzo alla landa desolata urlando.
Gli uomini, sorpresi, tentarono un attacco collettivo. Ma le unghie del guanto
e il coltello seghettato fecero strage di due uomini, mentre gli altri si
trovavano in netta difficoltà.
Fu la
striscia della frusta a farla cadere a terra. Intorno alla sua caviglia la
punta ferrata della frusta, che crudele arpionava la pelle sanguinante della
ragazza. Con un colpo netto tagliò il pezzo di pelle, liberandosi. Ma gli
uomini con le loro lance, le furono subito sopra. Sentì ondate di elettricità
ad alto voltaggio trapassarle il corpo, facendole perdere la presa sulla lama.
I piedi degli uomini la stavano letteralmente massacrando.
E fu furia.
L’animale
in lei esplose, spezzando con una sola zampata le lance che continuavano a
torturarla. Con lo stupore degli uomini Elisa poté sbudellare due di loro,
lasciando soltanto un superstite che, spaventato, scappò via. Stette per
attaccarlo quando l’uomo pelato richiamò la sua attenzione.
«Uccidi
anche lui e io ammazzo questa ragazza!» urlò, mostrando il suo ostaggio. Nella
sua presa ferrea, la ragazza che era collocata al centro, fredda e irosa, tentava
di mantenere la calma. Ma le sue mani tremavano nel tenere il braccio dell’uomo
allentato intorno al suo collo. La punta di un coltellino che minacciava di
tagliarglielo.
Elisa
placò la sua rabbia, mostrando i denti all’uomo, ringhiando minacciosa.
«Non
pensare di farmi paura, mostro, ne ho uccisi a migliaia come te, e tu non farai
eccezione.» parlò l’uomo, non facendosi intimorire dal ruggito della donna
pantera.
La
ragazza, con i suoi lunghi capelli ricci e gli occhi castani fissi in quelli
congruenti di Elisa, tentò di parlare, soffocata dal braccio del pelato.
Elisa,
sfruttando l’attimo di distrazione dell’uomo nel cercare di contenere la
ragazza che voleva parlare, guardò il terreno, notando il suo coltello a pochi
centimetri dal suo piede.
«Lasciala
andare…» parlò gutturale, mentre tentò d’avvicinarsi.
«Ferma
dove sei ti ho detto!» disse, facendo un lieve tagli alla gola della ragazza. I
suoi occhi si chiusero, mentre una lacrima scendeva, silenziosa.
E fu sconforto.
«Va
bene, basta che ti calmi.» disse, riprendendo la forma umana. Le mani tenute
basse, a far intendere nessuna intenzione da parte sua. Il coltello ormai
vicinissimo al suo piede, a portata di mano.
«Bene…
vedo che hai capito chi comanda…» disse l’uomo, dando una veloce occhiata
dietro di sé.
Fu
quello a tradirlo. Con velocità Elisa s’abbassò, lanciando il coltello verso
l’uomo. Con un rumore sordo trapassò la sua testa, lasciando libera la ragazza
che, osservando fredda il suo corpo cadere, sputò sul cadavere.
Elisa
si avvicinò, guardandola col fiatone. La ragazza però si limitò a fissarla, con
quella freddezza che aveva fortemente colpito la mora.
«Beh,
non si ringrazia!?» chiese la donna dai capelli corti, ritornando umana. La riccia
continuò a scrutarla, come se si stesse concentrando per capire un quadro
astratto.
Le grida
d’aiuto delle due ragazze ancora legate richiamarono l’attenzione della mora,
andando a slegarle.
«Grazie!»
dissero, abbracciando con le lacrime la loro salvatrice.
Ma la
loro felicità durò pochi istanti, quando dal nulla spuntò fuori un intero
squadrone di uomini armati e corazzati, accerchiando le quattro ragazze.
Le
lance appuntite puntate alla gola dell’estranea, mentre le due ragazze venivano
afferrate e portate fuori dalla vista di Elisa.
«È
questa qui soldato l’estranea?» chiese un ufficiale in divisa da pompa magna.
Un soldato
impaurito al suo fianco, quello fuggito precedentemente, la guardava stranito.
«Sì
signore…» mormorò, dirigendo lo sguardo all’uomo dagli occhi azzurri.
«… ed è
questa ragazza, quella capace di “trasformarsi in una belva”?» chiese con tono
ironico.
«S-sì signore…» rispose titubante, deglutendo.
L’uomo
osservò la donna con occhio critico e approssimativo. Disegnando un ghigno nel
suo volto, accentuato dalle rughe. I capelli bianchi tagliati corti.
«A me
sembra una normale donna…» affermò, ridendo. Lo squadrone intorno a Elisa si
mosse, ridendo.
«Non
osate sottovalutarmi, chi l’ha fatto ha pagato con la vita. E ne avrete le
prove, se guarderete i resti dei vostri soldati.» rispose Elisa alzando il
mento fiera.
«Le
vostre lance non mi impauriscono, né il numero dei vostri soldati.» ribadì,
sogghignando.
«… non
siete voi, quello ad avere il coltello dalla parte del manico.» e con quelle
parole, si trasformò. Aumentando il volume del suo corpo e la sua forma. Arrivando
alla forma rozza e forzuta della pantera più pura. Le zampe e le fauci ruppero
con semplicità le lance che la puntavano e la pelle ignorò le scosse infertole.
Numerosi furono i soldati che, sfoderate le lame al loro cospetto, si
lanciarono valorosi. Ma nessuno di loro domò quella pantera in apparenza
instancabile e invincibile.
«Fermati
mostro, o loro moriranno.» disse l’uomo, quando la donna pantera trafisse con
le sue zanne l’ultimo uomo.
Quattro
soldati tenevano sotto lame le tre ragazze, e la terza, sempre impassibile, la
fissava fredda. Un leggero ghignò regnò nel suo volto, prima di ritornare
impassibile come prima.
Elisa,
riducendo il volume del proprio corpo, continuò a fissare l’uomo dagli occhi
ghiacciati.
«… di
loro non mi importa niente.» rispose la donna, con tono gutturale.
Senza
preamboli una ragazza cadde a terra, con la gola squarciata. L’urlo della seconda
ragazza si levò alta. La terza osservò il cadere della compagna fredda,
stringendo le labbra.
«Quindi
non ti importa se le ucciderò proprio adesso, davanti ai tuoi occhi?» chiese l’uomo,
vedendo lo sguardo della donna irradiarsi di brillante odio.
«… ti
consiglio di non farlo più.» minacciò Elisa, chiudendo a pugno la zampa,
conficcandosi nella carne quelle unghie smisuratamente grandi e affilate. Iniziando
a perder sangue.
La ragazza
fredda la guardava, come conscia del fatto che tra poco sarebbe toccata a lei.
Aprì lievemente le labbra, respirando profondamente.
La seconda
ragazza urlante venne passata a fil di spada, morta con le lacrime ancora calde
negli occhi. Un ruggito potente si elevò dalla piccola valle pietrosa.
«Non
osare darmi ordini mostro. Io di queste vite posso far quel che voglio…»
affermò duro l’uomo in divisa, prendendo con forza il mento della terza, che lo
guardava irosa ma continuamente fredda. Trattenendo le labbra dallo dar voce
alla sua furia.
«…
prolungare la loro misera esistenza…» e con un colpo basso la fece
inginocchiare.
La ragazza
mescolò i suoi occhi scuri a quelli spezzati di giallo della donna di fronte a
lei, furiosa.
«… o
spezzarla.» con quelle parole, sfoderò la sciabola al suo fianco, facendo per
tagliare la testa alla ragazza.
Fu un
secondo in cui la pantera si lanciò su di lui, con gli occhi completamente
gialli, dominati dalla furia dell’animale.
Fu un
secondo in cui l’elettricità la oltrepassò, solamente sfiorata dalla lama della
spada.
Fu un
secondo di luce, in cui vide gli uomini andare su di lei e bloccarla con corde
e catene.
Fu un
secondo in cui poté vedere gli occhi della ragazza finalmente brillanti di
vita, finalmente illuminati da qualcosa: la
sorpresa.
Fu un
secondo in cui poté udire la sua voce che le parlava.
…
…
Grazie.
Fu un bagliore illuminante prima del buio.
Ho sempre incoraggiato le mie compagne a tenere la testa
alta, a ribadire i loro diritti.
Quando morì la mia migliore amica davanti ai miei occhi,
diventai presto una di loro.
Continuando a tenere la bocca chiusa.
Continuando a guardare da un’altra parte.
Continuando a ignorare.
E quando decisero la mia orrenda fine, risi.
Ero stanca di vivere così, se così si può chiamar vita.
Ma furono i suoi occhi a riscattarmi.
Furono i suoi occhi a ridarmi speranza.
Furono i suoi occhi a ridarmi la vita.
Ennesimo
capitolo, ennesima questione. Dove vuole andare a parare la mia mente?
Lasciandovi
e lasciandomi con questa domanda io vi lascio, inseguendo questo pensiero che
continuamente mi sfugge.
A voi,
che forse cogliete più di me.
Ringrazio
Adharache commenta ogni volta i miei scritti,
inseguendomi come una nuvola insegue il vento.
Anche se,
ovviamente, del suo blaterare politico io non ho compreso niente. ^_^
E io, per
quanto umana possa apparire, non son altro che bestia.
Giorno 1
Elisa
era seduta. Nella calma quiete del dormiveglia si svegliò, aprendo a fatica gli
occhi. Le braccia e le gambe pesavano come macigni, e il dolore le fermava.
Il muro
duro e freddo la sorreggeva, mentre percepiva nell’aria la forte umidità
dell’ambiente. L’odore pregnante di marcio e putrido le entrò nelle narici,
facendole disegnare un viso disgustato. Lo stomaco si ribellò, voltandosi,
facendo venire in Elisa un istintivo conato di vomito.
Tentò
di muoversi, ma le ossa e soprattutto i muscoli non rispondevano. La mente che
intanto riceveva messaggi negativi. Abbandonò la dolorosa esperienza del
movimento, concentrandosi sulla vista.
Il
corpo era ferito, in più punti, superficialmente. I vestiti strappati, rovinati
e sporchi. Polsini di ferro bloccavano sia le sue caviglie che i suoi polsi.
Provò un improvviso moto di rabbia.
L’avevano
privata della libertà.
«Fanculo…» mormorò a voce roca. Intanto analizzò la
situazione. La cella non era più grande di uno stanzino. Putrida, sporca, con
un angolino ricoperto di paglia e un buco troppo piccolo per fuggire utilizzato
per i bisogni corporali dei detenuti.
Le
sbarre, logore ma forti, erano spesse quanto un polso da uomo. Acuì la vista,
notando un’altra cella uguale alla sua dall’altra parte. Non badò se fosse piena
o vuota.
La
porta, completamente ricoperta da infissi di legno, era l’unico aspetto forte e
robusto, forse l’unico veramente curato.
Ma le
forze le vennero meno. Indagare era troppo per quel corpo spossato per così
poco. Si abbandonò, chiudendo gli occhi. E l’oblio la fece sua, come sua preda.
Giorno 2
Elisa
si risvegliò stavolta per un rumore fastidioso, come di due superfici lisce e
metalliche a collisione.
«Mangia
mostro.» parlò una voce non individuata, mentre rotolava verso di lei un piatto
con dentro un tozzo di pane rancido e una ciotola d’acqua, già mezza
rovesciata.
Elisa,
famelica, vi si buttò, ingurgitando senza badare agli innumerevoli attacchi di
rigurgito che le esplosero nella testa nell’azzannare quel pane, fatto di muffa
e vermi.
Finito
il pasto frugale si sentì subito meglio. Ma un ruggito sommesso dentro di lei
le ricordò i bisogni di un Infetto: la carne.
«Carne…»
mormorò, mentre la guardia di prima ripassava per riprendere i piatti.
«Te le
sogni certe cose in questo posto.» le rispose l’uomo ghignando allegramente.
Elisa non diede segno di voler restituire il piatto. Aveva ancora fame. Quel
tipo di fame animalesca che,
purtroppo, se non sedata non può controllare.
«Stronza.»
mormorò l’uomo, entrando armato con uno di quei famosi bastoni scarica
elettricità.
Fu veloce, fu netto.
Il
soldato nemmeno s’accorse della rapidità con cui la donna l’aveva afferrato e
poi spezzato l’osso del collo.
Il
sangue caldo, la carne fresca. E l’impulso della pantera, insito in lei,
bisognosa di carne, prese il sopravvento. Debole com’era Elisa non poté non
resistervi. Crollò, dando modo alla belva di banchettare con quel corpo ormai
morto.
E fu così che la pantera si
prese la sua carne.
Era
stato facile occultare il corpo. Le ossa, se ben pulite, potevano scivolare nel
buco nel pavimento.
Il
cranio semplicemente fratturato e poi buttato nello stesso posto.
Rise di
gusto quando le guardie impazzirono non trovando la guardia al suo posto.
Rise
più che non mai, con la pancia piena e l’animo animale sedato. Stava già
impazzendo in quel misero buco, e ogni giorno la mente fredda e subdola della
pantera prendeva il sopravvento su di lei.
«Perché
ridi?» una voce l’interruppe, facendola scattare.
«Chi
è?» chiese, avvicinandosi alle sbarre, le catene le impedirono di andare oltre
la metà del percorso.
Silenzio.
Elisa pensò ad un frutto della sua immaginazione, del suo animo povero da tempo
ormai di interazioni con altri esseri umani.
«Tu
rispondi alla mia di domanda, e io risponderò alla tua.» ancora quella voce.
Elisa
corrugò la fronte.
«Rido
perché mi va. Chi sei?» buttò lì Elisa, curiosa di identificare la voce
femminile.
Proveniva
di fronte a lei. Cercò con lo sguardo di spezzare il buio che la divideva da
lei.
«Io non
ho nome perché non esisto. E chi non esiste non ha nome.» rispose con un
aforisma, mettendo in confusione la mente, già sforzata, della donna dai
capelli corti.
«Silenzio!
È vietato parlare!» la guardia passò nel corridoio angusto che divideva le due
celle, e la voce misteriosa stesse in silenzio.
Nemmeno
si accorse di essersi addormentata rivolta verso le sbarre.
Giorno 8
Parlare
con quella voce calda la faceva sentire… bene. Un conforto nell’anima e nel
cuore che nemmeno si accorse di allungare con il suo suono. Per quei pochi
istanti di collegamento con lei, lei sorrideva.
E
neanche si rese conto che così diventò la volpe del piccolo principe.
«Dimmi…
cos’è quel potere che prende possesso del tuo corpo?» la voce melodiosa, ora
tranquilla, arrivava flebile ma udibile per Elisa.
I suoi
occhi, per metà posseduti dal colore giallo dell’animale, si mossero a guardare
davanti a sé, come ormai erano abituati. Si strinse le mani alle braccia, mani
quasi trasfigurate in zampe.
Il
volto un misto incongruo di uomo e bestia.
E la
voce un suono gutturale e quasi disumano.
«È lei…
mi prende. E quando lo fa… fa male, tanto.» gorgogliò, muovendosi avanti e
indietro col busto, seduta a gambe incrociate. Le catene ai suoi polsi si
erano, poco a poco, spezzate dagli attacchi sempre più frequenti dell’animale.
L’unica
che ancora resisteva alla forza brutale era quella alla gamba sinistra. Quella
che, in pochi giorni, si era infettata per colpa dei pezzi di ferro rimasti nel
suo interno da quel giorno alla luce apparente del sole.
Quel
colpo di frusta l’aveva penetrata in profondità. E ogni giorno erano fitte che
impedivano alla ragazza di dormire sonni tranquilli.
Giorno 11
Fino a
quel giorno la sua fame era rimasta nascosta. Ma un osso, scappato alla sua
fine pulizia e occultamento era rotolato inevitabilmente fuori dalla cella. Le
guardie ci misero poco a collegare le misteriose sparizioni con lei.
Era da
giorni ormai che non aveva più la capacità nemmeno di rispondere a quella voce
che ormai reputava l’unica salvezza dalla pazzia.
I suoi
occhi, colorati di gialli intenso, rilucevano nella gabbia, mentre si muovevano
avanti e indietro.
Avanti e indietro,
continuamente.
Nemmeno un minuto di pace.
Affamati di libertà.
Un
intero squadrone era posizionato di fronte alla sua cella, l’uomo in uniforme
che l’aveva sconfitta ora stava fermo immobile, pompato nel suo vecchio petto,
mentre la guardava muoversi angosciata nel piccolo spazio in cui l’avevano
lasciata a marcire.
Le
forme che quella donna mostrava non erano neanche lontanamente paragonabili ad
un deterioramento del corpo. Esso infatti mostrava muscoli scattanti e nervosi
sotto la pelle scura, zampe affilate e fauci spalancate, pronte all’attacco.
Perché l’animale lo sentiva.
Il sentore della battaglia.
L’unica
senso che si poteva trovare nei suoi gorgoglii continui era il bisogno di
carne. Lo ripeteva, come una litania. La pantera che lentamente prendeva
possesso di quel corpo ormai abbandonato a se stesso.
«Che
facciamo, signore?» chiese un soldato, apparentemente il capo dello squadrone.
L’uomo
sembrò riflettere, continuando a fissare Elisa che intanto osservava quella
carne famelica. Un rivolo di bava inevitabilmente colò.
«Non
darò un uomo in più in pasto a questa belva, sicuro.» rispose, mentre il
comandante con il bastone in mano aspettava l’ordine del maggiore.
«Ma è
vero anche che non possiamo tenere questa bestia così piena di energia rilegata qua sotto. Ne abbiamo
fortemente bisogno… ora che siamo a pochi passi dalla nostra meta.» l’uomo
parlava tranquillo, mentre la mora continuava a guardare quell’uomo con gli
occhi gialli iniettati d’odio e fame.
«Io le
darei ciò che vuole.» affermò dunque l’uomo.
«Cosa?»
chiese il capo al suo fianco, guardandolo sbigottito.
«Diamogli
ciò che vuole: carne. E visto che prediletta quella umana, beh…» l’uomo si
voltò, cercando apparentemente una vittima da darle in pasto.
«Datele
lei.» fece, indicando la cella frontale a quella di Elisa.
La
bestia continuava incessantemente a camminare, affamata. Fu quasi con gioia che
vide la carne tanto ambita pararsi davanti a lei, a disposizione di zanne.
Un
corpo fatto di carne, ossa, cuore e sangue.
Una
ragazza magra, dai capelli ricci e occhi castani, colorati di vivo terrore.
Quando capii che proprio tu avresti deciso la mia orrenda
fine…
… ebbi paura.
Per la prima volta, da quando sono rilegata qui, ebbi paura.
Paura della morte… ma non di te.
… perché sentivo che, in fondo al mio cuore…
Che infondo a quegli occhi profondamente gialli, ci fosse
ancora un po’ di terra calda.
Quel colore di cui, subito, io, me ne innamorai.
Ecco un
altro capitolo, partorito a fatica per colpa del Natale e delle sue cene da reggimento.
>.<
a buon intenditore…
Ringrazio
Adhara per
i suoi commenti, sempre azzeccati e accorati… fatti col quel cuore che io, beh…
non posso non pensare d’amare…
E
ringrazio hacky87 che, stranamente,
mi insegue dappertutto O.o paragonabile ad Hachi quasi XD (speriamo che tu colga il collegamento ^_^)
Il
capitolo successivo potrebbe essere pubblicato con un lieve ritardo, colpa
delle festività e soprattutto della pigrizia della scrittrice >.< (dovuta
alla digestione ancora in corso del cenone di Natale ç_ç)
Buon
Natale a tutti! (anche se in ritardo… sorry)
E Buon
Anno a tutti! (per questo faccio ancora in tempo ^_^)
Gli
occhi gialli, annegati nell’oscurità, scrutavano con ingordigia la nuova
entrata. Il respiro calmo e bollente dell’animale era strano in confronto con
quello accelerato e breve della ragazza appena entrata.
Muta,
osservava la bestia con occhi sgranati, mentre le sue mani sfioravano la
superficie ruvida del muro umido e sporco. Lo straccio che ricopriva la sua
pelle era larga, una tunica sporca e rozza.
Quando le
diedero una piccola spinta per poi chiudere la porta con un rumore secco
sobbalzò spaventata, emettendo un piccolo squittio.
Gli occhi
castani di lei ancora non si erano staccati da quelli della bestia. Quel giallo
che la incantava e le insinuava la paura nell’animo.
Scivolò
lentamente verso l’angolo, tentando di aderire il più possibile alla parete. La
bestia, con il respiro mischiato al rantolo di fame, chiuse con rumore secco la
mascella, i denti che stridevano. Poggiata pesantemente sulle zampe, quasi
fossero stanche di reggere quel corpo.
«Buon
appetito mostro.» mormorò, mentre l’uomo, seguito poi dall’armata, se ne
scivolava tranquillo verso l’uscita.
Gli
ospiti della cella nemmeno badarono all’affermazione dell’uomo. La bestia ormai
era completamente dedicata alla sua cena. La lingua andò a leccare i baffi. E il
cuore già impazzito della giovine accelerò il suo battito. Una mano sporca e
graffiata corse al collo, afferrando una catenina quasi invisibile sulla pelle
scura.
Elisa,
completamente rapita dall’animo della pantera, si mosse, muovendo un passo
verso la sua vittima.
Cacciatore
e Vittima.
Ma
chi è veramente la Vittima, qui?
Al
collo una pietra blu, con una forma quasi simile alla figura del cuore.
Chi
è il Cacciatore, Elisa? Tu, forse? Non eri Vittima, prima?
Le labbra
si schiusero, tremolanti. La bestia spalancò le fauci, lenta nei suoi movimenti.
Forse perché convinta che non la preda
non scapperà.
La
pietra si rifugiò nel pugno della ragazza, stretta con forza. Una lacrima che
lenta scivolava sulla mascella, disegnando un singolare percorso pulito sulla
pelle.
Sei
sicura che è questo il destino di un Cacciatore e della sua Vittima, Elisa?
Lo
sguardo giallo determinato della bestia, a pochi centimetri dal volto della
giovine, si soffermò sul percorso della lacrima. Seguendola con lo sguardo e,
stranamente, anche col cuore.
Fu
quando la lacrima cadde dal suo viso, che gli occhi gialli tornarono a quelli
castani. Si immersero in essi. Annegarono dolcemente in essi. Si persero in
essi.
Può,
dopotutto, la Pantera risparmiare la sua Vittima? Può tralasciarla, magari
consolarla…
La mano
della ragazza, tremolante, si avvicinò alla testa della bestia. L’istinto di
prenderla e morderla si impadronì della pantera. La testa non si tocca. È zona
tabù, è luogo proibito. È delicata, è debole.
Indifendibile.
Eppure le
sue dita secche, calde, tremanti e insicure toccarono la sua pelle. I suoi
capelli. La sua testa. E un movimento dolce, rilassante e per niente doloroso
iniziò a prenderla. E vi si abbandonò. Si accorse poi che la pantera si stava
ritirando. La fame era sparita. Il ruggito stesso della bestia non risuonava
più a gran voce nella mente della giovane dai capelli corti. E ricordando il
proprio nome, ne prese possesso e coscienza.
Fu
quasi con stupore che la giovane vide la donna riprendere forma tale. E pure
coscienza. Con il sottofondo di fusa Elisa si ritrovò a pochi centimetri da
quella ragazza che solo ora ricordava chi fosse.
Nella
mente quel pezzo di ricordo di una giovane fredda, come condannata ad un
destino che lei voleva ardentemente.
Ma ora,
ciò che lei tempo fa aveva visto freddo, ora ardevano. I suoi occhi ardevano.
E annegò
dolcemente in quel castano chiaro, quasi caramellato misto all’oro prezioso del
miele. Si beò della sensazione dolce che dava.
Cadde a
peso morto su di lei, sul suo petto, accorgendosi solo in quel momento che
aveva ripreso a respirare. A vivere.
Fu con
gli ultimi istanti di coscienza prima dell’oblio che si accorse, con enorme
sorpresa mista a gratitudine, che le sue mani stringevano dolcemente il suo capo.
S’addormentò
con il rumore sordo del suo cuore all’orecchio.
Può
la Pantera abbandonarsi alla Vittima?
Può
darle il potere di toglierle o di lasciarle la vita così?
…
può concederle quella libertà?
Fu un
movimento dolce a svegliarla. Aprendo gli occhi, ritrovò all’oscuro della cella
una presenza in più.
Una persona
in più di lei.
Una
ragazza.
Una
donna.
Si
mosse, ricordandosi il dolore ormai quotidiano della gamba. Ma fu portando la
mano alla ferita, che la trovò avvolta da un straccio.
«Cos…?»
provò a dire, ma ne uscì solo un lieve sentore di parola, arrochita.
La
ragazza stava seduta davanti a lei, poggiata sulle gambe.
«Mi
sono permessa di curartela… dopotutto non ti sei lamentata nemmeno un istante
nel sonno.» rispose, con una voce melodica, sul volto un sorriso.
E nella
sua mente quella voce era lei. Quel
filo che la tratteneva dalla follia. Quella voce che non aveva mai avuto volto.
Che situava dall’altra parte del corridoio.
«M-ma tu sei…» questa volta la voce risuonò più forte, più
udibile e più comprensibile.
E poi s’ammutolì.
Perché il suo sguardo era caduto sul sorriso. E persino la mente si spense. I ricordi
s’acquietarono. E un lieve brivido scese lungo la schiena, mentre fissava le
sue labbra.
«Io
sono cosa?» chiese, lievemente imbarazzata dallo sguardo della giovine,
leggermente troppo concentrato sulle
sue labbra.
La sua
voce fece ritornare lucida la piccola pantera.
«Tu sei…»
e issandosi con fatica con l’indice indicò al di là delle sbarre, al di là del
corridoio.
Fu con
armoniosa bellezza che i suoi occhi s’oscurarono per poi illuminarsi della
comprensione. Quegli occhi castano chiaro.
“è
bellissima.” E quel pensiero venne quasi con naturalezza assorbito e reso
verità indissolubile.
«Oh,
sì. Ero io la voce che ti parlava al di là del corridoio.» rispose.
Elisa,
tentando di issarsi su con le braccia per sedersi, vide le proprie braccia
tremare come budino, per poi vederle crollare.
«Aspetta,
t’aiuto io…» e con sicurezza l’afferrò dalle spalle, per poi aiutarla ad
adagiarsi sul muro lì vicino.
La fissò,
guardandola mentre dolcemente la prendeva e l’accompagnava al muro. La guardò
stranita, quasi fosse inusuale. Quando gli occhi di lei si scontrarono con i
suoi, li rifuggì con imbarazzo. Sentì le gote arrossarsi.
“Chi
sei tu? Questo essere che arrossisce nello scontrare uno sguardo d’una ragazza?”
pensò, mentre guardava ancora stranita la gamba, accorgendosi che era veramente
bendata bene. Una benda che non sapeva da dove provenisse.
“… In
che cosa mi ha trasformata? Che cosa m’ha fatto?” si domandò, mentre vide la
ragazza alzarsi per andare a prendere il mangiare dalla guardia. Notò che la
tunica era più corta. Arrossì di nuovo, mentre osservava il suo movimento
sinuoso e ammaliante.
«Non ti
ha ancora fatto fuori, ragazzina?» chiese l’uomo, sghignazzando. Le passò con
rabbia la ciotola.
«A
quanto pare no.» rispose atona, con un lieve tono sarcastico nella voce, mentre
afferrava l’oggetto. Attraverso le sbarre l’uomo l’afferrò per la tunica,
facendole cadere il piatto con un sonoro rumore. Un moto di rabbia prese Elisa
mentre osservava le sue mani sfiorarle il viso.
«Vedrai
che prima o poi lo farà. Quella lì che accudisci con tanto amore, ti sbranerà. Dopotutto
è soltanto una bestia.» rispose, guardandola. E lo sguardo cadde quasi inesorabilmente
allo spiraglio che la tunica lasciava.
«Lasciami!»
fece la ragazza, tentando d’allontanare l’uomo con gli occhi accesi di una
frenesia disgustosamente pericolosa. L’uomo non la badò, guardandosi a destra e
a sinistra.
«Penso
che una cosa veloce la possiamo fare, piccolina, se non fai troppe storie.» rispose,
prendendo con frenesia le chiavi dal mazzo, lasciando la ragazza che corse dalla
compagna di cella. Elisa le diede la possibilità di nascondersi dietro di sé,
mentre lentamente si era alzata. Con una mano appoggiata al muro le gambe
tremavano, deboli nel reggere quel corpo pesante. Lo sguardo iroso fissato all’uomo
frenetico.
Il rumore
secco della porta che si apriva fece sussultare la ragazza, e la donna dai
capelli corti sentì le sue mani stringerle i vestiti con forza. La sua mano
libera la strinse al suo fianco, portandola ancora più dietro sé. La sua mano
sopra la propria. E ancora quel brivido. Ancora quel lieve sentore di frenesia
sconosciuto.
L’uomo,
socchiudendo la porta si fermò di fronte alla donna dai capelli corti.
«Spostati,
bestia.» mormorò, mostrando il bastone elettrizzante.
Ma la
donna non si scompose, scrutandolo con gli occhi scuri. L’uomo, veloce come un’anguilla,
le colpì una gamba, quella ferita, facendola capitolare. Un mugugno di dolore
le uscì a tradimento, mentre si stringeva la gamba ferita a terra.
«Finalmente
mia, piccolina.» mormorò l’uomo con voce vorace. La strattonò con forza,
obbligandola all’angolo, mentre tentava di bloccarle i polsi con una mano sola.
«Lasciami!
Non mi toccare!» urlò disperata.
“La sua
voce. Lontana, eppure così tangibile. Sento il rumore delle sue lacrime. La sua
disperazione.” E con quello Elisa esplose, gli occhi per un momento
completamente gialli.
L’uomo,
con la vittoria ormai in pugno e le braghe quasi calate si sentì strattonato
dalla maglia. Sollevato in aria, il volto della bestia a pochi centimetri, che
ruggì con forza, mostrando le zanne.
La guardia
urlò come una donnina, mentre la bestia la lanciava contro le sbarre,
piegandole al colpo. L’uomo cadde a peso morto, stordito. La bestia ritornò a
quattro zampe, guardando l’uomo e poi la porta aperta. Portò lo sguardo alla
giovane, ancora spaventata da ciò che le stava per accadere. Guardò gli occhi
spezzati della bestia e vide che la testa le faceva cenno di uscire dalla porta
aperta.
Fissò
per tanto tempo la porta socchiusa, e poi gli occhi scuri e gialli della
bestia. E il suo cuore decise.
«I-io non me ne vado… senza te.» rispose con voce tremolante
ma spirito fermo, ribadendo il concetto scuotendo la testa.
E fu
con lo scalpiccio delle guardie che accorrevano al rumore avvertito che la
bestia, in un certo qual modo, sorrise. O almeno sembrò, secondo la ragazza dai
capelli ricci.
La
ragazza scivolò nell’angolo, sedendosi stringendosi alle gambe. Le guardie,
notando le condizioni del compagno tentarono di riprenderlo, chiudendo la porta
dietro di loro. Con lo sguardo assassino la bestia osservò le guardie
allontanarsi dubbiose e spaventate. Quando tornò la quiete Elisa riprese forma
umana, seguita da un rumore di ossa scricchiolanti e gorgoglii sommessi.
La ragazza,
stretta nel suo pianto silenzioso sentì una mano stringerle affettuosamente il
capo. Quando alzò lo sguardo bagnato, singhiozzando leggermente, vide il cielo.
La luce. Il sole. La luna e la
terra sorridere.
Fu
quasi con naturalezza che si abbandonò nelle sue braccia, piangendo disperata
come non aveva mai fatto. Cadendo in quelle braccia calde e forti che la
stringevano con fermezza e dolcezza. Inspirò a fondo il suo odore, mentre
annegava nel suo petto.
Assaporai l’odore di casa.
Percepii la sensazione meravigliosa di sicurezza e calore.
Quel calore che non ho mai sentito.
Cosa mi sta accadendo?
Sai
Elisa, ho sempre saputo che tu avevi qualcosa di magico… qualcosa di speciale.
Qualcosa
che non si poteva insegnare, né imparare. Qualcosa che è insito nell’animo
umano.
Quel
particolare aspetto che ti rendeva brillante ai miei occhi. Così bella e magica
da paragonarti ad un angelo.
…
Tsk, e tu pensavi che fossi io, l’angelo. Solo perché
assomiglio ad un angelo non significa che lo sono, Elisa. Ma la tua stupida testardaggine
ormai mi aveva etichettato come tale. E visto che ti conosco bene - più che
bene oserei dire - te lo lasciavo fare. Dopotutto quando ti metti in testa una
cosa, è quella. Punto.
Solo
perché avevo gli occhi color del cielo non significa che gli appartengo, Elisa.
Solo
perché avevo i capelli color dell’oro non significa che abbiano lo stesso
valore, Elisa.
Ma
tu ne eri fortemente convinta. Davi valore a cose che valore non avevano.
Ma
il solo fatto di darglielo, un valore, esso d’un tratto diventava più prezioso
di una gemma.
Mi
hai fatto apprezzare per quello che ero, Elisa.
Quella
tua stupida magia… aveva incatenato persino me. Con quegli occhi color terra. Quella
terra calda, accogliente e fertile.
Dio…
sei capace di esprimere così tanto con quegli occhi Elisa, che nemmeno te ne
rendi conto.
Cacciatore e
Vittima. Ho forse invertito il giusto col sbagliato?
Ma alla fine,
cose’è giusto e cos’è sbagliato?
Il tuo
profumo mi ha stregato…
… e quegli
occhi castani mi hanno fatto tua.
Ma io non
posso essere amata.
Un mostro non
è degno d’esser amato…
… soprattutto
da te.
Elisa
sedeva nell’angolo più lontano dalla porta, con la schiena appoggiata al muro.
Le braccia stringevano dolcemente il corpo gracile e ancora singhiozzante della
ragazzina. Le gambe abbandonate nella loro lunghezza sul pavimento sudicio, la
gamba ferita ancora ancorata alla catena fissata al muro. Lei si era
raggomitolata nella sua stretta, come un gatto tenta di mantenere il proprio
calore. Si era dolcemente addormentata, sentendosi al sicuro tra quelle braccia
avvolgenti e calde. Quanti brividi dolci percorrevano quella donna in quel
momento. E più ne sentiva, più ne voleva.
Il
triste percorso delle lacrime avevano lavato una buona parte del suo viso, e le
mani, strette quasi con paura al suo braccio, mantenevano ancora la forte
presa. Mosse una gamba, poggiandola sul piede. Il movimento disturbò il sonno
della compagna di cella, facendola leggermente mugugnare. Elisa sorrise,
scusandosi silenziosamente, passandogli una mano nei suoi capelli. Erano dolci,
morbidi ricci che cadevano fin quasi a metà della schiena. Fu scostando una sua
ciocca che vide un segno alla base del collo. Non una cicatrice, ma una
parvenza di tatuaggio. Una croce posta sopra una specie di girandola a quattro
capi.
Lo
sfiorò, incuriosita, ma facendo ciò svegliò la ragazza di soprassalto. La
ragazza scattò immediatamente lontana da lei.
«Che
stavi facendo?!» le chiese, guardandola irata. A un metro da lei, a carponi.
Elisa si perse nei suoi occhi per poco prima di rispondere con una domanda.
«Cos’è
quel tatuaggio che hai sul collo?» chiese, guardandola con curiosità mista a
lieve eccitazione. La sua pelle era morbida come aveva immaginato.
«Io non
ho nessun tatuaggio… è una voglia, quella che hai visto, niente più.» rispose,
mettendosi apposto i capelli in modo nervoso, lo sguardo basso.
«Menti.»
affermò Elisa, rimanendo composta. Gli occhi marroni che tentavano d’avere
l’attenzione dei colori gemelli.
La
riccia iniziò a giocare con una ciocca, sedendosi a gambe incrociate davanti
alla mora, non avendo il coraggio d’alzare lo sguardo.
“Non ci
riesco… non riesco ad alzare gli occhi e a dirle una bugia.” E mentre pensò
questo lanciò una sguardo alla compagna, notando che la fissava. Abbassò gli
occhi, sentendo le gote arrossarsi.
“Che
cosa mi sta facendo?” si domandò, continuando a giocare con la ciocca.
Rigirandola nelle dita affusolate, mentre Elisa continuava a fissarla. Quando
la sua attenzione slittò su altro.
L’uomo
in uniforme la stava osservando dalle sbarre piegate, proprio di fronte a lei.
Lo guardò come la tigre guarda il proprio carceriere. Con odio. L’elettricità
usciva così potente dai suoi occhi che persino la riccia lo sentì, e seguì lo
sguardo assassino fino al suo destinatario.
«Si può
sapere cosa vuoi, mostro? Ti ho dato la carne che tanto desideravi, ma a quanto
sembra non è di tuo gusto…» parlò l’uomo, guardando con disprezzo la donna
seduta e buttando un occhio alla castana, subito scattata al fianco della donna
dai capelli corti.
«La
libertà.» rispose dopo un po’, percependo il suo tocco vicino alla spalla. Di
nuovo quel brivido.
L’uomo
sghignazzò, per poi iniziare a camminare intorno alle grate quasi divelte.
«… come
puoi notare, posso controllarmi… se mi dà una buona motivazione.» disse,
tentando di guidare quel discorso.
«… una
buona motivazione?» ripeté, smettendo di camminare e appoggiando di nuovo lo
sguardo alla donna, che rimaneva seduta, nell’angusta cella.
«Mangio
per non esser mangiata. Uccido per non esser uccisa.» mormorò, facendosi lo
stesso udire dall’uomo impettito.
«Tsk, questa è solo una stupida legge. Si uccide per
mangiare.» rispose il capo.
La
donna, passò lo sguardo sugli occhi scuri della compagna, sorridendo
lievemente.
«Ma c’è
chi uccide per molto meno. Io uccido se qualcuno minaccia la mia incolumità o
quelle d’altri. E poi, proprio per ultimo, per mangiare. Mai per altro.»
rispose la donna, riportando lo sguardo all’uomo, che la fissava stupito.
«Vana
gloria. Arriverai anche tu, prima o poi, ad uccidere per soldi, per potere… o
per vendetta.» buttò l’uomo, in preda a insanguinati ricordi. La mano che si
grattava il mento.
La
donna non rispose, ferma nelle proprie convinzioni. Desiderava la libertà, e
non sarebbe andata di certo a patti con quell’uomo.
«Avrai
la libertà, donna. Ma in cambio di cibo e acqua dovrai lavorare nella miniera
dove lavorerà anche la tua amica.» affermò l’uomo, guardando negli occhi la
donna dai capelli scuri. Elisa sentì un sussulto della compagna alla parola
“miniera” ma non vi badò. L’importante era uscire da quel buco.
«Va
bene. » accettò la donna, alzandosi, pronta per andare. La mano di lei che
stringeva con forza la sua maglia.
«Stammi
vicino e non ti succederà niente.» sussurrò la mora, portandola dietro di sé.
La porta s’aprì, e un uomo senz’armi entrò tutto tremolante con in mano un
grande mazzo di chiavi. La donna lo guardò, fredda, ma non dimostrò
aggressività. La guardia con velocità le liberò la gamba, indugiando sui
polsini già rotti. Con un certo sollievo Elisa si massaggiò la gamba, notando
già la pelle rovinata dal continuo strofinamento del ferro su di essa.
Le
imposero di uscire, pungolandola con i bastoni elettrizzanti. Bastò un ruggito
per non sentire più la loro punta fastidiosa. Percorsero tutto l’angusto
corridoio, salirono delle scale. Elisa ebbe delle difficoltà nella salita, per
colpa della gamba, ma con l’aiuto della compagna senza nome riuscì ad arrivare
fino in alto.
«Grazie…»
mormorò sorridendole. Ricevette un sorriso mesto come risposta.
Lo
sentiva. Aveva paura. Gli occhi di lei sfrecciavano veloci da una guardia
all’altra, e le sue mani stringevano con forza la vicina.
Arrivarono
in una grande sala bianca. Quel bianco luminoso accecò lievemente le due
prigioniere, abituate all’oscurità delle celle. Entrarono poi in un corridoio,
inoltrandosi in un labirinto in cui Elisa perse subito l’orientamento. Vennero
poi spinte in una aperta al buio. La donna dai capelli corti capitolò, e la
compagna cadde sopra il suo petto. I loro visi si stavano per scontrare, a poca
distanza l’una dalle labbra dell’altra. E la tempesta dei brividi di Elisa
esplose, guardando le sue labbra con così forte desiderio che la voglia di
prenderle e averle diventò più forte della sua coscienza. Ma si alzò veloce la
ragazza, diventata tutta d’un tratto rossa.
Elisa,
riprendendo mano a mano il controllo di sé s’alzò anch’essa, tossendo
fintamente.
«Scusa…»
le mormorò la ragazzina, guardando il pavimento, ricoperto di paglia. I piedi
nudi iniziarono a muoversi, e le dita, birichine, si stringevano.
«Fa
niente… dove siamo?» chiese la donna, guardandosi intorno. Ora che lo sguardo
iniziava ad abituarsi, notò una stufa di medie dimensioni, e tutti intorno
letti fino a dove la luce delle fiamme riuscivano ad arrivare.
«Siamo
nel dormitorio.» rispose la ragazza, con tono amareggiato. Osservò cupa i letti
disfatti, quando entrambe sobbalzarono all’aprirsi della porta. Un gruppo di
ragazze entrò, tutte d’altezza media-bassa, a parte alcune alte tanto quanto
Elisa o forse di più. Le donne appena entrate mostravano tutte una giovane età,
scure di capelli e di occhi. Occhi spenti, notò Elisa. Sconfitti. Amareggiati.
Quando
si accorsero delle due nuove entrare rimasero un poco sorprese. Una donna passò
in mezzo al gruppo, facendosi spazio, portandosi proprio di fronte alla donna
dai capelli corti.
Questa
ragazza, dai capelli lisci e scuri, vicini al nero, la guardava con arroganza.
Quasi con rabbia. Gli occhi scuri, quasi neri, irati.
«Chi
sei tu?» chiese con prepotenza.
Elisa
sentì subito un moto d’antipatia verso la donna che si comportava come il capo
della combriccola di ragazze.
«Elisa…
e sono venuta per salvarvi.» rispose, osservando conla medesima forza quegli occhi scuri. E in
fondo vi vide una piccola paura. La donna sghignazzò e d’un tratto notò una
somiglianza con l’uomo altezzoso di prima.
«Tu,
salvarci? Ma non farmi ridere!» rispose, passandole oltre, urtandola con la
spalla. Il resto delle ragazzine, che avevano assistito inermi a ciò che era
appena successo, la oltrepassarono senza badarla nemmeno d’uno sguardo. Gli
occhi bassi.
Elisa
rimase stupita di come quelle persone fossero sconfitte.
Si
diressero verso i giacigli, buttandosi sotto le leggere coperte concesse a
loro. Elisa rimase l’unica in piedi, ancora shockata.
«Ve lo
dimostrerò.» disse a voce fiera, sedendosi davanti alla stufa e di fronte alla
porta, determinata nel fare la guardia. Sentì lo stesso però, sul suo capo, lo
sguardo bruciante della giovane senza nome.
Era
tardi. Lo sentiva, che ormai era notte fonda. Ma uno spiffero di vento
stranamente la rapì.
“Vento?”
si domandò la giovine, guardandosi intorno. Buttò un occhio verso la giovane
dai capelli ricci, prima di scrutare il buio più totale con gli occhi spezzati
di giallo. La caverna in cui erano state buttate era enorme. Talmente alta e
profonda che persino la vista acuta della pantera non riusciva a spezzare il
buio che oscurava quella enorme stanza. S’alzò, guardando la porta indecisa e
poi le ragazze assopite alla grossa.
Diede
un ultimo sguardo alla piccola ragazza dai capelli ricci tutta rannicchiata per
mantenere il calore sotto una coperta lisa e sporca prima di trasformarmi e
scomparire a grandi falcate nel buio.
Ma
pochi minuti dopo che la donna era stata inghiottita dall’oscurità, la porta
s’aprì rivelando una figura sinistra.
Elisa
correva a grandi falcate, fermandosi alcuni secondi per annusare l’aria.
Odore
salmastro. Un odore che ricordava nella sua mente una cosa da tempo
dimenticata.
“Impossibile…”
mormorò, riprendendo la corsa, con falcate ancora più forti.
Quando
sentì un folata di freddo investirla completamente.
«No,
non mi toccare! Lasciami!» la ragazza dai capelli ricci tentava in ogni modo di
allontanare l’uomo di ieri che aveva tentato di possederla. Il ghigno dell’essere
si poteva scorgere dalla poca luce che la stufa emetteva. Le compagne che, in
silenzio, stavano immobili aspettando che la tragedia avvenisse. Implorando, sempre in silenzio, che non
venissero prese di mira loro. Sperando
che l’uomo trovi soddisfazione in solo quella vittima e non in altre. Ringraziando che, per quella volta, non siano state scelte loro, come sfogo.
Una
vista panoramica dall’alto incantò Elisa, facendole sentire un’esplosione
silenziosa di emozioni ambivalenti nel cuore. Una distesa di pietre grigie e taglienti
possedeva la maggior parte della superficie visibile ma, in lontananza, poteva
scorgere i palazzi alti della sua
città. La sua base. E poco più in là
la foresta di Ros.
Poté
scorgere, poco più in basso di lei un sentiero stretto tra le pietre, che
puntava dritto alla città. Il desiderio di imboccare quel sentiero e tornare
indietro fu grande. Ma fu un presentimento che la fece ritornare indietro, a
grandi falcate.
«NO!
Lasciami! Aiuto!» la riccia urlava, tentando di dimenarsi mentre l’uomo la
buttava a terra, obbligandola al pavimento.
«Zitta
puttana! Mi prenderò ciò che voglio quando lo voglio! E stavolta non ci sarà la
tua amica bestia a salvarti! Morirà di sicuro, visto che si è inabissata nel
buio!» rispose l’uomo mentre con la mano teneva strette le sue mani sopra la
sua testa. Le lacrime che scorrevano, lo sguardo fisso al buio liquido nei
meandri della grotta. La presenza dell’uomo che le bloccava le gambe aperte.
«No…»
supplicò con la voce, con il singhiozzo nella gola. La mano frettolosa dell’uomo
che si sganciava la cintura. Il sorriso che prendeva il suo volto non sarebbe
da comparare nemmeno ad una bestia.
La
ragazza aveva ormai abbandonato le speranze. Cercando con lo sguardo un aiuto
nelle ragazze intorno a lei, nascoste sotto le coperte.
Incontrò
gli occhi scuri della giovane di prima, che aveva deriso Elisa e la sua
missione di salvataggio. Sembrano dicessero “te lo avevo detto”. Un rimprovero
che non aiutava, né insegnava.
Pianse
ancora, tentando invano di sfuggire alla presa ferrea dell’uomo, se così si può
chiamare.
«Ora
vedrai come godi con questo…» mormorò l’uomo, abbassandosi tutto tremolante per
il piacere le braghe. Ma l’unica cosa che la ragazza vide fu la testa dell’uomo
afferrata da una zampa nera.
E un
ruggito così minaccioso che uccideva al solo sentirlo.
Ma,
soltanto per lei, urlava la salvezza.
Urlava
realtà.
Urlava verità.
Non dormii più notti tranquille se non tra le tue braccia.
Il terrore di svegliarmi ancora da sola per colpa di un corpo
bisognoso solo di piacere mi uccideva.
La paura profonda di perderti, nel sonno, mi impose le tue
braccia come coperta.
E il tuo cuore come cuscino.
E mai giaciglio fu sì dolce e caldo…
… come te.
Mi
hai sempre parlato della tua vita passata Elisa. Quella ragazza il cui padre
rendeva disgustosamente succubi sia la madre che la figlia. Distruggendole
mentalmente e fisicamente. Donando a loro solo dolore.
Mi
è sempre morto il cuore, amica mia, sapere questo di te. Ogni volta che ti
sentivo narrarla, con quella voce quasi triste, malinconica, le mie mani
tremavano. E non per la paura nella tua voce, ma per la foga di poter tornare
indietro e riparare a questa “ingiustizia”.
Sei
una persona così fantastica, dolce e buona come un pezzo di pane… pensare che
hai sofferto così tanto mi fa solo salire la bile.
“Ma
ora è passato.” Mi dicevi sempre. “Non puoi cambiarlo”. E sorridevi.
E
le mani smettevano di tremare, quando sentivo le tue mani prenderle. Svaniva la
rabbia, con quel calore.
E
i tuoi occhi, così spenti in fondo, bruciavano.
Hai
sempre avuto un profondo senso della giustizia. E del giusto e sbagliato.
Non
della morale, quella serve solo a rompere e a traviare queste parole del loro
significato.
Ma
parlo di quella forza tale da impedire l’accadere di episodi negativi. Quella forza
che impedisca all’uomo di ridursi peggio di una bestia.
Ho
visto la tua anima soffrire, davanti alla mia morte.
Ho
sentito il tuo urlo di dolore, di fronte alla mia salita in cielo.
E
mi spiace.
Ti
ho visto torturarti l’anima, e qualche volta anche il corpo, per essere quel
mostro che tu non volevi diventare.
Un
mostro, pensi di essere?
E
cos’è, Elisa, un mostro?
Solo
perché muti d’aspetto pensi di essere una creatura abominevole e a cui non si
deve nemmeno la libertà di vivere?
Tu
pensi veramente di non avere il “diritto” alla vita? o, ancor peggio, all’amore?
Se
osi rispondere di sì, amica mia, scendo e ti prendo a randellate finché non ti
riprendi.
Ecco un
altro capitolo. Un altro evento spiacevole, un altro fantastico salvataggio di
Elisa. Una prigione bianca. E un passaggio alla libertà.
Riuscirà
Elisa a mantenere la sua promessa di salvare tutte le donne di quella prigione?
Ringrazio
Adhara di
cuore, sperando che continui ad apprezzare questa storia e questo cuore
malandato, che ama oltre le linee tracciate dagli altri. Che, come Icaro, vuole
volare fino a raggiungere il sole. Peccato che io voglia la fredda luna della
sera.
Ringrazio
Mameofan che,
con la sua meravigliosa recensione, ha acceso un barlume di speranza in me. Pensavo
di scrivere un’emerita bidonata. E invece, con la sua sincerità e cordialità,
mi ha invitato a continuare a scrivere. Ed è proprio quello che ho intenzione
di fare.
Ringrazio
anche Hacky87 Pensi che ora abbiano
un barlume di speranza o no? Lascio a te l’immaginazione ;)
Una donna del
tutto uguale alle altre, deboli, insensibili e… spaventate.
Quando ormai
avevo perso persino la speranza vidi la tua forza diventare tangibile.
Il tuo urlo
di rabbia diventare tempesta.
E la tua
furia colorarsi di nero.
…
Eri così
dannatamente sensuale…
…
Dea, che mi
sta facendo questa donna?
Elisa,
con la presa forte alla testa dell’uomo, lo sollevò in aria. Gli artigli che
penetravano il viso della guardia che, invano, tentava di liberarsi dalla presa
forte della donna pantera.
«Allora
non hai recepito il messaggio.» mormorò, con la voce gutturale. Gli occhi
gialli che fissavano l’uomo che urlava come una donnina di dolore. Il sangue
che colava dai buchi che gli artigli stavano creando. Elisa, sorridendo
sadicamente, strinse lievemente la presa, facendo aumentare gli spasmi
dell’uomo, disperato e dolorante. Senza speranza, l’uomo urlava pietà,
chiedendo d’esser liberato.
La
donna rimase quasi sorpresa delle parole dell’uomo.
«Pietà…?»
chiese, quasi non credesse alle invocazioni dell’uomo disperato.
«S-sì…»
rispose l’uomo, con le mani che tentavano di staccare l’origine della tortura e
del dolore.
Gli
occhi si riempirono d’un tratto di giallo.
«PIETÁ!?»
urlò ruggendo con rabbia, le fauci spalancate di fronte al viso dell’uomo. I
denti affilati che mostravano tutta la sua spaventosa lucentezza.
Di nuovo mostro.
Di nuovo bestia.
Di nuovo… crudele.
Il
corpo dell’uomo finì sul muro bianco fuori dalla porta, schiantandosi con tale
forza da creare una voragine. Le schegge di legno ancora volavano nell’aria
mentre il ruggito della ragazza si alzava alto, creando un spaventoso silenzio.
Il giudizio.
La condanna.
Bestia ancora.
Il potere della Morte nelle mani.
La
coppia di uomini in divisa che facevano da sorveglianti alle ragazze
scattarono, spaventati dalla fine che il loro compagno aveva fatto. Si misero
all’attenti, i bastoni elettrificanti al massimo. Le scosse correvano sul
bastone di lucente metallo blu, proprio come scorreva veloce il sangue sul pavimento.
Le interiora dell’uomo si mostravo inermi, mentre l’odore ferroso e
maleodorante di cadavere iniziò a premere nel corridoio.
«Esci!»
urlarono gli uomini, vedendo un’ombra che ferma respirava con forza. Il rantolo
che creava il suo ansimare era così profondo che faceva da sottofondo. L’unico
respiro che si poteva udire veloce tanto quanto il suo era quello della ragazza
sul pavimento, sollevatasi sui ginocchi e stringendosi le braccia con forza,
tentando di fermare le lacrime che scorrevano.
I passi
felpati non vennero uditi dagli uomini, che videro solo un illusione di
fantasma colorato di morte fulminare verso di loro. Un uomo si ritrovò
trapassato da parte a parte da un braccio. La zampa nera usciva dalla schiena
dell’uomo, nella presa ferrea la spina dorsale insanguinata. Un rantolo
indefinito uscì dalla gola dell’uomo, spirando sul colpo. Non soddisfatta, la
bestia staccò di netto la spina osservando il corpo annichilire su se stesso.
Lasciando cadere l’osso rosso di sangue, portò lo sguardo all’unico superstite,
rimasto inorridito dal gelido omicidio commesso di fronte ai suoi occhi. Il
sudore freddo colava veloce sul viso, mentre le mani iniziarono a tremare.
La
donna s’avvicinò, sicura che la preda
non sarebbe scappata, paralizzata dalla paura.
Sì, perché lo sento…
Un
ghigno brutale, misto tra ciò che ancora rimaneva di umano all’animale che
predominava.
… puzzi di paura.
Sobbalzò,
quando vide alzare un braccio. E chiuse gli occhi, aspettando inconsciamente la
fine. Ma si sentì solo afferrare la mano, per depositarci sopra qualcosa di
viscido, caldo e consistente. Quasi con timore, aprì lievemente gli occhi,
guardando l’oggetto inorridito. E uno spasimo di terrore uscì lieve dalla sua
gola.
Sulla
mano i resti ancora caldi del pene del suo amico.
«Ancora
una visita del genere, e lo strapperò a tutti voi… qualcosa in contrario?»
domandò, intuendo la risposta dell’uomo che, sobbalzando di nuovo, portò gli
occhi iniettati di orrore a quelli che, in parte, avevano ripreso un pezzo di
castano scuro. Con fatica l’uomo mosse la testa, in un gesto che stava ad
indicare la più totale comprensione.
La
donna continuò ad osservarlo, imprimendogli i suoi occhi gialli nell’anima,
mentre con la coda dell’occhio vide i suoi pantaloni colorarsi di scuro.
«Tsk.»
mormorò, alzando il labbro dimostrando disprezzo. Rientrò nella stanza, la coda
che si muoveva sinuosa e sicura fu l’ultima cosa che l’uomo vide prima di far
cadere, gelato dal panico, l’arma che non era riuscito ad utilizzare.
Rientrando
Elisa vide che la situazione non era cambiata, a parte che alcune si erano
alzate, cercando di avvicinarsi alla ragazza dai capelli ricci, ancora
inginocchiata sul pavimento. Singhiozzando talmente forte da sobbalzare.
Riprese quasi con tranquillità la forma umana.
Due
volte. Si è sentita annullata e resa oggetto in meno di ventiquattr’ore.
Elisa osservò
gli occhi delle compagne guardarla sorprese. Sorprese di vedere qualcuno
combattere per qualcun altro oltre che per se stessi. La donna che prima
l’aveva contestualizzata era seduta su un letto, guardando con freddo distacco
le condizioni della giovane compagna di dormitorio.
Elisa,
disgustata dal comportamento del gruppo di ragazze si pulì velocemente le mani
in una coperta inutilizzata per poi dirigersi con ansia verso la sua ex
compagna di cella.
Con
dolcezza le afferrò le spalle, facendola sussultare.
«Calmati…
è tutto finito…» sussurrò con voce dolce. Quel tono calmo e caldo, così
completamente diverso da prima. Dal ruggito della bestia di prima.
La ragazza
levò lo sguardo, con le lacrime agli occhi, incontrando quelli di Elisa.
Terra bruciata bagnata da una pioggia di cristalli.
Scoglio di un mare in tempesta, preda della neve e del
terrore.
Le si
gettò con bisogno nelle braccia, stringendola con forza singhiozzando e gemendo
di paura. Una paura che Elisa era uscita a sbaragliare di nuovo.
«È
tutto finito…» continuò a sussurrare, accarezzando i suoi dolci ricci,
muovendoli dolcemente. Le sue lacrime che bagnavano la sua maglia. Si issò in
piedi, prendendo in braccio la ragazza che non aveva intenzione di staccarsi.
La sua stretta prese più forza intorno al suo collo.
“Ha un
così buon profumo…” pensò la ragazza, stringendosi a lei ancor di più. La paura
di rimanere di nuovo da sola che la dominava.
Quando
portò lo sguardo alle ragazze erano tutte in piedi, di fronte a lei, in
silenzio.
«…
quante di voi hanno subito violenze del genere?» domandò schietta, facendo
sussultare quelle in prima fila. Molte evitarono lo sguardo, guardando il
pavimento. Alcune piangevano, di nascosto.
«… oggi
ho salvato lei…» rispose, facendo levare il viso della ragazza nelle sue
braccia, che la guardava dal basso. Gli occhi che si muovevano, tanto erano
pieni di emozioni contrastanti.
«…
domani potrebbero riprovarci… ma io vi giuro
che difenderò ognuna di voi. Dovessi pagare con la mia stessa vita.» parlò,
guardando con forza ogni singola ragazzina nei loro occhi scuri, fissando in
ognuna la sua promessa in silenzio.
«Ora
dormiamo…» disse, dirigendosi verso un letto, poggiandovi la ragazza che aveva
sostenuto tranquillamente in braccio. Un sorriso calmo sul viso.
Fece
per abbandonarla nel letto quando lei non lasciò la presa sul suo collo.
«Non
abbandonarmi.» disse disperata, ancora una lacrima che cadeva. Elisa,
sorridendo, le rubò quella lacrima, asciugandogliela. E si distese vicino a
lei.
«Va
bene…» mormorò, mettendole una coperta sulle spalle. Distesa sulla schiena,
lasciò che la ragazza si accoccolasse al suo fianco, stringendosi tra il suo
busto e il braccio che Elisa poggiò sulle sue spalle. Sentì le gambe strette
dalle sue e la testa sistemarsi meglio sul seno. Sentirla così vicina,
avvinghiata al suo corpo, le mandava, ad ondate continue e crescenti, brividi
incessanti.
Mentre
pensava di passare una ennesima notte insonne la guardò quietarsi e rilassarsi
al dolce battito del cuore della donna.
«Sei
calda…» disse in un soffio appena udibile. Con la coda dell’occhio la vide
sorridere e inevitabilmente Eli
sa non
poté non ricambiare. Mentre una piccola pallina di dolcezza si spezzava, tra lo
stomaco e il cuore, infondendole quella lieve sensazione d’ubriachezza.
Continuando
a guardare il buio soffitto si domandò, per tutta la notte restante, il motivo
di questa sensazione d’allegria immotivata.
…
Ma, con
sorpresa nuova, ogni volta che si voltava trovava la risposta nella pace della
notte della sua compagna.
Iniziai a sentire una sensazione che pensavo persa da tempo.
L’ombra di un ricordo.
E, nelle sue braccia, sentii dentro il mio cuore…
… le parole di una poesia mai imparata,
la foto di un album mai scattato,
le note di una canzone forse mai esistita
e un luogo che inevitabilmente profuma di…
…
… Mele e rose.
…
Elisa, amica mia…
Oh,
sono così talmente felice di leggere queste parole dentro te.
Sorridendo
quasi divertita per la tua incomprensione.
Di
tutte le qualità che hai, Elisa, quella che purtroppo non posso darti è la
velocità di comprensione.
Ma
sai, è proprio nei momenti difficili che la vicinanza di certe persone ti apre
gli occhi.
…
non sei più sola, amica mia…
Ti
sembrerà strano, ma il Destino ha deciso che fosse lei la tua anima gemella.
L’opposto
di te. La metà di quella mela che si spezzò, ai primordi.
…
Ed
è proprio lei che, come dici tu, amerà la “Bestia” che sei.
Tu,
amica mia, sei il primo caso in cui il Cacciatore s’innamora della Vittima.
Ecco un
nuovo capitolo. Una traccia di sogno che ho prodotto.
E una
traccia di profumo che ancora mi inebria e mi ricorda, inevitabilmente, te.
Mele e
Rose.
Ringrazio
Adhara… a cui non so dare altre
parole se non… grazie. Grazie di
quella bellissima domenica. Un sogno che diventa realtà.
Ringrazio
hacky87 che si scalda per la storia
:) proprio l’effetto che io volevo creare… spero che anche questo capitolo sia
di tuo gradimento… ^_^
Ma stanotte,
per qualche strana ragione, han cambiato soggetto e colori.
…
Tu, al centro
del mio mondo,
illuminata da
un bagliore di sole.
…
E una sensazione
di vertigine dolce nel cuore.
M’abbandonai
al sonno con tranquillità.
Quel battito
così indeciso tra il calmo e l’emozionato mi accompagnò nel mondo onirico.
E il tuo
respiro, leggero, quasi timoroso di potermi svegliare.
Eri così
calda…
… non sapevo
fosse così bello dormire con te.
Furono
svegliate rozzamente, prese e trascinate per i corridoi lindi della labirintica
base sotterranea. E giù, verso il basso, dirigendosi quasi al centro della
terra. Una bollente e chiusa miniera si mostrò davanti agli occhi della donna
dai capelli corti, la coda si mosse esprimendo il nervosismo della stessa. Gli
animali odiano i posti chiusi. La pantera che stava trattenuta in Elisa si
mosse contrariata.
Mossero
pietre e massi di ogni tipo e dimensione, smuovendoli e scavando sempre più,
facendole sgobbare tutto il tempo senza mai fermare il ritmo incessante del
lavoro. Il calore della terra si mischiava insieme a quelli dei movimenti delle
donne, spostando enormi secchi ripieni di terra e sassi. Su e giù da quel buco
di terra dove non sapevano il motivo del loro sfruttamento. Elisa tentò varie
volte di avere risposta, ma l’ottenne appena vide una ragazza estrarre un sasso
delle dimensioni di un pugno lucente, strappata subito dalle mani di una
guardia ingorda.
“Oro.
Ecco quello per cui sfruttano queste ragazze. Ecco il motivo della loro
crudeltà.” Un moto di stizza prese la donna, ma la forte sorveglianza non le
permise colpi di testa. Non voleva essere una rivoltosa. Non doveva farsi
mettere in punizione. Aveva delle ragazze da difendere. E venire meno alla sua
promessa non è da lei.
Lavorò,
continuando a star china in quel buco, in mezzo al fango e all’odore di sudore
e terra. Sporcandosi fino all’inverosimile. Quasi non s’accorse che la ragazza
a cui passava i secchi pieni di fango e pietre era la sua ex compagna di cella.
Aveva
gli occhi fissati nel vuoto, spenti. Quasi estraniata dal mondo, compiendo
sempre lo stesso movimento e in silenzio, a capo chino. Elisa fissò gli occhi
nei suoi, facendoli brillare. Se sotto la forte coltra di fango secco avesse
potuto scorgere, avrebbe notato un intenso rossore.
Sorrise
sotto i baffi, mentre la coda s’aggrappava ad un palo e si chinava per scavare
ancora. Acqua.
«Passatemi
un secchio, qui c’è acqua!» urlò, ricevendo un secchio pieno di bozze e senza
manico, sporco di fango. Allungando il braccio si sporse troppo, sentendo la
sua presa sul palo venire meno. Il legno perse la sua solidità, spezzandosi. La
giovine vide il soffitto smuoversi sopra la propria testa, e il terrore di
finire seppellita la ghiacciò su posto, guardando con terrore le crepe
espandersi e minuscoli grammi di polvere scendere sulla sua testa. Fu una
piccola mano sporca a trascinarla via prima che il soffitto cedesse. Quando il
suo corpo riprese di vita, notando i massi giganteschi crollare, iniziò a
correre anche lei, prendendo d’istinto la ragazza dai capelli ricci in braccio. Il
crollo si stava allargando.
«Crolla
tutto! Via di qui!» iniziò ad urlare la donna, correndo agile saltando i massi
davanti a lei. Le altre piccole operaie che iniziarono a correre anch’esse,
tentando di fuggire dal crollo. Le guardie già scampate al pericolo.
Uscite per
miracolo, distese a terra, sentirono un tonfo e un rumore d’acqua. E l’urlo
irato di un uomo dai capelli bianchi in pompa magna.
«La
ronda della notte scorsa è tornata senza risultati, Capo.» parlò un ragazzino
armato di lancia, vestito di verde. La donna dai forti capelli rossi stava
davanti lo schermo, con il pollice e l’indice a coprire la bocca, mentre il resto
della mano avvolgeva il mento. Gli occhi scuri di lei che schizzavano, come
leoni intrappolati in una gabbia di nero cemento. La coda, che presentava un
ciuffo di peli rossastri in punta si mosse, congedando silenziosamente il
soldato, che si dileguò.
“Dannazione
Elisa… dove cazzo sei?!” i pensieri della piccola donna erano immensi, mentre
la coda si muoveva sinuosa, destra e sinistra, come un pendolo che scandiva il
tempo. Un muoversi armonico e fluido, come tutti i felini d’altronde.
La
mappa davanti a lei mostrava percorsi segnati in bianco, rosso e nero. Numerosi
e sottili i tracciati bianchi, spessi quelli in rosso. Il nero, quasi assente.
La
ricerca iniziò subito dopo aver perso le comunicazioni radio con la ragazza dai
capelli corti.
Numerose
le ronde negli angusti corridoi e gallerie presenti in tutte le montagne
rocciose e nel sottosuolo. Ma, fino ad ora, tutte
avevano miseramente fallito.
«Dannazione!»
urlò, dando un pugno al tavolo di plastica, piegandolo leggermente. Giulia,
apparsa dietro le spalle della donna, sussultò, per poi parlare a scossoni.
«C-Capo…
la ronda di Ippolito ha trovato qualcosa…» mormorò la ragazza ghepardo. Girandosi,
ottenne la più completa attenzione della Rossa, creando in lei la classica
tempesta di brividi che ancora non riusciva a dominare. I suoi occhi, due lame
di bronzo nel petto.
«Cosa?»
chiese, mostrando la propria impazienza, avvicinandosi per poterla scrutare più
da vicino. La ragazza, ogni volta che la guardava o le parlava, sussultava. E
sembrava, in certi momenti, che evitasse persino di toccarla.
“Probabilmente
le starò antipatica… l’ho dovuta separare da Elisa e le ho fatto perdere il
proprio Capo…” suppose, mentre fissava negli occhi brillanti la ragazzina, che
tentava di evitare il suo sguardo. La coda che si muoveva a scatti, nervosa.
«Hanno
trovato.. L-la borsa del nostro Capo… stracciata.»
mormorò, a fil di voce, trovando il coraggio di fissare i suoi occhi. E, nel
suo cuore Ros seppe, che la mente della ragazza aveva elaborato le tesi
peggiori. Fu un moto di compassione e dolcezza che la portò ad abbracciarla.
«Non
temere, la troveremo. Dovessi anche morire per riportarvi il suo corpo.»
mormorò, stringendola al collo, sentendo il suo corpo irrigidirsi, per poi
sciogliersi in un pianto liberatorio, ma silenzioso. Il suo leggero pigolio
creò nella ragazza dai capelli rossi una tempesta di brividi che non seppe
riconoscere. Un moto al cuore sconosciuto. Esplose all’interno del proprio
corpo nel momento stesso in cui le labbra di Giulia si giunsero con le proprie.
Ippolito
stava seduto nello scranno fatto di liscia e povera pietra fredda. Aspettava
Lucio, impaziente. Infatti il tacco dei suoi stivali neri provocava un rumore
secco che echeggiava nella sua stanza.
Un uomo
alto tanto quanto lui si presentò, con lo stesso volto serio di Ippolito.
Gli
occhi neri come la brace spenta, ma pieni di fuoco scuro. I capelli portati con
un codino erano rasati ai lati, neri anch’essi e lucidi. Esprimeva una bellezza
proporzionata, da uomo maturo, che raramente si trova in ragazzi giovani come
lui.
Ippolito,
scorgendolo sulla porta, allargò le gambe in modo quasi voluto, mentre Lucio
chiudeva la porta a chiave.
Gli
occhi scuri del Capo rilucevano, mentre il bacino fremeva sapendo quello che
sarebbe successo di lì a poco. Si passò una mano nei capelli lisci, biondi
quasi a sfiorare il bianco.
«Ai
vostri ordini, Capo.» rispose l’uomo, intuendo sin da subito cosa l’altro
voleva. Gli occhi corsero febbrilmente al cavallo dei pantaloni bianchi del
biondo, cogliendoli stretti per ciò che stava sotto di essi. Le sue mani
tremavano leggermente. La mano nivea e ben curata di Ippolito, invece, corse
alla zip dei jeans, abbassandoli sonoramente.
«Sai
cosa fare, Lucio…» parlò l’uomo serio, gli occhi accesi di passione.
«…
muoviti.» intimò, ordinando.
«Chi è
stato?!» urlò il capo in divisa, impettito nella sua linda divisa, in confronto
al colore di fango sul corpo di Elisa. S’alzò, fiera e con occhi di brace.
Passando in mezzo al gruppo di ragazze spaventate e luride di terra. Uscì dal
cerchio, parlando.
«La
colpa è mia.» rispose, sentendo sulle proprie spalle il colore degli occhi di lei. Percepì la presa delle guardie su
di sé. La ragazza tentò di ribellarsi, ma memore della promessa si lasciò
condurre. Obbligata, si mise in ginocchio di fronte al gruppo di ragazze, dando
le spalle al capo. Aveva visto l’uomo con in mano una frusta. Gli occhi di
Elisa fiammeggiarono, mentre i denti si sfregavano tra di loro nella bocca, le
labbra serrate e il respiro veloce. Sapeva, nella sua mente, cosa sarebbe
successo. Lo sentiva, e si abbandonò al suo destino, per l’ennesima volta.
Le mani
stringevano in modo convulsivo i vestiti mentre la striscia di pelle segnava
rozza righe di rosso sulla sua schiena, lacerandole la pelle e i vestiti. Non
urlò, il suo orgoglio non glielo permetteva. Si morse un labbro a sangue, pur di non dare
la soddisfazione a quell’essere mostruoso, anche se il dolore era immane. La
rabbia della bestia dentro di lei urlava, e scalpitava, ma con la poca forza
disponibile in Elisa, gli impedì di uscire. Quando le sue forze venivano meno,
e la rabbia della bestia predominava la sua coscienza, l’unico espediente dal
dolore e dalla furia erano gli occhi dall’unica ragazza che aveva il coraggio
di fissarla, languendo in un pianto silenzioso. Lacrime silenti ma bollenti,
che tracciavano percorsi lindi sulle sue guance, come quel giorno lontano nella
cella.
Quando
l’uomo finì, ordinò con un leggero ghigno di soddisfazione di riportarle nella
loro stanza.
«Domani
lei riparerà al danno provocato.» sentenziò, mentre osservava il corpo della
giovane presa e trascinata dalle spalle verso il corridoio. Il sangue colava
sul pavimento bianco, tracciando silenziose ma sofferte strisce di indelebile
gocce di dolore.
Vennero
portate ai bagni, dove chiuse a chiave, avevano trenta minuti per potersi
lavare, medicare e cambiare di vesti. Elisa, in piedi per miracolo, osservò
l’ambiente, del tutto simile ad un banale spogliatoio. Panche, docce, e
asciugamani. Tutti bianchi, tutti lindi.
Tutto disgustosamente bianco.
Aiutata
dalla sua anonima compagna, si appoggiò alla panchina. Un conto alla rovescia
sui bagni troneggiava sopra la porta, che scandiva quanto tempo avevano.
Il suo
volto, ancora sporco, la guardava timorosa. I tracciati delle lacrime ancora
solcate.
«Non
piangere.» le chiese, sorridendole mestamente. E la ragazza tentò di pulirsi il
volto, ottenendone un nuovo miscuglio di sporco. Con una faccia insoddisfatta
disegnata, provocò nella mora una risata spontanea che risuonò roca per tutto
il bagno. Sembrò come un fantasma di un’era passata. Le ragazze, per quel
secondo avevano smesso di muoversi, di lavarsi. Tutte a guardarla per poco,
prima di riprendere il lavoro. Tutte che tentavano di ricordare la propria, di
risata.
Elisa
non capì la reazione di tutte, ma fu chiaro che a quello non erano abituate.
«Hai
una bella risata, sai?» le disse la compagna dai ricci capelli ancora in piedi
di fronte a lei.
Elisa
sorrise mestamente, mentre tentò di togliersi la maglia per potersi lavare le
ferite prima che si infettino. Ma il dolore le smorzò il movimento a metà,
provocandole un soffio contrario.
«Aspetta,
ti aiuto io…» le rispose l’altra, prendendole i bordi della maglia e
sfilandogliela lentamente. La mora intanto, mordendosi le labbra, represse il
dolore della stoffa attaccata alle ferite fresche. Quando la maglia venne
gettata in una cesta, ormai inutilizzabile, Elisa sentì, in modo tangibile quasi, gli occhi scuri della
sua amica sfiorare e accarezzare la sua pelle. Li incrociò, ottenendo la vista
dei suoi sfuggirle, e un rossore nascosto. Le sue mani che si torturavano tra
di loro, che presto si nascosero dietro la sua schiena.
«Mi dai
una mano a raggiungere una doccia… per favore?» disse poi, spezzando il
silenzio imbarazzante che la ragazza aveva creato. Sussultò quasi e,
continuando a fissare il pavimento, annuì prendendole timorosa un braccio per poi
portarla lentamente ad una doccia.
«Apri
l’acqua calda al massimo. Il calore ammazza i microbi.» aggiunse, ottenendo un
gesto veloce ma tremante della ragazza che correva al bottone.
«N-non vuoi toglierti… i-il resto
dei vestiti?» chiese, fissando i pantaloni e gli stivali. La voce tremante per
un motivo a Elisa sconosciuto. La mora andò sotto il gesto con tranquillità,
ricevendo il getto direttamente sulla schiena. S’irrigidì per poco, ma il sollievo
arrivò presto alle ferite.
«Oh… no
grazie...» rispose, mentre portava anche il volto sotto l’acqua bollente e
benefica, gli occhi chiusi.
“Dea, è
così bella…” i pensieri della giovine dai capelli ricci erano strani. Rimasta
davanti alla donna dai capelli corti sotto il getto, completamente bagnata, nel
suo corpo correvano brividi sconosciuti. Osservò le mani di lei correre sulla
pelle togliendo lo sporco, il reggiseno umido mostrava forme tonde su cui la
ragazza si soffermò per poco, imbarazzata. I pantaloni, bagnati, aderivano alle
cosce disegnate e perfette della donna. Sentendosi quasi una spia nel fissarla,
si portò sotto un getto anche lei, preferendo l’acqua fredda. Aveva fin troppo
caldo in quel momento. E chissà perché, passando le proprie mani sul proprio
corpo, desiderò per un istante che fossero le sue mani, a percorrerlo.
Quando
ne uscì, vide che Elisa non era più sotto il getto. Con un asciugamano avvolto
intorno al corpo pulito si diresse verso una pila di vestiti, prendendone uno a
caso. Dopo averlo indossato in velocità cercò con lo sguardo la ragazza ferita,
ma non la vide.
«Ehi,
quanto sei lenta!» una voce squillante dietro di lei la fece sussultare,
vedendo la ragazza asciutta e pimpante, non più dolorante.
«Ma
come...! La schiena, non ti fa male?!» chiese, guardandola con occhio critico.
Indossava una delle casacche larghe, infilata in parte dentro i pantaloni
lavati alla meglio. Gli stivali erano ancora lievemente sporchi.
«Per
quei graffi! Sono già guarita, guarda!» e con quell’affermazione si girò,
alzandosi la casacca da dietro. La ragazza sentì un colpo al cuore per poi
venir sostituito dalla sorpresa nel vedere la schiena pulita e senza un
graffio.
«Come
hai…?» e, quasi non volesse credere, portò la mano a sfiorare la pelle bollente
della ragazza. Un brivido corse nelle vene della donna pantera, facendola
allontanare dal suo tocco. La coda si mosse, agitata. Un’ondata di caldo nel
corpo che non giustificava.
«Diciamo
che esser infettata porta dei vantaggi… una di questi è la guarigione
accelerata.» fece, sistemandosi la maglia. Un rossore sulle gote.
«… ti
ricordi la ferita alla gamba?» le ricordò la donna, facendo fulminare la mente
della giovine.
«Sì, me
lo ricordo…» rispose, osservando come Elisa si sfilava lo stivale per mostrare
il polpaccio, liscio e senza nemmeno un graffio. Solo un alone bianco, quasi
invisibile, che disegnava la vecchia ferita sulla pelle.
«Wow…»
mormorò, ancora sorpresa. Gli occhi che ancora non si erano staccati dalla sua
pelle.
«Già…
ascolta, quando si mangia? Io sto morendo di fame.» chiese la donna, provocando
un risolino soffocato alla ragazza.
«Quando
usciremo ci porteranno nella mensa…» aggiunse, ma quando notò lo sguardo trasognato
della donna, si sentì avvampare, presa dal solito moto accelerato del cuore.
«P-perché mi fissi?» domandò, balbettando. Inconsciamente si
nascose dietro il ciuffo che le cadeva sul volto. I capelli ancora umidi.
«… la
tua risata… è adorabile.» mormorò, per poi portare una mano a sfiorarle la
guancia, scostando i capelli dietro cui si era nascosta.
Il cuore
pompava così forte il sangue nelle vene che assordò le orecchie della ragazza.
Il resto non lo sentiva, né lo percepiva più. Osservava solo in modo maniacale
i suoi occhi.
E un
desiderio sconcio le entrò nella testa, sorprendendola.
«Sai…
non mi hai ancora detto come ti chiami…» le disse la mora, aspettando che la
ragazza rispondesse.
Ma un
suono cupo e rugginoso fece intuire lo scadere del tempo. La porta si aprì
immediatamente, con le guardie che incitavano con bestemmie e offese le ragazze
a muoversi. Elisa ritrasse la mano, quasi imbarazzata.
Trascinate
ancora per il labirintico corridoio bianco, entrarono in una saletta. Gli
vennero dati dei vassoi contenenti cibo. Elisa, sedutasi vicino alla ragazza
dai capelli ricci mangiò tutta la ciotola. Poi, ricordando la domanda senza
risposta gliela riformulò. L’anonima ragazza quasi si soffocò con l’acqua.
«Te
l’ho già detto…» rispose la ragazza, riprendendosi dalla tosse.
«… non
ho un nome.».
«Tutti
al mondo vengono chiamati con un nome, tu ne avrai pur uno!» affermò, parlando
ad alta voce. Una guardia le ordinò di tacere, ed Elisa abbassò il capo.
«Non ho
un nome t’ho detto… e se vuoi tanto saperlo se devo esser chiamata usano certi
nomi che non sono tanto piacevoli…» rispose sussurrando la ragazza, piluccando
il pane a piccoli morsi.
«… e
allora perché non ti dai un nome tu?» domandò allora la mora, bevendo un
bicchiere d’acqua.
«Perché
non mi serve. A nessuno importerebbe del mio nome, e non lo utilizzerebbe
nessuno, a parte me stessa.» affermò, guardando con tristezza il piatto,
giocherellando con la forchetta.
Elisa
notò gli occhi spenti della ragazza, e soggiunse nel suo animo un moto
d’affetto per lei. Iniziò ad osservare anche lei il piatto, come le era stato
suggerito di fare, mentre passava una guardia di fronte a loro.
Quando
fu abbastanza lontana sussurrò una cosa, prima che intimassero l’ordine di
alzarsi.
«… a me importerebbe.».
Gli
occhi spalancati della ragazza furono il motivo del suo sorriso.
E il
suo sorriso fu il motivo della sua gioia.
Sono
crudele, lo so… ma so quanto possa essere snervante un capitolo troppo lungo,
quindi ho preferito spezzarlo… sperando di non aver richiamato l’odio dei miei
accaniti lettori sulla mia testa ç_ç
Un
ringraziamento speciale alla mia eterna compagna Adhara, che mi segue
costantemente e commenta con le sue adorabili parole. Sei così speciale, che
non saprei chi ringraziare per averti trovato.
Ringrazio
Hacky87 che ormai si scalda ogni
giorno di più per questa storia :-) adoro vedere lettori così accaniti… ^_^ sii
fiduciosa, la tua pazienza verrà premiata… prima o poi XD
Ringrazio
Noir_Sky
che continua a seguire i miei scritti con passione ^_^ i threedaysgrace son un gruppo
mitico *.* aspetto un tuo commento per questo capitolo :-)
Come, come è
possibile staccarsi dal proprio cuore?
Perché la mia
coscienza, la mia razionalità s’ammutolisce quando guardo te? I tuoi occhi…?
Eppure qui,
sotto una pioggia di pietre e polvere, dominata da qualcosa che non so, io…
… non posso
che portarti con me.
Sia la meta
la vita o la morte, non importa.
…
Mi basti tu.
Fu in
una notte che Elisa mostrò la via di fuga alla ragazza dai capelli ricci. In
groppa a lei, stretta con forza alla sua casacca, ormai sporca.
«È… è…
sublime.» balbettò la ragazza, ritornata bambina di fronte all’immensità che
Elisa sì, pensava non avesse mai visto. La luce del sole che veniva a mancare,
nascosto dalle nubi, permetteva una visione della foresta, mentre la luce della
luna permise la visione della città eternamente illuminata, con i riflessi che
spezzavano il buio delle montagne, la neve in alcuni picchi.
La sua
bellezza nell’ammirare la natura colpì Elisa all’imboccatura dello stomaco. E
gli occhi spezzati dal giallo si concentrarono in quelli castani, così presi
nel guardare altrove. Quando si accorsero d’esser fissati passarono su quelli
della donna pantera, ottenendo un leggero imbarazzo sul viso impassibile della
mezza bestia.
Il
rumore udito flebile da Elisa interruppe però quel momento magico. La mano
della ragazza non si era ancora staccata dalla spalla della ragazza dai capelli
corti.
Fu una
corsa forsennata, il grido di aiuto che rimbombava nella grotta per tutta la
sua lunghezza, creando un eco ghiacciante.
Elisa
balzò in silenzio sul gruppo di uomini, mentre tentava di seviziare, ancora, una ragazza. Ci fu meno sangue
stavolta, più fragore di bastoni e fulminate di dolore.
La
scena finale fu, seppur dolorante e tremante, un Elisa che mostrava i denti a
quattro uomini feriti. La ragazza che, terrorizzata, si stringeva ad un’altra
sopraggiunta in soccorso. Se ne andarono così come vennero, in silenzio,
insoddisfatti e combattuti.
Accaddero
altre volte che gli uomini tentassero di soddisfare le loro voglie carnali con
il gruppo, ma Elisa sopprimeva sul nascere queste idee sempre più spesso. Per
poi metter termine alle imprese degli uomini e, se ritornavano, bastava lo
sguardo bruciante e ardente della belva nascosta nel buio per sfumare il loro
misero tentativo.
Grazie
a questa difesa intramontabile il gruppo iniziò ad esser meno teso, e più
aperto alla fiducia e alla comunicazione con la donna pantera.
Nel
buio della caverna e nel silenzio della notte, Elisa parlava sempre fino a
tardi con la ragazza riccia, raccontando tutto di sé. Da quel giorno, la sua ex
compagna di cella non si staccò mai da lei, pretendendo continuamente la sua
presenza, soprattutto la notte. E fu in una sera che, ascoltando un mito che la
riccia conosceva a memoria, battezzò lei.
«Cassandra…
lo sai che ti potrei chiamar così per il resto della tua vita?» le fece, mentre
fissava il buio del soffitto. La testa della castana, poggiata sul suo ormai
cuscino preferito alias la spalla della donna, sorrise, regalando alla mora dai
capelli corti un nuovo balzo al cuore.
«Sei
proprio strana tu sai… ancora su con questo nome…» le fece, stringendosi di più
a lei, fissando lo stesso impossibile punto nell’infinito della non luce.
«Cassandra…
Cassandra… mi piace.» mormorò, ripetendo quell’insieme di sillabe come per
gustarne il sapore.
«… mi
piace proprio… e d’ora in poi tu sarai Cassandra.» fece, con tono solenne. E
gli occhi della neobattezzata si puntarono sulla sua mascella bianca. Le labbra
desiderate a pochi passi da lei. Di nuovo quell’ondata di calore che, la mente
stupida, bloccò per l’ennesima volta.
«Cassandra,
eh?» mormorò, sfiorandosi le labbra con le mani. Una lacrima che lieve
scivolava. I capelli che asciugavano quella stilla d’anima.
«Sì, tu
sei Cassandra… e se vorrai, di nomi te ne darò altri tre… se me lo chiederai!»
fece ridendo, stringendole la spalla, sapendo che stava piangendo. L’abbracciò, sentendola sussultare, e non la
lasciò fino al mattino. Ed Elisa, fissandola per tutta la notte, notando la
pace di quel piccolo angelo dimenticato, si stampò l’odore dei suoi capelli,
della sua pelle, i suoi mormorii notturni e il movimento delle sue labbra.
Desiderando che un momento simile non finisse mai.
Un
giorno però, mentre riposavano, Elisa venne richiamata alla presenza dell’uomo
dai capelli bianchi in pompa magna, entrato nella caverna. Cassandra, la neo
battezzata, la guardava timorosa, al di là delle guardie che le tenevano in
cerchio, lontane dai dialoganti.
La donna,
con i capelli cresciuti talmente tanto da cadere, mossi, sulla fronte, scrutava
l’uomo odiato con occhi di brace.
«La
notte sta per calare…» proferì l’uomo. Un sussurro sommesso venne dal gruppo
delle donne, Cassandra trattenne un grido che la mora udì comunque.
«… la
luna piena è prossima.» finì la frase. Gli uomini l’accerchiarono, le lance
elettrificate pronti ad ogni sua ribellione.
«No!»
urlò la riccia, mentre tentava di fuggire dal resto degli uomini che le trascinavano
verso la porta.
«Cosa
significa!?» chiese Elisa, mentre la belva prendeva il controllo della ragazza,
parandosi di fronte all’unica uscita. Un controllo mantenuto a fatica. Uno sguardo
di preoccupazione sempre rivolto alla compagna di tante chiacchierate.
«È
giunta l’ora del rito sacrificale.» mormorò una guardia, mentre sogghignava. La
donna non comprese subito. Poi, un ricordo.
«Ippolito, pochi giorni fa,
tentando un altro approccio, diverso dai precedenti con più uomini e con più
viveri, scoprì un campo. Non un campo verde. Era un terreno arido, composto di
trucioli di terra e piccole pietre ovali. Fu per fortuna, o chiamiamolo “caso”
che uno dei suoi compagni scavò, curioso del nuovo materiale. Poche manate di
quel materiale scoprirono uno scheletro umano, susseguito da un altro. Lo
squadrone, alla fine della giornata, avevano disseppellito più di una ventina
di corpi umani. In poche parole avevano trovato una “fossa comune”.»
E il
gruppo delle donne, con lei, raggiungevano venti individui.
«Non vi
permetterò di ucciderci tutte per un Dio inesistente!» gridò, scagliandosi
contro le guardie. Buttando giù pochi uomini alcune ragazze, più coraggiose d’altre,
si buttarono sulle armi, iniziando anche loro una debole difesa. Cassandra,
notando come gli uomini le spingevano verso il buio della caverna, si ricordò
la strada tracciata da Elisa, quella sera, nel buio della grotta.
«Se, per qualsiasi evenienza, io
non riesca a scappare con voi, tu dovrai guidarle.» sussurrò, mostrando alla
giovine il tracciato quasi invisibile sul terreno.
«Come?» chiese, non vedendo
nulla a parte il buio.
«Seguitemi,
ragazze! Prendetevi tutte per mano e seguitemi! Non lasciate la presa per
qualsiasi motivo!» gridò, inoltrandosi nel buio. Elisa, nel furore della
battaglia, atterrò l’ultimo uomo prima di scorgere l’ultima ragazza dissolversi
nel buio della grotta.
«Stolte!
Non vivrete a lungo nella grotta! Nessuno vi è mai ritornato!» urlò il capo,
intimando agli uomini di seguirle. Ma nessuno di loro si mosse.
Elisa
si avventò sugli ultimi uomini rimasti, prima di lanciarsi anche lei nel vuoto.
«Oddio,
moriremo tutte!» trillò qualcuna, ma la riccia zittiva tutte.
«State
zitte, o ci troveranno!» rispondeva, mentre gli occhi si concentravano nel
seguire quel lieve colore viola a forma di impronta sul terreno.
Poi,
vicino a lei, un sospiro.
«Sono
qui.» sussurrò, prendendole la mano che seguiva sul terreno le lievi
colorazioni profonde.
«Ora vi
guido io.» parlò abbastanza alto da farsi sentire dal gruppo. Il silenzio di terrore
rispose.
Camminarono
nel buio per un tempo impossibile. Sul dorso di una bestia è molto più breve il
tragitto, ma al passo d’uomo, anche se affrettato, allunga i tempi.
Ma,
finalmente, sul volto Elisa percepì quel lieve venticello che poi diventò
bufera. Di fronte alla loro unica via di fuga, una tempesta tuonava fulmini e
pioggia a catinelle.
«Presto,
muovetevi a scendere. Il terreno è scosceso, ma se vi calerete lentamente
nessuno si farà male!» gridò per farsi sentire al di sopra dell’urlo del vento.
E intanto, poco a poco, piccoli individui iniziarono a scendere all’interno di
quel ripido passo che Elisa aveva indagato solo fino ad una grotta.
«Voi…»
fece, parlando a quelle ragazze armate.
«…
rimanete qui per coprirci le spalle nel caso qualcuno riesca a seguire le
nostre tracce…» ordinò, e lesse negli sguardi scuri delle donne un cenno di
intesa, mentre si voltavano nell’osservare l’oscurità che poco prima le aveva
avvolte.
Cassandra,
prendendole un braccio, notò una sua ferita profonda.
«M-ma…! Tu sei ferita!» fece, notando come il sangue,
colando ad una intermittenza frequente, seguita un tracciato fino nel tessuto
permeo del buio.
«DANNAZIONE!»
bestemmiò l’uomo, guardando l’oscurità come un nemico che non riusciva a
sconfiggere. Si diresse adirato contro il buio, tentando di attaccarlo con la
spada irradiata di elettricità ma, prima che desistesse e tornasse indietro,
notò una traccia di sangue che, piano piano, tracciava una linea retta che
sferzava il buio. E un ghigno disumano dominò l’uomo dai capelli bianchi, prima
di farsi ingoiare dall’oscurità.
Elisa,
mentre aiutava l’ultima ragazza armata a scendere, percepì un rumore strano. Ma
fu allungando la mano che percepì come un grido d’avvertimento dalla pantera a
farla rotolare di lato.
«Ti
ucciderò!» urlò l’uomo fanatico. La pioggia che bagnava il suo volto dominato
da un’essenza maligna.
«Elisa!»
urlò Cassandra, mentre aiutava la compagna a scendere. Doveva risalire.
Doveva aiutarla. A tutti i
costi.
Elisa
scansava tutti i suoi attacchi senza un preciso schema, memore del fatto che
bastava essere sfiorata per venir stordita.
«Muori,
mostro!» urlò, mentre tentava un affondo. La mora, per scansarlo, inciampò. Il dirupo
dietro di lei. la pantera che urlava per uscire. Un ruggito ruppe l’urlo della
tempesta, e il volo dell’uomo soggiunse sino al soffitto della grotta. Caddero
pochi massi sopra l’avversario, che pareva stordito. Un mostro che respira,
mentre la pioggia lo bagna.
Non di nuovo, no!
Non ho… la forza… per fermarmi.
Un
ruggito che ancora spezza le fiamme della tempesta, un urlo di rabbia e odio
che taglia il vento e lo sguardo di Cassandra.
«No…»
un sussurro ingoiato dalla tempesta. Una lacrima che si confonde con le stille
della pioggia.
Gli occhi
gialli che godono mentre il suo avversario si rialza dalle macerie.
«Devi…
morire…» la litania dell’uomo riempiva le sue orecchie, impedendogli di sentire
il dolore. La spada che, morta delle fiamme blu, ancora riluceva per la lama
affilata.
«… MOSTRO!»
urlò, gli occhi dipanati dall’odio e dall’estasi del rito che ormai si sarebbe
consumato. Sacerdote di una cerimonia sanguinaria.
Un
balzo ferino portò la bestia posseduta da un’ombra oscura a pochi centimetri
dal suo avversario, che menava fendenti a vista. Il sangue che colava aumentò. Sia
di l’uno che dell’altro. I tuoni della tempesta scandivano il ritmo della
battaglia. Eppure, di fronte alla forza possente della bestia, l’uomo stava
avendo la meglio.
«Car…ne…» nei suoi gorgoglii il bisogno di energia vitale
per la bestia. Gli occhi che andavano a schiarirsi, pronti per l’oblio della
mente. Il ghigno dell’uomo che, ferito, alzava alta la mannaia pronta per il
sacrificio finale. La bestia che, inerme, giaceva ormai a terra.
«E ora
tu…» fece, gli occhi dilatati. Il sorriso non ancora sparito.
«…
MORIRAI!» la lama che cade. Un ruggito di rabbia. Un urlo di disperazione.
Il tempo che si ferma.
Fu con
un colpo di dolore che l’uomo si ritrovò a terra. Nell’arco di un secondo
sbalzato lontano.
Di fronte
a lui non più la bestia sinuosa ed elegante che ha combattuto con facilità. Più
una donna, che una pantera.
Davanti
ai suoi occhi, un’ombra oscura, avvolta da un tessuto di fumo nerastro. Gli occhi,
semplici luci gialle di verità, che risplendevano nella tela di viva oscurità.
«M-ma cosa…?» e poi, come se fosse nel potere dell’essere
uccidergli l’anima, il suo corpo rovinò a terra per l’ultima volta, senza
nemmeno esalare l’ultimo respiro. Mentre il corpo di Elisa giaceva nudo a
terra, con gli occhi vitrei, annaspando alla ricerca d’aria e calore.
«Cassandra…»
la voce roca, come se le corde stesse fossero state tutte recise… tranne una. Gli
occhi vitrei alla tentata ricerca delle lanterne di verità dell’essere oscuro.
«… ti
supplico… va via.» una preghiera lanciata al buio dei suoi occhi, cieca, mentre
l’ombra la osservava, imperscrutabile. Elisa lo sentiva, il suo sguardo.
La grotta
sopra di loro che stava lentamente crollando.
Perché sta nell’anima di ognuno possederne almeno un’altra. Completarsi
in un altro essere simile a noi.
Mi sentii come risucchiare via l’animo e il respiro. Persino
la belva che ero, oltre alla vista.
Ero solo un corpo. Una mente.
E, lo sentivo, la perfezione di un essere oscuro mi fissava.
A decidere con pazienza della mia vita.
Mentre io, come un nuovo essere appena partorito sulla
terra, annaspavo in cerca d’aria.
Finalmente,
il continuo.
E ora,
una risposta veloce ai commenti, perché son di fretta J
Scusatemi
>.<
A Noir_Sky, che
spero abbia trovato soddisfacente, ringrazio di seguirmi costantemente ^_^ P.S.
Non è giusto, io nooooooooo! >.<
A Adhara, che amo
con tutto il cuore, ti dirò… tu puoi approfittare quando vuoi, di quella
persona… sai? ;)
Mi venne
quasi naturale prender forza, vigore, da una fonte lì vicino.
Così naturale
strapparle quasi la vita… le tolsi tutto.
Un essere
perfetto che in realtà non ero.
Una
maledizione che risorge da riti pagani e antichi tanto quanto il tempo.
Come si può
chiamare una Maledizione la Salvezza?
…
Come si può
chiamare Vittima un Cacciatore?
Era
stato in quello spazio vuoto, tra un secondo e l’altro, che quell’innocente
simbolo sulla schiena della ragazza dai capelli ricci luccicò, quasi della
stessa intensità delle sue lacrime.
La mano
tesa, quasi a voler portar via la donna che l’aveva salvata, strapparla
dall’agonia.
Gli
occhi marroni che d’un tratto s’illuminano di una luce chiara e nera. Il
simbolo che, funzionando come un vortice, risucchia la belva in sé.
E come
una nuvola nera ricopre tutto il suo corpo. La luce chiara e nera che riluce
nell’ombra. La mente divisa in due. Due esseri completi in sé. Un urlo
silenzioso nella mente.
E poi
silenzio. Cassandra, in quel momento, non esistette più.
Non era
più lei. non era né umana, né bestia.
Solo
essere.
Elisa,
sotto la pioggia battente, tentata di guardare al di là del buio, ma non ci
riusciva. Non sentiva più quel muscolo fastidioso nella sua mente, che calcava
e stringeva la sua anima. Non sentiva più la belva graffiarle la mente e
cibarsi della sua coscienza. Era libera. Ma si sentiva vuota, sola, vulnerabile
e nuda. La pioggia batteva sulla sua pelle. Le mani che tremavano. La coda
senza vita ancora collegata al corpo. Il respiro roco, affannato. Alla ricerca
di quell’aria che sembrava mancare. Il cuore che stava impazzendo.
«Cassandra…»
lo sapeva, che era stata lei. E chi altro.
“Ma
come?” sentiva la sua presenza di fronte a lei. La sua perfetta essenza.
«Ti
supplico… va via…» doveva andare via. Scappare. Non poteva rischiare che
rimanendo lì la donna potesse perdere il controllo della belva. Conosceva la
potenza della bestia. E conoscendo la ragazza non si sarebbe mai perdonata di
averla uccisa.
La vita
le stava fuggendo dalle dita. Scivolò sulle rocce, senza nemmeno avere la forza
per reggersi sulle braccia.
“Lasciami
qui… a morire.” Gli occhi scuri si chiusero. L’ossigeno che mancava arrivava
sempre meno.
Le
lanterne di viva verità ancora l’osservavano. Poi una cosa viscida le toccò la
cosca. I brividi milioni, la paura nel non sapere cosa fosse forte. Ma non
aveva la forza nemmeno per ribellarsi. Troppo debole anche per vivere. Quella
lingua viscida la stava leccando. Le mani, tentarono di raggiungere l’ombra che
la sovrastava, presa nel tastare il suo corpo. Gli occhi castani che s’aprirono
di nuovo. Forze nuove che ritornavano. Brividi forti che attraversavano il suo
essere. quei brividi familiari…
Riuscì
ad accarezzare la pelle dell’essere oscuro. Era vellutata, i capelli che
riusciva a toccare delicati e ricci. Strinse la presa.
«Cassandra…»
il nome della ragazza nella mente e nella voce, ritornata, quasi invocasse qualcosa di più. Le forze che
ritornavano in lei, una voglia strana
nel corpo.
La
lingua che s’alzava verso il bacino. Piccoli denti che mordono. Un ansimo
represso a forza. Ma non sentì più il tocco della donna su di sé. La cecità che
ancora la prendeva.
Poi due
labbra morbide. Un respiro infuso. Una luce abbagliante. Un rumore assordante e
poi…
… il
nulla.
Si
risvegliò di soprassalto. La vista che le sembrava nuova. La vita nuova. Si
guardò intorno, scoprendo un ambiente arido. Una grotta chiusa, adibita a
stanza. Un abbraccio non previsto avvolse il suo collo, la voce spezzata di Cassandra
che mormorava il suo nome dalla spalla.
La mano
che stringeva inconsciamente i suoi capelli. I ricordi ancora vividi nella
mente. Gli occhi sbalorditi che fissavano le persone intorno a lei.
«Era
ora che ti riprendessi…» Ros sorrise, reprimendo una lacrima. Giulia le stava
affianco, la mano intrecciata alla sua. Un sorriso umido era il suo. Ippolito,
appoggiato al muro con le braccia incrociate, guardava di nascosto la donna dai
capelli corti, un ghigno di soddisfazione sul volto. Amir
che sopraggiunse poco più tardi, sorridendole.
«Non
avrei mai pensato che ti avessi ancora come convalescente…» fece l’uomo,
mostrando i denti bianchi in forte contrasto con la pelle scura.
«Ma
come…?» finalmente diede voce alle mille domande che balenavano nella sua
mente.
Cassandra
si staccò, asciugandosi velocemente le lacrime. Aveva una mano fasciata.
«Ti
spiegherò poi io con calma ok?» fece, sorridendole tra la gioia. E la luce
tornò. Di nuovo. Veramente, questa volta.
«Sì…»
fece, parlando con voce roca la mora.
Annuì
con forza, sorridendo stavolta.
«Sì.» e
strinse la presa sulle sue spalle.
La
mente, nella sua limitatezza e semplicità, ricorda soltanto quello che gli
occhi vedono. La nostra memoria è fatta di immagini, colori sgargianti e veloci
che scorrono, come un film.
Menti
aguzze sono coloro che ricordano le sensazioni provate con precisione. Perché
nella mente le emozioni si sovrappongono e mischiano, troppo sfuggevoli per la
nostra mente calcolatrice e razionale.
Dimmi
Elisa, nella tua poco brillante mente, cosa ricordi di quel piccolo sprazzo,
quel singolo momento, di piacere che hai provato?
Cosa?
Perché
vedi… potrebbe esserti utile nel capire ciò che non capisci.
A
volte la risposta non va cercata in capo al mondo, ma pensarla. Capirla. E
accettarla.
Non
cercare la risposta chissà dove, amica mia. Perché è lì, di fianco a te.
…
È
ciò che si stringe a te con bisogno ed amore sincero.
Comprendila,
ed accettala.
…
Non
ci vuole mica tanto sai?!
E nell’ardore
di un pensiero acceso io vi lascio questo nuovo capitolo.
Sperando
che cogliate ciò che io ho seminato con attenzione.
Rispondo
alla recensione intanto J
A Adhara, che mi
segue sempre, nel bene e nel male (ma soprattutto nel bene ^w^)
e che amo con tutta me stessa. Grazie paperotta, nel
seguirmi con così tanto ardore. È come se questa storia fosse di entrambe,
invece che soltanto mia… chissà perché :)
Un viaggio. Una
domanda bisognosa di risposte. Un nuovo mondo da esplorare.
Con te, amica
mia. Mi servi tu.
…
Perché sei tu
la mia domanda.
La convalescenza
durò poco. Dopotutto un infetto ci mette poco a guarire le ferite. E poi, Elisa
non era capace di stare ferma. Era stata per pura casualità che ci fosse una grotta
usata come base nelle vicinanze del luogo dell’accaduto. E fu per mera fortuna
che in quel momento ci fosse un gruppo di soldati al suo interno. Le ragazze
vennero ospitate immediatamente, concesso acqua e cibo, un riparo dalla
pioggia. Gli uomini di Ippolito, abituati alla presenza fortemente maschile,
divennero incredibilmente gentili con loro. Ma gli occhi scuri delle ragazze
grondavano ancora di orribili violenze perpetuati da uomini poco più grandi di quei
ragazzi. Nei loro corpi ancora i segni delle mani violente di quegli esseri
ignobili.
Cassandra,
l’unica ragazza che aveva il coraggio di parlarne, informò i ragazzi di evitare
di comportarsi così, e di chiamare dei medici, perché alcune di loro avevano
delle ferite per la scalata. La voce che Elisa era tornata, dopo due mesi di
silenzio, con un gruppo di giovani donne al seguito, corse veloce, arrivando
fino alla base di Ros. I Capi delle tre forze si riunirono e decisero di raggiungere
la donna, non ancora sveglia.
Amir stesso decise di venire, lui
che mai prendeva decisioni ferme, se non in campo medico.
Giacomo
al comando nella base nera, chiese al compagno di dare un colpo alla nuca della
donna, per la paura che ha fatto passare a tutti, e così fece.
«Ahi!»
protestò la donna, al sentire la mano scura dell’uomo arrivargli alla coppa.
«Così
impari a farci prendere uno spavento simile.» sentenziò l’uomo, con voce lievemente
spezzata. La donna, sorrise, sfiorando il volto di Amir.
«Scusatemi.»
affermò, con un sorriso, guardando gli occhi di neri di lui, per passare poi a
tutti i presenti nella stanza.
«Ma
avevo una promessa da mantenere.» disse, guardando gli occhi scuri di
Cassandra, lievemente umidi. Le labbra di lei composero un silenzioso “grazie”.
I Capi,
contenti di scorgere la loro pari in salute, partirono per tornare alle loro
rispettive basi. Dopo due giorni Elisa partì anch’essa, insieme al gruppo di
donne che non aveva intenzione di staccarsi da lei. Furono giorni di marcia
difficili, le ragazze non erano abituate e la mora non apprezzava il chiuso
delle grotte dove dovevano scivolare per raggiungere la valle. Ma ci
riuscirono. Raggiunsero sani e salvi la base Nera, dopo tre giorni di cammino.
Elisa riunì nella sala riunioni tutti i ragazzi, per dichiarare il suo stato di
salute.
«Salve
a tutti! Qui, oggi, io mi ripresento a voi in salute, e portatrice di nuovi
arrivati.» fece, mostrando con la mano il gruppo di ragazze intimorite dalla
moltitudine di persone. Un vociare si alzò.
«Hanno
la vostra età o poco più, mettetele a loro agio. È vero, non abbiamo più molti
posti ormai, e l’aula nuova ha riscontrato difficoltà durante i lavori per cui
sarà ancora impossibile avere camere nuove ma, sarà solo per poco. Alcune di
loro vivranno in due, in una camera, e io stessa accetterò una di loro nelle
mie stanze, se per questo. Mi aspetto la stessa cordialità da voi, non
deludetemi.» e dicendo ciò, sciolse la riunione. Cassandra si avvicinò ad
Elisa, mai separatasi da lei durante il viaggio.
«E chi
sarebbe questa che verrebbe con te in camera, tanto per sapere…?» domandò la
riccia, divorata dalla curiosità e, inconsciamente, dalla gelosia. La donna
rise di gusto, prima di risponderle con un ciglio alzato.
«Ma tu,
sciocchina. E chi altro?» chiese, guardandola.
Ovviamente
la ragazza si nascose dietro il ciuffo, rossa di vergogna.
«Forza,
seguimi…» fece, mentre si districava tra la miriade
di gente che chiedeva alle nuove arrivate di mettersi con loro in stanza. La riccia
guardava tutti con meraviglia, come se fosse strano che così tanta gente fosse generosa.
«Come
mai qui sono tutti così… gentili?» domandò alla donna dai capelli corti,
guardandola dall’alto.
«Qui
tutti sappiamo cosa significa soffrire. E cosa significa non avere nessuno a
cui aggrapparsi, a cui stringersi la notte per sentirsi al sicuro.» affermò con
voce bassa, guardando la sorella di Adrian sorridere
alla più piccola del gruppo, stringendole la mano.
«Qui
tutti sanno cosa significa perdere tutto: famiglia, casa, amici, amori.» gli
occhi che indugiavano su un Giacomo tutto rosso, mentre porgeva dei fiori alla
più grande delle nuove arrivate.
«Non
sorprenderti di questo. Essere gentili ed onesti non risulta per noi fatica, è
un segno di comprensione. Qui tutti siamo così. Nel mondo prima del giorno dell’Apocalisse
queste doti erano rare, oltre che difficili da costruire. Questo è il Nuovo
Mondo. Costruito sui giovani. Costruito sulla sincerità, e sul significato del
dolore. Gli uomini che hai conosciuto tu, quelli all’interno della vostra
prigione, erano del Mondo Vecchio, quello ormai distrutto e sepolto. Questa è
una nuova era.» affermò Elisa, intanto che camminavano per corridoi, ormai
sole, a parte qualche ragazzo o ragazza che correva.
Elisa
si fermò di fronte ad una porta, con un simbolo sopra: un cerchio nero.
«Siamo
arrivate, mia nuova coinquilina. Prego.» fece, aprendo la porta per farla
passare. Cassandra entrò, dubitante, guardandosi intorno e scoprendo un piccolo
spazio vitale, molto spartano.
Il letto,
che stava a ridosso del muro, era di una piazza e mezza, perfettamente in
ordine. Una cassettiera sotto un oblò, che dava al di fuori, coperto da una
lamina di ferro. La scrivania, l’elemento dominante nella stanza, era pieno di
libri su libri, vecchi e ultra vecchi, fogli volanti e inchiostro ovunque.
«Scusa
il disordine.» affermò lievemente rossa, entrando e chiudendo la porta alle
spalle.
«Nessun
problema…» rispose Cassandra, con voce piccola e con gli occhi fissi sul letto,
spalancati.
«Il
bagno è qui… come puoi vedere, è provvisto di chiave, così quando ti fai il
bagno puoi chiuderti dentro…» disse Elisa, attirando l’attenzione della
ragazza.
«Posso
farmi il bagno… quando voglio?» domandò, come se non fosse vero. Gli occhi che
luccicavano.
«Sì,
però non esagerare nello spreco d’acqua, le sorgenti sono poche qui in giro…
ok?» fece, e la ragazza annuì, ancora illuminata.
«Posso...?»
domandò, indicando il bagno rossa in volto.
«Come?»
fece Elisa, non afferrando al volo.
«Oh,
certo, sì, nessun problema…» ribadì, sfregandosi i capelli con una mano,
nervosa.
«Grazie…»
affermò la ragazza, entrando, chiudendo la porta.
«Oh, se
hai bisogno di vestiti, sono nel primo cassetto!» la informò la mora, fuori
dalla porta. Gli arrivò un mormorio come segno di comprensione.
«Bene…
io devo andare alla sala di comando, quando finisci se vuoi raggiungermi, ho
delle cose da spiegarti, va bene?» disse, aprendo la porta. Di nuovo un
mormorio. L’acqua che inizia a scorrere.
Elisa
corse per i corridoi, tentando di cancellare il pensiero contorto che tentava
di prendere la sua mente. Se avesse voluto, avrebbe potuto aprire quella porta
con facilità…
«No!
Elisa, ritorna in te!» Si disse, arrivando alla sala di comando.
«Giacomo!»
chiamò la donna dai capelli corti, vedendo l’uomo sopraggiungere con il
classico camice bianco.
«Elisa,
c’è una chiamata urgente da Ros, stavo per venirti a chiamare!» affermò,
aprendo una finestra allo schermo grande.
L’immagine
sfocata della donna dai capelli rossi apparve, il rumore di grida e di ringhi
che quasi sovrastava la sua voce.
«Elisa!
Siamo sotto attacco! È da stamattina che non si ritirano, e mi sembrano più
feroci!» disse la donna, guardandola sporca in volto di fuliggine.
«Hanno
dato fuoco all’albero! Gli animali sono più intelligenti, sembrano quasi…controllati
da qualcosa!» affermò la rossa, lo schermo si contorceva, le parole percepite
poche.
«Ros,
non avevi con te una squadra per controllare gli incendi all’albero?» chiese, e
il panico stava prendendo anche il suo corpo.
“Come è
possibile… gli animali attaccano per fame o durante il periodo dell’accoppiamento…
non li ho mai visti così determinati a conquistare qualcosa…” e si sorprese
della parola che usò: conquistare. Una mania tipica dell’uomo.
“Sono
controllati da qualcosa… o da qualcuno.” Gli occhi determinati della donna si
rivolsero allo schermo.
«Ros,
ti invio uno squadrone di supporto, resisti! Stiamo arrivando!» disse, e la
comunicazione si chiuse.
«Giacomo,
chiama in appello tutti i guerrieri pronti a combattere, ci servono più persone
possibili, non indebolire le difese, attiva le barriere di sicurezza a livello
3 e non abbassarle per nessun motivo, spegni tutto ciò che non sia essenziale e
trasferisci tutta l’energia alle barriere. Sento puzza di bruciato in questo
attacco di massa.» affermò la donna, guardando il ragazzo con la cresta,
stavolta nera, col dubbio disegnato in faccia.
«Cassandra!»
Elisa irruppe nella camera, quasi urlando il suo nome. La donna sobbalzò,
lasciandosi quasi sfuggire l’asciugamano che ricopriva il suo corpo.
«Scusami!»
affermò Elisa, chiudendo subito la porta dietro di sé, le gote lievemente
arrossate, e non per la corsa.
«Dimmi,
che c’è? È successo qualcosa?» chiese la ragazza, chiudendo il cassetto, la
mano che nervosa teneva l’asciugamano stretto in petto.
«La
base di Ros è sotto assedio da un gruppo di animali, come se fossero
controllati da qualcosa… o da qualcuno.» asserì, gli occhi fissi in quelli castani
di lei.
«E
quindi devi andare ad aiutarla, giusto?» affermò la ragazza, quasi delusa. Gli occhi
che caddero in basso.
«Sì,
devo andare. Ma prima devo farti una domanda.» disse la mora, guardando lo
sguardo della ragazza illuminarsi.
«Dimmi,
Elisa…» la voce di lei quasi spezzata. Non era sua, quella donna. Aveva
promesso di salvare il mondo, e non solo lei. Eppure questa sensazione di
bruciore nello stomaco le dava fastidio.
«Questa
“maledizione” di cui mi hai parlato, quella che hai incisa sulla schiena, che
sorta di magia è?» interpellò, con una intuizione da confermare nella mente.
«Un
rito della religione antica della Luna, la Dea della Notte, perché mi chiedi
questo?» chiese, non comprendendo il furore della mora.
«Lo
sapevo! Me lo sentivo!» ribadì, correndo alla scrivania, cercando un libro. Vittoriosa,
impugnò un libro nero, con simboli gotici disegnati sopra.
«La
religione della Luna, o detta Dea della Notte è in contrasto con la religione
del Sole, detto Dio del Giorno, e una delle loro magie più potenti è il controllo
degli animali… potrebbe essere questo, quello che ha creato questa
insurrezione.» affermò la donna, mostrando gli scritti alla giovane.
«Come…
come fai a sapere tante cose su questo argomento?» chiese, passando lo sguardo
dal libro agli occhi di lei e viceversa.
«Beh,
le ho lette qui.» disse, mostrando il passo.
Gli
occhi della giovane si fecero sottili, concentrati nella scrittura gotica quasi
sbiadita della pagina.
«Tu…
non sai leggere?» chiese, guardandola con dolore nella voce.
«Cosa?»
domandò Cassandra, alzando lo sguardo quasi colpevole.
«No,
no, so leggere… è solo che… è passato tanto tempo…» affermò, cupa nell’anima e
negli occhi.
Elisa
chiuse il libro, lanciandolo sulla scrivania. Le afferrò le spalle, facendola
sussultare. Le sue mani calde che sfioravano il suo corpo crearono in lei
quella miriade di pensieri ed emozioni che ancora non riusciva a decifrare.
«Ascoltami,
se vuoi riprendere a leggere, c’è un corso la sera, impartito da Giacomo…
potresti seguirlo, mentre combatto alla base Rossa… che ne dici?» fece,
sorridendole per infonderle coraggio.
O luce, o mare, o miriade di stelle in un giorno piovoso.
Mai vidi un paesaggio così bello, mai vidi così begli occhi
illuminati nel nulla.
Mai sentii crescermi un fuoco sì grande dentro me, grazie ad
un suo sguardo.
Dea, donna… come fai, tu, a farmi sentire così…così…
speciale? Unica?
…
Viva?
«Va
bene… Ti aspetterò qui, e quando tornerai, ti leggerò un libro.» rispose,
guardandola illuminata e con il cuore pulsante di gioia e amore.
Elisa la
strinse a sé, le sfiorò i capelli, la mano che cingeva il suo fianco con amore
e dolcezza.
«Non so
quando tornerò… ma farò il più presto possibile.» affermò. Gli occhi che
pizzicavano, una lacrima silente che cade dagli occhi della piccola Cassandra,
mentre stringeva le mani ai suoi fianchi. L’odore di lei, così animalesco eppure dolce, le infondeva
coraggio. Il suo corpo, così morbido, le regalava la dolcezza di cui sentiva,
lei ne aveva assoluto bisogno.
«Non
piangere. Tornerò presto, te lo prometto.» dal collo tolse un filo marrone. La pietra
azzurra a forma di cuore.
«Oh,
Elisa, pensavo di averlo perso! Grazie…» disse, guardandola, nuove lacrime, di
gioia.
«L’ho
ritrovata sulla cima del dirupo…» rispose, porgendola a lei. Ma le mani di
Cassandra le imposero di tenerlo su di sé.
«Tienilo
tu. Quando tornerai, me lo restituirai.» chiese, asciugandosi con le mani le
guance umide.
Elisa
annuì, indossando il gioiello.
«Ti
augurerò buonanotte con questo, finché staremo lontane. Non sarai mai sola la
notte, amica mia. È una promessa che ti ho fatto, e ho intenzione di
mantenerla.» affermò, per poi darle un bacio sulla fronte.
Cassandra
perse un colpo al cuore. Le lacrime che non si fermavano.
La mano
di lei le asciugò.
«A
presto, Cassandra…» affermò, dirigendosi verso la porta.
La gola
era bloccata da un nodo difficile da sciogliere, ma le uscì lo stesso un “ciao”
soffocato. Quando la mora chiuse la porta con un ultimo sguardo e un sorriso
illuminante la riccia si tuffò sul letto, stringendo il cuscino a sé. Soffocando
il pianto e le urla su quell’ammasso di piume e sogni che, anche se fredda come
compagnia, aveva su di sé il dolce profumo di Elisa.
Dolce poesia, parole e disegni sei tu per me Elisa. Un ricordo
del passato, dolce, che riaffiora nella mia mente e che mi spinge in là,
dandomi un motivo di vita e rinascita.
Sei, per me, una prospettiva. Una promessa di vita.
Rimarrò qui ad aspettarti, Elisa.
E se dovessi aspettare una vita, per poter stare con te, beh…
aspetterò.
L’attesa non mi spaventa, se so che alla fine avrò te.
Ecco qua
un nuovo capitolo, nato con le parole dolci della mia ragazza in mente. E nel
cuore.
Rispondo
ad Adhara,
intanto, visto che per ora nessun’altro si è avvicinato alla zona recensioni.
Ciao, bellissima! ;) quest’ultimo tuo commento mi ha aiutato molto, perché ero
in un momento di ferma a proposito di questa storia. E avevo paura a testare
questo nuovo modo di scrivere che mi sapeva tanto di lacunoso dal punto di
vista descrittivo.
Spero
quest’ultimo ti piaccia, e che questa Cassandra che senti tanto vicina a te
(chissà perché! XD) rispecchi un certo sentimento che secondo me ti ritrovi
spesso ad affrontare, purtroppo, da sola.
Perché dopotutto
non riesco a non guardare il cielo.
Aspetto te, e
intanto occupo la mia mente in sollazzi che non mi aggradano per niente.
Dove sei,
Elisa…? A cosa stai pensando…?
…con che
donna dormi, la notte?
Elisa
aggredì un gorilla, sbranandogli la gola, squartandola. Il sangue colava a
fiotti, mentre i gorgoglii dell’animale si facevano sempre più sottili. Gli occhi
dell’essere spezzati nell’animale che la caratterizzava. Con un salto disumano
evitò l’attacco di un lupo, e gridò, ruggendo. Il fuoco che ancora toccava la
sua pelle. Ferita, cadde a terra, gli occhi sottili, le fauci che si
stringevano, le zampe che graffiavano il terreno nero colorato di rosso, sangue
coagulato.
«Arrendetevi!»
urlò il lupo, con in mano un ennesima bomba. Si avventò su di lei, ancora il
fuoco che la divora. Di nuovo un urlo, più umano, che animalesco. Stava
tornando normale, era due giorni che non si riposava.
«Cosa
volete da noi!?» domandò la donna, mentre con la mano nel terreno cercava
qualcosa di aguzzo.
Il lupo,
con fattezze mostruose e, in parte umane, l’afferrò per il colletto della tuta.
«Vogliamo
le vostre donne, i vostri figli, il vostro terreno…» parlò, scuotendola, Elisa
sentì una punta di lancia, la strinse con la mano quasi allo spasimo. L’immagine
di Cassandra sorridente le passò nella mente.
«Non
avrete mai nulla di tutto ciò!» urlò, guardandolo, i suoi occhi rossi
sorridevano.
«Vinceremo
noi, siamo più forti di voi poveri esseri umani.» disse sogghignando, alzando
la zampa per inferirle un colpo letale. Elisa scattò, usando la punta affilata
per tagliarli la gola. L’essere mostruoso crollò, gorgogliando un poco prima di
spirare.
In
testa ancora l’immagine della compagna riccia.
«Non
vincerete. Ho troppo da perdere per lasciarti prendere tutto.» mormorò, prima di
trasformarsi e riprendere il combattimento.
La
sanguinosa battaglia prese una pausa al calare del sole. I feriti portati in
infermeria, i morti lasciati sul terreno di battaglia, gli animali raccolti per
cibarsi.
«Ci stanno
decimando poco a poco, Ros…» mormorò la castana, ingurgitando una brodaglia di
carne.
La coda
si muoveva agitata, i nervi scattanti, la pelle scura per il fuoco e per le
scottature. Gli occhi accesi di odio e forza.
La
Rossa, seduta su un tavolo, aveva già mangiato due ciotole. Giulia la guardava
triste. Uno sfregio sul suo viso. Gli occhi scuri della rossa la guardarono,
cercando una forza che delle volte le mancava. La mano della ragazza le strinse
la sua. E il Capo riprese vita.
«Sanno
che non abbiamo quasi più armi, e i pochi Infetti a disposizione sono sempre
impiegati al fronte.» disse, con un filo di voce per cercare di non farsi
sentire dalle truppe, che stavano mangiando nella sala comune.
«Ci
vogliono logorare. Dobbiamo colpire il loro cuore.» disse Elisa, stringendo con
forza la posata, piegandola di netto.
«Non
accetteranno.» la scoraggiò Ros.
«E
invece ti dico di no. Si sentono superiori Ros… pensano di vincere. Una battaglia
tra il loro e il nostro capo li obbligherebbe a ritirarsi, senza una guida.»
disse la castana, guardando Giulia.
«Ha
ragione, ti prego ascoltala…» mormorò la bionda, cercando di convincere la
compagna.
Il Capo
la guardò, con gli occhi ormai stanchi di combattere, e di vedere conoscenti e
amici morti tutti intorno a lei.
«E chi
combatterà?» disse, guardando la donna-pantera.
«Io.»
disse, ricambiando lo sguardo della rossa, che spalancò gli occhi.
«Non
perderò anche te.» guardandola irata, alzandosi e dirigendosi verso le sue
stanze.
«Lo sai
che io sono diversa da voi!» disse, scattando e fermando la leonessa.
«Ci
andrò io!» Ros urlò, e Giulia perse un colpo.
«No… ti
prego, tutto ma non te!» disse, alzandosi e correndo verso lei, abbracciandola.
Ros rimase paralizzata. Giulia stava piangendo. E le moriva il cuore sentire le
sue lacrime bagnare la sua spalla.
«Tu hai
qualcosa da perdere Ros…» disse, sorridendo, mentre la rossa stringeva i
capelli della ragazza, lacrimando un poco anche lei.
«… io
no.» mormorò, passando la mano sulla sua spalla. Andò via, dirigendosi verso
una brandina, corricandosi nel corridoio affollato. Chiuse gli occhi, poggiando
la testa sul cuscino. E i sogni erano un continuo turbinare di dolori e sangue,
con un angelo dai capelli ricci dalle ali rosse che urlava disperata
guardandola lacrimante.
Si alzò
di scatto, sentendo i rumori della lotta fuori dall’albero ormai morto. Iniziò a
correre, dirigendosi fuori, nell’aria l’odore dello zinco e del sangue.
Si
trasformò, correndo nella baraonda.
Cassandra
osservava il cielo, proprio come si fa con un quadro, gli occhi sottili
concentrati. Apparentemente guardavano il vuoto. Eppure la sua mente vedeva
mille sfondi, mille volti, mille tramonti. Mille soli che calano nel suo cuore,
e mille albe. Quanta luce vi scaturiva. Gli occhi sempre fermi, osservando il
cielo fuori dall’oblò della stanza di Elisa. I compiti abbandonati sulla
scrivania, l’inchiostro ancora fresco stava asciugando sul foglio che stava
scrivendo, una firma minuta e tondeggiante, ma ancora insicura.
Un filo
di aria portò l’odore di zinco fino alle narici della riccia, e lo sguardo si
adombrò. Gli occhi che erano passati al colore rossastro della foresta. Il cuore
palpitante e dolorante.
«Chissà
cosa pensi…» mormorò Elisa, osservando anche lei il cielo plumbeo, le nuvole
che impedivano la vista delle stelle. L’odore di futura pioggia era nell’aria. La
battaglia non si era ancora spenta, ma Elisa aveva un piano. Scattò,
nascondendosi nella selva ormai morta, uccisa dal fuoco. Sporca di fuliggine si
diresse all’accampamento nemico. Nera come la notte scivolava, la donna-pantera,
al collo un ciondolo blu.
Eppure
la riccia, con le braccia incrociate sull’oblò, non pensava. Semplicemente volava
con la mente a quel cuore blu lontano, agli occhi castani lontani, così caldi e belli, così dolci e passionali,
così espressivi. La mano corse a stringere qualcosa che mancava, intorno al
collo. L’anima che si contorceva nella ricerca di qualcosa, l’assenza di una
presenza che bruciava e logorava dentro. Una lacrima cadde, mentre la mano
sentiva il cuore palpitare.
«Quanto
ancora deve durare tutto ciò…?» sussurrò con voce spezzata la ragazza,
lasciando questa preghiera al vento. Una lacrima cadde dal cielo. La città
iniziò a profumare di bagnato, e il concerto della natura iniziò a suonare i
suoi violini in quel tetro palcoscenico di colore e sofferenza.
Elisa
scivolò silenziosa, bagnata dalla pioggia il suo odore non poteva essere
percepito dai nemici. Gli occhi spezzati fissavano la capanna primordiale con
più decorazioni. Quella del loro capo, sicuramente. Osservando, si lanciò dall’albero,
atterrandovi dietro, silenziosamente. Respirò lungamente, calmando il cuore,
sotto la pioggia. Gli occhi rivolti verso l’alto. Il bisogno di dire qualcosa,
prima di affrontare una importante battaglia.
«Tornerò,
presto…» mormorò, con un filo di voce, la determinazione che colorava i suoi
occhi dei riflessi del fuoco.
«… è
una promessa.» e la furia colorò i suoi occhi di giallo, prima di infiltrarsi
nella capanna strappando la tela di pelle.
A volte la lontananza uccide. Spezza, rovina tutto.
Eppure, prima di conoscer te, Cassandra, non davo valore a
niente, se non alle promesse fatte agli altri.
Ora so, con una sicurezza quasi totale, che oggi devo
sopravvivere per te. Per me.
Perché non posso lasciarti da sola. Devo proteggerti.
Perché io…
Perché io…
Ecco un
capitolo che odora di pioggia e di zinco. L’odore del fuoco, e di lacrime
colpisce anche me.
Scrivo perché
mi rilassa. Scrivo perché sto bene con me stessa.
E ora
rispondo ai commenti, anche se ormai commenta solo Adhara.
Tu ti
aspetti sempre finali bollenti, e io
ti ho detto che sarà più avanti quello che vuoi ;) spero che questo capitolo ti
piaccia, amore mio, mia vallata fiorita, perché voglio correre con te in una
giornata di pioggia e ridere. Perché, come ho già detto, con il tuo sorriso io
vedo il sole.
Come una
piuma di vento, percepii l’eleganza dello scivolare in me.
Nessuno
s’accorse della mia silenziosa ombra, che aspettava solo il buio per
mimetizzarsi e fondersi.
La lama
bianca pronta a ferire.
Gli occhi di
un felino pronti all’assalto.
Era
sbucata proprio dietro ad una tenda secondaria, pochi cuscini rotti sotto i
suoi piedi. Ascoltò, respirando con il naso il più lentamente possibile l’aria.
Il cuore fermo, calmo. L’odore di sudore tipico di un animale le spiccò vivo
alla narice. Come l’odore di intrighi amorosi e poca pulizia. Smosse la punta,
odori troppo forti.
Si
avvicinò con cautela al limite della tenda. Una luce di candela che ancora
poteva celare la sua presenza.
Il
rumore di un fluire di pensieri che le entrava nella mente.
Elisa
non capiva, quel vorticare di parole, e cercò di non darvi ascolto. Ma più
s’avvicinava all’ombra, più le voci aumentavano, assordandola. Parlavano tutte
insieme, ad alta voce, e le orecchie della mente si stavano chiudendo.
Poi, un
discorso verbale, e il turbinare cessò.
«Tenente!»
chiamò una voce fredda, dura e giovane. Rumore di tende, ferraglia che si muove
e uno scatto.
«Sì
signore! Agli ordini!» tono cupo, atono, soldato pronto al comando.
«Ritira
le truppe, s’avvicina la luna piena…» ordinò, e un seguitare di muoversi
scricchiolante si allontanò. Poi uno sbuffo di stanchezza, e la luce svanì. Un
ordine di non disturbare lanciato alle guardie esterne. Pochi istanti più tardi
un tonfo poco educato alla sua sinistra, pochi metri dall’uscita della sua
tenda. Gli occhi felini spezzati dal castano si fecero più larghi. La vista del
felino le favoriva i movimenti notturni, e la percezione dei sensi al massimo.
L’udito finissimo concentrato nell’ascoltare possibili ritorni della ferraglia
arrugginita di prima. Iniziò a muoversi, Elisa, appena percepì un respiro più
pesante. Sfilò lentamente un pugnale dalla casacca umida. Il respiro calmo. Il
cuore calmo. Il silenzio del suo corpo che lentamente scivolava nella notte. Perfetto.
Alzò il
braccio, pronta all’assassinio, quando un pensiero stupido le balenò nella
mente. Andava contro il suo codice, uccidere un essere senza che questo provi a
difendersi.
“Dannazione!”
pensò, stringendo la presa al pugnale. Aveva poco tempo, era troppo esposta.
Un
mormorio dell’uomo lo fece girare su se stesso, distendendosi a pancia in giù.
Un lampo di genio, nella mente piena d’adrenalina della ragazza.
Gli
afferrò velocemente il braccio, bloccandoglielo dietro la schiena. La lama a
pochi centimetri dall’occhio.
«Urla,
e di uccido.» mormorò, con poco fiato. La presa ferrea e rigida.
«Chi
sei? Che vuoi da me?» sussurrò, tentando di vedere l’aggressore in volto. Elisa
dava tutto il peso alla presa, a cavalcioni sopra il busto dell’uomo. L’obbligò
a mantenere lo sguardo di fronte a sé.
«Un
semplice emissario. Ti porto una sfida.» sentenziò Elisa, arrochendo la voce.
L’uomo
si fermò dal dimenarsi interessato.
«Che
tipo di sfida?» chiese, curioso. Gli occhi che vibravano.
«Una
lotta tra te e il capo della resistenza. Per mettere fine a tutto.» spiegò
Elisa, non mollando la presa. Le orecchie che controllavano ogni respiro fuori
dalla tenda.
«Perché
dovrei accettare una simile offerta? Potrei soffocarvi lentamente, e otterrei
lo stesso la vittoria…» affermò, con voce bassa. Elisa fece scivolare la lama
dagli occhi alla guancia, lo graffiò lievemente, un goccio di sangue colò sul
filo dell’arma.
«Sei un
uomo d’azione… odi farti strada pulita grazie ad altri. Il capo della
resistenza ti aspetta, tra due notti sul campo di battaglia, al sorgere del
sole. Se otterremo la vittoria, ci lascerete liberi, tornando da dove siete
venuti. Se perdiamo annetterete questa piccola vittoria… ma di certo non la
guerra.» spiegò Elisa in velocità, il tono basso per non farsi sentire. Un fruscio
fastidioso alla porta le fece suonare un campanello d’allarme.
«Fino a
quel giorno niente incursioni, o tornerò senza pietà.» disse, portando la punta
sul cranio dell’uomo, calcando per far percepire la punta.
«Qual è
il tuo nome, emissario?» domandò l’uomo. Elisa non si aspettò questa domanda,
infatti tacce.
«Lo
saprai quando io saprò il tuo, dead man walking.» mormorò, ricordando una lingua sconosciuta.
Sorrise Elisa, a quella piccola sentenza che l’uomo non avrebbe compreso.
Si
avvicinò all’orecchio, il tessuto che si muove.
«Addio.»
e con quella parola saltò rapida, svanendo nel buio. L’uomo scattò pochi
secondi dopo, troppo lento per i movimenti della donna-pantera, già persa nei
meandri della foresta oscura, morta di fuliggine.
Cassandra
scriveva su un pezzo di carta, guardando la lavagna ogni tanto, riscrivendo la
stessa parola più e più volte. Una decina di ragazzi e ragazze in tutto
nell’aula, che facevano la stessa cosa. Giacomo che passava di banco in banco
per controllare e correggere i passaggi.
«Kessy…» la chiamò, con un nomignolo affibbiatogli dal
ragazzo. La riccia si girò, vedendolo dietro di sé.
«Dimmi…»
disse, guardandolo dal basso, seduta. Giacomo stava osservando la sua
scrittura.
«Tu non
hai più bisogno di venire al corso.» disse, schietto. Gli occhi che passarono
ai suoi, sorridenti.
«Davvero?»
chiese la ragazza, non credendoci. Saltò sul posto, felice.
«Certo,
l’unica cosa che ti manca è l’allenamento, ma quello puoi farlo benissimo da
sola.» ribadì, porgendogli un libro.
«Tieni,
Elisa mi ha detto di consegnartelo, quando non avresti avuto più bisogno di
me.» mormorò, passandoglielo. Cassandra lo analizzò, era di vecchia fattura,
rilegato in cartone, mangiucchiato qui e là, eroso dal tempo e dall’usura. La
copertina dorata, il titolo citava “Il Piccolo Principe”. Poco spesso.
«Mi ha
detto che avresti capito.» disse misterioso, tornando al consueto giro di
classe. Gli augurò buonanotte, visto che l’orario era ormai tardo, e la salutò
mentre usciva dall’aula con il libro in mano.
Mentre
percorreva i corridoi ormai consueti per la sua camera – e quella di Elisa –
Cassandra esaminò il libro, curiosa.
«Tu… non sai leggere?» chiese,
guardandola con dolore nella voce.
«Cosa?» domandò Cassandra,
alzando lo sguardo quasi colpevole.
«No, no, so leggere… è solo che…
è passato tanto tempo…» affermò, cupa nell’anima e negli occhi.
«Ascoltami, se vuoi riprendere a
leggere, c’è un corso la sera, impartito da Giacomo… potresti seguirlo, mentre
combatto alla base Rossa… che ne dici?» fece, sorridendole per infonderle
coraggio.
«Va bene… Ti aspetterò qui, e
quando tornerai, ti leggerò un libro.» rispose, guardandola illuminata e con il
cuore pulsante di gioia e amore.
Quindi
era quello, il libro che aveva promesso di leggerle. Lo aprì, e una scritta
tondeggiante e spigolosa le si presentò scritta a matita.
“Da
leggere davanti a un fuoco, seduta comoda, e in dolce compagnia.” Faceva la
citazione. Poco mancò che Cassandra andasse a sbattere contro un muro. Le
guance rosse.
«Dolce…compagnia?!»
mormorò, sconvolta. E un batticuore le giunse rapido, colpita da una frenesia
quasi impronunciabile.
«Oddio…»
disse, entrando nella stanza, lanciando con poca delicatezza la piccola casacca
sul letto disfatto. Si sedette sulla sedia alla scrivania, poggiando il libro
sul legno. Gli occhi fissi su di esso.
«E ora
che faccio…?!» si domandò, completamente in pallone. Passandosi una mano nei
capelli, disperata.
I due
giorni di calma furono essenziali per riabilitare e ristabilire un poco
d’ordine alla base Rossa. Elisa, aiutata da Ros e Giulia, ridiedero energia a
tutto lo stabile, e offrirono la loro forza per guarire i feriti. Ovviamente il
Capo della base Rossa non capiva il perché di questa pausa da parte dei nemici.
E imputava Elisa di questo, interrogandola ogni volta che ne aveva l’occasione.
Ma con una scusa, o con un’altra, la mora schivava ogni tentativo di dialogo dell’amica,
arrivando al giorno del combattimento. Fu facile svuotare il sacco, e Ros
ovviamente andò su tutte le furie. Ma ormai il gioco era fatto, affermò Giulia.
Non potevano tirarsi indietro. Elisa si presentò sul campo di battaglia, una
tuta protettiva minima, nera, contornava il suo corpo. Gli occhi fissi davanti
a sé.
L’uomo,
che aveva minacciato quella sera era di fronte a lei, in pompa magna,
completamente vestito di bianco.
«Donne,
mostratemi il vostro capo, non accetto doni di questo genere per…» aveva
iniziato a parlare, fraintendendo tutto.
«Risparmia
il fiato per il combattimento, uomo.» sentenziò Ros, autoritaria e di poche
parole come sempre. Preferiva sempre i fatti, che alle parole, lei.
Il viso
dell’uomo si colorò d’indignazione.
«Come
osi tu!» fece, sfilando la spada portata al fianco.
«Combatti
con me, uomo, non con lei. Sono io il tuo nemico.» disse Elisa, parandosi davanti
a Ros infuriata. Il capo nemico rimase sorpreso. Per poi mutarsi in
divertimento.
«Una
donna…?! Ah!» e rise di gusto, creando un onda d’ilarità anche nell’esercito
alle sue spalle. Elisa, sorrise, rispondendo a tono.
«Eppure
non hai riso, quando ti ho preso di sorpresa due notti fa…» stuzzicò la mora,
creando silenzio alla sua affermazione. Ros percepì un brivido di piacere,
vedendo il viso dell’uomo colorarsi di rosso.
«Quindi
eri tu!» fece, muovendo la lama, prima inerme, al suo fianco.
«Esattamente…
ma ora lascia che parlino le spade.» sentenziò, sfilando una spada dalla
cintura di Giacomo, che portava in cinta.
«Hai
sfidato l’uomo sbagliato, donna…» fece il capo nemico, sorridendo mutando i
suoi occhi in un rosso vermiglio.
«Ho un
nome, stronzo. Ed è Elisa. E ora taci…» disse, irata, gli occhi che iniziarono
a spezzarsi, mutandosi in giallo. Scattò, veloce, cogliendolo al suo fianco di
sorpresa. Il profumo della battaglia la estasiava.
«… e
combatti!».
E fu
così che la battaglia iniziò.
Quel libro stette tra le mie mani così tanto tempo, che
logorai ancora di più la sua copertina.
La storia era magnifica, i personaggi così intriganti, la
trama semplice eppure… profonda.
E la tristezza, in quel libro… trasudava da ogni pagina.
Elisa, addomesticami… per favore…
…
O l’hai già fatto…?
Ecco un
capitolo pieno di significati. Pieni di niente, e di tutto.
Pieni
di campi di grano e di rose. A buon intenditore, poche parole.
Passando
alle recensioni…
@m4rry990: Ben tornata! Sono sempre
felice di sapere che non ho perso il mio tocco J e soprattutto che non senti la
mancanza di certe scene che qualcuno invece lamenta xD
le sventure ci devono essere, se no sai che palle xD
Aspetto
un tuo commento ^_^
Eriok
@Adhara: Dovresti sapere che il personaggio
che voglio rispecchiare deve essere fedele all’originale J compresi i sentimenti. Ma questo non significa che Elisa
dormi con altre donne, la notte.
Con
dolcezza, ti bacio, perché delle volte ne hai bisogno
Ho il
batticuore. Qualcosa sta accadendo, lontano da me.
Elisa, cosa
sta succedendo?!
Ho paura…dove
sei? Dove sono le tue confortanti braccia, che mi scaldavano i sogni?
«Elisa!»
Ros scattò nervosa sul posto, Giulia che la trattenne. I suoi bei capelli
biondi che si scossero. La mora incassò il colpo, pulendosi il rivo di sangue al
labbro col polso e rialzandosi, riprendendo a combattere.
«Non ti
intromettere. Un combattimento come questo non va compromesso.» le disse,
guardandola con i suoi occhi castani. Lo specchio dei propri. Si arrese, uno
scatto alla mascella, invisibile per tutti ma non per la compagna.
«Capisco
la tua rabbia, ma devi solo stare ferma e…aspettare.» e con quello terminò, non
lasciando la mano di Ros, stringendogliela forte.
Elisa,
concentrata nel combattimento, non sentì per niente il fermento dei suoi
compagni, ma il peso del finale di questa battaglia sì. Elisa impugnò bene
l’elsa, diventata instabile per il sangue colato. Il combattimento era fatto di
risposte alle stuzzicate, due ore incessanti di chi con la propria tecnica
riusciva a rispondere all’attacco dell’altro. Più un combattimento di menti,
che di forza bruta. Elisa rispondeva bene, ma la fatica iniziò pian piano a
ledere la sua determinazione. Il fiatone e il sudore furono i primi segni che
la portarono a subire ferite.
L’ennesimo
colpo che la porta a gambe all’aria.
«Donna,
o come orgogliosamente vuoi farti chiamare “Elisa”, quando inizierai a
supplicare il mio perdono?» fece l’uomo, abbassando l’arme, convinto di aver
vinto la mora, rimasta a terra per riprender fiato. Elisa guardò Ros dal basso.
I suoi occhi fissavano l’uomo dietro di lei, i suoi pugni tesi facevano capire
l’ansia che aveva. Elisa si guardò le mani, ferite. E la determinazione si
colorò di quel rosso sangue che scorreva su di essa.
L’uomo
si avvicinò, alzando la lama per calarla su di lei. Uno sgambetto lo fece
volare per terra, in mezzo alla fanghiglia.
«Quando
l’inferno gelerà, uomo!» urlò, ruggendo di rabbia, saltandogli addosso e
iniziando a usare le mani chiuse con forza, abbandonando l’arma bianca.
L’uomo
incassò i primi colpi, ma con un colpo di reni capovolse la situazione,
portando la ragazza sotto di lei. Gli bloccò le mani, sorridente.
«Sai,
con le belle donne preferisco questa posizione…» mormorò, gli occhi luccicanti
di una voglia nascosta. Elisa sentì il suo desiderio farsi fisico, sotto la
veste. Altro colpo di reni inaspettato portò l’uomo sotto la presa d’acciaio
della mora.
«A me
piace questa, sai? Te, in mezzo al fango.» rispose, sputandogli in volto riprendendo
ad usare i pugni in serie.
Un
calcio dell’uomo fece leva, facendola rotolare lontana. Elisa si portò ad una
posizione animalesca, gli occhi spezzati da quelli felini. L’uomo, sorrise,
pregustando il vero combattimento. S’alzò, togliendosi l’armatura che gli
impediva i movimenti.
«Sai,
dovresti stare attenta, scegliere con cura chi sfidare…» mormorò, strappando la
giubba, mostrando il petto niveo, perfetto nel suo fisico scolpito. Elisa
continuava a fissarlo, fredda come solo una pantera poteva essere.
«… e
soprattutto il quando.» fece, guardando il cielo, che prometteva pioggia. Una
goccia cadde, e gli occhi dell’uomo si colorarono completamente di rosso
vermiglio. Il suo corpo subì in un istante una forte trasformazione: si ricoprì
di pelo scuro, stopposo, i tratti umani persi, la muscolatura ingigantirsi sino
all’inverosimile. Di fronte a lei non più un uomo, ma un essere disgustoso,
uomo frammisto al lupo famelico delle foreste.
Poté
scorgere un sorriso vorace in quel volto trasfigurato, prima di attaccarla in
una velocità pazzesca, togliendole il fiato.
Cassandra
percepì un colpo strano al cuore, guardando il luogo del combattimento che
ormai perdurava da una settimana. Aveva letto così tanto quel libro, che poteva
dire di conoscerlo ormai a memoria.
Riprese
a leggere i libri che stavano nella confusionaria scrivania della camera,
mettendoli silenziosamente in ordine. Quando finiva di leggerne uno lo riponeva
in una composta pila, sorridendo ai fogli scritti in fretta dalla donna dai
capelli corti, capendo poco o niente di quello che vi era stato vergato sopra.
Un
foglio giallo cadde da un libro, la riccia lo raccolse, guardandolo strana. Era
una mappa, più uno di schizzo, del mondo che era conosciuto prima del Giorno
dell’Apocalisse.
Vi
passò un dito sopra, vari cerchi cercavano di identificare il luogo in cui
erano loro, ma migliaia avevano punti di domanda.
«Ah!»
un colpo d’emicrania le impedì di mantenere la presa salta sul foglio, negli
occhi ricordi passati.
Una grande biblioteca, su più
piani, completamente costruita di cristallo.
La bambina guardava stupita, una
mano calda la guidava. Era morbida, quella mano. Gli occhi ripieni di quella
meraviglia.
Fu in quella biblioteca che
imparò a leggere. E nella sua corta vita doveva leggere tutto quello che vi era
contenuto in uno scaffale solo. Erano così strani quei libri… non erano favole,
né divertenti storie buffe.
Parlavano di riti, parole
strane, disegni arabeschi e… morte.
«Non mi piacciono quei libri,
mamma…» mugugnò la bambina, ridando il libro a quelle mani calde. La luce era
tanta, in quella biblioteca, anche di notte. Una sola candela posta nel luogo
giusto, illuminata tutto.
Ma sapeva dentro di sé che
Cassandra doveva leggere tutto, doveva sapere tutto quello che vi era contenuto
in quei libri… perché gli serviva. Gli sarebbe servito per salvare l’eroe del
Nuovo Mondo.
Ma lei non voleva salvare
nessuno, aveva paura di non riuscirci.
Fu in quella biblioteca che
sulla sua schiena si disegnò il suo destino.
Era
caduta dalla sedia Cassandra, tenendosi le mani sulla testa. Rannicchiata a
terra, sospirava disperata un nome solo.
«Elisa…
Elisa... dove sei?» chiese, le lacrime agli occhi che pizzicavano. Ma non
ottenne risposta.
Elisa
incassò l’ennesimo colpo che le tolse il fiato, ricadendo a terra, in mezzo al
fango e bagnata dalla pioggia. Sputò l’ennesimo grumo di bile e sangue,
rannicchiandosi per il dolore.
«Arrenditi
donna, o ti ammazzo!» urlò l’essere, con voce umana. La prese per la gola,
sollevandola in aria. Elisa incominciò a scalciare, cercando di prenderlo in
volto, l’ossigeno che manca. La vista che inizia a calare. Le braccia crollano
dalla presa sul suo collo. Le gambe molli, lo sguardo appannato verso il cielo.
La vita che vuole sfuggirti
dalle dita.
«Elisa!»
Ros che urla. Ma la mora non la sente, non sente più niente, solo le gocce di
pioggia che si fermano a piangere sul suo viso.
Un suono di campane nel cuore.
Il
silenzio della dipartita.
«No,
non è ancora giunta la tua ora Elisa… la Sacerdotessa ha ancora bisogno di
luce. Il Mondo ha ancora bisogno del suo eroe.».
Una
voce chiara nelle orecchie. Ritorna a vedere distintamente le nuvole.
Riprende
la presa sul suo collo, spingendo forte. Gli occhi completamente gialli, preda
della pantera.
Elisa… Elisa… Dove sei?
«AH!»
urlò, aprendo la presa ferrea liberandosi, la pantera che prende forza, la
collana blu che rimbomba un suono cupo, la luce sprigionata le infonde forza e
calma allo stesso tempo.
«Che
magia è mai questa?!» urlò l’essere, sorpreso di come la donna, in fin di vita,
ha ritrovato le forze, liberandosi persino.
Elisa
scattò, lanciò un coltello comparso dal nulla. L’uomo-lupo lo evita di
striscio, scattando verso di lei e attaccandola a pugno aperto. Gli artigli
luccicanti neri. Elisa fermò il colpo con un fermo braccio. Gli occhi che
incenerirono quelli rossi dell’uomo.
«Muori.» gorgogliò la donna-pantera,
scattando con la mandibola e tranciando di netto l’arteria principale con un
colpo preciso delle fauci. L’essere si strinse la parte lesa per pochi secondi
prima di cadere a terra, in un bagno di sangue.
Elisa,
guardò la scena fredda, gli occhi scuri glaciali. Al collo la collana che
l’aveva salvata.
Quando
l’uomo sputò l’ultimo respiro, il suo corteo intero esplose in un urlo di
gioia. Sentì pacche accorate, e urla di giubilo. Ma fu ancor più bello vedere
le truppe nemiche dirigersi verso l’accampamento, per smontarlo, pronti a
partire, demoralizzati.
«Ce
l’abbiamo fatta!» urlò Ros, saltando al collo della mora, facendola piegare.
«Ehi
calma, sono ancora ferita… ricordi?» fece, mostrandole i numerosi tagli al
corpo e al ventre.
La
rossa lasciò la presa, gli occhi luccicanti. Elisa sorrise, guardando verso la
cittadina poco lontana.
“È
finita, finalmente… Cassandra, sto tornando da te.” Con un ultimo sguardo alle
truppe, Elisa lanciò una ricetrasmittente a un carico. Il suo secondo piano era
di sapere da dove quei nemici erano spuntati fuori.
E,
magari, capire una via di fuga da quella valle che era stata per tanto tempo la
loro casa.
Ricordi
persi che riemergono, il destino di una donna deviato da una semplice pietra azzurra.
Qual è il destino di Elisa? E cosa ci faceva Cassandra in quella biblioteca?
Lasciandovi
alle vostre supposizioni, io rispondo alle recensioni:
@Adhara: Pensi, volpina? ;) comunque sono
felice che tu senta questa Cassandra molto vicina, perché è a te che mi ispiro,
mentre scrivo di lei, e dei suoi sentimenti…che in parte, o del tutto, sono
anche i miei J
Questa “scapestrata”
che ami tanto non ha intenzione di allontanarsi da te per nulla al mondo. Invece
degli amici ha trovato l’amore in questo pianeta. Non lascio la Terra. A meno
che non ti porti con me.
Un
bacio, mia gentil donzella che dolcemente alberghi nel mio cuor J
Sentirti stringermi. Oh, Cassandra…che bello poterti riabbracciare.
Ancora.
Elisa e
l’intero plotone, o almeno quello che ne rimaneva, entrarono trionfanti,
sorridenti sotto le fasciature e le menomazioni riportate. Elisa vide amici e
sorelle riabbracciare i fratelli e amici partiti. E alcuni piangere in silenzio
nel non scorgere chi era partito, ma non tornato.
Giacomo
si presentò davanti a Elisa, con le lacrime agli occhi.
«Sono
tornata intera, non ti preoccupare.» le fece lei, sorridendo. Lui annuì,
asciugandosi gli occhi.
«Lo
sapevo…che non mi avresti lasciato qui a capo ancora per molto.» disse ridendo,
dando una pacca leggera alla spalla della ragazza.
Poi un gridolino,
e un paio di braccia che le avvolgono il collo, un ammasso di dolci e profumati
capelli ricci che le inondano la faccia. Le strinse le braccia ai fianchi,
stringendo forte.
«Cassandra…»
mormorò, sentendola singhiozzare in silenzio.
«Elisa…»
sussurrò la riccia, stringendola ancora, sentendo il nodo alla gola
sciogliersi. Elisa si beò del dolce suo profumo. Rose.
«Sono
qui, non preoccuparti…» sussurrò, sentendola piangere. La coccolò un poco,
dondolandola piano.
«No, no…
non piangere… sssh, sono qui…» mormorava, passandole
una mano tra i capelli, il suo volto nascosto nel suo seno. Cassandra sentiva
il suo cuore a mille. Sembrava quasi che si confondesse con il cuore di lei, altrettanto
emozionato.
«Oh,
Elisa… mi sei mancata…da morire…» rispose, alzando lo sguardo arrossato. Vide quelle
pietre d’ambra colorate, così belli, magicamente accesi di vita dorata.
«Dai,
su su…» disse Elisa, asciugandole le lacrime con il
dorso della mano. Cassandra si beò di quel tocco dolce e delicato, ma
leggermente ruvido. E notò la mano ferita.
«Ma tu
sei ferita…!» affermò, spaventata.
«Oh,
solo qualche graffio, non preoccuparti.» ma non fece in tempo a rispondere che
si vide trascinata in infermeria.
«Tu
adesso ti fai vedere da Amir, subito!» affermò,
protettiva. Elisa si fece trascinare, sorridendo.
Elisa
entrò in stanza, sbuffando, e lanciandosi cadere sul letto di peso, stanca per
la lunga camminata sostenuta.
«Come
ti senti…?» chiese Cassandra, sottovoce. La luce della luna filtrava dalla
finestra, disegnando un cerchio perfetto sul pavimento.
«Distrutta.»
rispose, con voce stanca. Cassandra poggiò la sua borsa per terra, chiudendo la
porta. Non accese la luce. La scorse sul letto, le pupille accese nel buio la
attraevano come una vittima verso gli occhi del suo cacciatore. Era così
ammaliante, nella fosca luce della Dea della Notte…
«Cassandra…»
la chiamò, e la riccia sentì un batticuore salirle in gola. Forse si è accorta
che la stava fissando.
«Dimmi…»
disse, rossa in volto. Sperava che la dolce coperta della notte la stesse
nascondendo. Eppure nella sua mente, i pensieri correvano, rapidi, per le
colline dell’immaginazione. Cadendo tutti, inevitabilmente, sulle labbra di
lei.
«Mi
racconti una storia…?» chiese, girandosi e sbucando dal cono di oscurità che
avvolgeva il letto. La testa appoggiata sulle braccia incrociate, aspettandola
paziente. Cassandra si sedette sulla sedia della scrivania, proprio di fronte a
lei. Sorrise alla domanda innocente della ragazza, afferrando il libro del
Piccolo Principe.
«Sei
riuscita a capire perché ti ho dato quel libro…?» domandò, guardandola con
occhi di brace. Quando la fissava così Cassandra perdeva completamente il
fiato. Era di una bellezza statuaria.
«Beh, sì…
almeno credo.» disse, aprendo il libro, imbarazzata. Accese una candela, per
vedere le pagine.
Elisa
si alzò, togliendosi la casacca.
«Ehm…»
mormorò la riccia, imbarazzata. Elisa si stava velocemente denudando, lanciando
i vestiti sulla cassiera.
«Scusami,
ma c’è un caldo pazzesco, e ho voglia di liberarmi di questi vestiti antiacido…»
disse, come scusante. Cassandra ringraziò il fatto che decise di rimanere in
canotta e boxer (indumento non tanto femminile, ma la riccia lo trovava
arrapante comunque), altrimenti non avrebbe avuto il fiato per leggere.
«Ora
puoi iniziare, scusami.» affermò Elisa, rimessasi nella posizione iniziale. La canottiera
lasciava uno spiraglio ai seni, avvolti dal reggiseno. Cassandra distolse
velocemente lo sguardo e iniziò a leggere, con voce tremante.
«Fine.»
mormorò, chiudendo il libro trionfante. Respirò profondamente e guardò la candela,
quasi finita. Passò lo sguardo su Elisa, che aveva gli occhi quasi chiusi. Il
sonno la stava lentamente prendendo, ma ebbe la forza di guardarla leggere per
tutto il tempo. Con la mano le fece segno d’avvicinarsi. La riccia pose il
libro sulla scrivania e spense la candela con un soffio. La luce della luna ora
filtrava di meno dalla finestra, e mentre tentennava verso il letto Elisa le
afferrò la mano, facendola cadere su di sé.
«Dormi
con me, stanotte.» le chiese Elisa, con voce bisognosa. Nel buio Cassandra vide
i suoi occhi. E il suo cuore perse un battito. La sua presa sulla sua vita, il
suo bacino vicino al suo, le sue gambe aperte su di lei.
«I-io…» mormorò, sentendo la gola chiudersi.
Tante
emozioni in colpo solo. E Cassandra vacillò.
«F-forse è meglio…che ognuna dorma per sé.» paura. Tanta paura.
Elisa
capì. La sentiva fremere, tremante. Impaurita.
Fece un
sorriso di circostanza. Non doveva dare peso a quel rifiuto. Eppure…
«Va
bene.» affermò, atona. Leggermente ferita nell’animo. Lasciò la presa su di
lei, e si distese nella parte sinistra del letto, dandole le spalle.
«Elisa…»
sussurrò la riccia, quasi supplicandola. Ma la mora non ascoltò, evitò di farsi
vedere piangere.
Eppure,
durante la notte, Elisa sentiva che qualcosa le mancava. Come il bisogno
continuo di una presenza accanto, nel sonno. Per tutta la notte, non dormì. Si alzò,
quando mancava poco all’alba, senza svegliare la riccia. Si vestì, indossando
gli indumenti della scorsa notte. E mentre si allacciò l’ultimo bottone perse
lo sguardo su di lei.
Era
così bella, Cassandra, nel sonno. Tranquilla, raggomitolata su di sé, le mani
leggermente chiuse, gli occhi celati dalle palpebre, i suoi capelli che
cadevano sparsi sul cuscino. Si girò, con gli occhi umidi, vergò poche scritte
su un foglio e uscì senza farsi sentire.
“Ho una missione da compiere, da sola.
Non cercatemi, non contattatemi, prima o poi tornerò.
Devo capire da dove sono usciti questi aggressori.
E lo devo fare da sola.
P.S. Cassandra, spero che tu un giorno possa perdonarmi per
quello che ti ho chiesto.
Scusami.
Tua,
Elisa”
Quando
Cassandra lesse queste righe, svegliatasi per colpa di un presentimento, si
vestì in fretta. Doveva raggiungerla. Il più in fretta possibile. Sentendosi
colpevole per la fuga della mora. Al bordo delle lacrime uscì dalla base,
armata di un fucile e di una spada. Nel silenzio del mattino andando.
Ecco il
nuovo capitolo. Chiedo venia per il lungo tempo passato ma gli esami e una
nuova storia iniziata mi hanno fatto perdere di vista questa. Sono ritornata
sulla retta via ora ^_^
Rispondendo
alle recensioni, mia cara Adhara anche se stai facendo le pulizie in camera tua (era
ora!) ti rispondo comunque anche se non potrai leggere subitissimo
questo capitolo ;) però questa volta ti perdono ù.ù
la battaglia l’abbiamo vinta amore J l’abbiamo vinta…e ne sono
completamente felice.
Elisa,
trasformata nel suo animale, correva veloce e scattante per la foresta
incontaminata, correva e piangeva, correva e non pensava, semplicemente agiva,
evitando rami, foglie, tronchi morti con gli occhi freddi, gialli da felino.
Ormai
la luce era diventata più forte, secondo il suo visore era mattino ormai. Nella
base si saranno già svegliati… ma ora che scoprano la sua fuga sarà troppo
tardi. Aveva rubato un visore a Giacomo, e l’aveva impostato per il segnalatore
che aveva lanciato al carro. Ora un quadrato, debole, pulsava nello schermo
arancione, posto sugli occhi.
“Giacomo
è un genio.” Pensò, continuando a correre. Era arrivata alle montagne. Si alzò
ritta sulle zampe, gli occhi concentrati. Con un tocco lo schermo scompare.
«Qui
inizia il difficile.» mormorò, e dalla cintura fece uscire uno dei guanti di
Giacomo. Lo adattò, e iniziò ad infilzare la parete, mano dopo mano, per salire
sul ripido muro.
Cassandra
corre, in mano il fucile, col fiatone solo dopo pochi metri. La gonna le
impedisce i movimenti ma non aveva trovato altro che le potesse andar bene.
«Elisa!»
iniziò ad urlare, cercando di farsi sentire dalla compagna. Un piede in fallo
la fece rovinare a terra.
«Ahia…»
disse, portando una mano alla caviglia. Le doleva da morire. Poi, come un sesto
senso, voltò lo sguardo. Due occhi gialli la fissavano, fermi su di lei.
«O Dea…»
mormorò, vedendo davanti a lei un felino dalla pelliccia rossa, un leone con la
criniera folta. Si passò la lingua sul muso, come se assaporasse già il sapore
ferroso della sua carne. Iniziò ad avvicinarsi.
«Aiuto!»
iniziò ad urlare, prendendo in mano il fucile e iniziando a sparare. Non colpì
l’animale che, spaventato, si rifugiò in un cespuglio. La ragazza però dallo
spavento continuava a sparare alla rinfusa, creando confusione.
Peccato
che si fosse dimenticata delle munizioni.
Elisa
passò la mano sul bordo, alzandosi finalmente dalla rientranza che voleva
raggiungere. Osservò dall’alto la foresta, così calma, silenziosa, sbuffando un
poco per la fatica. Si passò una mano sulla fronte, togliendosi il guanto.
Un rumore
strano le rubò l’udito. Gli occhi si concentrarono su un punto, un movimento di
foglie inappropriato.
Attivò
il visore, e il rilevatore di calore individuò due figure.
Protese
le orecchie, tentando d’ascoltare.
«Aiuto!
Elisa!» chiamò disperata la ragazza, piangendo lacrime mentre finì l’ultima
raffica di pallottole. Quando buttò l’arma via, prese la spada, e si mise
distesa.
«Dea,
aiutami, non posso morire così… te ne prego…» mormorava, stringendo la caviglia
dolorante. Quando la belva uscì, affamata e ormai sicura della morte della sua
vittima, sembrava quasi sorridente, e con andamento tranquillo si avvicinò a
lei, aprendo lentamente le fauci. Gli occhi dilatati per il piacere. Occhi gialli.
Occhi
affamati.
«Elisa…»
disse, per l’ultima volta. La spada non le sarebbe servita a niente, pensò, e
così l’abbandonò a terra. Le mani tremanti. Gli occhi supplicanti.
«… ti
prego…» e non seppe se si rivolgeva al leone ormai a pochi metri da lei o alla
ragazza.
Elisa
si lanciò dalla montagna, lasciandosi cadere. Il visore attivato, gli occhi
spezzati di giallo.
Atterrò
così silenziosamente, che nemmeno una foglia si spostò. Iniziò a correre,
sentendo come il bisogno di tornare indietro un ultima volta, prima di andare.
Poteva
sentire l’alito puzzolente di carne putrida, Cassandra, ormai arresasi all’evidenza
della morte violenta. Gli occhi abbandonati fissarono vacui il leone.
E poi, un
ringhio.
Il
leone. Stava ringhiando.
“Ma
contro chi…?” pensò la ragazza, vedendo una figura nera, più in là.
«Cassandra,
stai bene?!». La sua voce. Non era un miraggio.
«Elisa!»
disse, con così tanta gioia nel tono da quasi saltare sul posto, se non fosse
per la caviglia.
«Ho la
caviglia storta! Non riesco a camminare!» disse, cercando di trascinarsi
lontana dal felino. Allungò una zampa, tenendola ferma con gli artigli,
entrando nella carne.
Cassandra
urlò dal dolore, ed Elisa scattò, trafiggendo l’animale con l’arma lasciata a
terra dalla ragazza. Il leone spirò senza colpo ferire, e la riccia fu salva.
«Elisa!»
disse, lanciandosi al suo collo, stringendola forte. La staccò, dolcemente sì
ma con forza.
«Perché
sei qui?» domandò seria, guardandola dal visore.
«Io…tu
non devi andare via, per colpa mia. No.» disse, rossa in volto e con una punta
di vergogna nella voce. Elisa la guardò, e poi rise.
«Cosa c’è?!
Non c’è niente da ridere…» disse, immusonendosi. Elisa la guardò, e tolse lo
schermo con un tocco.
«Non è
per te che me ne sono andata.» le rispose, prendendole la caviglia.
Cassandra
la guardò, come sorpresa, mentre le toccava un punto dolente.
«Ahi!»
disse, guardandola offesa. Elisa la guardò, e rise ancora.
«Sai,
sei ancora più adorabile quando ti offendi…» le mormorò, facendola tacere. Il viso
ancora più rosso.
Strappò
una parte della gonna che portava lei, e le legò un legnetto alla caviglia.
«E lo
sei ancora di più quando arrossisci…» aggiunse, stringendo il nodo. Passò lo
sguardo cupo sul suo viso, e si alzò.
«Non
importa come sono.» rispose, seria. Elisa si sorprese di come reagì.
«Io vengo
con te, dovunque tu vada. Non mi lasci qui da sola.» disse, alzandosi,
zoppicante.
«Mi
rallenteresti soltanto.» aggiunse, dura.
«Non
puoi viaggiare da sola, e se non mi vuoi puoi anche lasciarmi qui…ma io seguirò
le tue tracce.» disse, rispondendo con la stessa freddezza.
«Perché
sei così fissata con me!?» le chiese, iniziando a urlare.
«Perché
TU sei fissata con me!?» ribatté, zittendola. I loro occhi irati che si
fissavano.
«E va
bene, ti porto con me. Contenta?» le disse, guardandola seria. Lei annuì, e
iniziò a marciare, zoppicando per l’infortunio.
«Dove
vai? Non andrai da nessuna parte finché non sarai ben equipaggiata…» disse,
tirando fuori dalla cintura una tuta.
«Avevo
quasi sperato di utilizzarla. E così è… indossala. Ti servirà contro il freddo
delle montagne.» intimò, aspettandola.
Cassandra
guardò la tuta, poi lei, e poi un dubbio nella testa affiorò.
«…ora?»
le chiese, con un ciglio alzato. Elisa incrociò le braccia, con una faccia da
schiaffi.
«Se
vuoi venire con me, devi stare alle mie regole. E questa è la prima e la più
importante: obbedire a Elisa, senza ribattere.» affermò, con gli occhi fissi
nei suoi, determinati.
«E ora
io ti sto chiedendo di spogliarti e di mettere quella tuta. Ah, e sia chiaro,
devi indossare solamente quella tuta.» aggiunse, e fece l’occhiolino. Il volto
di Cassandra si infiammò, ma lo sguardo era determinato.
Si tolse
il maglione, gettandolo a terra, rivelando una seconda maglia. Si sciolse la
gonna, facendola scendere lungo le gambe, sode, la ferita leggera del felino
non perdeva sangue, e si era già mezza rimarginata. Indignata per lo sguardo
eloquente di Elisa si voltò, negandole la piena visione. Sentì un sogghigno
della ragazza, che continuava lo stesso a far pesare lo sguardo sulla figura
esile della riccia.
Tolta
la maglia rimase il reggiseno. Sulla schiena svettò forte il tatuaggio che
Elisa aveva visto solo di poco nel bunker di quegli uomini pazzi. Una croce,
con quattro gambe di ugual lunghezza, posta sopra una girandola di petali che
si evidenziavano negli spazi vuoti della croce.
Andò
con le mani, nervosa, al reggiseno. Lo sguardo bruciante della donna sulla
schiena. Bruciava sì, ma di desiderio. Sentì le sue mani sul gancio, un brivido
caldo.
«Aspetta,
ti aiuto…» mormorò, con voce bollente. Il suo respiro caldo sulla spalla.
“Dea,
che piacevole sensazione…” pensò, muovendo la testa e guardandola, di scorcio,
tra i capelli ricci.
Le
scostò le spalline, lasciandolo cadere. Le baciò una spalla. Miriade di
brividi.
Le sue
mani stuzzicavano il bordo delle mutande. Desiderò con tutta se stessa che
continuasse, quando non la sentì più vicina a sé. Il suo calore era sparito.
«Finisci
di vestirti, se no ci mettiamo tutta la giornata!» le disse scherzando, tornata
alla posizione di prima, a pochi metri di distanza. La guardò, rossa e irata,
per poi sfilarsi velocemente le mutande per infilarsi la tuta.
Aderiva
completamente alla sua figura, era laccata di nero, e non dava nessun fastidio,
appariva quasi come una seconda pelle.
Non
sentiva freddo, e constatò che una ventata di freddo le arrivò alla faccia, non
le fece sopraggiungere un brivido.
«Ora
che sei pronta, mettiti questo.» disse, porgendole un caschetto con visore
arancione, spuntato fuori dalla cintura di Giacomo, assomigliante in tutto e
per tutto alla borsa di Mary Poppins.
«A me
non va bene, mi è piccolo.» aggiunse, vedendo che a lei calzava a pennello. Nascose
bene i capelli sotto il casco, e tentò di accendere il visore.
«No,
non funziona, è rotto. Ma lo tieni per proteggere gli occhi. Se però schiacci
quest’altro bottone…» le spiegò, toccando un preciso bottone sul casco, e la
tuta avvolse la parte della bocca, scoperta, riparandola completamente.
«Ti
proteggerà dai venti freddi che ci saranno là. Bene, ora andiamo.» disse,
trasformandosi e intimandole di salire sul dorso.
Cassandra
sussultò, quando sentì la voce gracchiante di Elisa dentro il casco.
«Tieniti
al collo, e appoggia i piedi sulle mie gambe. Stringi tranquillamente il pelo,
quando perdi la presa.» la voce di Elisa, soffocata dall’animale, comunicava
dal visore che indossava. E quando sentì la riccia avere una presa salda
scattò, iniziando il loro viaggio verso l’ignoto.
Il suo sguardo sul mio corpo, le sue mani, il suo respiro…
era una cosa così eccitante, ma allo stesso tempo dolce.
Quest’ultimo aspetto non l’avevo calcolato, con te, Elisa.
Tu sei dolce, e confortevole, a discapito di qualsiasi
altro. Il corpo degli uomini, invece è… rozzo.
Completamente differente, rispetto a te… e alle tue labbra.
Dea, perché ti desidero così tanto!?
Non capisco… ho troppa confusione nella mia mente, Elisa…
… mi aspetterai?
Aspetterai che io faccia ordine nella mia testa e, soprattutto,
nel mio cuore?
Elisa…
… Ti prego…
… Aspettami.
Ecco il
nuovo capitolo, partorito oggi, con lentezza. Oggi sì, che ho l’ispirazione J
Spero
che questo capitolo, con scene tendenti all’erotico ma che alla fine…!
Scherzetto! xD
Sì, lo
ammetto, sono perfida ù_ù
Rispondendo
alle recensioni, Adhara,
sperando che questo bacio e questa toccata e fuggi ti sia piaciuta ;) ti dico
che ho voglia di covare UOVA xD e potevi dirmelo che
ti do fastidio, quando fischietto ù_ù comunque, anche
se quella settimana è passata, io ti amo ancora di più e sì… voglio raggiungere
casa mia il prima possibile.
Il sangue
sulle montagne non dovrebbe scorrere così tanto…
Elisa
continuava a correre, silenziosa, saltando sulle punte e sulle pareti delle
montagne senza mai fermarsi. Dopo delle ore Cassandra accusò un forte mal di
schiena, e Elisa le suggerì, con poche parole, di assecondare i suoi movimenti.
Ci provò, ma dopotutto era come imparare a montare un cavallo: ci vogliono dei
giorni per imparare. Il viaggio fu lungo e soprattutto silenzioso, fatto di
brevi pause per i bisogni corporali e di spuntini veloci, a seguire un segnale
che solo Elisa poteva vedere, lampeggiante, ma sempre più intenso.
Si
fermarono quando l’ultima parvenza di luce scese, e il freddo aumentò.
«Ci
appostiamo qui per la notte.» grugnì Elisa, intimando di scendere alla ragazza
in groppa. Cassandra fece ciò, zoppicando, la caviglia che ancora le doleva.
Riprendendo
forma umana, fece sparire il visore e Cassandra la guardò, per poi ricopiarla
nei gesti.
Dalla
cintura dell’amico la donna dai capelli corti fece spuntare fuori un preparato
per tende, e iniziò a montare, mentre Cassandra la fissava, immobile.
«E io
cosa faccio?» domandò, guardandola mentre avvitava un’asta. Elisa la fissò, si
guardò in giro e poi parlò.
«Siediti
su quella roccia, sei ferita, finché non ti ristabilisci non ti muoverai più di
tanto.» la riccia annuì, guardandola di sbieco. Finì la tenda in pochi minuti e
sbuffando per la fatica aprì la tenda per farla entrare, porgendole una mano.
«Prego.»
mormorò sorridente. Cassandra mantenne la faccia da offesa, ed entrò cercando
di ignorarla. Ma non ci riusciva, dopotutto c’era soltanto lei come presenza
umana nel raggio di chilometri.
«Spero
non ti dispiaccia se dormirai con me in questo unico sacco a pelo.» mormorò,
guardandola con un sorrisetto nascosto sotto i baffi che non aveva.
Un
leggero rossore passò nel volto della donna, e fece un diniego con la testa.
Tirò fuori sempre dalla cintura un fornello da campeggio, e un pentolino.
Iniziando a cucinare le sprovviste portatesi dietro.
«Hai
fame?» domandò poi Elisa, guardando la riccia con sguardo sincero. Cassandra la
fissò, per un tempo indefinito, prima di rispondere.
«Sì.»
sussurrò, con poca voce, e divenne rossa alla sonora risposta del suo stomaco.
Quando poté assaggiare lo stufato di verdure di Elisa, Cassandra andò in
visibilio. Era gustosa e molto buona, e la mangiò tutta.
«Ora
dormiamo, domani sarà una giornata lunga come questa, e tu sei stanca.» mormorò
con voce dolce, bassa. Perché in quella vallata deserta non vi era bisogno di
urlare. Perché lei la ascoltava comunque, lo sapeva.
Cassandra,
sbadigliando sonoramente, annuì, infilandosi nel sacco a pelo.
Si
strinsero insieme, in un dolce abbraccio, quella notte. Come quelle sere di paura
in quella gabbia sotterranea di pochi giorni fa.
Un
passato lontano anni, ma che ancora, nella notte, spaventava la riccia,
stringendosi alla mora che contraccambiava, ai suoi mugugni di paura notturni.
Le sussurrava dolci parole, mentre dormiva, e lei si calmava, facendo un lieve
sorriso. Elisa, guardandola, si riempiva di così piacevoli sensi ed emozioni,
che non le mancava di porle un piccolo velo di bacio sulla fronte.
Perché
le era concesso solo quello, nelle notti fredde di quel deserto aguzzo di
montagna.
Elisa corre, corre nel deserto
di alberi secchi e cadaveri di macchine ormai abbandonate. Corre per la strada,
fugge, salta gli ostacoli. In mano un fucile, ancora troppo giovane, troppo
stupida per capire che il giorno dell’Apocalisse è giunto troppo presto.
Un leone di fronte a lei le
balza addosso. Uno sparo. Una donna. Un ricordo vomitato dal passato.
Elisa
sobbalzò, spalancando gli occhi, i sensi allerta, Cassandra che la fissa con
una fiaschetta in mano.
«Come
ti senti?» le domandò la riccia, passandole l’acqua. Elisa bevve, assetata. Poi
la guardò, si passò una mano sulla fronte. Aveva sudato freddo.
«Niente…
un incubo… un vecchio ricordo.» rispose, non fissandola negli occhi. Cassandra
scostò il suo sguardo verso il proprio, con la mano, con dolcezza.
«Raccontami
tutto, non ho più sonno… e a quanto pare nemmeno tu.» affermò, ritornando nel
sacco a pelo con lei, guardandosi negli occhi una di fronte all’altra.
«Va
bene…» sorrise la donna, e sistemandosi meglio sul cuscino iniziò a raccontare.
Elisa fissava la donna che
l’aveva salvata con dubbia fiducia. Sporca, i capelli a caschetto non curati,
in apparenza una selvaggia salvata da una Cacciatrice passata di lì, per caso.
Lei sono una Vittima, una Sacrificabile.
«Come ti chiami?» domandò la
donna, fissandola con quegli occhi spezzati di giallo, quella coda che si muove
sinuosa, nera come la notte. Nera, come la morte.
«Non ho nome.» rispose, e
strinse di più il fucile, il colpo in canna, il cuore che batte all’impazzata.
«Non ci provare. Non faresti in
tempo a mirare che già saresti morta.» la informò, e la ragazza impallidì.
«Molla quell’arma e seguimi.» intimò, gli occhi tornati normali, la coda che si
muove sinuosa, tranquilla. Gli occhi di ghiaccio che la fissano
imperscrutabile. Elisa si mosse, fissandola male per tutto il tempo. Il fucile
abbandonato su una pietra di cemento.
«Chi
era quella donna?» domandò Cassandra, interrompendo il racconto. Elisa sorrise,
e rispose con un barlume di vecchia felicità.
«Diventò
ciò che mi è stato tolto dall’Apocalisse… una madre.».
«Elisa, devi stringere e poi
sentire il clic…» disse la donna, istruendo la bambina a montare e smontare
un’arma.
«Così?» chiese la ragazza, i
capelli lunghi raccolti in una debole coda.
«Sì…» e un clic leggero venne
percepito dalle orecchie di entrambe. Elisa sorrise, e la donna la guardò,
facendo altrettanto.
«Sai,
mia madre è morta il giorno della Pioggia di Fuoco, per proteggermi dalle
pietre della nostra casa che cadevano.» informò, guardandola di sbieco.
«Io non
ricordo nemmeno mia madre… solo le sue mani.» aggiunse, guardando le sue. La
mano di Elisa la strinse. E guardandosi un secondo negli occhi luccicanti
riprese a raccontare.
«Forza Elisa! Ora!» e la ragazza
spinse l’ennesima presa, dando luce all’intero edificio.
«Sì! Resiste, ce l’abbiamo
fatta!» urla, gioiosa. La donna la prende in braccio, la stringe, a bordo delle
lacrime.
«Finalmente la base funziona!»
risponde Elisa e la stringe forte. L’ultimo abbraccio prima dell’assalto.
Gli
occhi di Elisa si velarono di scuro, e abbassò lo sguardo. Cassandra pose il
palmo sulla guancia e la guardò. Gli occhi accesi, pieni di conforto.
«Cosa è
successo quel giorno?» domandò, con un fil di voce. Paura di sentire la
risposta. Paura di sentire il suo ennesimo fardello, peso, tortura e dolore.
«Lei
morì… per salvare me.» sussurrò, tra le lacrime, nella memoria ancora l’immagine
di un ricordo.
«Rientra! Ti prego!» urlava
Elisa, dal portone, la barriera antianimali non era ancora attivata, ci voleva
tempo per ricaricarsi.
«No, resisterò fin quando non si
attiva!» urlava, mentre sbranò l’ennesimo lupo. I più feroci in battaglia,
assalivano in branco. In branchi di centinaia di individui.
«Ti prego…! Non voglio perdere
anche te…!» pregava ad alta voce, tra le lacrime. Poi un allarme. Un animale
che stava entrando. Il portone di emergenza si attivò.
«No!» nell’ultimo spiraglio la
donna si distrasse per uccidere il lupo che stava per azzannarla. Poi il branco
si addossò a lei.
Vide il suo sorriso soddisfatto
per aver salvato la sua figliuola, Elisa, prima di sparire sotto i lupi e
dietro il portone.
Rimase davanti a quella porta a
piangere lacrime amare fino al giorno dopo, per seppellire ciò che era rimasto
del suo corpo.
«Elisa…»
ora due mani le stringevano il volto. Le lacrime della bruna dai capelli corti
continuavano a cadere.
«Ogni
persona che amo… prima o poi mi viene strappata via…» sussurra, tra in
singhiozzi e poi scoppiò, stringendo la ragazza dai capelli ricci,
raggomitolandosi a lei come ferita, chiedendole calore.
Cassandra,
lacrimante, continuava a stringerla a sé, passarle la mano nei capelli corti,
sulla schiena, dondolandola piano.
«Sssh… calma…» mormorava, mentre dondolava, come se fosse
una bambina piccola, da addormentare.
Il
dolore si assottigliò, diventando un gemito sommesso. Per poi mutarsi in un
respiro profondo. Si era addormentata.
Cassandra
sorrise, mettendosi ad accarezzarla dolcemente. Scostandole ciuffi ribelli qui
e la, rivelando il suo volto diventato tranquillo, cullato dalla calma del
sonno.
«Sei
così piena di fardelli, piccola mia… Vorrei poterli prendere io, e liberarti
dall’anima pesante di dolore che ti porti dietro…» mormorava, parlando alla
donna addormentata «Non so te ma, questa donna che ti sta cullando nel sonno,
non ha la minima intenzione di farsi strappare dalle tue forti e dolci
braccia.» e detto ciò si accoccolò più vicina a lei, e chiuse gli occhi,
poggiando un flebile bacio d’amore sulle labbra rosee della donna pantera, dai
corti capelli scuri e dal sorriso illuminante.
Non faccio mai tanti sogni.
Ma tu, sì tu, sei sempre lì. Qualsiasi immagine produca la
mia mente.
Stanotte, addormentandomi col tuo profumo, ho sentito un
calore…
… sì, un calore mai provato prima.
Ho sognato di darti un bacio stanotte, angelo mio.
Chissà, magari l’hai sognato anche tu…
… perché ho potuto sentire il gusto delle tue labbra
attraverso il Velo di Maya.
Ecco un
nuovo capitolo partorito con difficoltà visto gli imprevisti (dolci e non) che
ho avuto in questo periodo.
Chiedo
venia per il ritardo, ma gli impegni purtroppo rendono la mia produzione più
lenta… dopotutto sono un essere umano!
Passiamo
alle recensioni:
@Adhara: Visto che mi hai scritto a punti,
allora risponderò tale e quale ù_ù
1)Lo
so che non ci vogliono 3 week di leva, ma era di fretta ù_ù
2)Se
non te lo ricordi hai qualche problema di testa O.O
3)IO
SONO DIO, quindi lei deve obbedire ad ogni mio ordine sia quello di “spogliarsi”
o meno ù_ùihihihihihi *W*
4)Le
uova io le faccio in salmì!
Lettore
incauto che leggi questa risposta a QUESTA recensione, non ci badare ù_ù ho risposto per le rime ad una non normale lettrice xD
Perché la
neve, bianca carta, arriva e ti strappa la vita con facilità.
Basta poco.
È lenta,
costante, si prende quello che vuole:
il tuo
calore, la tua vita…il tuo colore.
E rimane
sempre bianca.
Sempre
dannatamente bianca.
Avevano
ripreso la marcia, le due ragazze. Dopo poche falcate, Elisa si fermò su una
parete, le unghie che perforavano la pietra, lo sguardo perso chissà dove.
«Cosa c’è’»
domandò Cassandra, stringendosi a lei con le gambe.
«Odore
di neve. C’è odore di neve nell’aria.» rispose, riprendendo la marcia. Il viso
truce.
«Beh,
non capisco che cosa c’è di male…» aggiunse la ragazza, ricordando con immagini
da bambina la neve che cade.
«Porta
freddo, vento, e aridità. Non bene, per la nostra marcia. La neve è
ingannatrice, non indica dove ci sia roccia, né quanta.» informò la riccia,
continuando a grandi falcate, gli occhi puntati al segnale pulsante.
«Come
hai fatto a sentirne l’odore? La neve è pura, non ha odore…» disse
sovrappensiero la riccia, tentando di annusare ella stessa l’aria.
Elisa
rispose con un tono dolorante, guardando il primo cumulo di neve, nascosto
dietro una roccia.
«Perché
potrà anche essere pura, ma ha l’odore di tutti i calori che ha strappato via
agli ignari corpi che hanno incrociato la loro strada, o che l’hanno sfidata.
La neve è un mostro con una maschera di purità. È insidiosa. Non fidarti mai
della neve, né della montagna. Sono fredde, e come tali reagiscono. Non ci
metteranno poco a strapparti la vita.» la informò, memore di tanti libri letti
di alpinisti partiti con amici e parenti, e tornati dalla montagna poi…soli.
«Ok…»
Cassandra rimase ammutolita da quante informazioni brutali aveva ricevuto dalla
donna-pantera.
Corsero
per tutto il giorno, ma alla fine la bufera predetta da Elisa arrivò, e
dovettero procedere a tentoni, Elisa tastava tutto il terreno con cura, paura
di trovarsi sopra una lastra di ghiaccio, o peggio sopra il ciglio di un
burrone.
Quando
raggiunsero il centro della bufera, decisero di appostarsi. Elisa osservò con
occhi scuri un bagliore tenue provenire da alcuni metri più in basso, in un
passo che fino ad allora aveva seguito dall’alto.
Stette
un poco fuori, guardando la situazione, ferma, con respiro regolare, come se la
neve non le facesse niente. Osservava gli uomini lupo laboriosi nei loro
controlli alle carovane, e con un sbuffo decise di ritornare, scoprendo l’ormai
imminente notte.
Rientrò
nella tenda montata, in cui aveva acceso il fornello, Cassandra si stringeva in
una coperta, con il fiato che diventava nuvola di vapore, e gli occhi fissi al
pentolino, che lentamente scioglieva della neve.
«M-ma non avevi detto che… queste tute isolavano il calore
corporeo?» balbettò la riccia, guardando la mora dai capelli corti rientrare
ricoperta di neve.
«Sì, ma
guarda, siamo un bel po’ sotto lo zero qui sai?» aggiunse la donna, guardandola
con un mezzo sorriso, scrollandosi la neve di dosso con una mano scoperta.
Cassandra la guardò stralunata.
«Scusami,
ma non hai freddo?! Io sto gelando!» balbettò di nuovo, i denti che battevano.
Elisa si sedette di fianco a lei, stringendola in un abbraccio.
«Io ho
una temperatura più alta e meno variabile della tua. Ricorda, sono per metà
animale. Un giorno, misurando la mia temperatura, Amir
mi disse che avevo la costante dei quaranta gradi corporei. In poche parole ho
sempre la febbre!» dicendo l’ultima frase rise di gusto, ma non sentendo nessun
commento dalla riccia, si porse verso di lei, guardandola strana.
«Ehi,
ti si è gelata la lingua?» Domandò, poi notò che non apriva gli occhi.
«Cassandra?»
domandò, portandole una mano alla pelle, e la sentì secca, fredda.
«Cassandra!»
la chiamò, sbattendo la mano leggermente sulle guancie, la ragazza la guardava
con occhi socchiusi, ferma immobile.
«Cassandra,
mi senti? Riesci a muoverti?» la liberò dalla coperta, e la scoprì bagnata,
della neve dietro di lei era filtrata.
«Dannazione!»
bestemmiò, prendendo la neve all’interno per buttarla all’esterno con il
pentolino, ancora freddo. Riparò alla bell’e meglio il buco creatosi e andò
alla riccia, vedendola immobile, presa dai brividi che andavano assottigliandosi,
il respiro sempre più lento.
«Dannazione,
dannazione!» portò l’orecchio al petto, il cuore pulsava troppo poco.
Ipotermia.
«Stupida!
Non morire!» iniziò a bestemmiare, preparando il sacco a pelo vicino al
cucinino, portò la fiamma al massimo, riscaldando appena l’ambiente, controllò
se non ci fossero altre fughe d’aria o cosa. Nulla.
«Scusami.»
mormorò la donna, iniziando a toglierle la tuta, bagnata dalla coperta. Il suo
seno sotto la tuta si mosse, e alla fine della cerniera il pelo dell’inguine la
fece costare lo sguardo, concentrandosi nel sfilargli le braccia e poi
togliergli la tuta dalle gambe. Fece in tutta fretta, senza perdersi in
pensieri. L’intervento doveva essere immediato.
Con cura
la ripose nel sacco, nuda, e richiuse subito.
«Ehm…»
momento di panico, osservò il fuoco. Non sentiva molta differenza di
temperatura. Doveva entrare anche lei nel sacco. Scambio di calore corporeo.
La
guardò, gli occhi chiusi, come in un sonno, le labbra bianche.
«Dannazione,
fanculo Elisa, te e la tua timidezza!» e con quello
si tolse velocemente la tuta, ricordandosi di mettere quella della ragazza
vicino al fuoco ad asciugare.
Entrò,
quasi spaventata nel sfiorarla. Non sapeva dove mettere le mani. Era completamente
rossa in volto.
Quando
le sfiorò un braccio, e lo sentì freddo, decise di abbracciarla con tutto il
corpo. La strinse forte, e sembrò di abbracciare un pezzo di ghiaccio.
«Ti
prego, no…» iniziò a mugugnare, di nuovo le lacrime.
«Non…non
voglio perdere anche te!» e con quello iniziò a cullarla, stringendola a sé
come non aveva mai fatto, donandole il calore che il suo corpo aveva bisogno.
Si
addormentò, perdendosi nell’annusare l’odore dei suoi capelli, baciando le sue labbra
fredde come la dama dei ghiacci, sperando che diventino di nuovo calde.
Neve, neve… com’è incantevole, giocare con la neve.
Neve, neve… dove sono? Perché questo freddo?
Oh, Elisa… stringimi forte, fammi
sentire il tuo calore…
Mi manca tanto sai, quella tenerezza che avevi un tempo, in
quella prigione di roccia.
Sei cambiata… o forse sono io quella cambiata?
Sono colpevole, lo ammetto.
Ma dopotutto sono io quella in crisi con me stessa…
Elisa, l’unica base che ho sei tu…non mi lasciare…
Non mi lasciare.
Ecco il
capitolo, scusatemi il ritardo, ma molti eventi mi hanno limitato nella
produzione del capitolo successivo. Per non parlare dell’università appena
iniziata, che mi porta via tanto tempo e voglia di scrivere.
Chiedendo
di nuovo venia, rispondo alle recensioni.
@Adhara: Amore, sei sempre piena di
confortanti parole per me, ti ringrazio. Mi sostieni sempre, e io amo solo te,
ricordatelo. Io non voglio nessun’altra. Io amo te.
Amore,
ora starai dormendo, mentre posto il capitolo, ma ti mando lo stesso un bacio
:*
Ti amo
:*
Mia
principessa, mia gioia, mio tesoro… mia vita!
E.
@Tanin: ti ringrazio per questi complimenti,
sono contenta che questa storia ti abbia appassionata così tanto da leggerla
tutta d’un fiato :) comunque non ti preoccupare, recensisci quando vuoi,
dopotutto sei tu che devi farlo ahime >.< :)
La
foresta piace anche a me ù_ù comunque l’albero è
chiamato così non perché è vecchio, bensì per le sue dimensioni molto simili ai
baobab. Ecco, un baobab molto cresciuto ù_ù forse
troppo >.<”
L’angelo
è un punto di vista al di fuori di tutto e tutti. Diciamo che ora è sparito per
un motivo…ma ritornerà solo alla fine. Ma non dirò di più, se no finisco nello
SPOILER >.<
Ringrazio
ancora per i complimenti, le poesie fanno parte della mia vita e del mio
percorso di autrice…mi definisco una poeta maledettamente brava ù_ù (oh! >.<”).
Ho costruito
una popolazione perfetta nel più difficoltoso dei terreni, la fine del mondo.
Forse li ho idealizzati troppo, ma conoscendo il dolore di una perdita, io so
che nel dolore, nonostante si abbia pelle o sangue differente, si diventa tutti
fratelli, e ci si aiuta sempre, l’uno verso l’altro. Spero accada, se mai
succedesse.
Il capo
delle donne tenute prigioniere in realtà fungeva da esempio di come fossero ridotte,
anche psicologicamente, a utensili. Ho espresso più punti di vista in un gruppo
numeroso, lei il punto di vista pessimistico, le ragazze silenti le neutrali,
quelle che nella battaglia finale prendono le armi a terra per combattere le
battagliere.
Non le
ho dato un nome, solo una breve descrizione fisica. Un personaggio secondario,
che ha un peso solo spirituale.
Eleonora
e Chiara sì, è vero, sono scomparse, ma ti dirò, mi sembrava di averle fatte
scorgere, in capitoli indietro quali nella riunione dei tre capi come strette
una nella mano dell’altra, con uno sguardo complice. Pensavo di aver fatto
intuire la loro conclusione da quello…se ho sbagliato, ti chiedo venia.
Elisa
si chiama mostro lei in primis, memore ancora di come ha ucciso Celeste. Odia se
stessa per l’animale che è dentro, eppure lo indaga, lo ascolta. Entra quasi in
trance per carpirne i pensieri. Tentando, come penso facciano i monaci
buddisti, di entrare in un’altra dimensione della propria mente.
Scoprirà
chi è alla fine del viaggio. Cacciatore o Vittima? Questo non si sa, perché quand’era
giovane aveva un’idea (capitolo precedente, si considera una Sacrificabile,
alias Vittima) ma ora non sa più chi è. Cacciatore? Eppure aiuta gli umani,
suoi compari, coetanei. Vittima? No, perché lo era prima della trasformazione. La
trasformazione ha cambiato tante cose in lei. un sasso lanciato in un lago.
L’idea
delle cartucce mancanti è stata molto bassa x.x e gli
ordini, da “despota perversa” come dice la mia ragazza xD
Chiedo
ENORME venia per i verbi, ma in grammatica sono carente >.<” una enorme
falla per una scrittrice ahime >.<”
Ancora
grazie per i complimenti, sono troppi, dopotutto non sono nemmeno a metà xD come farai quando arriverò alla fine? O.o
Ti
ringrazio per la recensione, mi hai dato una speranza, perché pensavo che oltre
alla mia ragazza non ci fosse nessun altro che leggesse la mia storia >.<
Sto
aspettando il tuo risveglio, io, qui, aggrappata con forza alla vita.
Cassandra,
svegliati ti prego.
Non mi
abbandonare, non tu…ti prego.
Non ho mai
pregato nessuno, ma ora prego te, il Dio che mi guarda da lassù.
Please,
stay with me.
Occhi scuri, occhi di ghiaccio,
biblioteca di ghiaccio. Tanti scaffali, tanti libri, libri oscuri, libri pieni
di oscuro inchiostro.
Mamma, no, non farmeli leggere. Non
voglio…mi fanno paura.
Il destino dell’Eroe
sarà quello di vegliare sul sacrificio finale, portarla fino alla vetta del
burrone, e avere il coraggio di perpetuare il suo sacrificio alla Dea.
Se la Luna sarà
clemente, il servo verrà salvato.
Mai, per nessun
motivo, l’Eroe deve sostituire il servo.
Porterà Caos, e il
malvolere della Dea.
«Elisa…»
le sue labbra che sussurrano il suo nome, Elisa sembra di immaginarselo, quel
flebile suono mentre fissa il suo volto. Uno spiffero del vento, pensa, gli
occhi rossi.
«Cassandra…
ti prego, svegliati.» l’avvolge a sé ancora, e non per dovere ma per bisogno. La
sua anima si sentiva sola, triste, avvolta da una coperta stretta che non la riscaldava.
La strinse a sé, le braccia a stringere quel corpo che non reagiva, che non
ricambiava.
“Non
ricambierà mai…nulla.” Le lacrime, i singulti del pianto.
Lentamente cadere in un burrone ripieno di colla.
Appiccicosa, ripiena di disgustoso bile che l’avvolge e la
soffoca.
Sporca di petrolio, di inchiostro, sporca, non più linda.
Mostro.
Poi,
una mano che si muove, le stringe la spalla in modo blando. Scosta la testa,
quasi scattante, gli occhi spalancati, gli occhi creduti persi del loro bagliore
ora brillavano a poche spanne da quelle di Elisa.
«Elisa…»
la chiama, la guarda, la osserva. Come due lacrime di essenza la guardano, come
gocce di rugiada e sentimenti.
«Cassandra…!»
e l’abbraccia, stringendola a sé, così felice da sfiorare la felicità con un
dito, le lacrime di disperazione diventare di gioia, i singulti del dolore
tramutarsi in sorrisini. Poi, la coscienza si fece lampante.
Fu un
fulmine ad uscire dalla sacca, dando le spalle alla rediviva riccia.
«S-Scusa…!»
disse Elisa afferrando la tuta e infilare una gamba in tutta fretta. Cassandra
la scrutò, come appena sveglia, non comprendendo il motivo del forte rossore
sul viso della compagna di viaggio.
Poi
sentì uno spiffero, e notò, con particolare imbarazzo di essere completamente
nuda. Cacciò un urlo, rintanandosi in fondo alla sacca, nascondendo persino la
testa.
«Che c’è?»
domandò la donna, girandosi di scatto e perdendo, inevitabilmente l’equilibrio
inciampando nella tuta mezza indossata. Cadde, con un tondo, cacciando un “Ahi!”
particolarmente sonoro.
«Sono
nuda!» ribadì a gran voce la ragazza, ed Elisa rialzandosi finì di indossare la
tuta con bocca tremante.
«Ehm…ecco…eri
andata in ipotermia…» le disse, alzando la zip con un suono secco.
La
riccia, da sotto il sacco, se possibile, divenne ancora più rossa.
«Posso
riavere la mia tuta, per favore?!» chiese, con tono spazientito e fortemente
imbarazzato. Elisa le porse la tuta, appoggiandola vicino al sacco. Una mano
fugace afferrò l’indumento, e un frugare iniziò a percepirsi dalla sacca, oltre
al vistoso movimento della ragazza.
«Se
esci forse riesci a metterlo con più facilità…» suggerì la donna-pantera, ma un
ruggito la fece zittire. La ragazza non era in vene di battute spiritose. Dopo
pochi minuti uscì, con i capelli completamente arruffati e una espressione sul
volto da aquila.
«Ipotermia
hai detto.» disse, fissandola con quegli occhi che parevano due mine,
perforandole l’anima come con la carta.
«Sì…»
ammise la donna, guardando con particolare intensità il pentolino. Rossa in
volto.
Poi un
rumore sordo provenne da entrambi gli stomachi delle presenti. Si guardarono,
prima rosse, poi sull’orlo di una risata che scoppiò come un palloncino, come
una festa e il freddo nella tenda. Risero fine alle lacrime, per poi sedersi e
mangiare qualcosa con la sicurezza che né l’una né l’altra avrebbero ma
rimembrato quel particolare imbarazzante episodio.
Io…la mia mente, a pensare che ho passato la notte a
sentirti vicina, con la tua pelle a contatto con la mia, va in confusione.
Come un fiocco di neve, sono preda dei vizi del vento.
Il mio cuore è servo dei gioghi del caso.
Sta di fatto che, se ancora ci penso, mi vengono i brividi.
…
…
…di piacere.
Ecco il
nuovo capitolo, niente di nuovo, niente risvolti strani, solo…una tranquillità
da donare. Avevo bisogno di una tenda calda e di un focolare stanotte, e
descrivere questa scena sì imbarazzante ma anche dolce mi ha accarezzato l’anima.
Sperando
che la mia ragazza, stasera preda di tristi pensieri, rinnovi di nuova vita e
linfa i propri pensieri lascio questo capitolo di tranquillità a voi miei cari
lettori.
Rispondo
alle recensioni:
@Tanin: Ti prego, non farlo, perderei una
valente lettrice ç_ç comunque grazie ancora per i
complimenti, che sono sempre troppi >.<” diciamo che non volevo cadere
nella banalità di dire “oh, che bella, la neve” *W* e poi sono un’appassionata
di letture d’alpinismo, quindi so quanto possa essere ingannatrice.
Forse
la legge di Murphy ci stava meglio come titolo che non “Cacciatori e Vittime” xD
Comunque
i tuoi desideri sono stati avverati ^^ erro: Cassandra ce l’ha fatta ^^
Aspettando
un tuo commento
Eriok
@Adhara: La neve è così magica, e lo sarebbe
ancora di più con te. Comunque no, non mi piace questo tuo vizio di stare fuori
a prendere freddo u.u per niente u.u
comunque spero che questo capitolo abbia reso, ti abbia fatto sentire al caldo,
nell’ormai inverno che colpisce le mie mani…e il tuo cuore.
Ti amo,
neve delle mie lande, perché mi stringi in un grandissimo abbraccio, sempre.
Dolce
notte, perché ora starai dormendo, sperando che tu, leggendo questo capitolo,
ti senta meglio.
Elisa, le tue
braccia, le tue labbra. Ne sentii il calore, il profumo, il tuo odore.
Ogni volta
che nevica...mi ricorda il tuo profumo.
Eppure la
neve non ha odore.
E tu sei
neve.
Sei Luna.
Ripresero la loro marcia appena la burrasca si trasformò in
lieve nevischio. Il freddo vento pungente ora non ostacolava la marcia della
lenta carovana, ed Elisa non osò rischiare di nuovo, decidendo di seguirli non
più scalando le montagne sopra di loro - con il rischio di cadere in un burrone
- ma di fare i loro stessi passi.
Da lontano la lenta e lingua striscia di mezzi lupi e servi
ciechi non aveva nemmeno il dubbio che ci fosse qualcosa dietro di loro che li
seguiva.
Di nuovo, un giorno passato nel bianco, ma raggiunsero un
lieve posto di controllo. Due lunghe torri di mattone scuro svettavano in mezzo
al grande sentiero, apparentemente armate.
Elisa le aggirò, con non poca difficoltà, e osservò con
sospetto gli uomini sulle torri, armate di vecchie mitraglie. Le aveva viste in
libri di storia, assomigliavano tanto alle armi che vennero usate nella seconda
guerra mondiale, solo molto più maneggevoli e più nuove.
Poco più in là, in una distesa bianca, come una pozzanghera
intaccata, si ergeva una città. Scura, grigia, avvolta da alberi bianchi.
Elisa cancellò il segnale. Erano arrivati.
«Elisa,
cosa cerchiamo?»
domandò Cassandra, seguendo con lo sguardo ciò che aveva scrutato Elisa, con
occhi truci. Per la prima volta Elisa si fece la stessa domanda, e non seppe
rispondersi.
Decisero di allontanarsi dal luogo di controllo, tentando di
non farsi vedere. Quando Elisa si convinse del fatto che era inutile
controllare le montagne silenziose per gli abitanti della città, corse. Corse nella
distesa bianca, incontrando ogni tanto palizzate, piccole casette completamente
bianche.
Quegli spazi infiniti prima delle montagne erano campi.
Elisa non perse la concentrazione, e impiegò ogni singola
forza per percorrere nel minor tempo possibile la distesa bianca. Come un punto
nero, erano una preda facile, invece, nel bel mezzo del grigio, era più
possibile mimetizzarsi.
Eppure il peso di Cassandra, non abituata a quella velocità,
la impedì non poco.
Erano a poche spanne dall’entrare nei primi edifici, quando intravide
un’ombra che li osservava. Fu tardi quando venne colpita.
Fecero entrambe una rovinosa caduta. Elisa, tornando normale,
si guardò il braccio sinistro, inondato di sangue, e ringhiò, inforcando con la
destra una lama.
Due figure sinuose e spigolose si avvicinavano lente. Sapevano
di averle in pugno. Con uno sguardo individuò la compagna, seduta in modo
scomposto in un detrito lì vicino, immobile. Aveva perso il casco, i suoi
capelli fluenti erano preda del lieve vento che s’alzava, un lieve rivolo di
sangue colò dalla fronte.
Si trasformò Elisa, scattando davanti alla ragazza, pronta a
difenderla.
«Chi
siete?» domandò
Elisa, sperando che parlassero la loro lingua. I due individui si fermarono. Erano
ricoperti di stracci, pelliccia e caschi protettivi. Quello più affusolato osò
avvicinarsi di più, e si levò il casco.
Una donna dai fluenti capelli lunghi, biondi come il grano,
e gli occhi felini la scrutavano, come sospettosa.
«Codice
di riconoscimento.»
ordinò, pretendendo una risposta che Elisa non sapeva. Ringhiò, stringendo più
forte la lama, che fendeva il vento.
«Sono
in pace, voglio solo sapere chi siete.»
ribatté. Lo sguardo della donna sembrò divertito. Fece cadere il casco, che con
rumore ovattato atterrò, e nell’istante in cui toccò terra la donna-pantera
sentì la lama della donna sfiorarle il volto, penetrando nel cemento. I suoi
occhi brillavano.
«Risposta
errata.» ammise,
con tono divertito. La lama iniziò a colorarsi di una strana sostanza azzurrina.
L’odore di magia pungeva l’aria. Un fiocco cadde poveramente sulla lama, fece
intuire il danno che poteva creare, visto l’evaporazione istantanea di esso.
Elisa rispose con un ruggito, tentando di colpirla al viso. La
donna parò con velocità, ma non il calcio al ventre, fece alcuni metri, in cui
il compagno accorse alla donna, ed Elisa prese il corpo della riccia, ancora
svenuta, e corse, diretta verso la città e verso un nascondiglio.
Li sentiva, gli stavano alle canaglie. Erano veloci, troppo,
per essere completamente umani. Erano Cacciatori. Elisa ricordava l’esistenza
di altri, come lei, ma non sapeva fossero sopravvissuti.
Tentò di tagliare tra quelle strade, cimiteri di vecchie
macchine, fogli volanti descriventi una vita passata, aperture di metrò chiuse.
Tentò in un palazzo alto una montagna, percorrendo le scale
una dopo l’altra a balzi. Erano in svantaggio, e la mora lo sapeva. Conoscevano
ogni singolo anfratto di quella città.
Quando arrivò in cima, si perse pochi secondi a capire dove
era arrivata. Riconosceva quelle cime grigie. La sua città natale.
Si avvicinò ai bordi, per cercare di trovare una via di
fuga, ma erano troppo in alto.
La porta fu sfondata. Un’onda iniziò a bruciare la porta di
metallo, ed Elisa capì che erano in trappola. Si guardò in basso, era l’unica
via.
La donna con la potenza della lama fuse il metallo in pochi
secondi. Quando uscì, scossa da un vento freddo, vide Elisa, tenendo con un
braccio la sua compagna, lanciarsi.
Il vento le sferzava il volto, ma sapeva quello che faceva. Estrasse
un congegno di Giacomo, che sparò una corda, penetrando il cemento dell’edificio.
Col braccio ferito tentò di reggersi, perdendo altro sangue che colò piano fino
a raggiungerle il volto. La donna strinse i denti, e quando la corda terminò le
fece rimbalzare e ruotare, fino ad arrivare alla dura superficie del piano,
rovinando per la seconda volta sul duro cemento.
Elisa si issò, debole, ricercando la sua compagna, persa di
presa. La ritrovò poco più in là, in mezzo alla neve.
Si alzò, e sentì un dolore acuto prenderle la spalla. La guardò
e vide una punta blu oltrepassarla. Un calcio la fece rovinare a terra, urlando
dal dolore. La pelle frizzava come messa a contatto col rovente. Gli occhi
iniziarono a lacrimargli, e fu afferrata da due braccia dure come la roccia e
tenerla in piedi. Quando intravide la donna con gli occhi ghiacciati, urlò
tutta la sua potenza, la pantera urlava dal dolore, le zanne si fecero grandi,
il corpo ricoperto di pelo, la rabbia cresceva.
Il dolore divenne ombra, la ragione follia.
Eppure con la forza dell’animale non riuscì a districarsi
dalla forte presa dell’anonimo compagno.
La lama si presentò di nuovo di fronte a lei, poteva
sentirne il calore, tanto era vicino al suo viso, ma non distaccò il filo
comunicatore con la donna, che faceva danzare la lama come una minaccia.
Poi sentì di nuovo il filo rovente inciderla, le fregiò la
faccia, tracciandole di netto una riga da parte a parte del viso. Il dolore
arrivò come un urlo, all’improvviso, e imponente come una diga rotta.
Elisa urlò, eppure la rabbia animale non poté sfogare la sua
rabbia contro quella sadica. Il suo ghigno era di una perfezione malvagia. Gli occhi
brillavano.
Un colpo al volto la prese di sorpresa, facendo partire
schegge di legno ovunque, ma non sortirono alcuno effetto sulla donna.
Cassandra, risvegliatasi, tentò di difendere la compagna con la prima cosa
capitatagli sotto mano.
Quando notò il poco effetto del suo misero attacco tremò. La
bionda si girò, osservandola con sguardo felino affamato di sangue.
Elisa ruggì, dietro le esili spalle della donna, ma non
richiamò la sua attenzione. Ora gli occhi della sadica erano puntati su lei. Fece
un passo indietro Cassandra, intimorita dal pungente sguardo. Poi un colpo
talmente immediato da farla rovinare a terra senza nemmeno accorgersene. Di
nuovo, un ruggito di pantera sferzò l’aria. Ma non serviva a niente, non
cambiava le cose.
La riccia si rialzò a fatica, notando un lieve rivolo di
sangue colarle dalle labbra. Poi, un rintocco di campana.
Non seppe come fece, né intuì quando l’aveva fatto, eppure
nelle sue mani reggeva un bastone, e aveva bloccato con precisione l’attacco di
lama della donna ghiacciata. Il medaglione al collo urlava blu.
Ma la sorpresa la ingannò, facendole perdere il controllo
del bastone, e la lama azzurrina della donna le oltrepassò la coscia,
provocando un urlo di dolore. Il bastone svanì nell’aria, alla presa di mano
della ragazza, così come era comparso, in una polvere di luna.
La donna sogghignava, assaporando l’istante prima dell’omicidio.
Cassandra era seduta, a terra, con gli occhi appannati dal dolore. Un ringhio
si elevò nella strada. Elisa fremeva, voleva intervenire, salvarla.
Eppure la lama si stava alzando, per tagliare di netto la
testa alla povera riccia. Tese un braccio verso Elisa, non come supplica, ma
come bisogno di darle lei, la sua mano, la sua forza.
Gli occhi brillavano.
Poi, come comprendendo il pericolo, balzò di lato la bionda,
evitando una lama bianca.
Una scheggia di luna conficcò l’aria, penetrando il cemento
dell’edificio vicino, per poi volatilizzarsi nell’aria.
Oltre la coltre di nuvole perenni, si intravedeva una sfera
luminosa.
Luna.
L’Eroe deve proteggere
il sacrificio.
A costo della vita,
proteggerlo.
Ogni potere le verrà
donato.
Elisa aveva gli occhi avvolti da una lieve nebbia bianca, il
corpo scosso da una furia nera impalpabile nell’aria. L’uomo, sbalzato via, era
infisso alla parete opposta, completamente trafitto da schegge bianche intrise
di sangue.
Non compresi
in quale momento il mio corpo ubbidì al mio desiderio di salvarla.
Ne sentii il
potere poi, e la velocità del vento per me divenne come calma brezza. I miei
occhi intravedevano i fiocchi fermi nell’aria, brillanti. Gli occhi intravidero
la luna, l’uomo sbalzato e ucciso con facilità. Sentiva che bastava
desiderarlo, per avere un arma. Una lama dal materiale non identificato, bianca,
affilata. Pronta per sangue.
La donna scattò, dirigendosi verso la pericolosa ombra nera.
La figura di Elisa si perse, dietro la fiamma nera sempre più tetra. Cassandra,
ancora a terra, gli occhi di una leggera patina azzurrina, fissavano la luna.
Il sacrifico osserverà
la Dea, in attesa delle sue risposte.
L’Eroe non deve avere
pietà.
L’ora del destino
arriverà lentamente, ma senza interferenze.
Come un nuovo sorriso
della Dea.
Il cuore allacciato al suo collo pulsava, sotto la tuta
brillava. Gli occhi scorrevano come mille e mille pagine nell’aria, i fiocchi
cadevano in balia del vento, e nelle nuvole l’ombra della luna non calava.
Lesse Cassandra, ed Elisa impiegò pochi istanti nel
terminare l’ostacolo della donna sadica. Era riversa nella neve, rossa di
sangue. Il pugnale azzurrino nel cuore, il volto rivolto alla luna,
insanguinato.
“Nessuna
pietà” mi urlava la mia mente, e la sconfissi con facilità... troppa. non
comprendevo, non capivo. Cosa mi era successo? Sentivo dentro di me come
qualcosa di famigliare, di assimilato, di dolce e profumato. Qualcosa che
sapeva di lei.
Qualcosa che
sapeva di Cassandra.
Gli occhi non brillavano più.
L’ombra nera che avvolgeva la figura sinuosa di Elisa si
eclissò lentamente, come l’ombra della luna dietro le nuvole.
Lo sguardo fisso su Cassandra. Gli occhi vitrei smisero di
essere tali quando l’ultima parvenza di ombra nera si dissolse nell’aria.
E la riccia crollò, con un sorriso.
Non mi
ricordo bene cosa successe. Mi ricordo solo un’infinità di parole, vissi
milioni di vite in quel momento, fiore, farfalla, albero, roccia. Vidi la luce,
e annegai nel buio senza paura.
Vidi tutto,
conobbi ciò che avevo dimenticato.
Imparai ciò
che non ero riuscita ad imparare nella Biblioteca di Cristallo.
Mamma ci
aveva provato, vero mamma? Ma non volevo, avevo paura delle ombre, e tu mi
portavi solo di notte alla Biblioteca...
Ma ora ho
capito. Ho capito tutto.
Eppure il mio
corpo non riesce ancora ad elaborare le complesse figure nella mia mente. Non ubbidisce.
Non riesco a
capire.
...
Eppure mi
ricordo le braccia di Elisa che mi avvolgevano, calde, come lo sono sempre
state.
Ecco un nuovo capitolo, dopo mesi di mancanza di
ispirazione. Chiedo venia, come sempre.
Spero che questo capitolo vi ispiri. E siate ancora più
confusi di prima, scommetto.
Ma tutto più avanti. L’attesa e l’arma migliore per uno
scrittore.
Rispondo alle recensioni:
@Tanin: Mi sa che invece di rispondere alle
tue domande, ne ho prodotte altre >.< beh, non posso di certo
risponderti, la storia risponderà da sé.
Dopotutto, prima o poi, questa storia risponderà a tutto.
“Genio colui che trasforma la soluzione in enigma.”
Il sogno di Cassandra ricorda la paura della ragazza per le
ombre... tramano sempre qualcosa, dietro la fiamma della luce.
Aspettando una tua risposta,
Eriok
@Adhara:
Tesoro mio, so già che quando saprai della storia, andrai a leggerla di corsa,
eppure mi è venuta l’ispirazione e ho deciso di scrivere, anche se ormai sono
le due suonate x.x Io l’ho disegnata come una
scenetta divertente, e Cassandra più che arrabbiata era imbarazzata, nuda,
completamente, di fronte ad Elisa. Io non so dirti perché l’ho vista così, ma l’ho
visto come un tacito ringraziamento nascosto dall’imbarazzo. E le risa
contornano tutto come una corolla di fiori freschi in mezzo alla neve.
Ti ringrazio per i complimenti, amore mio, sempre accettati
e contano più di altri, perché sei sempre tu il mio giudice ultimo.
Ti amo, da morire...
Sempre tua,
E.
P.S. Buon San Valentino, per
quanto l’abbiamo già festeggiato assieme ♥
[Del mio cuore e sono
stata sepolta nella polvere]
Free
me, free us
[Liberami, liberaci]
…
I am
terrified to love for the first time [Sonoterrorizzatadall’amare per la prima volta]
(Bound tu you - Christina Aguilera)
Elisa,
in braccio una svenuta Cassandra, cammina.
Medita,
pensa la donna, le sue ferite urlano, ma batte di più il cuore, pompa sangue
che inesorabile cola, lascia tracce profumate di vittoria e dolore.
Gli
occhi lacrimanti, spaventata da quello che aveva sentito, visto, oltre quella
coltre di nera furia. Si faceva più paura che mai, sapendo che non avrebbe mai
dovuto cedere a quell’ombra. Non poteva farlo, sì, inesorabilmente non sapeva
controllarsi, ma si sarebbe fermata. Doveva farlo.
Si
rintanarono in un rientro di casa, dove la neve e il freddo non potevano
colpirle. Oltre alle finestre e alle tende svolazzanti ombre, ombre correvano,
sentiva le loro zampe correre. Sottovento Elisa nascondeva le loro orme con
astuzia, evitando di rimanere ferma per pochi istanti, per curarsi e
ricominciare a muoversi. Intravide, da lontano, una fermata della metro.
Sottoterra, per quanto le desse un lieve fastidio animalesco, decise di
inoltrarsi, scardinando la porta in ferro arrugginito.
Riponendolo
accuratamente per evitare segni di movimento, si fermarono a respirare
quell’aria tersa e il buio del ventre cittadino. Gli occhi gialli di Elisa
risplendevano in quella tomba di pubblicità e giornali spiegazzati dalla
polvere.
Vecchi
tornanti e treni fermi a metà nella banchina. Elisa decise di entrarvi, le
porte aperte, riponendo la compagna ancora svenuta in una di quelle panchine a
quattro posti. Il buio totale, il silenzio terso di aria leggermente viziata.
Polvere ovunque, silenzio. Topi che corrono a rifugiarsi in qualche cumolo di
vestiti.
Gli
occhi scrutavano l’oscurità, torce di luce in mezzo all’oscurità, carezzando i
capelli a Cassandra, immersa in un sonno distrutto.
Elisa
era distrutta, non sentiva né la voglia né la forza di resistere ancora a lungo
al richiamo di un sonno ristoratore. Aveva difficilmente sentito questo
bisogno, lei, animale vitale per metà, assopito quasi sempre, attivo in ogni
momento. Si sedette appoggiando le spalle alla sedia, allungando una gamba, in
mano una lama per prudenza. Le orecchie tese mentre gli occhi si chiudevano,
sprofondando nel buio.
Don, suono di campana.
La dea ti chiama. Ricorda la
missione.
Ricorda la luna.
Elisa
si agita nel sonno, una voce dura, fredda, le parla al di là del velo di Maya,
ombre scure corrono, furtive, intorno ai tornanti, seguendo le tracce nella
polvere della donna.
Sono
esili, sono sfuggenti, come l’aria, eppure organizzate, bisbigliano, nel buio,
fasci di luce che corrono da una colonna all’altra.
Non smettere di proteggere il
sacrificio, essenziale alla rinascita del mondo.
Il sacrificio, Eroe. Proteggilo.
Non avrai pace, né perdono, se
non proteggi il sacrificio.
Ricorda la tua missione.
Ricorda la luna.
Scendono
le scale furtive, intravedono il riflesso della lama data dal fascio di luce.
Elisa è così distrutta da non percepire la goffaggine degli individui che
lentamente si avvicinano a loro, armati.
La mano
crolla, abbandonando l’unica arma che teneva.
I
muscoli urlano stanchezza e dolore, e la mente riposo.
Niente riposo per l’Eroe, se il
sacrificio perde la sua missione.
Niente pietà, il mondo non se lo
può permettere, come la sconfitta.
Niente emozioni, né sconforto.
Niente vite nemiche intorno.
La vita del sacrificio è molto
più importante della tua, ricorda.
Ricorda la luna.
...
Don, suono di campana.
E un
fazzoletto di sonnifero venne posto sulla sua bocca, svegliandola bruscamente,
si dimenò, cercando di scatenare la sua furia, trovandola però senza forze,
cercò con gli occhi Cassandra, legata ma ancora stordita, volti giovani, umani,
occhi rilucenti nell’oscurità, lame. Poi una rete intorno a lei, buio negli
occhi e oblio nella mente.
Un rumore
di folla, assordata, provenne alle orecchie di una assonnata Elisa; aprendo gli
occhi, sfocando ciò che prima era fosco, individuò un’arena, un vecchio campo
di calcio, immerso nei palazzi. Alle finestre urla, schiamazzi, lance in alto,
urlando contro loro. Cassandra di fronte a lei che la guarda disperata. Le orecchie
riprendono vita. E il fragore del mondo l’assordò con il suo cicaleccio di urla
sgorganti odio e desiderio di sangue.
«Elisa,
sei sveglia finalmente!» la guardava con bisogno estremo, guardandosi intorno,
come preoccupata da un male non ancora individuato.
«Che
cosa è successo?» domandò, alzandosi repentina. Il ricordo del braccio ferito
arrivò con un rumore sordo. Cassandra indicò il bordo campo. Dei cani,
trattenuti con delle corde, abbaiavano con furore contro di loro, come se
fossero degli alettanti conigli pronti per esser divorati. Le loro bave pendevano
dai loro canini, in mostra, il pelo a tratti perso mostrava la pelle, piena di
tagli. Cani da combattimento. Occhi ripieni di rabbia.
«Che
cosa volete?!» urlò, cercando con lo sguardo le persone intorno, cercando una
risposta. Tentò di allontanarsi dalla minaccia dei canidi, e rivolse lo sguardo
a una figura che le fissava dall’altra parte della rete.
«Chi
siete? Da dove venite?» quando questa figura parlò il fragore di prima si
spense come una fiamma dopo una folata di vento. Solo alcune voci aleggiavano
nell’aria come il fumo del tizzone.
«Siamo
estranee giunte dalle terre al di là delle montagne.» disse Elisa, con voce
sicura, sapendo che i cani non avrebbero attaccato senza il consenso di quella
figura autorevole. Eppure all’apparenza, sembrava appena un ragazzino. Lo sguardo
brillò.
«Non
esiste nessuno al di là delle montagne. La pioggia di meteoriti ha ucciso
tutto.» affermò, convinto delle sue affermazioni.
«E
invece no!» interruppe Cassandra «C’è vento, c’è foresta, c’è persino una
città! C’è tanta gente come me, come voi!» proruppe, come se avesse ripetuto
quelle parole per tanto tempo, ma senza risultati. I cani continuavano ad
abbaiare nel sottofondo, ringhi acuti che ricordavano una silente ma presente
minaccia.
Il ragazzo
non ascoltò, stizzito.
«Siete
estranei per noi, persone di cui non fidarsi. Ma se sarete abbastanza forti,
come avete dimostrato nel campo innevato, avrete la possibilità di esser
credute.» affermò, guardando con sguardo d’intesa gli uomini con le spade
tratte alle corde dei cani.
«Almeno
dateci la possibilità di difenderci!» affermò Elisa, intuendo i giochi del
ragazzo. L’uomo interruppe il gesto della mano, sorridendogli affabile.
«Perché
mai? Non avete poteri magici capaci di creare armi dal nulla?».
Elisa
rimase sgomenta, intuendo come quei sudditi silenti avevano assistito a parte
di quella strage. Quindi non sapevano che era una Cacciatrice.
Si
preparò all’assalto, cercando una via di riparo per Cassandra.
L’uomo
diede il segno.
Solo un
cane partì all’assalto, dirigendo con velocità feroce verso Elisa, sicuro di sé
e della sua rabbia, le saltò alla gola, ma Elisa lo evitò, spostando Cassandra
di lato.
«Sta
lontana!» le intimò, mentre cercava con lo sguardo qualcosa da usare come arma.
Il cane, dopo pochi minuti, riprese l’attacco, dirigendosi di nuovo verso la
gola di Elisa. La polvere dell’ebra gli colpì gli occhi, facendolo uggiolare.
Elisa scattò, afferrandogli il muso e le fauci, chiudendole. Dopo pochi minuti
di lotta e di dimenamenti, il suono sordo dell’osso del collo del cane che si
spezza. Il corpo cade a terra, con un tonfo.
Il ragazzo
si alzò, infuriato. Non era quello ciò che voleva vedere.
«Mostratemi
la vostra magia, non la vostra bravura nel combattimento a mani nude!» ordinò,
come se bastasse quello a far attuare i suoi piani. Cassandra, dal basso della
rete lo guardò, poco lontano. Era alto quasi quanto lei.
«Non è
una cosa che sappiamo evocare a comando!» giustificò, sperando che questo
bastasse a fermare l’attacco. Il sogghigno di prima si ripresentò.
«Allora
è meglio mettervi in difficoltà.» e stavolta l’ennesimo ordine liberò tre cani.
Elisa vide il panico, quando uno si diresse verso Cassandra.
Si
trasformò, sperando di attirarne l’attenzione. Un ruggito dalla folla, la
donna-pantera scattò, e con una spallata lo stampò sul recinto, ma i due cani
dietro di lei si avventarono sulla sua schiena, mordendo con ferocia. Elisa
urlò, per poi afferrarli e lanciarli lontani, sempre contro le grate,
stordendoli.
«È un
Cacciatore!».
«Uccidiamolo!».
«Facciamolo
a pezzi e diamolo ai cani!».
La folla
ruggiva dalla rabbia, scoprendo una cosa che Elisa sperava di tenere segreta. Forse
quello avrebbe fermato il combattimento. Di nuovo il ragazzo parlò,
interrompendo il fervore della lotta.
«Da
quando in qua un Cacciatore difende un umano?» la domanda cadde nel silenzio
degli spalti. Bisbigli, mormorii. Elisa non si sorprese della domanda.
«Perché
io non sono come gli altri.» rispose, e attese la risposta dei due cani,
ripresisi. Di nuovo ossa rotte, colli spezzati. La calma era di nuovo tornata in
quel campo ludico, ma con quattro cadaveri in più.
Si diresse
poi verso lo spalto, fissando con occhi felini il ragazzino.
«Liberateci.»
disse, con voce autoritaria, forte nella sua voce adulta. Il ragazzo sentì un
brivido di paura scendergli lungo la schiena.
«I
Cacciatori devono essere uccisi.» e con quella sentenza vennero liberati tutti
i cani. Un intero branco di affamati e ringhianti cani di varie taglie e forme
si lanciò.
Elisa,
sapendo che non sarebbe riuscita a fermarli, afferrò Cassandra e balzando si
afferrò alla rete alta, che contornava il campo come una cupola, mettendosi al
riparo dalle zanne del branco affamato.
La folla
era imbestialita, vedendo negato loro il divertimento. Alcune lance cercarono
di raggiungere la coppia che si arrampicava, inutilmente.
Elisa
tentò, con forza di aprire uno squarcio nel ferro, abbastanza grande da
permettergli di fuggire. Ma aveva le mani impegnate.
Poi una
mano che scivola.
«Cassandra!»
vide il suo corpo cadere in mezzo al gruppo famelico dei cani, i capelli volare
al vento. Bloccata nell’atto di afferrarla con un braccio, prendendola per la
veste. Ma la presa era debole.
«Cassandra!»
urlò, vedendola dimenarsi.
«Elisa!
Lasciami cadere!» l’affermazione spiazzò Elisa, il vestito che lentamente si
strappa sotto le mani della mora.
«Che
stai dicendo?!» disse, gli occhi annebbiati dalle lacrime. Non poteva, no,
perdere anche lei.
«Io non
perdo anche te! Non farai la sua stessa fine, Cassandra!» urlò, piccole gocce
di acqua salata cadono sul volto della riccia, stupita.
«Fidati di me!» rispose, guardandola. I cani
si azzuffano per poter afferrare quel corpo appeso su di loro. La folla urla,
le lacrime cadono.
«Io non
voglio!...io...io ti amo!» urlò, con tutta la forza della sua disperazione. Il braccio
ferito ricominciò a urlare sangue. Elisa la guardò, disperata.
Ancora un
sottile strato di vestiti la teneva attaccata alla riccia. I suoi occhi si
appannarono, diventando d’un tratto bianchi. Elisa si spaventò. Non aveva mai
visto il suo volto così risoluto. La collana brillava, sotto la veste, di un
blu accecante.
Il vestito
si ruppe, ed Elisa tentò invano di afferrarla di nuovo, ma non ci riuscì.
«CASSANDRA!»
urlò con disperazione.
Cassandra
atterrò in mezzo ai feroci canidi, in mano un bastone apparso dal nulla, colpendo
il terreno con la punta, circondata da una simil forca
al cui interno contenente una pietra dello stesso colore del cuore.
Il colpo
fu silenzioso, ma i risultati potenti. I cani, come colpiti da un’onda d’urto
potentissima e inesistente, vennero scagliati lontani da Cassandra, sbattendo
contro l’inferriata, atterrandoli tutti all’istante. Elisa si lasciò cadere,
afferrando una debole Cassandra, stordita dal suo stesso colpo. Il bastone che
si dissolve nell’aria.
«Scusami...non
ho fatto in tempo a dirtelo...» Cassandra vide lo sguardo appannarsi, il corpo
abbandonarsi, la forza mancarle. Poi fu tutto buio. Poi fu tutto silenzio.
....
«Cassandra!».
Era lì, nelle mie sfuggenti mani, calare lentamente verso la
morte. E io, stupida debole, non sono riuscita a trattenerla a me. Perdere la
sua presa fu come lasciar cadere me nel buio.
Io...Cassandra...io ti amo.
Ti amo con tutto questo mio cuore violento di dolore.
Ero sicura del mio potere, ero sicura delle mie azioni.
Ma non aver informato Elisa di ciò mi fece star male, come
se glielo avessi nascosto.
Scusami, Elisa...
Fui così felice di vederla risorgere dall’oscurità ancora
viva. Anche se rimasi sorpresa dei suoi poteri. Quello stesso fluido
ultracorporeo che aveva preso anche me nella vallata. Sapeva di freddo.
Avevo paura che quel freddo ingoiasse anche te.
Non udii bene cosa mi disse Elisa prima di farmi prendere
dal potere della Luna. Me ne rammarico, perché dalla voce mi sembrava
importante...
Chissà cosa mi ha detto...
Elisa, cosa mi hai detto di così forte da impedirti ora di
guardarmi negli occhi?
Elisa...finalmente
accetti te stessa e il tuo cuore.
La
missione chiede un sacrificio prossimo al suo compimento. Una guerra verrà
fermata da ciò, il mondo purgato da questo male infernale. La Dea mi parla,
sai...dice che ha grandi piani per te. Ma ovviamente non li rivelerà a me di
certo. La sola cosa che mi può dire è che verrà il giorno in cui tutti,
Cacciatori e Vittime, vivranno insieme in armonia.
La
sua profezia cadrà sulla terra con un risuono di campane.
E
la sua messaggera è quella ragazza. Ha letto tutto il volere della Dea, e lei
lo compirà.
È
lei il sacrificio, Elisa.
Ma
tu...tu accetterai i piani che la Dea della Notte ha predisposto per lei...e
per te?
O
farai come Lucifero, Elisa...? Pretenderai di esser al di sopra di Lei?
Elisa
aprì gli occhi, scorgendo la gabbia in cui era stata rinchiusa insieme a
Cassandra, ancora svenuta. Riposava con il volto appoggiato al suo grembo, le
sue mani iniziarono a giocare con i suoi ricci, diventati lunghi quasi fino
alla vita. Le labbra rosee erano socchiuse, il respiro calmo si intuiva dalla
tuta. Elisa si analizzò il braccio, incrostato dal sangue. La ferita non era
infetta, ma non era ancora rimarginata del tutto. Era spessa, e senza un’adeguata
cucitura ci avrebbe messo più tempo del previsto per guarire.
La gabbia
non permetteva di rimanere in piedi, e le due donne erano riposte in fondo,
appoggiate alle sbarre fredde, sorvegliate a vista.
Elisa
sapeva benissimo che poteva piegare quelle sbarre con la sua forza, ma la
spalla glielo impediva, oltre alla sua mente. Era meglio sottostare a quelle
persone, migliori sicuramente e meno pericolosi di quei Cacciatori fuori, alla
neve.
La cosa
che le scocciava non poco era che gli avessero tratto via la cintura di
Giacomo.
Poi un
movimento concitato degli armati mise in guardia la donna-pantera, osservando
con gli occhi scuri un ragazzino avvicinarsi, lo stesso che era al di fuori del
campo da calcio.
«Perché
proteggi un umano?» domandò, guardandola con occhi seri. Elisa continuava ad
accarezzare i capelli di Cassandra, un lenitivo contro la frustrazione di una
donna e di una pantera imprigionata.
«Proteggo
chiunque abbia bisogno di esser protetto.» affermò, sostenendo quello sguardo.
«Da
dove provenite?» domandò ancora, una domanda a cui aveva ricevuto varie volte
risposta, ma non l’aveva soddisfatto.
«Da
oltre le montagne, da una vallata contenente una città alla deriva e una
foresta.» affermò «Lì c’è la mia città, una base che protegge dagli animali
Infettati gente come voi e gente come me, che coabitano senza risentimenti,
accumunati dal dolore della perdita di una famiglia e della casa. Non capisco
invece come mai questa città abbia una guerra al suo interno tra razze.» ammise
Elisa, evidenziando i suoi dubbi, sapendo che se porgeva domande non avrebbe
ottenuto risposte.
«I
Cacciatori ci uccidono per puro divertimento o per mangiarci, gli animali
selvatici non sono sopravvissuti, perché nessuno ha regolato le uccisioni. Viviamo
dei frutti della campagna intorno a noi e delle scorte che sono sopravvissute nei
magazzini della città. È da quando c’è stata la pioggia di fuoco che nessuno è
venuto in nostro aiuto.» il ragazzo parlava con un leggero nodo alla gola,
segno che questo ancora bruciava la sua giovane anima ferita «Gli adulti sono
morti o trasformati in mostri. La malattia che tu chiami Infezione deriva dalle
pietre cadute dal cielo, dagli asteroidi precipitati e che hanno raso al suolo
la maggior parte della terra e sconvolto il suo fragile equilibrio.».
Elisa
ascoltò, silenziosa, sapendo che quel ragazzo aspettava soltanto di esser
ascoltato.
«Lo so,
sono stata vittima anch’io di questa malattia, e l’ho studiata, molto
approfonditamente. E so anche come salvare gli uomini che vengono colpiti da
essi.» aggiunse, colpendo il giovane.
«Esser
colpiti da un animale ferito è una maniera più facile per sopravvivere. Molti sono
quelli che sono morti toccando la materia stessa che sgorga da un asteroide. Io
sono uno di quei pochi che è sopravvissuto a una esperienza simile, e per questo
non ho ancora una giustificazione. Colpita successivamente da un animale ho
assunto la sua consistenza fisica e la sua anima. Coloro che invece vengono
colpiti da un animale infetto assumono soltanto l’aspetto fisico dell’animale
che lo ha colpito.» spiegò la giovane, vedendo nel giovane un accurato
interesse e bevendo ogni sua parola «Per sopravvivere e non trasformarsi in un
animale infetto bisogna essere forti nello spirito e sconfiggere l’animale
dentro di noi, prendere la sua supremazia. Allora avrai il potere su di esso, e
quindi ottenere la sua potenza e la sua forza, proprio come ho fatto io e come
ha fatto tanta altra gente dopo di me.» Nella mente il ricordo dello scontro
con tanti giovani che combattevano dentro di essi per vincere, tanti che hanno perso,
ma altri che invece hanno vinto.
Una ragazzina bionda,
rannicchiata su se stessa osservata l’ambiente intorno a sé, annusando e
scrutando con gli occhi completamente gialli la gabbia distrutta. Un soffio
minaccioso uscì dalla sua gola, contornata di zanne lievi. Sulla maggior parte
del suo corpo si poteva intravedere una pelliccia a macchie nere su sfondo
giallo. Una coda lunga, dello stesso colore del manto con una punta bianca. Nel
folto dei capelli biondi si potevano intravedere le orecchie, piccole e nere. Il
volto completamente tramutato dall’animale che l’aveva contaminata: un
ghepardo.
Elisa s’acquattò, portandosi
alla stessa altezza della ragazzina scrutandola. Quando finalmente la giovane gheparda s’accorse di lei, la guardò minacciosa e le ringhiò
con rabbia. Elisa rispose con un altrettanto ruggito più forte, più potente,
tipico della pantera nera.
Le bloccò le zampe con le sue,
impedendole i movimenti. Ma la piccola gheparda non
smetteva di tentare di azzannarla, muovendosi frenetica.
E fu un
ruggito potente.
La gheparda
fermò il suo tentativo di salvarsi. Completamente annegata negli occhi castani
misti al giallo selvatico. E la coscienza della ragazzina si fece forza. Divenne
talmente potente da soverchiare e sottomettere il ghepardo in lei. Rumori di
soffi soffocati e ossa articolate si proruppe nella sala, e la pantera sotto di
sé non aveva più un piccolo mostro, metà uomo e metà ghepardo. Ma una ragazzina
completamente sudata e provata. La pantera mollò la presa, riprendendo con gli
stessi rumori la sua forma originale. Porse una mano alla ragazzina bionda,
aiutandola ad alzarsi.
«Bentornata fra di noi, Giulia.»
affermò sorridendo lievemente.
«Non ho
mai visto un umana e un Cacciatore generare armi dal nulla però.» ecco dove
voleva arrivare, il ragazzino. Elisa lo sapeva, e avrebbe risposto con le
cattive.
«E io
non ho mai visto una città governata da un ragazzino.» aggiunse, dando man
forte alla sua età, molto più alta della sua.
«Sono
il più anziano di tutti.» Affermò, ma Elisa non vi credette.
«Menti,
e si vede.» aggiunse, fissandolo con forza.
«Fammi
parlare con il vero capo di questa comitiva, e cercherò di spiegarvi questa
magia che ci accade, in qualche modo.» adesso bisognava vedere se il ragazzino
abboccava all’amo.
Il ragazzino
sembrò meditare, lasciando tralasciare una conferma per i sospetti della donna,
ed Elisa silenziosamente esaltò quando si voltò, rivelando una presenza
precedentemente avvertita da Elisa, e non si finse sorpresa quando entrò.
«Vedo
che sei intelligente per essere un Cacciatore.» affermò la nuova voce, entrando
sotto il fascio di luce.
Una donna
dalla pronunciata età avanzò, reggendosi a un bastone. Elisa non aveva mai
visto una donna così anziana muoversi verso di lei con il petto gonfio di
orgoglio ma con una curvatura della schiena tipica della saggezza. Aveva capelli
bianchi e uno sguardo velato di bianco, impronta di una vista più lunga della
sua nel leggere le persone. Vestiva di abiti bianchi e azzurri con ideogrammi
dalle forme circolari, tipici della religione della Dea della Notte.
Elisa
la scrutò, quasi intimorita dal notare come quella donna, ricca di rughe,
emanasse un aura tutta sua di forza.
«Diciamo
che capisco quando un giovane mente...» ammise, abbassando lo sguardo.
«Come
ti chiami?» domandò la donna, avanzando con il tipico rumore trascinato di un
corpo dal bastone.
Il giovane
rimase al suo fianco, come guardia.
«Elisa,
signora, e lei è Cassandra.» riferì, non sentendo il bisogno di mentire.
«Piacere
di conoscervi, e vi chiedo scusa per il brutto benvenuto, ma non sapevamo se
dicevate la verità sulla vostra provenienza e sulla vostra bontà d’animo.»
ammise la donna con un ombra di rammarico per l’episodio di quel giorno. Elisa
ricordò con uno strappo al cuore Cassandra che cala nel branco di belve
affamate. «Il mio nome non me lo ricordo più, e qui mi chiamano Oracolo. Qui noi
siamo seguaci della religione della Dea della Notte...e a quanto pare anche la
tua amica lo è.» aggiunse, guardando la collana pendente della ragazza riccia,
ancora svenuta.
«Io non
lo so signora...» confessò Elisa, abbassando lo sguardo su Cassandra,
osservandola bene. Dopotutto non aveva mai visto la compagna come
rappresentante di una religione del cui credo aveva solo letto in qualche
libro.
«Vorrei
poterle parlare, quando si riprenderà.» chiese, guardandola con quello sguardo
che a Elisa faceva inquietudine e con quella dolcezza nella voce vecchia e roca.
Accettò con un cenno del capo.
«Ma ti
chiedo di giurarmi che non vorrai male né a me né a questi giovani che sono
rifugiati qui, proprio come i tuoi amici nella fortezza nella tua valle.»
domandò ulteriormente l’anziana, con occhi seri e velati di bianco.
«Lo
giuro, purché non mettiate più in pericolo né me né Cassandra.» precisò Elisa,
e ricevette un consenso dal capo dell’Oracolo. Poi si voltò verso il giovane e
gli indicò di liberarli, facendogli aprire la gabbia.
Elisa
scivolò fuori trascinando la giovane amica ancora svenuta con premura,
prendendola in braccio.
Gli
venne silenziosamente indicato dal giovane una branda dove poter riposare,
nella stanza vicino. Dallo scuro che regnava Elisa intuì fosse notte inoltrata.
Vide una branda abbastanza ampia per ospitare due corpi, e il resto della
struttura rimase all’oscuro per lei, colpita da un’improvvisa stanchezza. Venne
congedata dall’anziana e dal giovane, lasciandole sole in questa stanza dove
ripose con cura la riccia vicino a sé nello scranno e chiuse gli occhi Elisa,
lasciandosi cullare dall’odore inebriante dei capelli di lei, che le
solleticavano dolcemente il collo.
Cosa ci capiterà domani? Cassandra si risveglierà?
Dannazione, un giorno so cosa accadrà domani, e il giorno
dopo no.
Odio non avere tutto sotto il mio controllo.
E questa donna che afferma che Cassandra segue questo
credo...
Un rumore di spade che scozzavano tra di loro ed Elisa si
alzò, scattante. Era sola, in quella brandina dove si era riposata. Aveva
dormito profondamente, intuendo i rumori ora forti nelle sue orecchie
sensibili. Si agitò, non vedendo la donna amata affianco, e sì alzò guardinga,
dirigendosi verso il probabile corridoio. Era una specie di galleria bianca,
che terminava in un enorme salone, il portone sfondato ricoperto di polvere che
dava accesso a una vecchia sala, forse una palestra. Qui e là c’erano vecchi
mobili lignei, il pavimento sporco. La luce filtrava dai vetri alti e sporchi,
la polvere si muoveva sinuosa, depositandosi sulle spade tese in uno scontro.
Due giovani si stavano approcciando a uno scontro per allenamento, intuendo il
materiale ligneo delle armi. Poco più in là una ragazza dai capelli raccolti si
allenava a lanciare pugnali affilati, un ragazzo menava larghi fendenti con
un’ascia. Sorrise, cogliendo come l’ultimo ragazzo si allenava con corda e
pugnale.
Si girò, andando dalla porta opposta, grande tanto quanto
quella scardinata, ma fortemente chiusa. Un ragazzino, vestito come l’anziana
del giorno prima, di bianco e azzurro, con l’assenza di ideogrammi, probabilmente
un grado inferiore.
«Hai
visto la mia compagna?»
chiese, guardando il ragazzino, dall’alto della sua postura.
«Sta
compiendo il rito di inizializzazione.»
con un singhiozzo il giovane si ritrovò scagliato contro il duro legno,
sollevato dalla presa forte della donna al collo.
«Sta
facendo cosa?» domandò, con rabbia e tremore. I suoi occhi
tagliavano l’aria. Che cosa stava facendo Cassandra? Perché non l’aveva
svegliata? Perché gli nascondeva le cose...?
«Ha
chiesto di non essere disturbata, nemmeno da te. È un ordine.» sussurrò il giovane con
paura, un tonfo e il ragazzo toccò terra, che cercò di rimettersi in piedi.
Elisa sbuffò, guardando il portone con la rabbia ferina che scalpitava. Lo
sconforto, la frustrazione navigavano in lei, come onde, come frotte di piccoli
ululanti lupi e stracciavano l’anima, offuscavano la mente. Voleva solo poter
vedere e constatare che Cassandra stava bene, e invece che trattamento le
riservava...? Le ordinava di farsi da
parte, come se fosse una serva da tenere a bada.
Nessuno mi dà
ordini.
Io sono
fiera, sono animale, sono donna.
Solo l’unica
padrona delle mie azioni e del mio corpo.
Io sono
Elisa.
Nessuno mi dà
ordini.
Ritornò alla palestra. Aveva della rabbia da scaricare e
nervi da far scattare. La ferita non si poteva più chiamare tale. Lo sconforto
si era tramutato in ira, voleva urlare, correre, combattere.
«Ehi,
voi tutti.» e i
giovani che si stavano allenando si fermarono, gli occhi che rispecchiavano la
sua stessa adrenalina. Desiderio di sangue nascosto da una patina di paura.
«Fatemi
vedere cosa sapete fare.»
e afferrò una lama, dalla forgiatura giapponese. Sentì l’aria spostarsi, e con
un balzo evitò il pesante colpo di ascia del ragazzo forzuto. Era stato veloce
nonostante la stazza.
Afferrò un coltello al volo lanciato dalla ragazza e lo
rilanciò. Una corda le afferrò il braccio, e sentì il legno di una spada
colpire fortemente la schiena, facendole mancare il fiato.
«Uff... siete forti, dopotutto.» ammise, e intrappolò la spada nella corda,
lanciandola lontano. Un pugnale lanciato le liberò il braccio, e la lama della
sua spada bloccò l’altra spada di legno, spezzandola. Una capriola all’indietro
evitò un ennesimo colpo di ascia.
«Dovete
fare di più! Qui mi sto
soltanto riscaldando!» un pugnale arrivò al suo volto, sfregiandola, prima di
sferrare due colpi ben assestati ai due giovani avventatisi a mani nude. Un
pugno le fece mancare il fiato, e l’ascia stava per tagliarle la testa se non
avesse rotolato per terra all’ultimo secondo. Si lanciò con le mani verso il
soffitto, la forma della pantera si udì in tutta la sala echeggiando, un
ruggito e scricchiolii di ossa fecero accapponare la pelle ai giovani, che
osservavano come la donna-pantera li scrutava con i suoi occhi gialli.
Era
fulminea, nella sua forma, e l’ascia si conficcò nella muratura, la corda legò
i due giovani lottatori a un chiodo del muro, e la giovane lanciatrice rimase
senza munizioni, sprecate nel fermare quel fulmine prima di atterrarla con un
colpo di karate.
Si
fermò ad odorare l’odore di paura e adrenalina dei due giovani rimasti ancora
in piedi, la luce filtrava colpiva il suo pelo, rendendolo lucido e brillante,
gli occhi scuri e gialli così ammalianti, un battito di ciglia e iniziò un
corpo a corpo serrato, bloccando lame che comparivano da tasche nascoste dei
nemici. Sentì lievi ferite propagare il suo corpo, per quando assestasse colpi
leggeri con le sue zampe.
Loro
combattevano per ferire, lei per disarmare. Un taglio più profondo del concesso
scatenò la rabbia. Scagliò contro il muro il forzuto ragazzo, stordendolo, e l’altro
combattente, senz’aria, rimase appeso alla sua zampa tesa, sopra al livello
delle sue scarpe, affannato. Gli occhi che si chiudevano, il cuore che pulsava
più lentamente...
Un
colpo improvviso la scagliò contro un cumulo di legna, lanciando scaglie scure
nell’aria, alzando un polverone.
«Ora
basta.» una voce cristallina e autoritaria si erse dalla polvere, e la
donna-pantera fece fatica a riconoscere in lei Cassandra. Indossava delle vesti
del culto, ma che indicavano un grado altissimo e di combattente della Dea. I
capelli ricci, lasciati sciolti, erano fermati alla tempia da una tiara, le spalle
e gli avambracci erano ricoperti da un’armatura leggera di acciaio, un
reggipetto - anch’esso di acciaio - avvolgeva il suo dolce seno. Il ventre,
nudo, mostrava al bacino, avvolto da una cinta, il cuore azzurro ora brillante
di una luce tutta sua, rendendolo sfavillante.
La
gonna di tessuto bianco e azzurro disegnato con l’ideogramma della Dea -
minimale nelle dimensioni - nascondeva le sue grazie. I piedi non si potevano
scorgere dal vestito se non nel movimento, nudi, una cavigliera di campanule scandiva
il suo passo.
Il bastone, quello apparso nell’arena, era in mano alla
giovane, e dalla fiamma eterea che reggeva fece intuire come la ragazza sapesse
usarlo molto bene.
«Chi
sei tu, per dirmi quando fermarmi?»
disse, sprezzante. Gli occhi della donna erano scuri, la forma lasciata sotto
un velo di tristezza e dolore. Quella donna non era più la giovane che aveva
salvato tante volte in quella grotta tra le montagne. E l’ordine di prima
rimbombava ancora nella sua anima e tagliava tutto.
L’anziana si fece avanti, parlando con voce alta per la sua
veneranda età.
«Porta
rispetto, Cacciatore, costei è la messaggera della Dea, la Voce della Verità
Suprema, in contatto perpetuo e diretto con l’Altissima, e Sterminatrice dei
suoi nemici.» e
Cassandra sorrise, maliziosa.
Elisa
sentì un flebile tremito nel corpo, e un brivido conosciuto correrle per la
schiena.
Si
scostò la polvere dalla tuta, e si diresse verso la compagna con passo
militare, gli occhi puntati alla giovane.
«Lei?»
indicò, ghignando «Ma per favore, non è capace nemmeno di impugnare una lama.»
sbottando una risata. Il volto di Cassandra si deformò in un gesto contrariato.
Il bastone brillò, e il suono di una campana risuonò lontano. Elisa sentì un
pezzo di legno esplodere di fianco a lei. Ma non batté ciglio.
«Non ho
bisogno di lame, Elisa, ho il potere della Dea dalla mia.» proferì la ragazza,
ormai donna, di fronte a lei. Che caratteraccio. Quanta esuberanza, quanto
superiore si sentiva, Cassandra, in confronto a lei? Non lo sapeva, eppure ogni
passo - passo di donna sicura di sé - era come una conferma, un chiaro segno
dei suoi intenti e delle sue convinzioni. Camminava, avvicinandosi sempre di
più. Ed Elisa sentì come invece fossero lontane chilometri. Cosa le era
successo? Che lavaggio del cervello gli avevano fatto quegli esseri?
«Potere...
ma per attuare cosa?» Cassandra sorrise alla domanda fattole dalla giovane
donna dai capelli scuri.
«Una
guerra per la liberazione. Contro i Cacciatori. Non credono nella Dea, ma nel
suo antagonista, il Dio del Giorno.» e gli occhi le brillavano come se avesse
preso una qualche droga, erano leggermente opachi, come quelli della vecchia.
Occhi da fanatici.
«Sono
compresa anch’io, allora.» il silenzio calò nella sala «Non ho mai creduto a
nessun dio, che fosse maschile o femminile.».
Cassandra
la fissava costernata.
«E soprattutto...
i Cacciatori non sono così facili da sconfiggere, se veramente gli vuoi muovere
guerra.» aggiunse Elisa, continuando a non staccare gli occhi dalla giovane.
Non poté prevedere il movimento fulmineo della compagna, Cassandra, quando con
un colpo la fece rovinare a terra. La sua presa forte al petto, il suo fiato
pesante al volto, gli occhi gialli.
«Ti
consiglio vivamente di abbassare la cresta, Cassandra, tu non sei più forte di
me, figuriamoci di quelli là.» e lasciando la presa uscì con passo nervoso e
aura nera dalla sala. I credenti si fecero da parte, lasciando libero il suo
passaggio, guardandola con timore.
«Un’atea.»
proruppe la vecchia, passando lo sguardo alla giovane protetta della Dea,
rialzatasi.
«La Dea
non ha detto niente a proposito di loro.» sbottò, come giustificazione. Ed uscì
anche lei dalla sala.
Chi è questa donna?
Non è la mia Cassandra...
Una fanatica. Una religiosa, ligia al suo credo.
Diventerà mia nemica, per il suo stupido credo?
Non mi piacciono gli dei... giocano troppo con la vita degli
esseri umani.
E io, la mia vita, la dirigo da me.
Non mi serve nessun dio, solo me stessa.
Il mio destino lo traccio io.
...
Sarò pur sempre un mostro, ma il mio destino, per quando
bestiale sia, è mio.
Non loro.
Lo
sapevo, Elisa.
La
Dea non è contenta.
Cambia
atteggiamento, amica mia. Non andare contro gli dei, loro ci sorvegliano
dall’alto, e ci proteggono.
Non
pretendere di essere al di sopra di loro.
Se
sono quassù e noi laggiù ci sarà un motivo no?
Ma
sei ancora umana, Elisa, ed è giusto sbagliare, per la tua natura.
Ma
non ti innalzare al di sopra della Dea, amica mia.
Non
fare Lucifero.
La
Dea ha un disegno preciso per te, non distorcere i suoi perfetti piani per
tutti, solo per la tua testardaggine.
Ecco il
modello che avevo in mente per i vestiti da sacerdotessa di Cassandra.
«Mi
senti, Giacomo?»
parlava a una radio, Elisa. Una voce crocchiante rispondeva a sbalzi.
«Non...Elisa...cercar...» le nocche diventarono
bianche dal nervoso, spostò qualche leva, girò una manopola, e la comunicazione
diventò più chiara. Era una sala buia quella da dove comunicava la giovane, ma
si sentiva nell’aria un respiro diverso dalla donna-pantera. Una luce azzurra
sferzava l’oscurità, e pulsava di vita propria.
«Mi
recepisci?» domandò
ancora la donna, parlando al microfono. Sforzandosi di percepire la voce dell’amico
dal ricevitore.
«Ora
ti ricevo forte e chiaro.»
rispose la voce maschile al di là della comunicazione, Giacomo trattenne un
sorriso «Ora ti
posso dire una cosa: vaffanculo! Porca puttana, ci
hai fatto preoccupare! Dove sei?»
domandò il giovane, con la sua esuberanza. Elisa sogghignò prima di rispondere.
«Sono
a quattro giorni di cammino dalla base, ti sto inviando le coordinate dei
segnalatori che indicano la strada.»
aggiunse, digitando numeri su una tastiera a cui mancavano alcuni numeri. Pochi
minuti e, confermato l’invio, parlò di nuovo «È importante. Voglio che registri il seguente
messaggio vocale, e inoltrarlo agli altri due capi delle basi.» Aspettò il via e parlò.
«Sono
Elisa, e voglio che ascoltiate le mie parole. Il mondo esiste al di là della
nostra conca, se seguirete le indicazioni che ho inviato, raggiungerete una
cancellata sorvegliata, voglio che la evitiate virando a ovest, raggiungendo un
vecchio raggruppamento di abitazioni. Laggiù io vi aspetterò. Ho bisogno di
rinforzi, tutti coloro che possono combattere rispondano al mio appello. Questa
è una guerra, e per la sopravvivenza. Se perderemo saremo tutti condannati.» inspirò, sapendo che
stava condannando delle persone a morte certa «Vi avviso, se non vorrete combattere vi capisco, ma
è una emergenza. Quegli esseri che ci hanno attaccato, nemmeno un mese fa,
torneranno, e più forti di prima. Quindi pensate ai vostri cari e rispondetemi:
volete davvero che cadano in mano loro? Vi chiedo di combattere per loro, per
la vita. Per la libertà.»
Elisa si voltò all’ultima parola, guardando un paio di occhi scuri al di là
della coltre di buio. La fissavano con fastidio trattenuto. Ritornò a parlare.
«So
che vi chiedo molto, ma vi prego, seguite le mie indicazioni, vi aspetterò tra
5 giorni, in quel raggruppamento di case. Portate munizioni, armi, e voi
Infetti portate le vostre energie. Ros, Ippolito,
chiedo anche la vostra presenza. Abbiamo bisogno di combattenti esperti, medici
e di buoni cecchini. Più saremo, più forti saremo. Sperando che il mio
messaggio raggiunga tutti e vi spinga a venire. Vi aspetto, per la libertà.» e
con quello comandò che il messaggio finisse di essere registrato. La voce di
Giacomo era ora molto più seria e poco propensa allo scherzo. Elisa poteva
quasi scorgere il suo volto giovane ferma in una espressione grave.
«Elisa,
è tutto vero? Dobbiamo combattere...per la sopravvivenza?» la sua voce era
preoccupata. Elisa rispose affermativamente. Lo sentì bestemmiare al di là del
ricevitore.
«Dannazione...
ci mancava solo questa. Comunque porterò il materiale necessario. Le cinture da
me ideate sono comode per gli infetti.» il giovane ormai aveva la voce da capo,
da chi sa cosa fare. La giovane sogghignò.
«Vedo
che ti sei subito accomodato sul trono, eh, Giacomo?» stuzzicò Elisa, poi tornò
seria «Gli infetti devono portare chi non lo è sulle groppe, dovrete essere
veloci e leggeri, usate le tute per la foresta, state attenti, la via è ardua,
ma ora la neve non intacca più il campo...si sta avvicinando il vento caldo del
sud.» aggiunse, e poi salutò, ricordando il luogo e riconfermando le
coordinate.
Appoggiò
il microfono sullo strumento ormai spento.
«Questa
guerra serve a tutti, per poterci liberare.» una voce fuori dalla fioca luce
della lampada raggiunse le orecchie della giovane. Elisa diede un pugno al
tavolo, irata.
«Loro
combatteranno solo ad un mio ordine. Tu non hai nessun esercito al tuo seguito,
Cassandra. Noi non combattiamo per la religione.» aggiunse la donna, alzandosi
ribaltando la sedia di plastica. I suoi occhi dardeggiavano ira, raggiunse con
una falcata la presenza nel buio «Tu stai giocando con la vita della mia gente,
donna.» disse, colpendola con l’indice sul petto. Elisa era ancora sotto la
luce, ma vedeva al di là dei fiochi raggi della lampada. Cassandra aveva un
volto impassibile.
«La Dea
lo ordina.» soffiò, osservandola con dignità dalla sua altezza. Elisa sputò per
terra.
«Io non
ricevo ordini da nessuno. Combatto per la libertà, non per un dio inesistente.»
e si allontanò. Cassandra, nell’oscurità la guardò uscire dalla stanza, una porta
illuminò la stanza della luce del giorno che fuori imperava. Vento, grigiore, e
gocce di acqua cadevano come lame di ferro.
Cassandra
si soffermò ad osservarla, lì ad ammirare il cielo, immobile nella sua postura
ferina, la coda che, agitata, si muoveva veloce. I vestiti datole dai
Resistenti enfatizzavano le sue forme scattanti e morbide. La riccia si era
quasi dimenticata della morbidezza del suo abbraccio, del calore insito nel suo
petto. Della delicatezza della sua pelle bronzea. Della dolcezza delle sue
carezze... nella mente i ricordi di quelle notti passate a dormire accanto a
lei.
Svaniti.
Elisa
scostò il volto, guardandola in tralice. Cassandra notò i suoi capelli. Erano
cresciuti. Troppo.
«Una
volta...stavamo una affianco all’altra.» parlò Elisa, con un tono malinconico. Si
poteva vedere la tristezza trasparire tra i ciuffi ribelli sul suo volto «Cosa
è cambiato da allora?» domandò «È forse... colpa mia?» la mente della donna che
corre alla sua dichiarazione d’amore, le infligge un colpo nero nel cuore rosso
gonfio d’amore. Silenzio.
«Sono
cambiata io, Elisa.» disse Cassandra, nel silenzio spezzato «Non puoi cambiare
ciò che sono. Ciò che penso. Io sono devota alla Dea, sin dalla nascita. Ero
predestinata a lei sin dall’inizio. Questo è il mio destino, disegnato dalle
mani sacre della Somma Dea della Luna.» la sua voce esaltava il nome del dio,
come se il fatto di essere scelta da lei fosse un grande merito. Elisa sorrise
mestamente, nascondendolo alla giovane. Gli occhi al cielo. Erano umidi come
lui.
«Peccato
che ognuna di noi disegna il proprio destino, Cassandra, giorno dopo giorno.
Non gli dei.» e con quella frase Elisa uscì alla pioggia. Cassandra la guardò
varcare la porta.
Sorrise.
È così bella e struggente sotto la pioggia... così invitante
nel suo peccato...
E i suoi capelli sono così amorevolmente ricci...
Oh dea, come posso resisterle...?
È forse questo quello che devo sconfiggere, è forse questo
il mio punto debole...?
...
La lussuria?
Ti ricorderò
come eri, amore mio.
Dolce,
affettuosa, simpatica, sorridente.
Ti ricorderò
come quando mi sono innamorata di te, amore mio.
Orgogliosa e
combattiva.
Proprio come
me.
Ma a quanto
pare l’amore non fa per me.
Elisa
abbassò la testa sotto la pioggia. Le lacrime si fondevano con l’acqua dolce
che frustava la sua pelle sotto la superficie dei vestiti. I capelli le
andavano sugli occhi, saturi di acqua. Li costò con rabbia, urlando nell’aria
grigia della pioggia che cade.
Piove, amore mio. Dentro me.
Ti ricorderò com’eri, e nulla più.
Mi avevi chiesto aiuto, e te l’ho dato.
Mi hai chiesto guerra, ed è quello che ti darò.
...
Desideravo soltanto che tu mi chiedessi amore. Perché questa
è l’unica cosa che vorrei donarti: me stessa.
Elisa
singhiozzava sotto la pioggia, dentro quel campo di calcio dove aveva
confessato il suo amore. La rete sulla sua testa era satura di acqua. Poi, come
un colpo nella mente un suono dentro la testa le urlò.
Tum,
rombo di tamburo.
Elisa cadde
sulle ginocchia, sferzata dal dolore, un suono la scuoteva nelle orecchie della
sua testa e la riempiva di fitte.
Ricorda il Sole.
Poi il
dolore se ne andò, e arrivò una calma silenziosa. La pioggia non suonava più,
come prima. Ora era silenzio. Si alzò, gli occhi verso la grata. Erano completamente
gialli. Con un balzo incredibile arrivò alle grate e le tranciò con un colpo
secco delle mani, la trasformazione in stato avanzato, la pantera governava
quel corpo che ora avanzava a falcate nella grigia città, ricoperta di acqua e silenzio.
Ricorda il Sole.
Ricorda la missione.
Ricorda la carne.
Ricorda il sangue.
Ecco l’ennesimo
capitolo partorito dalla mia mente malata. Cosa è successo ad Elisa? Quanti rinforzi
arriveranno? Cos’è questa guerra che Elisa deve affrontare?
Domande
a cui avremo risposta - forse - nel
prossimo capitolo, che partorirò forse
sicuramente dopo le vacanze natalizie.
La
figura fulminea attraversò tutta la città presa da falcate enormi, il cemento
quasi cedeva sotto la sua possente spinta, gli occhi iniettati del giallo rispecchiavano
l’anima che ormai governava quel corpo scattante e veloce sotto la pioggia che
si stava trasformando in lame. La fine dello spirito pervadeva quel corpo nero,
le fauci spalancate inspiravano velocemente il respiro e lasciavano quiete
nuvole bianchicce nell’aria pesante di quel mattino grigio di lacrime.
La
mente dell’umana era sotto controllo, sotto quella superficie di muscoli e
odio, costretta sotto quello strato di forza e dolore, rinchiusa nel suo
pianto. Elisa spingeva per uscire, ma era debole, era come cercare di respirare
sotto l’acqua. Più ci provava, più sprofondava. Era come quella volta...
NO!
Non ancora!
Ti prego, fermati...!
Il
padrone ora chiamava la sua mente, e la pantera obbediva. Sembrava quasi di scorgere
un ghigno soddisfatto su quel volto così trasfigurato dalla malignità della
pantera, finalmente libera. Quel tamburo l’aveva come rinvigorita di vita.
Arrivò ad una strana barriera di rottami, arrugginiti sotto la superficie
bagnata, e li fermò la sua corsa. Odore di sangue nell’aria. Era così ferroso e
così buono. Ne inspirò a pieni
polmoni la potenza. Il sangue la richiamava. Elisa sobbalzò, nell’animo.
Cos’era quel sapore così languido e dolce nella gola? Strappò gli occhi e vide
la luce del mondo.
«Arrivo,
padrone.» sputò la voce acerba e profonda della pantera, non più umana, con
tono umile.
Una
lama comparve sotto la sua gola, un occhio giallo la fissava. La pantera non
mosse nessun muscolo. Sapeva già cosa fare. Grugnì qualcosa e la lama si
abbassò, comprendendo nel linguaggio animale un messaggio. Era un lupo, con
fattezze umane. Il pelo sporco, incrostato di sangue, forse non suo. Puzzava di
carne fresca. La pantera lo seguì, rallentando l’andamento.
Attraversarono
la piazza, una volta bianca, ora tinta di rosso sangue, che impregnava il
pavimento. La pantera entrò dalle porte scardinate - bronzo - di quel grande
fantasma che era l’edificio che governava il tutto intorno a lui. Era bianco,
pieno di quelle picche e braccia da voler raggiungere il cielo. Statue, occhi,
vetri taglienti la osservavano e, seppur nell’animo non lo volesse ammettere,
ebbe timore di entrare. Quelle ombre tappezzavano la sua superficie come
potevano essere le cicatrici su un corpo di un uomo afflitto.
Le
porte erano a terra, come divelte da un forte vento. Una navata possente, alta
come le più alte montagne, la dominò. E si sentì piccola. Colonne si
susseguivano, come tentacoli, ricoperti di graffi e alcune deperite, dentro
questo edificio. Ai suoi lati vide legna da ardere spezzata, più in là panchine
ancora integre. Una marmaglia di uomini-lupo nella loro danza tribale governava
il centro dell’edificio, presi da una musica di tamburi, inneggiando al sangue,
alla carne, nella loro danza intorno ad un fuoco che cucinava un cadavere di
umano. Il pavimento, di marmo, era ricoperto di ossa. La pantera sogghignò.
L’odore della carne le fece produrre saliva. Aveva fame, voleva soddisfare il
suo bisogno di carne che da troppi giorni nascondeva.
Ma una
presenza, dal profondo della grande chiesa bianca, si erse nella baldanza. D’un
tratto la musica si fermò, così come le danze. Gli occhi gialli tutti puntati
verso quell’uomo, di mezza età, allargare le braccia, davanti a questo enorme
tavolo di marmo sporco di sangue. Osservò la marea di occhi, affamati, con
superiorità e nascosto disgusto. Ora tutti si disponevano ad ascoltare lui.
Ma non
parlò. Casomai nella testa della pantera risuonò la sua voce, autoritaria, e
così come in lei, in tutti coloro che erano presenti all’appello del
“sacerdote”.
«Qui, oggi,
abbiamo una nuova recluta.» la voce parlava, la pantera sorrise, spingendo per
avanzare verso l’uomo, intuendo che fosse il capo di quell’esercito. Era ormai
a quasi pochi metri dal patibolo quando i suoi muscoli si fermarono. Elisa
spezzò un muscolo coi pugni. Stava riprendendo il controllo, e la pantera
digrignò. Il patibolo era alla fine della navata, che culminava in una maestosa
vetrata, disegni che ricordavano una vecchia religione. La luce rada traspariva
da questi vetri. Alla sua sinistra si erse una musica strana. Era un organo. Un
lupo suonava con le sue dita pesanti il maestoso strumento, producendo suoni
lugubri e profondi. I tamburi iniziarono a produrre un richiamo della
battaglia. Gli occhi della pantera si fermarono su un ragazzo che stava salendo
ora i pochi scalini, avvicinandosi all’uomo. Quel ragazzo. Lo aveva già visto.
Ed Elisa bussò alla porta della coscienza.
«È uno
dei nostri nemici, ma vuole diventare uno di noi.» i grugniti della marmaglia
si elevarono alti, per dimostrare il loro disappunto. La pantera affilò lo
sguardo. Occhi scuri, vacui. Giovane. Il giovane. La mente dell’umana collegò
quella figura al ragazzo che faceva finta di essere il capo dei ribelli.
TRADITORE!
L’eco
della rabbia rimbombò nel petto della pantera. E sogghignò.
«E oggi
verrà trasformato.» con quella frase davanti al patibolo venne posta una vasca,
straripante di sangue che a volte, per colpa dei lupi incapaci, cadeva a terra.
Era di marmo anch’essa. Il giovane si tolse la tunica, rivelandosi completamente
nudo, e si immerse nel sangue come se fosse acqua. I suoi occhi decisi. Erano
dilatati, come assuefatto da una droga. La pantera si leccò i baffi. I lupi
iniziarono come a cantare, gorgogliando e grugnando all’unisono, creando come
un rimbombo di battaglia, i tamburi alzarono il loro ritmo. L’organo sputava
fantasmi di polvere e graffi.
L’uomo
lo spinse sotto il sangue, trattenendolo sotto la superficie del sangue. Bolle
uscirono dal liquido. Il giovane stava affogando. La pantera indietreggiò, come
scossa. Il potere dell’umana stava ritornando, e stava riprendendo il controllo
anche del corpo. Tentò di muoversi, ma non ci riuscì. Elisa stava risorgendo da
quella pozza di sangue in cui invece stava affondando il giovane.
Quando
lui riemerse completamente ricoperto di sangue, così come era nato al mondo,
ora era un essere nuovo, i suoi occhi gialli, e si tramutò nel mostro di
incrocio tra uomo e lupo che governava la stanza. «Salutate Samuel, il
traditore della Luna.» Elisa riacquistò il controllo e, mentre l’ultima frase
dell’uomo rimbombava nella testa della donna e un ululato alto le invadeva le
orecchie, scivolò silenziosamente dal rito a cui era stata richiamata. Gli
occhi castani sovrastavano il giallo nei suoi occhi. Cercò di controllarsi. Il
corpo tremava tutto, per l’esperienza appena vissuta. Per ciò a cui aveva
appena assistito.
Varcata
la soglia della chiesa corse, sperando che nessuno la vedesse, scivolando nei
meandri di quella città ricoperta di sangue per tornare all’asfalto. Si girò per
un secondo, osservando l’edificio che si ergeva in quella moltitudine di sangue
e carne, bianco e lindo come poteva essere un angelo, come uno dei tanti che
decorava le sue facciate. Ne rimase incantata ma allo stesso tempo addolorata.
Era una
chiesa. Quella chiesa che aveva visto tante volte con i suoi genitori. Un luogo
dedito a un culto ormai perso nella memoria di quell’epoca.
Scivolò,
bagnata dalla pioggia, nelle profondità della città e corse su binari che
ancora sfavillavano scintille.
Corse finché
non gli mancò il respiro, arrivando ad una stazione. Si appoggiò al pavimento
polveroso e vomitò. L’odore di sangue le era rimasto impregnato addosso e il
ricordo di quel cadavere a cuocere le rivoltò lo stomaco già provato in quei
giorni.
Poi
nella mente l’immagine del giovane le ricordò il tradimento, e vibrò di odio e
rabbia, rialzandosi.
Scagliò
un pugno contro il muro, una nuvola di cemento si sparse per la colonna, e la
giovane uscì al giorno. La mano colava sangue.
Ritornò
alla base, coricandosi su una brandina. Nessuno la notò.
Nessuno
badò alla donna che puzzava di sangue.
Nessuno
badò alla donna che stringeva la mano ferita in uno straccio.
Non
chiamò nessun dio a sorreggerla in quel momento di paura. Si accucciò su se
stessa e pianse silenziosamente, fino alla stanchezza, fino a quando l’oblio
non ebbe pietà di lei, accogliendola nelle sue nere braccia.
...
Elisa,
nel sonno, sorrise.
L’oblio
aveva il profumo di Cassandra.
Ecco il
nuovo capitolo, qui abbiamo potuto avere uno stralcio di come può essere la
religione del Dio del Giorno, o il Dio Sole.
Le
vacanze sono finite, la fine del mondo non è ancora arrivata, e a me tocca
riprendere a studiare ç_ç
Il gruppo di nuovi arrivati, di cui la maggior parte
Infetti, entrarono con il fiatone nella struttura principale dei rifugiati e
sopravvissuti della allora grande metropoli. Alcuni osservavano con occhi
meravigliati case alte quante montagne, l’odore di zolfo e sangue che scorreva
per le vie piccole, e di come quel piccolo treno potesse correre sotto il
terreno a quella velocità.
Sorrise, Elisa, nel riabbracciare i suoi amici e a prendersi
le dovute strigliate per la fuga, ma si fece perdonare con un dovuto banchetto.
I credenti della Dea accolsero con giubilo i combattenti, per quanto alcuni non
fossero di quelli da loro preferiti.
Gli occhi, sempre attenti, scrutavano con occhio critico e
cattivo i giovani con occhi e code d’animali. Alcuni ebbero anche scontri
verbali, ma tutto si sistemava con uno sguardo affilato di Elisa e qualche
parola buona di Ippolito.
Cassandra osservava stranita quel giovane alto e androgino,
non sembrava mischiarsi ai giovani intorno a lui ma, anzi, se ne distaccava
volontariamente. Quando seppe che era uno dei capi della loro combriccola, la
giovane strabuzzò gli occhi. Sapeva di Ottocento e peccato. Si allontanò da
quella malsana figura.
Fu una notte ballata alle danze di fuochi e piccoli falò
dove si arrostiva la carne di buona qualità.
Ma la maggioranza si lamentava delle verdure, che i
rifugiati mangiavano quotidianamente. La carne era privilegio dei Cacciatori,
non loro.
Elisa, d’altro canto, aveva un moto dentro, un fastidio
interno che bruciava dentro di sé. Quel giovane, il sottoposto della donna
anziana dagli occhi cechi.
Lei sapeva. E lui sapeva che lei sapeva.
Ma parlare del suo tradimento sarebbe come ammettere di
essere stata là di sua volontà. E zittì la propria lingua, stringendo i pugni a
quell’inghippo. L’ultima invasione della pantera nella sua mente non le era per
niente piaciuta anzi, le faceva paura. Questo significava che non la controllava
adeguatamente, e che quell’uomo anziano possedeva il potere di domare i
Cacciatori.
Si era ritirata in una stanza privata a pensare, mentre
nella vicina sala i giovani gioivano e sorridevano, come se non ci fosse un
domani, mangiando fino allo sfinimento e ballando fino allo stremo. Elisa
meditava, svestendosi della tuta. Apprezzò la gentilezza di Giacomo di
riportarle le sue vesti militari. Quando indossò la maglia si sentì finalmente
se stessa. Inspirò l’odore di nuovo. Li aveva pure lavati, che gentile...
«Disturbo?» domandò Cassandra,
entrando nella stanza bussando col bastone sulla porta. Elisa si voltò, e
indossò la maglia in velocità. Non notò il rossore della riccia.
«Parla.» affermò, afferrando una
pistola e saggiando la presa. Iniziò a smontarla per pulirla.
«So
che ti ho chiesto di spiegarmelo almeno tre volte, ma non riesco proprio a
capire...» iniziò a
parlare la giovane, camminando. I suoi piedi nudi sul pavimento non provocavano
nessun suono. Come se ogni passo fosse studiato. L’eleganza del portamento, l’ancheggiare
delle sue forme distrasse Elisa, e ascoltò solo metà del discorso. Come non
poteva accorgersi, lei, di cosa le provocasse il suo solo muoversi? Come poteva
non capire che lei era tutto quello che desiderava? Corpo e mente?
Un tramestio interno la scosse.
«Allora?» domandò Cassandra,
guardandola. Notò il suo sguardo perso in un punto indefinito dietro di sé.
«Elisa?» la chiamò, notando la
sua assenza. La donna montò l’arma e la poggiò sul ripiano vicino al letto su
cui si era seduta per l’operazione. Un leggero cigolio uscì dalle molle vecchie
del letto.
«Cos’hai?» Elisa fece qualche
falcata, avanzando velocemente verso di lei, gli occhi gialli nella penombra
della stanza illuminata da una luce di candela. Un colpo di vento la spense. Poi
un tramestio, un fruscio, un ansimo mancato.
«Elisa...» la donna dai capelli
corti aveva afferrato senza cortesia la giovane e l’aveva bloccata al muro, e l’aveva
baciata. Con furia, con voracità. Cassandra tentò di staccarsi da lei. La paura
si poteva palpare nella sua voce. Ricordò la notte di dolcezza e quella
richiesta nel silenzio della stanza, prima della fuga. E quelle lacrime cadute
senza scuse.
La donna-pantera non badò alle sue parole e riafferrò le sue
labbra, suggendo calore e vorace di dolcezza. Le sue labbra...avevano davvero
il gusto del miele sul filo.
«Basta...» mormorò, tra un bacio e
l’altro, ma più la mora continuava più Cassandra desiderava che continuasse. E
perse la propria coscienza e la propria religione, Cassandra, ma non seppe
quando, di precisione. Se quando l’avesse afferrata per i glutei e portata sul
letto a peso o quando l’aveva spogliata della corazza, avendo accesso al seno
ancora acerbo, di giovane donna.
Elisa non si fermò dalle sue azioni, non profetizzando
parole, ma respirando veloce, eccitata. Le mani, la bocca, si muovevano tutte
per loro volontà, e più ne suggeva dolcezza più si caricava di piacere e
fretta. Il suo profumo era fuoco che bruciava gola e carni.
«Elisa...!» la chiamò una seconda
volta, ma non era di paura, era di desiderio.
Scostò le vesti di poco, sentendo la sua intimità oltre la
coltre dell’intimo. Cassandra trasalì, percependo una cascata di sensi tali da
sconvolgerla.
Se mi
distrugge così solo con il tocco, non oso immaginare...
Elisa
zittì i suoi pensieri con la bocca, baciandole labbra e pelle, collo e spalle,
seno e ventre. Poteva sentire i suoi muscoli tendersi, le sue mani fremere. Gli
occhi gialli luccicavano nella stanza ora buia, ma Cassandra aveva gli occhi chiusi.
La mano che reggeva il bastone perse poco a poco la presa.
Una mano,
lenta, distratta, scivolò, e il contatto con esso fu come una scarica di
dinamite e fulmini nei bulbi della donna-pantera.
Cassandra, insinuata in un cono
di luce e polvere, sorride, lo sguardo rivolto verso l’alto, nella
contemplazione divina. Elisa è lì, a terra, ferita, nella vecchia chiesa bianca
distrutta. Vide, nell’ultimo barlume di vita, il corpo della persona che amava
lentamente sgretolarsi, il sangue vaporizzarsi, il suo sorriso frammentarsi e
diventare aria. Un’onda d’urto colpì il mondo. E fu buio. E fu luce.
Don, suono di campana.
I Cacciatori si trasformarono in
polvere, proprio come Cassandra. Elisa si dissolse nell’aria, urlando il suo
nome invano.
Cassandra.
Morta.
Lei.
Morta.
Sacrificio.
Eroe.
Cacciatore.
Vittima.
Dea.
Elisa
si fermò, come scossa da quella visione. Cassandra, sotto il suo peso, notò i
suoi muscoli ghiacciarsi.
«Elisa...?»
domandò, con un ansimo, come se fosse colpa sua.
E lei,
in un secondo, capì.
E
scelse.
Scelse,
finalmente, cosa era. Cosa fosse. Capì, in fondo, nel proprio cuore, che fine
doveva fare quel mondo.
E
sprofondò, e risorse, a nuova vita.
Afferrò
con forza il bastone, e nella mente della sacerdotessa urlò una voce candida.
Si sentì come risucchiata da un imbuto, la sua linfa, la sua vita, il suo
intero essere, compresso, dentro un
unico e piccolo spazio vitale.
Elisa,
nel buio della stanza, sogghignò. Gli occhi gialli.
Finalmente, ti sei decisa, stupida umana.
La
pantera, nel pieno della sua abnorme forma pesava sul giovane corpo della
giovane sacerdotessa, ora spaventata e conscia di quello che era accaduto. Un inganno.
Tradimento.
La
pantera risucchiò, come una sanguisuga, ogni singola particella di quel potere
immenso contenuto nel corpo di quella stupida giovane chiamata “sacerdotessa”.
Fu solo
ad un colpo infertole dalla stessa, con una pistola, che perse la presa e
quindi il vantaggio che traeva da esso.
Ma fu
soddisfatta.
L’energia
accumulata in sé era così enorme da bastare a radere al suolo un esercito. Da
non essere danneggiata da un colpo di pistola.
«Mi hai
tradita!» urlò Cassandra, tra le lacrime, coprendosi con un velo. Elisa,
tornando alla forma umana, sogghignò. Gli occhi gialli. La voce distorta.
«Stupida
umana, che credevi? Che mi fossi innamorata di te?».
Non avrei mai pensato che facesse questo rumore, un cuore
spezzato.
Una
risata agghiacciante si propagò nell’aria, dalla porta entrarono Giacomo e Ros,
spaventati dal colpo di pistola.
«Elisa,
che è successo?» ma un’onda d’urto scagliò i due oltre la soglia, lontano.
Elisa sorrise. Nelle mani, trasformate in zampe, non erano più nere, ma
bianche. Il potere della Dea scorreva nelle sue vene, rubato alla sacerdotessa
stessa. Poteva persino notare nei suoi occhi appannati dal pianto la Vista
assente. Il suo castano era così scuro, adesso, nel suo volto.
Ma ora i miei occhi vedono la realtà. Finalmente, ho capito.
Ora so cosa fare.
Elisa
si voltò e con un semplice gesto delle mani si aprì una voragine nel cemento
della struttura. Calcinacci e polvere invasero la stanza, Cassandra trillò,
sommersa da macerie.
La donna-pantera,
nel pieno della sua potenza, più pantera che donna, si erse nella sua mostruosa
altezza, gli occhi gialli, le braccia ricoperte da un pelo liscio e bianco.
«Ci
vediamo domani, alla piazza. E morirete.» urlò, come avviso, e corse fuori
dalla struttura, veloce e rapida come il Cacciatore che aveva scelto di essere.
Come
era sempre stata.
Che non
aveva mai avuto il coraggio di accettare.
Compresi
troppo tardi, nella mia corta vita, che ci sono solo due categorie d’esseri nel
mondo: i Cacciatori e le Vittime. E imparai troppo tardi a quale delle due
categorie io appartenevo.
Troppo tardi.
Io sono Cacciatore.
Cacciatore è oscurità.
Perché l'oscurità della disperazione è
profonda, non posso fermarmi dal distruggere il mondo.
Prendendo tutto ciò che
desidero, e gettandolo in un inferno senza fondo che tutto consuma.
Il lato oscuro, che per
sempre dominerà il mio destino.
La notte calò nella radura rossa di fronte alla chiesa, un
tramestio. Un ululato di dolore. L’allarme era scattato, silenzioso nella
radura ma lampante nella mente degli Infetti, che sbraitavano ordini e
digrignavano i denti, agitati come piccole formiche mute nella loro frenesia.
Nel mezzo del loro via vai Elisa, rivestita di succinte vesti, appoggiata in
modo blando e scomposto, le sue grazie in mostra, zittì con un urlo mentale i
suoi adepti. L’uomo dai capelli bianchi la guardò, e quel piccolo fulmine fece
muovere la donna. Ancheggiò in modo vistoso, la coda sciolta e lenta nei suoi
movimenti, la bava degli esseri colava e le fantasie si potevano scorrere come
film sugli occhi degli schiavi e lei li vedeva tutti. Sogghignò, scoprendosi
forte e irraggiungibile.
Uscì, il buio dominava tutto. Ma, in fondo, una macchia
bianca. Una figura. Cassandra.
Scostò un ciuffo dai suoi occhi, e con un semplice battito
di ciglia due dei lupi neri si scagliarono su di lei. Corsero come fulmini,
raggiungendola in poche falcate. Un veloce movimento del bastone, un bagliore
muto di luce ed eccoli riversi a terra, in forme umane.
In un battito di cuore cinque altri lupi si avventarono su
Cassandra che lentamente camminava, gli occhi che la vedevano, al di là
dell’oscurità, totalmente bianchi. Aveva raggiunto il maggiore contatto.
Cassandra impiegò pochi movimenti per fermare quei nuovi
avversari con quelli precedenti. L’energia che la muoveva era la rabbia. Era il
dolore.
Tradita.
Ingannata.
Non sai
quante persone hai deluso, per le tue azioni, per le tue parole.
«No!» urlò Giacomo, mentre il
suo braccio veniva fasciato con un’asta.
«Io non accetterò mai questo!
Lei non è una di loro! Non può esserlo! Devono averla manipolata!» urlava, le
lacrime agli occhi senza che avesse il coraggio di cacciarle via. Cassandra
giaceva inerme, avvolta ancora da quel lenzuolo ormai rotto e sporco di
polvere. Se respirava, poteva inspirare il suo odore. Era ancora lì, caldo,
rintanato nel suo cuore. Spine.
«Elisa non può essere una di
loro!» sbraitò ancora, stringendo forsennatamente la mano che ancora reggeva la
pistola.
«Non lo accetterò...mai...».
Cassandra, gli occhi vacui, persi nel fissare il nulla ricordò, a menadito, il
percorso delle sue labbra su di lei. Prima era dolce, confortante, eccitante.
Ora pungente. Il suo cuore urlò. Il bastone vibrò di energia. Gli occhi si
appannarono di bianco e vide.
Vide la luce.
Vide il buio.
Vide la verità.
Il velo silente e invisibile
della bugia scivolò via come polvere dai suoi occhi.
Si alzò nel silenzio generale,
si rivestì in velocità e uscì fuori, preda del vento soffiante e di una nuova
forza dettata dalla rabbia.
Di quanto
dolore hai inferto a questo cuore.
Elisa, da te,
un inganno simile, mai me lo sarei aspettato.
Ma dovevo
dedurlo forse.
Dopotutto sei
una di loro, un Cacciatore.
E io la
Vittima.
Ma ora vi
redimerò tutti. Vi distruggerò tutti.
...
Vi farò
capire che non bisogna farla arrabbiare, una sacerdotessa.
Elisa sogghignò. La sua risata riempì tutti i silenzi. Ed
era agghiacciante, quanto uno stridio di denti su una lavagna madida di sangue.
Si scagliò su di lei a una velocità assurda, un attacco che
sfiorava la perfezione, schivato al millimetro. Le unghie di Elisa aprirono
solo lievi ferite sulla pelle candida e morbida di Cassandra, mentre lei
concentrava la potenza del bastone in quel piccolo anfratto del suo ventre, per
scagliarla lontano e con il maggior dolore possibile. La donna lo evitò,
scivolando nell’aria, di nuovo, un altro graffio al volto, tentato, che la donna
dagli occhi bianchi evitò con maestria e silenziosità, come se stesse vedendo i
suoi movimenti a rallentatore. Elisa vide il fianco scoprirsi, e l’energia
concentrarsi nelle mani di Cassandra. Il rumore dei calcinacci fu l’unico, di
quel turbinare di movimenti, a propagarsi. Elisa riemerse, digrignando.
I lupi fremevano, ma il chiaro comando era il non attaccare.
Lei era la prescelta.
Stavolta, l’impatto silenzioso sfiorò la spalla di
Cassandra, scagliando la sua parziale protezione per terra.
La polvere non fece in tempo a rivoltarsi su se stessa che
Elisa aveva già raggiunto la gamba di Cassandra, afferrandola per farle perdere
l’equilibrio.
La donna usò il vuoto prima dell’impatto come appoggio per
l’ennesimo attacco. Elisa schizzò in aria, colpita di nuovo, stavolta in volto.
Gli spruzzi di sangue raggiunsero il volto della giovane sacerdotessa, ma non vi
badò.
Gli occhi seguirono il percorso del corpo di Elisa,
scattante e sensuale arrivare a terra e atterrare con dolcezza. Scattò di
nuovo, attaccò di astuzia, fingendo un attacco a destra per colpirla a manca. Il
bastone compì una giravolta, puntando alle ginocchia. La pantera si ribaltò su
se stessa, appoggiandosi con le mani e spingendosi fuori portata. Si rialzò,
elegante e femminile. Il sorriso sprezzante.
«I
felini cadono sempre sulle zampe, Cassandra.» la sua voce, strascicata e
sibillina si insinuò nelle sue orecchie come un dolce tessuto di seta
impregnato di profumo e ormoni.
Erano a
poche decine di metri di distanza, ma sapevano che sarebbe bastato poco per
ridurli a zero.
«Raggiunta
la Vista allora?» la riccia ancora non rispondeva alle insinuazioni della sua
nemica, mentre questa, parlando come per assaggiare e assaporare il sapore
delle parole, si muoveva in modo provocatorio, la coda sciolta come acqua in un
torrente. Cassandra la guardava con freddezza. Le parole per lei erano vacue e
inutili, in un combattimento.
«Guarda
che è scortese non rispondere.» una ferita si aprì senza motivo alla guancia
destra di Elisa, che era rimasta ferma immobile.
Cassandra
aveva puntato il bastone contro di lei in pochi istanti. I suoi occhi
vomitavano dolore.
Odio.
Rabbia.
Frustrazione.
Ma
nascondevano solo lacrime.
Cassandra,
in quegli occhi gialli, non ci vedeva niente. Nessuna bava di emozione, nemmeno
la paura, l’istinto più primordiale. Era come una scorza vuota. La donna si
passò il dito sul sangue versato, e lo leccò, un gioco di sguardi e intese.
Possibile
che dietro alle emozioni che tante volte aveva visto in Elisa non ci fosse
niente? Il vuoto?
Era
veramente questo, un Cacciatore? Solo desiderio, brama di sopravvivenza e
sangue?
Un
colpo di pistola sfiorò la testa di Elisa. Gli occhi raggiunsero in pochi
istanti il punto preciso da cui era stato sparato.
«Ah,
non sei sola, a quanto vedo...» l’intera squadra dei sopravvissuti si era
riunita, in opposto alla bianca chiesa occupata, per combattere.
Cassandra
non si era ancora mossa. I suoi sensi e la sua concentrazione erano su un’altra
scala.
«Rimarrai
ancora così impassibile anche di fronte ai tuoi “sudditi” che vengono
ammazzati?». Il fine della frase fece susseguire un intero flusso ininterrotto
di lupi neri che si scagliarono sul piccolo gruppo di giovani armati di pistole
e Infetti.
Una
piccola gemma in mezzo al carbone.
La
chiesa bianca vomitò tutto il nero che portava dentro, tutto il sangue e il
desiderio di morte, tutti i Cacciatori raggiunsero il piccolo fronte nemico, e
lo spaccò.
Cassandra
abbassò l’arme e raggiunse gli amici. Elisa la guardò girarsi e correre.
E sorrise
quando sentì il primo cranio fracassarsi, sogghignò alla prima ferita mortale
aperta, rise di gusto al primo ragazzino squartato vivo.
E la
riccia, nel suo incedere, nel suo combattere quei mostri che di malvagio
avevano tutto e niente, udì nel vuoto della sua anima la voce di Elisa
rimbombarle e disgustarla.
L’odio
cresceva sempre di più, e non retrocedeva.
«Serrate
i ranghi! Contrastateli con tutto! Non permettetegli di passare!» urlava Ros,
ferendo alla gola l’ennesimo lupo nero nella radura, scivolando sul terreno
ormai madido di sangue fresco. L’aria era pregna dell’odore di ferro e dolore.
Le urla
si alzavano di ottave, mentre i proiettili non si potevano più sentire nell’aria.
I tiratori erano stati eliminati quasi subito, impegnati in un corpo a corpo.
«Cassandra!»
chiamò la donna coi capelli rossi, stringendo l’impugnatura viscida del fucile,
sparando una raffica sterminatrice. Cinque lupi caddero nel dolore. La riccia
raggiunse il capo in prima linea con poche eleganti mosse.
«Mi
servono solo cinque minuti.» informò, per poi retrocedere. Raggiunse la
postazione di controllo di Giacomo, con un braccio fasciato e il sudore che colava
dalla fronte. Il colore azzurro dei suoi capelli stava sbiadendo ormai.
«Sono
pronto, quando vuoi!» urlò, e diede un comando a Cassandra. La donna spinse il
pulsante al segnale di Giulia, affiancata da Ros, entrambe madide di sangue e
tramutate in bestia.
Un
boato ruppe le file nemiche, il pavimento venne a mancare sotto le zampe dei
lupi, facendoli sprofondare nel livello sottostante, contornato di pali
acuminati.
Molti
rimasero trafitti, altri gravemente feriti. Il numero dei nemici venne
dimezzato.
I
ranghi dei sopravvissuti esultarono, poi un rintocco di campana si sentì
lontano. Cassandra mormorava in una lingua sconosciuta parole come una
preghiera, una litania dolce e suadente, le mani componevano simboli nell’aria,
il bastone fermo immobile nell’aria, sospeso nel nulla. Poi un rumore grondante
uscì dal pavimento, muri di bianca superficie lunare si spansero nell’aria,
stringendo i nemici in una presa micidiale, fatta di aculei e lame. Gli uggiolii
di dolore furono l’ultima richiesta di aiuto, prima del silenzio.
Elisa,
ferma sugli scalini della chiesa urlò di rabbia. Il ruggito della pantera si
espanse nella radura.
No,
Cassandra non poteva avere tutto quel potere.
Nella
sua mano si formò un aculeo dalla forma sottile, che la donna pantera scagliò
con rabbia nell’aria, trafiggendola e raggiungendo il muro vicino a Cassandra,
spaccandolo. Giacomo sussultò al colpo e la riccia si voltò. Sulla superficie
vi era inciso un messaggio.
I loro
occhi, a centinaia di metri di distanza, tra ossa rotte, urla di dolore, sangue
e sudore, si incrociarono e annuirono.
«Ritirata!»
urlò Cassandra, osservando come la luce fosse cambiata da prima, vi era più
chiaro nell’aria. Era ormai l’alba.
«Perché!?»
urlò Ros, dalle prime righe «Abbiamo vinto!».
«Sbagli.
Era solo un piccolo gruppo di principianti. Una squadra esplorativa.» a quelle
parole Ros e Giacomo sbiancarono. Anche se avevano vinto, la loro unità si era
dimezzata. Molti i feriti a cui prestare soccorso.
«Ho
accettato un accordo. Andrò solo io, e combatterò con il loro capo.» le parole
di protesta si elevarono alte, ma furono zittite dal suo sguardo. Era decisa,
Cassandra. Nessuno l’avrebbe fermata. Aveva il potere della Dea nelle sue mani.
Elisa,
dall’altra parte, sogghignò, gli occhi ripieni di giubilo. L’aveva ingannata.
Entrò dal
portone divelto, ingoiata dal buio della chiesa.
La
figura bianca ed eterea di Cassandra spaccò il buio della Chiesa, immersa nell’oscurità.
Osservò con freddezza lo stato di degradazione della chiesa, luogo di culto.
In fondo,
vicino a un piccolo altare, in mezzo ad un cerchio bianco, vide Elisa e un uomo
dai capelli bianchi. La tunica nera, i ricami rossi, facevano desumere un
sacerdote del culto del Dio del Sole.
Sul suo
volto si disegnò il disprezzo.
«Sei
ingenua, Cassandra. E disgustosamente superba.» la voce dell’uomo si unì all’aria
spezzarsi intorno a sé. Cassandra fu atterrata con un colpo alla nuca,
facendole perdere leggermente i sensi. Riversa a terra, gli occhi si
appannarono, la Vista persa. Intravide Elisa sogghignare, vicino a lei,
artefice del colpo basso.
Si
sentì sollevare per i capelli, un braccio ritorto all’indietro per metterla in
ginocchio. Tentò di liberarsi, ma il colpo ancora le impediva la vista e le
forze. Un lupo la teneva bloccata. Poteva sentire l’odore fetido della sua bava
attraverso l’aria.
«Non
dimenarti, il rito durerà poco.» Cassandra sbiancò, intuendo le sue intenzioni «Un
singolo colpo, e il tuo cuore sarà mio. Basterà solo quello, per liberarmi da
tutti voi. E così il Dio del Sole potrà governare su questa terra!» il
fanatismo si poteva intuire dal tono della sua voce. Si avvicinò, il pugnale
puntato al cuore. Gli occhi dell’uomo erano dilatati, il sudore e l’esaltazione
avevano scompigliato i suoi capelli laccati, bianchi per l’anzianità. Le mani
ruvide tremanti, per l’emozione che gli correva in corpo.
Furono
queste le ultime sensazioni che ricordò, prima di trapassare. Una mano
insanguinata spuntava dal petto dell’uomo, il cuore strappato dalla sua sede,
non più pulsante, nelle dita affilate della donna dagli occhi gialli dietro di
lui. Il rumore di ossa spezzate susseguì la caduta del corpo del sacerdote,
ormai morto.
Elisa
si scrollò il sangue di dosso, i lupi gorgogliavano confusi. Quell’uomo era il
loro capo, ma era morto. Era stato ucciso da Elisa.
Cassandra
rimase shockata dalla brutalità dell’assassinio, dalla freddezza delle sue azioni.
Da come
Elisa aveva impedito il suo omicidio.
Cuore, ancora sussulti alle azioni della traditrice?
Elisa
sogghignò. Il ragionamento dei lupi le era gradito.
Se lui
era morto questo sta a significare che lui era debole. Quindi Elisa è più forte
di lui, che era il capo. Adesso quindi il capo è lei.
Elisa
si appoggiò alla spalla della riccia, ora Cassandra poteva vedere con
chiarezza. Gli occhi castani incrociarono quelli gialli della pantera.
«È ora
che il rito cominci, giusto, sacerdotessa?» la riccia non capiva. Il tono di
della donna pantera era cordiale, morbida, come l’aveva sempre sentita. «È oggi
la data fissata per il nostro sterminio?».
No.
Non può essere.
Come può, un Cacciatore, essere a conoscenza del disegno
divino che io ho solo intravisto?!
«Il tuo
silenzio conferma i miei sospetti allora.» la presa sulla sua spalla si fece
più forte. Abbassò lo sguardo.
«Elisa,
non vorrai mica...» soffiò la riccia in un sussurro.
«Scusami.»
la interruppe Elisa. Un leggero sorriso solcò il suo volto.
Dall’esterno
la scena si consumò in pochi attimi. Ma nello spirito delle due donne quello fu
un combattimento all’ultimo sangue, all’ultimo spirito, durata millenni.
Rubare
una parte dell’altra era molto più difficile del concederla. Era già successo
più di una volta. Come quella volta che Cassandra rubò lo spirito della
pantera, su quel dirupo, mentre Elisa stava per morire per mano di quell’uomo
dai capelli bianchi.
Come
quella volta che Elisa rubò l’energia di Cassandra, quella della Dea, per
proteggerla dagli Infetti.
Perché
Elisa e Cassandra sono l’Eroe e il Sacrificio.
L’uno
non può esistere senza l’altro.
Entrambi
si supportano fino al giorno del giudizio, e compiono il volere della Dea.
Il
Sacrificio, giunto il giorno, avrebbe dato la sua vita per raggiungere lo scopo
comune.
L’Eroe
avrebbe protetto il Sacrificio fino a quel giorno.
Elisa
doveva proteggere Cassandra, fino al giorno del giudizio, e poi lasciarla
morire.
Questo
era il Disegno Divino della Dea.
Ma
tu, Elisa, nel tuo ceco egoismo, non lo hai accettato.
Non
sopporti di separarti dalla persona che ami.
E
ti capisco, un poco.
Ma
sei folle, nel volerti prendere le responsabilità di due esseri sulle tue sole
ed uniche spalle.
Elisa
vinse la battaglia. Contornata da una luce aurea, avvolta in morbide vesti
bianche, i capelli diventati lunghi erano sciolti, ricci, e si librava nell’aria
come senza gravità. Gli occhi non più gialli, ma castani. Nella mano il bastone
che prima era di proprietà della sacerdotessa Cassandra, ora riversa a terra
sconfitta e distrutta, vestita solo di una blanda tunica bianca.
Cassandra
si sentì strappare una parte di sé, vedendo come metà del suo mondo precipitava
nel buio. I capelli persero il loro naturale colore, diventando bianchi. L’occhio
si appannò, diventando cieca per metà.
«Elisa...no!»
urlò, liberandosi e lanciandosi in modo disperato verso la donna avvolta nella
candida protezione della Dea. Vi era stato uno scambio. Una cosa proibita.
Un onda
silenziosa si disperse nella chiesa, e tutti i lupi gracchianti si riversarono
a terra, liberi e purificati. Ora vi erano solo i corpi degli ignavi vittime,
perse in un sonno collettivo. Il rito disgustoso dell’uomo venne purificato.
Cassandra
piangeva, disperata.
Elisa
ora era la sacerdotessa.
L’Eroe
e il Sacrificio, tutto in uno.
Due
spiriti in un unico corpo.
Cassandra
ora sapeva. Aveva capito tutto. Le azioni
di Elisa, il suo odio, i suoi comportamenti, le sue emozioni.
Ma era
troppo tardi. Aveva capito tutto troppo
tardi.
Fu con
disperazione vedere come Elisa recitava con drammatica voce e un sospiro di
malinconia l’incantesimo finale. L’ultimo compito del Sacrificio.
Il Risanamento.
La distruzione totale dell’umanità.
Ma le
parole erano diverse, l’intento dell’incantesimo era diverso. Elisa si tagliò
il polso. Il sangue sgorgò, per poi cristallizzarsi nell’aria ed evaporare. L’ultima
parola dell’incantesimo venne soffiata con malinconia. Gli occhi di Elisa si
adagiarono per un istante in quelli di Cassandra. E si persero in quell’istante.
Ho fatto tutto questo per un unico motivo.
Mi sono fatta odiare, mi sono trasformata in un essere
disgustoso, mi sono fatta toccare, giudicare. Mi sono trasformata in serva e
padrona. In giudice e giustiziere.
In combattente e condottiera. Da amica a nemica.
Da donna a mero oggetto.
Avrei persino toccato i fondi dell’Ade o degli inferi per
avere quello che desideravo: il potere di fermarti.
Di non permetterti di morire. Di non morire vedendoti
sparire nell’aria.
Ti giurai una volta che ti avrei protetta, qualsiasi cosa fosse
successa.
Ti sei forse dimenticata? Io no. Io non dimentico mai una
promessa.
Tutte le persone che ho amato se ne sono andate.
Non avrei più accettato la vita, se tu fossi morta.
Quindi ho fatto la mia scelta, ho corrotto la mia anima, il
mio corpo, il mio spirito, il mio cuore, la mia mente.
Tutto, tutto, pur di non vederti morta.
E ora, ce l’ho fatta. Vivi, ama, sorridi in un mondo dove
non ci saranno più Cacciatori.
Vivi, almeno tu, anche per me.
Un
sorriso, una lacrima, un bagliore, un onda d’aria e magia.
La luce
del sole segnò l’inizio di una nuova era.
Ora erano
solo loro due, in mezzo a un luogo indefinito, contornate solo dal bianco.
«Ho
delle domande che non hanno ancora avuto una risposta, Elisa.» la voce di
Cassandra era seria e Elisa, sollevata in quello spazio senza gravità la
ascoltava, assorta. Sapeva che quei pochi minuti le sarebbero costati.
Ora erano solo loro due, in
mezzo a un luogo indefinito, contornate solo dal bianco.
«Ho delle domande che non hanno
ancora avuto una risposta, Elisa.» la voce di Cassandra era seria e Elisa,
sollevata in quello spazio senza gravità la ascoltava, assorta. Sapeva che quei
pochi minuti le sarebbero costati.
Sorrise, dolcemente, come non
aveva fatto mai.
«Allora domanda, e io
risponderò.».
«Perché? Perché tutto questo?» domandò.
Nel lento progredire del tempo, gli occhi e i capelli di Cassandra perdevano
sostanza. Gli occhi sbiancavano lentamente, e i capelli perdevano il loro
naturale colore, come se stesse invecchiando.
Elisa
scostò lo sguardo. Non voleva che lei sacrificasse troppo, per quelle domande.
«Perché?»
sospirò. Eppure, pensava che si potesse facilmente intuire. Sorrise
malinconicamente. «Perché ora sei viva. È questo l’importante per me.»
Cassandra strabuzzò gli occhi, nel profondo del suo petto, il cuore sussultò
ancora. «La cosa più importante per me sei tu.».
«E quelle
parole allora?» chiese Cassandra, stringendo i pugni. La rabbia colorava i suoi
occhi, anche se ormai erano come un foglio bianco. Eppure si poteva ancora
vedere la traccia del suo colore, come una penna che non ha più inchiostro. Ricordò
il tradimento.
E i
suoi ricordi divennero immagine. Elisa vide. E sentì. In quel momento, il cuore
di Cassandra si era spezzato. Aveva impiegato così tanto tempo a ricomporsi, a
ricostruirsi, a ricucire le ferite, a guarirle. E lei lo aveva spezzato di
nuovo.
«Mi hai tradita!» urlò
Cassandra, tra le lacrime, coprendosi con un velo. Elisa, tornando alla forma
umana, sogghignò. Gli occhi gialli. La voce distorta.
«Stupida umana, che credevi? Che
mi fossi innamorata di te?».
Una risata agghiacciante si
propagò nell’aria...
«Era
una bugia.» confessò Elisa, nel silenzio di quello spazio etereo.
Cassandra
rimase stupita. Basita. Non sapeva cosa dire.
«Il
tempo sta per scadere...ma io ho ancora una cosa da chiederti, prima di
andarmene.» parlò Elisa, spezzando il silenzio. Cassandra vedeva la sua figura
a stenti. La vista stava per sparire, completamente. Sapeva che un occhio era
sparito, e non sarebbe più tornato. L’altro, lo stava sacrificando per
scambiare quelle ultime parole con lei. Sarebbe diventata cieca, lo sapeva, e
lo accettava.
Non mi importa, di diventare cieca. Dopotutto, se lei
sparisse...
... se lei sparisse, non ci sarebbe più niente da guardare,
in questo mondo.
Non sopporterei una vista dove non ci sei tu, Elisa.
«Aspettami.
Tornerò.» disse, sorridendo malinconica. Ma a Cassandra sembrava solo una
bugia. Una come l’altra che le aveva detto, ma che continuava a pesare sul suo
cuore.
«Nel
frattempo, amore mio, conta le stelle... per me.» la luce divenne forte, e non
vedeva più il suo volto. Non poteva capire se stava piangendo.
No, lo
sentiva. Sentiva la sua voce spezzarsi. Stava piangendo.
Aspetta!
Amore mio...?
Ma allora...!
«No,
aspetta! ELISA!» ma la sua voce si consumò in un tempio dove non c’era più
nessuno. Si ritrovò, conscia, nella realtà, nella chiesa profanata, sulla
terra, china sulle ginocchia, priva della vista e di parte della sua
giovinezza.
«Elisa...»
mormorò, nel pianto. Si strinse le mani sul volto, cercando di controllare il
respiro. Non poteva nemmeno vedere le proprie lacrime.
Stupida... Non posso mantenere quella promessa.
Ho perso la vista...
... Ricordi?
«ELISA!»
urlò, facendo riecheggiare la sua voce nella distesa silenziosa della città.
Elisa
rimase lì, in quello spazio bianco. Aspettando.
Sapeva
che sarebbe venuta.
«Elisa.».
Questa voce...
Una
sberla in pieno volto la colse, ma non vide nessuno intorno a sé.
Poi,
un’altra voce, più potente e più incontrollabile di tutto, la pervase.
Non
capì, né cosa disse, né cosa voleva dire.
Aveva
lasciato la terra, aveva lasciato lei.
La sua spinta di sopravvivenza, in quel momento, era sparita.
«Sei
una folle. Hai rovinato i miei piani, cercando di fare di testa tua!» la voce
parlava. Ma Elisa non ascoltava. Poi parlò.
«Io non
prendo ordini da nessun Dio o Dea che gioca con la vita degli esseri umani e
della mia. I tuoi piani mi ripugnano. Tu non hai il diritto di disegnare il mio
destino, né quello degli altri. Io ho compiuto il destino che io stessa ho scelto. Ora lasciami
stare.» e con quello cadde in ginocchio, per quanto non ci fosse una superficie
su cui appoggiarsi. E pianse.
Poi lo
sconforto, così come il dolore, scomparve. E la voce tornò, prepotente.
«Ti
punirò per questo. Sconterai la peggiore delle punizioni. E quando avrà fine,
tu sarai il mio araldo durante l’alba dell’Apocalisse.» Elisa sussultò.
«Potrò
tornare da lei?» domandò, e sentì un sì come risposta.
Sorrise.
«Allora
puniscimi. Non mi importa cosa mi possa accadere. Se posso tornare da lei...»
ma non finì la frase. Si ritrovò a cadere in un burrone, scuro come la morte.
E
cadeva, cadeva.
Ma non
aveva fine.
L’aria
le sferzava il volto, le vesti, gli occhi. Le impediva di muoversi, di cercare
un appiglio a cui appoggiarsi.
E alla
fine capì. Quella era la sua punizione.
Cadere,
senza nessun appiglio. Era come lei, che combatteva da sola le sue battaglie
senza nessun supporto.
E poi
ricordò i suoi amici.
E poi
ricordò lei.
E
sorrise.
Non è vero, io non combattevo da sola le mie battaglie.
Io avevo delle persone che mi sostenevano e che mi amavano.
I volti
di Ros, Giulia, Giacomo, e tutti i soldati, i ragazzi le scorrevano nella
mente. Sua madre, la sua maestra. Tutte le persone che aveva amato l’avevano
supportata.
Una
folla vociante strepitava al centro della piazza, l’aria era carica di
elettricità e fermento. Su un patibolo eretto, in legno, si poteva scorgere un
tronco morto di albero, sporco di sangue ormai secco.
Una
donna fu strappata a un gruppetto di persone, tenute sotto catene vicino a una
rampa sulla destra che, seguendo la pianta della piazza, saliva fino al centro
del palchetto.
La
folla urlava, inneggiando alla violenza e desiderosa del loro spettacolo.
Urlava, bramosa di sangue.
Questa
donna, con un rozzo sacco calato sul volto, impediva di scorgerla in volto.
Alla
sinistra, con una vista esclusiva sull’esecuzione, stava un trono, coperto di
sontuosi veli e protetto dal sole corroborante e pesante di quel giorno. Una
figura, nell’ombra, gioiva delle urla, e sorrise, stringendo un bastone nelle
sue mani giovani. La folla, ignara del sole, lanciava pomodori e uova marce
verso la condannata a morte, che però camminava con passo sicuro verso la
propria morte. Le spalle ritte, sebbene avesse le mani incatenate e ricoperte
di lividi e croste. Era vestita di stracci puzzolenti, e il boia, un energumeno
dal volto celato da un cappuccio nero, affilava per l’ultima volta la sua
enorme scimitarra prima del colpo.
Il
cappuccio fu tolto, e una cascata di capelli rossi come il fuoco nel camino di
un castello incantato scese dolcemente, rilucendo alla luce del sole cocente.
La
folla urlava, inneggiando cori di odio.
«Morte
all’eretica!».
«Bastarda!».
«Muori
eretica!».
La
figura, prima celata, si alzò, e batté per tre volte il bastone per terra. Il
silenzio si propagò nella piazza come vento. E divenne il centro
dell’attenzione della folla, ora diventata pubblico.
Luce. C’è luce, sui miei occhi.
Non vedo.
Sto... cadendo?
«Pietà!»
urlò una voce, nel silenzio, grigia nel tono e roca.
Una
vecchia, incatenata insieme a un giovane uomo, gridava con tutto il suo povero
corpo, pieno di rughe e di malori. Cercò di muoversi verso il patibolo, e la
rossa incrociò gli occhi dell’anziana, bianchi come un foglio intonso. Sorrise
malinconica, conscia della sua imminente fine, e ringraziò silenziosamente
quell’ultimo impeto prima della fine. La vecchia fu bloccata da un soldato, ma
non smise di urlare, come se andasse della sua vita.
Ora ho capito.
Sto arrivando... amor mio.
«Abbiate
pietà per mia figlia, ve ne prego!» urlò, disperata. Le lacrime solcavano la
sua pelle rugosa, piegata dal tempo. China nella sua postura scoordinata, perse
subito le forze del suo impeto, e crollò sulle ginocchia, tremando
vistosamente. La rossa fremette alle sue parole, una lacrima invisibile si
formò agli angoli degli occhi.
L’uomo,
ricoperto di vesti di sacerdote, bianchi e azzurri, sogghignò di fronte alla
patetica richiesta dell’anziana e con un cenno del capo fece intuire al boia di
continuare.
La
ragazza venne obbligata e legata sul ceppo, i capelli scostati per permettere
al collo di brillare, bianco come la luna sotto il sole.
La giovane,tremò
al silenzio della piazza, e strinse convulsamente le mani sulle catene,
aspettando il momento fatidico della morte istantanea. Tutto era in tensione,
per il momento culminante.
«Andrea,
no!» l’ultimo urlo della vecchia, prima che l’arma venisse alzata. Brillò come
oro, sotto il sole impassibile.