Non può piovere per sempre.

di RumoreDiFavoleSpente
(/viewuser.php?uid=149270)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** E' in un giorno di pioggia che ti ho conosciuto ***
Capitolo 3: *** E in un giorno di pioggia ti rivedrò ancora. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Non può piovere per sempre



“Sparisci”

“Fammi parlare…”

“Dai…illuminami…”

“Non è come pensi!”

“Oh, classico! Non è mai come penso, sembra un film. Tu non sbagli mai e da idiota ci passo sempre io!”

“No, stammi a sentire, fammi parlare!”

“No cazzo! Adesso mi stai a sentire tu e fai parlare me. Sono stanca di essere sempre quella che deve capire tutto e nessuno si prende la briga di starmi a sentire.”

“Mi ha baciato lei!”

“Ceeeeeerto, come no!”

“Te lo giuro!”

“Ah sì? Ed è stata sempre lei a prendere la tua mano per mettersela dietro la testa? È stata sempre lei a prendere anche l’altra mettendosela sulle chiappe per poi stringerle come se fossero un antistress?...Ma per piacere!”

Silenzio.
Mi guardi in modo strano, sai di essere stato scoperto ma non demordi. No, non tu.
Tu lotti sempre fino alla fine, neghi anche l’evidenza e il tuo sguardo passa da confuso a…’colpo di genio’!

“Dimmi un po’: chi te l’ha detto? Chi te l’ha raccontato? Sai quante stronzate si inventano quelli là quando sono ubriachi! Chi te l’ha detto? Eh?”

Sorrido, sei sempre il solito. Il mio sorriso ti inquieta, non ti sto guardando, cerco un punto lontano dal tuo viso per calmarmi e non mettermi a urlare. Poi con il miglior ghigno che ho ti fisso dritto negli occhi e lancio la bomba

“Non me l’ha detto nessuno, vi ho visto.”

Non ci credi.
E infatti sputi un “Non è vero, ho chiesto agli altri, sei sempre stata con loro nella stanza” quasi a cercare di convincere te stesso più che me.
Rido, rido di gusto.

“E come mai hai chiesto dove fossi stata? Sai, non sei il solo che non ricorda le serate nella tua compagnia.”

Non capisci e quindi continuo…ho tanta di quella rabbia da sfogare che potrei continuare per ore.

“Sei sparito, per una buona mezz’ora. Gli altri non c’hanno fatto molto caso, hanno detto ‘boh, sarà in bagno’. Così sono venuta a cercarti, ho girato tutta la casa: il bagno, lo stanzino, il cucinino. Niente. Quindi sono uscita per vedere se eri nella panchina di fuori ma non c’eri neanche lì. Allora ho pensato potessi essere andato in macchina a farti una canna e ti giuro che anche se sai che detesto quando lo fai, avrei preferito trovarti sballato nei sedili piuttosto che appartato con lei dieci metri più in là nel boschetto.”

Abbassi lo sguardo. Sgamato.

Cerco il tuo sguardo che hai rivolto altrove. Sul viso ti si disegna un espressione che non so decifrare. Ti passano un sacco di emozioni negli occhi: rabbia, frustrazione, rassegnazione, voglia di prenderti a calci.

“Che poi a parte tutto sei anche stato un idiota. Voglio dire…inboscati un po’ di più, cerca un posticino più riparato! Eravate praticamente nel mezzo della strada. O sei proprio senza ritegno, cosa che non escludo, o ti sei fumato il cervello e quel poco che ne restava te lo sei bevuto tutto d’un fiato.”

Non rispondi. Come ti odio quando lo fai. Ti stai accendendo una sigaretta e stai per sbottare, mi guardi e come al solito cerchi di fuggire.
Eh no, caro mio. Non questa volta.

“Guai a te se provi a girare il culo e andar via. Lo sai che sono buona e cara ma che se mi arrabbio divento una bestia. Quindi adesso stai qui e mi ascolti”

“Perché? C’è altro da dire?” chiedi stranito

Rimango basita. Quando sei diventato così? Chi ti ha ridotto in questo stato?
Fisso i tuoi occhi. Quei due smeraldi che hai al posto delle iridi. Sono verdi come i miei ma tu hai sempre detto che i miei sono più belli. Insistevi ma io non ci credevo mai. I tuoi, che il più delle volte preferivi nascondere nei modi più banali, quando mi si piantavano addosso erano delle frecce che penetravano la pelle e arrivavano al cuore. Fissarli era difficilissimo ma distogliere lo sguardo sembrava ancor più impossibile. Li amavo, tanto quanto amavo te. E mi chiedo se hai mai provato ad amare me come io ho fatto con te.

Dopo istanti che sembrarono infiniti mi ripresi. Forse fu il vento gelido che mi accarezzò la schiena, forse un lampo di consapevolezza ma mi scrollai di dosso tutto il peso di quei mesi, di quegli anni.

“Hai ragione, forse non c’è altro da dire.”
E me ne andai pensando <<Fantastico, PIOVE!>>




******************************************************************************************************************

Saaaaaaaaaaaaaalve.
Beh, è la mia prima fiction a capitoli. In realtà è una delle mie prime fiction in assoluto quindi siate clementi!
Innanzitutto GRAZIE che avete avuto la voglia di arrivare fino a qui, dico davvero!
Spero vi sia piaciuta, è in parte autobiografica ma in realtà solo i due personaggi e la situazione passata (che sarà nel prossimo capitolo) sono reali.
La ragazza sono io e il ragazzo...beh, un mio ex, per motivi che capirete!

Sembrerà banale ma siccome avete fatto lo sforzo di leggere pure i miei vaneggiamenti post-scrittura, vi chiedo se avete voglia di lasciare una piccola recensione!
Si accettano critiche di ogni genere e tipo. E' la prima volta per me quindi posso solo imparare!

Alla prossima!
°Shakalabumba!

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** E' in un giorno di pioggia che ti ho conosciuto ***


Non so per quanto camminai. Non avevo neanche una meta, il posto non lo conoscevo e di sicuro, in una notte piovosa, non era il massimo girare per quelle strade di montagna da sola.

<< Dannazione, sei una scout >> pensai. << Sai come adattarti, e poi al più, passerai una notte insonne. Che sarà mai? >>

Continuai a ripetermi questa frase come un mantra per convincermi a stare tranquilla. Per certi versi funzionò.

“Cavolo, è meraviglioso qui.” Dissi estasiata.
Avevo trovato una radura in pendenza che dava sul paesino a valle, sapevo che la casa dove eravamo era un po’ isolata ma non pensavo così tanto. Amo la montagna, l’aria fresca e la sensazione di libertà. Era tutto perfetto, nonostante la pioggia. Anzi, forse la pioggia rendeva tutto migliore.
Mi sedetti sul prato, era bagnato ma non avevo parte del corpo o indumento che non  lo fosse quindi, tanto valeva…almeno mi godevo il panorama.
Presi una sigaretta, la accesi e mi portai le ginocchia al petto per riscaldarmi un poco e cercare di non bagnarla del tutto, volevo gustarmela, poteva solo farmi calmare.

Ripensai a lui. Matteo.
A come tutto era iniziato.

A scuola, alla festa di carnevale avevo baciato un tuo compagno di classe e mi confessasti più avanti di esserne rimasto quasi ferito e di essere uscito a fumarti una sigaretta. Una Camel Light. Come quella che si stava consumando tra le mie dita.
Ma avevi la ragazza, non avrebbe comunque potuto funzionare.
Poi quella sera di Giugno mentre recitavo a teatro quel tuo messaggio mi ha stupito: “Ciao, stupida mangiabudini! Come va?” Quel soprannome, ancora mi fa sorridere, nonostante siano passati quasi cinque anni. Stupido Mangiabanane, così ti chiamavo io. Era tutto nato all’uscita dalla mensa: io ero con il mio ragazzo e tu con la tua ragazza, io avevo un budino e tu una banana. Hai iniziato a stuzzicarmi dandomi della mangia budini e io ho detto alla tua ragazza di stare attenta alle corna con gli uomini perché il suo fidanzatino era un fottuto mangia banane a tradimento. Ridemmo tutti di gusto. Ma ricordo i tuoi occhi, il tuo sguardo, che si nascondeva dietro alla buccia gialla di quel frutto protagonista dello scherno. Eri un arcobaleno: la buccia gialla, le gote rosse dall’imbarazzo ma gli occhi più verdi che io abbia mai visto. Magari non stupendi, non di quelli di cui metteresti la foto su internet ma di un intensità che imbarazza. Non sono descrivibili, ogni parola sarebbe superflua  e sminuente, lo si può capire solo guardandoli.

E io l’ho fatto, Dio se l’ho fatto. Ho sempre avuto un buon senso dell’orientamento ma ogni volta che ti fisso negli occhi mi vengono le vertigini, mi sento minuscola e mi perdo nel cercare di trovare una fine all’immensità di quel che sei.

La prima volta che ti baciai fu quasi per gioco. Il giorno prima mi avevi distrutto, avevi scoperto tutti i miei punti deboli, mi avevi messo davanti a un evidenza che cercavo di nascondere da tutta una vita e che nessuno aveva mai sospettato. Ero sempre circondata di gente ma lo facevo principalmente perché avevo una paura maledetta di stare da sola e tu guardandomi dritta negli occhi mi dissi: “Non sarai mai sola. Ci sarò io, per sempre”.

Ti conoscevo da quasi tutto l’anno ma non avevamo praticamente mai parlato, suonava da frase di circostanza ma non ci feci caso, andava bene. Avevo bisogno di qualcuno che rimettesse insieme i pezzi in quel momento. Il fatto che fosse la stessa persona ad avermi distrutta che ora mi aiutava a ricompormi non era importante, non per me.
Ti facesti abbracciare a forza, mi facesti promettere che ti avrei chiesto aiuto se ne avessi avuto bisogno e io promisi.
Il giorno dopo ti aspettai nella panchina dentro al giardino della scuola, prima dell’inizio delle lezioni.
Ti sedesti di fianco a me e mi voltai a guardarti. Attimi che sembrarono secoli, gli occhi fissi sui tuoi e un mare di emozioni che montava dentro e nessun argine a bloccarne la furia. Verde e verde, smeraldo e malachite. Così simili da sembrare gli stessi.
“Fermo.” Dico semplicemente e mi avvicino lentamente a te per baciarti ma ti sporgi e allora ti blocco, ti fisso di nuovo negli occhi e le sensazioni restano invariate. “Fermo.” Ripeto, più convinta di prima e mi avvicino ancor più lentamente fino a sfiorare le tue labbra. L’impeto da cui ti lasci sopraffare è imponente e malgrado mi fossi ripromessa che sarebbe stato solo un bacio mi lascio trascinare, senza paura, senza tempo, senza limite. Mi abbandono alle tue mani che mi accarezzano il viso, mi inebrio del tuo profumo misto all’odore di sigaretta che hai appena spento, trattengo il respiro per non rovinare il momento in cui la mia mano scivola sul tuo collo e arriva alla spalla. Devo fermarti. Mio malgrado.

Da quel momento è praticamente iniziato tutto ma non è andata come mi aspettavo.
Lontani centinaia di chilometri, un lavoro che ti spaccava la schiena nei cantieri con tuo nonno per portare qualche soldo a casa e io al mare, a pensarti senza tregua nei pomeriggi sonnolenti della mia estate.

Sapevo che ti avrei rivisto a settembre. Tre visite di poche ore in due mesi non sono quel che si può definire un rapporto ottimale. Oltretutto ci sentivamo poco così pensai stupidamente che per l’estate potevamo farne a meno e che sarebbe stato tutto meraviglioso durante l’anno scolastico.
Se proprio devo dirla tutta, non mi fidavo di te. Sei sempre stato un donnaiolo e ne ho avuto la riprova proprio sta sera. Quindi decisi che per un po’ andava bene così.
Tornati a scuola ti aspettai, come un ubbidiente cagnolino attende il padrone al ritorno a casa. Avevi promesso che ci saresti stato sempre, e io avevo bisogno di te. Tutto andava nel verso giusto.

E allora perché ho dovuto aspettare più di un mese per avere udienza da sua maestà Matteo? Che ti avevo fatto per meritarmi un trattamento da schiava invece che da amante?

Mi risvegliai dal torpore dei pensieri perché la sigaretta mi scottò le dita, ho il vizio di tenerla più in alto rispetto al filtro e mi incanto spesso a pensare. Per certi versi è un ottima sveglia. In ogni caso era caduta a terra ed era irrecuperabile così me ne accesi un'altra, giusto per assicurarmi una bella polmonite al mio rientro a casa.
Non ci volle molto prima che i miei pensieri si dirottarono di nuovo verso il flash-back interrotto poco prima e la scena che, simpaticamente, si ripropose era di quelle che ancora gli rinfacciavo durante le liti peggiori.

Era Ottobre e finalmente potevamo parlare, mi avevi concesso un pomeriggio da passare insieme. Passeggiammo per la scuola, lungo il viale alberato fino ad arrivare nel NOSTRO anfiteatro ligneo. Naturalmente pioveva, non forte. Quella pioggia leggera che ti inumidisce il viso e impregna l’aria di quel caratteristico odore che amiamo entrambi.
Al riparo delle scalinate del teatro mi baciasti. Avevo aspettato tanto quel momento che tutta la rabbia che avevo per non essere stata considerata da te, svanì in poco meno di un secondo. Sei sempre stato bravo a parlare e mi dicesti che avevi bisogno di tempo per sistemare delle cose a casa, del tempo per te stesso, per riprendere in mano la tua vita. Come mi dicesti tu quella volta io ti promisi che ti avrei aspettato, che ci sarei stata e che non saresti stato solo. Così feci. Ma dopo due settimane ti mettesti con quella zoccoletta, Claudia.

Nero.

Divenni furiosa e ti scrissi una lettera in cui ti sputavo un faccia tutte le belle parole che mi dicesti, tutte le stronzate che ti inventasti per tenermi buona. Te la consegnai una mattina prima di entrare in classe. Stavi per piangere mentre la leggevi. Avevo colpito nel segno.

Dopo mesi di silenzio io continuavo ad essere innamorata di te ma tu non ne volevi sapere, non ti interessava, o almeno, così sembrava.

Poi per capodanno dello stesso anno ricevetti una tua chiamata dove. con fare da cucciolo, chiedevi implorante se riuscivo a prendere il tuo portafoglio che stupidamente avevi lasciato nell’armadietto a scuola. Naturalmente ogni tuo desiderio era un ordine per me e come ricompensa ricevetti un tuo sorriso e un “Grazie Rudolph. Mi hai salvato il Natale”.

La collera montò dentro di me e durante la festa per l’ultimo dell’anno conobbi Angela, la prima ragazza con cui sono stata e credendo di aver trovato finalmente la pace dopo di te, ti scrissi un messaggio:
Eccola, forse è lei che mi salverà, forse con lei riuscirò a dimenticarti, a passare oltre. Buon anno amore mio. Ti Amo.” Aspetto ancora la risposta a quel messaggio.

Angela non mi aiutò a superare quel che eri stato, non durò molto e ben presto tornai a sognarti, a volerti, a scriverti lettere solo per poter parlare con te. Ogni sguardo, ogni incontro casuale e ogni volta che mi evitavi, erano per me motivo di rabbia. Passò anche quell’anno e tu ti beccasti un paio di debiti e il nostro rapporto in qualche modo si incrinò ancora.
Mi fidanzai con un'altra ragazza, Valentina. Una storia tempestosa durata quasi due anni che mi proibì qualsiasi contatto con il mondo all’infuori di lei. Quando finalmente uscii dal vortice autodistruttivo di quella relazione mi resi conto che non c’eri più. Ti avevano bocciato, avevi cambiato scuola e che mi persi gli ultimi momenti possibili da passare con te. Non so ancora se fui felice perché almeno per una volta qualcuno aveva fregato te o distrutta perché non ti avrei più visto per i corridoi. Fatto sta che passarono gli anni e mi abituai alla tua assenza.


Passai un periodo decisamente buio della mia vita e non so per quale motivo decisi di farlo ma ti ricontattai. Ricordo di averti detto che se mi fissavo allo specchio, dritto negli occhi, non mi riconoscevo. Non ero certa di chi fosse l’immagine riflessa sulla superficie ma che se mi concentravo e isolavo la figura dal resto della stanza, dietro di me c’eri tu. Sentivo la tua presenza. Più volte, sovrappensiero, convinta a tal punto che fossi reale, ho allungato la mano in cerca della tua e non trovandola, l’illusione si infrangeva e tornavo bruscamente alla realtà. Mi avevi ascoltato attento e poi, dandomi dell’idiota, mi dicesti di nuovo che avrei dovuto chiamarti, perché saresti venuto a salvarmi, ci saresti stato sempre e non dovevo avere paura. Me lo feci bastare.
All’inizio era tutto un po’ titubante. Tu mi avevi praticamente ucciso e io te ne avevo fatte altrettante in un modo o nell’altro. O quantomeno, tu te la prendi molto più di me. Fatichi a mettere da parte l’orgoglio, anche se si tratta di amore, anche se si tratta di me.

Si perché se tu hai un enorme potere su di me, io c’è l’ho su di te. Per questo spesso sei scappato, perché odi farti controllare. Ma quando, dopo quel lungo periodo, ci siamo rivisti, sembrava che ti mancasse il mio comando.
Mi giurasti di nuovo eterno amore. Io non volevo, non potevo permettermi di stare male di nuovo a causa tua.
Come sempre le tue doti da venditore di fumo fecero la sua parte
Ti tratterò con i guanti bianchi, sarai la mia donna. Fra meno di sei mesi sarai a cena con me e mia mamma e io siederò al tavolo con le due donne della mia vita”. Come no.

L’ennesima cazzata, l’ennesima botta nei denti. Dopo aver giurato anche l’ingiurabile andasti con Sara.

Se solo ti avessi avuto per le mani ti avrei strozzato e poi preso a pugni e poi a calci. Poi, una volta finito con te avrei cominciato con me, stupida bambina che credeva a tutto quel che dicevi.
Ma mi presi la mia rivincita, dopo averti perdonato per l’ennesima volta. Misi tra noi due Giulia.
Era un diversivo, era una cosa da niente. Inutile. Non la volevo. Volevo te, come sempre. Il tuo orgoglio parlò per te, inventasti bugie su bugie pur di farmi sentire in colpa, ti inventasti un tumore benigno da togliere alla svelta per farmi andare in ansia. Cercai di tenerti testa per un po’, volevo vedere quanto eri disposto a spingerti oltre pur di riavermi. D’altra parte, prove da me ne avevi sempre avute, io da te niente.
Ovviamente a un certo punto “lesa maestà” non si fece più sentire e io mandai dolcemente a puttane tutto il buono che poteva nascere con Giulia. Le confessai tutto, povera. Non oso immaginare come si sia sentita. Ma mi voleva bene, per davvero e decise di restarmi affianco e non smetterò mai di ringraziarla per questo. Mi aiutò a riaverti. Finse, anche dopo mesi dalla nostra rottura, di essere ancora la mia ragazza e questo spronò quel cavernicolo che sei  a intestardirsi per riprendermi.
Alla fine, quando decisi che era abbastanza, Giulia rispettò i patti e si inventò una scusa per lasciarmi.
Da quel momento tutto era andato per il meglio.

“Fino a questa sera.”
Mi sopresi a fare questo pensiero e non ero certa di averlo pronunciato davvero.
Alzai gli occhi al cielo, pioveva ancora e non accennava a smettere. La città a valle era ancora più incantevole e io avevo beatamente perso il senso del tempo. Guardai l’orologio e mi resi conto che ero sparita da più di due ore. Decisi di riaccendere il telefono, giusto per controllare se a qualcuno importava della mia esistenza.
Un mare di messaggi e di chiamate perse. Tutti dallo stesso numero.
I messaggi erano sempre più ansiosi e preoccupati: “Cate dove sei finita, ti prego parliamone, non puoi andare in giro per i boschi da sola…è pericoloso. Mio dio rispondi ti prego. Ti ho cercata in lungo e in largo, ma dove sei finita?”

Sorrisi, non sapevo che pensare. Era tutto troppo ipocrita, non sarei tornata da lui. Non se lo meritava. Non di nuovo. Ne avevo abbastanza. Mi aveva cercato in lungo e in largo? Beh evidentemente non abbastanza. Ero a piedi e lui aveva la macchina, di sicuro aveva sbagliato i luoghi in cui cercare perché non potevo essere troppo lontana dalla casa.

“Resterò qui a dormire, sta anche quasi per smettere quindi tanto meglio. D’altronde…non può piovere per sempre*, no?” e così dicendo, con un sorriso sardonico in volto, chiusi gli occhi e mi abbandonai a Morfeo.
 

 
 
*************************************************
Ciao (:
Ci sono, ecco il primo capitolo. E’ la mia storia con Matteo. E’ molto riassunta ma decisamente completa, non pensavo che ci sarei riuscita.
E’ strano vederla scritta per davvero, una volta per tutte. Piccolo traguardo :D
 
Beh, fatemi sapere che ne pensate! Sia in bene che in male u.u
A presto!
°Shakalabumba!



*citazione dal film “Il Corvo”

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** E in un giorno di pioggia ti rivedrò ancora. ***


Naturalmente non riuscii ad addormentarmi prima che smettesse di piovere, ma non saprei dire quanto tempo passò e neanche per quanto tempo dormii.
Il freddo si stava facendo sentire, soprattutto perché avevo i vestiti zuppi di pioggia e l’aria che tirava non rendeva di sicuro il clima accogliente.
Sapevo di gente che si era addormentata al freddo ed era morta poi per ipotermia. Il pensiero mi mise un po’ in ansia quindi mi rannicchiai su un lato, mi strinsi forte le ginocchia al petto e mi feci forza. Ad un certo punto crollai.
 
 

Ero al mare, stavo prendendo il sole in una sdraio con una sigaretta accesa e un bicchiere di Coca Cola in mano. Era caldo ma una leggera brezza mitigava il clima rendendolo perfetto. Nella mia pace mi sentii chiamare, mi voltai e vidi Matteo che mi stava chiamando, con aria impaurita. Non me ne spiegavo il motivo, mi guardai intorno ma era tutto normale, niente ufo, scimmioni, ladri, assassini o criminali di sorta. Mi si avvicinò e con una faccia ancora più spaventata mi iniziò a schiaffeggiare dandomi della stupida mentre io, stesa sul lettino, continuavo a non capire
.

Aprii gli occhi e ricollegai tutto. Era un sogno.

Mi aveva trovata, mi aveva cercata in lungo e in largo per quelle montagne e alla fine, la sua quasi del tutto inesistente memoria, si era ricordata che se c’era una cosa che amavo fare in montagna era cercare un punto abbastanza in alto per poter vedere la città di notte e si era ricordato della radura dove avevo trovato rifugio.
Quando lo guardai negli occhi, lui riacquistò vent’anni in un secondo. Dopo averli persi mentre mi cercava e mi dava per dispersa o peggio morta, gli si sollevò un peso dal cuore. Mi raccontò di come si era ricordato che amavo i paesaggi notturni e sicuramente si aspettava una frase del tipo:

"Che ragazza fortunata che sono, ho un ragazzo che si ricorda le cose che amo" e non:

"Beh, sono qui da quasi cinque ore, c’è ne hai messo di tempo. Grazie del disturbo. Ora, se vuoi essere così gentile da portarmi a casa così mi cambio e mi riscaldo sarebbe magnifico. Altrimenti puoi pure andare, troverò la strada domattina."

Ero stata cattiva, dopotutto, ma di sicuro non si meritava un abbraccio e un bacio con tanto di lacrime agli occhi. Me se sarei andata via la mattina seguente, di buon ora. Tanto prima di mezzogiorno sarebbe stato quasi impossibile vederlo fuori dal letto.
Non disse niente, non rispose alla mia affermazione. Aveva capito che era meglio per lui non farlo. Si limitò a darmi la sua giacca e a dirmi 

"La macchina è lassù, ti accompagno."

Accennai un “grazie” con il capo e montai in macchina. I due amici che lo avevano accompagnato non parlarono, uno mi chiese come stavo e lo liquidai con un "infreddolita ma bene" e non ci furono altre parole se non quelle delle canzoni alla radio.
Arrivati a casa, ringraziai i due ragazzi, augurai loro la buonanotte e mi diressi dentro con il preciso intento di farmi una doccia calda lunga almeno un secolo. Così feci. Una volta uscita mi asciugai e mi misi il pigiama. Non cercai Matteo, non volevo sapere dove fosse.
Mi misi a letto e crollai poco dopo, in quello che speravo, sarebbe stato un sonno ristoratore.
 
Il mattino dopo mi svegliai, guardai l’orologio: le dieci e mezza. Avevo dormito solo tre ore ma mi sarebbero bastate per affrontare il cammino fino alla fermata più vicina per poi addormentarmi di nuovo sull’autobus verso casa.
O almeno così credevo.
Iniziai a preparare le mie cose per portarle via, andai in bagno per darmi una sistemata e al mio ritorno in camera lo trovai sul letto ad aspettarmi.
Lo guardai negli occhi. Aveva pianto, mi chiesi il perché. L’aveva voluto lui alla fine, lui era stato il primo ad ammettere che non c’era altro da aggiungere al tutto. Era colpa sua se stava così, non mia.
Decisi di ignorare quei pensieri anche se la mia mente continuava  a bombardarmi di domande su dove avesse passato la notte, cosa avesse fatto e cose del genere.
Avanzai verso di lui che rimase in silenzio. Continuai a fissarlo per tutto il tempo come stava facendo lui.
Guardai quegli occhi. Anche rossi di pianto non perdevano l’intensità che li contraddistingue da tutti gli altri anzi, forse ne acquistavano di più. Mentre li osservavo, mi ripassarono davanti tutte le volte che mi ci ero persa dentro e inevitabilmente accadde di nuovo.

Stava davvero per finire tutto? Sì. Ne avevo viste abbastanza, sopportate anche troppo e non avevo fatto del male a nessuno per meritarmi questo trattamento.
Staccai lo sguardo dal suo e lo posai sulla mia borsa. C’era una busta con sopra il mio nome scritto con la sua grafia.

"Pensi che cambierà qualcosa?" chiesi con rabbia mista a indignazione e sorpresa.

"No. Non so più che pensare ma ci sono troppe cose che il mio orgoglio mi ha sempre impedito di dirti e sta notte non sono riuscito a farlo tacere ma sai quanto mi costa dire certe cose e scriverle mi è parso un buon compromesso"

Siamo alle solite, pensai. Mai che prenda in mano la sua vita, dia quattro cazzotti al suo orgoglio e mi dica tutto quel che pensa in faccia e senza giri di parole o sotterfugi.

"Bene, mi serviva qualcosa da leggere per addormentarmi in pullman."
Presi le mie cose, dopo averlo guardato un ultima volta mi voltai e prima di uscire lo ringraziai dell’ospitalità. Dopo di che mi chiusi la porta alle spalle, senza guardarmi indietro. Lo sentii distintamente prendere a calci e pungi la porta ma mi convinsi che se l’era cercata.
Arrivata alla fermata, controllai la tabella degli orari, avevo ancora quaranta minuti buoni così decisi di aprire la lettera.



Non ho idea di come iniziare questa lettera. C’ho pensato per una buona mezz’ora ma niente mi sembrava adatto. Sei in camera che dormi e io qui in cucina che lotto con il mio orgoglio per scriverti queste parole. Sono un coglione. Potenzialmente non ci sarebbe nient’altro da aggiungere ma ormai la lotta è iniziata e devo finire, devo vincere.
Quel che è successo prima non ha spiegazioni, non ha motivazioni, non ha giustificazioni. Mi ha sempre fatto la gatta morta intorno e ho ceduto. Da bravo genio che sono, ho ceduto proprio quando tu eri con me. Non che se l’avessi fatto quando non c’eri sarebbe stato meno riprovevole, ma ho proprio fatto bingo.
Fino a che non mi hanno detto che eri sparita da più di un'ora non mi ricordavo cosa ci fossimo detti quando mi avevi scoperto, l’alcool mi annebbia la memoria e lo sai. Credevo che fossi tu quella in torto semplicemente arrabbiata senza motivo, ma quando i ragazzi mi hanno detto cos’era appena accaduto mi sono sentito un vero idiota, ma ogni epiteto sarebbe straordinariamente riduttivo per descrivere la testa di cazzo che sono.


<< E meno male che l’hai capita. >> Pensai.

Tornando a noi, mi hai fatto prendere un colpo. Avresti dovuto vedermi, sembravo impazzito, urlavo a destra e a manca perché qualcuno mi desse le chiavi di una macchina per venirti a cercare. “Ha piovuto, può essere caduta da qualche parte, magari s’è fatta male, è tutta colpa mia.” Una checca isterica.
Per fortuna due dei ragazzi vendendomi così si sono offerti di accompagnarmi e poco dopo c’hanno seguito anche tutti gli altri, la prima macchina che ti vedeva doveva chiamarmi e sarei corso da te.
Per fortuna ti ho trovato io ma non sai quanto ho patito. Mi sta bene e sono d’accordo. Ora capisco cosa intendi quando mi dici che sei in ansia se mi sai da solo e non proprio sano, in giro per questi monti. Ritiro tutte le volte che ti ho dato della paranoica. Avevi perfettamente ragione.
Beh, tutto questo mucchio di parole per dire cosa?
Che mi dispiace. Per quel che vale.
Ma come dice V “E’ privo di senso chiedere scusa?” “Non lo è mai.”
Quindi sono qui a chiederti scusa e basta. Nel modo più sincero e onesto che un bugiardo come me possa esprimere.
So che credi che sia uno sparacazzate a random, so che pensi che uso sempre tante belle parole per poi riuscire sempre a scamparla, a farla franca e a vincere. Questa volta non è così.
“Ma non ho scuse da portare, non dico più d’esser poeta. Non ho utopie da realizzare, stare a letto il giorno dopo è forse l’unica mia meta.” Guccini. Ricordi?
Ti si erano illuminati gli occhi quando l’avevo citato la prima volta. Avevo iniziato la frase con “Ma se io avessi previsto tutto questo…” mi avevi fatto finire la frase e avevi cominciato tu “Ma se io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, le attuali conclusioni” e siccome avevo continuato con te, ti eri fermata sorridendo. Mi hai guardato. “Guccini. Lo conosci?” ti eri stupita. Pensavi di essere l’unica idiota a ascoltare un vecchio brontolone di un'altra epoca e invece c’ero anche io. Ci sono anche io.
Potrei continuare ore a citare le sue canzoni per spiegare quel poco che sono, quanto io sia idiota, spaventato, arrabbiato con me stesso e innamorato di te.
Lui ha sempre le parole giuste per farlo, ma non è giusto che io le usi con te. Quindi non lo farò.
Non ti sto chiedendo di restare. Non sono nella posizione di farlo. Non voglio convincerti di niente, non ti lasci più abbindolare dalle mie parole.
Voglio solo essere sincero. Almeno una volta. Almeno con te che di bugie non me ne hai dette mai.
Mi dispiace. Davvero.
 
Ti amo, Cate.
 
Matty.
 
 
C’era qualcosa di sbagliato. Nel fatto che fossi fuori dalla sua casa, seduta sul ciglio della strada ad aspettare di andarmene, con le lacrime agli occhi. Non poteva essere giusto. Anche perché il pullman era in fondo alla strada, stava arrivando.
 
Il percorso lo sapevo a memoria, anche senza guardare, gli occhi annebbiati dalle lacrime non erano un reale ostacolo, erano solo fastidiosi.
La porta era aperta, come sempre. Corridoio, seconda porta a sinistra. La spalanco come una furia, era ancora seduto sul letto con la testa nelle mani a pensare a chissà cosa ma non mi importava. Alzò lo sguardo impaurito e non ebbe neanche il tempo di finire l’imprecazione che gli fui addosso cominciando a picchiarlo, pugni, schiaffi, calci e morsi. Con quanta più forza avevo in corpo e più continuavo più le lacrime smisero di scendere, il respiro diventa irregolare e l’adrenalina saliva.

“TI ODIO!” gli urlai un secondo prima di fermarmi.

Lo guardai con il respiro affannato. Non era proprio la reazione che si aspettava. Gli lessi lo sconcerto in volto. Non ha ancora realizzato bene.

“SE NON AVESSI UN PROFONDO RISPETTO PER TUA MAMMA CHE E’ UNA SANTA DONNA PER SOPPORTARE UNA BESTIA COME TE COME FIGLIO TI DAREI DEL FIGLIO DI PUTTANA IN UN ATTIMO.” Urlo di nuovo.

So quanto tenga alla madre e se non sapessi l’angelo che è, non esiterei a dirgli in faccia di nuovo quel che gli ho appena detto.

“Sei uno stronzo, un vigliacco, un idiota, un coglione!” continuo a sputargli in faccia tutto l’odio che ho accumulato arretrando verso il muro con le gambe tremanti.

Quasi non mi reggevo in piedi e quando sentii finalmente la mia schiena toccare la superficie dura e fredda della parete mi lasciai scivolare lentamente a terra, mi strinsi le gambe al petto e con la testa appoggiata sulle braccia mi rimisi a piangere.
Un pianto disperato, di quelli che sembrano non finire mai, che non vorresti finissero mai. Uno di quei pianti dove speri solo di riuscire a buttare fuori tutto quello che hai dentro fino a cadere poi a terra, stremata, addormentandoti per sempre.

Dopo un po’ sentii le doghe del letto scricchiolare e i suoi passi avanzare verso di me. Avrei voluto urlargli di lasciarmi in pace, di non toccarmi e di non rivolgermi la parola ma le lacrime mi bloccavano la gola e non riuscii a pronunciare alcun suono se non i singhiozzi strozzati del pianto.

“Lo so che non vuoi che ti tocchi, che ti parli e che vorresti che ti lasciassi in pace. Ma non posso.” Mi disse abbracciandomi e sedendosi di fianco a me.

Ecco perché lo odiavo, non avevo aperto bocca ma lui sapeva cosa avrei detto e nonostante questo aveva fatto l’esatto contrario di quel che volevo, l’aveva fatto lo stesso. Ecco perché l’amavo. Non c’era bisogno di parole con lui. Non c’è ne era mai stato.
Avevo voglia di riprenderlo a schiaffi ma mi tirò su a forza, mi stese sul letto e si stese davanti a me. Passando un braccio sotto il mio collo e poggiando l’altro sui miei fianchi mi strinse e mi lasciò piangere.

 
Passò diverso tempo in cui non si era mai allontanato da me, sia quando mi accarezzava i capelli, sia quando presa dalla rabbia ricominciavo a picchiarlo di nuovo.
A un certo punto mi alzai, incrociai le gambe e asciugai le lacrime. Mai mi ero ridotta in maniera simile per qualcuno e lui lo sapeva. Si alzò anche lui e si mise nella stessa posizione all’altro capo del letto, guardandomi fisso.
In quel momento eravamo due nemesi. Agli opposti, completamente diversi ma entrambi sapevamo che nessuno dei due poteva sopravvivere senza l’altro. Come Batman e Joker.

“Ti odio davvero.” Esordisco

“Non dovresti fare niente di diverso.”

“Smettila!” urlo “Smettila tu e i tuoi dannatissimi giochi di parole, rispostine da film e frasi da grande eroe dei fumetti! Finiscila! Non sei in un gioco, non sei in due dimensioni disegnato su un foglio di carta e per l’amor del cielo: capisci che questa-maledetta-vita-non-è-un-FOTTUTISSIMO-FILM! AAAAAAAAAH!”

Ero di nuovo con il fiatone per aver urlato tirando pugni nel muro al posto che alla sua faccia.
Se c’era una cosa che odiavo e odio tuttora, è perdere il controllo ma lui era sempre in grado di farmi arrivare all’esasperazione anche con un solo sguardo. Aveva passato il limite. Ben due volte in meno di ventiquattrore. Aveva battuto il suo record personale, doveva andarne fiero.

“Ti odio per una serie infinita di motivi. Alcuni così banali che tu magari neanche te ne renderesti conto, altri così profondi che di sicuro impiegherei anni per farteli capire quindi tanto vale. Non ti meriti di saperli, non ti meriti neanche che io sia qui a dirla tutta. Non ti meritavi di abbracciarmi mentre piangevo e neanche tutte quelle botte che ti ho dato. Non perché tu sia una brava persona…no. Perché proprio non sei all’altezza. Non ti meritavi così tanta considerazione da parte mia. Non ti meriti una come me.”

“E allora perché sei qui?”

Sentii di nuovo montare la rabbia dentro di me. Era vero che non mi meritava ma era anche vero che quella seduta sul letto davanti a lui ero io e non un'altra.

“Sono qui per me. Perché nonostante tu sia una testa di cazzo, io c’ho speso del tempo per te, con te. Togliendolo a me stessa. Perché se c’è una cosa che non hai mai fatto è stata prenderti cura di me. Sai che non ho mai voluto cene al ristorante, regali costosi o tutte quelle cose che fanno sentire le altre coppie un po’ meno vuote e un po’ più innamorate. No. Mi sarebbe bastata una rosa tagliata dal rovo qui davanti casa, mi sarebbe bastato il caffè sul fornello la mattina, una passeggiata sotto il sole. Una notte sotto la pioggia. La pioggia Matti. Quanto tempo è che non stiamo sotto la pioggia io e te? Non siamo più usciti scalzi a camminare nel fango respirando l’odore che entrambi amiamo alla follia. Non ne avevi più voglia. E io continuavo a dirmi che andava bene, avrei evitato una lavatrice.”

Come al solito eri davanti a me, in silenzio con lo sguardo basso. Sapevo che mi stavi ascoltando. Non potevi evitarlo, non ci riesci. Ma volevo mi guardassi in faccia mentre ti parlavo così appoggiai due dita sotto il tuo mento e lo alzai delicatamente.

“Hai una vaga idea di quante volte l’avrei fatta quella lavatrice con i nostri vestiti sporchi di fango ma pieni d’amore? Lo sai?” chiedo.

Credo di non aver mai avuto tanto amore nello sguardo come in quel momento. Dopotutto lo amavo. Nonostante quello che mi aveva fatto, nonostante tutto, ero ancora innamorata di lui.
E l’aveva capito, come al solito. Infatti si mise a piangere.
Lo fece perché gli era tutto chiaro.
Lo amavo ma non potevo stare con lui. Non ne avevo più le forze.
Lo abbracciai e ci stendemmo di nuovo sul letto, solo che ero io ad abbracciare lui questa volta.

“Mi dispiace.” disse tra i singhiozzi.

“Lo so.”

Lo sapevo davvero, gli dispiaceva davvero ma non c’era altra via d’uscita. Dovevo andarmene. Questa volta sul serio.
Ci alzammo e in silenzio mi accompagnò alla porta. Lo guardai a lungo. Sapevo che non sarebbe mai successo, ma non potevo permettermi di dimenticarlo, non quegli occhi, non tutto quello che avevano rappresentato per me.
Mi avvicinai al suo viso, appoggiai una mano sulla sua guancia e dopo avergli asciugato le lacrime lo baciai per quella che sarebbe stata l’ultima volta.

Mi staccai e dissi “Lo sai, in un giorno di pioggia ti rivedrò ancora e potrò consolare i tuoi occhi bagnati ma fino ad allora: buon viaggio hermano querido e buon cammino ovunque tu vada, forse un giorno potremo incontrarci di nuovo lungo la strada.”

Sorrise, sorrisi con lui. Era finita davvero. Presi la mia borsa e me ne andai senza voltarmi.
Sapevo che mi avrebbe guardato fino a che non fossi scomparsa dalla sua visuale.
 




 
 
Passarono i mesi. Non parlai più con lui né di lui. All’inizio fu dura ma piano piano mi convinsi che era giusto così.
Era ormai estate quando in una giornata come le altre il citofono gracchio. Stava piovendo, il tipico temporale estivo, quello che rinfresca l’aria e ridona alla terra la speranza di essere ancora una volta fertile.
Aprii il portone chiedendo sovrappensiero chi fosse a disturbare e mi ritrovai davanti la meraviglia.
I vestiti logori dal lavoro, i capelli biondi più lunghi e disordinati e una barba incolta mi fecero dubitare di conoscere la persona che avevo davanti, ma poi guardai gli occhi. Non avrei potuto confonderli con niente al mondo. Verde, verde speranza, verde natura, verde miracoloso e tanto agognato nelle notti più buie.

“Cosa ci fai qui? Entra che piove!”

Non sapevo se volessi davvero farlo entrare ma le buone maniere avevano preso il sopravvento sul cuore partito a razzo e la mente svuotata.

“No, sta piovendo. Sto fuori. Ho smesso di stare in casa quando piove, faccio il caffè tutte le mattine e lascio la moka pronta per mamma quando si sveglia, colgo una rosa tutte le sere quando rientro da lavoro e la metto al centro del tavolo quando è pronta la cena e quando piove cerco sempre di uscire senza ombrello perché voglio sentire l’acqua scorrermi addosso. Ho preso più volte l’influenza ma ne è sempre valsa la pena. All’inizio lo facevo per punirmi, la pena del contrappasso, sai? Poi ho iniziato a prenderci gusto e lo facevo perché mi immaginavo di averti con me ogni volta che facevo quelle cose.”

Non avevo parole da dire. Non sapevo cosa dire e anche se l’avessi saputo non avrei potuto farlo perché riprese subito dopo a parlare.

“Sono un idiota, sono sempre l'idiota di prima ma so di essere migliore di prima. Voglio dimostrartelo, voglio farti vedere e capire quanto ti amo e voglio iniziare subito per non smettere più.”

Poi lo vidi abbassarsi, rovistare nella tasca e mettersi in ginocchio, aprì una scatolina di velluto giallo e quasi mi sentii svenire.
C’era un anello d’oro bianco con una goccia verde sulla circonferenza, era smeraldo, ne ero certa.
Non era un anello vistoso ma doveva essergli costato mesi di rinunce e duro lavoro, lo sapevo bene.
Era una di quelle scene dei film, quelle dove lui fa il pentito e le chiede di sposarlo e lei tra le lacrime risponde di sì. Ma io ero pronta a rispondergli di sì?
Il suo verde incontrò il mio. Smeraldo e malachite di nuovo incastonati perfettamente insieme.

“Vuoi passare, con un indiscutibile idiota, il resto della tua vita? Cate…mi vuoi sposare?”

Lo guardai, sentivo le lacrime salire dal cuore fino agli occhi e lottare per uscire. In fin dei conti, per quanto tentassi di fingere e mentire a me stessa, ero ancora innamorata di lui.
Un sorriso ebete mi si disegnò in volto e prima che si trasformasse in una smorfia gli risposi

“Solo se prometti di restare il mio indiscutibile idiota per sempre.”

“Te lo prometto.” Mi disse, diventando il ritratto della felicità

“E allora si…voglio sposarti.”

Mi infilò l’anello al dito e mi abbracciò trascinandomi sotto la pioggia.

“Sta piovendo…”protestai scherzando

“E tu hai degli occhi bagnati da consolare.”

“Ti amo, indiscutibile idiota.”

“Ti amo anch’io”
 



 
 
*************


La la laaaaaa
Finita.
È stato un parto. Non sapevo come concluderla ma ho optato per il lieto fine. Per questo c'ho messo un po'.
Non ho molto da aggiungere. Se vi interessa vi lascio i titoli delle canzoni che ho citato, per pura curiosità.
Grazie a quelli che hanno letto questa storia, spero vi sia piaciuta (:
Alla prossima,
un beso. (:

°Shakalabumba!



In ordine di apparizione

Francesco Guccini - Canzone delle osterie di fuori porta
Francesco Guccini - L'avvelenata
Modena City Ramblers - In un giorno di pioggia
Modena City Ramblers - La strada

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1865910