Il Figlio dell'Arcobaleno

di Aurora_Boreale
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Arcobaleno ***
Capitolo 2: *** Rosso ***



Capitolo 1
*** Arcobaleno ***


capitolo1

Note: Che emozione, pubblico la mia prima Original!
Avevo iniziato a scrivere questa storia per il contest 'Alla luce delle stelle' indetto da FOY_Contest (con il prompt e parola: Arcobaleno - Farfalle). Purtroppo, non sono riuscita a concluderla in tempo e quindi non ho partecipato. Pazienza, vorrà dire che i giudici sarete voi lettori^^. Dato che si tratta della mia prima Original, ci tengo particolarmente. Spero vi piaccia!
Buona lettura.
Aury

P.S. Il bellissimo banner è stato fatto da YUKO CHAN e il servizio è offerto da 'EFP editing'. 


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Capitolo 1

Arcobaleno

Johel, terzogenito del Signore di Palazzo Indaco, aveva da pochi giorni compiuto venticinque anni, indi per cui era giunto per lui il momento della Scelta. Tale Scelta consisteva nel fatto di andare in cerca della propria anima gemella. Era una delle tradizioni più importanti di Arcobaleno e Johel, in quanto suo abitante, non poteva sottrarsi a ciò. Per tale motivo il ragazzo se ne stava rinchiuso da ore nell’immensa biblioteca della propria dimora, intento a consultare uno ad uno i candidati disponibili, sotto il controllo vigile della sorella maggiore.
Johel stava iniziando a perdere la pazienza, che già di norma non era molta. Quasi nessuno dei giovani che aveva visto fino a quel momento aveva attratto il suo interesse e il fatto lo stava portando a un livello di irritazione sempre maggiore. Lanciò un’occhiata veloce al di fuori della finestra: il cielo era meravigliosamente terso, perfetto per volare. Oh, quanto avrebbe desiderato trovarsi sul dorso del suo drago, invece che in quella stanza stracolma solo di libri.
“Johel!” lo richiamò la voce di Yane. “Non ti distrarre!”
L’interpellato emise un gemito pieno di frustrazione, infilando le mani nei folti capelli neri. Dio, odiava quell’arpia! Perché diavolo suo padre l’aveva affidato a lei? Non poteva esserci Luca lì? Già, Luca, il primogenito, tanto responsabile quanto posato e gentile. Oh, Johel sapeva che suo fratello non lo avrebbe mai tiranneggiato a quel modo; gli avrebbe lasciato più libertà, la possibilità di fare almeno delle pause e… Johel ne avrebbe approfittato senza concludere nulla! Ne era conscio lui, così come gli altri componenti della sua famiglia; ecco perché suo padre aveva optato per Yane, l’unica con un carattere tale da essere in grado di farlo stare in riga.
Riportato ai suoi doveri dal monito di Yane, scrutò con aria assorta i piccoli globi variopinti che non aveva ancora preso in considerazione e infine optò per uno di colore carminio.
Sfruttando il potere della telecinesi, Johel fece ballonzolare nell’aria la sfera prescelta, la fece rimanere in sospensione per un po’, poi, con uno schiocco secco delle dita, la attivò. Il globo baluginò, proiettando nella stanza l’immagine onirica di una ragazza proveniente dal Regno di Fuoco, il primo pianeta. La fanciulla aveva lunghi capelli neri, pelle color cioccolato e due iridi rosse tipiche degli abitanti di Rostgard; era slanciata e flessuosa, con curve armoniose nei punti giusti. Johel la ammirò come avrebbe fatto un qualsiasi ragazzo della sua età che si trova davanti a una bella ragazza. I suoi occhi blu si soffermarono sul seno alto e sodo, esaltato dal corto corpetto damascato, per poi slittare sul ventre nudo fino ad incontrare l’orlo dorato degli ampi pantaloni di lino, che nascondevano la forma delle sue gambe. Johel le immaginò lunghe e ben modellate, soprattutto sapendo che le donne di Rostgard erano trattate alla pari degli uomini e quindi anch’esse venivano allenate all’arte della spada fin dalla tenera età.
“È molto bella.” La constatazione era arrivata da Yane.
Johel alzò un sopracciglio, in attesa: sapeva che sua sorella non aveva finito; di solito i suoi complimenti erano sempre seguiti da un’affermazione pungente.
“Però mi sembra essere troppo altera e piena di sé.”
A quelle parole, Johel rise di cuore. “Yane, ma quale abitante del primo pianeta non lo è? Sai bene che è una loro peculiarità quella di sentirsi superiori agli altri.”
Yane fece una smorfia scocciata, scrollando le spalle con aria di sufficienza. “Contento tu, fratellino.”
Johel non si fece ingannare. Certo, la scelta della sua futura compagna o futuro compagno era solo sua, ma era conscio che Yane l’avrebbe tormentato fino alla nausea se avesse optato per qualcuno a lei poco gradito. Essendo l’unica figlia femmina, era stata sempre viziata, di conseguenza non ci si poteva stupire del suo atteggiamento dispotico. Nonostante quell’aspetto antipatico del suo carattere, Yane era anche estremamente gentile e disponibile con coloro che rientravano nelle sue simpatie.

Dopo aver fatto sparire la ragazza di Rostgard, con un sospiro Johel si decise ad attivare un’altra sfera; questa era di un bel blu elettrico, segno che proveniva da Blue Moon, il pianeta d’origine della madre.
Yane batté le mani in maniera entusiasta appena scorse l’immagine tridimensionale della nuova candidata. “Lei mi sta simpatica!”
Il fratello annuì, concorde.
La fanciulla mostrava un viso solare e dolce al contempo; era anche molto graziosa, presentando le caratteristiche tipiche del Popolo del Mare: capelli argentei e mossi come le onde, occhi di un vivido azzurro e carnagione pallida. Se doveva essere sincero con se stesso, Johel trovava più intrigante l’aspetto degli abitanti di Rostgard, ma sapeva altrettanto bene che la loro bellezza era accompagnata da un carattere piuttosto difficile e belligerante.
“Come ti chiami?”
La ragazza sorrise prima di rispondere. “Irwin, mio signore.”
La candidata era una pura emanazione magica di quella in carne e ossa, però la fisionomia e gli atteggiamenti rispecchiavano quella reale, in modo tale che ogni giovane di Arcobaleno al momento della Scelta potesse dare il suo giudizio senza la necessità di allontanarsi dal pianeta.
“Irwin,” ripeté Johel, assaporando tra le labbra la musicalità di quel nome. “Mostrami dove abiti, Irwin.”
La ragazza non se lo fece ripetere due volte. 
La sfera blu che aveva racchiuso la sua identità brillò intensamente e poi tutto nella sala della biblioteca mutò; le mura scomparvero, insieme ai libri disposti sulle scaffalature, così come le sedie e i tavoli da lettura. Johel e Yane si ritrovarono su una spiaggia di sabbia bianca, impalpabile come zucchero a velo. L’aria odorava di salsedine e un mare turchese si stagliava all’orizzonte, cangiante di riflessi argentei sotto i caldi raggi solari.
“Questa è la Baia delle Sirene,” disse Irwin, indicando con un cenno vago della mano la zona circostante. “Fa parte dell’isola di Crònos, una delle isole commerciali.”
Johel inspirò a pieni polmoni: quel luogo aveva un sapore di libertà.
Blue Moon era un pianeta costituito prevalentemente d’acqua e i suoi abitanti vivevano sulle numerose isole presenti. Era gente semplice e di indole mite, dedita alla pesca, alla coltivazione di piccoli appezzamenti terrieri e al commercio. Johel amava Blue Moon e non solo perché era il pianeta d’origine della madre.
“Quindi presumo che i tuoi genitori siano commercianti?”
Irwin sorrise in maniera dolcissima e Johel pensò che fosse una buona cosa che la ragazza fosse tanto solare.
“Sì, vendono pietre preziose.”
“Beh, hai visto abbastanza, Johel? Possiamo andare?” chiese Yane con voce lamentosa, interrompendo subito quello scambio di informazioni.
Il ragazzo represse a fatica un’esclamazione alla vista della sorella che tentava di preservare dalla sabbia gli orli del lungo abito che indossava. Alzò gli occhi al cielo, quasi incredulo di avere dei geni in comune con lei. Ma alla fine di cosa si stupiva? Yane era sempre stata la più schizzinosa della famiglia. Con la coda dell’occhio notò Irwin nascondere un sorrisino divertito dietro ad una mano, ma lui non poteva di certo darle torto. Il comportamento della sorella era assurdo, visto che quel luogo non era reale, ma solo un parto delle reminiscenze di Irwin.
“Va bene così, Irwin,” mormorò Johel, onde evitare altre lamentele.
Neanche un battito di ciglia dopo, si trovarono nuovamente nella sala austera della biblioteca.
Johel sospirò. Si sentiva soffocare lì dentro, nonostante l’immensità della stanza, ma nemmeno la camera più grande del palazzo si sarebbe potuta comparare con gli spazi sconfinati di Arcobaleno. “Bene,” affermò con una certa risolutezza, “direi che posso fare un primo viaggio.”
Yane spalancò le palpebre a quelle parole. “Ma hai visionato la metà delle sfere,” disse con voce concitata. “E hai ritenuto idonei solo due soggetti,” aggiunse in fretta, indicando prima Irwin e poi Zac, il ragazzo di Arstgard, che se ne stava seduto su una sedia facendo roteare in aria, con espressione svogliata, un piccolo pugnale affilato.
Johel fece spallucce. “Beh, intanto posso andare a conoscere loro due. Più avanti darò un’occhiata anche alle altre sfere. Dopotutto ho la possibilità fare tre incontri, no?”
“Sì, ma sai bene che il primo è quello importante. Oltre ai gusti personali, c’è anche in gioco un bilanciamento di tipo magico.” La risposta della sorella fu sferzante. Senza lasciare all’altro il tempo di replicare, andò avanti imperterrita. “Il modo corretto di agire è quello di visionare prima tutte le sfere e poi scegliere in base a quello che provi. La tua magia dovrebbe reagire di fronte alla persona giusta.”
Il giovane strinse le labbra in una linea sottile. “Yane, il mio potere magico non è abbastanza elevato perché ciò avvenga.”
La ragazza gli rivolse un’occhiata velenosa. “Se ti fossi applicato di più nello studio, lo sarebbe a sufficienza. Ma no, tu preferivi passare il tempo a volare su quella stupida bestia, invece che esercitarti sul tuo potere, vero?”
“Sarabi non è stupida!” sbottò di rimando Johel alzando il tono della voce. Se c’era una cosa che lo faceva subito incazzare era quando qualcuno offendeva il suo drago. “Anzi, sono convinto che sia molto più intelligente di te!”
Il viso solitamente pallido di Yane si arrossò per la collera. Afferrando saldamente i bordi del tavolo tanto che le nocche le divennero bianche, si concentrò per rilasciare il suo potere contro il fratello. A differenza dell’altro, lei si era esercitata per lunghi anni per averne un pieno controllo.
Johel notò subito gli occhi della sorella divenire di un viola brillante, fissandosi decisi su di lui. Il suo corpo si irrigidì appena ne intuì le intenzioni. “Yane,” provò a chiamarla, “non ti azzardare a...”
Non riuscì a concludere la frase, poiché la sua stessa mano destra lo schiaffeggiò forte sulla guancia, lasciandolo sbalordito.
“Yane!” gridò oltraggiato. Odiava il potere magico della sorella, che le permetteva di controllare gli altri come se fossero dei burattini. Oh, e odiava ancora di più l’espressione vittoriosa che quell’arpia esibiva in quel momento.
Johel digrignò i denti; la rabbia di essere magicamente più debole di lei, unita alla frustrazione di essere ancora rinchiuso tra quelle mura, lo portò ad una soluzione drastica del problema. Sua sorella insisteva sul fatto che dovesse guardare tutte le sfere? Benissimo! L’avrebbe fatto, ma a modo suo.
Con un ghigno ben poco raccomandabile, fissò l’attenzione sul gruppo di globi che non aveva ancora preso in considerazione: era circa una trentina. Diede un’occhiata alla camera, senza avvedersi dello sguardo stranito di Yane per quel suo improvviso silenzio.
Adesso ti accontento, sorella, pensò con una punta di soddisfazione. Fece levitare le sfere fino al centro del salone, disponendole in un ordine del tutto casuale, poi schioccò le dita al fine di attivarle. Tutte in contemporanea. La stanza si affollò per la presenza dei restanti candidati.
“Johel!” eruppe Yane a quell’azione sconsiderata. “Ti sembra il caso...”
“Seguo le tue istruzioni,” rispose il fratello con aria angelica.
A tale affermazione, Yane non seppe più come argomentare. Rassegnata, si accomodò sulla sedia e lasciò all’altro la possibilità di continuare come meglio preferiva. Anche se quello non era di sicuro il modo migliore di procedere, almeno suo fratello avrebbe visto tutti i possibili compagni.
Johel diede un’occhiata veloce ai giovani nella speranza di trovarne qualcuno di suo gusto. I candidati presenti provenivano dai sette pianeti che gravitavano attorno ad Arcobaleno. La loro peculiarità consisteva nel fatto che ognuno di loro era nato nel momento esatto in cui nel cielo era comparso un arcobaleno e, per tale motivo, erano chiamati i Figli dell’Arcobaleno.

Johel era tanto concentrato in quel compito che sobbalzò nel percepire una mano ferma posarsi sulla sua spalla. Dopo aver sollevato lo sguardo, notò che si trattava di Zac, l’unico candidato che aveva attratto il suo interesse insieme ad Irwin. Il ragazzo gli rivolse un pigro sorriso prima di avvicinare il viso al suo orecchio. “Bella mossa, mio signore,” mormorò in un soffio.
Johel trattenne il respiro al suono suadente di quella voce; il fiato di Zac era tiepido, le labbra morbide e appena umide quando si appoggiarono sul suo padiglione, mentre il suo odore sapeva di muschio e di pioggia. Il cuore di Johel prese a martellare a un ritmo più incalzante sotto a quegli stimoli sensoriali. Avvertì la lama del pugnale di Zac scorrere lungo la sua coscia e quel movimento gli provocò dei brividi freddi per tutto il corpo.
Come quell’approccio era iniziato, allo stesso modo finì: d’improvviso Zac arrestò le sue azioni, proprio un momento prima che l’estremità della sua arma raggiungesse il cavallo dei pantaloni di Johel, e si scostò facendo un passo indietro.
Johel lo osservò con sguardo perso, le sue iridi blu notevolmente incupite per il desiderio. Zac gli restituì un sorrisetto, gli occhi di una vivida tonalità arancione risplendenti di ironia, segno che era conscio del subbuglio che aveva provocato. Si portò una ciocca di capelli rossi dietro all’orecchio appuntito, prima di girarsi e rimettersi a sedere come se niente fosse successo.
Yane rimase in religioso silenzio durante quello scambio di sguardi, ma non poté evitare di rivolgere un’espressione sdegnosa nei confronti del giovane proveniente da Arstgard. Per quanto si sforzasse di essere tollerante, sapeva che i suoi atteggiamenti erano diametralmente opposti a quelli del popolo del secondo pianeta, dove l’istinto e le pulsioni erano tenute in maggiore considerazione rispetto alla razionalità. In cuor suo poteva ammettere che Zac godesse di un bell’aspetto. Solo un cieco sarebbe stato insensibile a quel corpo muscoloso, a quei capelli scarmigliati che parevano fatti di fuoco e a quegli occhi dal taglio allungato, quasi ferini. Oh, non era tanto stupida da non capire il motivo dell’interesse del fratello; dopotutto era conscia che Johel era attratto da tutto ciò che poteva significare avventura e mistero. Si augurava solo che fosse abbastanza coscienzioso nel suo giudizio da scegliere qualcuno non solo per mera attrazione fisica.
Johel si schiarì la voce nel tentativo di riprendere padronanza di sé. Riflettendoci, perché doveva perdere tempo nel cercare altri candidati, quando Zac e Irwin gli avevano fatto una tale buona impressione?
Non mi importa di ciò che dice Yane, pensò assorto. La scelta in fondo è mia.
Con una nuova risoluzione, decise che gli altri candidati non lo interessavano. Stava per farli sparire, quando la sua attenzione si focalizzò su uno dei ragazzi presenti nel centro del salone. A differenza degli altri, che se ne stavano fermi in attesa di un suo eventuale cenno per poter conferire con lui, quel giovane si guardava attorno con evidente stupore. Johel aggrottò la fronte alla vista di un comportamento tanto strano. Sembrava quasi che il ragazzo non sapesse dove si trovava o perché fosse lì. Incuriosito, Johel schioccò le dita facendo sparire tutti gli altri candidati. Nella stanza rimasero solo lui, Yane e quello strano ragazzo; fu allora che capì cosa c’era di tanto particolare in quel tipo: sopra la sua testa brillava una piccola sfera verde.
“Oh, cielo!” esclamò sua sorella portandosi le mani alla bocca. “Un abitante di Gea.”
Johel si girò a fissarla e nelle sue iridi viola vi lesse il suo stesso, sconcertante stupore. Erano secoli che non appariva un candidato per Gea. Nonostante su quel pianeta continuassero a nascere dei Figli dell’Arcobaleno, spesso questi avevano un livello magico talmente basso che non riuscivano nemmeno a rispondere alla chiamata astrale al momento della Scelta. Non era un caso che Gea, chiamata volgarmente Terra dai suoi abitanti, fosse considerato il Pianeta Perduto, in quanto, nel corso dei secoli, la magia che lo aveva reso uno dei Sette aveva abbandonato progressivamente la sua naturale collocazione.
Johel ritornò a guardare il ragazzo: dimostrava all’incirca venti anni, aveva sottili capelli castani, un po’ crespi e lunghi fin sotto alle orecchie, e degli splendidi occhi verdi. Si alzò dalla sedia e gli si avvicinò per poterlo guardare meglio, sorridendo interiormente nel notare che, nonostante il viso che mostrava una palese confusione, il giovane non era retrocesso.
Bene, gli piacevano i ragazzi determinati.
Quando gli fu di fronte, constatò che era più alto di quel che aveva presupposto; era probabile che quel suo fisico asciutto lo avesse tratto in inganno. Tenendo conto della sua statura elevata, decretò che l’altro fosse più basso solo di cinque centimetri.
“Come ti chiami?”
Vide le labbra del ragazzo aprirsi, poi chiudersi di scatto e infine riaprirsi. “Dove sono?”
Johel alzò un sopracciglio con fare superiore. “Quando qualcuno ti rivolge una domanda, sarebbe buona educazione rispondere, invece che porre un altro quesito.”
L’interpellato lo fulminò con un’occhiataccia, stringendo al contempo tanto forte le labbra tra loro da far apparire delle piccole rughe d’espressione agli angoli della bocca. Johel sogghignò. Oh, quel ragazzino iniziava a piacergli.
Si fissarono vicendevolmente, entrambi concentrati nello studiarsi, nessuno dei due intenzionato a parlare per primo, quasi avessero intrapreso una sorta di sfida.
Alla fine, con uno sbuffo scocciato, il giovane di Gea si decise a rompere quel silenzio che lo stava solo facendo innervosire. “Mi chiamo Christian.”
Johel esibì un sorrisino vittorioso. Allungò una mano e richiuse il mento dell’altro tra le proprie dita; con il pollice ne accarezzò il labbro inferiore, percependolo morbido e carnoso. Christian rilasciò un singulto a quel tocco. Era evidente che non si aspettava nulla di simile. Johel vide le sue guance abbronzate colorarsi di un soffuso rossore e le sue iridi verdi risplendere come smeraldi. Oh, quel ragazzino era delizioso. Il suo cuore ebbe un fremito, così come il suo pene, che si contrasse nei pantaloni.
Christian si riprese in fretta; con un cipiglio battagliero schiaffeggiò la mano che lo stava trattenendo e fece un passo indietro. “Come diavolo ti permetti!” eruppe indignato.
“Non dirmi che non ti piaccio,” lo canzonò Johel. Alle sue parole, notò il rossore del ragazzo farsi più marcato e, a tale visione, la sua magia vibrò in risposta, spandendogli dei brividi lungo la spina dorsale. Si girò di scatto verso la sorella, che per tutto il tempo se ne era rimasta zitta e immobile.
“Yane,” mormorò in un soffio, quasi incredulo per ciò che stava per dire. “È lui.”
La sorella sbatté le palpebre in stato di shock. “Ne sei sicuro?”
Johel semplicemente annuì e Yane si accorse che le mani del fratello stavano tremando, forse impreparato alle scariche di magia che lo stavano avvolgendo. Sospirò; da un lato era felice che Johel avesse reagito nella maniera corretta – dato il livello del suo potere, non era sicura che ciò sarebbe avvenuto – dall’altro era preoccupata. Si alzò per potersi avvicinare a sua volta al giovane proveniente da Gea.
Christian, la cui attenzione era stata tutta rivolta nei confronti del ragazzo, spalancò le palpebre quando notò la fanciulla. Vedendo i due vicini, li catalogò subito come parenti: entrambi erano alti, con carnagioni pallide e capelli nerissimi. Erano quasi troppo belli per essere veri e questo lo portò in fretta alla supposizione che stesse sognando. Tale congettura si rafforzò in lui, appena si rese conto che le iridi della ragazza erano viola.
“Porti delle lenti a contatto colorate?” domandò ad alta voce. Non era riuscito proprio a trattenersi. E si sentì un perfetto idiota nel momento in cui fu bersagliato da due identici sguardi allucinati.
“Lenti-che?” chiese Yane, la fronte aggrottata.
“I tuoi occhi...” disse Christian con espressione stranita. “Sono viola.”
Il fine sopracciglio di Yane si arcuò alla stessa maniera del fratello. “Ma va? In ventotto anni della mia vita sono sempre stati così.”
“Ma non è normale,” balbettò Christian.
Il cipiglio scettico di Yane sparì, sostituito presto da un sorriso condiscendente. “Forse non lo è sul tuo pianeta, ma ti assicuro che qui su Arcobaleno il colore dei miei occhi è tra i più comuni.”
Qui su Arcobaleno, rifletté tra sé Christian. Arcobaleno? Ma che razza di sogno stava facendo? Mai più peperoni a cena, si ingiunse mentalmente. A quanto pare mi sono indigesti.
Johel si rivolse alla sorella, il viso trepidante per l’imminente viaggio. “Parto subito alla volta di Palazzo Verde. Avvisi tu nostro padre?”
“Cosa? Vuoi andare da solo? Non se ne parla!” esclamò Yane, cercando di farlo ragionare.
Il ragazzo sorrise. “Vado con Sarabi. Con lei non correrò alcun pericolo.”
Yane mostrò un’espressione preoccupata. “Johel, tu lo sai che il terrestre potrebbe non ricordarsi nulla di quanto successo qui? È già singolare il fatto che sia riuscito a rispondere alla Chiamata.”
Johel fece una smorfia amara. Era conscio di quella possibilità, ma non era sua abitudine rinunciare prima ancora di aver tentato l’impresa. “Riuscirà a rammentare tutto, ne sono sicuro,” rispose con decisione.
“Ah, c’è un altro particolare,” gli fece presente la sorella, le guance che le si imporporavano per ciò che stava per dire.
“Quale?” domandò Johel, la sua mente già occupata nei preparativi imminenti.
“Ehi, non parlate tra voi come se io non esistessi!” sbottò a quel punto Christian, piuttosto indispettito che quei due lo ignorassero in maniera tanto palese. Con suo grande disappunto, non si voltarono nemmeno a guardarlo. Imbronciato, incrociò le braccia al petto e si chiuse in un silenzio ostinato.
Pochi attimi dopo si dimenticò della rabbia, poiché tutta la sua attenzione si focalizzò su un enorme poster affisso sulla parete che aveva di fronte. In un primo momento Christian aveva creduto che fosse una riproduzione del Sistema Solare, ma gli ci era voluto ben poco per rendersi conto che né i nomi citati né le dimensioni dei pianeti gli erano familiari.
Incuriosito, si avvicinò per vedere meglio. Al centro della cartina, dove, secondo le sue conoscenze astronomiche, vi sarebbe dovuto essere il Sole, vi era raffigurato un piccolissimo pianeta multicolore.
“Arcobaleno,” mormorò il ragazzo, leggendo la dicitura impressa con caratteri arabescati.
I suoi occhi slittarono sul nome del primo pianeta, di un vivido rosso, che ruotava attorno ad Arcobaleno.
“Rostgard,” enunciò a bassa voce. Trovò quelle assonanze strane e difficili da pronunciare. Poi, con la mente elencò gli altri pianeti in successione: Arstgard, Sun, Gea, Blue Moon.
Stava per leggere il nome degli ultimi due pianeti, quando venne distratto nell’udire il suo nome. Si voltò verso i due ragazzi, i quali stavano parlando ad alta voce, incuranti di essere ascoltati. 
Cercò allora di capire quello che si stavano dicendo.
“Beh, immagino che tu ti ricordi degli usi e dei costumi di Gea,” disse Yane, titubante. Al cenno di assenso di Johel, si impose di continuare. “Nonostante siano progrediti dal punto di vista tecnologico, gli abitanti sono ancora molto indietro su alcune questioni.”
“Yane, per favore, non girarci attorno e arriva al dunque!”
La ragazza strizzò tra le mani la stoffa della sua veste, poi sbottò: “Il terrestre potrebbe non gradire le tue avances!”
Johel spalancò la bocca, scioccato per quell’assurda evenienza. “E perché mai, di grazia?”
Yane roteò gli occhi; come aveva presupposto suo fratello aveva studiato le cose in maniera spicciola e discontinua. “Gran parte della popolazione di Gea è convinta che l’accoppiamento giusto e naturale sia tra un uomo e una donna.”
“Questo è ridicolo!” obiettò Johel. “Cosa cavolo importa il sesso, se due persone si piacciono?”
Vedendo lo sbigottimento dell’altro, Yane si preoccupò ancora di più. Oh, sapeva che quello sarebbe stato un grosso ostacolo; né su Arcobaleno e né sugli altri pianeti vigeva un pensiero tanto assurdo e bigotto. L’amore era amore, in ogni sua forma.
“Beh,” fece vaga, lanciando uno sguardo distratto a Christian, “suppongo che possiamo scoprire subito qualcosa a riguardo.”
Ponendo tutta la sua attenzione sul ragazzo, il suo viso si sciolse in un dolce sorriso. “Posso farti una domanda, Christian?”
Il terrestre grugnì in assenso; aveva ascoltato i discorsi tra i due, ma ne aveva compreso solo la metà. Quello era in assoluto il sogno più strano che avesse mia fatto in tutta la sua vita.
“Se potessi scegliere, usciresti con me o con mio fratello?”
Alla domanda di Yane, Johel si impose di osservare attentamente le reazioni del giovane; lo vide spalancare le palpebre in maniera assai comica, poi guardare sua sorella come se fosse pazza e infine – Oh, miracolo! – notò le sue iridi verdi incontrare il suo volto concentrato. Appena i loro sguardi si incrociarono, Christian arrossì di colpo.
Yane, avendo a sua volta registrato quella reazione, ridacchiò, assai sollevata. “Johel, sei fortunato. Mi pare che tu non abbia niente di cui preoccuparti.”
Il fratello fece un sorriso enorme, senza distogliere il contatto visivo dal terrestre.
Christian male interpretò quei sorrisi. A scuola era stato talmente canzonato per il suo orientamento sessuale che tendeva a reagire in maniera brusca a ogni più piccolo segno derisorio. Stringendo le mani a pugno, ribatté con astio: “Sì, sono gay, qualche problema?”
Non avrebbe mai permesso a nessuno di mettergli i piedi in testa e poco gli importava che si trattasse solo di un sogno. Dopo gli anni tormentati dell’adolescenza, durante i quali si era sentito inadeguato e sbagliato, si era ripromesso di non vergognarsi mai più di se stesso. Con sua grande sorpresa, il giovane dai capelli neri ampliò il suo sorriso, mettendo in mostra una dentatura bianca e regolare. Il cuore di Christian saltò un battito, appena scorse due piccole fossette comparire sulle guance dell’altro.
Dio, quel tizio era bello da far male.
Johel scosse la testa. “Nessun problema, te lo garantisco,” mormorò con voce carezzevole. Guardò Christian diritto negli occhi; voleva che la sua attenzione fosse tutta per lui. “Il mio nome è Johel. Non ti dimenticare di me, Christian. Verrò a cercarti e a conoscerti, ma non ti dimenticare di me. Solo se riuscirai a ricordare, potremo stare insieme.”
Pronunciò quelle frasi in maniera volutamente lenta e cadenzata, al fine che penetrassero nella mente del terrestre.
Christian si immobilizzò e una strana ansia lo invase. Quelle parole sembravano quasi profetiche.
“Se ti ricorderai di me,” continuò Johel, alzando al contempo la mano destra, “segui il tuo istinto per trovarmi.” Poi, detto ciò, schioccò con decisione le dita.
Christian scomparve, la sfera verde come unica testimone della sua passata presenza.
Johel trasse un profondo sospiro e Yane richiamò la sua attenzione toccandogli il gomito con gentilezza. Allo sguardo confuso del fratello, lei gli sorrise con calore, poi si azzardò a scompigliargli i folti capelli com’era solita fare quando erano piccoli. “Buona fortuna, fratellino.”
Il ragazzo ammiccò in risposta e si erse in tutta la sua statura. Ora non gli restava altro da fare che preparare la sacca da viaggio, prendere arco e frecce e trovare il suo drago. Con tali pensieri in testa, si precipitò fuori dalla biblioteca. Ad avvisare i genitori ci avrebbe pensato Yane.

Era talmente emozionato che perse il minimo tempo indispensabile per infilare alcuni cambi e qualcosa da mangiare nel borsone, poi si affrettò in direzione delle scuderie, dove avrebbe trovato l’arco e la sella di Sarabi.
Si permise di riprendere fiato solo quando raggiunse i giardini che si trovavano sull’ala ovest del palazzo, i quali confinavano con la foresta di Nimm, luogo ideale per la caccia perché ricca di selvaggina. Immaginando che il suo drago stesse sorvolando quelle zone, decise di richiamarlo tramite il fischietto ad ultrasuoni che teneva sempre al collo.
Se lo portò alle labbra e vi soffiò dentro.
Una volta. Due volte. Alla terza, Johel sentì un ruggito in risposta e allora alzò la testa in tempo per notare Sarabi avvicinarsi a gran velocità. Da quella distanza sembrava una chiazza di colore scintillante e il cuore del ragazzo si gonfiò d’orgoglio a quella vista. Pochi attimi dopo il drago atterrò in un turbinio di ali sbattute, frustrando al contempo l’aria con la lunga coda.
“Ciao, bella,” la salutò con calore, mentre le si accostava con la sella infilata sotto al braccio. Sarabi lo fissò con i suoi grandi occhi gialli e poi si protese con il muso verso la mano del ragazzo, che si affrettò a far scorrere le dita sulle scaglie dell’animale, risplendenti come pietre preziose. Il suo manto presentava un color carminio su tutta la parte superiore del corpo, mentre quella inferiore era ricoperta da scaglie dorate. Johel sorrise quando il drago rilasciò un basso mormorio dal fondo della gola, evidentemente apprezzando quelle lievi carezze.

Johel aveva ben vivido il ricordo del giorno in cui, per il suo sedicesimo compleanno, suo padre gli aveva concesso la possibilità di avere il suo drago personale. Alla notizia aveva urlato di gioia e poi corso a perdifiato fino alle zone adibite alla cova. Sapeva già quale razza desiderava: non un dragone d’acqua, come quello di suo fratello Luca, né un drago delle montagne come quello del padre, ma un drago rosso. Erano draghi intelligenti, ottimi volatori ed estremamente leali. Sarabi era l’unica femmina della nidiata e Johel aveva notato che lei, a differenza degli altri cuccioli intenti a giocare tra loro sotto lo sguardo vigile della madre, stava già cercando di lasciare la protezione del nido provando a volare, nonostante fosse più che logico che le membrane alari fossero ancora troppo fragili per sostenerne il peso. Appena la scorse, così intraprendente e ostinata, fu amore a prima vista.

“Adesso stai buona un attimo,” sussurrò il ragazzo mentre appoggiava la sella sulla base del collo dell’animale, dove vi era un incavo naturale prima che iniziasse il dorso; era anche l’unica zona priva delle creste appuntite, le quali si diramavano lungo tutta la spina dorsale. Come se avesse compreso le parole del giovane, il drago se ne stette immobile durante tutto il processo di bardatura, permettendo così a Johel di concludere l’operazione in breve tempo.
Finito quel compito, il ragazzo frugò nella tasca esterna della sacca finché riuscì a estrarre la Map, una liscia pietra azzurra perfettamente tonda. 
Tenendo l’oggetto sul palmo della mano, scandì a chiare lettere il luogo di partenza del suo viaggio: “Palazzo Indaco.”
La Map rilasciò un soffuso bagliore prima di attivarsi e ricreare a mezz’aria l’aspetto dell’edificio menzionato in un perfetto modellino tridimensionale. Johel non poté che essere orgoglioso della dimora dove abitava: la parte esterna era interamente ricoperta da lapislazzuli e solo quel particolare rendeva il palazzo una meraviglia da guardare. Con la coda dell’occhio si accertò che Sarabi stesse attenta a ciò che la Map mostrava. Una volta assicuratosi di ciò, si decise a dire il luogo di destinazione. “Monte Olimpo, da raggiungere tramite il volo di drago.”
Le immagini prodotte dall’oggetto magico si susseguirono le une alle altre; Johel riconobbe il bosco di Nimm, poi le catene montuose Intac e infine il fiume Beor, le cui acque si gettavano nel Lago delle Fate. E lì, sulle sponde opposte di quello stesso lago, il giovane scorse il Monte Olimpo, la sua meta, poiché all’apice di quella altura sorgeva Palazzo Verde, che era a presidio del portale che lo avrebbe teletrasportato su Gea.
Guardò il drago e sorrise. “Cucciola, dobbiamo andare lì. È un viaggio abbastanza lungo, ma ci divertiremo insieme, vero?”
Sarabi ruggì la sua approvazione, poi si accucciò premendo il ventre a terra, in modo da permettere a Johel di salirle in groppa. Il ragazzo assicurò la sacca e la faretra alla sella e poi, con un’agilità data da anni di pratica, si issò sulla sua fiera cavalcatura. 
“Vai, Sarabi!”
A quell’incitazione il drago dispiegò le immense ali, si rannicchiò per imprimere tutta la forza propulsiva nelle zampe e infine, con un ringhio liberatorio, si librò nell’aria.
Johel urlò di felicità, incurante dello stomaco che gli si serrava per la brusca ascesa. Adorava volare. “Pianeta Gea, aspettami!” gridò festante.
Poi, sia lui che il suo drago non furono altro che un puntino nero nel cielo di Arcobaleno.

***

 

Christian socchiuse le palpebre e si guardò intorno con aria assonnata. Ci mise un po’ a mettere a fuoco prima l’angolo cottura del suo piccolo appartamento e poi lo schermo del portatile, il quale rilasciava un debole chiarore. Merda! Si era addormentato sul tavolo del soggiorno. Si stropicciò gli occhi; sentiva le palpebre pesanti, le ciglia appiccicate tra loro e il sopraggiungere di un’emicrania con i fiocchi. 
Lanciò un’occhiata veloce all’orologio affisso alla parete: segnava le cinque del mattino. Perfetto! Aveva dormito per ore in una posizione scomodissima, tanto che era sicuro che i suoi stessi muscoli avrebbero gridato vendetta se fossero stati dotati di parola.
“Fanculo!” sbottò inviperito. 
Con passi malfermi si diresse verso la camera da letto, infischiandosene del computer acceso. Aveva ancora tre ore di sonno disponibili ed era fermamente intenzionato a non sprecane nemmeno un secondo. Si buttò a peso morto sul letto matrimoniale, rilasciando un mormorio soddisfatto nel momento in cui le sue membra vennero a contatto con le lenzuola fresche. “Ah, questo è il paradiso.”
Stava per addormentarsi, quando il suo subconscio gli mostrò sprazzi del sogno appena fatto.
Sbatté le palpebre cercando di concentrarsi e di ricordare, poiché in cuor suo sapeva che si trattava di qualcosa di importante. Flash vaghi di iridi blu, pelle pallida e capelli neri gli si affacciarono alla mente, ma in modo troppo vago e confuso perché riuscisse ad afferrarli.
Troppo stanco per porre attenzione, si lasciò scivolare nell’oblio del sonno. Pochi istanti dopo era profondamente addormentato.

 
Continua...

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Capitolo 2
*** Rosso ***


capitolo2
Capitolo 2

Rosso




Il cuore di Johel pulsava a un ritmo folle. L’adrenalina era in circolo, tanto che il ragazzo si sentiva quasi svenire. Finalmente, dopo giorni di viaggio, era giunto a destinazione. Davanti a lui, immenso e meraviglioso, si stagliava il Portale che lo avrebbe condotto su Gea. Era un perfetto arco a sesto acuto, creato con un’unica lastra di pietra di luna; si trovava sospeso a mezz’aria, con dietro una cascata che si gettava nel Lago delle Fate.
Johel fece un passo in avanti, portandosi così sul limitare del dirupo. Spinto dalla curiosità, s’azzardò a guardare in basso. Nonostante non soffrisse di vertigini, per poco non fu colto da un mancamento alla constatazione di quanta elevata fosse la cima di Monte Olimpo. Deglutì, sentendo nelle orecchie il rimbombo ritmico del suo cuore, unito allo scroscio incessante della cascata. Anche a quella distanza poteva avvertire l’energia magica che avvolgeva il Portale: era come un enorme campo di forza che lo attraeva ma, allo stesso tempo, lo respingeva. Osservò con una certa apprensione la via che avrebbe dovuto percorrere per raggiungerlo: era data da un susseguirsi di rocce piatte sospese nel vuoto, le quali andavano a formare una specie scalinata in pietra.
Il giovane si voltò, dando le spalle a quello scenario, per poter vedere un’ultima volta il suo drago, che se ne stava immobile e rannicchiato. Sembrava che Sarabi percepisse la magia insita nel luogo e se ne volesse tenere a debita distanza. La sua coda si muoveva con scatti rapidi e ciò era l’unica testimonianza del suo nervosismo.  
Drago e ragazzo si fissarono. Johel cercò di sorridere, ma la tensione del momento gli fece piegare le labbra in una smorfia. “Ci vediamo tra una settimana. Fai la brava.” Gli piangeva il cuore, ma non poteva portarla con sé. Rifletté sul fatto che la sorte fosse piuttosto ironica dal momento che doveva recarsi sull’unico pianeta in cui i draghi si erano estinti.  
Sarabi emise un rombo cupo dal fondo della gola, parecchio contrariata. Poco prima Johel le aveva tolto la sella, perciò sapeva che quel gesto voleva dire che era libera di andare dove preferisse, perlomeno finché il giovane non l’avesse richiamata.  
Il ragazzo si costrinse a distogliere lo sguardo.
Diamine, si trattava solo di una settimana! Non era la fine del mondo!
Le sue iridi si posarono sui Sovrani di Palazzo Verde, che lo avevano accompagnato fino al Portale, come richiedeva l’etichetta di Arcobaleno. Poiché da secoli non vi erano terrestri dotati di potere magico che potessero restare a presidio di quel Portale, tale controllo era stato assegnato al dio Pan e alla sua compagna Eco.    
Eco era dotata di una bellezza eterea tipica delle ninfe: aveva un corpo con curve morbide, appena celato dal peplo celeste, e una pelle che pareva seta bianca.
Osservandoli l’uno accanto all’altro, Johel constatò che Pan era l’esatto opposto della sua leggiadra sposa: il suo fisico muscoloso sembrava scolpito nella pietra, mentre i capelli e la barba castana facevano da cornice a un viso fiero e volitivo. Come tutti i satiri, possedeva due robuste zampe caprine e un paio di corna ricurve.
“È tempo che tu vada,” disse Pan con tono fermo. Poteva immaginare che il ragazzo fosse attanagliato dall’ansia, ma tergiversare non lo avrebbe di certo aiutato.
Johel vide Eco annuire; un attimo dopo la ninfa sorrise e, sollevando il braccio, gli indicò il Portale alle sue spalle. “Non esitare,” mormorò con voce melodiosa.
La brezza del meriggio le scompigliò la lunga chioma corvina, diffondendo nell’aria l’odore intenso dei fiori che componevano la sua corona.     
Johel fece un profondo sospiro prima di girarsi. Raccogliendo tutto il coraggio che possedeva, balzò sul primo masso sospeso nel vuoto. La magia del Portale lo avviluppò. All’improvviso gli parve di fare tutto con enorme difficoltà: stare in piedi senza vacillare, tenere lo sguardo fisso sulla sua meta; perfino respirare. Non si diede per vinto e, con la sua tipica risolutezza d’animo, continuò ad avanzare. Per ogni passo compiuto gli sembrava che fare quello successivo risultasse più semplice, tanto che, superato metà percorso, riuscì a progredire con maggiore velocità. Poi, finalmente, fu dinnanzi al Portale. Da quella distanza ridotta gli apparve ancora più magnificente. Col cuore in gola, il rumore assordante della cascata a coprire ogni altro suono, si decise ad attraversarlo.
Agli occhi di Eco e Pan, che erano rimasti a guardare la sua lenta avanzata, Johel, semplicemente, sparì.  





 Pianeta Gea, lunedì 27 agosto 2012


Federica, dopo aver dato l’ultima pennellata, osservò con aria critica il proprio lavoro. Sorrise, le iridi scure risplendenti di felicità. Le erano occorse settimane per fare quel dipinto, ma ora, contemplandolo, si rese conto che ne era valso ogni sforzo. Scese dalla scaletta, appoggiò con attenzione il pennello sporco sulla tavolozza e si tolse il grembiule che aveva indossato fino a quel momento per evitare di sporcarsi i vestiti.  
Lanciò un’occhiata distratta al ragazzo disteso su una delle panche del locale.
Dorme ancora?, si chiese, meravigliandosi di quel comportamento. Ultimamente l’amico le era parso sempre stanco e svogliato, come se fosse tormentato da qualcosa. In cuor suo sperò che, di qualsiasi problema si trattasse, gliene parlasse al più presto. Come poteva aiutarlo, se quello stupido ottuso non si confidava? Ogni volta era una lotta per cercare di cavargli le parole di bocca.
Vide il giovane muoversi nel sonno, le palpebre chiuse che vibravano appena.
Chissà cosa sogna, pensò Federica; poi corrucciò il viso, un po’ dispiaciuta di non aver avuto compagnia mentre lavorava al dipinto. Mi auguro almeno che tu stia facendo un bel sogno, Christian.

Il suo cellulare si mise a squillare e si affrettò a rispondere prima che il rumore potesse infastidire l’amico. “Nonno,” sussurrò al ricevitore, mentre si allontanava il più possibile per poter conversare a un tono più elevato. Ascoltò ciò che il suo interlocutore aveva da dirle, annuendo a tratti, sebbene la persona che le stava parlando non la potesse vedere.
“Nonno, sei sicuro di voler uscire con questo caldo? Non voglio che ti affatichi! Io e Christian ce la sappiamo cavare anche da soli.”
La ragazza cercò di persuadere l’amato anziano, ma come aveva già presupposto con scarsi risultati, visto la risposta prevedibile che le diede. Alzò gli occhi al cielo, rassegnata a dovergliela dare vinta. “Va bene, nonno. Ti aspettiamo per le tre, allora,” disse condiscendente. Dopo i saluti di rito, pose fine alla chiamata.
Un ricciolo scuro sfuggì dalla costrizione della fascia che teneva in testa, andando a solleticarle il naso. Con un gesto distratto, Federica lo risistemò sotto la stoffa, stando attenta che questa riuscisse a coprirle le orecchie. Aveva una vera e propria fissazione per esse, dal momento che erano a sventola; era la parte del suo corpo che meno prediligeva. Non che sporgessero in maniera eccessiva, ma a sufficienza da darle fastidio; per tale motivo, ogni stratagemma era buono per nasconderle.
Cercando di fare il minor rumore possibile, iniziò a mettere a posto il materiale che aveva usato per dipingere. Da un lato era un po’ indispettita che Christian non la aiutasse nemmeno in quel semplice compito, dall’altro era cosciente che, se il ragazzo si era addormentato in maniera tanto repentina, aveva accumulato sonno arretrato e lei non se la sentiva di svegliarlo.
Sbuffò: a volte odiava il suo spirito da Croce Rossina.
Scacciando quei pensieri, si rimise al lavoro, sapendo che l’amico si sarebbe risvegliato per l’ora di pranzo.



***

 
Le dune del deserto sembravano un mare rossastro durante il tramonto.
La ragazza avanzò con passi lenti e silenziosi, lasciando dietro di sé delle orme che venivano presto nascoste: bastava un alito di vento e la sabbia mutava, si trasformava, in un continuo gioco dinamico.
La giovane non ci fece caso; la sua attenzione era focalizzata sull’oasi rigogliosa davanti ai suoi occhi. Sapeva di essere nel posto giusto al momento giusto. Non avrebbe fallito.
Impalpabile come un’ombra, si acquattò alla base di una palma e attese. Se ne stette lì, la spada giacente vicino ai piedi nudi, i lunghi capelli neri tenuti a bada da un pezzo di stoffa e le iridi sanguigne a scrutare la zona circostante.
Finalmente, dopo minuti che le parvero ore, un bagliore improvviso la mise in allerta. Fu allora che la scorse: il becco ricurvo, le piume del color dell’oro e la lunga coda infuocata. Per la prima volta nella sua giovane vita Ailin vide la leggendaria fenice, il meraviglioso uccello amato e venerato dal suo popolo.
A tale splendida visione rimase senza parole; poi, con la risoluzione tipica della sua Gente, decise di agire. Sapeva che era rischioso, ma era fermamente intenzionata a tornare a casa con una di quelle piume come ambito trofeo.
La mano brunita strinse l’elsa della spada: era pronta ad attaccare. Si sentiva sicura e invincibile ma, dopotutto, era pur sempre una Figlia dell’Arcobaleno.



Christian si destò di soprassalto, gocce di sudore gelido a imperlargli la fronte. Si massaggiò le tempie nella speranza di scacciare l’emicrania martellante.
“Ben svegliato, principino,” lo sbeffeggiò una voce nota. “Sono felice di constatare che la mia compagnia sia tenuta in così alta considerazione.”
Il giovane si guardò attorno, riconoscendo subito le panche e i tavoli di legno intarsiato del locale in cui lavorava. Cavolo, si era addormentato nella libreria! Poteva andare peggio di così?
Con un gemito si mise a sedere e solo allora notò che Federica, la sua migliore amica nonché collega, lo stava osservando con cipiglio severo. Nonostante un’altezza che non superava il metro e sessanta, la ragazza aveva un atteggiamento combattivo che la rendeva piuttosto intimidatoria. Era inquietante anche in quel momento, con le mani sui fianchi, il fisico minuto avvolto in una corta salopette di jeans e i riccissimi capelli bloccati da una fascia variopinta.
Christian scosse la testa, come se quel gesto potesse fargli schiarire i pensieri. “Scusami, Chicca,” disse mesto, “nemmeno mi ero accorto di essermi addormentato.”
L’amica alzò gli occhi al cielo, poi guardò l’altro con maggiore attenzione. “Chris, sono giorni che sei strano. Sei sicuro di non avere bisogno del medico?”
“Non sono malato!” protestò subito il ragazzo. Rimase un attimo in silenzio, ragionando se fosse il caso di mettere al corrente Federica su ciò che gli stava succedendo. Non che temesse di venire deriso, dal momento che la giovane era sempre attenta a non urtare i sentimenti altrui, ma egli stesso riteneva l’intera faccenda assai strana. Alla fine decise di essere sincero. “Da un po’ di tempo faccio dei sogni strani. Quando mi sveglio non me li ricordo, ma poi, all’improvviso, ho come dei flash e mi vengono in mente dei particolari.”
“Del tipo?” chiese Federica, inclinando la testa con fare assorto.
“Beh, sogno personaggi fantastici come elfi, draghi e fenici. E la cosa assurda è che sono sogni talmente vividi da sembrare reali.”
Christian si alzò e raggiunse l’amica, ignorando i dolori alla schiena per aver riposato sulla panca che, nonostante l’imbottitura dei cuscini bordeaux, rimaneva comunque una superficie dura. “Pensare che io odio il genere fantasy. Mi piace l’avventura ma, vi prego, basta con i soliti cliché di draghi ed elfi.”
“Christian, stai parlando a vanvera, lo sai?”
L’altro emise una risatina. “Come al mio solito, no?” disse, tentando di dare alla vicenda meno importanza possibile.
Federica scosse la testa e allargò le braccia, come se con quel gesto volesse dire: ‘Ci rinuncio!’
Quel lunedì pomeriggio avrebbero riaperto la libreria, dopo quasi due mesi di chiusura per dei lavori di ampliamento. I genitori di Federica, che ne erano i proprietari, avevano acquistato il negozio accanto, indi per cui era stato necessario abbattere un muro in modo da creare uno spazio unico. Ciò aveva portato a una distribuzione dell’area in due zone distinte: una adibita a bar, con comode poltroncine e tavolini tondi, e una prettamente per i bambini, dove vi erano panche e tavoli più lunghi in modo che i piccoli potessero stare insieme. Naturalmente ogni parete disponibile era occupata da scaffalature ricolme di libri.  
Christian adorava lavorare lì. Secondo il suo modesto parere, il Rainboow Book Bar era una delle librerie più belle della città. Ogni cliente che entrava veniva immerso in un ambiente caldo e confortevole, soprattutto grazie a un arredo in legno scuro e tappezzerie dalle sfumature del sole. Ciò che rendeva il locale ancora più caratteristico era la presenza di piccoli lampadari composti con prismi in cristallo, i quali rifrangevano la luce, creando così numerosi arcobaleni perfettamente visibili sui mobili in mogano.  

“Che ne dici?” chiese la ragazza, indicando con un cenno della mano l’unica parete del locale libera da scaffalature, ornata invece da un enorme dipinto.  
Christian osservò il lavoro appena concluso e lanciò un fischio d’apprezzamento. Il disegno era tanto bello e dettagliato che gli pareva di trovarsi per davvero dentro a quel bosco incantato, insieme ai variegati personaggi fantastici impressi. Notò che Federica, per richiamare il nome della libreria, aveva raffigurato un magnifico arcobaleno sullo sfondo.
“Chicca, ti sei superata!” esclamò con ammirazione. “Ma credevo che per le ali delle fate ti saresti ispirata alle farfalle,” aggiunse dubbioso, lo sguardo fisso su quel dettaglio appena menzionato.
Federica scrollò le spalle. “I loro abiti sono già abbastanza colorati. Troppe cromie avrebbe reso il disegno d’insieme stucchevole. Preferisco le ali in questo modo: trasparenti e con i bordi frastagliati.”
Il ragazzo la guardò con un’espressione ebete.
Federica alzò un sopracciglio. “Perché quella faccia?”
“Potresti parlare come mangi, per favore?”
A tali parole, l’amica scoppiò a ridere. “Scusa, ma la colpa è dei miei genitori. Secondo il loro giudizio, il fatto che io abbia scelto l’Accademia di Belle Arti invece che quella di Lettere non è una scusante per limitare il mio vocabolario.”
Christian ridacchiò: quello era proprio un pensiero tipico dei coniugi Rossi. In cuor suo invidiava Federica per avere una famiglia tanto unita, così in antitesi con la sua. Scacciò subito quel pensiero molesto: ai suoi genitori non voleva proprio pensarci. Per fortuna, la voce di Federica lo aiutò a distrarsi. “L’acrilico dovrebbe asciugarsi completamente nel giro di un’ora.”
“Ottimo! Nel frattempo che ne dici di pranzare?”
Federica si diresse verso il bancone del bar, dove aveva posto le pietanze preparate in precedenza. L’aroma di riso al curry con verdure riempì l’aria e lo stomaco di Christian brontolò per la fame. “Oh, Chicca, amo quando cucini etnico!”
“Tu ami qualsiasi cosa,” fece lei con un sorriso materno. Non poté evitare di bearsi dell’espressione estatica del ragazzo alla vista del cibo: a volte si comportava proprio come un bambino. Pensare che avevano due anni di differenza; ciononostante, se messi a confronto, sembrava lei quella più grande. Forse perché l’amico, sebbene presentasse un’altezza elevata, possedeva un faccino molto giovanile. Pareva ancora un diciannovenne, invece che un ventitreenne.
I due iniziarono a mangiare, crogiolandosi nella quiete che li circondava, ben consci che non sarebbe durata a lungo.


***


Johel sbatté le palpebre e si guardò attorno un po’ frastornato. Si trovava in un vicolo senza uscita, occupato solo da una serie di bidoni dell’immondizia. Avvertendo l’odore poco gradevole che aleggiava in quel luogo, reso ancora più intenso dalla calura estiva, si affrettò ad allontanarsi, il viso distorto da una smorfia schifata.
Io capisco che sia necessario materializzare i Visitatori in una zona sicura, pensò, ma qui si esagera.
Poco dopo sbucò su una strada molto più ampia e decisamente frequentata. La prima cosa che notò fu il rumore assordante delle automobili, seguito dall’aria, che gli parve quasi soffocante. Alzò gli occhi per fissare il cielo: era grigio, sebbene privo di nubi; un’uniforme patina color cenere.
Johel non era mai stato uno studente modello, ma amava talmente tanto la natura che era rimasto molto colpito quando il suo precettore gli aveva spiegato quali condizioni ecologiche imperversassero su Gea. A quella lezione era stato particolarmente attento, di conseguenza sapeva che quel cielo, che a lui appariva anomalo, era causato dall’inquinamento dilagante.   
Ma io adoro le mie decisioni impulsive, rifletté con una certa ironia.
Oh, se fosse andato a conoscere Zac non si sarebbe trovato in un ambiente tanto alieno ai suoi costumi. Dopotutto Arstgard, insieme a Blue Moon, era il suo pianeta preferito. Per un attimo si perse nel rimembrare la vegetazione lussureggiante del Secondo Pianeta; poi, però, quando il suono acuto di un clacson lo fece sobbalzare, decretò che non era di certo il momento per sognare ad occhi aperti. Si frugò nei pantaloni alla ricerca di qualcosa di utile: sapeva che il Portale gli aveva fornito tutto l’aiuto necessario. Ci mise un po’ in quel compito, in quanto l’abbigliamento che Pan ed Eco gli avevano fatto indossare consisteva, oltre che in una maglietta, in un paio di bermuda pieno di tasche. Alla fine trovò un portafoglio, contenente soldi e documenti, un mazzo di chiavi e una mappa. Con una certa trepidazione si affrettò ad aprire quest’ultima. Sorrise, quando sulla cartina comparve il disegno animato di un piccolo se stesso. Il Johel cartaceo lo salutò con aria irriverente, facendogli al contempo l’occhiolino; pochi attimi dopo, accanto alla sua figura, comparve un baloon. Il Johel in carne e ossa lesse velocemente la domanda postagli: voleva vedere la casa dove avrebbe alloggiato o preferiva andare da Christian?
Impaziente per natura, la risposta che diede fu quasi istantanea. Christian! Voglio incontrarlo subito.
Il Johel dipinto annuì, intendendo che aveva captato il suo pensiero e, come se una mano invisibile stesse disegnando proprio in quel momento, sulla cartina apparve la via dove si trovava il ragazzo, seguita presto dalle indicazioni stradali necessarie per raggiungere il terrestre. Il giovane memorizzò velocemente il percorso, sollevato dal fatto che non sembrava essere molto distante. Stava per richiudere la mappa, quando notò che il suo alter ego sul foglio aveva altro da dirgli.
“Va’ e fallo tuo, tigre!”
Johel lesse quelle parole in un basso mormorio, arrossendo di colpo appena si accorse che il fumetto era accompagnato da un altro disegno animato, dove vi erano lui e Christian impegnati in atti ben poco casti. Sconvolto e senza parole – Io non sono un tale maniaco! Questa cartina è difettosa! – si affrettò a metterla via.

Cercando d’ignorare il suono fastidioso del traffico, iniziò a incamminarsi di buon passo. La città gli si presentò come un insieme di palazzi enormi, caratterizzata da persone che avevano l’aria di essere di gran fretta e da un costante rumore di sottofondo. Tutto ciò che vedeva era fonte di stupore: un conto era leggere le notizie sui libri, un altro era osservare le cose con i propri occhi. In fin dei conti era la prima volta che metteva piede su Gea. Se da un lato era eccitato da quella nuova avventura, dall’altro era anche un po’ intimorito nel constatare quanto diversi fossero gli usi e i costumi della Terra rispetto al suo piccolo pianeta. E se si fosse reso ridicolo, magari proprio davanti al terrestre per cui aveva affrontato un tale viaggio? Ma Johel non era il tipo da angustiarsi troppo; infatti ben presto quei pensieri nefasti furono sostituiti da altri più ottimistici. In fondo era un ragazzo piuttosto intraprendente: se la sarebbe cavata anche in quella situazione.
La modestia proprio ti manca, eh?
Sorrise tra sé e sé: quell’ultimo pensiero aveva lo stesso tono irritato che avrebbe avuto Yane se fosse stata presente. In un contesto tanto alieno, perfino la sua saccente sorella gli mancava.
Mentre era perso nelle sue considerazioni personali, svoltò l’angolo, immettendosi in una via più stretta e meno trafficata. Se non ricordava male, doveva essere quasi arrivato a destinazione. Apprezzò subito il cambio di scenario, in quanto le strade più strette non permettevano il passaggio delle automobili, conferendo a quella zona della città un’atmosfera più tranquilla.
Fu allora che notò l’anziano: era solo e si stava tamponando la fronte sudata con un fazzoletto; sembrava piuttosto provato e quasi sul punto di svenire.
Johel si affrettò a raggiungerlo. “Signore?”
Fu trafitto da uno sguardo penetrante. Johel si accorse che la mano con cui l’uomo sorreggeva il bastone era pervasa da un lieve tremito.
“Sì?”
Il ragazzo si schiarì la voce, improvvisamente a disagio. Come suo solito aveva agito d’istinto e solo troppo tardi gli sorgeva il dubbio che avrebbe potuto risultare invadente. “Ah, mi scusi; le sembrerò inopportuno, ma mi pareva in difficoltà, quindi volevo solo accertarmi che stesse bene.”
Con suo sommo sollievo, si vide rivolgere un sorriso riconoscente.
“Giovanotto, è molto gentile a preoccuparsi, ma sto bene. Purtroppo questo caldo implacabile mette a dura prova il mio fisico.”  
Johel si rilassò, lieto di non aver fatto nulla di male. Le sue conoscenze sui costumi del Pianeta erano assai nebulose. Forse Yane non aveva tutti i torti a dargli dell’ignorante reale. Proprio in quel momento percepì una goccia di sudore scendergli lungo la fronte; non osava nemmeno immaginare la condizione del proprio aspetto. Se lui si sentiva tanto accaldato, poteva comprendere quanto fosse difficile per l’anziano. “Se ha bisogno di una mano, l’accompagno volentieri.”
Johel non riuscì a trattenersi; in tutta coscienza non poteva proseguire senza prestare aiuto.
Vide il signore scuotere la testa. “È gentile, ma non sarà necessario. Devo arrivare alla libreria che si trova in fondo a questa via.” L’uomo alzò il bastone puntandolo su un negozio poco distante. “Come potrà notare, è molto vicino.”  
Johel, una volta letta l’insegna del locale, s’illuminò in viso. “Oh, ma devo andare anch’io lì!”
L’anziano intascò il fazzoletto, poi iniziò ad avviarsi con passo leggermente claudicante. “In tal caso, giovanotto, sarò lieto della compagnia. Ah, il mio nome è Bruno.”
“Johel,” fu la pronta replica del ragazzo, il quale si affrettò a seguirlo. “E mi dia del tu, per favore.”
“Oh, benissimo! A bando le formalità, hai ragione. Che nome singolare che possiedi; sei per caso straniero? Perché hai tanto l’aria di un turista. Sono curioso; in genere conosco quasi tutti di questa zona della città e tu sei un ragazzo che si fa notare. Come direbbe la mia adorata nipotina, sei piuttosto cool.”
Bruno s’interruppe un momento per emettere una bassa risatina. “Non che io abbia afferrato pienamente il significato di questo termine, bada bene. Ah, le nuove generazioni con il loro linguaggio tanto strano. Devi sapere…”
Bruno continuò a parlare, lasciando al suo interlocutore ben poco spazio per potersi inserire nel discorso, ma a Johel non dispiaceva. Adorava ascoltare la gente e, a quanto pareva, Bruno era un ottimo oratore. Si mise a prestargli attenzione con gioia, soprattutto perché tutte quelle chiacchiere erano in grado di scacciare l’ansia che provava per l’incontro imminente con Christian.


*
     

Bruno entrò nel locale, seguito da Johel, che fece un sospiro di beatitudine: la temperatura della libreria era di parecchi gradi più bassa rispetto all’esterno. Ebbe appena il tempo di guardarsi attorno, perché tutta la sua attenzione si focalizzò su una ragazza che si avventò sull’anziano, il viso una maschera di angoscia.
“Nonno! Sei qui, meno male! Non arrivavi più e mi sono preoccupata. Lo sapevo che non avresti dovuto uscire con questo caldo. Lo sapevo! Ma perché non mi ascolti mai?”
“Tesoro, stai calma. Sto bene.”
Se Bruno pensava che le sue parole, dette in tono volutamente basso e rassicurante, sarebbero riuscite a rabbonire la nipote, si sbagliava di grosso. Federica, infatti, alzò le mani al cielo, ricominciando a inveire. “Sta bene, dice lui! E certo, perché non si ricorda della gente che si preoccupa, che sta in ansia, che pensa al peggio…”
“Chicca!”
Il tono secco ebbe il potere di farla tacere.
“Tesoro, mi dispiace di averti fatto preoccupare, ma ora sono qui, quindi calmati. Non è saggio per una signorina gridare a questo modo, soprattutto davanti a dei giovanotti.”
Detto ciò, Bruno indicò con il bastone il ragazzo che l’accompagnava. Federica seguì con lo sguardo l’oggetto e solo allora si rese conto della presenza di Johel.
Arrossì, portandosi le mani al viso. “Oh.”
Questa fu tutta la sua eloquente risposta, mentre il suo cervello era bloccato su un’unica modalità: Cazzo, cazzo, cazzo!
Cielo, aveva fatto la figura della pazza isterica. Vai così, Chicca!, cantilenò la sua mente, maligna.
Federica vide il giovane lanciarle uno sguardo divertito: si capiva che stava facendo di tutto per non scoppiare a riderle in faccia.
“Tesoro, lui è Johel,” intervenne Bruno. “Mi ha visto in difficoltà ed è stato tanto gentile da accompagnarmi qui. Che ne dici di offrirgli da bere?”
Johel porse la mano con educazione. “Piacere.”
Federica, ancora rossissima, fece altrettanto. “Piacere mio. Sono Federica.”
Sorrise: la stretta che aveva ricevuto era forte e decisa. Se c’era una cosa che le faceva subito inquadrare una persona era il primo scambio di convenevoli. Inoltre, qualcuno che si era preoccupato del suo adorato nonno era degno di riguardo. “Cosa preferisci bere, Johel?”  
“Dell’acqua fresca andrà benissimo, grazie.”
La ragazza scoppiò a ridere. “Un uomo di poche pretese, che rarità. Vieni con me, uomo di poche pretese.”
Johel non se la prese per quella bonaria presa in giro. Il modo di fare di Federica era così aperto e amichevole che si trovò subito a suo agio. Mentre la seguiva, la valutò con maggiore attenzione: non l’avrebbe mai potuta definire bella, ma aveva un sorriso solare e degli occhi scuri che brillavano di sincerità. Di sicuro il suo carattere spumeggiante colpiva più del suo aspetto. Johel capì di trovarsi al cospetto di una di quelle rare persone di cui risulta immediato fidarsi.
La sua tranquillità si dissolse appena scorse il ragazzo dietro al bancone del bar. Christian era intento ad asciugare un bicchiere, ma i movimenti sembravano meccanici, poiché i suoi occhi erano fissi sul nuovo venuto.
I due si guardarono.
L’aria parve farsi per un secondo elettrica.
Il silenzio calò tra loro.
Johel trattenne il fiato mentre due iridi verdi sondavano il suo volto. Christian lo valutava alla stregua di un animale selvatico. Guardingo. Lo vide stringere le labbra in una linea sottile, poi fare un semplice cenno di benvenuto. Nessun sorriso, nessuna parola.    
La delusione colpì Johel come un pugno. Non si ricorda.
Sapeva che era un’eventualità molto probabile, ma trovarsi davanti alla verità, nuda e cruda, era tutt’altra questione. E, dal cipiglio di Christian, sembrava avesse fatto una pessima prima impressione.
“E questo, Johel, è il musone Christian. Non farci caso, è sempre così con gli estranei: diffidente di natura.”
La voce allegra di Federica ebbe il potere di sciogliere l’atmosfera tesa che si era venuta a creare. Johel cercò di rilassarsi e fece un ampio sorriso. “Ciao.”
Era una tattica collaudata: a detta di molti, le sue fossette erano irresistibili. Il cipiglio di Christian si approfondì. “Ciao,” borbottò, dandogli di seguito la schiena.
Ottimo approccio, Johel. Davvero ottimo!
Perché la sua coscienza doveva avere la stessa voce irriverente di Yane? Il ragazzo sospirò mentalmente. Aveva una settimana per riuscire a conoscere Christian e sperare che si ricordasse di lui; non si sarebbe arreso alla prima difficoltà.
“Chris, dai un bicchiere di acqua a Johel,” disse Federica, lanciandogli al contempo un’occhiataccia.
Johel capì che la ragazza non era per niente contenta del comportamento dell’amico e non faceva nulla per nascondere tale disappunto. Un attimo dopo, però, la vide sorridere a Bruno, che li aveva raggiunti sedendosi sullo sgabello accanto al suo.
Anche un cieco si sarebbe accorto del profondo affetto che legava i due.
“Nonno, tu cosa bevi?”
“Niente per ora, grazie. Piuttosto, temo di avere una cattiva notizia: poco prima di uscire di casa, mi ha chiamato Lucia per avvisarmi che si è ammalata, quindi oggi non potrà essere presente.”
“Oh, no!” fece Federica con voce affranta. “E chi leggerà ai bambini?”
“Dovrai pensarci tu, tesoro.”
“Nonno, Christian non può occuparsi da solo del bar. Il pomeriggio è sempre affollato e avrà sicuramente bisogno di aiuto; senza contare che tantissime mamme amano rimanere qui mentre i figli ascoltano la storia.”
Bruno si lisciò i baffi grigi. Sua nipote aveva ragione, ma non c’erano altre soluzioni possibili. “Qualche vostro amico sarebbe disposto a venire?”
La ragazza aggrottò le sopracciglia mentre rifletteva su chi avrebbe potuto chiamare. “Forse Chiara. È tornata ieri dalle vacanze…” mormorò pensierosa. Si rivolse all’amico. “A te viene in mente qualcuno?”
Christian scrollò le spalle con aria rassegnata. “Credo che nessuno sia allettato all’idea di leggere a dei bambini per un intero pomeriggio. Chicca, non starei nemmeno a chiedere; anche perché il primo gruppo dovrebbe arrivare qui tra neanche cinque minuti. Non abbiamo molto tempo.”
Dopo le sue parole, vide l’amica torturarsi il labbro inferiore con i denti. Sapendo quanto Federica tenesse a quelle letture organizzate, cercò di rincuorarla a modo suo. “Tu stai pure con i bambini, al bar ci penso io. Vedrai che riusciremo a farcela. In caso chiama Chiara e chiedile se è disposta ad aiutarci con il gruppo delle cinque.”
“Ma sei sicuro di riuscire a fare tutto da solo?” chiese lei con apprensione.
“Tranquilla, mi saprò arrangiare.”
Johel aveva seguito con curiosità il discorso e, sebbene non ambisse a lavorare, capì che quello sarebbe stato un ottimo pretesto per rimanere nel locale. “Se volete, posso darvi una mano io.”
Gli occhi di Federica brillarono come due piccole stelle. La ragazza fece un sorriso enorme, afferrando con impeto le mani del giovane tra le sue. “Oh, davvero ci aiuteresti? Oh, ma tu sei il nostro angelo salvifico!”
Johel scoppiò a ridere, mentre Christian si mise a tossire, imbarazzato. Diamine, come faceva Chicca ad essere tanto espansiva con gente che aveva appena conosciuto? A volte invidiava il suo modo di fare così aperto ed esuberante, poiché la portava a far amicizia con estrema facilità. Non come lui, che era estremamente scorbutico. Intercettò lo sguardo del ragazzo e lo stomaco gli parve annodarsi.
Ha degli occhi blu magnifici.
Tale pensiero intensificò il suo disappunto. Non si fidava dei giovani troppo belli e sicuri di sé; non gli erano mai andati a genio e quel tipo non faceva eccezione. Anche se… appena l’aveva visto aveva avuto una stranissima sensazione di déjà vu.
Aveva già scorto quel viso… Ma dove?  
“Allora è deciso!” fece Federica, battendo con allegria le mani. “Johel leggerà ai bambini, il nonno penserà alla cassa, mentre io e Chris ci occuperemo del bar.”
“Ah, no, aspetta!” intervenne Johel, preso in contropiede da quell’annuncio. “Io volevo dare una mano come cameriere, non come lettore. Sono un disastro con i bambini: non ho pazienza o alcun tipo di esperienza!”
“Sono sicura che te la caverai benissimo,” lo liquidò la ragazza.
“Ma io…” cercò di obiettare ancora Johel, lievemente terrorizzato all’idea di passare il pomeriggio con un gruppo di piccoli urlanti. Decisamente non faceva per lui. Federica, però, si mise a canticchiare tra sé, ignorandolo completamente.
Bruno gli poggiò una mano sulla spalla e il ragazzo lo guardò con aria affranta. “Inutile che ci provi. Quando mia nipote decide una cosa, niente la smuove.”
Il viso dell’anziano mostrava una tacita comprensione per la situazione, ma i suoi occhietti azzurri brillavano di divertimento.
Ah! Ma è tale e quale alla nipote!
Johel si sentì preso in giro. Bruno sorrise. “Ti ringrazio molto per l’aiuto. Dai, vieni con me, che così ti faccio scegliere il libro. Già che ci siamo, potresti anche dirmi di che cosa eri in cerca. Quando ci siamo incontrati, eri diretto anche tu qui, vero?”
“Oh, sì! Tra pochi giorni è il compleanno del mio fratellino e, dato che adora leggere, penso che qui troverò il regalo adatto.”
Johel non si sentì affatto in colpa a propinare quella scusa. In fondo era una mezza verità: sebbene Ismael avesse già compiuto quattordici anni – ricevendo, a detta sua, fin troppi regali – avrebbe sicuramente apprezzato un libro proveniente da Gea.     

Appena i due si allontanarono, la porta del locale fu aperta.
“Ciao, ragazze,” salutò Federica con un sorriso caloroso.  
“Ciao, Fede! Ci potresti portare due tè freddi, per piacere?”  
“Certo, arrivano subito!”
Dopo aver seguito con lo sguardo le clienti che prendevano posto a sedere, Federica si girò per affrontare di petto il collega. “Senti un po’, cos’era quel comportamento che hai tenuto poco fa con Johel?”
“Chicca, non iniziare. Non so di cosa parli,” replicò imbronciato Christian. Sapeva che l’amica non gli avrebbe fatto passare liscio il suo atteggiamento. In genere non era mai particolarmente estroverso con chi non conosceva, ma era cosciente del fatto che con Johel aveva dato il peggio di sé.
Si affrettò a riempire il vassoio con l’ordinazione, nella speranza che Federica lasciasse perdere.
“Non ci provare, Chris! Sei stato estremamente maleducato.”
“Non mi sta simpatico, va bene?”
Federica roteò gli occhi. “Oh, ti prego, non fare la parte del complessato che ha avuto un’infanzia triste e difficile. Lo so che non ti piace perché è figo! Hai questa tua folle teoria che tutti i ragazzi belli siano degli stronzi egocentrici. Tesoro, non vorrei ricordartelo, ma allora in quella categoria dovresti rientrare anche tu. Non sarai figo come Mister Universo di là, ma di sicuro non sei un cesso da buttar via.”
Suo malgrado, Christian rise. “Vaffanculo, Chicca.”
La ragazza gli diede un leggero schiaffo sul sedere. “Quello piacerebbe a te. E non dire parolacce, che se ti sente mio nonno inizia con le sue ramanzine.”
Christian congiunse le mani tra loro. “No, ti supplico! Le filippiche di Bruno, no!”
“Allora fa’ il bravo, altrimenti ti sguinzaglio contro il mio nonnino” lo minacciò Federica, sventolandogli intimidatoria un dito davanti al naso; poi afferrò il vassoio, sbrigandosi a portarlo al tavolo.
Lei e Christian erano un pericolo per il buon funzionamento del locale, dal momento che perdevano fin troppo tempo in bambinate simili. Era vero che in quel modo il lavoro era divertente, cosa che doveva riflettersi anche nell’atmosfera generale, poiché i nuovi clienti, una volta apprezzata la sensazione rilassante che aleggiava lì, tornavano di buon grado. Senza contare di quelli abituali, con i quali era bello scambiare delle affabili chiacchiere.
“Ecco qui i vostri tè freddi.”
Le due ragazze, intente fino a quel momento in una fitta conversazione, interruppero per un attimo la discussione. “Grazie, Federica. È bello che abbiate finalmente riaperto: mi mancava questo posto. Ah, senti, non è che ci sarebbe quella fantastica torta ai frutti di bosco?”
“Elisa, e la tua dieta?” chiese l’amica con finto rimprovero.
“Quale dieta?” fece l’altra in tono vago, il viso leggermente colpevole.
Sara scosse la testa, ma si vedeva che era divertita.
“Allora due fette di torta” rettificò Elisa.
Sara la guardò con tanto d’occhi. “Due? Adesso non stai esagerando?”
L’amica sorrise con aria maligna. “Una è per te, altrimenti va a finire che mangi metà della mia con il pretesto di assaggiarla.”
Federica si unì alla risata generale, mentre annotava i dolci sul block notes. “Ve le porto subito.”
“Fede, aspetta!” Sara la fermò prima che si potesse allontanare. “Senti, ma quel ragazzo che è con tuo nonno chi è? Lavora qui? È nuovo?”
Mano a mano che Sara progrediva con le domande, abbassava il tono di voce, arrivando a sussurrare per timore di essere sentita. Federica fu costretta ad avvicinarsi molto per riuscire a comprendere ciò che diceva.
“Ah, parli di Johel? L’ho conosciuto oggi. Si è offerto di aiutarci a leggere ai bambini. Aspetta che te lo chiamo, così ci parli.”
Sara divenne subito rossa, mentre la sua amica stava facendo di tutto per non ridere. Mai fare richieste simili a Federica, perché non si sarebbe fatta nessun problema a metterti in imbarazzo. E la cosa assurda era che non si rendeva conto che non tutte erano estroverse come lei. Sara, poi, dovevi costringerla con la forza per farla parlare con un ragazzo cui era interessata.
“Ehi, Johel, verresti qui un attimo, per favore?” lo richiamò Federica, ignorando i sussurri concitati di Sara, che la pregava di lasciar perdere.
Quando Johel, con aria vagamente curiosa, li raggiunse, Federica si sbrigò a fare le presentazioni, per poi lasciarli a parlare mentre lei se ne tornava al bancone del bar.
Christian, che aveva seguito tutto, non si astenne dal dire la sua. “Sei tremenda! Lo sai quanto è timida Sara; guarda come l’hai messa in agitazione, poverina.”
L’amica esibì il suo viso più angelico, senza nemmeno voltarsi a osservare la scena. Sapeva che Sara tendeva a balbettare e a giocare con la treccia quando si sentiva a disagio. Federica fece finta di nulla. “Chi, io? Le ho fatto un favore. Si capiva che era interessata, perché non approfittarne? Carpe diem! Questo è il mio motto,” spiegò pimpante, mentre tirava le ciocche di Christian.
“Smettila, Chicca!”
“Ah, quanto sei musone,” si lamentò lei, sbuffando indispettita quando vide il ragazzo raccogliersi i capelli in un codino.
“No, ti stanno meglio sciolti!”
“Ma non hai nessun altro da tormentare?”
“No.”
Federica cercò di sfilare l’elastico, ma con scarsi risultati, dal momento che Christian, intuendo le sue intenzioni, faceva di tutto per essere fuori portata delle sue mani.
“È inutile che insisti, sei troppo nana,” la derise.
“Stronzo! Io lo facevo per te: sei più bello con i capelli sciolti. Non riuscirai a rimorchiare nessuno conciato così.”
“E chi vuole rimorchiare?!”
“Sì, continua in questo modo e finirai per essere un vecchio gay musone e solo, costretto a parlare con il suo gatto, altrettanto musone e solo.”
Christian contò mentalmente fino a dieci, facendo finta di non sentire i rimbrotti della ragazza. Presto si sarebbe stufata, o avrebbe trovato un altro malcapitato su cui riversare le sue attenzioni un filo morbose.
“Ehi, Chris, secondo te Johel è etero, gay o bisex?”
Bingo!
Christian non si prese nemmeno la briga di guardarla, troppo concentrato nel tagliare la torta ai frutti di bosco.
“Dai, mi rispondi? È una domanda seria.” La voce di Federica aveva raggiunto un tono petulante. Christian sapeva che era meglio assecondarla; già in quel momento l’amica stava tamburellando le dita sul bancone solo per farlo innervosire.
“Cosa diavolo vuoi che ne sappia? Dato che non hai peli sulla lingua, chiediglielo!”
“Ma… e il tuo gay radar? Non funziona?”
Christian sollevò con studiata lentezza la testa, trafiggendola con uno sguardo che era un misto di esasperazione, ironia e divertimento. La ragazza lo stava fissando con un’espressione di trepidante attesa. Era seria, quella sciagurata!
“Chicca, non esiste nessun gay radar! Quante volte te lo devo dire?”
“Nah! Non ci credo. Secondo me è il tuo ad essere difettoso. Quello di Andrea funziona benissimo.”
Il suono dei campanelli che annunciava l’entrata di nuovi clienti evitò a Christian di rispondere per le rime. Una cosa tipo: “Andrea ci proverebbe con chiunque di carino. È un pansessuale, lui.”
Per sua fortuna, però, l’attenzione di Federica si era trasferita sul gruppo di mamme che aveva appena varcato il negozio. Il chiacchiericcio, le risate e le urla dei bambini erano inconfondibili.  
Sarà una giornata molto lunga, pensò Christian affranto.
Notò il volto allarmato di Johel alla vista di quella piccola folla. Gli fece quasi tenerezza. Quasi.
Appena il ragazzo si voltò dalla sua parte, i loro sguardi s’incrociarono.
A Christian gli si mozzò il respiro in gola. Si odiò per quello. Non poteva provare quel tuffo al cuore ogni volta che intercettava quegli occhi. Non era normale. Si costrinse a convincersi che non volesse dire nulla. Nulla!
Tentò di calmarsi.
Per fortuna i nuovi ordini ebbero il potere di distrarlo. Prima di concentrarsi totalmente sul lavoro, ebbe il tempo di fare un grosso sospiro, mentre al contempo rifletteva sul fatto che sì, sarebbe stata una giornata molto lunga.
Molto, molto lunga.


***


Johel rincasò che erano le otto di sera.
Aveva finito il suo compito in libreria quasi un’ora prima, ma pur di restare accanto a Christian, si era offerto di dare una mano nel mettere a posto il locale. Federica era stata felice della sua proposta e gli aveva sorriso con riconoscenza, investendolo presto con la sua parlantina, mentre Christian… Sospirò. Non sapeva per quale motivo, ma aveva l’impressione che Christian lo avesse preso in antipatia. Era rimasto muto e distaccato per tutto il pomeriggio, senza accogliere nessuno dei suoi approcci per cercare di conoscerlo.
Chissà se è così chiuso di suo o sono proprio io a non piacergli.
Con un altro sospiro sconsolato entrò in casa. Come da tradizione, l’alloggio gli era stato fornito dai Signori di Palazzo Verde; era anche loro compito assegnargli una guida che lo aiutasse durante la sua permanenza su Gea. Johel non l’aveva ancora incontrata, poiché si era recato subito da Christian, ma ora che era arrivato nell’appartamento gli sembrava strano che la Creatura non si fosse palesata.
“Ehi, c’è nessuno?” domandò ad alta voce.
Si guardò attorno: l’entrata dava direttamente su un soggiorno molto grande, con due divani, una televisione e una libreria. Una vetrata scorrevole divideva quella zona da una cucina tanto lustra da sembrare finta. Da quella prima veloce occhiata, il ragazzo capì che la casa era nuova e tenuta in maniera impeccabile. Dopo avere notato la cucina, scorse un corridoio, il quale sicuramente dava accesso alla camera da letto e al bagno. Stava riflettendo che forse era il caso di farsi una doccia, quando all’improvviso una luminosa piccola sfera gli saettò davanti, mettendosi a fare evoluzioni in aria, come se cercasse di attirare la sua attenzione.
Johel si bloccò sul posto, annichilito.
“No!” esclamò oltraggiato.
Scosse la testa e chiuse gli occhi, nella speranza che il bagliore rossastro scomparisse dalla sua vista. Era uno scherzo, vero? I Signori di Palazzo Verde non potevano avergli mandato una piccola, inutile, insopportabile…
“Una fata no!” sbottò adirato. E lui che aveva sperato di avere come guida un elfo: loro erano Esseri degni di nota. Anche un satiro non sarebbe stato male; erano parecchio divertenti i satiri. Ma una fata… Che cosa c’era d’interessante nelle fate? Sì, erano graziose, ma facevano delle magie dannatamente ridicole; inoltre erano delle vere rompiscatole.
“Ehi, tu! Smettila di agitarti e fatti vedere bene!”  
Erano passati solo pochi secondi e già quella stupida l’aveva innervosito. Dannazione, tra tutte le creature magiche esistenti doveva capitargli proprio quella che meno sopportava?
A quell’esclamazione, la fata smise di zigzagare come una trottola impazzita, si posizionò ad un palmo dal naso del ragazzo, riducendo di molto il bagliore che lei stessa irradiava.
Il giovane, appena registrò un corpicino esile, un paio di antenne e delle grandi ali color amaranto che, con il loro frullare, provocavano quel tipico barlume, fece una faccia schifata. Di male in peggio, gli era capitata una Fata dei Boschi: l’Essere più innocuo di tutti e sette i pianeti. Alla faccia del suo spirito bramoso d’avventura!
“Mi sento male,” mormorò Johel con aria melodrammatica, arrancando fino a un divano e sprofondandoci sopra di peso. La fata lo seguì, sedendosi composta sulla coscia sinistra del ragazzo. Quest’ultimo le rivolse un’occhiataccia, poi emise un sospiro. Era inutile lamentarsi per qualcosa che non avrebbe potuto cambiare. Ad ogni modo, per fugare ogni dubbio, si accinse a chiedere una conferma: “Sei tu la mia guida?”
La fata sbatté le palpebre, nascondendo per una frazione di secondo i suoi grandi occhi neri, poi fece un cenno affermativo.
“Fantastico!” esultò Johel in tono canzonatorio.
La fata scrollò le spalle, come a voler far intendere all’altro che non era colpa sua se era stata scelta.
“Io volevo un elfo!”
Alla sua affermazione, Johel vide la Creatura imbronciare le labbra, probabilmente offesa. Quella reazione lo fece ridacchiare; almeno era una fata con un certo spirito. Le diede un’altra occhiata. Oh, beh, poteva ammettere che con quei boccoli aranciati e quella pelle ambrata era davvero carina. A quell’esame più attento, Johel notò un particolare assai interessante, che prima gli era passato inosservato. Infatti, nonostante i fianchi della fata fossero circondati da foglioline verdi che creavano una specie di minuscola gonnellina, il resto del fisico era nudo.
“Sei un maschio,” constatò il ragazzo, le iridi blu fisse sul petto piatto, dove spiccavano due piccoli capezzoli scuri. Fu un po’ rincuorato da quella scoperta, perché perlomeno i maschi delle fate erano meno rompiscatole delle loro compagne.
Le antenne della Creatura vibrarono, segno che era divertita. Il ragazzo fu costretto a essere concorde con la sua ilarità; dopotutto, aveva fatto una constatazione talmente ovvia da risultare ridicola.   
“Il tuo nome?” chiese Johel con voce assai più gentile. Dava per scontato che la sua guida sapesse tutto di lui: era la prassi.
‘Trixystainschanein,’ mormorò la fata nella sua mente.
Il giovane emise un gemito sconsolato: era praticamente impronunciabile per lui.
“Ti chiamerò Trixy, va bene? Mi risulterà molto più semplice,” propose, sperando di non offenderla.
Per la prima volta da quando erano insieme, vide la fata sorridergli e annuire.  
“Bene, adesso vorrei farmi una bella doccia. I miei effetti personali sono in camera?”
Trixy fece cenno di sì, i suoi boccoli vaporosi che ondeggiavano ad ogni piccolo movimento. Johel si alzò, desideroso di vedere dove avrebbe dormito. La fata, intuendo le sue intenzioni, lo precedette svolazzando a zig-zag.

Il ragazzo aprì la porta della stanza con un certo impeto, poi si bloccò sulla soglia, le palpebre che si spalancavano per lo shock. La sala era enorme, con un magnifico letto a quattro piazze posto nel centro, ma non fu quello a meravigliarlo, quanto piuttosto ciò che ingombrava il resto dello spazio disponibile. Piante rampicanti s’inerpicavano su tutte e quattro le pareti raggiungendo anche il soffitto, che pareva una volta erbosa, e ad esse si intrecciavano varie specie di fiori.
Johel riconobbe una grande pianta di ibisco che, con i suoi rami, circondava tutta la testata del letto; i suoi fiori erano grandi, di un rosso intenso, con stami lunghi e pregni di polline. Diverse liane scendevano dal soffitto e alcune di esse erano avvolte da altre piante in piena fioritura.
Era un tripudio di colori e profumi.
Johel ne rimase estasiato: gli sembrava di trovarsi in una giungla lussureggiante.
Solo quando si fu ripreso dalla sorpresa capì che tutto quel lavoro era stato fatto per creare l’ambiente più idoneo per Trixy, la quale necessitava di un habitat puro e incontaminato. Conoscendo le condizioni ecologiche di Gea, per il giovane fu facile supporre che ben pochi posti del pianeta fossero rimasti tali; era probabile che il numero di fate presenti si fosse considerevolmente ridotto. Si rattristò a quel pensiero. Perché i terresti erano diventati tanto ciechi e insensibili?
Non avendo risposte per quelle domande, s’inoltrò nella stanza, ma solo dopo essersi tolto le scarpe: il pavimento era costituito da un prato primaverile ricolmo di margherite e Johel affondò i piedi nudi in quella morbidezza naturale con gioia infantile.
Appena raggiunse il letto, vi si sedette sopra: il materasso era alto e duro proprio come prediligeva, ricoperto da un semplice lenzuolo di cotone.
La trepidazione per il viaggio, la realizzazione di essere in un luogo nuovo e l’ansia di un futuro incerto gli si abbatterono addosso, tanto che percepì una grande stanchezza invaderlo. Sbadigliò, poi guardò il letto, pieno di desiderio. Beh, rifletté, non c’è nulla di male se mi faccio un pisolino.
Mentre si sdraiava e chiudeva le palpebre fattesi improvvisamente pesanti, ebbe la forza di bisbigliare un semplice: “Svegliami tra venti minuti, Trixy.”
La fata si sedette su un fiore di ibisco, le piccole mani poggiate sul petalo delicato, le gambe ciondoloni nel vuoto. Da lì attese, vegliando sul sonno del ragazzo di cui si doveva prendere cura.



Continua…



*Pan ed Eco di questo capitolo sono proprio gli stessi della mitologia greca che tanto adoro. Li ho presi in prestito; perdonate quest’escamotage, ma sono cose che amo fare^^.  

Spero che il capitolo vi sia piaciuto; mi scuso per il ritardo con cui ho postato.
Alla prossima!
Baci,
Aurora



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