Dove ci sei tu, ecco, quella è casa mia

di Latis Lensherr
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Primo sorriso ***
Capitolo 3: *** Come sabbia tra le dita ***
Capitolo 4: *** Resta con me ***
Capitolo 5: *** Il ricordo del Cappello Parlante ***
Capitolo 6: *** Domenica pomeriggio ***
Capitolo 7: *** Attenzioni indesiderate ***
Capitolo 8: *** Il nome inciso ***
Capitolo 9: *** Appuntamento a mezzanotte ***
Capitolo 10: *** Little Hangleton ***
Capitolo 11: *** Riunione di famiglia ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


A Erodiade,
per la sua pazienza;
per il suo sostegno;
per il suo affetto.
 
Per il suo compleanno.

 
 
Capitolo uno: Prologo
 
 
Il suono spezzato della Smaterializzazione si disperse veloce, inghiottito dal silenzio opprimente che dominava la stradina completamente deserta.
Un silenzio che Albus Silente non poté fare a meno di considerare innaturale: era il 31 Ottobre, la notte di Halloween, e non c’era ombra di bambini che, avvolti in costumi di cartapesta e reggendo sacchetti ricolmi di dolciumi e aspettative, gironzolassero da una porta all’altra delle tante casette a schiera perfettamente allineate l’una accanto all’altra.
Il silenzio opprimente dominava la stradina completamente deserta.
Nessuno che passeggiava lungo i marciapiedi.
Nessuno che portava a spasso il cane.
Nessuno che si accertasse di cosa fosse successo nella casa gravemente smembrata dall’altro lato della strada.
Quando Silente arrivò davanti alla dimora silenziosa e desolata dei Potter era già stato informato per filo e per segno di ciò che era avvenuto soltanto poche ore prima. Ciò che aveva più temuto – e che aveva cercato di impedire attraverso l’Incanto Fidelius – alla fine era accaduto.
Era accaduto, ma con conseguenze del tutto inaspettate. E insperate.
Il bambino, il piccolo Harry Potter – il cui nome era già sulla bocca di tutti i maghi e le streghe d’Inghilterra – era stato trasferito in fretta in un luogo sicuro: Lord Voldemort poteva anche essere davvero morto, come tutta la Comunità Magica ardentemente sperava, ma il vecchio mago sapeva bene che quell’uomo si era immischiato troppo profondamente nelle Arti Oscure e che avrebbe potuto benissimo tornare da un momento all’altro, quando uno meno se lo aspettava.
Se ciò fosse accaduto, lui di certo non si sarebbe sorpreso.
I poveri corpi di James e Lily, invece, si trovavano ancora fra le mura. Nonostante il grande rammarico che ciò gli procurava, per quelli se ne sarebbe potuto occupare il Ministero in seguito, con più calma. In quel momento non c’era più nulla che si potesse fare per loro…
Il mago attraversò lentamente il piccolo vialetto d’ingresso sul davanti della casa e passò per la porta scardinata e ridotta a pezzi che dava direttamente sul salotto. James Potter era riverso scompostamente per terra, vicino al divano dilaniato, con gli occhi fissi e sbarrati rivolti al soffitto e i suoi inconfondibili occhiali da vista che penzolavano da un orecchio, dal quale strisciava inquietante un rivoletto vermiglio. Le lenti erano spezzate in più punti.
Il mago fece un profondo respiro e spostò lo sguardo: sebbene avesse visto innumerevoli cose nel corso della sua vita, e alcune molto più terribili, si ritrovò incapace di sopportare la vista di quello spettacolo straziante. Decise quindi di concentrarsi sulle condizioni della casa. Lord Voldemort doveva aver attribuito a quella missione la massima importanza e, infatti, ci aveva messo tutto l’impegno di cui era stato capace. La stanza sembrava avere assistito in un silenzio impotente al passaggio di un uragano, il quale, senza pietà né compassione, aveva distrutto la maggior parte degli oggetti e dei mobili che decoravano le pareti e gli angoli. Quello era anche il segno che il padrone di casa aveva fatto tutto ciò che era stato in suo potere per proteggere la sua famiglia.
Con un sospiro il mago prese le scale e cominciò a salire al piano superiore dove, secondo ciò che gli era stato riferito dalle ricostruzioni degli eventi di chi c’era già stato, si era consumata la tragedia. Non gli fu difficile trovare la cameretta del piccolo Harry: l’Oscuro Signore aveva lasciato impronte precise e nette della sua fatale ed inarrestabile marcia di morte. Anche lì la porta era stata letteralmente fatta a pezzi – i mobili messi ad ostacolo non avevano potuto impedire nulla. All’interno, il caos era assoluto e atroce: la sfortunata Lily Potter giaceva a terra, rannicchiata e circondata e ricoperta dai pannolini del suo bambino, dalle copertine della culla e dai detriti caduti dalle pareti. I frammenti di vetro delle finestre erano volati ovunque.
Era orribile. Orribile.
Silente si sfilò gli occhialetti a mezzaluna e si passò una mano sugli occhi, stanchi di essere costretti a vedere tanto orrore tutto in una volta. Solo un’ultima occhiata e se ne sarebbe andato: anzi, non avrebbe mai dovuto nemmeno avventurarsi lì, come aveva deciso di fare Minerva. Eppure, come il canto ammaliante e ipnotico delle sirene che anni indietro aveva imparato a comprendere, quella casa lo aveva richiamato a sé. E gli aveva confessato in un sussurro melodioso che lì, racchiuso dentro a quelle pareti ricolme di dolore, c’era qualcosa.
Qualcosa che doveva vedere. Ma cosa?
Intorno a lui c’era solo la morte, che stonava in modo raccapricciante con i colori pastello allegri e solari della cameretta di un bambino. Cosa doveva vedere?
Girò per alcuni minuti all’interno della piccola stanza, esaminando la carta da parati lacerata, il carillon e i giocattoli distrutti, le tende strappate e i mobili lanciati nelle posizioni più assurde. Stava per perdere le speranze di trovare ciò che cercava, quando la sua attenzione fu attirata dall’angolo della stanza di fronte alla porta d’ingresso. In quel punto, il grosso e pesante fasciatoio bianco si era rovesciato pericolosamente su un fianco: sarebbe certamente caduto a terra, se non fosse stato per il muro che lo aveva sorretto. Le persone che erano state lì prima di lui dovevano avere pensato esattamente la stessa cosa. Però quelle stesse persone erano state troppo frettolose e agitate per accorgersi che il fasciatoio non era appoggiato al muro: c’era qualcos’altro, sotto, che gli aveva impedito di schiantarsi al suolo.
Il mago si avvicinò cautamente e, dopo essersi assicurato che non ci fosse alcuna avvisaglia di pericolo, con estrema delicatezza riposizionò correttamente il mobile allontanandolo soltanto il necessario.
Tom Riddle, fu la prima cosa che la sua mente gli suggerì, per quanto irrazionale potesse essere. Ora troverò il cadavere di Tom Riddle.
In effetti sotto il fasciatoio si nascondeva un corpo, ma non quello dell’Oscuro Signore. Era piccolo e si era raggomitolato in posiziona fetale, così che fosse quasi impossibile intravederlo nascosto in quell’angolino.
Il vecchio mago si inginocchiò lì vicino e lo sollevò sulle braccia. Il petto gli si contrasse in uno spasmo dolente, dopo che gli occhi azzurri ebbero sondato il viso fino a riconoscere la persona al quale apparteneva.
< Oh, mia cara…>
Pronunciò quelle parole con un tono a metà fra la disapprovazione e lo sconforto.
Le scostò gentilmente una lunga ciocca di capelli neri dalla fronte: aveva gli occhi serrati e la bocca appena socchiusa, come se si fosse semplicemente addormentata e lo fosse ancora in quel momento.
Ma era morta. Il cuore aveva smesso di battere.
Rimase ad osservarla in silenzio. Si sorprese nel constatare che, guardandola, non sarebbe riuscito a darle più di trenta, forse quarant’anni. Le rughe intorno agli occhi e alla bocca erano sottili ed appena accennate, il seno aveva perso solo un’irrisoria parte della sua giovanile freschezza e il viso, nonostante la magrezza preoccupante, aveva conservato una pesante ombra dei suoi tratti infantili.
Sembrava avere a malapena trent’anni, quando invece avrebbe dovuto dimostrarne quasi il doppio: gli effetti delle sperimentazioni dell’Oscuro Signore avevano avuto conseguenze più tangibili di quanto avesse mai immaginato.
Indossava degli abiti ordinari, una lunga gonna di cotone nera e sbiadita e un soffice maglione di lana azzurrino di decisamente qualche taglia più grande, le cui maniche erano talmente lunghe da coprirle una buona metà della mano.
Sembrava così normale. Nessuno avrebbe scommesso un solo galeone su di lei.
Nessuno avrebbe scommesso un galeone su quella donna dall’aspetto tanto ordinario e insignificante.
Eppure, quella donna, altri non era che la compagna di Lord Voldemort.
 
 
Albus Silente le scostò la ciocca corvina per un’ultima volta, prima di guardarla: era un incanto.
I capelli erano stati lavati accuratamente e in quel momento le ricadevano morbidi, con i piccoli boccoli sulle punte che le coprivano le spalle e il cuscino di seta color perla sotto il capo. Il vestito era bianco e lungo e la faceva sembrare una di quelle principesse di cui i Babbani amavano raccontare nelle loro fiabe, in attesa del bacio d’amore del principe che avrebbe dovuto risvegliarla da quel sonno simile alla morte. Lo avevano trovato alcuni membri dell’Ordine della Fenice che, avvalendosi della loro carica di Auror, si erano recati alla dimora dell’Oscuro Signore oramai abbandonata da tutti i Mangiamorte – tranne dai più sfortunati che furono catturati – dopo la notizia della scomparsa del loro signore e padrone. Sapendo che il vecchio mago si stava occupando della salma gli avevano consegnato l’elegante indumento.
Un abito da sposa: il simbolo di una promessa fatta tanti anni prima, quando le intenzioni erano salde e sincere, ma che si era lentamente lasciata dimenticare tra la polvere del fondo di un armadio, mentre nuovi e più gloriosi obiettivi si facevano prepotentemente strada.
Il sepolcro non era molto grande e costruirlo aveva richiesto solo qualche giorno. Lo aveva collocato al limitare della Foresta Proibita e le fredde pareti di marmo bianco venato, lo stesso usato anche per la tomba in cui era stato deposto il corpo, rendevano l’ambiente desolato e poco accogliente. Soltanto i numerosi vasi di fiori colorati davano un po’ di sollievo. Aveva deciso di porvi un incantesimo, affinché il tempo non potesse intaccarli; perché potessero mantenere la loro bellezza. Così che i colori accogliessero chiunque avesse deciso di varcare quella soglia, in futuro.
< Anche tu ti manterrai, mia cara > le sussurrò dolcemente, lasciando scorrere una carezza gentile sulla paffuta guancia fredda. < Rimarrai intatta. Così, quando lui tornerà, ti troverà esattamente bella come ti ricordava.>
Rimase in piedi vicino a quel capezzale per molto tempo ancora, incapace di andarsene e completamente smarrito nelle sue riflessioni.
Anche molti anni più avanti, Albus Silente non fu mai in grado di spiegare ciò che lo spinse, a un certo punto, a estrarre la sua vecchia bacchetta dalle pieghe della veste.
Affetto, per quella sfortunata e travagliata vita che non meritava di essere semplicemente abbandonata in un freddo ed eterno oblio?
Dovere, verso la Comunità Magica che si era ripromesso di proteggere e di salvare?
O semplice, egoistica curiosità?
Mentre allungava la punta della bacchetta verso la fronte della donna, fino a toccarla, si ritrovò a pensare che, in fin dei conti, nessuno avrebbe potuto biasimarlo: chi avrebbe gettato al vento la possibilità di conoscere il più grande Mago Oscuro di tutti i tempi fin nelle viscere, in profondità mai svelate né conosciute?
Nessuno. Davvero, nessuno.
La stecca di legno picchiettò lievemente sulla pelle congelata mentre il vecchio mago pronunciava le parole dell’incantesimo a mezza voce. All’istante, un sottile e flessuoso filo argentato cominciò a fuoriuscire, facendosi sempre più lungo, più lungo ancora. Senza indugiare, lo chiuse rapidamente nel primo contenitore a portata di mano che era riuscito a trovare e lo bloccò. In seguito gli avrebbe trovato una sistemazione più degna.
Quando finalmente decise di chiudersi la porta del sepolcro alle spalle, la matassa di ricordi brillava nelle sue mani come una stella ardente.
 
 

҂
 
 
Sedici anni dopo
 

 
Il verde smeraldo degli occhi di Harry Potter ha assunto un’ipnotica tonalità argentata, mentre osserva il contenuto fluttuante e immateriale del Pensatoio girare su se stesso lentamente.
Il preside di Hogwarts, Albus Silente, potrebbe scommettere che la sua espressione, oltre che dalla determinazione, sia sporcata da una lieve ma chiara sfumatura di ansietà. Dopotutto, però, lo comprende: quel povero ragazzo ha avuto dei pessimi precedenti con quell’oggetto magico dal bordo istoriato.
Continua a osservarlo in silenzio con uno sguardo gentile, attendendo il momento in cui si sentirà abbastanza pronto per cominciare. Non è la prima lezione di quel tipo che fanno, no: hanno già visionato i ricordi di Bob Ogden e una parte del suo, pure quello originale del professor Lumacorno; quindi Harry è perfettamente cosciente di ciò a cui sta andando incontro.
Spera che sia abbastanza preparato anche per quell’ennesima sfida…
La mano annerita – e irrimediabilmente compromessa – del vecchio mago giocherella distrattamente con il tappino di vetro della piccola e sottile ampolla. Ha dovuto soffiarci sopra un paio di volte prima che la polvere accumulata nel tempo decidesse di arrendersi: da quando è entrato in possesso di quei ricordi, oramai ben sedici anni prima, li ha visionati soltanto un’altra volta. Non è più riuscito a riprenderli in mano. Solo con il ritorno di Lord Voldemort, l’anno precedente, si è visto costretto a fare violenza su se stesso, affinché il contenuto di quella piccola e dimenticata boccetta tornasse fra le pareti lisce dello strumento di pietra.
Quando finalmente il ragazzo decide di rompere il silenzio, il suo volto è ancora rivolto verso l’ammasso argentato ma i suoi vividi occhi verdi scrutano il volto del preside, cercando di ricavarne sostegno e risposte alle sue mute domande.
< Ciò che sto per vedere è molto importante, non è vero, signore?> domanda senza esitazioni, dandogli l’ennesima dimostrazione della sua incondizionata – e immeritata – fiducia.
< Sì, Harry > risponde il vecchio, pacato. < Ritengo che sia più importante di tutto ciò che abbiamo visto finora. Oltre che particolarmente interessante.>
Il ragazzo torna ad abbassare per un’ultima volta lo sguardo, facendo un breve cenno affermativo con la testa, come se stesse archiviando con cura quell’ultima informazione in qualche schedario all’interno della sua testa. Subito dopo, raddrizza la schiena e chiede di nuovo, senza più nessuna traccia di indugio:
< Di chi sono questi ricordi, signore?>
Senza mai interrompere il contatto fra i loro sguardi, Silente usa la mano buona per far scorrere sulle proprie guide uno dei cassetti della sua scrivania. Ne estrae un oggetto rettangolare e sottile e lo fa scivolare sul ripiano verso il ragazzo, che impiega meno di un secondo per capire di cosa si tratta. Il sorriso incerto e un po’ impacciato di una ragazza, di circa la sua età, all’interno di una foto in bianco e nero ricambia il suo sguardo, mentre il preside domanda a sua volta:
< Dimmi, ragazzo mio: hai mai sentito parlare di Phoebe Hool?>
 
 
 
Note dell’autore.
 
 
Salve a tutti!
Per chi mi conosce già e per chi invece non mi conosce affatto, io sono Latis Lensherr.
Devo ammettere di essere molto emozionata: dopo un anno dall’ultimo aggiornamento di questa mia long, FINALMENTE riprendo a pubblicare le disavventure di Tom e Phoebe.
Sono così emozionata che mi tremano le dita…giuro!
 
Come vi avevo promesso, la storia riprende mantenendo la stessa trama ma aggiungendo anche numerosissime novità.
Parliamo proprio di queste nella mia solita carrellata di precisazioni – per chi non mi conoscesse, scoprirete presto che io ho SEMPRE qualche precisazione da fare :)
 
 
HARRY & SILENTE. Sono decisamente loro la novità principale. Anche nella versione precedente c’erano state alcune comparsate di Silente, ma erano decisamente più brevi e sporadiche e poco approfondite. E poi non c’era Harry! Ecco, nella mia nuova stesura ci sarà molto più spazio per le loro chiacchierate, che avranno un po’ la funzione di chiarire alcuni concetti e passaggi complicati, permettermi di saltare lunghi periodi di tempo e mettere ancora più in evidenza quella sorta di “indagine storiografica” che i due stanno compiendo attraverso i ricordi di Phoebe.
Questi spezzoni, come avrete già notato, saranno tutti introdotti dal seguente simbolo ҂ e si differenzieranno dal resto della narrazione perché saranno descritte al presente. So che a qualcuno potrebbe un po’ dare fastidio, ma vi prego di capirmi: se avessi scritto tutto nello stesso modo avrei rischiato di confondere voi e pure me XD
 
 
I RICORDI DI PHOEBE. In una recensione precedente, mi era stato fatto notare che, effettivamente, i ricordi di una persona non possono essere “presi” senza il consenso di quest’ultima. Qui Phoebe è addirittura morta, quindi chissà quale consenso poteva dare. Questa piccola precisazione è solo per farvi sapere che sono consapevole dell’errore e che non intendo in alcun modo correggerlo perché sono brutta, cattiva e crudele e voglio fare sempre come voglio io…e voglio pure conquistare il mondo! Muhahahhahhahahhahahah!
 
 
A QUANDO IL SECONDO CAPITOLO?! Come avevo già anticipato, ho deciso di pubblicare UN CAPITOLO OGNI QUINDICI GIORNI o DUE SETTIMANE. Un po’ per permettere anche a me di continuare a portarmi avanti con i capitoli successivi senza troppa ansia ^^
Quindi, se oggi è il 27 maggio, il prossimo capitolo verrà pubblicato su questi canali…LUNEDI 10 GIUGNO!
 
 
Prima di salutarvi e liberarvi finalmente della mia fastidiosa presenza, volevo riservare un ringraziamento speciale a tutte le ragazze che, in questo anno di assenza, mi hanno cercato privatamente per avere notizie su di me e la mia storia e che mi hanno fatto partecipe del loro meraviglioso affetto verso il mio lavoro.
Vi ringrazio davvero di cuore: se oggi questo nuovo capitolo è finalmente pubblicato, il merito è anche e soprattutto vostro. GRAZIE!
 
 
E ANCORA UN GRANDISSIMO AUGURIO DI UN FELICISSIMO COMPLEANNO ALLA MIA ADORATA ERODIADE: senza le sue spaventose minacce di morte e le meritatissime tirate d’orecchio (le mie, tanto per precisare XD) probabilmente non sarei qui a tormentarvi con i miei sproloqui. Quindi...è colpa sua, prendetevela con lei!
BUON COMPLEANNO, TESORO MIO!
 
 
E con questo è tutto.
Spero davvero che questo breve Prologo vi sia piaciuto.
Per chi volesse, ci rivediamo tra quindici giorni!
 
Un bacio. Latis.

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Capitolo 2
*** Primo sorriso ***


Capitolo due: Primo sorriso
 
 
Gli occhi verdi di Phoebe Hool si aprirono con cautela, quando finalmente il russare rumoroso della donna addormentata accanto a lei giunse alle sue orecchie. La testolina piena di capelli neri sbucò da sotto le lenzuola bianche, come un timido funghetto che si fa largo fra gli steli d’erba d’un prato. Si mise a sedere e sbatté le palpebre un paio di volte per permettere alle pupille di abituarsi alla scarsità di luce, guardandosi intorno con curiosità: quando l’avevano condotta nella stanzetta occupata dalla levatrice dell’istituto – che per quella sera sarebbe stata anche la sua stanza – non era riuscita ad osservarla più di tanto. Era una camera abbastanza grande da contenere un letto matrimoniale e priva di finestre, ricavata con tutta probabilità da un vecchio ripostiglio. Gli unici mobili presenti erano uno stretto e alto armadio e un comodino, sul quale spiccavano fotografie di bambini dai sorrisi sdentati e di un’anziana coppia a braccetto. La porta dava direttamente sull’atrio d’ingresso illuminato dalle lampade a gas ed era stata lasciata appena un po’ aperta: quando Phoebe glielo aveva chiesto con tono leggermente supplichevole, l’assistente della direttrice che aveva avuto il compito di metterla a letto le aveva sorriso e non aveva avuto il coraggio di scontentarla. Non che avesse paura del buio, no, figuriamoci: ma restare al buio non le piaceva proprio, no no!
Prima di scivolare giù dal materasso e toccare il pavimento freddo con i piedini scalzi, sventolò una manina davanti alla faccia rotonda della levatrice per assicurarsi che stesse effettivamente dormendo profondamente. La camicia da notte emise un lieve fruscio quando, inginocchiata per terra, cercò a tastoni la sua vecchia valigia logora, testimone degli innumerevoli passaggi da un orfanotrofio all’altro. Da quello che le riusciva di ricordare, aveva passato la maggior parte della sua breve vita seduta sul sedile di una carrozza sgangherata con un bagaglio adagiato sulle ginocchia. Aveva poco più di otto mesi quando qualcuno aveva bussato con urgenza alla porta dell’umile casa di un’anziana donna scozzese, da poco rimasta vedova, la quale si era ritrovata sullo zerbino davanti all’ingresso un fagottino scalciante e gorgogliante.
Non una lettera.
Non una traccia o un indizio che potesse aiutarla a rintracciare i genitori o i parenti dell’infante.
Solo una copertina bianca e malandata: e un nome, ricamato maldestramente vicino ad un angolo bucherellato. Hool.
Nessuno sembrava avere qualche relazione con quel semplice cognome o conoscere qualcuno al quale appartenesse. Dopotutto, chiunque avrebbe potuto abbandonarla lì ed andarsene: commercianti di passaggio che si dirigevano verso i mercati più ricchi di Edimburgo; profughi che fuggivano verso l’America o che stavano scappando proprio da essa. Zingari; briganti ricercati dalla polizia e fanciulle ingravidate in modo disonorevole…la lista poteva andare avanti all’infinito.
Non avendo la capacità finanziaria per poter mantenere nemmeno se stessa, la donna aveva intrapreso un lungo e faticoso viaggio per accompagnare la piccola in un modesto ma ben tenuto orfanotrofio nella vicina Glasgow.
Da quel giorno la bambina aveva passato la sua vita fra le mura di qualche istituto per l’infanzia. Qualcuno si era preoccupato di darle il nome di Phoebe e qualcun’altro aveva provveduto a far scomparire anche l’ultimo – flebile, sbiadito – ricordo di una famiglia.
I lunghi viaggi erano iniziati poco dopo il suo terzo compleanno. Era il 1929 e il mondo stava affrontando forse la più grave crisi finanziaria di tutta la storia dell’umanità: gli orfanotrofi di tutto il Regno Unito, che già si accontentavano dei magri finanziamenti che il Governo concedeva loro, si erano visti sottrarre anche quelli. In mancanza di soldi e di appoggi per mantenere i piccoli ospiti, molti istituti minori erano stati costretti a chiudere i battenti e a trasferire i bambini in strutture più fortunate. In quel modo, Phoebe Hool aveva viaggiato per quasi l’intera nazione inglese, partendo dalla Scozia – Dumfries, New Castle, Southport, Leicester, Luton – e arrivando infine nel più grande orfanotrofio della capitale, con la solita valigia rattoppata e nessun particolare desiderio, bisogno, di fermarsi in maniera definitiva.
Aprì il bagaglio e strinse contro il piccolo petto un fagottino che Lynette, la ragazza che si occupava di lei nel precedente istituto, aveva preparato appositamente la sera prima ponendolo sopra la piccola pila dei suoi vestiti ripiegati.
Uscì dalla stanza in punta di piedi.
L’atrio sembrava apparentemente deserto: con tutta probabilità la sorvegliante di turno si era addormentata nel suo gabbiotto e così nessuno notò la corsa impacciata della piccola Phoebe, che raggiunse in pochi istanti le scale di pietra e cominciò a salirle un gradino per volta. Quando passò sotto ad una grossa lastra di marmo appesa alla parete ruvida, si fermò ad osservare le lettere perfettamente colorate e incise nella pietra con il naso all’insù. Aveva compiuto sei anni da qualche mese e la sua capacità di leggere era ancora parecchio incerta e zoppicante, ma riuscì ugualmente a comprendere che quella era una sorta di insegna che aveva il compito di commemorare il trentesimo anniversario dall’apertura dell’istituto per l’infanzia londinese di Wool’s. Continuò tranquillamente la sua marcia silenziosa.
Arrivata al pianerottolo del primo piano si guardò intorno strizzando gli occhi nella penombra. Aveva già afferrato la maniglia della prima porta sulla destra quando le tornò in mente che la stanza che stava cercando si trovava al secondo piano. Strinse con un più forza l’involto al petto e raggiunse la rampa di scale saltellando.
Phoebe Hool aveva varcato l’ingresso di ferro dell’orfanotrofio quella mattina presto, quando il sole era ancora un grigiore appena accennato nel cielo notturno, in compagnia di altri cinque bambini. La direttrice – una donna tanto rinsecchita quanto severa che tutti chiamavano semplicemente Signora Cole – li aveva ricevuti in maniera frettolosa, abbandonando i modesti bagagli nell’atrio d’ingresso e facendo sistemare i nuovi ospiti nella grande mensa deserta con piatti ricolmi di pane e burro.
Il resto della popolazione dell’orfanotrofio li aveva raggiunti in poco meno di mezz’ora, ognuno con la propria divisa grigia e malinconica, riempiendo così la sala di un confortante chiacchiericcio che rimbalzava sulle pareti. Intorno al piccolo gruppetto si era immediatamente formato un capannello di bambini curiosi ed eccitati. C’era chi poneva domande sul loro precedente istituto o sul colore delle loro vecchie divise; chi chiedeva se il paesino di Luton fosse tanto diverso da Londra e se era vero che da quelle parti mangiavano solo zuppa di cavoli. E c’era chi, invece, si offriva di far loro da cicerone, guidandoli nelle varie zone dell’edificio, o di aiutare i più piccoli – la stessa Phoebe e un bimbo di appena quattro anni e mezzo di nome Dorsey – a mangiare e vestirsi. Un certo Eric Whalley, uno dei bambini più grandi, aveva tenuto banco in modo particolare. Mentre spalmava distrattamente generosi strati di burro sulle fette di pane, si era lanciato in un lungo monologo nel quale aveva elencato ai nuovi arrivati le varie regole e orari che si dovevano rispettare alla Wool’s; ciò che faceva imbestialire la direttrice e ciò che poteva evitare loro una permanenza prolungata nella famigerata “Stanza”. E per terminare aveva dato una descrizione molto vaga degli altri bambini presenti nell’orfanotrofio.
Eric li aveva rassicurati che non avrebbero avuto nessun tipo di problema con il resto del gruppo: specialmente se si tenevano a dovuta distanza da un certo Tom Riddle…
< Perché? Chi è Tom Riddle?> aveva domandato uno dei bambini di Luton.
< E’ un bambino spaventoso!> era intervenuta una ragazzina con le lentiggini, abbassando di parecchio il tono di voce. < Ha sempre vissuto nell’orfanotrofio e qualcuno dice che sua madre si sia lasciata morire perché non riusciva più a sopportare la sua presenza.>
< Anche i ragazzi più grandi hanno paura di lui!> aveva aggiunto un altro bambino con un singhiozzo.
Eric Whalley aveva fatto un cenno per ottenere il silenzio e, con fare cospiratorio, aveva spiegato:
< Più di una volta sono capitate delle cose molto strane da queste parti…e tutte le volte Riddle era presente o comunque nei paraggi. Nessuno riesce a stare da solo nella stessa stanza con lui senza scappare urlando. E la Signora Cole non vuole ammettere apertamente le sue stranezze, ma lo sanno tutti che il coniglio di Billy Stubbs non si è ammazzato da solo…>
< Che tipo di stranezze?>
< Porte e finestre che si aprono e si chiudono per conto loro. Bambini che si fanno male senza sapere come. Compare alle spalle silenzioso come un fantasma. Fa cose strane. Come delle magie!>.
Fino a quel momento Phoebe Hool non aveva minimamente prestato attenzione ai discorsi intorno a lei, troppo impegnata com’era a raggiungere il piatto su cui stava il pane con il braccio proteso sopra il tavolo. Ma l’ultima parola pronunciata da Eric Whalley l’aveva richiamata come il trillo di un campanello.
< Magie?!> aveva domandato con la bocca piena di pane. < Chi fa le magie?>
Tutti i bambini con le divise grigie avevano indirizzato con cautela i propri sguardi verso un tavolo poco lontano, dove un ragazzino magro e pallido terminava in silenzio la propria colazione senza prestare attenzione a nessuno.
Raggiunse il pianerottolo del secondo piano con un pizzico di euforia che sfarfallava in mezzo al petto.
Si avvicinò frettolosamente alla prima porta sulla destra e riuscì ad aprirla al secondo tentativo, quando si alzò sulle punte dei piedi per abbassare la maniglia. La stanza era parecchio stretta e, nonostante la finestra posizionata sul muro opposto, illuminata solo dalla falce di luce che la porta socchiusa proiettava all’interno. Intravide le sagome scure di un armadio dalle ante spesse, di un paio di comodini, di una scrivania di legno e di una seggiola divorata dalle tarme. I lettini in ferro erano due ma solo quello attaccato alla parete di sinistra era occupato da un rigonfiamento sotto le lenzuola. Lasciando la porta aperta, Phoebe entrò nella stanza e si avvicinò. Il bambino dormiva su un fianco dandole le spalle, la nuca scura era abbandonata senza riserve sul cuscino e le lenzuola si erano ammassate intorno alle spalle: si sollevavano a ritmo del suo respiro e lasciavano intravedere le righe blu verticali del pigiama.
La mano della piccolina artigliò saldamente il tessuto e cominciò a strattonarlo con forza. L’altro emise subito un mugugno infastidito e si girò supino sul materasso, mentre usciva lentamente dal dormiveglia stropicciandosi un occhio. Era ancora così assonnato che rimase alcuni secondi a fissare l’altra persona presente nella stanza senza capire. Nel momento in cui la coscienza riaffiorò, gli occhi scuri si spalancarono e il resto del corpo si irrigidì. Si mise a sedere con uno scatto e cercò a tastoni la manovella della lampada a gas sistemata sul comodino vicino, senza staccarle gli occhi di dosso nemmeno per un momento. La luce cruda e giallognola si diffuse all’istante disperdendo le ombre.
Il ragazzino seduto sul letto rimase a squadrarla per un po’ con espressione ostile, come se stesse valutando il suo grado di pericolosità. I suoi occhi attenti si soffermarono sui lineamenti smunti del viso e sui capelli scuri tagliati a caschetto, sulla povera camicetta da notte e sui grandi occhi verde bottiglia.
Phoebe Hool ricambiava lo sguardo indagatore dell’altro con uno curiosamente perplesso. E siccome le sembrò che l’altro non avesse alcuna intenzione di parlare per primo, alzò cautamente la mano e salutò muovendola appena:
< Ciao…>
< Chi diavolo sei tu? Cosa ci fai nella mia stanza?!> le ruggì contro lui all’istante, senza lasciarle nemmeno il tempo di terminare la frase.
< Io mi chiamo Phoebe > disse, indicandosi con un dito puntato contro il petto. < Tu sei Tom, giusto?>
< Non sono affari tuoi! Ho detto: cosa ci fai nella mia stanza.>
< Gli altri bambini dicono che tu fai le magie. Voglio vederne una anch’io > spiegò la bambina, alzandosi un poco sulle punte dei piedi.
Il ragazzino rimase in silenzio per una manciata di secondi, continuando a studiarla con il mento leggermente alzato. Il labbro inferiore ebbe una contrazione quasi impercettibile mentre domandava in tono asciutto:
< E cos’altro dicono gli altri bambini?>
< Non lo so > rispose semplicemente lei con un’alzata di spalle. < Me la fai vedere una magia, adesso?>
< No; sparisci!>
< Ti prego, ti prego! Solo una! Ah…aspetta. Ti ho portato una cosa > farfugliò tutta agitata, mentre si inginocchiava e poneva il fagotto bianco sul pavimento davanti a lei. Disfò il nodo solo dopo qualche tentativo, poi si rialzò.
Nel frattempo, l’altro si era sporto silenziosamente oltre al letto per sbirciare ciò che stava facendo.
< Ho portato i miei giocattoli: se tu mi fai vedere una magia, io te ne regalerò uno. Ma uno solo!> precisò la bambina. Si accucciò di nuovo a terra e ritornata in posizione eretta appoggiò un malconcio balocco di legno sul materasso, aggiungendo: < Questo è il mio trenino. Ti piace? Puoi prenderlo, se vuoi.>
< Non lo voglio > sputò Tom, facendo cadere l’oggetto sul pavimento con una manata.
Phoebe rimase a fissarlo per un secondo e subito dopo tornò ad abbassarsi verso il pavimento, senza scomporsi e riempiendosi le mani di tutti i giocattoli rimanenti. Sulle lenzuola vicino al ragazzino si posarono una raganella, una trottola dai colori incrostati, una corda per saltare troppo corta e una cartolina spiegazzata di un paesino sperduto e disperso nella nebbia. La piccola fece scorrere i grandi occhi verdi sui suoi poveri averi, prima di riprendere dicendo:
< Questi sono gli altri. Prendi quello che ti piace di più. Ho anche un quadretto di cioccolata, se la vuoi!>
< Non voglio niente > ribatté irritato l’altro, quando la bambina gli porse il fazzoletto che avvolgeva il dolcetto. < Vai via!>
< Ma io voglio vedere una magia!> protestò lei con tono piagnucoloso.
Tom Riddle era a un passo dall’esasperazione. Si mise in ginocchio sul proprio letto e lanciò un’occhiataccia furente a quella fastidiosa marmocchia che se ne stava aggrappata al bordo del suo materasso.
Voleva una magia?! Ebbene l’avrebbe avuta! Avrebbe fatto in modo che quella mocciosa si pentisse amaramente di essere andata a ficcare il naso in camera sua e di averlo importunato a quel modo. L’avrebbe fatta scappare a gambe levate nella sua stanza, nello stesso identico modo in cui faceva fuggire terrorizzati tutti gli altri bambini dell’orfanotrofio. Sarebbe scappata via e avrebbe cercato conforto e protezione dalla Signora Cole. Con tutta probabilità si sarebbe beccato una bella punizione, ma ne sarebbe valsa la pena!
Per prima cosa puntò gli occhi scuri in direzione dell’ingresso rimasto aperto: all’istante la porta di legno, come sospinta da una folata di vento particolarmente forte, si chiuse sbattendo. Phoebe sussultò visibilmente e si voltò da quella parte con gli occhi sbarrati.
Senza perdere tempo, poi, Tom mosse il proprio sguardo sulla lampada a gas. Socchiuse appena le palpebre mentre cercava la concentrazione necessaria. Gli ci vollero solo pochi secondi e il pesante oggetto di metallo cominciò a vibrare sul ripiano, prima solo lievemente e in seguito sempre più chiaramente
E poi si sollevò.
Un centimetro. Due, tre, quattro!
Quando ebbe superato di parecchio le loro teste, la lampada cominciò a muoversi velocemente per la piccola stanza. Compì svariati giri e roteò diverse volte su se stessa; passò avanti e indietro davanti alla finestra e sfrecciò sotto la scrivania; sopra l’armadio. Sfiorò pericolosamente la testa della bambina scompigliandole i capelli: Phoebe seguiva i movimenti della lampada a gas con la bocca spalancata e il naso all’insù, ammutolita e affascinata.
Solo quando fu soddisfatto e praticamente certo di averla impressionata a dovere, il ragazzino ordinò alla luce di tornare alla sua posizione di partenza con un breve cenno del capo. E quella, ubbidiente, ritornò sopra al comodino dove si fermò immediatamente.
A quel punto Tom poté riportare il suo sguardo trionfante sulla piccoletta che, ancora con la bocca aperta a formare una O, lo fissava completamente sbalordita. Ma l’espressione arrogante gli morì in viso quando il disorientamento dell’altra si trasformò in qualcosa d’altro. Si sarebbe aspettato di tutto: pianti e singhiozzi; strilli spaventati e labbra che tremavano. Mani che artigliavano spasmodicamente l’aria e piedi che si muovevano all’indietro nel disperato tentativo di raggiungere la porta.
Si sarebbe aspettato di tutto: tranne quell’ampio sorriso gioioso e accalorato che le illuminò l’intero viso.
Phoebe Hool non lo avrebbe mai saputo, ma quello fu il primo sorriso che il giovane Tom Riddle avesse mai ricevuto da qualcuno in tutta la sua vita. Un sorriso vero, sincero, diverso da tutti quelli di circostanza che si era abituato a vedere sulle facce di adulti e bambini quando si rivolgevano a lui.
Un sorriso vero, sincero…e tutto per lui!
Per lui e per le meraviglie che era in grado di fare.
Ma lui non sapeva come comportarsi di fronte a un sorriso.
Fu per questo motivo che il ragazzino rimase a fissare Phoebe con un’espressione a metà fra il perplesso e il risentito – incapace per la prima volta in vita sua di trovare le parole per rispondere a un’altra persona – anche quando la bambina esclamò entusiasta:
< E’ stato fantastico! Puoi insegnarmi come si fa?>
Quel piccolo e semplice gesto gli aveva procurato un profondo e mai provato disagio lasciandolo completamente spiazzato, così tanto da spingerlo a correre ai ripari; a correre ad alzare barriere ancora più spesse davanti a quelle che già aveva eretto. Aveva nuovamente sbarrato le porte e aveva contrattaccato con ancora più furore di prima.
< NO! TI HO DETTO DI SPARIRE, MOCCIOSA!> gridò con il viso minacciosamente vicino a quello della bambina. E senza attendere una risposta da parte sua, tornò a sdraiarsi sul letto dandole le spalle.
< E va bene > aveva risposto l’altra con tono pedante. < Se mi insegni come si fa, ti darò due dei miei giochi più metà cioccolata, va ben…>
Non terminò la frase. Come se due forti e ben strette mani invisibili l’avessero afferrata e avessero cominciato a trascinarla, una forza irresistibile le fece percorrere tutto lo spazio della stanza all’indietro fino alla porta. Non fece quasi in tempo a rendersi conto di cosa stava succedendo che era già fuori nel corridoio e con la porta sbattuta in faccia.
Ci impiegò una decina di secondi per assimilare ciò che le era capitato. Subito dopo si aggrappò alla maniglia opaca e impuntò i piedi nel pavimento tentando di forzare l’ingresso. Poi cominciò a bussare ripetutamente e a implorare a mezza voce:
< Oh, dai, ti prego! Solo una piccola piccola. Una sola!>
Quando capì che non le avrebbe aperto, qualsiasi cosa avesse fatto, gonfiò le guance paffute in una smorfia imbronciata e si incamminò amareggiata verso le scale che portavano ai piani inferiori.
A metà della rampa la sua delusione diventò ancora più cocente: si era resa conto solo in quel momento che l’altro si era tenuto la cioccolata e tutti i giocattoli.
 
 
 
 
Note dell’autore.
 
Salve a tutti: qui è la vostra Latis che vi auguro un buonissimo lunedì pomeriggio!
Non mi sembra ancora vero di essere riuscita a pubblicare puntuale ^^
Sono molto fiera di me stessa *si molla delle sonore pacche sulla spalla da sola*
 
Ma passiamo a cose più importanti.
Ecco il secondo capitolo: che ne pensate? Vi è piaciuto?!
Alla fine ha mantenuto più o meno la linea guida della vecchia versione, ma a me è piaciuto molto di più scrivere questa nuova stesura rispetto alla precedente :)
Boh, non so…mi sembra più simpatica e carina. Voi che dite?!
 
Solita sfilza di cose da dire.
 
ALTRA NOVITA’. Continuando a parlare di novità, in questo capitolo quella più lampante è sicuramente il POV di Phoebe che è diventato ancora più centrale rispetto alla vecchia versione. In questa nuova pubblicazione ho deciso che tutta la storia sarà vista attraverso gli occhi della nostra protagonista. Un po’ per marcare ancora di più il fatto che la storia procede attraverso i ricordi della ragazza e un po’ – ragione assolutamente egoistica XD – per non dover rischiare di fare troppi pezzi in cui è presente il pensiero di Tom. Eh sì, quel ragazzo mi terrorizza *Tom ride in modo malvagio* : ho sempre paura di finire nell’OOC per colpa sua. Naturalmente ci saranno ancora momenti in cui verrete a sapere cosa frulla nella testa del nostro Mago Oscuro preferito, ma saranno nettamente dimezzate per il mio egoistico piacere…muahahahahahhah!
 
ERIC WHALLEY. Per chi non conoscesse questo nome, non l’ho inventato. Questo piccolo ospite viene nominato da una delle assistenti della Signora Cole durante il ricordo di Silente all’orfanotrofio di Wool’s. Insomma…non è farina del mio sacco, l’ho preso in prestito dalla vecchia e cara zia Row. Tutto il resto invece è mio ^^
 
 
Mi sembra che non ci sia altro da aggiungere.
Per il vostro piacere, in questo capitolo sono stata breve e concisa…verrò a rompere nel prossimo, che a proposito apparirà su queste frequenze…LUNEDI 24 GIUGNO!
 
Ultima cosa: RINGRAZIAMENTI.
Devo fare un ringraziamento speciale a tutte le persone che hanno recensito lo scorso capitolo: MAYA_POTTER, LORY1989, GOSSIP_GIRL, ELYZA, SANTA VIO DA PETRALCINA, KURAPIKA95, ERODIADE e BLACKLESTRANGE.
Grazie infinite a tutte voi: il vostro entusiasmo e il vostro sostegno fanno tanto bene ;)
 
Un grazie anche a tutti coloro che hanno aggiunto la storia alle preferite, alle seguite e alle ricordate. E anche a chi ha solo leggiucchiato: io mi esalto anche solo per una visualizzazione in più XD
 
Credo che con questo sia tutto.
Ancora grazie infinite a tutti!
Ci risentiamo presto.
 
Un bacio. Latis.

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Capitolo 3
*** Come sabbia tra le dita ***


A Sofia,
intelligente, dolce e astuta.
 
Buon compleanno!

 
 
 
Capitolo tre: Come sabbia tra le dita
 
 

҂

 
 
< Come c’è riuscita?> domanda il giovane Harry Potter, tornato ad occupare il proprio posto di fronte alla scrivania.
Il vecchio mago alza uno sguardo interrogativo verso di lui, senza smettere di sondare sapientemente con la bacchetta i ricordi fluttuanti all’interno del recipiente di pietra, cercando quello necessario per proseguire la loro lezione.
< Quello che volevo dire, signore, era…ecco…> riprende immediatamente il ragazzo, agitandosi un poco sulla sedia. < Come è riuscita una bambina – diciamo – “normale” come Phoebe ad avvicinarsi a…lui?>
Albus Silente ascolta in silenzio l’obiezione del suo studente. Mette da parte la bacchetta, congiunge le mani sul ripiano lucido e, dopo averlo osservato con un intenso sguardo indecifrabile, chiede a sua volta:
< Perché ritieni che sia una cosa così inverosimile, Harry?>
< Perché lui non sa cosa sia l’affetto, l’amicizia…l’amore. Perché Voldemort non prova interesse per nessun’altro che non sia se stesso! E’ stato lei a dirmelo, signore…>
< E ne sono tuttora convinto > afferma il preside di Hogwarts, alzandosi e raggiungendo con ampie falcate il trespolo sul quale una Fanny dai colori sgargianti sonnecchia tranquilla. Le accarezza pigramente le piume morbide della testa, prima di tornare a voltarsi e aggiungere: < Ma ritengo opportuno che tu debba prendere in considerazione un punto molto importante, ragazzo mio: nel ricordo che abbiamo appena visto non c’è nessuna traccia di Lord Voldemort. Ancora non esisteva. In quella stanza insieme a Phoebe non c’era un potente mago oscuro; solo un suo coetaneo di nome Tom. Un bambino con una vita complicata e poco propenso ad instaurare relazioni profonde con gli altri, certo, ma pur sempre un bambino.
< So che può essere molto difficile pensarlo, soprattutto conoscendo le atrocità che ha commesso in seguito…però voglio che tu non ti faccia ingannare. Voglio che tu non confonda mai Tom Riddle con Lord Voldemort. Per quanto con gli anni il confine tra l’uno e l’altro si sia assottigliato a tal punto da smettere di esistere, all’inizio non era affatto così.>
Harry muove appena il capo, per far capire al professore di aver compreso ciò che sta cercando di spiegargli. Ma la sua voce suona ancora incerta quando dice:
< Continuo a non capire una cosa, signore. Cosa ha allora di tanto speciale questa Phoebe Hool?>
< Assolutamente nulla. L’unico merito che le possiamo attribuire è di essere entrata nella vita del giovane Riddle in un momento in cui lui era ancora disposto ad aprirsi agli altri, anche se in modo molto limitato. Sono dell’idea che il loro incontro avrebbe avuto un esito completamente diverso se fosse avvenuto più tardi. Se Tom Riddle e Phoebe Hool sono arrivati ad apprezzarsi e…sì, ad affezionarsi l’un l’altra, è solo perché si conoscevano fin da quando erano molto piccoli; se si fossero incontrati anni dopo, probabilmente non si sarebbero sopportati reciprocamente.>
Il ragazzo annuisce ancora, per poi abbassare il proprio sguardo sul Pensatoio. Si sente inquieto e non sa spiegarsene il motivo; è come se il professore avesse trafugato dalla sua testa una profonda convinzione e l’avesse sbriciolata con la stessa facilità con cui si distrugge un biscotto.
Il ritratto di Tom Riddle che sta scaturendo da quei ricordi è qualcosa di molto suggestivo, sì. Ma che stona prepotentemente con l’immagine del crudele mago che ha imparato a conoscere fin da quando aveva appena undici anni. Un essere malvagio e privo di scrupoli che non ha esitato nemmeno un secondo a spezzare le vite dei suoi genitori e di tante altre vittime innocenti – e che anche in quel momento sta tentando di porre fine alla sua!
Pensare a Lord Voldemort in quei termini gli rende più facile odiarlo. Odiarlo è l’unico sostegno che finora è riuscito a trovare per non cedere, per continuare a combatterlo e ostacolarlo. Ed è più facile odiarlo se pensa che non ci sia mai stato nulla di anche solo lontanamente buono in lui.
Eppure sembra che quella bambina qualcosa di buono l’avesse intravisto.
Attende che il vecchio mago ritorni a sedere di fronte a lui, prima di ricominciare:
< Quindi, a Riddle stava simpatica la nuova arrivata.>
< Oh no davvero!> ridacchia Silente, coprendosi un sorrisetto con la mano.
< Cosa?! Ma…>
< Tom Riddle detestava Phoebe Hool > spiega il più anziano, senza smettere di sorridere. < Non sopportava nulla di lei. Non sopportava il tono squillante che assumeva la sua voce quando era contenta per qualcosa e la naturalezza con la quale entrava nella sua stanza senza bussare. Non sopportava la sua insistenza nel seguirlo sempre dappertutto né il fatto che non fosse in grado di sbucciare la frutta o allacciarsi le scarpe da sola.
< Un giorno la direttrice dell’orfanotrofio annunciò a entrambi che da quel momento in poi avrebbero condiviso la stessa stanza. Probabilmente la donna scelse proprio Phoebe perché, tra i bambini che erano appena arrivati all’istituto, sembrava quella meno riluttante all’idea di dormire col famigerato Tom Riddle. Fatto sta che il ragazzino si arrabbiò così tanto che la rinchiuse in uno sgabuzzino del terzo piano con un solo schiocco di dita: le permise di uscire solo verso sera.>
< Davvero?> domanda Harry Potter, senza riuscire a trattenere una risata.
< Davvero.>
Il ragazzo riporta gli occhiali in cima al naso con un dito, in un gesto perplesso.
< Signore, da dove scaturiva tutto questo suo rancore? Tutto questo odio per le altre persone…perché preferiva restare da solo?>
< Perché era più facile, Harry. Perché non faceva male > mormora Silente, il tono ingrigito da una vena di rassegnazione. < Perché nella propria solitudine Tom poteva tenere al sicuro i suoi desideri più intimi e i suoi sogni nel cassetto, impedendo agli altri bambini di usarli per deriderlo e sbeffeggiarlo. Perché lì nessuno avrebbe osato sbirciare i demoni che scorazzavano sotto il suo letto.>
Sospira piano, mentre con la mano sana accarezza distrattamente la barba candida e un pensiero impossibile da pronunciare. Poi continua:
< Sai, una volta che ci si avvezza alla solitudine, non sempre si è in grado di tornare indietro. E Tom Riddle aveva scelto la solitudine e ci stava bene. Sono del parere che il motivo per il quale lui detestasse la piccola Phoebe così tanto, risiedesse proprio nella leggerezza con la quale lei varcava quei confini che aveva imposto – che si era imposto – contro il resto del mondo.>
< Lei sapeva di non piacergli?>
< Non ne aveva l’assoluta certezza, ma in un piccolo angolo della sua testa, sì, lo sapeva. Ma non le importava. Perché a lei piaceva passare il tempo in compagnia di quel ragazzino lunatico e perennemente imbronciato. Le piaceva, nonostante il modo sgarbato e sprezzante con cui le parlava e nonostante gli scherzi cattivi che le faceva di tanto in tanto.
< Le piaceva quel ragazzino perché  sapeva sempre un sacco di cose e perché a volte, senza accorgersene, le insegnava qualcosa di nuovo. Le piaceva perché era magico. Nell’istante esatto in cui la lampada a olio abbandonò il ripiano di legno del comodino per librarsi in aria, il mondo della piccola Phoebe Hool era scomparso e aveva lasciato il posto a uno nuovo, più luminoso, più bello. Quella lampada a olio era stata la prova che c’era davvero qualcosa di più in cui credere. Per lei, Tom Riddle era la prova che le favole esistono davvero.>
< E poi?> chiede il giovane Harry, sempre più ansioso di esaminare il ricordo successivo. < Cosa è successo? Per quale motivo lui le ha permesso di avvicinarsi così tanto?>
Albus Silente non risponde subito. Si porta la mano annerita e dolorante vicino al grembo, per evitare colpi bruschi, e fa perno su quella sana per alzarsi in piedi. Rivolge al proprio studente un sorriso incoraggiante e, con un solo cenno del capo, lo invita a raggiungerlo dall’altro lato della scrivania. Il ragazzo obbedisce all’istante, senza obiettare: sa che quello è il segnale che lo avvisa che stanno per affacciarsi ad un nuovo ricordo. L’impazienza gli fa sudare persino i gomiti!
Ma il preside di Hogwarts gli rivolge l’ennesimo sguardo serio, quando si ritrova di fronte a lui. E finalmente risponde alla sua domanda:
< Non successe nulla, mio caro ragazzo. Non successe assolutamente nulla di sensazionale. L’incontro con Phoebe Hool non mutò in alcun modo i pensieri di Tom o il suo atteggiamento verso gli altri; Tom Riddle non trovò nessuna grande rivelazione negli occhioni verdi di quella bambina. Si abituò alla sua presenza. Semplicemente: la piccola Phoebe divenne una costante, qualcosa di così ovvio e persistente nella sua vita da diventare quasi scontata.>
La mano sana afferra la bacchetta e con un comando silenzioso lancia l’incantesimo. La matassa grigia comincia a muoversi a onde, come se qualcuno l’avesse appena toccata con un dito e avesse increspato la superficie perfettamente liscia. Ma prima di sporgersi oltre il bordo istoriato, il mago aggiunge: < Il problema è che, quando dai qualcosa per scontato per tanto tempo, finisci per non accorgerti dell’importanza che lentamente assume. Ed esiste un solo modo per tornare a  ricordarsene.>
< Quale, signore?>
< Perderla.>
 
 

* * *

 
 
La pioggia sembrava non voler finire mai!
Era oramai la fine di Marzo e la primavera, sebbene fosse già cominciata da qualche giorno, sembrava essersi dimenticata di tornare alle sue mansioni, così che il freddo era ancora piuttosto pungente.
Da più di una settimana il plumbeo cielo londinese stava ammorbando le strade con una pioggerellina lieve ma perenne. Il giardino dell’Orfanotrofio di Wool’s era diventato molto più simile a una palude e una vaporosa foschia impregnava l’aria ininterrottamente giorno e notte, mentre i temporali si rincorrevano tra loro ad intervalli irregolari. L’ultimo si era abbattuto sulla capitale inglese appena dopo la colazione e aveva ruggito fra i corridoi grigi dell’istituto per poco più di un’ora.
Il primo tuono era stato simile ad un vetro che si crepa e va in frantumi e aveva fatto sfuggire a Phoebe Hool un singhiozzo soffocato.
Poteva fingere di non avere paura del buio, ma i tuoni erano tutta un’altra storia!
Si era rifugiata sotto le lenzuola del suo letto con il cuscino pigiato sopra le orecchie, nell’imitazione quasi perfetta di una grotta impenetrabile dove nulla avrebbe potuto raggiungerla. Aveva avuto così tanta urgenza da non preoccuparsi nemmeno di sbirciare se Tom, seduto sull’ampio davanzale della finestra con un polveroso libro appoggiato sulle ginocchia, la stesse osservando o meno.
E aveva canterellato per tutto il tempo, specialmente quando il rombo si faceva particolarmente forte e il cuscino non riusciva a nasconderlo come avrebbe voluto.
Si era tenuta occupata raccontando storielle divertenti al suo fidato orsetto di peluche. Peter!
L’aveva chiamato così perché una volta la Signora Cole aveva raccontato a tutti i bambini la rocambolesca vicenda di un coniglietto di nome Peter, che si era perduto nell’orto di un burbero reverendo che voleva acchiapparlo per farci uno stufato. Le avventure di Peter Coniglio le erano piaciute tanto e così aveva deciso di dare lo stesso nome al suo pupazzo; anche se il suo di Peter non era proprio un coniglio…
E ora il temporale era praticamente terminato ma lei se ne stava ancora nel suo piccolo rifugio, senza smettere di chiacchierare e canticchiare sottovoce. Continuò a farlo fino a quando una nuova ombra oscurò il neonato chiarore presente sotto le coperte.
< Come dici, Peter?> mormorò la bimba, portandosi la testolina ripiena di ovatta all’orecchio. < Tu pensi che lui ci stia spiando? Ma è impossibile!>
Come a voler dare al suo peluche una dimostrazione concreta di ciò che stava dicendo, sollevò il lenzuolo al di sopra della propria testa: Tom Riddle, in piedi di fronte al suo letto, la fissava con uno sguardo curiosamente scettico e un sopraciglio alzato. Si fissarono per una manciata di secondi in assoluto silenzio e poi, senza cambiare la proprio espressione, la bambina riabbassò lentamente il lenzuolo.
< Sì, ci sta spiando!> ebbe appena il tempo di dire in tono concitato, prima che il suo compagno di stanza afferrasse la coperta con entrambe le mani e la tirasse lontana, ai piedi del letto.
Tornò a fissarla nello stesso modo e nella stessa posizione – sembrava che non si fosse nemmeno mosso! – e domandò, a bruciapelo:
< Cosa stai combinando, lì sotto?>
< Nulla!> si difese all’istante l’altra, strillando e agitando le braccia magre davanti a sé in modo molto teatrale.
Lo sguardo del ragazzino si fece ancora più sospettoso. Erano passati poco meno di due anni da quando l’aveva incontrata e ancora non era riuscito a decidere se fosse a posto col cervello oppure no.
< Non ti credo > sibilò. I suoi occhi scuri saettarono velocemente dalla faccia della bambina alla finestra ancora frustata da numerose gocce di pioggia, prima di aggiungere: < Hai paura del temporale?>
Phoebe sbarrò gli occhi verdi e saltò in piedi sul materasso, gridando ancora più forte:
< No! Io non ho paura dei tuoni; no no!>
Il piccolo lapsus che era sfuggito all’altra fece increspare le labbra di Tom in un sorrisetto cattivo. Senza smettere di guardarla, posò le mani sui fianchi e raggiunse l’ingresso.
< Dimostralo > disse laconico, spalancando con un unico gesto la porta della camera.
Le mani della bambina strinsero istintivamente con più forza Peter al petto. Deglutì a fatica mentre ricambiava lo sguardo perfidamente divertito del suo compagno di stanza: non aveva la più pallida idea di che cosa avesse in mente, ma sicuramente nulla di buono.
E ciò che era peggio era che, qualsiasi cosa fosse stata, non avrebbe potuto tirarsi indietro. Se Tom avesse scoperto ciò che davvero la spaventava, ne avrebbe sicuramente approfittato per darle il tormento!
Deglutì ancora una volta, prima di balbettare:
< Co-cosa vuoi fare?>
< Usciamo > rispose sempre sorridendo. < Andiamo in cortile.>
< Ma la Signora Cole non vuole che andiamo in cortile quando piove…>
< Allora è della vecchia gatta che hai paura.>
< NO!>
La smorfia sfrontata del ragazzino si fece ancora più larga, poi, senza aggiungere altro, le voltò le spalle e cominciò ad incamminarsi per il corridoio. Phoebe Hool rimase a fissare l’uscio vuoto per una manciata di secondi, indecisa sul da farsi: alla fine abbandonò Peter fra le lenzuola disordinate e gli corse dietro.
Nonostante l’innata imbranataggine della bambina e tutto il rumore che fece lungo le scale, riuscirono a raggiungere l’ingresso senza intoppi. Poi per Tom fu un giochetto da ragazzi imporre alla serratura di scattare e alla porta di aprirsi da sola. Le gocce d’acqua che cadevano indifferenti sembravano grosse quanto dei mandarini e infradiciarono entrambi dalla testa ai piedi in pochi minuti.
Il ragazzino fece qualche passo nel cortile e, raggiunto il punto adatto, tornò a voltarsi verso l’altra dicendo:
< Ora restiamo qua.>
< Fino a quando?>
< Fino a quando non scapperai via urlando.>
< Io non scapperò via urlando!> rispose risentita lei, battendo un piedino a terra.
< Staremo a vedere.>
Rimasero sotto l’acqua per parecchio tempo a fissarsi e senza proferire parola. Il cuoricino di Phoebe sfarfallava in maniera incontrollabile contro il suo petto – il panico le faceva scappare la pipì e l’ansia aveva reso la consistenza delle sue ginocchia molto simile a quella della marmellata – nella terribile attesa di un rombo che, per sua fortuna, non arrivò mai. Aveva una fifa blu e una gran voglia di scappare in camera, chiudere a chiave la porta e non uscirne più! Mai, mai più!
E invece restava. Non per qualche tipo di strano o autolesionistico coraggio, ma solo perché la scura disapprovazione degli occhi di Tom le avrebbe fatto molta più paura di un insulso “spostamento d’aria che il fulmine crea nell’atmosfera quando scocca”.
Continuarono a guardarsi nella più totale immobilità, mentre l’acqua continuava a colpirli e appiccicava i capelli alla fronte e alle tempie. Concentrati su quello che per un osservatore esterno poco attento sarebbe sembrato uno strano e puerile gioco fra bambini, ma che per loro equivaleva ad una sfida di vitale importanza, ad un patto.
Osservando il modo in cui la piccola Hool aveva – discretamente – affrontato le sue paure più profonde per ottenere il suo consenso, il giovane Riddle aveva sviluppato una sorta di recondita stima nei suoi confronti: da quel momento non fu più una semplice compagna di stanza, una mocciosa intollerabile.
Da quel momento divenne un’alleata.
Quando, alla fine, la signora Cole li scoprì, erano stati sotto l’acquazzone per più di un’ora.
Quella cominciò ad urlare come un ossesso e a scagliare rimproveri e ordini a destra e a manca, mentre i due la raggiungevano ridacchiando sotto i baffi.
Tom adorava mandare la vecchia gatta su tutte le furie…
< Siete forse impazziti?!> aveva gridato la donna, mentre gettava addosso ai bambini delle coperte e cercava di asciugarli più in fretta che poteva. < Ma guardate come vi siete ridotti!>
Naturalmente furono puniti e spediti nella loro camera a riflettere su ciò che avevano combinato. Mentre salivano le scale ancora ridacchiando soddisfatti, Phoebe fu scossa da dei lievi colpetti di tosse.
Il ragazzino non ci fece neanche caso e ben presto se ne dimenticò.

 
Ma gli episodi di tosse di Phoebe non sparirono nei giorni successivi, anzi, diventarono sempre più frequenti e sempre più fastidiosi, fino a trasformarsi in un vero e proprio malessere. Avevano cominciato col tormentarla durante il giorno provocandole forti dolori al costato, per poi perseguitarla anche durante la notte impedendo a entrambi di dormire. Enormi occhiaie nere si erano formate sotto gli occhi perennemente arrossati e lucidi, come se avesse appena finito di piangere, e ben presto perse appetito e smise completamente di mangiare, anche perché tutto ciò che riusciva a mandare giù veniva puntualmente vomitato durante la notte.
Inizialmente il ragazzino non se ne preoccupò più di tanto. Non possedeva alcuna conoscenza in campo medico e la scambiò per una banale tosse, di quelle che tutti i bambini dell’istituto si beccavano puntualmente almeno una volta all’anno. Capì di essersi sbagliato quando la direttrice, l’ennesima volta in cui Phoebe rigettò la cena sul pavimento accanto al letto, le tastò la fronte e dichiarò spaventata che la piccola era letteralmente bollente. L’aveva sollevata di peso e portata in infermeria in tutta fretta.
Quella notte, Phoebe Hool non tornò a dormire nel suo letto.
Tom era andato a informarsi sulle sue condizioni al termine delle lezioni del mattino dopo. Avevano parlato poco, lei aveva perlopiù dormito e lui era rimasto a osservarla in silenzio, come uno scienziato di fronte a una specie animale rarissima. Più la guardava e più si chiedeva come avesse fatto a non notare prima che c’era qualcosa che non andava; un particolare sottile ma disturbante. Qualcosa che dissonava prepotentemente col viso da bimba di Phoebe. Qualcosa di così evidente da sentirsi quasi stupido nel non riuscire a scorgerlo.
Era ancora in piedi accanto al letto a fissarla quando il dottore arrivò nell’infermeria, accompagnato dalla Cole. Un tipo ordinario: capelli pettinati all’indietro e un monocolo sull’occhio destro; un bel completo grigio e una voluminosa borsa di pelle marrone.
Chiese di poter restare da solo con la bambina mentre la visitava, così la donna obbligò Tom a uscire e ad aspettare fuori nel corridoio insieme a lei e a quattro assistenti.
L’uomo ci impiegò poco meno di mezzora ad arrivare a un responso. Si ripresentò con la testa bassa e la borsa di pelle sottobraccio, lasciando la porta appena un po’ socchiusa. Il ragazzino lo vide chiaramente occhieggiarlo un paio di volte, prima di rivolgere finalmente il proprio sguardo alla Signora Cole. Quest’ultima sembrò capire al volo quella sottospecie di segnale perché, un attimo dopo, si rivolse a Tom dicendo, nel tono più dolce che le avesse mai sentito usare:
< Tom, torna pure dentro con Phoebe. Il dottore ha finito di visitarla.>
Mentre parlava lo aveva afferrato per le spalle e gettato letteralmente all’interno dell’infermeria, chiudendo l’ingresso.
Poteva anche essere un bambino che non si intendeva di medicina, ma sapeva ancora riconoscere quando le persone si operavano per tenerlo all’oscuro di qualcosa.
Si avvicinò di nuovo alla porta.
Phoebe era sdraiata su un fianco e gli dava le spalle, forse inconsapevole di tutto ciò che le succedeva intorno. Ipotizzò che dovesse essersi addormentata di nuovo, sebbene continuasse a tossire. Incrociando le dita affinché non lo vedessero né lo sentissero, aprì cautamente uno spiraglio molto piccolo. La fortuna lo aveva assistito: il medico e la direttrice, attorniata dal suo manipolo di assistenti, si erano allontanati di qualche passo lungo il corridoio. Non riusciva a vedere le loro facce ma poteva perfettamente sentire ciò che si dicevano.
< Oh santo cielo!> stava esclamando la Cole, con le mani congiunte in petto e la voce spezzata. Fra le assistenti si sparse un brusio atterrito. < E’…terribile. Terribile! E’ così piccola…ne è sicuro, dottore? Non potrebbe esserci uno sbaglio?>
< Mi dispiace moltissimo, signora, ma la diagnosi è chiara: la bambina ha contratto una brutta forma di polmonite che le ha compromesso irrimediabilmente i polmoni. Fatica a respirare e la situazione può solo peggiorare > rispose il dottore in tono sommesso.
Tom continuava ad ascoltare ma senza capire. Imprecò mentalmente verso se stesso e verso la sua completa ignoranza.
Compromesso…irrimediabilmente?
La direttrice non rispose subito. Si passò un fazzoletto sugli occhi e poi si soffiò rumorosamente il naso. Infine parlò:
< Quanto le resta?>
Qualcosa nella testa di Tom scattò. Qualcosa come un’illuminazione, l’indizio che gli serviva per comprendere finalmente ciò che non andava in Phoebe.
Quanto…?
< Non si può calcolarlo con certezza > sospirò l’uomo. < Due, tre giorni. Una settimana al massimo.>
Si accorse di aver trattenuto il fiato solo quando ricominciò a respirare a grandi boccate. Richiuse la porta il più silenziosamente possibile, lasciando le condoglianze che il medico stava tentando di dare alle donne all’esterno. Appoggiò la schiena al muro e rimase a fissare il vuoto con sguardo stravolto.
La voce del medico sembrava produrre un’inquietante eco all’interno delle sue orecchie.
Due, tre giorni. Una settimana al massimo.
Faticava a riprendere il filo del ragionamento; gli sembrava che il cervello si fosse in qualche modo intorpidito e non riuscisse a ingranare come doveva.
Ora aveva capito.
Sapeva cos’era quella cosa che gli era sfuggita. E si sentiva davvero tanto stupido per non esserci arrivato prima. Era come rincontrare una vecchia rivale; qualcuno che gli aveva lanciato un guanto di sfida parecchi anni indietro – il giorno della sua nascita – e che tornava in quel momento per proporgli lo stesso confronto.
Stesso confronto. Nuova posta in palio.
Due, tre giorni. Una settimana al massimo.
Ora aveva capito: Phoebe Hool stava morendo.
Abbassò lo sguardo verso la bambina solo quando un attacco di tosse più intenso degli altri la colpì, costringendola a cercare una posizione più comoda fra le lenzuola. Il viso contratto e teso era l’unico indizio del suo dormiveglia agitato.
Continuò a fissarla senza vederla per parecchio tempo, mentre la sua mente associava inconsciamente la sua immagine allo scorrimento lento ma ineluttabile della sabbia tra le dita.
 
 
 
Note dell’autore.
 
Un buonissimo lunedì a tutti voi!
Qui è la vostra Latis Lensherr che vi saluta. Avviso subito che non mi dilungherò moltissimo con queste note, perché oggi non è un lunedì come tutti gli altri. Anzi. E anche per pubblicare questo terzo capitolo in tempo, ho dovuto ritagliarmi un pezzettino microscopico del pochissimo tempo che mi sarà concesso oggi.
Eh sì: oggi è il compleanno della mia meravigliosa sofficina: SOFIA. Una fantastica bimba che oggi compie ben quattro anni e della quale ho l’onore di fare da babysitter da ormai tre anni.
Insomma, è un giorno importante e ho un mucchio di faccende da fare. Quindi passo subito a parlare di cose più serie.
 
Come è stato il capitolo? Vi è piaciuto?
Sono davvero ansiosa di sapere cosa ne pensate.
Brevissime precisazioni.
 
 
HARRY/SILENTE. In questo capitolo c’è un primo assaggio delle “chiacchierate” tra il preside di Hogwarts e il Bambino Sopravvissuto che ci accompagneranno qua e là per tutto il resto del racconto. Cosa ve ne pare? Con i personaggi inventati dalla santa penna della zia Row ho sempre il terrore di sbagliare, di non renderli bene. Specialmente Silente! Quel vecchietto furbetto mi farà totalmente uscire di testa! *non è vero: Latis vuole tanto, tanto, tanto bene a Silly*
 
 
PETER CONIGLIO. Qualcuno di voi ha mai sentito parlare di BEATRIX POTTER?! Beh, questa signora era una scrittrice e illustratrice nata in Inghilterra nella seconda metà dell’800, diventata famosa per i suoi libri per bambini illustrati. E Peter Coniglio è il suo più celebre personaggio. Sempre nella speranza di non sparare castronerie ho immaginato che in un orfanotrofio di Londra, nella prima metà del ‘900, fosse possibile che i bambini leggessero storie di un autore così noto. Se ho sbagliato, chiedo venia ;)
 
 
POV di TOM. In questo capitolo – e pure nel prossimo, immagino – avete avuto anche un assaggio di quelli che saranno gli interventi di Tom durante il racconto. Insomma, come avevo già detto l’altra volta, sapremo ancora cosa bazzica nella testa del nostro maghetto oscuro, ma sempre e solo quando c’è Phoebe nei paraggi.
 
 
Mi sembra di avere detto tutto e di non essermi dimenticata nulla.
Spero davvero che il capitolo nuovo vi sia piaciuto. Come sempre, devo fare un ringraziamento molto più che speciale a chi ha commentato il capitolo precedente.
GRAZIE a BLACKLESTRANGE, ELYZA, BLOOD_MARY95, KURAPIKA95, MARY JACKSON, RURUE, ERODIADE, MAYA_POTTER e LORY1989.
Grazie davvero a tutte! :)
Ci vediamo alla prossima pubblicazione, che sarà…8 LUGLIO!
 
Un bacio. Latis.

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Capitolo 4
*** Resta con me ***


Capitolo quattro: Resta con me
 
 

“Time waits for no one,
so do you want to waste sometime,
tonight?
Don’t be afraid of tomorrow,
just take my hand.
I’ll make it feel so much better,
tonight.
 
Suddenly my eyes are open,
everything comes into focus.
We are all illuminated,
lights are shining on our faces blinded.”
 
(“Illuminated”; Hurts.)

 
 
Da quando era stata trasferita in infermeria, Phoebe Hool non era più riuscita a dormire decentemente.
Tutto ciò che riusciva a procurarle un po’ di ristoro erano quei dormiveglia rumorosi dentro i quali la malattia la trascinava di tanto in tanto. Non erano né sonno né veglia; solo una fastidiosa via di mezzo nella quale i sogni si fondevano e confondevano con stralci disordinati della realtà. Non sarebbe stata in grado di ricostruire nemmeno una mezza giornata della sua permanenza all’interno dell’infermeria dell’orfanotrofio. Sapeva solo che c’era sempre qualcuno accanto al letto a vigilare su di lei, passandole dei panni umidi sul viso e la fronte sudata, ma aveva smesso di provare a indovinare chi fosse quando le era parso di intravedere San Giorgio, in sella al suo cavallo, che la guardava fieramente dall’alto in basso.
Le uniche cose reali erano la febbre e la tosse.
La febbre si era alzata ancora senza dare il minimo segno di volersi abbassare, mentre i colpi di tosse si erano fatti più rauchi e profondi. Gli occhi erano sempre gonfi e arrossati e le occhiaie sembravano – se era possibile – ancora più nere, il viso era dimagrito velocemente e le guance si erano incavate rendendola quasi irriconoscibile. Aveva smesso di respirare col naso, che non riusciva più a darle l’apporto di ossigeno necessario, e cercava con la bocca quasi spalancata di afferrarne il più possibile. Si sentiva come se stesse nuotando in una zona d’acqua alta e tirasse su la testa per non affogare. Ogni volta che non riusciva a prendere abbastanza aria, e si sentiva così strozzare, stringeva forte e spaventata le lenzuola nel pugno, per poi allentare la presa quando si tranquillizzava e il respiro ritornava regolare.
Capitava che riacquistasse lucidità per una manciata di minuti e ogni volta chiedesse un bicchiere d’acqua. Questi episodi erano capitati più frequentemente durante il primo giorno per poi diventare sempre più isolati successivamente.
L’ultima volta aveva dovuto strizzare le palpebre ripetutamente, prima di riuscire finalmente a mettere a fuoco qualcosa. La luce gialla e rovente presente nella stanza le feriva gli occhi e testimoniava il tanto agognato arrivo della primavera. Tutto era rischiarato e abbellito da quella luminosità allegra: le lenzuola sporche del letto sembravano candide e fresche di bucato; il ferro arrugginito e scrostato della testiera era l’opera minuziosa e abile di un ottimo fabbro e le pareti turgide d’umidità il più incredibile dei dipinti.
Persino l’espressione seria di Tom Riddle non sembrava tanto cupa.
Era in piedi accanto al letto e la fissava senza dire una parola, come se dovesse sparire nel nulla da un momento all’altro.
Phoebe ricambiò lo sguardo per un po’, cercando di indovinare se fosse un sogno o meno. Un dolore atroce le infiammava la gola arida e gonfia, ogni volta che la sforzava per deglutire. Ma alla fine sorrise. Il giovane Riddle rimase impassibile, ma non poté fare a meno di constatare che tutto in lei sembrava urlare a gran voce la sua malattia: tranne il sorriso.
Il sorriso – il suo sorriso! – era tutto ciò che era rimasto di Phoebe Hool.
< Ciao…> lo salutò con un lieve cenno della manina.
Le ossa e i muscoli erano così indolenziti e pesanti che poteva paragonare quel semplice gesto al sollevamento di una roccia enorme; la voce era bassa e gracchiante e le parole sembravano farsi strada a fatica.
Probabilmente non si aspettava di vederla sveglia, perché la sua espressione rigida venne smussata impercettibilmente da una luce di sorpresa.
Probabilmente non si aspettava di vederla sveglia.
Probabilmente sperava di non vederla sveglia.
Era da quattro giorni che non metteva piede in infermeria.
Dopo che il medico se n’era andato decretando la sorte della piccola, Tom si era dileguato in fretta per poi evitare quella parte dell’edificio nello stesso modo in cui avrebbe eluso un lazzaretto. Si era ripresentato solamente quella mattina, sospinto da un qualcosa che nemmeno lui sarebbe stato in grado di definire. Il cigolio sommesso della porta che si apriva aveva richiamato su di lui l’attenzione dell’assistente che, per quel turno, aveva il compito di sorvegliare il riposo della bambina. Quella aveva approfittato della sua presenza per prendersi una breve pausa e uscire un po’ da quella minuscola stanza che puzzava di chiuso e di antibiotico. Nel momento esatto in cui li lasciò soli, lo stomaco del ragazzino si annodò strettamente e un feroce senso di nausea gli picchiò contro il palato. Gli parve di rammentare solo allora il motivo per il quale aveva girato al largo dell’infermeria per tutti quei giorni: non riusciva più a tollerare di restare nello stesso spazio stretto insieme a lei; gli mancava il fiato, si sentiva soffocare e una prepotente claustrofobia gli faceva girare la testa, come se la malattia che lentamente la stava divorando avesse infettato l’aria. Aveva l’impressione di sentirsela addosso – sulla pelle, fra i capelli, in fondo alla gola – e doveva faticare enormemente per non afferrarsi in un gesto istintivo la base del collo con le mani. Il solo pensiero che quel morbo orrendo condividesse lo stesso tetto della Wool’s con lui gli faceva accapponare la pelle.
Phoebe Hool stava morendo.
Quella consapevolezza aveva avuto un effetto strano su di lui. Gli aveva svuotato il petto. Una sensazione orribile, come se qualcuno si fosse divertito a raschiare scrupolosamente la parte alta del suo torace con un minuscolo cucchiaino da caffè per prolungare il più possibile la sua agonia e il suo strazio. Una sensazione di amarezza e di ineluttabilità che credeva di conoscere fin troppo bene, perché l’aveva sentita pulsare insistentemente dentro di sé ogni singolo giorno della sua grigia esistenza. Ma mai in maniera così intensa! Era come essere passati bruscamente dalla percussione sommessa e lieve di un solitario tamburo allo squillo assordante di centinaia e centinaia di trombe.
Qualcosa che non era in grado di gestire. E come con tutte le cose nuove con le quali non poteva – e non voleva – confrontarsi, aveva deciso di ignorarla e di sotterrarla il più profondamente possibile, sostituendola con emozioni amiche che non l’avevano mai intralciato: il disprezzo, il disgusto e la rabbia.
Phoebe Hool stava morendo.
Meglio così.
Che se ne andasse!
Che sparisse!
Era stata una spina nel fianco fin dall’inizio. Una mocciosa seccante con la quale non aveva voluto avere niente a che fare e della quale gli avevano imposto la funesta presenza per più di due anni. Ingenua. Banale. Una marmocchia con la quale non condivideva nemmeno il più minuscolo interesse e che semplicemente si era divertito a strapazzare e a stuzzicare come una bambola di pezza di cui poteva disfarsi in qualsiasi momento.
Che se ne andasse!
Che sparisse!
Sarebbe finalmente tornato tutto come prima. Avrebbe riavuto indietro i suoi spazi e la sua tranquillità: non ci sarebbe più stata nessuna noiosa bambina ad occupare l’altra metà della stanza e a disturbarlo ogni volta che faceva qualcosa con un’infinità di domande. Non ci sarebbe più stata nessuna noiosa bambina che gli stringeva la mano a tradimento o che si arrampicava sul suo letto quando era triste o spaventata.
Non ci sarebbe più stata nessuna bambina…
Meglio così.
Che se ne andasse!
Che sparisse!
Il solo pensiero di Phoebe Hool lo mandava letteralmente in bestia.
La detestava – la odiava – e sperava che quella ammorbante malattia se la portasse via al più presto. Non voleva averla più attorno; non voleva più sentirla nemmeno nominare. Se era così stupida e debole da non riuscire a tenere testa nemmeno a un’insulsa polmonite, allora che se ne andasse, che sparisse!
Doveva davvero morire? E allora che lo facesse in fretta!
Non voleva più saperne niente: non aveva fatto nulla per provare a guarire e ora stava morendo – ben le stava! Se l’era andata a cercare!
Non aveva fatto nulla per provare a guarire. Per provare a restare!
La odiava con ogni più piccola parte del suo essere.
La odiava perché si era ammalata. Perché stava morendo e perché non aveva voluto fare nulla per sfuggire a quel destino scritto per lei da altri.
La odiava perché non aveva voluto guarire.
La odiava perché non aveva voluto restare con lui
Per quanto avesse cercato di spingerlo e trattenerlo sul fondo il più possibile, alla fine il dolore si era liberato. Si era arrampicato a grande velocità e si era facilmente scrollato di dosso le maschere che gli aveva imposto. Aveva continuato a correre e correre facendo crollare i castelli di bugie che lui stesso aveva faticosamente innalzato, per poi mostrargli ciò che realmente si nascondeva all’interno, nella parte più buia. Per mostrargli ciò che realmente provava; ciò che realmente la malattia di Phoebe Hool aveva scatenato dentro di lui.
Era come se la storia della sua vita continuasse a ripetersi all’infinito, in un percorso circolare che doveva finire per forza come era cominciato. La morte si era appropriata di sua madre quando lui era appena un infante, un esserino piccolo e incosciente, impotente di fronte al torto che gli avevano recato. Aveva passato quei pochi anni della sua vita a farsene una ragione, a non dolersene, anzi: se ne era servito per rendersi più forte, indipendente. Per tenere alla larga le altre persone e per rendersi inattaccabile. Ma la cupa falce sembrava non essere mai sazia, mai pienamente soddisfatta, ed ora pretendeva un nuovo tributo che mitigasse la sua sete – la sua ingordigia.
Ora pretendeva di nuovo qualcosa di suo!
Ora pretendeva Phoebe.
E nessuno dei due poteva fare alcunché per impedirlo. Era una cosa che sapeva perfettamente ma che non riusciva ad arrestare la sua collera.
Collera verso lei e la sua penosa fragilità.
Collera verso…se stesso e la sua stessa penosa fragilità: era così minuscolo e incapace da non essere nemmeno in grado di trattenere le cose che gli appartenevano.
Sì…
Detestava quella mocciosa più di chiunque altro, ma questo non cambiava il fatto che rimanesse sua.
Phoebe sorrise di nuovo, come se avesse potuto leggere ciò che gli era passato per la testa.
Il ragazzino spostò infastidito il viso di lato, interrompendo il contatto visivo e rispondendo seccamente:
< Ciao.>
< Come mai…no-non sei…fuori…a-giocare…?>
< Non sono affari tuoi!>
< Va be-ne > biascicò lei piano, alzando appena le spalle. < Ho sete…>
Tom accolse con sollievo la possibilità di allontanarsi di qualche passo da quel letto, che puzzava di sudore e di urina mal trattenuta, per raggiungere un piccolo comodino sul quale erano stati sistemati una brocca d’acqua e un paio di bicchieri opachi. Ne riempì uno per metà e poi lo porse alla bambina. Lei lo afferrò con entrambe le mani e alzò un poco il capo dal cuscino.
Ne riuscì a bere a malapena un sorso e mezzo, prima che una serie di colpi di tosse le facessero sputacchiare il liquido ingurgitato sulle lenzuola. L’altro riuscì appena in tempo a evitare che rovesciasse sul letto anche l’acqua rimasta nel bicchiere.
< Sei la solita imbranata > la rimbrottò lui, tornando accanto al letto quando l’attacco cominciò a ridursi d’intensità.
Phoebe non rispose. Ritornò a sdraiarsi e rimase per un po’ con gli occhi chiusi a respirare rumorosamente con la bocca spalancata. Il petto da uccellino si alzava a fatica e le manine ossute stringevano spasmodicamente le lenzuola. Riaprì gli occhi con lentezza: erano lucidi e stanchi e per un momento sembrarono non riuscire a metterlo a fuoco. Probabilmente mancava poco prima che ricadesse nel suo stato di delirante incoscienza.
Il pensiero che avrebbe potuta disfarla con la stessa facilità di un foglio di carta di giornale, se solo avesse fatto una pressione eccessiva su quel corpicino febbricitante, gli attraversò la mente per un secondo. E voltò nuovamente lo sguardo: la sua immagine gli faceva bruciare gli occhi.
La bimba mosse appena le spalle alla ricerca di una posizione più comoda tra le lenzuola. Prese una lunga boccata d’aria prima di mormorare:
< Sono contenta che tu sia venuto a-a trovarmi…!>
< Non resto per molto > la informò, ostinandosi a non guardarla. < Sono qui solo per salutarti.>
< S-salutarmi…?> ripeté ottusamente la bambina. Il tono incerto e zoppicante che per la prima volta da quando si trovava lì non era causato dalla respirazione ansante. Gli occhi verdi che brillavano del riflesso della sua malattia percorsero il viso dell’altro senza una meta precisa, senza esattamente sapere cosa cercare. Non capiva, non capiva. La voce tremolò in modo spaventoso quando aggiunse: < P-perché? Te…ne vai? Dove?!>
La bocca di Tom si contorse in un sorrisetto pieno di rabbia e di commiserazione. Si avvicinò ancora di più al letto e, quando i loro visi furono a poca distanza, le scostò una ciocca di capelli neri e unti dalla fronte. Il distacco e l’irritazione contenuti in quel gesto facevano pensare più a una presa in giro che a una sincera premura.
Il sorriso era scomparso quando rispose:
< Sei davvero una sciocca! Io non vado da nessuna parte. Sei tu – tu! – quella che se ne andrà e non tornerà mai più.>
< N…no. No-o!> squittì Phoebe, scuotendo automaticamente la testolina scura da un lato all’altro. La sua espressione, prima solo confusa e disorientata, si era rapidamente accesa di apprensione. Non capiva, non capiva. < Io, io…non voglio. Non…voglio andare-via. Vo-glio stare…ancora…con t-e. Qui!>
< Sei una bugiarda: non è vero.>
< S-sì…invece…>
< SE VOLESSI DAVVERO RESTARE, NON TE NE STARESTI QUI AD ASPETTARE DI MORIRE!>
La gola del ragazzino aveva cominciato ad annodarsi mentre ancora pronunciava quelle parole sature di veleno. Aveva gli occhi talmente spalancati che sembravano sul punto di schizzargli fuori dalle orbite da un momento all’altro, e fissava pietrificato l’espressione fulminata dell’altra – la stessa che occupava il suo volto. Le mani ricaddero lentamente lungo i fianchi e si aggrapparono al tessuto logoro dei pantaloni nel vano tentativo di attenuare il tremito che aveva preso a scuoterle. Ben presto anche lo sguardo si abbassò cercando riparo in un punto imprecisato fra le piastrelle rovinate e sporche del pavimento. Ancora faticava a riconoscere la propria voce nella tenue eco che le sue urla avevano lasciato strascicare nella stanza.
Dal suo letto Phoebe Hool aveva continuato a guardarlo.
Non capiva, non capiva.
Il torpore che le annebbiava la testa produceva un fastidioso ronzio e la costringeva a sbattere più volte le palpebre per rimanere cosciente. Aveva sentito perfettamente ogni singola parola e di ogni singola parola conosceva perfettamente il significato, ma…
Non capiva, non capiva.
Smarrita, la bambina fece leva sui gomiti e si mise a sedere con uno sforzo terribile. Fitte profonde le picchiarono selvaggiamente il costato, in una sorta di ammonimento a non andare oltre. Si allungò un poco in direzione del ragazzino e gli afferrò la manica della maglia tirandola con forza verso di sé, nello stesso modo che aveva usato la prima volta che si erano incontrati. E cominciò a chiamare in tono lamentoso:
< Tom. Tom. To…>
Ma un dolore lancinante la bloccò.
Ricominciò a tossire più rumorosamente e malamente di prima. Tom, sentendola, alzò la testa verso di lei e per poco non cacciò un urlo di puro orrore: la misera coperta del letto era intrisa di sangue e di uno schifoso pus semiliquido, di un colore indefinito tra il giallo e il verdognolo. Notò appena che un rivoletto vermiglio le colava dall’angolo della bocca e poi giù fino al mento. Lei si lasciò cadere contro il materasso su un fianco e dandogli le spalle. La tosse era così forte e insistente che la stava pian piano strozzando.
L’unica cosa che il ragazzino fu in grado di fare fu afferrarla per la vita, tirandola il più possibile verso di sé. La sentiva rantolare come un animale morente, ma il panico lo colse soltanto quando la bambina smise di muoversi senza emettere più un suono.
< No…NO!> strillò, con tutto il fiato che aveva in gola. < No, Phoebe! PHOEBE! NO!>
Si aggrappò al corpicino esanime con tutta la forza che possedeva. Affondò la testa nei suoi capelli sporchi, digrignando i denti per la disperazione. La stringeva tutta, come se non volesse permettere a nient’altro di uscire da lei.
Né il sangue né l’anima.
Resta con me! Resta con me! Resta con me, gridava la sua mente con l’ultimo barlume di lucidità e di volontà che gli rimaneva: solo un misero passo a separarlo dalla voragine nera dell’angoscia e della follia. RESTA CON ME!
Ciò che accade in seguito era impossibile da descrivere.
Tom Riddle era ancora rannicchiato sul corpo immobile della bambina, quando la piccola stanza dell’infermeria esplose di luce.
Una luce bianca.
Luminosa.
Avvolgente.
Si era distesa su tutto ciò che li circondava e su di loro, come una coperta soffice e calda e confortevole.
Il ragazzino si era raddrizzato lentamente e, sempre stringendo la bambina tra le braccia, aveva osservato meravigliato quel bagliore innaturale e inspiegabile, del quale non aveva mai visto eguali. Distolse lo sguardo solo poco dopo: i tratti del viso si piegarono in una lieve smorfia di sofferenza mentre una mano correva a stringere il petto. Una sensazione di calore, dolorosa e piacevole allo stesso tempo, lo stava bruciando, come se qualcuno avesse acceso una candela e l’avesse posata al centro esatto del suo torace. Era così concentrato su quella sensazione che quasi non si accorse che anche Phoebe – tutto il corpo di Phoebe – scottava di quell’insolito bollore. E nemmeno fece caso ai tratti del suo viso che lasciavano indietro le rughe di angoscia e paura rilassandosi sempre più, fino a farla sembrare semplicemente addormentata.
Erano passati pochi minuti quando il calore cominciò a diminuire velocemente e a farsi sempre più tenue. Quando scomparve del tutto, esattamente nello stesso istante anche la luce bianca sparì.
I contorni dell’infermeria si ridisegnarono prepotentemente nelle sue pupille.
Non fece in tempo a chiedersi che cosa fosse successo che la porta si spalancò con un tonfo e l’assistente di poco prima si gettò all’interno della stanza, trafelata e ansiosa.
< Tom! Cos’erano quelle urla? Che cosa…?> cominciò a domandare. Poi i suoi occhi saettarono velocemente dalla sagoma di Phoebe Hool priva di sensi alla macchia di sangue che aveva imbrattato il lenzuolo. Indietreggiò sconvolta fino all’ingresso e poi si precipitò nel corridoio, chiamando a gran voce la Signora Cole.
La direttrice dell’orfanotrofio di Wool’s sopraggiunse quasi immediatamente. Sebbene fosse già stata informata su ciò che era accaduto, una mano corse verso la bocca a nascondere un singhiozzo rumoroso. Ritrovò frettolosamente la propria compostezza e si avvicinò al letto con grandi falcate. Osservò con una sfumatura di sospetto il ragazzino di fronte a lei che fissava perso il vuoto e, quasi a malincuore, constatò che per una volta tanto non era la causa scatenante di ciò che era successo.
Phoebe Hool stava morendo.
Lo sapevano tutti all’interno dell’istituto. E tutti non avevano fatto altro che attendere per giorni il momento in cui l’inevitabile avrebbe preso forma.
La donna si allungò con cautela sul letto e tolse il corpicino dalla stretta di Tom, che fece solo una lieve resistenza. Tenne stretta fra le braccia la bambina e rimase a guardarla tristemente per qualche secondo. Poi, cacciando via quel barlume di sentimentalismo e rispolverando il proprio spirito pragmatico, si voltò verso il pubblico di assistenti silenziose che osservavano la scena dalla soglia della porta, dicendo:
< Coraggio, signore, fattevi forza! Dobbiamo rispettare la procedura: si deve contattare il medico, poi informare le amministrazioni e infine sollecitare le pompe fune…ah!>
La Signora Cole cacciò uno strillo acuto e improvviso che fece sobbalzare tutti i presenti: una delle manine di Phoebe, che fino a quel momento era rimasta inerme e a penzoloni, aveva afferrato con decisione la stoffa del vestito della direttrice! Quella la mollò in un gesto istintivo facendola ricadere con un piccolo salto sul materasso, come se avesse cercato di scacciare un enorme ragno.
Un nuovo silenzio sbigottito cadde all’interno dell’infermeria.
Tom Riddle non riusciva a credere ai suoi occhi: Phoebe Hool era sveglia, lì, proprio davanti a lui! Si guardava intorno spaesata e curiosa, facendo passare i suoi grandi occhi verdi sulle facce stupite e incredule attorno a lei.
Le occhiaie scure e la magrezza scheletrica erano sparite e il respiro era tornato a essere naturale e regolare.
Era completamente guarita!
I due bambini rimasero a fissarsi lungamente in silenzio.
< Sei rimasta…> fu l’unica cosa che alla fine il ragazzino riuscì a dire.
 
 
Il medico venne fatto chiamare con urgenza e nel giro di due ore attraversò di nuovo l’ingresso dell’orfanotrofio di Wool’s.
Rivisitò attentamente la bambina daccapo, sotto lo sguardo inquieto della Signora Cole. E una volta constatato che l’infezione ai polmoni era stata completamente riassorbita, allontanò lo stetoscopio dal piccolo petto bianco e dalle orecchie.
< E’ un miracolo > affermò con una scrollata di spalle e un sorriso contento.
 
 
 
 
 
 
Note dell’autore.
 
Buongiorno a tutti!
Qui è la vostra Latis che vi parla e vi augura un buonissimo inizio di settimana.
Oggi sono un po’ in ritardo col pubblicare…perdonatemi! In questi giorni sono in pieno fangirlaggio e sono tutta strapresa e tutte le mie emozioni sono in subbuglio e così anche i miei poveri neuroni e poi mi chiedo quando mai i miei neuroni sono stati normali…ARGH! XD
 
Ma sono comunque presente con il quarto capitolo!
Allora? Come è andata?
Chi ha pianto e chi mi vorrebbe gettare nel primo tombino aperto della tangenziale che trova?!
Con questo capitolo non mi sembra che ci siano precisazioni urgenti da fare, quindi per questa volta vi risparmio – XD – ma questo non vuol dire che se avete delle domande o delle cose che vi sembra di non aver capito bene non possiate chiedere.
Assolutamente no, anzi!
Vi sprono tutte a fare domande!
Alla fine la nuova versione è rimasta fedele a quella originaria. L’unica cosa che mi preoccupa un po’ sono i pensieri e i turbamenti del piccolo Tom riguardo alla malattia di Phoebe: spero di aver fatto un buon lavoro e che non sia risultato brutto, patetico, insulso, irreale, non facilmente digeribile e qualsiasi altro aggettivo negativo che vi potrebbe venire in mente.
Tipo “ammaccabanane”!
(Vi prego, vi supplico: tutto ma non ammaccabanane! XD)
 
Passiamo subito ai ringraziamenti. Un grazie dal più profondo del cuore alle mie fedelissime: ELYZA, BLOOD_MARY95, RURUE, KURAPIKA95 e ERODIADE.
Il mio cuore colmo di emozioni straripa d’amore per tutte voi!
 
Il prossimo capitolo sarà in onda su queste reti all’incircaaaa…il 22 LUGLIO! :)
Spero di rivedervi tutte!
E ancora…grazie, grazie, grazie mille!
 
Un bacio. Latis.

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Capitolo 5
*** Il ricordo del Cappello Parlante ***


Capitolo cinque: Il ricordo del Cappello Parlante
 
 

҂

 
 
Harry Potter apre la porta dell’ufficio con gesti febbrili che tradiscono chiaramente la sua impazienza. Solo per un soffio non la chiude facendola sbattere.
Sotto la lunga e candida barba, Albus Silente non può trattenersi dal ridacchiare sommessamente. Una vocina dentro la testa gli suggerisce il termine che più gli si addice in quel momento: crudele.
Sì, è stato veramente crudele con il suo giovane studente…
Durante la loro ultima lezione, infatti, aveva interrotto la sequenza dei ricordi allo straordinario evento verificatosi all’interno dell’infermeria dell’orfanotrofio di Wool’s. Poi aveva sollecitato il Grifondoro a fare ritorno al proprio Dormitorio, senza aver potuto ricevere nemmeno un minimo chiarimento su ciò che aveva visto. Lo aveva fatto di proposito, affinché il ragazzo avesse tutto il tempo necessario per riflettere su quanto aveva visto e prepararsi qualche domanda.
Ma forse ha esagerato un po’: ora il ragazzo sembra quasi non riuscire a stare seduto sulla sedia, tanta è la smania di riprendere al più presto il discorso.
< Tutto bene, Harry?> chiede il Preside di Hogwarts, sorridendo ancora e nascondendo il proprio malizioso sadismo sotto una spessa coltre di buone maniere.
Sì, è veramente crudele…
< Ho molte domande, signore!>
< Lo credo bene!> esclama divertito l’altro, battendo le mani tra loro. Gli occhi azzurri che sembrano riflettere e imitare l’eccitazione di quelli verdi del ragazzo. < E, detto fra noi, ci speravo.>
Il vecchio mago fa appena in tempo ad alzare la mano sana: Harry si è già allungato verso la scrivania, con le mani serrate lungo il bordo legnoso e la bocca aperta per dare forma ai dubbi e alle ipotesi che ha elaborato in quei giorni. Ma di fronte all’ammonimento silenzioso dell’insegnante, si blocca all’istante.
Intanto, l’altro recupera la propria bacchetta e la alza verso la sua sinistra. Nel giro di pochi secondi il Pensatoio si solleva lentamente da una mensola in fondo alla stanza e, facendosi strada fra i bizzarri e argentati alambicchi, va ad atterrare in mezzo a loro con un pesante sbuffo. Mette da parte il sottile strumento magico, recupera un’ampolla trasparente appoggiata appena un po’ in disparte sul ripiano e ne versa il contenuto argentato. Un altro ricordo.
Solo quando l’incorporea massa comincia a ruotare uniformemente nella stessa direzione, il preside riporta le lenti a mezzaluna verso il proprio studente.
La sua voce è serena ma ferma quando dice:
< Oggi, ragazzo mio, vorrei che finissimo di visionare la parte restante del mio ricordo su Tom Riddle. Lo rammenti?>
< Sì, signore, sì: certamente. Ma…credevo che avremmo continuato a parlare di quell’altra cosa…> risponde il ragazzo un po’ deluso, spingendo gli occhiali in cima al naso.
< E’ opportuno che prima ti mostri le conseguenze che l’incantesimo del giovane Riddle ebbero su Phoebe.>
< Co-conseguenze?!>
< Sì, Harry > conferma l’altro, congiungendo le mani sul tavolo. < Ogni magia – potente o meno che sia – comporta sempre delle conseguenze. E così fu anche per l’incanto invocato da Tom. Con questo ricordo voglio mostrarti ciò che le successe, oltre a essere liberata dalle pene della polmonite.>
Harry Potter risponde con un breve cenno del capo. Tutta la sua esaltazione sembra essere stata prosciugata da quella punta d’inquietudine che le parole di Silente hanno creato. Non sa cosa aspettarsi e questo non lo fa stare per nulla tranquillo. Deglutisce faticosamente. La voce gli vacilla appena quando chiede di nuovo:
< Accade qualcosa di brutto?>
< Questo sta a te giudicarlo, figliolo > afferma Albus Silente, un sorriso dolce a illuminargli tutto il viso.
Senza aggiungere un’altra parola, si alza dalla sedia e si lascia cadere tra i fumi del Pensatoio.
 
 

* * *

 
 
< Ci rivediamo a Hogwarts, Tom.>
Un Albus Silente dalla folta chioma fulva e un improponibile completo color prugna se ne stava fermo davanti all’ingresso della cameretta, scambiandosi un ultimo sguardo di commiato con un Tom Riddle di undici anni e dall’espressione indecifrabile.
Affondata nella tasca del completo, la mano giochicchiava distrattamente con la lista che Armando Dippet, quella stessa mattina, gli aveva affidato e dentro la quale erano stati segnati tutti i nomi dei maghi e delle streghe che dovevano essere informati del loro diritto a frequentare la Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts quell’anno.
Il nome di Tom Riddle era stato scritto con una calligrafia stretta e obliqua e figurava fra gli ultimi dieci dell’elenco.
Era stata una visita più strana di quanto si aspettasse. A cominciare dalla direttrice dell’istituto, i tratti severi e scontrosi del vecchio volto che si erano lentamente sbrogliati sotto l’effetto dei molti – e generosi – bicchieroni di gin che si era concessa e per la trepidazione con la quale la sua voce impastata aveva raccontato di quel bizzarro ragazzino che aveva visto persino nascere. E poi per lo stesso Tom Riddle: un giovanotto pallido e dai vestiti sdruciti, che non erano però in grado di trattenere l’armoniosità e la regalità del suo bellissimo viso. Un giovanotto dallo sguardo vigile e dall’intelligenza vivace. Un talento innato e a dir poco strabiliante. Una curiosità genuina e una possessività smaniosa per ciò che era suo. Una vena sfrontata che sfumava il suo modo di parlare; un’intraprendenza insopprimibile.
Albus Silente aveva ancora davanti agli occhi la gioia selvaggia che aveva alterato il giovane Tom, quando la chiacchierata era virata su Hogwarts, sui maghi e sulla magia. E la gelosia con la quale teneva stretta fra le dita, anche in quel momento, la sua lettera d’ammissione.
Sebbene si fossero già salutati con una formale stretta di mano, lo scambio di sguardi fra i due non aveva minimamente accennato a volersi interrompere, nemmeno quando il più anziano aveva raggiunto la porta e posato la mano sulla maniglia. Gli occhi scuri e intraducibili del ragazzino avevano continuato a fissarlo in un modo insistente, lo stesso che avrebbe probabilmente riservato a qualcuno che andandosene avesse dimenticato le proprie cose sullo schienale della sedia.
Lo sguardo di chi sa di avere ancora un asso nella manica – un qualcosa di eclatante e imprevedibile! – e sta attendendo solo il momento più consono per sfoderarlo e lasciare di stucco l’avversario.
Quando alla fine aumentò la presa sul pomello e la voce di Tom Riddle gli giunse ancora una volta da dietro le spalle, Silente seppe di non essersi sbagliato sulle proprie supposizioni.
< Ha una di queste anche per lei?> chiese il ragazzino, portandosi la busta davanti agli occhi e girandola appena, per esaminarla approssimativamente su entrambi i lati. < O dobbiamo usarne entrambi una sola?>
< Come dici, Tom?>
Le labbra del bambino si tirarono in una linea stretta e derisoria. La replica del mago non aveva fatto altro che consolidare i suoi sospetti: non sapeva! Il tono di voce suonò esageratamente infantile e ingenuo, quando aggiunse:
< Mi chiedevo solo se ci fosse una lettera come questa anche per Phoebe…>
< Tom, chi è Phoebe?>
< E’ una maga > continuò il giovane Riddle, ignorando la domanda. < Quindi dovrebbe avere anche lei la sua lettera.>
Albus Silente lasciò la maniglia della porta per riportare tutta la propria attenzione sul giovane. Aspettò qualche minuto prima di parlare, la lingua che premeva contro i denti per il disagio.
< Temo che ci sia stato un malinteso…>
< Non c’è nessun malinteso.>
< Veramente io sono venuto qui solo per te, Tom, non…> cominciò a dire, mantenendo il tono gentile di prima. Ma la frase fu costretta a rimanere sospesa a metà.
Senza lasciargli nemmeno il tempo di finire, il ragazzino superò deciso l’adulto e prese la via della porta, scomparendo dalla stanza senza scusarsi né chiedere alcun tipo di permesso. La sua assenza durò poco e quando ritornò stava trascinando per la manica della divisa una ragazzina che altri non era che Phoebe Hool a undici anni. Erano passati ben tre anni dal miracoloso giorno dell’infermeria e, mentre Riddle era rimasto generalmente uguale rispetto ad allora, la ragazzina era un po’ cambiata: era cresciuta in altezza, arrivando quasi a raggiungere Tom, e i capelli neri si erano fatti più lunghi e in quel momento erano tenuti legati in due piccoli codini ai lati della testa. I tratti infantili del viso, invece, erano rimasti intatti.
Guardava Silente con uno sguardo apprensivo e sconcertato, completamente ignara di ciò che stava succedendo in quella stanza. La sua immobilità venne spezzata dallo stesso Tom che, spintonandola malamente in avanti, la esortò dicendo:
< Dai, mostraglielo! Lui è un mago e dice che quello che sappiamo fare è roba da maghi. Magia vera! E ci permetterà di andare in una scuola per maghi!>
La ragazzina fece scorrere lo sguardo da lui al mago più volte, titubante. Poi alla fine i suoi occhi si soffermarono sul ragazzino. Sembrava perplessa, preoccupata, come se temesse che il bizzarro individuo davanti a lei potesse sottrarle ciò che gli avrebbe mostrato.
< Ma, Tom…> protestò debolmente lei.
< Spicciati!> la zittì lui, spingendola di nuovo in avanti.
Phoebe sospirò. Poi, docilmente, si guardò intorno nella stanza, cercando qualcosa in particolare, fino a quando la sua attenzione non venne attratta dalla sciarpa violacea che abbracciava leggera il collo di Silente.
Strizzò appena gli occhi, concentrandosi.
Bastarono un paio di secondi: l’indumento, come destato da un inudibile richiamo, strisciò silenzioso lontano dall’uomo e cominciò a fluttuare a mezz’aria, ondeggiando e incurvandosi su se stessa con movimenti flessuosi, simile a un’aggraziatissima creatura marina. Dopo aver compiuto l’intero giro della stanzetta, si abbandonò ubbidiente nel palmo aperto del suo proprietario.
Silente afferrò saldamente il pezzo di lana e lo osservò come se non avesse mai visto in vita sua un simile oggetto.
< Qual è il tuo nome, mia cara?> le domandò, senza togliere gli occhi dalla sciarpa viola.
Lei tornò a irrigidirsi impercettibilmente, prima di rispondere accennando un primissimo e timido sorriso:
< Mi chiamo Phoebe Hool, signore…>
< Visto?> intervenne a qual punto Tom, che fino a quel momento se n’era rimasto in disparte. Il tono di voce trionfante e soddisfatto. < Io gliel’aveva detto.>
 
 

* * *

 
 
Harry Potter ritorna all’interno della presidenza con un salto e avverte un ronzio persistente in fondo alle orecchie. Non sa se è a causa del balletto vorticoso a cui l’ha costretto il Pensatoio o se per i troppi e nuovi dubbi che si rincorrono nella sua testa.
Non ci capisce più niente!
Quelle poche congetture che era stato in grado di mettere insieme nei giorni precedenti sono state spazzate via come un traballante castello di carte.
Cos’era successo in quella infermeria?
In cosa consisteva l’incantesimo effettuato da Tom Riddle; e quale portata aveva?!
Il giovane Grifondoro comincia davvero a pensare di avere affrontato la questione con il piede sbagliato, di non avergli dato la giusta importanza. Ha enormemente sottovalutato il reale potere che si era scatenato all’interno dell’orfanotrofio di Wool’s molti anni prima…
Il preside di Hogwarts raggiunge a sua volta l’ufficio in quel preciso istante. E’ un poco ansante ma imitando il proprio studente non si siede e risponde al suo sguardo turbato con il proprio, azzurrognolo e brillante.
< Ora puoi sottopormi le tue domande, Harry > dice semplicemente.
< Credo di non averne più nessuna, signore…> mormora il ragazzo, abbattuto. < Non…non avevo capito che Phoebe Hool fosse una strega.>
< E infatti non lo era.>
La mascella dello studente si irrigidisce. Involontariamente sente pulsare sopra lo stomaco una fugace antipatia per il proprio insegnante, che sembra provare un terrificante piacere nel confondergli le idee e rendergli le cose più difficili e intricate del previsto, quando invece potrebbe rendere tutto più semplice con poche parole chiare e tonde. Il tono di voce è palesemente infastidito quando obietta:
< Ma…ma mi ha appena fatto vedere che ha compiuto una magia. Davanti a lei!>
< E’ vero: quando incontrai Phoebe per la prima volta, lei possedeva delle capacità magiche che era discretamente in grado di controllare. Ma ciò non significa che ci sia nata con quelle capacità! Devi sapere, ragazzo mio, che il nome della giovane Hool non compariva nella lista che il vecchio preside Dippet mi consegnò quel giorno. All’inizio anch’io pensai ingenuamente a un errore o a una dimenticanza, ma in seguito arrivai a ben altra conclusione.>
< Quale?>
< Phoebe Hool non era una strega > ripete il mago con fermezza, come se volesse far capire al ragazzo che quel punto non è in alcun modo discutibile. < Le sue origini erano chiaramente Babbane. Nemmeno Tom Riddle riuscì a capirlo subito ma, quel giorno, oltre ad averla salvata dalla polmonite, le trasmise anche tutte le capacità magiche che lo caratterizzavano.
< Il Serpentese, ad esempio. Entrambi conoscevano quella lingua misteriosa; certo, Tom in modo nettamente più magistrale, ma anche Phoebe se la cavava abbastanza bene: i serpenti rimanevano ammaliati dalla sua presenza e lei non doveva temere nulla da loro.>
Il vecchio preside fa una pausa. Rimane a fissare pensieroso la propria mano annerita, come se stesse cercando le parole più adatte per proseguire il discorso. Poi, accarezzando dolcemente la lunga barba bianca, aggiunge:
< O anche le loro bacchette. Anni fa, quando il nome di Lord Voldemort stava diventando sempre più importante e temuto, ebbi un singolare colloquio con il signor Olivander. Mi confidò ciò che successe il giorno in cui i piccoli Tom Riddle e Phoebe Hool entrarono nel suo negozio per acquistare la loro prima bacchetta. Stessa lunghezza; stessa flessibilità; stesso legno; stesso cuore: non avevano sgarrato di una sola virgola. Erano due bacchette perfettamente uguali!
< Olivander disse che era un evento che non succedeva molto spesso, più unico che raro! Che una cosa del genere non si verificava nemmeno nei fratelli gemelli, per quanto potesse essere grande la somiglianza e l’affinità tra loro. Affermò – testualmente – che “sembravano quasi appartenere alla stessa persona.”>
< L-la…la stessa persona?> farfuglia incredulo Harry. L’ovattata confusione che lascia prepotentemente spazio a una sempre più fredda e agghiacciante consapevolezza.
Sì: non ha capito proprio niente! L’incanto utilizzato da Tom Riddle su Phoebe Hool doveva essere più potente e complesso di quanto avesse pensato: non solo aveva permesso alla bambina di sopravvivere alla malattia, ma l’aveva resa una coppia praticamente perfetta del suo salvatore. Lord Voldemort, negli anni, si era dimostrato un mago dalle strabilianti capacità, che le possedesse anche da così giovane? Ma qual era l’incantesimo in grado di fare una cosa del genere?
Gli occhi verdi del ragazzo sono ancora spalancati quando chiede, con tono cortese ma deciso:
< Vorrei che mi parlasse dell’incantesimo, professore. Cos’era Phoebe Hool? Cosa le aveva fatto Tom Riddle? Era…era come quella cosa di cui parlava il professor Lumacorno? Era – come lo aveva chiamato? – un…Horcrux? E’ questo il motivo per il quale voleva che recuperassi il ricordo originale del professore?!>
< Frena, frena, giovanotto: stai correndo un po’ troppo!> ridacchia Albus Silente con i palmi delle mani aperti e sollevati, sinceramente divertito da quell’impeto giovanile. < Voglio che tu sappia che riparleremo di tutte queste cose molto più dettagliatamente in seguito, ma è giusto che ora io ti dia qualche delucidazione e sradichi dalla tua testa un gravissimo errore.>
< Quale errore?>
< Phoebe non era un Horcrux. Sebbene ancora oggi io non sia del tutto sicuro riguardo a ciò che successe e che legò i due bambini in modo così indissolubile, questa è l’unica cosa di cui sono abbastanza certo. E i motivi sono molto semplici.
< Primo. Ricordi, vero, cosa disse il professor Lumacorno riguardo agli Horcrux e alla loro natura? “Si definisce Horcrux un oggetto nel quale una persona ha nascosto parte della sua anima.” E ha poi aggiunto che per spaccare l’anima è necessaria un’azione malvagia – contro natura! – come l’omicidio. Sarai d’accordo con me, Harry, che in quell’infermeria Tom Riddle non commise nessun tipo di assassinio, non si impossessò della vita di nessuno; anzi, probabilmente fu l’unica occasione in cui la concesse a un’altra persona > spiega il preside, inchiodando completamente l’attenzione del suo giovane studente con un unico, intenso sguardo.
Il Grifondoro rimugina su quelle parole per qualche minuto, prima di lasciarsi andare in un sospiro arrendevole e annuire con un impercettibile cenno del capo, comprendendo il proprio sbaglio dovuto all’eccessiva foga.
Il vecchio mago, soddisfatto, riprende il discorso:
< Il secondo motivo – presta molta attenzione, ragazzo mio, perché la differenza tra le due cose può essere molto sottile e sfuggevole – è che un Horcrux, per essere tale, ha bisogno della concessione da parte del mago di un pezzo della sua anima. Ciò che Tom diede a Phoebe non fu la sua anima, ma bensì una parte della sua vita!>
Harry Potter sgrana ancora di più gli occhi e ora sente chiaramente la testa vorticargli pericolosamente. Si allunga verso la propria sedia e afferra lo schienale con mano esitate, poi si siede: le ginocchia sembrano essersi liquefatte all’improvviso e teme seriamente che non riusciranno mai più a sorreggerlo. Fa passare più volte e nervosamente una mano fra gli arruffati capelli scuri, ottenendo il solo risultato di scompigliarli ancora di più.
< Mi dispiace, signore, ma io credo di non riuscire proprio a capire…sono ancora più confuso di prima!> afferma il ragazzo, facendo scorrere i palmi sudati l’uno sull’altro. < La prego, mi spieghi esattamente cosa accade in quell’infermeria. Cosa fece Tom Riddle per guarire Phoebe dalla polmonite?>
< E’ comprensibile che per te sia tutto molto confuso, Harry; stiamo parlando di magia straordinariamente avanzata e potente. I maghi che sono stati in grado di compierla possono essere contanti sulle dita di una mano. Ma c’è una cosa che devi assolutamente capire. Con quell’incantesimo, Tom non guarì Phoebe: la riportò in vita! Nel momento in cui lui invocò l’incanto, la bambina era già morta da qualche minuto. Ciò che Tom Riddle fece fu di ridarle la vita, strappandone un pezzetto dalla propria. In seguito, quindi, Phoebe Hool avrebbe vissuto una vita che non era la sua > dichiara il vecchio preside, girando intorno alla scrivania per mettersi di fianco al ragazzo. Come se quella semplice vicinanza potesse infondergli il coraggio necessario per accettare le sue parole.
Posa la mano sana sulla spalla del suo studente con leggerezza. Poi aggiunge:
< Riesci a vedere il senso, figliolo? Riesci a trovare la causa di certi episodi? E’ questo il motivo che si cela dietro la loro straordinaria somiglianza; il motivo per il quale la bambina Babbana divenne una strega a tutti gli effetti. E’ questo il motivo del fortissimo legame che li univa: condividevano lo stesso flusso vitale. La stessa vita. Erano le due facce della stessa medaglia; la stessa persona divisa in due entità differenti!
< Ricordi una delle nostre prime lezioni, Harry? Quando affermasti che Lord Voldemort non era in grado di provare affetto o interesse per nessun’altra persona all’infuori di se stesso? Beh…avevi ragione! In tutta la sua esistenza, il Signore Oscuro si interessò a una sola e unica persona: Phoebe Hool. Ed era naturale che finisse per innamorarsi proprio di lei: l’altra parte della sua vita, un’appendice della sua stessa essenza. Capisci? Si innamorò di se stesso!>
Il giovane Grifondoro fissa il volto del proprio insegnante con uno sguardo esitante e la bocca appena un po’ socchiusa che si apre e si chiude in continuazione, incapace di trovare le parole giuste per descrivere la propria incredulità.
< Ma signore…non può essere vero!>
< Perché no, figliolo?>
< Perché sarebbe una cosa…agghiacciante!> esclama infine. Abbassa lo sguardo per qualche secondo e respira profondamente, cercando di riacquistare un minimo di calma. < Ne è davvero sicuro?>
Albus Silente dedica al ragazzo un lungo sorriso silenzioso, prima di allontanarsi di nuovo attraverso lo studio, diretto alla spaziosa libreria che fa da sfondo alla sua scrivania.
Capisce l’esitazione del giovane Potter, i suoi dubbi. Anche lui, la prima volta che ebbe avuto l’opportunità di esaminare quei tormentati ricordi, aveva fatto molta fatica a credere a tutto ciò che aveva visto.
Era arrivato addirittura a sospettare che quella matassa argentata fosse l’ennesimo tranello del Signore Oscuro per ingannarlo e confonderlo.
Ma invece no.
Era tutto vero. Per quanto contorta e spaventosa potesse essere quella realtà, era tutto vero!
Il ragazzo aveva solo bisogno di una prova tangibile.
< Cosa…cosa vuol fare, signore?>
< Solo mostrarti qualcosa che dissiperà qualsiasi tua incertezza, Harry > gli risponde l’altro serenamente, fermandosi sotto al trespolo sul quale un rattoppato e abbacchiato Cappello Parlante ronfa sommessamente. Si alza un poco sulle punte dei piedi e, allungando la mano che impugna la bacchetta, comincia a punzecchiare la tesa dell’oggetto incantato.
< Cappello Parlante: sveglia!> lo chiama il mago con decisione. < Ehi, copricapo, mi senti?>
< MA INSOMMA! Silente, ti sembra questo il modo di comportarsi?! Stavo riposando…e il mio nome non è “copricapo”!> strilla acutamente in risposta il magico Cappello, scuotendosi tutto.
Nonostante sia ancora piuttosto scosso, Harry Potter non può trattenersi da emettere una breve risatina davanti a quella scena a dir poco buffa ed esilarante. Anche il preside sogghigna appena sotto la barba, mentre accenna un piccolo inchino e dice:
< Perdona le mie brutte maniere, Cappello Parlante, ma devo chiederti una cosa con una certa urgenza.>
< Bene. Sentiamo un po’ > risponde il Cappello, sbuffando rumorosamente.
< Rammenti lo Smistamento di Phoebe Hool?>
< Phoebe Hool?!> domanda perplesso l’altro, come se il mago avesse pronunciato una parola stranissima appartenente a una lingua antica e sconosciuta. < A essere sinceri, questo nome non mi dice proprio nulla.>
< Com’è possibile, Cappello Parlante? Non dovresti ricordarti precisamente di ogni giovane mago o strega sul quale capo vieni posato?>
Le sopraciglia stoppose del Cappello si incurvano minacciose e torve, mentre protesta stizzito:
< Hai idea, mio caro Silente, dell’enorme numero di maghi e streghe che ho smistato, durante gli incalcolabili anni di vita di questa scuola?! Saranno stati centinaia, migliaia. Forse anche milioni! Non me li posso ricordare tutti!>
< Immagino che, però, il nome di Tom Riddle non ti suoni affatto nuovo > ribatte il mago, con un tono a metà tra la sfida e il rimprovero.
< Tom Riddle, oh, Tom Riddle > esclama l’altro, con una più che evidente nota di adorazione nella voce. < Che mago! Che capacità! Che potere! Emanava magia da tutti i pori. Non è più capitato sotto di me un mago di un livello pareggiabile al suo!>
Silente alza semplicemente gli occhi al cielo e mette fine allo sproloquio del magico Cappello pronunciando un esasperato:
< Accio Cappello Parlante!>
All’istante, richiamato dall’incantesimo del preside, il Cappello Parlante si solleva in aria sopra il suo trespolo e sfreccia ubbidiente fra le mani del mago, ribellandosi rumorosamente. Urla ancora quando Silente gli appoggia la bacchetta sulla punta sfilacciata e pronuncia a fior di labbra la formula di un altro incantesimo.
Un filo argentato e rotante esce e si allontana dall’oggetto incantato. Il vecchio mago lo tiene saldamente con la bacchetta, lo avvicina al Pensatoio e lo fa immergere. Poi riporta il Cappello Parlante e le sue lamentele al proprio posto e torna ad avvicinarsi a Harry. Senza aver bisogno di dire nulla, si lasciano sprofondare insieme in un nuovo ricordo.
Cadono entrambi in piedi e al ragazzo basta una mezza occhiata per riconoscere la Sala Grande della scuola e l’Albus Silente dai capelli rossicci e il fisico asciutto, che tiene sollevato con una mano un lungo rotolo di pergamena che gli sfiora le ginocchia, mentre l’altra sorregge un Cappello Parlante meno logoro e meno scorbutico.
< Spero che la formula dell’incantesimo sia corretta…> gli mormora il Silente dai capelli bianchi, mentre si avvicinano al suo doppione. Basta una manciata di secondi perché il Silente del passato pronunci con voce alta e stentorea proprio il nome di Phoebe Hool, dissipando all’istante le loro preoccupazioni. Il preside di Hogwarts fa un sorrisetto gongolante, prima di aggiungere: < Oh sì: era corretta!>
Il giovane Grifondoro intanto fa scorrere lo sguardo sul cospicuo gruppetto di ragazzini che affollano il passaggio fra le tavolate di Grifondoro e Corvonero. Gli ci vuole un po’ per intravedere la ragazzina, seminascosta fra gli altri del gruppo, che nel sentir pronunciare il proprio nome sbarra gli occhi verdi spaventata. La vede voltarsi esitante verso l’undicenne Tom Riddle in cerca di un po’ di sostegno ma il ragazzino si limita a rispondere al suo sguardo in silenzio e a liberare la propria mano che fino a quel momento era rimasta saldamente intrecciata a quella dell’altra. Poi la spinge lievemente in avanti.
La piccola Hool si fa strada fra i suoi coetanei e si avvicina con passo esitante al mago che sorregge il Cappello magico, mentre le mani si incontrano e si torturano a vicenda sopra il petto dove il cuore le batte dolorosamente. Si siede con cautela sul seggiolino e alza di nuovo lo sguardo cercando il volto di Riddle in mezzo a tutti gli altri.
Si irrigidisce vistosamente quando il Cappello Parlante le viene adagiato in testa. E in quello stesso momento, il Silente dalla lunga barba bianca afferra Harry per un braccio e con lui si avvicina il più possibile per poter ascoltare il borbottare del Cappello.
< Ummm…> riflette quello, con aria pensierosa e in modo che solo lei possa sentirlo. Il giovane Grifondoro è così vicino che può percepire perfettamente il modo in cui la bambina trattiene il fiato per l’agitazione. < Bene, bene. Molto bene. Mi sembra di poter affermare con assoluta certezza che hai tutte le carte in regola per eccellere nella nobile Casa di Helga Tassorosso, ragazza mia: grande pazienza dimora nel tuo animo. Costanza. E una lealtà incrollabile! Eppure…eppure. Non so. C’è qualcosa in te, qualcosa – un’energia, un’aura! – che rende insignificanti tutte queste tue doti e mi spingono a mandarti verso…verso Serpeverde. E’ una cosa strana, non so, potrei osare…? Ho deciso! SERPEVERDE!>
L’ultima parola è urlata a gran voce e rimbomba veloce contro le pareti, insieme al boato festoso proveniente dalla tavolata all’estrema destra della Sala Grande. Phoebe Hool aspetta che il giovane Silente le sfili il Cappello Parlante dal capo e gli lancia uno sguardo dubbioso, come se non sapesse cosa fare esattamente a quel punto. Poi, a piccoli passi e guardando ancora in direzione dell’amico, si dirige verso gli alunni con la divisa verde-argento che la invitano a raggiungerli con ampi gesti delle braccia.
Nel momento in cui un certo Reginald Light viene chiamato per il suo Smistamento, il Silente del presente decide che hanno già visto ciò che serviva loro e si affrettano a uscire dal ricordo.
Ritornano all’interno della presidenza con il solito turbolento balletto. Si lasciano entrambi cadere esausti sulle rispettive sedie e rimangono in silenzio un po’, per assimilare le nuove informazioni ricevute e per riprendere fiato.
E quando alla fine gli occhi azzurri di Albus Silente incontrano quelli di Harry Potter, il vecchio preside di Hogwarts sa di essere riuscito nel suo intento.
Sa che non ci sono più dubbi.
 
 
 
 
< E poi, signore? Cosa è successo dopo?>
< Beh, Tom e Phoebe vennero smistati entrambi in Serpeverde. Iniziarono a frequentare Hogwarts, a seguire le lezioni e a fare tutte quelle cose che quotidianamente fa uno studente della nostra scuola. E crebbero! Cominciarono a cambiare e, insieme a loro, anche il loro rapporto.>
< In che modo cambiò?>
< Permettimi di mostrartelo, Harry.>

 
 
 
Note dell’autore.
 
Buon lunedì pomeriggio a tutti voi!
Qui è Latis Lensherr che vi scrive dal buio e inospitale antro di casa sua, sperando che il rumore dei tasti non disturbi il sonno del piccolo demonietto che sta dormendo placidamente nell’altra stanza.
Eccoci qui con il quinto capitolo di questa mia fan fiction!
Voglio annunciarvi che questo è l’ultimo capitolo che seguirà fedelmente la vecchia linea-guida della versione precedente: dal sesto capitolo ci saranno i cambiamenti più grandi ed evidenti. Oh cielo, sono così emozionata! Voi no?
 
Passiamo ora alle solite precisazioni.
Solite precisazioni che anche in questo capitolo si concentrano in una sola ed unica. Come avete potuto vedere, qui abbiamo un INTERO capitolo di chiacchiere tra Harry e Silente. Come sempre, spero di aver rispettato il carattere dei personaggi e di averli resi bene, ma soprattutto spero che il discorso fra i due sia stato il più chiaro possibile e logico.
Perché è proprio grazie a questa chiacchierata che si mette in chiaro un punto importante della storia e che nella vecchia versione avevo lasciato un po’ sospeso: PHOEBE HOOL NON E’ UN HORCRUX!
Oh. L’ho detto!
So che gli effetti dell’incantesimo fatto da Tom sono simili, se non proprio identici, alle conseguenze che Harry nella saga riscontra nella saga per il suo “essere Horcrux”. Ma davvero, Phoebe non è un Horcrux, non c’entra proprio niente. Spero che sia chiaro ma comunque avremo tempo in futuro per chiarire meglio tutti gli aspetti dell’incantesimo che lega Tom a Phoebe.
In poche parole…NE RIPARLEREMO :)
 
Poi…che altro posso aggiungere?! Ah sì, in questo capitolo vi ho fatto in modo quasi praticamente esplicito, in quale delle quattro Case di Hogwarts sarebbe dovuta finire Phoebe, se non avesse avuto la fastidiosa aura di Tom addosso. Cosa ne pensate? Siete d’accordo con me? Sono davvero curiosa di sapere quali sono le vostre opinioni.
 
 DATA DEL PROSSIMO CAPITOLO?! LUNEDI 5 AGOSTO!
Oh cielo, sono così emozionata :D
 
E infine, ultimo ma non per importanza, i RINGRAZIAMENTI. Ringrazio con tutto il mio cuoricino colmo d’amore BLOOD_MARY95, KURAPIKA95, HONEY_H (hai cambiato nick, vero, furbetta? ;) ), ERODIADE e RURUE.
Il mio buonumore e la mia gaiezza indecente è tutto merito vostro ^^
 
Naturalmente, un grazie va anche a chi ha inserito la storia nelle preferite, ricordate o seguite e a chi legge solamente :)
 
Spero di rivedervi tutti al prossimo capitolo!
Un bacio. Latis.

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Capitolo 6
*** Domenica pomeriggio ***


Capitolo sei: Domenica pomeriggio
 
 
Un, due, tre…Feraverto!
Il piccolo allocco spalancò gli occhietti gialli e liquidi e si alzò sulle unghie ricurve, come se qualcuno gli avesse strappato a tradimento una piuma dalla coda. Infossò la testa fra le zampe e si accartocciò su se stesso, mentre le penne sbiadivano velocemente perdendo la loro naturale colorazione bruna. Il tutto terminò nel giro di un secondo e mezzo e Phoebe Hool avrebbe voluto ingoiare la propria bacchetta per la disperazione. La trasfigurazione del minuscolo rapace era riuscita, certo, e sarebbe anche andata bene se non fosse stato per il fatto che il bicchiere somigliasse più a un boccale per la Burrobirra che a un calice di cristallo. E se non fosse stato per quegli occhietti gialli che spuntavano dal bordo dell’oggetto e che la fissavano con odio!
Sospirò e annullò l’incantesimo con un lento movimento del polso, maledicendosi per come invece quella formula le riuscisse più che bene. L’allocco, con uno sguardo ancora traumatizzato a causa del trattamento ricevuto, stiracchiò più volte le zampette intorpidite e protestò vivacemente con piccoli strilli striduli.
< Non guardarmi in quel modo > lo ribeccò subito la ragazzina, incrociando le braccia sul petto e gonfiando le guance. < Non mi diverto nemmeno io a torturarti, sai? E’ tutta colpa di questa roba: è inutile, insulsa e…assolutamente stupida! Perché mai un mago dovrebbe imparare a tramutare un animale in un bicchiere, quando può semplicemente farlo apparire con un altro incantesimo?>
< Dovremmo tramutare te in un bicchiere…e usarti per il tiro al bersaglio > esclamò inaspettatamente una voce alle sue spalle.
Phoebe non fece in tempo a voltarsi, perché due mani le afferrarono prontamente il colletto nero del soprabito tirandoglielo fin sopra la testa. Poi, mentre un braccio le circondava la fronte per tenerla ferma, percepì la pressione dolorosa di quattro nocche che le sfregavano con malagrazia il cuoio cappelluto. Nonostante avesse tentato strenuamente di allontanare quella presa, riuscì a liberarsi solo quando il suo aguzzino si fu stancato di torturarla in quel modo. Si liberò goffamente della stoffa del soprabito, scompigliandosi ancora di più i capelli neri e lasciandosi andare in un infantile e lamentoso:
< Ahia!>
Solo allora poté vedere in faccia chi le aveva riservato quel tiro mancino e per poco non fece un salto sul posto, che l’avrebbe quasi sicuramente fatta cadere di schiena sul pavimento gelido della Sala Comune. Due ragazzi, entrambi avvolti in mantelli leggeri sui quali lo stemma verdeggiante di Serpeverde spiccava in mezzo al tessuto nero, la guardavano dall’alto in basso rivolgendole sguardi non proprio amichevoli. Quello più smilzo e coi capelli chiari aveva le braccia incrociate sul petto e quell’espressione di esasperato rimprovero che sembrava riservare soltanto a lei; l’altro, più robusto e solo leggermente più basso, le stava offrendo il migliore e più odioso dei suoi sorrisi.
Dannazione, pensò la ragazzina deglutendo a fatica. Xerxes Avery e Tristan Carrow.
< Non lamentarti, Hool, perché meriteresti anche di peggio > l’apostrofò Carrow continuando a sogghignare. L’afferrò per il bavero della divisa scolastica, nello stesso modo che avrebbe usato per un gattaccio disubbidiente, e con un unico strattone la costrinse ad alzarsi in piedi. < Per cercare te e quello stupido rapace in lungo e in largo per l’intero castello, ho sprecato ben due ore della mia sacrosanta domenica pomeriggio. In questo momento dovrei già essere a Mielandia a strafogarmi di qualsiasi schifezza che hanno a disposizione!>
< Non è uno “stupido rapace” > intervenne Avery alle sue spalle, col solito tono di voce piatto e privo di entusiasmo.
< E invece lo è! E’ una stupida e pidocchiosa pallina di piume che si lascia corrompere con mezzo cracker.>
Xerxes chiuse la questione lanciando all’amico un’occhiataccia fulminante che lo zittì all’istante, poi, con un lieve sorriso, fischiettò due brevi note e disse:
< Vieni qui, Pau.>
L’allocco cinguettò felice e spiccando un salto volò immediatamente sulla spalla del suo padrone; Phoebe Hool non poté trattenersi dal ridacchiare internamente per il bizzarro nome che l’animaletto aveva ereditato da uno dei famosi violoncellisti che Avery apprezzava e che era solito ascoltare. Ma il sorrisetto le sparì di botto dalla faccia, quando il compagno di Casa tornò a posare lo sguardo su di lei perdendo l’espressione intenerita.
< Sorvolerò sul fatto che hai rapito il mio gufo per l’ennesima volta, Hool. Quindi, cosa diavolo stai facendo qui?>
La ragazzina aprì istintivamente la bocca per ribattere ma poi la chiuse di nuovo, pensando che quella fosse una domanda alquanto bislacca e che il termine “rapito” fosse decisamente esagerato. Si grattò una tempia e rispose, cauta:
< Mi sto esercitando per l’interrogazione di Trasfigurazione di domani: il professor Silente ha detto che questo incantesimo sarà fondamentale per imparare tutti quelli nuovi di quest’anno. E tu lo sai quanto mi sia difficile padroneggiarlo…>
< Ah, è vero! Mi ricordo che al secondo anno eri un vero e proprio disastro e che hai passato l’esame finale solo grazie a una plateale botta di culo > intervenne Tristan, sghignazzando. < Sei nella merda, Hool! Questa volta niente salverà quelle tue chiappe piatte.>
La ragazzina gli lanciò un’occhiataccia di sottecchi ma non rispose. Rammentava ancora con brividi terribili le notti insonne e gli attacchi isterici che aveva dovuto sopportare per poter effettuare correttamente l’incantesimo una sola, sacrosanta volta e non rischiare così la bocciatura in Trasfigurazione. Carrow le spettinò ulteriormente i capelli con fare derisorio, prima di voltarsi verso l’amico e chiedere:
< Ora che abbiamo trovato l’impiastro, abbiamo finito? Ce ne possiamo andare a Hogsmeade?>
< C’è da riportare Pau in Guferia, prima.>
< Che cosa?! Ma porca di quella…dai qua. Dai qua!>
Il ragazzo catturò prudentemente l’uccellino con entrambe le mani e, senza nemmeno accertarsi che il compagno di stanza lo stesse seguendo, si precipitò a grandi passi verso l’uscita di pietra della Sala Comune borbottando improperi incomprensibili. Avery rimase a fissarlo fino a quando non sparì dalla loro visuale con l’ombra di un sorriso che gli copriva la faccia, anche quando si mise a rovistare all’interno di una tracolla marrone che fino a un momento prima era rimasta nascosta sotto il suo mantello. Poi tornò a rivolgersi verso la compagna di Casa porgendole un fascio arrotolato di pergamene.
< Appunti di Trasfigurazione. Prova a dargli un’occhiata: magari riesci a tirarne fuori qualcosa per domani > disse semplicemente.
Phoebe guardò i fogli a occhi spalancati, allungò titubante una mano e li afferrò con cautela, come se fossero stati un candelotto di dinamite.
< Dici davvero?> esclamò poi, entusiasta e sbigottita, rivolgendogli un enorme sorriso. < Oh, grazie, Xerxes. Grazie, grazie, grazie: mi salvi la vita…ma tu vai in giro per Hogsmeade con le cose di scuola sotto il mantello?>
< Vuoi che me li riprenda all’istante?>
< Assolutamente no! Grazie ancora, Xerxes.>
< Lascia perdere. Ora è meglio che vada, prima che Tristan cominci a prendere in considerazione l’idea che Pau sarebbe più utile infilzato e arrostito su uno spiedo. Passa una buona giornata, Phoebe > rispose il ragazzo ridacchiando e facendo un passo indietro.
< Grazie…> ripeté la ragazzina, rigirandosi i preziosissimi appunti fra le mani. L’illuminazione le affiorò alla mente, improvvisa come un pizzicotto. < Oh! Aspetta: non mi avete detto il motivo per il quale mi stavate cercando.>
Avery si era già allontanato di almeno una decina di passi in quel momento. Si picchiò una mano sulla fronte e, mentre ricominciava a muoversi verso l’ingresso della Sala Comune camminando all’indietro, spiegò:
< Lui mi ha detto di venirti a cercare. Dice che vi eravate messi d’accordo per vedervi…e che sei parecchio in ritardo.>
 
 
 
Sono morta. Sono ufficialmente morta, pensò Phoebe Hool, mentre attraversava a perdifiato i sotterranei della scuola rischiando di travolgere un gruppetto di ragazzini verde-argento del secondo anno che si era ritrovata davanti.Questa volta, Tom mi maledice per davvero!
La sacca a tracolla piena di pergamene e piume le batteva ritmicamente contro il fianco, mentre saliva le scale a due gradini per volta e pregava affinché le boccette d’inchiostro non si aprissero a causa dell’eccessivo sballottamento. Arrivata in cima si fermò per un momento a riprendere fiato, piegata in due e con una mano sul corrimano, per poi ricominciare a correre quando il rintocco della mezza la fece schizzare nuovamente in piedi. Percorse la Sala d’Ingresso senza rallentare e cercando di ignorare le fitte intercostali: mentre si gettava a rotta di collo oltre il portone, evitò per un soffio di cadere rotolando giù per le scale ma non fece abbastanza in tempo per schivare due ragazze di Tassorosso che camminavano lì vicino. L’urto fece precipitare a terra tutti i libri che le due tenevano fra le braccia.
< Scusate!> urlò nella loro direzione continuando a correre per il ritardo, ma anche per evitare le eventuali fatture che le due avrebbero potuto scagliarle contro.
Mentre calpestava il terreno bagnato e cedevole, a causa dell’insistente pioggerellina che era caduta nei giorni precedenti, la ragazzina non poté fare a meno di constatare che, per essere la domenica del mese in cui i professori concedevano agli studenti di visitare il vicino villaggio magico di Hogsmeade, c’erano decisamente troppe persone in giro. E probabilmente Tom non sarebbe stato molto contento nemmeno di questo.
Siccome nessuno dei due aveva il permesso di partecipare alle uscite organizzate dalla scuola, solitamente approfittava di quelle giornate – in cui il numero degli studenti si dimezzava sensibilmente – per portare avanti progetti e ricerche piuttosto importanti noti soltanto a lui.
Quando finalmente passò davanti alle serre di Erbologia, velocizzò ulteriormente il passo e imboccò il sentiero sterrato che permetteva di raggiungere il recinto dove si tenevano le lezioni di Cura delle Creature Magiche. Era un percorso che conosceva piuttosto bene visto che da un anno abbondante seguiva quella materia, eppure, mentre il suono del proprio fiato corto le rimbombava nelle orecchie, avrebbe giurato che quella strada era stata decisamente più breve l’ultima volta che l’aveva attraversata. Si concesse di rallentare il passo e di percorrere lentamente il leggero pendio che le mancava da fare e, quando intravide la recinzione di legno nella quale il professor Kettleburn teneva le sue lezioni, non lanciò un urlo di gioia ma solo perché non aveva più fiato per farlo. Seguì spedita la curva delle mura di pietra e finalmente raggiunse il luogo dove lei e l’amico d’infanzia erano soliti trovarsi: un’enorme distesa di prato situata nella parte posteriore della scuola e completamente deserta.
Eccezion fatta per Tom Riddle.
Il ragazzo era seduto sull’erba verde – sapientemente asciugata grazie a un incantesimo – con la schiena appoggiata alle rocce secolari e in compagnia del ricco bottino che doveva essersi procurato dopo aver saccheggiato la Biblioteca. Libri aperti o accatastati pericolosamente gli uni sugli altri, fasci di fogli sparsi a ventaglio o raggruppati in palline accartocciate poco distante; svariate piume e una boccetta d’inchiostro rimasta aperta.
Non ebbe nemmeno il bisogno di alzare lo sguardo per sapere che lei era lì.
< Sei in ritardo > si limitò a dire come saluto, mentre con una matita tracciava una riga assurdamente dritta su una pergamena.
< Lo so. Scusami > bofonchiò a testa bassa la ragazzina. < Stavo studiando in Sala Comune e non mi sono accorta che fosse già così tardi. Cosa devo fare, oggi?>
Tom diede un’altra lunga occhiata ai suoi schemi prima di metterli da parte e agguantare la sua tracolla dalla quale estrasse due pesanti volumi, sui quali spiccava il logoro titolo “Storia e discendenze dei maghi d’Inghilterra – Parte I e II”, e che appoggiò sull’erba accanto a sé.
< Oh no…di nuovo?!> piagnucolò Phoebe, quando si rese conto di che cosa si trattasse. Il ragazzo alzò finalmente lo sguardo su di lei per lanciarle una silenziosa ma eloquente occhiata d’ammonimento, che le fece aggiungere prontamente: < Va bene, va bene. Come non detto…>
Si sedette a sua volta per terra e, mentre l’amico riprendeva in silenzio il lavoro interrotto, sfogliò rapidamente le pagine ingiallite cercando il punto in cui era arrivata la volta precedente.
Se i suoi calcoli non erano sbagliati, ormai erano passati due anni da quando Tom aveva deciso di cominciare quella ricerca.
Ricordava ancora quel pomeriggio del secondo anno in cui lui, tenendole stretto il polso e senza darle alcun tipo di spiegazione, l’aveva letteralmente trascinata in Biblioteca per cercare dei libri che non erano nemmeno nell’elenco dei testi del loro anno.
Ma non abbiamo già troppa roba da studiare così?, aveva pensato sconsolata, mentre con un piede appoggiato sulle mani intrecciate dell’altro aveva cercato goffamente di arrampicarsi sullo scaffale di legno per raggiungere l’ultimo ripiano. Era pure scivolata picchiando dolorosamente l’osso sacro contro il pavimento, ma ciò non era stato abbastanza per guadagnarsi la possibilità di conoscere il misterioso motivo che aveva richiesto tanta fatica. Anzi, aveva dovuto pazientare per un intero mese prima che l’amico si decidesse a scucire qualcosa. Ricordava perfino quell’esatto momento: se ne stavano in fila con il resto della classe durante una lezione di Volo, le scope strette in pugno, aspettando che fosse il loro turno di affrontare il percorso a ostacoli preparato dal professor Nuvolaris.
< Sono convinto di poter rintracciare le famiglie dei miei genitori > aveva detto a mezza voce, guardandola da sopra la spalla. < Riuscire a trovare qualche traccia dei Riddle non dovrebbe essere una cosa troppo complicata. Basta consultare qualche resoconto ufficiale degli ultimi cinquant’anni: censimenti, registri di nascite e decessi, cose così. E una volta trovata la famiglia di mio padre, sarà un giochetto da ragazzi risalire al nome di mia madre.>
Aveva lasciato passare una manciata di secondi per assimilare quelle parole, ma si era ritrovata senza sapere cosa pensare e quindi si era limitata a chiedere:
< Ne sei sicuro, Tom?>
< Certamente. Chissà che poi, durante le mie ricerche, non mi imbatta anche in qualche Hool > aveva confermato, prima di salire in groppa alla propria scopa.
Ma, sebbene avessero dedicato a quell’attività un’enorme quantità di tempo ed energie, i risultati non erano stati altrettanto equivalenti. Phoebe aveva percorso avanti e indietro, più volte, tutte le discendenze e tutti gli alberi genealogici presenti in quei due grossi volumi, tutti i nomi delle famiglie registrati dal Ministero della Magia dal momento della sua formazione e nei secoli seguenti. Eppure non era emerso nulla. Il nome Riddle non era mai comparso – e tantomeno quello degli Hool, ma non avrebbe mai osato farglielo notare! – nemmeno un cognome che ci somigliasse anche solo lontanamente. Niente.
Tom si era invece dato da fare sui registri annuali che la scuola accumulava scrupolosamente in una sezione apposita della Biblioteca, concentrandosi in special modo sugli anni in cui aveva ipotizzato che il genitore avesse dovuto frequentare Hogwarts.
Ma oramai era anche lui giunto quasi alla fine delle sue ricerche senza uno straccio di risultato.
La ragazzina sapeva che tutto questo poteva significare una cosa sola: che esisteva una più che tangibile possibilità che Tom Riddle senior non avesse mai messo piede in quel luogo. Certo, ciò non significava necessariamente che l’uomo fosse privo di poteri magici, ma di sicuro avrebbe dimezzato le loro speranze. Era quasi certa che questo pensiero avesse attraversato anche la mente dello stesso Tom almeno una volta, sebbene nessuno dei due avesse minimamente accennato a concretizzare in parole quell’idea.
Questo fu l’unico punto negativo che segnò la permanenza del ragazzo a Hogwarts nei suoi primi quattro anni. Per il resto, Tom Orvoloson Riddle non aveva impiegato molto tempo a distinguersi e a farsi conoscere, oltre che fra i Serpeverde anche in tutto il resto della scuola. Le sue sorprendenti capacità erano cosa risaputa e si era ormai perso il conto delle lodi che tutto il corpo insegnanti, nella quasi totalità, riservavano per lui – era già più volte girata la voce secondo la quale il semplice Eccezionale non bastasse più e che ben presto avrebbero inventato un nuovo voto, su misura per lui. Il suo bell’aspetto, poi, contribuiva soltanto ad aumentare la sua popolarità e la sua fama.
Phoebe aveva sempre paragonato i tanti ammiratori e sostenitori del suo amico a quelle grosse falene dalle ali farinose che svolazzavano goffamente intorno alla fiamma tiepida, luminosa e letale di una candela. La falena era affascinata dalla luce accecante che la chiamava e che la voleva vicino a sé, ma allo stesso tempo era intimorita dal calore soffocante che le ustionava e sbrindellava le ali. La falena sapeva – lo intuiva – che quello splendore era pericoloso, che non si doveva lasciar ingannare, e per qualche tempo si teneva alla larga…per poi alla fine gettare alle ortiche ogni buonsenso e finire carbonizzata sopra la cera indurita che si era accumulata intorno al portacandela. La maggior parte degli studenti di Hogwarts si comportava esattamente nello stesso modo: venivano ammaliati dai suoi successi e dalla sua disponibilità ad affrontare lunghe discussioni sui più svariati argomenti scolastici. Dal suo modo di fare sicuro e accattivante che esercitava un fascino difficile da contrastare. Poi c’era un momento in cui si ritraevano da lui, disorientati, un momento in cui i suoi gelidi sorrisi di circostanza o la sua gentilezza costantemente misurata sembravano creare un’ombra; un’ombra che ottenebrava e divorava quella luce dalla quale erano stati tanto attratti in precedenza…e che, per un fugace e brevissimo istante, mostrava loro la vera natura di ciò che albergava dietro di essa. Ma, come le falene, ben presto anche loro scordavano gli sciocchi timori che tanto li avevano spaventati per tornare a seguire il ragazzo con più interesse di prima.
Per quanto riguardava lei, invece, sembrava che la popolarità del suo amico d’infanzia non fosse riuscita a darle un po’ di risalto. Tutti sapevano che faceva parte di quel gruppo ristretto di persone che avevano il privilegio di frequentare assiduamente Riddle. E tutti sapevano che provenivano entrambi dallo stesso orfanotrofio Babbano di Londra: ma dubitava che fossero in molti a sapere quale fosse il suo nome. Era come se la sua presenza costante al fianco del ragazzo si fosse tramutata in una strana aura che leggiadra le aleggiava attorno; un’aura simile a una nuvola di profumo che non l’abbandonava mai e che scoraggiava quasi chiunque ad avvicinarla. E ciò aveva irrimediabilmente compromesso i suoi rapporti con gli altri studenti che, col passare degli anni, erano diventati praticamente nulli. Si era ritrovata a vivere nella gigantesca e avviluppante ombra di Tom Riddle, passando inosservata agli occhi dei suoi coetanei.
Ma, a conti fatti, non avrebbe rinunciato al suo posto per nulla al mondo.
Aveva passato tutta la sua vita a fianco di Tom, così tanto tempo da essere riuscita ad abituarsi in modo quasi naturale a ogni aspetto della sua complessa personalità. Aveva passato così tanto tempo lì, all’interno della sua ombra, da essere riuscita a dissipare il freddo e, addirittura, a trovarci un po’ di protettivo tepore. Certo, non era sempre stato tutto semplice e soddisfacente come fare una passeggiata lungo il Tamigi; anzi, il più delle volte aveva dovuto sopportare in silenzio incomprensibili sbalzi d’umore e assecondare le richieste più spiazzanti, però non poteva negare che ci fossero stati anche dei lati positivi in tutto ciò: stare nella sua ombra aveva significato non essere accecata da quella luminosità che lui naturalmente emanava e che ingannava e confondeva tutti gli altri. E probabilmente era stato proprio grazie a ciò che i suoi occhi avvezzi avevano potuto osservare indisturbati i particolari che si nascondevano dietro. Aveva potuto scrutare oltre a quell’immagine di studente e ragazzo perfetto e vedere le piccole cose che nessuno si preoccupava di notare, ma che facevano parte di lui forse più profondamente di tutto il resto: come quella piccola ruga che gli si formava in mezzo alla fronte ogni volta che si fermava a valutare una situazione particolarmente dubbiosa o l’espressione assorta con la quale seguiva le lezioni, senza mai prendere un solo appunto. Il modo in cui si massaggiava quella precisa porzione di guancia appena accanto al naso con il dorso dell’indice, quando accumulava troppe ore di lavoro e troppa stanchezza. O come la piega infastidita che assumeva la sua bocca, ogni volta che era costretto a scostare quel riccioletto nero che gli ricadeva immancabilmente in mezzo alla fronte. La sua abitudine di dormire con un libro sistemato sotto il cuscino.
Accanto a lei, Tom cambiò posizione e le voltò le spalle mentre rovistava all’interno della propria tracolla, borbottando qualcosa di incomprensibile a proposito di una frase di un altro libro che doveva rivedere immediatamente. Phoebe gli indirizzò di nascosto un sorrisetto affettuoso.
: stare al fianco di Tom Riddle non era stato sempre semplice, ma continuava a pensare che non avrebbe rinunciato al suo posto per nulla al mondo! Dal suo posto era riuscita a vedere dettagli tanto piccoli che qualcun’altro avrebbe anche potuto considerare banali. Ma per lei non lo erano mai stati, tutt’altro, perché era proprio grazie ad essi che aveva finito per infatuarsi del suo migliore amico.
Quel pensiero le imporporò vistosamente le guance e rituffò rapida il viso fra le pagine del grosso volume.
Era pienamente consapevole della sua situazione da poco meno di un anno e ogni volta era buffo ripensare che aveva preso coscienza dei suoi sentimenti mentre era completamente invaghita di un altro ragazzo. Durante i primi tre anni di scuola, infatti, trasportata dai primi, acerbi e inesperti interessi per i rappresentati dell’altro sesso, aveva scoperto di essere irresistibilmente attratta non dal suo affascinante e bellissimo amico d’infanzia, ma bensì da uno dei quattro ragazzi con i quali quest’ultimo condivideva la stanza nel Dormitorio. Il prescelto era stato nientemeno che Xerxes Avery; lo stesso Xerxes Avery che quel pomeriggio aveva deciso di condividere con lei i suoi appunti di Trasfigurazione. Rammentava con un certo imbarazzo tutte le volte che si era persa a fantasticare sulle sue labbra sottili e sul suo viso chiaro e liscio; quanto adorasse la sua voce calma e gentile. E, soprattutto, quanto quei suoi grandi occhioni grigi da cerbiatto la intenerissero facendole squagliare le ginocchia! Aveva sospirato per lui per parecchio tempo, fino a quel giorno del terzo anno in cui aveva deciso di accompagnarlo alla Torre di Astronomia, dove il ragazzo doveva consegnare un compito di cui si era ricordato la scadenza troppo tardi. Anche se avesse cercato di spremere ogni singolo neurone che aveva, per ricordare precisamente tutti i particolari di quel pomeriggio, non sarebbe mai riuscita a capire quale fosse stata la causa scatenante di quello che successe. Ricordava solo che Xerxes era stato più silenzioso e pensieroso di quanto già non fosse solitamente, mentre lei lo seguiva col fiato grosso arrancando su per le scale e lagnandosi in modo sconclusionato sul fatto che lei era una ragazza e che in una società civile le ragazze non avrebbero dovuto mai faticare così tanto!
Il giovane Avery aveva frenato la sua marcia all’improvviso, come se fosse stato colpito a tradimento da un Incantesimo della Pastoia, e c’era mancato poco che Phoebe non finisse con il naso contro la sua schiena. Si era voltato verso di lei e, con una strana espressione in volto a metà tra l’allucinato e il sorpreso, era rimasto una manciata di secondi a guardarla come se la vedesse veramente per la prima volta da quando si conoscevano. Non aveva fatto in tempo nemmeno a domandargli se fosse tutto a posto. Due mani le avevano circondato il viso facendo solo una leggera pressione, mentre le dita premevano la pelle morbida sotto le orecchie e la traevano in avanti con gentilezza. E poi…poi non sarebbe riuscita a descrivere ciò che accade dopo: era come una di quelle cose di cui conosciamo perfettamente il nome e che vediamo in continuazione intorno a noi, ma che non siamo in grado di definire con precisione quando ci ritroviamo davanti a una domanda diretta.
Quello era…un bacio! Ne aveva visti tanti in giro e letti ancora di più su libri e romanzi, ma non ne aveva mai sperimentato uno prima. La pressione calda, umida e un po’ appiccicaticcia di quelle labbra sarebbe potuta anche essere una sensazione piacevole, se non fosse stata così inaspettata. Era rimasta rigida e immobile per tutto il tempo. Aveva cominciato a ritornare in sé solo quando Xerxes si era allontanato dal suo viso, senza nemmeno degnarsi di darle una spiegazione per quel gesto, le dita che si erano alzate incerte a toccare le labbra che conservavano ancora un po’ del tepore di quel bacio.
Il mio primo bacio, era stata l’unico pensiero sensato che la sua testa appena snebbiata era riuscita a partorire. Il mio primo bacio…e non è di Tom!
Ricordava come quella involontaria e semplice presa di coscienza l’avesse gettata nel panico più totale. Per diversi giorni non era stata capace di guardare il suo amico d’infanzia dritto negli occhi, per non parlare della lingua e dello stomaco che sembravano aver deciso di annodarsi come più pareva a loro. Un angolo della sua testa sapeva che c’era qualcosa di totalmente sbagliato in quella reazione, che non avrebbe dovuto sentirsi così male di fronte a una cosa che, dopotutto, era normale per una ragazzina della sua età e che in molti avrebbero persino potuto considerare tenera. Ma Phoebe Hool non riusciva a scrollarsi di dosso la convinzione che, innamorandosi di lui, avesse in qualche modo tradito la fiducia del suo migliore amico. Si sentiva colpevole, come se gli avesse conficcato un grosso coltello da cucina dritto dritto in mezzo alle scapole, per poi scoppiare in una lunga e sonora risata malefica! Naturalmente non gli aveva detto nulla: renderlo partecipe dei suoi tormenti emotivi era stato fuori discussione fin da subito. Non aveva nemmeno avuto il coraggio di immaginare quale sarebbe potuta essere l’ipotetica reazione di Tom di fronte a una rivelazione del genere! Probabilmente sarebbe scoppiato a ridere istericamente, prima di mettere mano alla bacchetta e macchiarsi in un colpo solo di omicidio volontario e occultamento di cadavere. Oppure si sarebbe irrigidito a tal punto da smettere di respirare e cadere in un profondo stato comatoso. Certo, c’era anche la possibilità che decidesse di risparmiare la sua insignificante esistenza…ma solo per riutilizzarla come cavia per i suoi più orribili e disgustosi esperimenti!
Nonostante tutti questi suoi timori – e sebbene continuasse a provare la raccapricciante angoscia che l’amico d’infanzia potesse, in qualche modo, leggerle in faccia tutto ciò che pensava – alla fine era riuscita a mantenere il loro rapporto il più normale e stabile possibile, senza che l’altro si accorgesse o sospettasse alcunché. O almeno così sperava…
Il libro fra le mani di Tom si chiuse con uno schiocco secco che interruppe bruscamente il corso dei suoi pensieri.
< Per oggi basta così > annunciò, prima di mettere insieme tutto ciò che fino a quel momento aveva utilizzato per riporlo ordinatamente all’interno della sua tracolla. Aiutandosi coi palmi aperti appoggiati contro il muro irregolare, si rimise in piedi e, ripulendo la parte inferiore del soprabito da alcuni residui d’erba, aggiunse: < Serviranno la cena tra meno di mezzora. Abbiamo solo il tempo per riconsegnare i libri in Biblioteca.>
Phoebe accolse quelle parole con un vero e proprio sospiro di sollievo. Cercando di fare il più velocemente possibile, strappò una striscia frastagliata da uno dei fogli di pergamena che conservava all’interno della propria borsa e lo infilò accuratamente a mo’ di segnalibro in mezzo alle pagine a cui era arrivata. Poi il ragazzo parlò di nuovo, costringendola a smettere di respirare per un secondo:
< Hai trovato qualcosa di nuovo?>
< Ehm…n-no. No. Per ora in queste pagine non c’è nulla di nuovo, ma non sono arrivata nemmeno ai due terzi del libro e…e magari verso la fine troverò qualcosa che mi è sfuggito > rispose con un tono impercettibilmente stridulo, causato dall’agitazione. Gli occhi verdi che si erano ostinati a non alzarsi verso di lui.
< Sarà almeno la settima volta che ricontrolli quegli elenchi…>
Le dita della ragazzina si contrassero involontariamente, lasciando così i segni inconfondibili delle unghie sulla copertina polverosa. Possibile che fossero già arrivati a quel punto? Possibile che Tom avesse scelto proprio quel momento per tirare le somme, per mettere fine ai lunghi anni di ricerche, e poter finalmente dire ad alta voce – e poter finalmente rendere reale, concreta – quell’orribile consapevolezza inespressa che aleggiava in mezzo a loro due come uno spettro fastidioso?
Respirò profondamente prima di snocciolare qualche parola:
< Sì, è vero…ma qui, qui ci sono tanti nomi e date…e io sono sempre così distratta…sono praticamente certa di essermi fatta sfuggire qualcosa da qualche parte e…>
< Lì dentro non c’è niente > la interruppe bruscamente Tom, lasciando calare il silenzio; un silenzio tanto fragile quanto insostenibile, in cui Phoebe Hool pregò che almeno, se proprio non c’era modo di evitare quell’indesiderata discussione, l’altro non la costringesse a dire ciò che realmente pensava. Non ne avrebbe avuto il coraggio. < Per questo motivo, stavo pensando di fare un’ultima ricerca in Biblioteca: magari ci sono altri registri che non abbiamo ancora visionato e che contengono esattamente quello che stiamo cercando. La Comunità Magica inglese è talmente vasta che dubito possa essere contenuta interamente in due soli volumi.>
Il cuore di Phoebe si alleggerì talmente tanto che, per un attimo, pensò che si fosse dissolto e fosse evaporato dalla cassa toracica. Sapeva perfettamente che procrastinare non avrebbe cambiato le cose e che il sollievo che provava la rendeva persino un po’ vile, ma in quel momento riusciva soltanto a esultare internamente perché quella domenica pomeriggio non sarebbe stata quella domenica pomeriggio! Quando finalmente si decise ad alzare lo sguardo, si ritrovò la mano dell’amico d’infanzia tesa verso di sé. L’afferrò con un enorme sorriso e l’attimo dopo venne sollevata in piedi di fronte a lui.
< Potremmo consultare gli elenchi di Madama Pince, per fare prima > suggerì, stringendo i due volumi contro il petto.
Il ragazzo mosse appena il capo in segno di diniego e ribatté:
< No, è meglio di no. Potrebbe insospettirsi e cominciare a chiedersi il motivo per cui ci interessano. No: ci penserò io.>
< E se non dovesse esserci niente neanche lì, potremmo provare a consultare gli elenchi scolastici di qualche scuola di magia straniera, tipo Durmstrang o…>
< Rallenta, Phoebe, ti stai facendo trascinare dall’entusiasmo. Per quale motivo un mago nato in Inghilterra dovrebbe andare a studiare all’estero?> domandò retoricamente, alzando per un secondo gli occhi al cielo. Se c’era una cosa che Phoebe Hool non era proprio in grado di fare, era di mettere un freno alla sua smodata immaginazione. < Quello che dici non ha semplicemente senso.>
< Era un’idea…> mugugnò lei, ingobbendo un po’ le spalle e gonfiando le guance imbronciata.
Tom Riddle non rispose, si limitò a osservarla con un piccolo sorrisetto divertito sulle labbra. Poi, con un gesto automatico, allungò di nuovo la mano nella direzione della ragazzina scostandole dietro l’orecchio una lunga ciocca di capelli che le era ricaduta sulla fronte. Quel gesto era una vecchia abitudine di Tom: Phoebe ricordava che lo faceva praticamente da sempre, fin da quando erano bambini.
< Muoviamoci > la incitò infine, incamminandosi verso il recinto di Cura delle Creature Magiche, senza fare caso all’amica che riprendeva a respirare solo in quel momento.
 
 

* * *

 
 
Quando uscirono dalla Biblioteca semideserta per raggiungere la Sala Grande per l’ultimo pasto della giornata, Phoebe Hool riuscì finalmente a scrollarsi di dosso le occhiatacce che l’anziana bibliotecaria, Madama Pince, riservava immancabilmente a lei e al suo compagno di Casa, ogni volta che varcavano la soglia di quella sala, e che la facevano sentire come se avesse avuto un esercito di formiche rosse che le scorazzavano allegramente sotto i vestiti. Tom poteva anche divertirsi a fingere di non notare nulla, ma lei proprio non riusciva a sopportare il modo in cui la donna cominciava a gironzolare fra gli scaffali, sbirciando ripetutamente nella loro direzione e cercando di non far capire che li stava tenendo strettamente sott’occhio. La ragazzina immaginò che, probabilmente, quella non fosse altro che la conseguenza di qualche disposizione ordinata dal preside Dippet o dal professor Silente, che avevano richiesto a tutto il personale della scuola di mantenere una guardia particolarmente alta quando i signori Riddle e Hool venivano beccati a gironzolare per i fatti loro. Infatti, sebbene Tom Riddle fosse senz’ombra di dubbio il ragazzo con i voti più alti della scuola, questo non significava che fosse anche quello che seguiva e osservava più scrupolosamente le regole. Nei loro primi due anni a Hogwarts, il ragazzo aveva trascinato la compagna di classe nelle più pericolose e balzane delle esplorazioni, su e giù per tutti i piani e i corridoi del castello e in lungo e in largo per il parco, la Foresta Proibita e il Lago del Calamaro Gigante. Avevano dovuto scontare parecchie punizioni e sorbirsi svariati rimproveri, ma, a conti fatti, Phoebe Hool avrebbe ammesso che ne era valsa la pena: avevano scoperto un gran numero di passaggi segreti dietro quadri mai spostati e statue dimenticate nella polvere; erano riusciti a vedere gli Unicorni e diverse altre creature magiche che difficilmente avrebbero potuto vedere da vicino durante le lezioni, come i Centauri nella Foresta Proibita e le Sirene nel Lago Nero. Stava ripensando all’ultima volta in cui i professori li avevano beccati fuori dai Dormitori a un orario “indecente”, quando la voce del ragazzo attirò prepotentemente la sua attenzione:
< Hai studiato Trasfigurazione prima?>
< Sì, un po’ ma…ehi!> esclamò lei, bloccandosi all’improvviso nel bel mezzo del corridoio con la bocca spalancata. < Come fai a sapere che oggi stavo studiando proprio Trasfigurazione?!>
< Chiamalo “intuito”: non ti stai applicando ad altro da due settimane. Comunque, cosa stavi dicendo?> disse Tom, fermandosi a sua volta e ricambiando il suo sguardo con le braccia incrociate sul petto.
Phoebe si portò una mano alla tempia, grattandosela imbarazzata. E si diede mentalmente della stupida. Oramai avrebbe dovuto saperlo fin troppo bene che Tom Riddle aveva occhi e orecchie dappertutto! Alla fine rispose:
< Beh, sì, ho studiato…e ho ancora qualche problema con la trasfigurazione animale. Ma Xerxes mi ha prestato i suoi appunti e pensavo di…>
< Non hai bisogno degli appunti di Avery > sentenziò lui con una smorfia strana. Le voltò prontamente le spalle e riprese a incamminarsi lungo il corridoio. < L’unica cosa di cui avresti davvero bisogno è di prestare più attenzione durante le lezioni, invece che sprecare il tuo tempo a fissare il soffitto fantasticando su chissà che cosa. E…>
Nel momento in cui era iniziata la predica, la ragazzina aveva alzato gli occhi al cielo disperata. Poi, dopo aver grottescamente imitato i gesti che l’altro faceva mentre parlava, gli aveva indirizzato una lunga linguaccia silenziosa.
<…ti ho vista!> terminò lui.
La ragazzina incassò la testa fra le spalle e si morse con forza il labbro inferiore, per poi raggiungere a testa bassa il compagno di Casa e il ghigno trionfante che le stava indirizzando. Si era di nuovo quasi affiancata a lui, cercando di prepararsi mentalmente per ciò che quello scherzetto idiota le sarebbe dovuto costare quando, dal corridoio che intersecava quello in cui erano fermi, giunse una voce che richiamò la loro attenzione…e che li mise prontamente sull’attenti.
< Riddle, ma che magnifica coincidenza! Proprio l’uomo che stavo cercando.>
Phoebe deglutì a fatica: osservò preoccupata le dita di Tom serrarsi spasmodicamente intorno alla cinghia della tracolla e il suo sguardo farsi più serio e cupo. Ma mentre si voltava con un lento movimento verso il proprietario dei passi veloci che si stavano avvicinando, vide anche la sua espressione cambiare del tutto.
< McDougall > disse semplicemente con la sua consueta, pacata cortesia e l’ombra fugace di un sorrisetto di sfida.
Il nuovo arrivato aveva una folta zazzera cremisi che si arricciava leggera intorno alla nuca e brillanti occhi verde acqua. Era più basso di Tom di quasi un’intera spanna ma non era certo quello a dichiarare la sua appartenenza agli studenti del settimo anno, bensì il lieve accenno di barba mal tagliata che gli colorava il labbro superiore e la spilla da Caposcuola che luccicava indifferente da sopra la spalla. Portava l’uniforme rigorosamente in ordine e la sua camminata sciolta lo faceva sembrare perfettamente a suo agio in qualsiasi luogo e situazione, come se non avesse avuto un solo problema al mondo. Si piazzò davanti al giovane Riddle, con le mani mollemente abbandonate nelle tasche dei pantaloni, e ricambiò il suo sguardo in silenzio, osservandolo attentamente come se volesse assicurarsi che i colori delle loro divise fossero gli stessi – verde e argento. Nel frattempo, alle sue spalle, lo aveva seguito da vicino un ragazzo dalla corporatura ampia e ingombrante e dai capelli scuri rasati tanto corti da dargli proprio l’aria di un soldato senza cervello pronto a suicidarsi, se solo qualcuno glielo avesse chiesto con il giusto tono di comando. La ragazzina lo riconobbe quasi immediatamente come Maximilien Dolohov, uno studente di Serpeverde che frequentava il quinto anno.
Lo sguardo chiaro di McDougall abbandonò la figura di Tom Riddle un solo, rapidissimo istante, per posarsi su di lei e soppesarla come avrebbe fatto con una mela probabilmente ancora troppo acerba. In quel momento Phoebe Hool non poté fare a meno di pensare a come, durante la sua primissima cena all’interno delle mura di Hogwarts, una delle prime cose che le chiacchiere dei suoi nuovi compagni le portarono alle orecchie fu proprio il nome di Gordon McDougall. Nessuno poteva appartenere alla Casata di Salazar, frequentarne i Dormitori e la Sala Comune, senza aver sentito parlare di lui almeno una volta.
Gordon era originario dell’Irlanda del Nord e la sua famiglia, i McDougall, faceva parte di un’importante e antichissima stirpe di maghi che si diceva avesse una forte influenza e conoscenze illustri all’interno del Ministero della Magia irlandese – voci di corridoio affermavano anche che tra i banchi dell’organo governativo fossero già stati riservati due posti per gli eredi di quel lignaggio. Espulso il primo anno dalla Scuola di Magia di Dublino, per motivi non del tutto precisati, e solo grazie agli agganci e a vari favori sparsi qua e là dall’autorevole padre, aveva trovato un posto nella scuola maschile di Durmstrang, in Germania, dove però il comportamento non era di certo migliorato, infatti fu allontanato dalla struttura scolastica all’inizio del suo terzo anno. Le solite voci di corridoio aggiungevano che là avesse praticato un vero e proprio bullismo nei confronti della quasi totalità dei compagni di classe: ricatto, furto e, contro chi tentava di ribellarsi o di opporsi, pestaggi a volte veramente violenti. Nonostante in molti avessero tentato di dissuaderlo dall’accettare la richiesta del signor McDougall, il preside Dippet aveva deciso infine di accogliere Gordon fra le mura di Hogwarts, fedele al suo ideale di tramandare più sapere magico possibile alle nuove generazioni. E così il ragazzo fece il suo ingresso nella scuola inglese, costruendosi fin da subito un notevole seguito. Aveva indubbiamente fatto un ottimo lavoro: aveva racchiuso fra le proprie mani l’intera vita della Casata di Serpeverde, scoprendo poi che gestirla e manovrarla a suo piacimento era di gran lunga la sua attività preferita. Nel giro di un anno era riuscito a scalare senza fatica le patetiche gerarchie già esistenti fra gli studenti verde-argento e a crearne altre completamente nuove; conosceva tutti i giochi e i rapporti di potere che correvano fra i suoi compagni e, la maggior parte delle volte, era lui stesso a tirare avanti e indietro i fili di quelle docili marionette. Si era costruito una vasta rete di utili conoscenze sia dentro che fuori le mura della scuola, che gli avevano consentito di far diventare il suo favore o la sua ostilità un pericoloso e ambito ago della bilancia in ogni questione o disputa che si venisse a creare. I più informati, poi, sostenevano con assoluta certezza che i tanti galeoni che gli giravano in continuazione nelle tasche non provenissero tutti dal cospicuo conto di famiglia, ma che fossero il fruttuoso prodotto di affari ben poco puliti di cui si occupava personalmente e di cui non si sapeva praticamente nulla.
Sembrava che le cose per il giovane irlandese non potessero andare meglio…almeno fino a quando l’anno seguente Tom Riddle fece il suo ingresso a Hogwarts. Avendo un buon occhio per il talento e per tutto ciò che poteva procurargli qualche beneficio, Gordon McDougall non aveva impiegato molto tempo per notare la nuova attrazione della scuola. La prima mossa era stata quella di trattenerlo sotto la sua ala protettiva, introducendolo nella sua cerchia esclusiva e rendendolo partecipe di alcune suoi attività. Ma ben presto il ragazzo più grande era stato costretto a confrontarsi con una scomoda evidenza: era stato costretto a vedere come quell’insulsa matricola stava, lentamente ma inesorabilmente, arraffando sempre più consensi e appoggi arrivando persino a fare concorrenza proprio a lui! Da quel momento in poi, tra i due studenti di Serpeverde era nata una rivalità nota a chiunque all’interno dell’ambiente scolastico, e che si era irreparabilmente inasprita durante l’ultimo anno scolastico dell’irlandese, che aveva cominciato a temere sempre più seriamente che tutto il suo duro lavoro potesse essere gettato all’aria con la stessa facilità con cui si distrugge un castello di carte, non appena avesse definitivamente abbandonato le mura di Hogwarts.
< Come siamo formali oggi, Tom > rispose il ragazzo più grande, con una finta espressione rammaricata. < Ci conosciamo da così tanti anni. Dovresti proprio cercare di rilassarti un po’. Sei troppo rigido: non ti fa bene.>
Dietro di lui, Dolohov emise una sorta di strano grugnito d’assenso.
Il sorrisetto di sfida di Tom si fece più largo, mentre con lo sguardo spaziava da un lato all’altro del corridoio assicurandosi che non ci fossero orecchie indiscrete nei dintorni, poi tornò a fissare Gordon dicendo:
< Hai ragione…Gordon. Ma sai, di questi tempi bisogna sempre tenere una guardia piuttosto alta. Non si sa mai di chi ci si può fidare…e di chi non.>
Phoebe non riuscì a capire se l’altro avesse afferrato la non troppo velata frecciatina che gli era appena stata lanciata, ma se lo aveva fatto non lo aveva sicuramente dato a vedere, perché replicò alle parole del compagno di Casa più giovane con un sorriso ancora più ampio.
< Ma dimmi, ti prego, che cosa posso fare per te > aggiunse dopo qualche istante Tom Riddle, disponibile.
Le mani del McDougall sembrarono sprofondare ancora di più nelle tasche dei pantaloni, mentre con la testa bassa fissava il proprio piede destro che strusciava fastidiosamente contro il pavimento di pietra, come se stesse cercando le parole più adatte per esternare ciò che voleva dire. In quel momento sembrò un bambino impacciato.
< Avrei un lavoretto da proporti.>
Tutta la serenità e la cordialità che il ragazzo aveva ostentato fino a quel punto si crepò all’istante, lo sguardo scuro che ritornava a farsi gelido e le mani che si chiudevano automaticamente a pugno, mentre incrociava le braccia sul petto e sibilava una sola, lapidaria parola:
< No.>
< Andiamo, Riddle!> esclamò Gordon, con una ritrovata vivacità dovuta al repentino cambio d’umore dell’avversario. < E’ un affare molto stuzzicante.>
< Non mi interessa > ribatté duramente Tom, facendo un passo per allontanarsi lungo il corridoio.
< Non conosci nemmeno i dettagli…>
Il ragazzo tornò indietro e si parò davanti all’altro, fronteggiandolo direttamente – Maximilien Dolohov che dietro di loro fece solo un lievissimo movimento con le spalle, mentre gli occhi piccoli e castani non si perdevano una sola battuta. Si fissarono in silenzio per quelle che sembrarono ore, come se avessero voluto constatare di persona chi avrebbe ceduto per primo, poi finalmente Riddle parlò:
< Questo non è il posto adatto per discutere di simili cose. E, ad ogni modo, ho già detto di non essere interessato.>
< Tu no > gli concesse l’irlandese. Poi, abbandonando di nuovo il viso rabbioso dell’altro, spostò lo sguardo con finta casualità su Phoebe – che, sentendosi tirata in causa all’improvviso, non riuscì a trattenere un sussulto – per poi aggiungere: < Ma magari i membri della tua piccola combriccola potrebbero esserlo.>
Tom si spostò di un passo, così da essere ancora di fronte al McDougall e allo stesso tempo escludere completamente la piccola Hool dal suo campo visivo. Fu un gesto semplice e quasi trascurabile, ma fu anche così tanto spontaneo che l’altro non poté fare a meno di notarlo e di rimanerne spiazzato: infatti, per una manciata di secondi ricambiò l’occhiataccia di Tom Riddle in modo assente.
Poi una fugace quanto impercettibile luce maliziosa gli attraversò gli occhi chiari. E Gordon McDougall sorrise compiaciuto.
Retrocedette di un paio di passi fino a raggiungere il fianco di Dolohov, con le mani sollevate in un gesto di resa e la solita espressione derisoria in faccia. Fece un lungo sospiro e, prima di tornare nuovamente verso la direzione da dove era venuto e con la stessa camminata impertinente, si accomiatò dicendo:
< Va bene. Ho capito: non è il caso di continuare. Se però cambi idea, Tom, sai dove trovarmi.>
Il ragazzo più giovane restò a fissare la schiena del McDougall che si allontanava solo per qualche altro secondo. Poi il suo volto si spostò in direzione di Maximilien Dolohov che, prima di incamminarsi per raggiungere il suo capo, si scambiò un lungo, silenzioso sguardo con l’altro Serpeverde. Fece solo un cenno quasi impercettibile con la testa e se ne andò.
< Andiamocene > sbottò Riddle in direzione di Phoebe, senza nemmeno aspettare che l’energumeno si fosse allontanato di cinque passi.
La ragazzina, completamente impalata in mezzo al corridoio, guardò prima l’amico d’infanzia che aveva ripreso la sua marcia verso la Sala Grande, poi Dolohov che faceva lo stesso verso un’altra direzione e poi portò gli occhi verdi e spaesati di nuovo sull’amico. E, mentre faceva una breve corsa per ridurre la distanza che la separava da quest’ultimo, ebbe la sgradevole ma netta sensazione che, da quel momento in poi, le loro domeniche pomeriggio non sarebbero più state le stesse.

 
 
 
 
 
Note dell’autore.
Salve a tutti, cari spettatori e care spettatrici!
Manca pochissimo alla fine di questo 5 Agosto, lo so: oggi ho avuto un ritardo a dir poco imbarazzante. E so che arriverà il giorno in cui smetterete di credermi, ma non è stata colpa mia! Lo giuro!
E’ colpa di Chucky la Bambola Assassina u_________u
Chiamata più comunemente “Sofia”.
Quella piccola portinaia dell’inferno tra qualche giorno va in vacanza *Tom e il suo stuolo di Mangiamorte festeggiano l’avvenimento stappando champagne* e ha pensato bene di asfissiarmi ben bene per gli ultimi giorni che ci rimangono da passare insieme.
Insomma, prendetevela con quel piccolo demonio, non con me ç___________ç
 
Ma passiamo ad argomenti più interessanti!
Siamo arrivati al sesto capitolo e, come promesso, c’è stato un primo scorcio della vita scolastica dei nostri Tom e Phoebe cresciutelli.
Come è andata? Vi è piaciuto? Sono davvero curiosa di sapere cosa ne pensate. Anche perché, come avevo anticipato nelle scorse note, qui ci sono i cambiamenti più significativi.
Cerchiamo di vederli un po’ tutti assieme :D
 
 
XERXES & TRISTAN. Per chi non li avesse mai incontrati prima, loro sono le due new entries nel manipolo di seguaci di Tom. Ho davvero amato scrivere di questi due, sono decisamente i miei primi Mangiamorte preferiti – insieme all’intramontabile Dolohov a cui, in questa nuova versione, ho permesso di comparire molto prima – e se anche a voi hanno scatenato qualcosa dentro, voglio invitarvi a dare una sbirciatina allo spin-off completamente dedicato a loro.
*Latis sfodera il suo spirito alla Mastrota*
Volete conoscere i più sporchi segreti dei due nuovi Mangiamorte comparsi sui nostri schermi? Volete sapere che cosa combineranno nel loro settimo anno?
E volete sapere cosa c’entra Phoebe Hool in tutto questo?! Una mazza!, ma potrete scoprire perché Xerxes l’ha baciata :D
Insomma, se volete risposte alle vostre domande, catapultatevi qui: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1662176
 
NUVOLARIS. Nome del professore di Volo. Le menti più attenti si ricorderanno che è comparso anche nella scorsa versione ^^
 
GORDON MCDOUGALL. Allora, la domanda a cui dovrei rispondere è: perché ho deciso di introdurre questo “rivale” di Tom? Cerco di dare una risposta. Nella versione precedente mi era stato fatto notare che i personaggi frequentavano ancora il terzo anno e io ci avevo infilato una sordida storia di sesso tra Tom e la nostra famosa Regina McDougall. Quindi, nella revisione ho deciso di eliminare il fattore erotico – sì, li ho fatti crescere di un anno ma restano sempre dei quattordicenni, diamine! – e di, come si può dire?, allargare un po’…di “dare aria” al triangolo mettendoci dietro una storia tutta intricata che scoprirete nei capitoli successivi. Mi sono fatta capire? Boh! Fatto sta che ci sarà da divertirsi nel quarto anno, tante cose nuove ma anche parecchi rinvii al passato ;)
A proposito: se a qualcuno di voi è mancata la vecchia e cara Regina, beh, non temete, la rivedrete forse fin troppo presto ^^
Ultima cosa sul McDougall e poi mi cucio la bocca. Magari qualcuno di voi ha notato un piccolo controsenso durante la lettura del capitolo: ovvero, maghi inglesi che debbano andare o meno in scuole straniere. Cioè, avevo appena fatto dire a Tom che l’idea di Phoebe che suo padre – ipotetico mago anglosassone –  potesse avere frequentato una scuola straniera era ridicola…e poi dopo ho detto che Gordon dall’Irlanda era andato in Germania. Ho deciso di pararmi le mie chiappette adorate in questa maniera: inglesi ed irlandesi si odiano a morte, quindi il padre di Gordon ha tentato il tutto e per tutto prima di mandare suo figlio in territorio indesiderato. Insomma, Hogwarts era l’ultima spiaggia dei McDougall.
*Latis si autocompiace per la sua paraculaggine u________u*
 
PHOEBE. Tante novità anche per lei! Infatti, ci troviamo davanti a una Phoebe Hool già completamente partita in quarta per il suo amico bello e impossibile. Cosa ne pensate? Vi piace come idea? Fatemi sapere, fatemi sapere!
 
Ok. Mi sembra di avere detto tutto!
Quindi passo alla parte più importante di tutte queste noiosissime note *Latis si prostra ai piedi delle statue giganti che lei stessa con le sue manine sante ha costruito nei giorni scorsi*: I RINGRAZIAMENTI!
Ma quanto vi voglio bene?! Ma quanto?! Troppo…TROPPO!
Un grazie infinito a RURUE, BLOOD_MARY95, ERODIADE, KURAPIKA95 e MAYA_POTTER. Grazie a tutte voi per le bellissime recensioni :)
 
Un grazie anche a chi ha inserito la storia fra le seguite, ricordate e preferite. E anche a chi legge soltanto ^^
 
DATA DEL PROSSIMO CAPITOLO?! Questo è problematico. Perché nelle prossime due settimane avrò finalmente le ferie *Tom e Phoebe sono già sdraiati al sole con due bicchierozzi di succo di zucca* e quindi prevedo una miriade di impegni e di promesse di “sì, ci vediamo appena ho le ferie” da mantenere e di cui occuparmi.
Comunque, farò il possibile per rispettare le consuete due settimane – quindi, intendo pubblicare il giorno 19 AGOSTO – ma voglio anche prevenirmi cominciando ad avvisarvi che se non vedrete nulla per quella data, pubblicherò sicuramente in quella settimana.
Come sempre, farò il possibile per non ritardare.
Vi saluto tutti e auguro a chi le ha già fatte e a chi ancora no, delle magnifiche vacanze – le mie lo saranno sicuramente ;)
 
Spero di vedervi tutti alla prossima.
Un bacio. Latis.

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Capitolo 7
*** Attenzioni indesiderate ***


Capitolo sette: Attenzioni indesiderate
 
 
Phoebe Hool si stava lavando scrupolosamente i denti con il proprio spazzolino blu impugnato in una mano e formando una bianca, vaporosa schiuma che le nascondeva l’intera bocca, quando osservando i suoi capelli scompigliati e lo sguardo imbronciato pensò che se era vero quello che si diceva in giro, che il buongiorno si vede dal mattino, allora la sua giornata si prospettava a dir poco terrificante.
Odiava svegliarsi presto di mattina.
Si risciacquò la bocca sputando nel lavandino.
Aveva appena riposto lo spazzolino nella tazza apposita davanti allo specchio, quando dei colpi poderosi alla porta spinsero la sua attenzione in quella direzione.
< Vuoi muoverti e uscire da questo dannato bagno, Hool?! Sono secoli ormai che sei lì dentro!> strillò una voce da fuori.
La ragazzina si passò velocemente l’asciugamano sulla bocca e si affrettò ad aprire.
< Era ora > sibilò la ragazza alta e dai folti ricci che la stava attendendo. < A casa ho un elfo domestico zoppo che fa le cose molto più in fretta di te!>
Phoebe non colse la provocazione. Si limitò a contraccambiare l’occhiataccia dell’altra e in silenzio si fece da parte per lasciarla passare e permetterle di raggiungere il bagno. Solo dopo che quella si fu sbattuta la porta alle spalle con un tonfo lei le indirizzò una linguaccia, stando bene attenta che Annabeth Jenkins, l’altra compagna di stanza che era ancora raggomitolata fra le coperte del suo letto, non la vedesse. Raggiunse il proprio baldacchino, mentre con una sola e rapida occhiata appurava che le ultime due abitanti della stanza, Stephanie Coleridge e Gloria Wyatt, non c’erano – probabilmente già comodamente sedute in Sala Grande ad abbuffarsi di muffin.
Si piazzò davanti all’alto specchio e si tolse la camicia da notte, facendola passare dalla testa.
Le sue compagne di stanza non erano male: erano ragazze normali e abbastanza simpatiche, ricordava come una sera del primo anno avessero passato molte ore a chiacchierare e a porsi domande a vicenda sul proprio passato e sulle proprie esperienze; il modo sincero con cui si erano interessate al suo malconcio orologio da taschino babbano. E anche in quel momento, Phoebe Hool credeva ancora che con quelle ragazze avrebbe potuto costruire un buon rapporto, che avrebbero potuto diventare persino buone amiche…se non fosse stata per l’ingombrante e odiosa presenza di Regina McDougall.
Sorella del già ben più noto Gordon, Regina era decisamente una di quelle ragazze che si faceva molta fatica a non notare. Possedeva una bellezza a dir poco incredibile con le sue mani affusolate e sempre curate con attenzione, le gambe lunghe e perfettamente tornite e quelle curve saggiamente piazzate sul suo corpo con abbondante generosità. Dalla sua famiglia poi aveva ereditato gli incantevoli occhi verde acqua e il bellissimo rosso acceso dei capelli. Esattamente come il fratello maggiore, dal quale, invece, aveva ereditato l’atteggiamento sprezzante e autoritario, ma anche quel pizzico di malizia con la quale era in grado di ammaliare e accattivarsi praticamente chiunque e che le permetteva, in questo modo, di ottenere tutto ciò che desiderava.
In parole povere, era quel tipo di ragazza per la quale qualunque componente maschile della scuola sarebbe stato felice di fare carte false…pur di averla a completa disposizione, in una stanza buia, a scoparla come se non ci fosse un domani. La ragazzina, che si stava allacciando lentamente i bottoni della camicia, non riuscì a reprimere un brivido di leggero disgusto, quando si rese conto che quella era un tipo di frase che sarebbe potuta benissimo uscire dalla boccaccia di Tristan Carrow!
A furia di frequentare solo ed esclusivamente compagnie maschili, stava pericolosamente cominciando a parlare e pensare come loro.
Come se fosse stata magicamente richiamata dalle sue elucubrazioni, la rossa irlandese uscì dal bagno. Si aggirò per la stanza con passo deciso, mentre cercava i libri per le lezioni della giornata e svegliava bruscamente la Jenkins imponendole di alzarsi e di andare immediatamente a lavarsi e a cambiarsi. Poi, senza nemmeno dedicarle un’ultima occhiataccia, guadagnò la porta e sparì.
Phoebe Hool lanciò uno sguardo affranto alla sua immagine riflessa nell’alto specchio. Come se tutto il resto non fosse già stato abbastanza, Regina McDougall era anche quel tipo di ragazza con la quale si finiva per fare dei masochistici paragoni mentali, nei quali, ovviamente, la ragazzina veniva perennemente battuta con un certo margine di distacco.
Non ci siamo. Decisamente, non ci siamo, pensò.
La McDougall era alta, snella, con un seno generoso e il viso più attraente che si fosse mai visto in circolazione.
Phoebe invece, oh accidenti…
Se a undici anni lei e Tom erano quasi alla stessa altezza, ora la situazione era completamente diversa: il ragazzo la sovrastava di diversi centimetri e a malapena riusciva a sfiorargli le spalle con la testa. Era magra, quello sì, ma per niente atletica; sembrava piuttosto uno scheletro ambulante che aveva dimenticato in quale cimitero fosse stata seppellita la sua bara. Il seno…il seno era meglio lasciarlo perdere fin dall’inizio. Si domandava spesso come avesse fatto Regina a farsi crescere quei due meloni che aveva la fortuna di portare a spasso, mentre il suo petto era completamente mimetizzato sotto la divisa scolastica. Lanciò delle occhiate in direzione del bagno e, assicuratasi che il suono dell’acqua corrente della doccia si sentisse ancora, appoggiò le dita delle mani appena sotto i seni, tirandoli su nel tentativo di renderli più voluminosi e prosperosi. Ma il risultato non fu dei migliori: probabilmente due noccioline sarebbero state notate molto di più.
Si afferrò una ciocca di capelli e perse un minuto buono a scrutarla attentamente. Regina aveva dei fantastici capelli stracolmi di ricci ben definiti che le arrivavano poco dopo le spalle – e senza la minima traccia di doppie punte! – di un rosso talmente intenso da sembrare davvero una fiamma crepitante, ogni volta che si avvicinava a una fonte di luce. I suoi invece erano un po’ più lunghi, le cadevano fin quasi a metà della schiena, ed erano lisci all’inizio per poi finire in boccoli appena accennati sulle punte. Non che questo particolare si notasse più di tanto, visto che li teneva legati in un’alta coda di cavallo praticamente in ogni momento.
Poi c’era il viso: Phoebe non era una brutta ragazza, era graziosa, ma non poteva proprio competere con i tratti piacenti e seducenti della McDougall. Sulla sua faccia erano rimasti impressi i suoi lineamenti da bambina, che le davano irreparabilmente un’aria infantile, ingenua e anche un po’ stupida. Più che chiederle un appuntamento, probabilmente Tom le avrebbe chiesto se aveva bisogno di un passaggio in scopa fino all’asilo dal quale era scappata.
Non ci siamo. Decisamente, non ci siamo, pensò un’ultima volta, sospirando abbattuta. Raccattò la propria tracolla da sotto il letto e, massaggiandosi lo stomaco brontolante, si diresse verso la Sala Grande.
 
 
 
 
Phoebe Hool avrebbe avuto un gran bisogno di amicizie di sesso femminile.
Quella consapevolezza la investì in modo fin troppo netto mentre se ne stava in piedi, impalata accanto alla tavolata dei Serpeverde, osservando Tom Riddle e il suo più stretto gruppo di sostenitori e seguaci consumare tranquillamente la loro colazione. Riconobbe Tristan Carrow e Xerxes Avery seduti nel lato del tavolo più vicino a lei insieme ad Aaron Mulciber e Tom; mentre dall’altra parte erano schierati Lennox Rosier, Lionel Rookwood e Artemius Yaxley.
Se c’era un elemento che si faceva notare di più all’interno del gruppo, sicuramente quello era Tristan Carrow. Battitore nella squadra di Quidditch di Serpeverde, era un ragazzo dalle spalle larghe e muscolose e da una carnagione perennemente abbronzata che le metteva ancora più in risalto. Aveva capelli corti e scuri tirati all’insù da dosi e dosi di abbondante gel, occhi belli e strani che sembravano quasi assumere una tonalità violetta. Primogenito e unico figlio maschio di un’antichissima famiglia purosangue, Tristan era attaccabrighe e volgare e il più delle volte totalmente irragionevole, non era in grado di tenersi fuori dai guai per più di dieci giorni consecutivi e la sua insana fissazione per l’ordine e la precisione millimetrica lo rendevano forse solo più irascibile e imprevedibile…e quindi più pericoloso. Phoebe lo stava osservando mentre, quasi sdraiato sul ripiano di legno del tavolo, sbraitava improperi sconnessi a Lennox Rosier, puntandolo minacciosamente con una forchetta sporca di porridge.
< Dillo ancora una volta, Rosier, e ti ficco questo in un posticino che non troverai per niente piacevole!> stava ringhiando Tristan.
< Brucia, eh, Tris?> Dall’altro lato del tavolo, Lennox Rosier rispondeva alle provocazioni del compagno di Casa con un ghigno canzonatorio che lo rendeva, se era possibile, solo più bello di quanto già non fosse. < Ma ti capisco, sai, non tutti hanno la fortuna di poter essere come…me.>
Quella era una scena che si ripeteva praticamente ogni santa mattina. E secondo la ragazzina non sarebbe potuto essere altrimenti: se mettevi due galli spocchiosi e vanitosi all’interno dello stesso pollaio, era quasi normale che finissero per beccarsi a vicenda. Infatti Rosier, con i suoi capelli biondi e i calamitanti occhi azzurro cielo – eredità ricevuta dalla madre, strega  purosangue originaria di un lontano paese nordico – era l’elemento più attraente del gruppo. A tutto questo bisognava aggiungere una buona dose di faccia tosta e di insolente sicurezza, che mieteva numerose vittime in lungo e in largo per tutte le Case della scuola…e che gli aveva fatto guadagnare anche l’antipatia e l’invidia assicurata di Carrow, con il quale era sempre e in continua competizione su qualsiasi cosa. Primo di due fratelli, aveva una grande passione per la fiorigrafia e una cugina un po’ troppo aggressiva con la quale pregava ogni giorno di non dover essere costretto a convolare a nozze. Stavano ancora discutendo, quando il biondo si riferì all’altro definendolo un ragazzo “stolido”.
Tristan Carrow emise un versaccio scandalizzato. Poi, continuando a lanciare sguardi assassini in direzione del rivale, strattonò la divisa del ragazzo seduto accanto a lui e disse:
< Xerxes! Hai sentito? Hai sentito cosa mi ha detto, Xerxes?! Questo gran pezzo di Babbano ha osato darmi dello stolido! Dello stolido, Xerxes. A me! Mi ha dato dello stolido, Xerxes…cosa cazzo è uno “stolido”, Xerxes?!>
Secondo Phoebe Hool se qualcuno non aveva ancora pensato di proclamare santo Xerxes Avery, beh…quel qualcuno avrebbe dovuto cominciare a pensarci davvero seriamente da un pezzo. Insomma, se una persona che era in grado di sopportare Tristan Carrow non era un santo, allora proprio non sapevo cosa fosse! Il giovane rampollo degli Avery era come una mosca bianca all’interno del gruppo: riservato e poco appariscente, era uno che si faceva i fatti suoi e che non parlava mai a sproposito, uno che preferiva starsene sprofondato in una poltrona della Sala Comune, in mezzo a rotoli e rotoli di spartiti, piuttosto che andarsene in giro col resto del gruppo a dare fastidio a qualche altro studente. Orfano di padre da poco meno di due anni, aveva tratti delicati, occhi grigi e capelli castano chiaro tagliati a caschetto. Grazie alle sue vaste conoscenze delle Arti Oscure, si era guadagnato una posizione molto privilegiata fra le file di Tom Riddle, che gli aveva fatto ottenere a sua volta un discreto rispetto all’interno della Casata di Salazar.
Xerxes Avery si sfilò gli occhiali da lettura, tamburellando nervosamente con l’indice sulla stanghetta di ferro.
< Chiudi quella boccaccia e smettila di starnazzare, Tristan. Non provarci nemmeno a mettermi in mezzo: non voglio saperne niente delle tue fregnacce con Lennox > sentenziò, irremovibile, bloccando le proteste dell’altro con un solo intimidatorio indice alzato. Si rimise gli occhiali sul naso e, voltando una pagina del grosso libro di Incantesimi che aveva di fronte, bevve un lungo sorso di succo di zucca e poi aggiunse: < Che cosa stavamo vedendo, Lionel? Ah sì, l’Incantesimo Quattro Punti. Allora…>
Il ragazzo che stava seguendo attentamente la spiegazione di Avery era uno studente del terzo anno di nome Lionel Rookwood. Capelli biondo sporco immancabilmente scompigliati e grandi occhi marroni, era il secondo figlio di una coppia di maghi parecchio anziana che, prima di lui, avevano avuto un’altra figlia più grande di ben venti anni. La singolare situazione famigliare aveva fatto in modo che lui diventasse zio ad appena due anni di età e che, in quello stesso momento, la sua graziosissima nipote frequentasse Hogwarts al primo anno. Sebbene non fosse famoso per l’intelligenza e tantomeno per la prestanza fisica, Rookwood riusciva a rimediare alle sue lacune grazie alla sua indistruttibile pazienza e all’istintiva scaltrezza dei suoi attacchi durante i duelli magici. E, soprattutto, ad un vero e proprio talento nel disegno: con le mani e una matita riusciva a esprimere tutto ciò che con le parole invece non riusciva a fare. Se si faceva lo sbaglio di lasciargli davanti una pergamena bianca per più di cinque minuti, la sia poteva facilmente ritrovare piena di magnifici schizzi e ritratti.
Lionel pendeva ancora dalle labbra di Avery, quando la testa del ragazzo seduto alla sua sinistra si appoggiò pigramente sulla sua spalla. Lo studente più giovane del gruppo scrollò bruscamente le spalle e, dopo aver allontanato l’altro quel tanto che bastava, gli tirò con forza un pugno in mezzo al petto. Nonostante la botta, quello sembrò a malapena riscuotersi dal suo sonnellino: infatti, dopo aver appoggiato la guancia sulla mano aperta, riprese tranquillamente a sonnecchiare, con la faccia pericolosamente sospesa sopra una tazza di latte e cereali.
Quello era Artemius Yaxley. Secondo di tre fratelli, era un ragazzo allampanato e quasi rinsecchito, con occhi castano chiaro e corti ricci dello stesso colore. Aveva sempre stampata in faccia un’espressione svampita e allucinata che lo faceva sembrare un perfetto idiota e che spingeva quindi molti a domandarsi quale fosse stato il folle motivo che aveva spinto uno come Tom Riddle ad arruolarlo fra i suoi. E il motivo esisteva eccome: nonostante l’aria irrimediabilmente persa e tonta, il giovane Yaxley era quello che si poteva considerare un vero e proprio genio nella sottile arte dello scambio di informazioni. Durante la sua permanenza nella scuola di magia, aveva accumulato così tanti contatti e agganci da essere in grado di sapere, nel giro di poche ore, i pettegolezzi più succulenti riguardanti ogni studente, le chiacchiere più discrete e perfino qualche notizia riservata che il corpo insegnanti non voleva far fuoriuscire dalle loro riunioni.
Il ragazzo, oramai completamente addormentato, perse l’equilibrio precario che aveva acquisito sulla propria mano e scivolò con la testa sul ripiano di legno. Purtroppo, con quel movimento andò a sbattere involontariamente contro il cucchiaio della sua tazza, che fece qualche saltello lungo il tavolo e, contemporaneamente, fece volare alcune gocce di latte sulla divisa scolastica del ragazzo seduto di fronte a lui. Quest’ultimo alzò un lento, furente sguardo sul compagno di Casa e dopo qualche secondo, in cui sembrò soppesare l’idea di strizzargli il collo come si farebbe con una spugna, sbuffò sommessamente e si passò una mano sul soprabito per ripulirlo.
Aaron Mulciber sarebbe stato un ragazzo molto attraente – occhi verdi e capelli neri e lisci che gli sfioravano dolcemente le guance – se non fosse stato per l’espressione sempre immusonita e seria che sembrava non abbandonare mai il suo volto dai lineamenti aristocratici. Unico figlio maschio della sua famiglia, aveva una sorella gemella alla quale assomigliava davvero molto poco e un tanto incomprensibile quanto forte interesse per Storia della Magia. Sebbene frequentasse il quinto anno e fosse quindi il membro più anziano del gruppo, era l’elemento del gruppo che eseguiva gli ordini di Tom Riddle con maggiore scrupolosità e cieca obbedienza. Lo si sarebbe potuto definire facilmente come il più leale dei suoi seguaci, ma Phoebe Hool continuava a provare, nonostante tutti gli anni passati, la netta sensazione che quel ragazzo più grande si prestasse al gioco di Tom più per convenienza personale che per sincera fedeltà.
Proprio in quel momento, rapido e improvviso come un fulmine a ciel sereno, fece la sua entrata in Sala Grande Gordon McDougall, accompagnato da un piccolo stuolo dei suoi accoliti fra i quali spiccava, senza troppe difficoltà, Maximilien Dolohov, così tanto fasciato all’interno della sua divisa scolastica che sembrava sul punto di farla esplodere da un momento all’altro. Passarono spediti accanto al punto in cui Phoebe si trovava ancora, senza degnarla di alcun tipo di attenzione ma un po’ troppo vicini, tanto che la ragazzina fu quasi certa che sarebbe bastato solo mezzo millimetro in più per darle una poderosa spallata. Sorpassata lei, il gruppetto di Serpeverde continuò a procedere impassibile dietro a Tristan Carrow e Xerxes Avery, ancora impegnati nelle loro rispettive attività – il primo si punzecchiava con Rosier, mentre il secondo spiegava Incantesimi a Rookwood – e poi superavano Aaron Mulciber e Tom Riddle. Quando tocco a lui, però, Dolohov non seguì l’esempio dei suoi compagni e, raggiunto il punto in cui sedeva Aaron, gli piazzò una mano in mezzo ai lunghi capelli e glieli scompigliò fastidiosamente.
< Buona giornata a te, mio caro Aaron! Fai colazione con i mocciosi?> lo salutò, sghignazzando derisorio.
La reazione di Mulciber fu immediata. Picchiò con forza i palmi aperti sul tavolo – con tanta forza da riuscire addirittura a risvegliare Yaxley! – e si alzò in piedi, la bacchetta già sfoderata e salda nella sua mano. E con tutta probabilità l’attimo seguente sarebbe già saltato alla gola di colui che aveva osato schernirlo, se non fosse stato per Tom Riddle che, voltando appena il capo dal libro che stava consultando, lo fermò dicendo semplicemente:
< Siediti, Mulciber.>
< Ma quello…>
< Ho detto: siediti, Mulciber > ripeté lui, con un tono solo leggermente più rigido e glaciale. Aaron tentennò ancora qualche secondo in piedi, continuando a fissare con rabbia in direzione di Dolohov, come se stesse valutando quanto dolce sarebbe stato il sapore della vendetta e, soprattutto, se sarebbe valso le ire di Riddle. Alla fine, ringhiando sommessamente tornò al suo posto, sempre sotto lo sguardo attento di Tom che, dopo aver lanciato a sua volta uno sguardo a McDougall e ai suoi, tornò a prestare attenzione al proprio libro, aggiungendo enigmatico: < Non è ancora il momento.>
Solo allora, con la coda dell’occhio, il ragazzo notò Phoebe in piedi accanto alla tavolata dei Serpeverde. Le lanciò un’occhiata dubbiosa, prima di domandarle:
< Beh, che fai? Non ti siedi?>
 
 
* * *
 
 
Per quanto potesse sembrare impossibile, perfino una ragazzina banale come Phoebe Hool aveva un nemico mortale. Un nemico con il quale si detestava reciprocamente, un nemico di cui non poteva sopportare nemmeno l’ingombrante presenza e che non mancava di maledire nella propria mente almeno una volta al giorno.
E quel suo acerrimo nemico altri non era che il professor Horace Lumacorno. Era un uomo molto grasso, senza nemmeno un capello in testa e con due enormi baffoni che gli coprivano il labbro superiore. Insegnava Pozioni, materia nella quale la ragazzina decisamente non eccelleva. Non che nel resto delle materie brillasse più di tanto, ma quella delle Pozioni era proprio un’arte che non sarebbe mai riuscita a comprendere fino in fondo. Non c’era verso! Aggiungere. Mescolare. Travasare. Tagliuzzare. Erano cose che non era assolutamente capace di fare: non riusciva a ricordarsi tutti gli ingredienti di una determinata pozione e le loro caratteristiche, come le era praticamente impossibile tenere a mente tutti i singoli procedimenti e azioni da svolgere. No. Era negata! E nella sua faticosa arrampicata verso l’approvazione del vanitoso professore, tutto questo le era già costato parecchi punti a proprio svantaggio. Ma il vero motivo della poca simpatia che scorreva fra loro era un altro. Il professor Lumacorno aveva un’ammirazione quasi insana per Tom Riddle, che considerava il migliore studente al quale avesse mai insegnato in tutta la sua carriera, e per il quale in futuro già vedeva grandi avvenimenti, conquiste di posti prestigiosi nella società magica e riconoscimenti importanti da parte di addirittura tutto il Mondo Magico. Per questo motivo lo infastidiva moltissimo la presenza costante della Hool, una ragazzetta che ancora dimenticava di mettere il Bezoar come base degli antidoti, accanto a lui; insomma, Riddle poteva puntare verso mete e luoghi in cui in pochi potevano permettersi anche solo di fantasticare di arrivare, la sua figura e il suo nome potevano diventare leggendari, quindi non poteva davvero perdere il suo tempo con una mediocre streghetta la cui aspirazione massima era di fare la commessa da Mielandia.
A Horace Lumacorno non piaceva Phoebe Hool – ma nemmeno un pochino! – e Horace Lumacorno non perdeva occasione per farlo sapere a Phoebe Hool.
Approfittando dei pessimi voti che la ragazzina racimolava nella sua materia, il professore di Pozioni aveva deciso di affidarle, un pomeriggio a settimana, dei lavoretti con i quali poter ottenere dei punti che l’avrebbero aiutata ad alzare la sua media imbarazzante.
Per aiutarla, diceva lui.
Per rovinarmi l’esistenza, pensava lei.
Così, la ragazzina si trovava a dover passare interi pomeriggi ad andare avanti e indietro per tutta Hogwarts, facendo firmare documenti ai professori, trasportando casse di ingredienti dallo studio di Lumacorno all’aula di Pozioni, andando a controllare se ci fossero dei determinati libri di testo in Biblioteca e pulendo e riordinando le provette e gli alambicchi usati dagli studenti durante la giornata.
Quel pomeriggio, poi, non sapeva proprio cosa avesse fatto di così grave per essere punita in quel modo crudele. Come se già tutti i lavori che le appioppava non fossero abbastanza, quella volta il professore aveva deciso che avrebbe dovuto svolgerli in compagnia di un Artemius Yaxley sbadato oltre ogni concezione umana e che era riuscito solo a mandare all’aria tutto quello che era riuscita a fare, a rallentarla e a farle perdere un sacco di tempo.
< Come sarebbe a dire che l’ufficio è chiuso?!> esclamò Phoebe, con un tono a metà tra il piagnucoloso e l’esasperato. < Dov’è andata la professoressa Anemone?>
Yaxley coprì uno sbadiglio con il dorso della mano e, con sguardo tediato, fissò il pezzo di pergamena appeso alla porta, prima di rispondere:
< Qui dice che il mercoledì pomeriggio ha lezione con i Corvonero e i Tassorosso del sesto anno, nella Serra Numero 10.>
< La Serra Numero 10?! Ma è quasi dall’altra parte del castello! Di questo passo avremo fatto firmare la pergamena a tutti i professori dopo l’ora di cena. Oh, accidenti…non avevi detto di essere assolutamente certo che questo era l’unico pomeriggio in cui la professoressa Anemone non aveva lezione, Artemius?> domandò ancora la ragazzina, non riuscendo a trattenersi dal lanciargli un’occhiataccia.
Il ragazzo continuò a osservare l’ufficio della professoressa di Erbologia e passò almeno mezzo minuto, prima che si rendesse conto che la compagna di Casa aveva parlato e che quindi si voltasse verso di lei, rivolgendole uno spaesato:
< Eh?>
< Niente, lascia stare > borbottò lei, ingobbendo le spalle e alzando gli occhi al cielo. < Cerchiamo di sbrigarci e di raggiungere la Serra Numero 10 alla svelta, piuttosto.>
Si incamminarono lungo il corridoio, attraversato da qualche sporadico gruppetto di studenti, per raggiungere la scalinata di pietra che li avrebbe condotti al primo piano. La ragazzina calcolò che per attraversare il castello e l’intero parco e trovare la Serra Numero 10 ci sarebbero voluti sicuramente più di trenta minuti. Poi bisognava sperare che la professoressa non avesse deciso, proprio quel pomeriggio, di fare lezione all’aperto e che fosse tanto buona da apporre subito la propria firma sulla pergamena, invece che costringerli ad aspettare la fine della spiegazione. In quel caso, avrebbero sprecato più di un’ora per una sola, misera firma! Svoltò l’angolo e raggiunse l’inizio delle scale accelerando il passo, per non farsi soggiogare dalla tentazione di centrare Yaxley con un bel pugno dritto in un occhio. Il ragazzo, intanto, la seguiva tranquillo e con un’espressione tanto indifferente da far quasi pensare che quell’assurda situazione non lo toccasse minimamente. Arrivarono all’ultimo gradino e, solo allora, poterono intravedere la figura che se ne stava serenamente appoggiata con la schiena all’elegante corrimano di pietra. Le mani placidamente abbandonate nelle tasche dei pantaloni e, stampato in faccia, un ghigno tanto cordiale quanto beffardo che fece gelare ad entrambi il sangue nelle vene.
< Salve a voi, ragazzi. Giornata splendida, non credete?> salutò Gordon McDougall, allargando ancora di più il proprio sorriso.
Artemius Yaxley, che aveva perso di botto la propria espressione annoiata, agguantò prontamente la bacchetta e la tenne stretta lungo il fianco in una sorta di muto avvertimento, come anni di addestramento con Tom Riddle gli avevano insegnato. Ma il rosso McDougall sembrò notarlo appena. Si allontanò dal corrimano e avanzò di un paio di passi verso i due compagni di Casa più giovani: il proprio sguardo e la propria attenzione completamente concentrati sulla piccola Phoebe Hool, la quale, sentendosi come se quei due occhi chiari e famelici le stessero brulicando sotto la divisa, si dimenticò della propria bacchetta e fece istintivamente un mezzo passo all’indietro. L’irlandese si fermò di fronte a lei, a un solo passo di distanza, e le dedicò l’ennesimo dei suoi sorrisi inquietanti; ma questo era diverso dagli altri, forse più angosciante di tutti gli altri messi assieme: questo era riservato soltanto a lei.
< Puoi sparire, Yaxley, non mi occorri > aggiunse all’improvviso, alzando una mano e scacciando l’aria. < La piccola Hool ed io dobbiamo fare due chiacchiere in privato.>
Le ginocchia di Phoebe Hool si squagliarono per il panico, ma pensò davvero che sarebbero cedute abbandonandola solo quando vide Yaxley mettere via la bacchetta e andarsene di gran carriera lungo il corridoio. Fissò pietrificata il punto in cui il compagno di Casa era sparito per molti secondi. Il suo cervello era completamente andato in blackout! Troppo agitata, troppo confusa e troppo spaventata per riuscire a trovare una qualsiasi idea che la salvasse da quella situazione. A rigettarla bruscamente nella realtà furono le dita di Gordon McDougall che, afferrandole il mento con un po’ troppa decisione, la costrinsero a riportare il volto verso di lui.
La guardò dritta negli occhi ancora una volta e poi mormorò, con tono lusinghiero:
< Te l’ha mai detto nessuno che hai degli occhi davvero notevoli, Hool? E’ strano, non li avevo mai notati prima d’ora…forse perché, ogni volta che ci incontriamo, tu abbassi sempre lo sguardo. Mi chiedo se non sia proprio questo il motivo per cui Riddle ci tenga tanto ad averti al suo fianco…>
Il ragazzo le liberò finalmente il mento, ma ciò non fece sentire meglio Phoebe che, al contrario, si sentiva più atterrita di prima. Deglutì a fatica, mentre lo osservava fare avanti e indietro in modo pensieroso.
< Sì, perché – sai – un occhio buono e attento che decida di osservare il vostro gruppetto dall’esterno, alla fine un paio di cosette finisce per capirle. Che il caro Riddle lo voglia o meno > riprese l’irlandese, torturandosi la barba corta del mento per la concentrazione. < E la cosa più lampante che viene fuori è questa: ogni elemento è stato accuratamente scelto per ricoprire un ruolo definito. Ogni membro ha delle capacità e delle caratteristiche che gli permettono di svolgere un compito preciso. Mulciber è il braccio armato – il soldato! – quello a cui affidare le incombenze fastidiose e per le quali non ci si vuole sporcare le mani, mentre Carrow è il cane rognoso da sguinzagliare in qualsiasi evenienza. Avery è il cervello: lo studio di argomenti complicati e le ricerche importanti sono sempre affidate a lui. Yaxley è la talpa e così via dicendo…oh, potrei continuare per ore!>
La ragazzina si ritrovò irrimediabilmente a trattenere il fiato. Gordon McDougall aveva appena fatto un’analisi accurata del sistema che viveva all’interno del gruppo di seguaci campeggiato da Tom Riddle. Con poche frasi accurate, aveva dimostrato come la maschera da prepotente arrogante che tanto amava indossare convivesse perfettamente con la sua furbizia e la sua fine intelligenza, le stesse che negli anni precedenti gli avevano permesso di raggiungere la posizione di potere che adesso occupava. Phoebe continuò a osservarlo con apprensione mentre, con le mani appoggiate sui fianchi, l’altro si fermava di nuovo davanti a lei, per tenere scrupolosamente sott’occhio ogni sua minima reazione. La sua testa sapeva fin troppo bene che qualunque cosa il ragazzo più grande facesse era unicamente finalizzata a colpire e intaccare gli interessi di Tom, ma per quanto si obbligasse a ragionare, anche velocemente, non riusciva a trovare un solo modo in cui quella chiacchierata sconclusionata con lei potesse nuocere al suo amico. Ad ogni modo, non sarebbe di certo stata lì ad aspettare di scoprirlo.
< Si é…si è fatto tardi. Io dovrei andare, perché…> mormorò lei, facendo un passo verso le scale.
A Gordon bastò un movimento rapido nella stessa direzione per negarle nuovamente ogni via di fuga. L’immancabile sorriso sulle sue labbra era la riprova di quanto quella caccia al topo lo divertisse oltre ogni misura. Allungò una mano e afferrò tra due dita una lunga, nera ciocca di capelli della ragazzina, mentre con le dita dell’altra mano prendeva a lisciarla con cura e attenzione. Poi parlò:
< Ma il gruppo non è formato solo da Mulciber, Carrow, Avery e Yaxley. O Rookwood e Rosier. Nel gruppo ci sei anche tu, mia piccola Hool. Se l’occhio attento di cui parlavamo prima decidesse di proseguire con il suo duro compito di osservazione, arriverebbe inevitabilmente a scontrarsi con il problema rappresentato dal tuo ruolo all’interno del gruppo. Ed è proprio qui che le cose si fanno dannatamente interessanti: per quanto io mi sforzi, non sono ancora riuscito a capire quale sia il tuo livello di importanza. Non sono ancora riuscito ad afferrare il motivo per cui Riddle ti abbia scelta e voluta con lui.>
Si lasciò andare a una breve risatina. Poi, avvicinando pericolosamente il viso a quello dell’altra, aggiunse in un mormorio provocante:
< Ma mi piacerebbe tanto scoprirlo.>
Phoebe avvampò senza volerlo, per l’imbarazzo e il disagio che quella vicinanza assolutamente non voluta le scatenò nel petto. E questa volta i passi all’indietro furono ben tre e molto più rapidi dei precedenti. Tanto che il McDougall dovette afferrarla prontamente per le spalle, per impedirle di sfuggirgli e scappare via come una saponetta bagnata.
< Tranquilla…tranquilla…non c’è alcun bisogno che tu te ne vada proprio adesso. C’è ancora molto di cui possiamo parlare > la rimproverò bonariamente il ragazzo, sebbene l’altra fosse quasi certa di aver percepito un lieve ringhio all’interno delle sue parole. < Ammetto che tu mi affascini, Hool. Sei un indovinello che non riesco a risolvere. Ma del quale devo sapere la soluzione…>
< Basta…basta. Io non posso restare. Io devo…> smozzicò lei, abbassando lo sguardo verso i propri piedi e tentando di divincolarsi dalla stretta. Ma le mani dell’altro risposero rafforzando ancora più dolorosamente la presa.
< Unisciti a me.>
Phoebe Hool si bloccò di nuovo: per un orribile secondo si sentì come se qualcosa avesse risucchiato ogni più piccolo briciolo della sua energia alla massima velocità. Smise di lottare e alzò i propri occhi sbarrati verso quelli trionfanti di Gordon, per poi balbettare sconvolta:
< Co-cosa?!>
< Hai sentito bene: unisciti a me > ripeté lui. < Entra a far parte del mio gruppo; permettimi di scoprire ciò che ti rende tanto speciale! Farò sì che ogni tuo desidero venga soddisfatto. Ti farò avere qualsiasi cosa tu voglia, qualsiasi cosa, in cambio della tua sola e spontanea collaborazione.>
Per quanto ammetterlo l’avrebbe fatta vergognare a morte, per un solo e unico istante Phoebe prese davvero in considerazione l’offerta che Gordon McDougall le fece in quel corridoio mezzo deserto del primo piano. Un’orfana squattrinata di Londra, anche se non lo vorrebbe, finisce sempre per bramare tutto quello che la vita ha deciso di non concederle. Specialmente i desideri più frivoli sono quelli che richiamano maggiormente la sua attenzione e la sua fantasia: e la piccola Hool per un solo e unico istante ci pensò davvero. Immaginò come sarebbe stato bello poter avere libri dalla copertina lucida che odoravano di nuovo, bei vestiti da sfoggiare la Domenica mattina in Sala Comune o qualche boccetta di profumo da poter mettere in bella mostra davanti allo specchio del bagno. Immaginò come sarebbe stato bello avere anche solo il permesso di poter visitare Hogsmeade di tanto in tanto.
Per un solo e unico istante ci pensò davvero…poi, l’istante successivo, la sua mente venne di nuovo invasa e riempita dall’immagine del suo migliore amico.
< No…non voglio…> mormorò in risposta, la testa abbassata che si muoveva appena  in segno di rifiuto – e che la malediceva per quel tono di rimpianto nella propria voce che proprio non riusciva a impedirsi di avere. Si impose di continuare a tenere gli occhi rivolti verso il pavimento, troppo spaventata dall’idea che, se li avesse alzati anche solo un poco verso quegli altri verde acqua, sarebbe potuta cadere ancora una volta in tentazione. E magari quella volta senza riuscire più a tornare indietro. Ma così facendo, non poté vedere l’occhiata che l’irlandese lanciò verso un punto oltre le sue spalle e il sorrisetto soddisfatto che gli arricciò gli angoli della bocca.
Rapido, mollò la presa sulle spalle della ragazzina, ma prima di allontanarsi piegò ancora una volta la testa nella sua direzione, così da poterle sussurrare in un orecchio, dolcemente:
< La mia offerta è sempre valida…pensaci!>
La baciò brevemente sulla guancia e se ne andò, lasciandola sola ad affrontare i brividi gelidi causati da tutto il dileggio nascosto in quello che sarebbe dovuto essere, invece, un gesto colmo d’affetto. E non ebbe nemmeno il tempo di riprendersi, che il suo corpo venne attraversato brutalmente dall’ennesimo scossone. Infatti, mentre ascoltava i passi di Gordon McDougall che si allontanavano riecheggiando sul pavimento di pietra, lo sentì distintamente esclamare, con tono vivace:
< Salve a te, Tom! Giornata splendida, non credi?>
Phoebe Hool ebbe una sensazione sgradevole, come se il suo stomaco avesse iniziato a produrre una quantità eccessiva di succhi gastrici che le aveva liquefatto tutte le interiora. Le sembrò addirittura di sentire dolore in ogni singolo osso del proprio scheletro, mentre si voltava lentamente; fu quasi certa che si sarebbe messa a vomitare, mentre comprendeva di essere finita in un guaio più grande di lei e nel quale non avrebbe mai voluto inciampare.
I suoi occhi incontrarono la figura di Artemius Yaxley che la osservava confusamente, a una ventina di passi dal punto in cui si trovava, ma senza dargli importanza. Phoebe fu sicura di sentire il suo cuore annegare in mezzo al petto, solo quando vide Tom Riddle che, rigido accanto a Yaxley, le rivolgeva lo sguardo più torvo che gli avesse mai visto.

 
 
 
 
Nota dell’autore.
*Latis corre avanti e indietro con delle enormi orecchie bianche da coniglio e un grosso orologio da taschino d’oro in mano*
“E’ tardi, è tardi assai; e io son già in mezzo ai guai!”
 
Salve a tutti!
Lo so: sono imperdonabile. Ho un ritardo davvero vergognoso. Avrei dovuto pubblicare questo capitolo una decina di giorni fa. Quindi, comincio queste note chiedendovi scusa, chiedendovi di perdonarmi. Ma sono stati dei giorni davvero frenetici: Chucky La Bambola Assassina sembra aver deciso di piazzarsi in pianta stabile a casa mia e di schiavizzarmi tutto il giorno, giocando a memory oppure facendo bolle di sapone. Non ho più quasi un minuto per me, lo giuro! Sto pregando tutte le divinità cosmiche che conosco, affinché l’asilo riapra i battenti il più presto possibile!
*Sofia non ascolta minimamente le proteste di Latis e continua a fare castelli di sabbia insieme a Dolohov, Carrow e Rookwood*
 
Purtroppo queste note saranno molto brevi, perché ho pochissimo tempo, ma voglio assolutamente pubblicare il capitolo entro oggi! Sono davvero troppo, troppo in ritardo.
 
Allora, cosa abbiamo scoperto in questo capitolo?!
C’è stata una prima comparsata di Regina, che sicuramente avrà un minimo di rilievo in più nei prossimi capitoli – poco poco, ma sempre più di adesso – con una bella descrizione della nostra piccola eroina Phoebe!
Che ne pensate? Vi piace la nostra pupilla? Fatemi sapere, fatemi sapere!
 
Poi, abbiamo una prima descrizione del gruppo di seguaci di Tom Riddle. Cavolo, voglio i vostri commenti anche su di loro. Chi vi è piaciuto di più? Chi odiate? Fatemi sapere, fatemi sapere. Nella mia testa, i loro ruoli sono a grandi linee così.
 
AVERY = L’Intellettuale
MULCIBER = Il soldato
ROSIER = L’ammaliatore/dongiovanni
YAXLEY = L’informatore
ROOKWOOD = L’artista (del crimine)
CARROW = Il coglione…muhauahuauahhua, povero il mio Tris ^^ dai, diciamo che lui è davvero Il cane rognoso, come dici Gordon.
 
Gordon McDougall. Ecco già bello che partito in azione. E di lui cosa pensate, dopo il secondo capitolo in cui lo vediamo comparire? Qualche idea su quale sia il suo piano? Su che cosa abbia in mente? Sono davvero curiosa di leggere tutte le vostre idee :)
 
RINGRAZIAMENTI. Ringrazio con tutto il cuore RURUE, BLOODY_MARY95, ERODIADE e MONGOSPASTICA96. Scusate per i ringraziamenti frettolosi, ma grazie davvero, davvero infinite!
 
Per quanto riguarda il prossimo capitolo, spero di riuscire a pubblicare per il 16 SETTEMBRE. Ma anche prima, se Chucky scopre di avere un po’ di cuore e di pietà XD
 
Ringrazio ancora tutti per l’infinita pazienza e il meraviglioso affetto.
Un bacio. Latis.

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Capitolo 8
*** Il nome inciso ***


Capitolo otto: Il nome inciso
 
 
Prima di tutto ci fu un suono sordo e secco simile a quello di uno schiocco di dita.
Poi Phoebe Hool percepì la botta dell’incantesimo che impattava con precisione all’altezza della bocca dello stomaco. Si accasciò sulle ginocchia tenendosi l’addome con entrambe le braccia: il dolore fu così intenso che le mozzò il fiato per una manciata di secondi e tornò a respirare solo dopo aver tossicchiato rumorosamente.
< Di nuovo > ordinò Tom, completamente indifferente alle difficoltà della giovane. Passeggiava avanti e indietro nello stesso punto, il soprabito nero appoggiato accuratamente sulla tracolla e le maniche della camicia arrotolate fin sopra il gomito. Le dita lunghe e affusolate giocherellavano insistentemente con il manico della bacchetta.
Alle sue spalle, i sei ragazzi della combriccola osservavano la scena completamente ammutoliti. E nel frattempo ognuno di loro stava mentalmente ringraziando qualsiasi forza celeste che, quel pomeriggio di metà autunno, avesse designato che fosse l’unica ragazza del gruppo a doversi accollare l’ingrato compito di far smaltire a Tom Riddle la sua irritazione latente. I malumori altalenanti del giovane mago non erano certo una novità, anzi, erano un dato di fatto con il quale tutti prima o dopo avevano avuto la sfortuna di doversi confrontare.
Ma quel giorno, la rabbia e l’avversione represse che si potevano intravedere dal suo sguardo scuro mettevano letteralmente i brividi!
Phoebe tossicchiò ancora una volta e appoggiò una mano sull’erba cercando di alzarsi il più velocemente possibile, nonostante i tremiti e la fatica. Il movimento fluido del braccio di Tom fu così veloce e inaspettato che la ragazzina non fece in tempo neppure a pensare a qualche incantesimo di difesa. L’urto della fattura fu più violento di quello precedente, tanto che venne sbalzata all’indietro e si ritrovò a rotolare sul prato per tre volte, fermandosi poi supina a fissare intontita il cielo grigio. Gemette a bocca chiusa, mentre dall’altra parte del prato il suo amico d’infanzia ripeteva più duramente:
< Di nuovo.>
Lei si girò su un fianco e tentò di tirarsi in piedi un paio di volte ma inutilmente: le braccia e le gambe faticavano a reggerla, costringendola a ritornare verso il terreno e facendole quindi perdere un sacco di tempo. E questo non fece altro che aumentare a dismisura l’irritazione del ragazzo.
< Ho detto: di nuovo. IN PIEDI!> esplose quello all’improvviso, facendo sobbalzare per la sorpresa tutti i presenti alle sue spalle. Puntò nuovamente la bacchetta contro la ragazzina e le scagliò addosso un incantesimo che le bloccò le braccia lungo i fianchi e subito dopo la sollevò da terra per più di due metri. Lei emise uno strozzato cinguettio di sorpresa e terrore e fissò il terreno lontano con occhi enormi. Un orribile senso di vertigine le pizzicò la gola e cominciò a dibattersi muovendo sconclusionatamente le gambe e anche, per quanto le riusciva, le braccia.
Tom Riddle osservava la scena senza dire una parola: il suo sguardo sembrava essere quello di sempre, serio e disinteressato, se non fosse stato per la mascella terribilmente serrata e gli occhi leggermente più sgranati del solito. Le narici del naso fremevano, allargandosi di poco, nel tentativo di controllare la respirazione e soprattutto la rabbia che gli cuoceva dentro come un ferro incandescente, piantato dritto dritto nel petto.
Da quando aveva sorpreso Phoebe a chiacchierare amabilmente con Gordon McDougall – oramai più di una decina di giorni prima – non era stato più in grado di controllare il nervosismo che gli faceva tremare le mani e che impediva alla sua ragione di mantenere la lucidità necessaria e di non farsi accecare da un pressante desiderio di vendetta. Ricordava ancora come quel pomeriggio Yaxley avesse fatto il suo ingresso in Sala Comune, correndo a rotta di collo attraverso il muro di pietra e rischiando quasi di travolgerlo e buttarlo a terra. Aveva dovuto afferrargli entrambe le spalle e scuoterlo con forza per farlo smettere di farneticare a vanvera e obbligarlo a mettere insieme qualche frase di senso compiuto. E quando finalmente era riuscito a informarlo del McDougall e della Hool che si trovavano – soli! – nel corridoio del primo piano che portava all’ufficio della professoressa di Erbologia, inizialmente non ci aveva creduto. Aveva pensato piuttosto che, alla fine, il cervello di Artemius Yaxley fosse andato davvero in corto circuito, a causa della quantità immane di Api Frizzole che era solito ingurgitare la sera prima di andare a dormire. Poi, mentre attraversava la scuola a passi svelti, la sua mente aveva cercato di trovare il motivo plausibile che si potesse celare dietro una situazione del genere: Gordon McDougall stava architettando qualcosa per danneggiarlo e assicurarsi il dominio della Casata di Serpeverde anche negli anni in cui lui non ci sarebbe più stato. Di ciò era completamente certo, anche se ancora non conosceva su cosa si sarebbe basato il suo piano e le modalità attraverso le quali sarebbe stato attuato. Era possibile che avesse deciso di avvicinare singolarmente ogni suo seguace per convincerli, con la forza o meno, ad allontanarsi da lui a uno a uno? Era possibile che in quel momento Phoebe si trovasse vittima di un agguato? Di una lotta impari?!
Quei pensieri lo avevano spinto ad accelerare.
Ricordava anche come si fosse bloccato nel bel mezzo di un passo quando alla fine li aveva intravisti, in piedi davanti alla scalinata che conduceva al secondo piano. Vicini – troppo vicini – impegnati in quello che sembrava tutto tranne un duello all’ultimo sangue! Lui che la teneva accanto a sé per le spalle e lei che non faceva nulla per impedirglielo. L’irlandese l’aveva baciata brevemente su una guancia, con una familiarità che aveva avuto lo sgradevole effetto di comprimergli lo stomaco, per poi andarsene tronfio e soddisfatto dell’espressione schifata che gli era comparsa sul viso.
Aveva fatto il possibile per evitare di parlare dell’accaduto direttamente con Phoebe Hool: era quasi certo che, se l’avesse fatto, non sarebbe riuscito a tenere a bada quella sensazione formicolante che gli rendeva insensibili i polpastrelli e che gli faceva desiderare di afferrarla brutalmente per quei capelli neri e sottili. Ma non lo aveva fatto per qualche assurdo riguardo che poteva avere nei confronti della ragazzina; no, aveva evitato l’argomento perché nemmeno per lui era facile parlare, spiegare quella pressione dolorosa all’altezza del petto che sembrava volergli scavare impietosamente dentro ogni volta che ripensava all’accaduto. Nemmeno per lui era facile ammettere che la piccola e banale Hool era riuscita a ferirlo in una parte profonda del suo essere, tanto profonda che fino a quel momento non aveva saputo neppure di avere. Lo aveva fatto sentire fragile, esposto…vulnerabile. Perché per quanto Tom Riddle potesse essere diffidente, per quanto cercasse di non fare affidamento su nessuno a parte se stesso ed evitasse l’aiuto degli altri al pari di una pestilenza mortale –  ma soprattutto, per quanto potesse sembrare impossibile! – si fidava di Phoebe Hool. Non era una cosa che avesse voluto, che avesse ricercato; era successa e lui non aveva potuto fare assolutamente nulla per impedirlo. Lentamente: era stato come mettere insieme una montagnola di modeste dimensioni e composta da ghiaia minuscola. Un sassolino alla volta. Un sassolino al giorno. Da quando si era intrufolata nella sua vita, con il suo sacchetto pieno di vecchi e malridotti giocattoli, quella mocciosa molesta non aveva fatto altro che aggiungere un sassolino dietro l’altro. Come tutte quelle volte in cui lo aveva aiutato a nascondere ben bene i giocattoli che aveva sottratto con la forza agli altri bambini lagnosi dell’Orfanotrofio, senza mai correre a fare la spia con qualcuna delle assistenti – un sassolino. Come quella volta che, a causa dell’ennesimo coniglio passato misteriosamente a miglior vita, Billy Stubbs lo aveva pestato e lei aveva fatto in modo che una delle pesanti sedie della sala colloqui cadesse proprio addosso al suo assalitore, prima di darsela a gambe insieme a lui – un sassolino. Il fatto che non capisse il motivo che stava alla base di questa sua intaccabile lealtà lo aveva reso inquieto e irremovibilmente sospettoso, almeno fino al memorabile incidente che era capitato all’interno della grotta buia affacciata sul mare, durante l’annuale gita estiva. Quella volta Tom – lo sapeva – aveva decisamente esagerato: aveva giocato con le menti piccole e deboli di Amy Benson e Dennis Bishop come avrebbe fatto con un pezzo di carta. Le aveva accartocciate, arrotolate, spiegazzate in tutti gli angoli che gli era stato possibile creare, per poi, alla fine, strapparle e lacerarle con facilità esattamente nel mezzo! Phoebe Hool aveva assistito ad ogni cosa, in piedi e in silenzio al suo fianco, e alle domande della Signora Cole riguardo all’accaduto aveva mentito con una serenità che aveva sorpreso perfino lui, alzando le spalle vaga. Quella volta di sassolini ne aveva racimolati almeno cinque vanghe piene. Si fidava di lei…non era chiaro?! Si fidava a tal punto da averla resa partecipe riguardo alla ricerca delle famiglie dei suoi genitori! E ora? Ora la trovava a confabulare e cospirare alle sue spalle, insieme a nientemeno che la persona che probabilmente lo odiava più di chiunque altro all’interno della scuola e che non si sarebbe di certo fatto problemi a cantare e saltellare gaiamente sulla sua tomba. Era stato come se quella stupida ragazzina avesse disperso i sassolini ammonticchiati in tutti quegli anni con dei calci ben assestati; come se a calci avesse preso quella fiducia che lui così stupidamente le aveva concesso.
Come succedeva – sempre – si era fidato una volta di troppo.
Una sensazione calda e vischiosa di collera gli riempì la testa a ondate. La Hool se ne stava ancora sospesa a mezz’aria davanti a lui, agitandosi inutilmente e piagnucolando sottovoce. Girò il polso lentamente e il corpo della ragazzina subì una rotazione di centottanta gradi che la fece finire a testa in giù e le fece emettere uno strillo acuto. La gonna della divisa era scivolata pericolosamente fino a metà della coscia e la bacchetta, che lei aveva mollato a causa di una contrazione angosciata della mano, era caduta a terra con un piccolo tonfo attutito dall’erba. Poi, Tom aveva ripiegato il braccio armato e aveva dato appena un colpetto con l’indice: la prigioniera fu trasportata lentamente da una forza invisibile verso il proprio carceriere, che rimase a fissarla con sguardo inespressivo per una manciata di secondi, mentre lei si mordeva le labbra a sangue per impedirsi di singhiozzargli proprio in faccia.
Alzò una mano per attirare l’attenzione del resto del gruppo e cominciò a passeggiare lentamente fra la ragazza sospesa e gli altri. Si mise a spiegare a voce alta, affinché tutti lo potessero sentire bene, come se si trovasse davanti a un’intera classe di studenti.
< Guardate. Guardate bene. Voglio che ognuno di voi osservi con attenzione: in poche mosse, Hool ha collezionato tutti gli errori possibili che si possono commettere durante un duello. Se non volete servire al nemico la vittoria su un piatto d’argento, vi sconsiglio vivamente di tenere conto del suo esempio > disse. Poi, fermandosi di nuovo di fronte a Phoebe, aggiunse con tono sommesso e glaciale: < A meno che far trionfare l’avversario non sia, fin dall’inizio, il vostro obiettivo.>
Il ragazzo sollevò di nuovo la bacchetta e Phoebe Hool si alzò nell’aria per altri due metri. Le puntò la bacchetta contro e si stava accingendo a incantarla, quando alle sue spalle la voce esitante di Xerxes Avery domandò:
< Non credi che possa bastare…per oggi…Riddle? Io penso che tutti qui abbiano compreso ciò che volevi…>
< Chiudi il becco, Avery!> lo zittì all’istante l’altro, voltandosi appena nella sua direzione.
Il ragazzo dagli occhi grigi incassò la testa fra le spalle e si affrettò ad abbassare lo sguardo, per non fomentare ulteriori ire da parte del suo capo, il quale, con la bacchetta ancora all’altezza della spalla, rimase immobile per qualche momento a fissare la compagna di Casa che se ne stava imprigionata sopra di lui, singhiozzando oramai spaventata e sempre più rumorosamente. Sembrò soppesare la situazione con attenzione e, quando comprese che la sua rabbia era lentamente sbiadita in una ruvida e insistente irritazione, che veniva alimentata solamente dalla presenza dell’altra davanti a sé, sferzò orizzontalmente l’aria e mise fine all’incantesimo. La ragazzina cadde pesantemente a terra picchiando ginocchia e mani.
Ignorando nuovamente le difficoltà della compagna di classe, Tom Riddle si avvicinò ai propri averi: mise la tracolla in spalla e ripiegò il soprabito della divisa sul braccio, poi, mentre risistemava le maniche della camicia con scrupolosità, cominciò ad avviarsi verso l’ingresso della scuola senza più degnare nessuno di uno sguardo e limitandosi a dire:
< Carrow, ti voglio in Sala Comune entro dieci minuti.>
Nessuno dei ragazzi rimasti si azzardò a muoversi dal suo posto, almeno fino a quando Riddle non svoltò l’angolo e si allontanò lungo il sentiero sterrato che conduceva al recinto di Cura Delle Creature Magiche. A quel punto Aaron Mulciber, Lionel Rookwood e Artemius Yaxley si incamminarono sulla scia del loro capo, stando ben attenti che quello si allontanasse abbastanza da non vederli e da non sceglierli così come nuovi pupazzi da tortura per combattere lo stress. Xerxes Avery, invece, sfilò i propri occhiali da una tasca del soprabito e se li sistemò sul naso, prima di raggiungere Phoebe Hool. La ragazzina era riuscita a mettersi a sedere e in quel momento si teneva con forza il polso sinistro. Aveva i capelli scompigliati e adornati da svariati fili d’erba e terriccio, mentre il viso stravolto era stato solcato da un’unica lacrima solitaria. Teneva le labbra strette con forza fra loro e si lagnava sommessamente a causa del pulsare fastidioso e acuto proveniente dall’arto dolorante. E quando Avery le scostò non poco bruscamente l’altra mano per controllare la situazione, le sue lamentele si fecero più forti.
< Ahia! Fa male!> protestò, ritraendosi dal contatto e rannicchiandosi un poco su se stessa.
< Smettila di frignare come una bambina > la rimproverò l’altro, con tranquilla severità. < Non è nulla che non si possa mettere a posto con un incantesimo.>
Lennox Rosier si avvicinò, con la propria tracolla che gli attraversava il petto in diagonale e le braccia incrociate su di esso, e si intromise dicendo:
< E, comunque, non ti ha fatto nulla che tu non ti sia andata a cercare, Hool.>
< Smaterializzati, Rosier > lo ribeccò immediatamente Xerxes, riservandogli una glaciale e grigia occhiataccia. < E…Tristan! Cosa diavolo ci fai ancora qui?! Riddle ha detto che ti vuole a rapporto in Sala Comune praticamente…adesso!>
Lo sguardo dello studente di Serpeverde era puntato sul suo compagno di stanza che, a pochi passi da dove si trovavano loro tre, osservava la scena senza dire una parola e spostando nervosamente il peso del corpo da un piede all’altro. Quando si sentì tirare in causa per poco non fece un balzo sul posto.
< Io non ci penso nemmeno ad andare da lui, ora! E’ troppo incazzato. Hai sentito con che tono ha pronunciato il mio nome?! Potrebbe addirittura lanciarmi una Maledizione Senza Perdono solo perché alzo un sopraciglio nel momento e nel modo sbagliato. No, io non ci resto da solo con lui. Non ci penso nemmeno > farneticò il ragazzo impuntandosi infantilmente.
< Tristan Carrow, vuoi forse che quello ci appenda tutti quanti a testa in giù in Sala Comune, stasera? Vai subito.>
< Oh, Xer, ti prego…>
< Vai, ho detto!>
Tristan si lasciò andare in uno sbuffo piagnucolante, prima di invocare su di sé la protezione di tutti i grandi maghi della storia e correre in direzione della scuola. Xerxes Avery lo osservò in silenzio scomparire dall’altra parte dell’angolo, poi riportò la propria attenzione sulla Hool, che ancora se ne stava rannicchiata per proteggere il polso offeso.
< Non so cosa tu abbia fatto, Phoebe > esordì e afferrandola per un braccio si alzò e l’aiutò a fare altrettanto. Poi, una volta che furono entrambi in piedi, aumentò la presa e, ottenuta la completa attenzione dell’altra, aggiunse con tono meno amichevole: < Ma è meglio per te che tu risolva la faccenda al più presto. A meno che tu non voglia avere un problema anche con noi.>
E lo sguardo minaccioso che Lennox Rosier le offrì fu più eloquente di qualsiasi altra parola.
 
 
* * *
 
 
Phoebe Hool scribacchiò le ultime parole della sua ricerca sui Clabbert e si sciolse in un lungo sospiro beato, mentre scivolava esausta contro lo schienale della sedia. Il professor Kettleburn aveva assegnato quella ricerca per tutta la classe, concedendo solo tre giorni per la stesura e pretendendo allo stesso tempo che superasse almeno i settanta centimetri di pergamena.  Non aveva potuto contare nemmeno sul più microscopico supporto da parte di Xerxes: alla fine aveva attuato la sua vendetta, sebbene senza l’utilizzo di mezzi violenti, e le aveva negato ogni tipo di collaborazione durante il lavoro. Pensare di chiedere aiuto a Tristan era semplice e pura follia – specialmente perché, nell’ultimo periodo, gli allenamenti della squadra di Quidditch erano inspiegabilmente aumentati e il ragazzo aveva tempo solo per roteare la sua mazza qua e là. Così, aveva dovuto spaccarsi la testa su un capitolo di oltre cinquanta pagine e saltare un paio di cene per poter portare a termine il compito, ma alla fine ce l’aveva fatta. E il senso di soddisfazione che le aveva abbracciato il petto era forse l’unica cosa positiva di quegli ultimi giorni!
Quel pensiero fece scolorire all’istante il suo sorrisetto. Appoggiò il mento sulla mano e fece spaziare sconsolatamente lo sguardo sul resto della sala della Biblioteca. Quel pomeriggio c’erano diversi studenti che gironzolavano svogliatamente fra gli scaffali polverosi, che chiacchieravano a bassa voce vicino all’ingresso o che si disperavano sopra compiti eccessivamente complicati, mettendosi le mani fra i capelli e tirandoseli un po’ troppo forte per la disperazione. Intravide le sue compagne di Dormitorio, Annabeth Jenkins e Gloria Wyatt, alle prese con una irritatissima Madama Pince presso il bancone dei prestiti e, spostando lo sguardo esattamente dalla parte opposta, riconobbe Aaron Mulciber che, a braccia conserte, cercava un libro nella sezione di Divinazione. E per poco non le venne un colpo, quando capì che la chioma rossa che cercava un libro nella stessa sezione, qualche scaffale più in basso, apparteneva invece a Regina McDougall.
Sospirò a fondo, mentre le dita della mano libera si perdevano a giochicchiare con un angolo giallo della pergamena. Quell’ultimo periodo non era stato affatto facile!
Dopo tutti gli anni passati l’uno a fianco dell’altra, Phoebe aveva creduto di sapere perfettamente tutti i lati possibili che componevano la personalità del suo migliore amico; aveva pensato di conoscere oramai a menadito ogni sfumatura del suo carattere: attacchi di rabbia tanto spaventosi quanto incontrollabili, infinita sicurezza e un’indifferenza quasi spietata verso ciò che non stuzzicava il suo interesse; comportamenti autoritari che impedivano a tutti gli altri la possibilità di qualsiasi scelta. E, naturalmente, aveva sperimentato ognuno di essi direttamente sulla propria pelle!
Ma l’atteggiamento che Tom aveva tenuto nei suoi confronti, durante gli ultimi giorni, era una novità persino per lei. La ragazzina era quasi certa di non  aver mai visto quel rancore recondito e persistente che sembrava guidare i gesti e le scelte del ragazzo. Il loro rapporto non era stato sempre rose e fiori, certo che no, avevano litigato più di una volta fra loro e più di una volta molto duramente e per motivi più o meno importanti, ma nessuno di quei confronti si era protratto così a lungo lasciando dietro di sé strascichi ostinati e che faticavano a scomparire. Phoebe Hool non ricordava un solo momento, in passato, in cui anche solo scambiare due mezze parole con Tom Riddle potesse essere considerata un’impresa quasi impossibile! Era come se il ragazzo si stesse impegnando con tutto se stesso per ignorarla ed estrometterla dalla sua vita – sembrava volesse allontanarla, estirparla esattamente come avrebbe fatto con un’erbaccia velenosa! In quei giorni aveva dovuto sopportare in silenzio insulti nemmeno troppo velati, frasi calcolatamente crudeli e qualsiasi tipo di scortesia che lui fosse riuscito a escogitare per umiliarla e farla sentire a disagio. Qualche giorno prima, come se tutto il resto non fosse stato abbastanza, le era passato accanto e l’aveva spintonata – di proposito – facendole sfuggire di mano tutti i libri che teneva fra le braccia, i quali caddero a terra provocando un gran fracasso. Phoebe aveva dovuto inginocchiarsi per raccoglierli, fra le risate generali dei presenti in corridoio, e guardarlo allontanarsi senza voltarsi indietro nemmeno una volta. Aveva addirittura cercato più volte di chiedergli scusa per averlo fatto arrabbiare in quel modo, sebbene non sapesse quale fosse esattamente la sua colpa ma fosse più che certa che, in quel modo, stesse svendendo la poca dignità che già possedeva.
Sospirò di nuovo silenziosamente e ripose tutte le proprie cose alla rinfusa dentro alla tracolla. Sistemò un poco l’elastico che teneva ferma la sua coda di cavallo e si incamminò verso l’uscita della Biblioteca, più che intenzionata a raggiungere il Dormitorio e a concedersi un meritatissimo bagno prima che giungesse l’ora della cena. Se era fortunata, magari sarebbe pure riuscita a ritagliarsi un’oretta per finire quel libro del Babbano Daniel Defoe che da troppo tempo poltriva intonso sul suo comodino!
Stava scendendo le scale cercando di pensare solo ed esclusivamente alla sensazione deliziosa del proprio accappatoio sulla pelle tiepida e umida…ma il pensiero ricorrente dei problemi con il suo migliore amico sembravano poco propensi a lasciarla in pace. Si fermò a metà rampa e fece scorrere piano le dita lungo il corrimano di marmo, fissandone distrattamente le venature sfumate e scure.
Phoebe sapeva che tutti i guai erano cominciati a causa di Gordon McDougall. Sapeva che le cose erano cambiate dal momento in cui Tom aveva assistito alla chiacchierata che l’irlandese le aveva strappato senza consenso. Poteva solo immaginare quali pazzeschi scenari la mente del ragazzo avesse potuto costruire. E il fatto che il Caposcuola di Serpeverde continuasse a salutarla affettuosamente in sua presenza, facendo scorrere una carezza gentile sulla sua nuca, non aveva di certo aiutato a migliorare quegli scenari. E per concludere in bellezza, ci si era messa anche Regina che, nell’ultimo periodo, la trattava come se avesse scoperto all’improvviso che la Hool era in realtà una sorella rimasta ignota per anni! Quindi sì: sapeva che tutti i guai erano cominciati a causa di Gordon McDougall. Quello che non sapeva era come potesse cercare di spiegare al suo amico d’infanzia come erano andate realmente le cose, se lui non le concedeva nemmeno un’occasione per spiegarsi, per esporgli la sua versione dei fatti.
Quando Tom si incaponisce in questo modo sulle cose, è davvero un grandissimo, colossale, pezzo di IDIOTA!, pensò la ragazzina, incrociando le braccia sul petto indignata e lasciando che la sua stizza avesse il via libera per la prima volta da giorni.
Capì solo dopo parecchi secondi che il ragazzo dalla divisa verde-argento che stava percorrendo spedito il corridoio, ad appena trenta centimetri sopra la sua testa, era nientemeno che Tom Riddle: evitò solo per un pelo di schizzare sul posto e finire in fondo alle scale rotolando. Era comparso all’improvviso, come se avesse potuto ascoltare l’insulto che gli aveva inviato mentalmente e fosse quindi giunto di corsa per punirla per la sua insolenza! Ma il ragazzo stava proseguendo attraverso il secondo piano e sembrava non essersi minimamente accorto della sua presenza – il dislivello tra il piano del corridoio e la rampa delle scale dovevano aver creato una sorta di punto cieco che l’aveva nascosta alla sua infallibile vista. Phoebe risalì di corsa i gradini che aveva appena fatto e si fermò per un minuto a osservare il ragazzo che continuava a allontanarsi, poi volse lo sguardo nella direzione opposta. Osservò con attenzione i paraggi ma nulla: non c’era traccia né ombra di nessun componente del suo gruppo.
Tom stava gironzolando per la scuola completamente solo!
Non le ci volle molto per capire che quella era un’occasione più unica che rara e che difficilmente si sarebbe ripresentata. Se voleva mettere una volta per tutte fine a quella scomoda e assurda situazione, doveva agire immediatamente. E quindi si mise a correre.
 
 
 
 
Dannazione, l’ho perso, pensò sconsolata Phoebe Hool, fermandosi in mezzo al corridoio deserto e grattandosi una tempia spaesata. Strinse appena le palpebre per aguzzare la vista, nella penombra del piano, ma nulla. Sembrava che il ragazzo si fosse volatilizzato nell’aria: se non fosse stata più che certa che non ne fosse ancora in grado, avrebbe giurato che si fosse Smaterializzato!
Era stata sul punto di chiamarlo e implorarlo di fermarsi ad aspettarla più volte quando una sensazione, lieve ma persistente quasi quanto il ronzio di una zanzara, l’aveva convinta a fare diversamente e a tacere. Infatti, dopo aver percorso l’intero corridoio e aver imboccato una strada decisamente più lunga, Tom Riddle si era guardato intorno con circospezione e poi si era mosso verso la trascurata scalinata che portava al terzo piano del castello. Un campanello d’allarme strillò e strillò ripetutamente nella testa di Phoebe: il terzo piano di Hogwarts era una specie di unico corridoio circolare sul quale si affacciavano vecchie aule andate in disuso o stanze nelle quali era stato accatastato a casaccio vecchio materiale scolastico che il corpo insegnanti non aveva la più pallida idea di dove andare a buttare. Aveva in totale una mezza dozzina di finestre e ciò rendeva l’ambiente poco soleggiato e cupo. L’intero corridoio, poi, era tappezzato di vetrinette grandi e piccole in cui erano conservati scrupolosamente antichi cimeli e i premi e le targhe di merito che tutti gli studenti di Hogwarts avevano collezionato da quando era stata fondata la scuola fino ad allora – alcuni risalivano addirittura al Medioevo! Il fatto che Tom si avventurasse in un posto del genere l’aveva insospettita all’istante: quel luogo era solo un enorme ricettacolo di polvere e ricordi, non aveva assolutamente nulla di valido che potesse accaparrarsi l’attenzione del migliore studente della scuola. Quindi, doveva esserci un motivo valido e davvero molto, molto importante che aveva spinto l’altro ad avventurarsi fin laggiù. Era rimasta a fissare le scale, indecisa sul da farsi, per almeno un minuto buono, poi la curiosità aveva avuto la meglio sui timori e le incertezze e aveva salito i gradini a due a due. Era riuscita a stargli dietro per un po’, ma poi Tom aveva accelerato il passo e superato l’angolo con qualche secondo di anticipo rispetto a lei.
La ragazzina avanzò cautamente per un’altra decina di passi, stando attenta a cogliere anche il minimo rumore e passando davanti ad altri due espositori. Erano separati da uno spazio abbastanza largo da permettere a una persona di starci dentro con un braccio sollevato di lato, ma mentre uno sembrava una sorta di gigantesco armadio di legno scuro, l’altro era decisamente più ridotto, con i suoi tre piccoli ripiani stracolmi di oggettini vari e le ante esclusivamente di vetro. Si era fermata a osservare con uno sguardo veloce e distratto le medaglie, le coppe e le coccarde ammonticchiate dietro lo sportello trasparente. Aveva già spostato il piede per proseguire nella sua marcia, ma due mani l’afferrarono con forza per le spalle e la strattonarono prepotentemente indietro impedendoglielo.
Phoebe Hool non capì subito cosa stava succedendo, fino a quando non percepì il legno dell’armadio di poco prima andare duramente incontro al suo mento. Il dolore acuto sembrò accrescere i suoi sensi e per questo non le ci volle molto per percepire la pressione della punta di una bacchetta esattamente alla base del collo. Una mano, nel frattempo, stringeva con fermezza la sua divisa impedendole la maggior parte dei movimenti.
< Ma cosa…> tentò di protestare, appoggiando i palmi delle mani sulla superficie laccata dell’armadio.
< Stai zitta > le sibilò una voce, direttamente nell’orecchio. < Spero davvero che tu abbia una spiegazione più che convincente per motivare la tua presenza qui, adesso.>
Nella posizione in cui era non poteva vedere in faccia il suo assalitore, ma nel momento in cui riconobbe Tom come il proprietario di quella voce si tranquillizzò un po’. Ma fu uno sbaglio perché, quando il suo corpo si rilassò, l’altro spostò la propria mano dalla sua schiena alla testa e la schiacciò ulteriormente contro il mobile. La stretta fu più inaspettata che dolorosa ma costrinse la ragazzina a lanciare uno strillo:
< Accidenti…Tom! Sei impazzito?!>
< Smettila di piagnucolare e rispondi: cosa diavolo ci fai qui? Mi stavi pedinando, per caso? E per conto di chi?!>
< Mi stai facendo male…ahia!> si lamentò ancora Phoebe, mentre la mano che intrappolava la sua testa stringeva un po’ di più.
< Rispondi!> insistette l’altro, senza mollare la presa. < E non provarci nemmeno a mentirmi, o giuro su Salazar Serpeverde in persona che ti Schianto.>
La ragazzina stringeva gli occhi contro l’armadio di legno, troppo confusa e ansiosa per ragionare lucidamente e cercare di opporre resistenza in qualche modo. Le sue mani sudate stavano inesorabilmente scivolando sulla superficie liscia, quando una voce alle sue spalle chiamò, con fare incerto:
< R-Riddle…?>
Percepì distintamente la mano del ragazzo irrigidirsi per la sorpresa. Poi il movimento successivo fu così veloce che lei non riuscì a seguirlo, infatti si rese conto di ritrovarsi con la schiena contro il petto di Tom, un suo braccio che le cingeva le spalle e l’altra mano che le copriva entrambi gli occhi, solo dopo un minuto buono. E sebbene non fosse in alcun modo il momento adatto, quella situazione le scatenò un dolce brivido lungo la schiena.
< Non dire un’altra parola > impose il ragazzo allo sconosciuto, nuovo arrivato. La voce solo un poco ansante. < Effettua prima l’incantesimo che ti ho insegnato e dopo potremo discutere senza problemi.>
Nonostante gli occhi chiusi, Phoebe Hool udì il fruscio di una mano che cercava precipitosamente qualcosa nelle tasche di un vestito e un mormorio basso che precedette il breve scricchiolio di un incantesimo. Una parte del suo cervello insisteva sul fatto che, sebbene avesse pronunciato meno di due parole, conoscesse quella voce. Anche se in quel momento non riusciva proprio a capire di chi fosse.
< Ottimo. Ora puoi parlare tranquillamente. Per quale motivo hai voluto che ci incontrassimo così precipitosamente?> domandò Tom.
La voce che gli rispose era completamente diversa da quella precedente. Era acuta e gracchiante, decisamente poco piacevole da ascoltare ma impossibile da riconoscere:
< Ci sono delle novità importanti che riguardano Lui, capo. Sono informazioni molto riservate, tanto che perfino io non ne sapevo niente fino a pochi giorni fa. Ma poi Gor…quello se l’è cantata…sai, Abraxas Malfoy l’altra sera si era procurato un po’ di quella speciale erba medica della Serra Numero Quattro e allora…>
< Non mi interessano minimamente le porcate che fatte quando siete tutti insieme nel Dormitorio. Arriva al punto!> lo interruppe bruscamente il ragazzo.
< Sì…sì, certo, capo. Subito > si affrettò a scusarsi la voce contraffatta. < Quello che volevo dire è che quella sera Lui si è vantato parecchio, dicendo di avere un enorme vantaggio sul suo principale nemico. Un vantaggio così grande che l’altro si sarebbe accorto di avere perso troppo tardi. Insomma, sembrerebbe che…>
Davanti all’esitazione del suo interlocutore, Tom Riddle si spinse istintivamente in avanti, spronandolo:
< Sembrerebbe che cosa?>
< Sembrerebbe che abbia un informatore > buttò fuori la vocina tutto d’un fiato. < E’ riuscito a far andare dalla sua parte qualcuno che sta all’interno delle tue file, capo. C’è qualcuno che lo informa per filo e per segno di tutto quello che fai durante il giorno. Una spia!.>
L’ultima parola provocò in Phoebe Hool un sussulto che non fu in grado di trattenere. E sebbene fosse più che certa che Tom stesse cercando in tutti i modi di risultare impassibile di fronte al suo misterioso alleato, sapeva che quella notizia lo aveva scosso: lo capiva dal modo in cui la mano che le stringeva la spalla si era involontariamente contratta.
< Chi è il traditore?> domandò lentamente, dopo una manciata di secondi di totale silenzio.
< Non ne ho idea, capo: è stato abbastanza scaltro da non rivelare nessuna informazione utile al riguardo.>
< Ne sei sicuro? Non saresti in grado di riconoscerlo nemmeno se te lo trovassi direttamente di fronte?>
< Io non penso…>
< Potrebbe essere lei?!>
Ponendo quella domanda, il ragazzo si era fatto avanti di due passi trascinandosi appresso Phoebe. Nonostante gli occhi chiusi, riusciva perfettamente a sentire che a meno di mezzo metro davanti a lei c’era qualcuno che respirava pesantemente. Non avrebbe saputo dire quale potesse essere la sua altezza, ma ebbe la netta sensazione che la scrutasse dell’alto in basso. E per tutto il tempo in cui lo sconosciuto rimase in silenzio, osservandola, la ragazzina trattenne il fiato spaventata. Solo quando quello parlò di nuovo, sospirò profondamente:
< Non lo so proprio, capo..>
< Va bene > disse Tom, facendo un passo indietro. Più rilassato. < Il tuo nuovo compito è scoprire il più presto possibile chi sia il traditore che fa il doppio gioco. Voglio essere informato delle novità all’istante. Sono stato chiaro?>
< Sì, capo.>
< Ottimo. Allora, se non c’è altro, il nostro incontro finisce qui. E…>
< Posso farti una domanda, capo?>
Tom Riddle non rispose. Ma Phoebe Hool avrebbe scommesso tutti i pochi galeoni che possedeva che lui aveva scoccato al suo ignoto amico un’occhiataccia, infastidito dal fatto di essere stato interrotto mentre parlava. Intanto, la voce gracchiante si rimise a parlare solo dopo aver ricevuto un via libera silenzioso:
< Per quale motivo la ragazza si trova qui? C’entra qualcosa?>
La reazione di Riddle a quella domanda fu una risatina allo stesso tempo derisoria e nervosa. Alla ragazzina sembrava di poterlo vedere quel sorrisetto storto che gli arricciava l’angolo della bocca, scoprendo i denti solo di sbieco.
< Per quale motivo me lo chiedi?> disse, scimmiottando la domanda che l’altro gli aveva appena posto. < Ti interessa? La vuoi? Vuoi prendertela come ricompensa per il tuo duro lavoro e i tuoi servigi? Eccola: è qui. Serviti pure e fanne quello che ti pare!>
< No!> esclamò istintivamente Phoebe di fronte a quelle dichiarazioni. Si agitò ansiosamente fra le braccia del ragazzo, riuscendo ad allentare un po’ la presa e addirittura ad allontanare la schiena dal suo petto. Ma quello aumentò la forza con la quale la stringeva e la riportò al suo posto con poca fatica e in meno di un tentativo. Lei continuò a tremare vistosamente, anche dopo che la voce contraffatta dichiarò con decisione che quella ragazzina minuta non lo interessava in alcun modo. Lo sapeva perfettamente che stava facendo quello solo per deriderla, per spaventarla a morte…e sapeva anche perfettamente che ci stava riuscendo senza nessun problema!
Ridacchiò ancora una volta, prima di congedare lo sconosciuto con poche, sbrigative parole:
< Abbiamo finito. Hai capito qual è il tuo nuovo compito: cerca di non deludermi. Mi farò vivo io per il prossimo incontro.>
L’altro si allontanò nella direzione dalla quale era venuto, senza aggiungere nulla e facendo riecheggiare il proprio passo pesante sul pavimento di pietra. I due ragazzi, nel frattempo, rimasero immobili in quella stessa posizione, in silenzio, uno ad attendere pazientemente l’istante esatto in cui l’eco si fosse definitivamente smorzato e l’altra ad ascoltare il respiro di lui che si infrangeva regolare contro la sua nuca. Quando Tom finalmente allontanò la mano dalla sua faccia, lei capì che il suo celato informatore se n’era andato, mantenendo intatto il suo prezioso anonimato…ma non fece in tempo a terminare nella propria testa quella constatazione che si ritrovò nuovamente sbattuta con forza contro una superficie dura – questa volta non si trattava dell’armadio ma bensì della porzione di muro subito accanto. Riaprì gli occhi di scatto e constatò con una punta di panico di aver sfiorato per un pelo lo spigolo del basso espositore di vetro. Intanto l’altro, senza perdere tempo, le aveva premuto la punta della bacchetta esattamente sotto il mento e con l’altra mano l’aveva afferrata per il colletto della divisa scolastica. La stava fissando dritta negli occhi, uno sguardo scuro e furente che le scaldava la faccia come avrebbe fatto uno schiaffo improvviso. Le labbra premute con forza l’una contro l’altra.
< Da quanto?> esordì, scandendo bene le parole. E aggiungendo, di fronte alla sua espressione smarrita e i suoi balbettamenti incontrollati: < Da quanto tempo hai deciso di passare informazioni al nemico? Da quanto tempo mi hai venduto a Gordon McDougall?!>
Phoebe Hool strabuzzò gli occhi e trattenne il fiato. Perfino la sua più orribile ipotesi, su ciò che il suo migliore amico potesse aver pensato riguardo a quella situazione, non si era avvicinata nemmeno lontanamente a quello! Ricambiò ottusamente l’occhiata dell’altro per un po’, incapace com’era di formulare un qualsiasi pensiero logico.
< Tom…ma…ma cosa stai dicendo…?>
< Rispondi alla mia domanda.>
< Ma non è vero! Io non ho mai parlato con Gordon McDougall…di te > si corresse all’istante lei, mentre la punta della bacchetta calcava ancora di più sotto il mento, costringendola ad alzare la testa e a lasciare scoperta la linea del collo.
Il ragazzo lasciò andare la presa sul colletto e appoggiò la mano contro il muro di pietra, a meno di un centimetro dalla testa dell’altra. Le dedicò un sorrisetto cattivo e colmo di rabbiosa delusione, prima che la sua espressione tornasse a farsi dura e spaventosa e dicesse:
< Credi davvero che tu possa farmi fare la figura dello stupido in questo modo?! Pochi giorni fa ti sorprendo nel bel mezzo di un’allegra chiacchierata con McDougall – il quale sembrava conoscerti meglio di quanto tu voglia ammettere. Poi proprio oggi, il giorno in cui tu per caso decidi di seguirmi in giro per metà scuola, scopro che c’è qualcuno fra i miei seguaci che aggiorna sistematicamente quell’irlandese su tutto ciò che faccio. Non ho mai creduto alle coincidenze, tu lo sai bene, Phoebe…e due in così poco tempo sono troppe!>
< Andiamo, Tom…non puoi pensarlo sul serio > farfugliò la ragazzina, con un groppo in gola tanto grande da sembrare un macigno. < Io…io non potrei mai farti una cosa tanto orribile. E tu lo sai…>
< Dammi una sola, buona ragione per cui dovrei crederti > sibilò lui a denti stretti, allontanando la bacchetta dal suo mento ma continuando a puntargliela in mezzo alla faccia.
A Phoebe Hool bruciavano gli occhi. Quella domanda le sembrava la più stupida che qualcuno le avesse mai posto. Per quale motivo lei non avrebbe mai tradito Tom Riddle?! La risposta le sembrava talmente ovvia che la paura che provava in quel momento, di fronte alla bacchetta sguainata del ragazzo, si era convertita per un momento in una rabbia irritata e offesa. Come poteva davvero pensare quelle cose di lei? Come poteva credere, anche solo per un misero istante, che lei sarebbe stata capace di svenderlo a Gordon McDougall, come se fosse una cosa qualunque di cui doversi disfare? No, non l’avrebbe mai tradito: perché per lei Tom Riddle non era una persona qualunque. Si sarebbe molto più volentieri buttata cento volte giù dalla Torre di Astronomia, piuttosto che fargli una cosa del genere!
Perché per lei Tom Riddle significava…tutto.
Era stato – da sempre – tutto ciò che avesse mai posseduto e tutto ciò che avesse mai voluto possedere.
Era un amico e un fratello. La famiglia sulla quale per tanti anni aveva fantasticato.
Un insegnante severo e un consigliere sincero.
Era il ragazzo che le faceva battere impetuosamente il cuore.
No, non l’avrebbe mai tradito: perché lei era innamorata di Tom Riddle.
Quelle parole le premevano insistentemente dentro la bocca per gettarsi fuori tutte assieme. Ma se Phoebe aveva già timore della reazione che l’altro avrebbe potuto avere, se si fosse davvero convinto che lei era una spia al seguito di Gordon McDougall, beh…aveva ancora più paura di ciò che avrebbe potuto esserci nei suoi occhi, se gli avesse fatto una rivelazione di quel genere! Così, mordendosi la lingua, ripeté ancora più esitante:
< Io…non potrei mai farti una cosa tanto…orribile…>
Lo schianto dell’espositore di vetro contro il pavimento fu così improvviso che la spinse istintivamente a schiacciarsi ancora di più verso la parete di pietra. Le sue ultime parole erano stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso: la rabbia che fino a quel momento aveva attraversato il corpo di Tom Riddle e che lui aveva trattenuto come meglio poteva, alla fine era esplosa come un inaspettato getto di lava bollente che incendia e distrugge tutto ciò che trova intorno a sé. E in quel caso la vittima scelta per quel sacrificio era stata la teca accanto a Phoebe. L’aveva afferrata con una mano e sbattuta a terra con tutta la forza che quel furore incontrollato gli aveva trasmesso. I vetri si erano frantumati con un grido stridente e si erano sparsi in pezzi grandi e piccoli sul pavimento e intorno ai loro piedi, ruzzolando in tutte le direzioni insieme ai vari oggetti che lì erano contenuti. Una medaglia di bronzo opaca e rotonda, non più grande di un palmo di mano, si era avventurata fra le macerie rotolando incerta e impavida fino a quando non aveva incontrato il piede destro del ragazzo contro il quale alla fine aveva impattato e si era fermato.
< Smettila di ripeterlo!> era scoppiato Tom, alzando la voce per la prima volta da quando era iniziata quella discussione. Il respiro era veloce e pesante: continuò a respirare così per un po’ cercando di recuperare la calma e la tranquillità. Era una cosa che non gli succedeva spesso, solitamente era in grado di controllare qualsiasi tipo di emozione o sensazione negativa senza nemmeno sforzarsi troppo. Ma per qualche motivo che ancora non riusciva ad afferrare chiaramente, quella insulsa ragazzina era capace di farlo infuriare veramente, come nessun’altro era in grado di fare – nemmeno l’odiato irlandese! Abbassò lo sguardo sul pavimento ingombro dei resti della teca, cominciando automaticamente a leggere tutti i nomi, le date e i meriti incisi o cuciti a mano: leggere era una cosa che lo aiutava a distendersi, qualcosa di lineare e limpido dalla quale non si sarebbe mai dovuto aspettare qualcosa d’imprevisto. Aveva ancora gli occhi incollati verso il basso, mentre aggiungeva: < Voglio la verità. E la voglio ora! Se credi di poterti prendere gioco di me, sei solo una stupida e…e…>
La frase gli inciampò sulla lingua e si disperse nell’aria rimanendo incompiuta. La sua mente era rimasta impigliata tra le lettere annerite che decoravano la medaglietta ai suoi piedi. Rilesse e rilesse l’incisione almeno una decina di volte, stordito e incredulo, ripetendola sottovoce come se fosse un mantra e fino a quando riuscì a impararla a memoria. Si chinò lento e incerto a raccoglierla e la strinse fra le mani come se fosse stata non di bronzo ma di cristallo fragilissimo. Di fronte a quell’insolita interruzione e a quel silenzio ancora più strano, Phoebe, che fino a quel momento aveva abbassato il capo cercando di proteggersi dalle grida del suo migliore amico, alzò lo sguardo e fissò la scena incerta. Solo dopo molti istanti si convinse ad avvicinarsi e a sbirciare l’oggetto che Tom osservava con così tanta attenzione. Era un premio dedicato a uno dei Battitori che facevano parte della squadra della Casata che aveva vinto il Torneo scolastico di Quidditch, nell’anno inciso a caratteri decorati. Era parecchio vecchio e trascurato, ma il nome che spiccava nel mezzo era ben interpretabile.
E il nome inciso era quello di Orvoloson Gaunt.

 
 
 
 
 
Note dell’autore.
 
*Latis se ne sta inginocchiata di fronte alla statua gigante raffigurante il tecnico che le ha fatto ripartire la connessione a internet, cantando ovazioni e sacrificando un capretto di peluche*
 
Allora…non so nemmeno se sia il caso di fare queste note, perché mi sento una persona orribile – anzi, una vera e propria MERDA – per il ritardo imperdonabile con il quale ho pubblicato questo ottavo capitolo. E’ passato un mese, acciderbolina…un mese! Merito di essere frustrata fino allo sfinimento, data in donazione a un gruppo di pugili folli o direttamente offerta in dono a Hannibal Lecter (ok, magari quest’ultima cosa non fatela, perché potrebbe addirittura piacermi XD).
Insomma…chiedo perdono a tutti voi per il ritardo.
Lo so che a furia di ripeterlo finirete per non credermi più, ma davvero…IO NON C’ENTRO! Qualche settimana fa mi è partita la connessione internet: vi risparmio i diversi battibecchi che abbiamo avuto con la compagnia telefonica, svariati tecnici incapaci e pure qualche scaramuccia con un impiegato di banca davvero idiota. Per questi giorni interminabili l’abbiamo sostituita con una chiavetta…una chiavetta orrenda! Si sconnetteva in continuazione, non caricava nulla. Un vero inferno! Ma se becco chi me l’ha data…
*Tom fischietta tranquillo*
Ma oggi è tornata! E’ TORNATA! Il tecnico che è passato da casa stamattina – LORIS! sia santificato il tuo nome! – aveva detto che entro la serata sarebbe ritornata ed è ritornata! Quindi, la prima che faccio con la mia connessione ritrovata è pubblicare il nuovo capitolo.
 
Non mi dilungherò troppo con le precisazioni nemmeno questa volta, perché sono davvero troppo ansiosa di pubblicare e scommetto che non state più nella pelle nemmeno voi! *Latis se la tira vistosamente!*
Quindi mi soffermerò solo sui punti più importanti.
 
Allora?! Com’è andata?
Avevamo lasciato i nostri eroi con un bel problema sul groppone. Chi si aspettava che Tom reagisse così? Credevate che sarebbe stato più magnanimo o molto più crudele?
Aspetto con ansia i vostri pareri!
 
Traditori e informatori sconosciuti. Avete qualche idea? Chi è il proprietario della misteriosa vocetta – questa sono quasi certa che la sapete o comunque l’avete già intuita? Chi è invece il doppiogiochista che tradisce Tom?
Lo scopriremo insieme con il TotoInfame!
*Phoebe vestita da valletta cerca di far girare un enorme ruota dove sono appiccicate tutte le facce degli scagnozzi di Tom*
Sono veramente curiosa di sapere le vostre idee…ah! Naturalmente, chi indovina per primo verrà premiato con un pacco di Pandistelle :D
 
Giungiamo alla fine, dai. Che devo pubblicare…devo pubblicare!
Ringrazio profondamente tutte le persone che hanno recensito lo scorso capitolo: ELVASS, RURUE, BLOOD_MARY95, KURAPIKA95, CRY e ERODIADE. Un ringraziamento speciale anche alla mia carissima ENIDE!
Vi adoro, davvero! Ma vi adoro tanto. A voi i Pandistelle li regalo comunque <3
 
Ringrazio anche tutte le persone che hanno inserito la storia nelle seguite, nelle ricordate e nelle preferite. O anche solo chi ha letto. Ricordate: se questa storia va avanti – piano, ma va avanti – il merito è soprattutto vostro. Grazie infinite!
 
Spero davvero che possiate perdonarmi per il vergognoso ritardo e di rivedervi tutti alla prossima. Visto che è già la seconda volta che sgarro sulla data di pubblicazione, ho deciso di non metterne una precisa. Diciamo che spero come sempre di rimanere entro le due settimane, ma comunque credo di riuscire a postare il prossimo capitolo entro la fine del mese :)
Ancora grazie!
 
Un bacio. Latis.

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Capitolo 9
*** Appuntamento a mezzanotte ***


Capitolo nove: Appuntamento a mezzanotte
 
 
Da che avesse memoria, il desiderio più grande di Lionel Rookwood era stato quello di avere un nipote maschio!
Ricordava molto vagamente quel giorno in cui sua sorella aveva radunato ogni membro ancora vivente della famiglia, che avesse il proprio nome trascritto sul loro gigantesco albero genealogico, e tenendo in braccio lui, scapestrato bimbetto di circa due anni, aveva annunciato con grande orgoglio e commozione di aspettare un figlio dal marito, sposato solo un anno prima. Poi era iniziata quella che lui adorava chiamare “menzogna collettiva”: qualunque individuo – maschio o femmina che fosse, parente o amico di famiglia che fosse – reso partecipe della grande notizia, finiva sempre per rivolgersi a lui congratulandosi per l’arrivo del nipotino e chiedendogli se fosse felice di poter finalmente avere in giro un altro bambino con cui giocare. Non aveva ancora capito bene se tutte quelle persone, i suoi genitori inclusi, lo avessero fatto apposta, volutamente, o se fosse stata semplicemente una sfortunata casualità, ma tutti avevano parlato del neonato in arrivo come se fosse fin troppo scontato che alla fine sarebbe stato un maschio. E lui, sentendoselo ripetere e ripetere fino alla nausea, aveva finito per crederci e addirittura sperarci! Il pensiero di poter avere un compagno di giochi lo aveva reso entusiasta e impaziente. Per tutti i nove mesi che aveva dovuto attendere, aveva accarezzato affettuosamente l’idea degli innumerevoli, fantastici giochi che avrebbe potuto fare con il suo nipotino nuovo di zecca: avrebbero potuto rincorrersi per i corridoi e le scalinate con le sue tante scope giocattolo, inscenare spettacolari e sanguinarie battaglie con i suoi soldatini di piombo parlanti o giocare agli esploratori dentro le serre in cui sua madre teneva le sue rarissime piante esotiche. Avrebbero potuto fare la lotta sul tappeto davanti al camino; legare un elfo domestico a una gamba del lungo tavolo del salotto e divertirsi a fare finta di essere dei pericolosi indiani oppure dei pirati senza scrupoli. E tantissime altre cose. Quindi si poteva solo immaginare quanto fosse stata grande e cocente la sua delusione, quando suo padre lo aveva preso in braccio per mostrargli il neonato che scalciava inquieto dentro la culla, annunciandogli che quella era la sua nipotina.
Reese Rowle – col tempo, Lionel avrebbe cominciato a sospettare che pure il nome della bambina era una presa per i fondelli bella e buona, visto che era solitamente attribuito più ai maschi che alle femmine – avrebbe ben presto distrutto tutte le sue speranze.
Non si poteva assolutamente giocare con le scope, perché Reese era troppo piccina e strillava come una sirena a causa delle vertigini.
Non si poteva assolutamente giocare con i soldatini, perché Reese voleva invece giocare a pettinare le sue bambole di pezza – e a volte perfino lui!
Non si poteva assolutamente giocare agli esploratori, perché Reese preferiva di gran lunga giocare a far finta di prendere il the con le dame e le regine immaginarie che solo lei vedeva.
Non si poteva far la lotta e tantomeno rapire un elfo domestico! Si giocava a “mamme e papà” e alla principessa rapita dal mostro di turno, che doveva essere salvata dal prode e impavido principe che passava di lì per caso: solitamente, in seguito i due si sposavano e andavano a vivere felici e contenti in un gigantesco castello, fatto con coperte e lenzuola appese un po’ dappertutto.
Sì, Lionel Rookwood aveva sempre desiderato avere un nipote maschio. E quella mattina, mentre attraversava l’ingresso della Sala Grande scarabocchiando diverse figure sul proprio blocco da disegno e salutando distrattamente il professor Lumacorno che gli era passato accanto superandolo, lo aveva desiderato ancora di più! A parte per i capelli della stessa tonalità di biondo, che la ragazzina teneva stretti in due lunghe code ai lati della testa, zio e nipote non avevano nient’altro che li accomunasse. Reese aveva il centro del viso ricoperto di efelidi e uno sfrontato nasino all’insù che Lionel non sapeva davvero da che ramo della famiglia fosse andata a pescare. Orecchie leggermente a sventola, era un po’ più alta rispetto alle ragazzine della sua età e Lennox Rosier gli aveva già anticipato che col tempo sarebbe diventata una bellezza di tutto rispetto e che lui avrebbe fatto molta fatica a tenere a bada i viscidi pretendenti che avrebbero presto gironzolato attorno alle sue sottane.
Sebbene il giovane Rookwood continuasse a ritenere che fosse un’eventualità quasi impossibile, quella volta aveva tirato un pugno in testa a Rosier. Così, tanto per essere sicuri. E quello era solamente l’ennesimo motivo per il quale la sua testa rimpiangeva quel tanto agognato nipote maschio!
Reese lo aveva raggiunto mentre entrava nella Sala e lo aveva affiancato seguendolo fino al posto che solitamente il ragazzo occupava insieme agli altri membri del suo gruppo. Concentrato com’era a far scorrere la matita sul foglio e allo stesso tempo a cercare di seguire le chiacchiere acute della nipote, non fece troppo caso al fatto di essere il primo arrivato di quella mattina.
< Dai, in fondo cosa ti costa…non mi stai nemmeno ascoltando, zio Leo!> protestò vivacemente la ragazzina, con uno sbuffo stridulo e incrociando le braccia sul petto, offesa.
Lionel alzò lo sguardo verso il soffitto incantato, grattandosi distrattamente il mento con la parte gommosa della matita e cercando di fare mente locale sul dettaglio che voleva aggiungere al proprio disegno. Ripiegò la testa sul foglio, dicendo:
< Ma sì che ti sto ascoltando…>
< Se è vero che mi stai ascoltando, allora qual è l’ultima cosa che ti ho chiesto?>
< Stavi parlando di…di…> biascicò il ragazzo, tracciando linee brevi e schioccando le dita della mano libera, come se stesse cercando una parola che aveva proprio sulla punta della lingua. < Ma sì…quella cosa lì…>
< Del voto di Astronomia > gli venne in soccorso la ragazzina.
< Appunto. E io che ho detto?>
La ragazzina fece un sonoro sbuffo esasperato, che le sollevò una ciocca biondiccia. Poi si avvicinò ulteriormente al giovane zio e, appoggiando pigra il mento sopra la sua spalla, sbirciò il disegno che stava componendo. Sembrava uno scorcio del parco del castello, anche se non sarebbe mai riuscita a dire con precisione quale fosse il punto di osservazione esatto. Per un momento ripensò alla propria infanzia e a come avesse sempre invidiato la bravura e la capacità artistica dell’altro, che era stato in grado fin da piccolo di rappresentare in modo anche troppo realistico qualsiasi cosa gli capitasse sotto il naso…mentre lei sapeva tracciare appena omini stilizzati e alberelli dai rami spennacchiati!
Alzò di nuovo lo sguardo e, sporgendo appena il labbro inferiore, domandò ancora con tono tenero e infantile:
< Allora? Non dirai niente a mamma e papà, vero?>
< Dipende da cosa ci guadagno > rispose Lionel Rookwood, non riuscendo a trattenersi dal ghignarle in faccia.
< L’amore incondizionato e perpetuo di tua nipote?>
< Bello schifo!>
< Ti prego, zio Leo!> esclamò Reese con uno strillo acuto, congiungendo le mani davanti alla fronte in un chiaro gesto di supplica. < Se lo vengono a sapere, mi faranno passare le vacanze di Natale insieme agli Elfi Domestici. Sono disperata!>
Il ragazzo sogghignò ancora più apertamente. Sollevò il blocco da disegno davanti agli occhi, per cercare eventuali errori o mancanze, e lasciò che Reese Rowle crogiolasse ancora un po’ nell’attesa ansiosa della sua risposta. Ripose i fogli sul tavolo e cancellò energicamente un dettaglio che non gli piaceva, per poi tornare a ridefinirlo con la matita. Solo quando la sentì emettere un lamento simile a un uggiolio, decise che l’aveva fatta attendere abbastanza e, sempre senza guardarla, disse:
< E va bene, nocciolina, va bene: non dirò nulla. Sarò muto come una tomba!>
< Oh, zietto mio, grazie. Grazie!> strillò di gioia la ragazzina, gettandogli le braccia al collo e stringendolo così forte da costringerlo a smettere di disegnare. < Sei il ragazzo migliore di tutta la scuola! Anzi, no: di tutto il mondo! Dell’universo! Del…>
< Sì, come ti pare, ma ora vedi di finirla, Reese…> protestò Lionel, cercando di divincolarsi dall’asfissiante stretta, quando vide avvicinarsi alla tavolata Aaron Mulciber. La nipote ubbidì ma si congedò dall’amato zio schioccandogli un eccessivamente sonoro bacio sulla guancia, proprio nel momento in cui l’altro Serpeverde prendeva posto davanti a lui, e distruggendo così quel poco di dignità che credeva ancora di possedere.
Il volto di Rookwood avvampò visibilmente, quando si accorse che Mulciber stava sgranocchiando una fetta di pane tostato sorridendo beffardamente sotto i baffi.
< Cosa diavolo c’è di così divertente?> domandò, un po’ troppo sulla difensiva.
< Oh, nulla > rispose il ragazzo più grande, scuotendo le spalle con noncuranza ma continuando a sghignazzare. < Constatavo solo quanto fossi tenero…zietto.>
< Vai a farti fottere da un Ungaro Spinato, Aaron!>
Il suo interlocutore si comportò come se non avesse nemmeno sentito l’insulto che gli era stato indirizzato: infatti, si limitò a nascondere la sua espressione derisoria dietro a una tazza fumante di caffè. Lionel Rookwood, indispettito, alzò di scatto un piede sotto la tavolata, nella speranza di centrare il ginocchio o il polpaccio del compagno di Casa e di fargli abbastanza male da levargli quel sorrisetto fastidioso dalla faccia. In effetti, qualcosa riuscì a beccare e ottenne anche un gratificante lamento di dolore. Solo che entrambi non erano partiti dal ragazzo ma bensì da qualcosa sotto il tavolo.
Dopo essersi lanciati una lunga occhiata interrogativa, i due Serpeverde si affrettarono a piegarsi sulle rispettive panche per sbirciare cosa si nascondesse sotto la tavolata. E ci mancò poco che non venisse a entrambi un colpo!
Rookwood ritornò a mettersi seduto, con una mano sul petto a stritolare la divisa scolastico nel tentativo di rimettere in ordine i battiti cardiaci, e sbraitò:
< Hool! Ti è evaporato il cervello, per caso?! Cosa diavolo stavi combinando lì sotto?>
Prima di rispondere, Phoebe Hool sgattaiolò fuori dal suo nascondiglio, si piegò un poco contro la spalla del compagno di classe e controllò qualcosa in direzione della tavola degli insegnanti, mentre Aaron Mulciber continuava a bere caffè e le riservava il suo sguardo più critico. Una volta soddisfatta, si mise comoda e alzò una mano a massaggiare il mento dolorante – punto esatto in cui il piede di Rookwood era andato a impattare.
< Mi stavo nascondendo da Lumacorno. Non voglio essere costretta, anche di domenica, a dover svolgere i suoi stupidi incarichi > spiegò, mantenendo un sottile tono cospiratorio. Poi, dopo aver lanciato una lunga occhiata alla tavolata, aggiunse, grattandosi una tempia dubbiosa: < Ci siamo solo noi a far colazione, stamattina?>
< Siamo anche troppi…> sibilò caustico Mulciber.
< A quanto pare, sì > lo zittì lo studente più giovane, versando un po’ di cereali dentro una grossa tazza verde. < Yaxley, nel finesettimana, non si alza prima dell’ora di pranzo…>
< Rosier non è tornato in Sala Comune, ieri notte > giunse ancora la voce di Mulciber, dal fondo del caffè.
<…e Carrow e Avery hanno avuto il privilegio di vedere com’è l’ufficio di Dippet prima delle dieci di mattina.>
La ragazzina, che nel frattempo si era versata una generosa dose di succo di zucca, terminò di svuotare il proprio bicchiere, poi chiese di nuovo:
< Ancora?! Sarà la terza volta in dieci giorni! Cosa è successo?>
< Da quello che mi ha riferito il Caposcuola, un tizio del settimo anno di Tassorosso è andato a sbattere accidentalmente contro Xerxes nel corridoio, pensando bene, poi, di chiamarlo “quattrocchi”. Per ringraziarlo, Tristan gli ha mescolato i connotati della faccia.>
Nonostante in tutto quello non ci fosse assolutamente nulla di divertente, Phoebe non riuscì a trattenersi dall’alzare gli occhi al cielo e ridacchiare.
Aveva sempre pensato che ci fosse qualcosa di molto tenero nel modo in cui il primogenito dei Carrow si fosse preso a cuore la salute e il benessere del proprio compagno di stanza. Da quando Xerxes Avery aveva tragicamente perso suo padre, sembrava che il ragazzo avesse preso la solenne decisione di non permettere a nessun’altra cosa al mondo di farlo soffrire: come una sorta di personale crociata verso la quale aveva messo a disposizione la sua più totale devozione.
La ragazzina allungò un braccio e afferrò un croissant dal vassoio che aveva davanti, poi lanciò un’occhiata furtiva a tutto il resto della tavolata mentre ne mordicchiava la punta croccante. Masticò lentamente e in silenzio, pensando a come porre la domanda senza risultare patetica e cercando di sembrare il meno interessata possibile.
< E…Tom?> mormorò lanciando di sottecchi occhiate prudenti ai due ragazzi, concentrati ancora nelle rispettive attività. < Non sale a mangiare un boccone?>
Lionel Rookwood si voltò a guardarla e, con l’espressione più spaesata del mondo, le chiese a sua volta:
< Chi?>
< Tom…Tom Riddle!> balbettò stupidamente lei, dopo un lungo momento di confusione e imbarazzo nel quale aprì a vuoto la bocca, come un pesce rosso, per più di una volta. E nel quale pensò che il cervello che era evaporato non era decisamente il suo!
< Ah, ma certo. Riddle!> esclamò il ragazzo, schiaffeggiandosi un po’ troppo teatralmente la fronte e fingendo di essere appena caduto dalle nuvole. < Perché? Frequenta ancora Hogwarts?! Non l’avrei mai detto…>
Aaron Mulciber palesò il suo consenso nei confronti di quella scenetta con una risatina soffocata all’interno della mano, mentre Phoebe afferrava lentamente il senso della battuta della quale era appena stata il bersaglio. Si era illusa di essere stata l’unica ad accorgersi dello strano comportamento che lo studente più brillante della scuola stava tenendo da almeno tre settimane. Completamente all’improvviso, come la fiamma di un fiammifero che scompare con la stessa velocità di un respiro, il ragazzo era passato da centro focale della vita e delle giornate del suo gruppo e di tutta la Casata dei Serpeverde a eremita quasi irrintracciabile. Gli unici momenti in cui ancora si poteva sperare di intravederlo erano le ore di lezione durante la settimana, ma anche in quelle occasioni era tanto assente e distante che era come se non ci fosse; come se fosse stato molto, molto lontano dalla scuola e da tutto il resto e fosse stato sostituito da un’ombra silenziosa e indifferente che aveva scordato dietro di sé e che, ora, infestava inquietante i luoghi in cui lui era precedentemente stato. Disertava costantemente le ore dei pasti ed era certa che molto spesso lo facesse perché, semplicemente, si dimenticava di mangiare, di riposare. L’unica occupazione che lo interessasse in qualche modo era rompersi la testa sopra mucchi di libri usurati, gironzolare fra i labirintici scaffali della Biblioteca fino a perdersi nelle zone meno luminose e riempirsi gli occhi dei riflessi opachi di medaglie e coppe sparse per i corridoi della scuola…cercando insistentemente e senza sosta una cosa sola.
Orvoloson Gaunt.
Da quando quel nome era inciampato rotolando nei loro piedi, anche lei aveva trovato molto difficile non pensarci. Le era sembrato davvero incredibile come poche sillabe, nemmeno troppo aggraziate e armoniose fra loro, potessero occupare il pensiero in modi tanto differenti.
Non aveva mai sentito prima quel nome né lo aveva conosciuto di persona…ma sapeva cosa significava.
Per quanto fosse un argomento piuttosto spinoso, c’erano state delle occasioni – poche – in cui il suo migliore amico le aveva accennato qualcosa riguardo alla sua nascita e al significato che si celava all’interno del nome che portava. E all’orfanotrofio, la Signora Cole non perdeva mai occasione per spifferarlo ai quattro venti!
La madre di Tom era morta dandolo alla luce, in un freddo e triste ultimo giorno dell’anno di tanti anni prima. Ma aggrappandosi testardamente a quegli ultimi sprazzi di vita, aveva racimolato le poche, ultime energie che le erano rimaste per dare al suo adorato bambino l’unico nome che davvero le premeva sul cuore.
Il primo nome e il cognome – Tom Riddle – erano gli stessi che aveva portato suo padre e che lo stesso Tom aveva per anni esposto al mondo, con una sorta di  affettuoso orgoglio.
Il secondo nome, invece, era appartenuto prima di lui al suo nonno materno.
Poco comune e decisamente bislacco, era una parte del suo passato che il ragazzo aveva deliberatamente trascurato e del quale non si era mai interessato più di tanto. Forse proprio perché aveva associato quel nome alla madre morta; quella stessa madre che aveva sempre considerato come la parte così volgarmente Babbana delle proprie origini. E ora, contro ogni aspettativa, quel nome tanto stravagante appariva nell’ultimo luogo in cui il ragazzo avrebbe mai pensato di andarlo a cercare: Hogwarts!
Phoebe aveva passato molto tempo a rimuginare su tutte quelle cose, a volte fino a farsi venire delle vere e proprie emicranie. E pensava di essere arrivata perfino a una conclusione…sebbene non le piacesse affatto.
E se Tom sbagliasse? Se non fosse stato suo padre ad avere poteri magici…?
Sentì la domanda di Lionel Rookwood solo quando lui la colpì dritta in fronte con un grosso chicco d’uva, ripetendo la domanda per la terza volta.
< Dannazione, Hool, torna sulla Terra > sbottò il ragazzo, scrollandola energicamente per una spalla. < E’ praticamente impossibile che tu non sappia nulla di quello che succede.>
La ragazzina si passò nervosamente una mano sulla fronte, chiedendosi per un secondo se non fosse stata vittima di un incantesimo che permetteva alle persone accanto a lei di poter leggere tutto quello che le passava per la testa direttamente dalla sua faccia.
< Pe-perché dovrei sapere qualcosa proprio io…scusa?> balbettò, nascondendosi inutilmente in un altro, enorme morso al suo croissant.
Prima che lo studente più giovane del gruppo potesse controbattere, dall’altra parte del tavolo Aaron Mulciber scostò la propria tazza di lato con un gesto un po’ troppo brusco, che rischiò di far cadere l’oggetto sul pavimento. Alcune ciocche scure e lisce gli ricaddero sugli occhi, rendendo il suo sguardo ancora più scontroso di quanto già non fosse, mentre proferiva queste parole:
< Ci prendi per i idioti, ragazzina?! Lo sappiamo tutti che, quando Riddle ha qualcosa di scottante tra le mani, tu sei la prima persona che ne viene messa a corrente. Non ne ho mai capito il motivo – forse è perché vi conoscete da una vita, non so – ma è così! Anche Avery finisce sempre per sapere qualcosa prima di tutti gli altri, ma sicuramente non prima di te.>
Phoebe posò su un piatto il proprio dolce per metà mangiato mentre artigliava il bordo della tavolata con la mano libera, cercando di racimolare il coraggio necessario per sostenere le occhiatacce del compagno di Casa.
< Non so...non ha detto niente nemmeno a me. Davvero > rispose, deglutendo a disagio.
< Stronzate!>
< Non so niente > insistette lei, le labbra che si contrassero involontariamente in un tremito piuttosto evidente. Deglutì ancora una volta, prima che i suoi occhi cedessero cercando rifugio nella colazione. Ciò che fece in seguito non avrebbe saputo spiegarselo nemmeno lei: non avrebbe mai saputo da quale parte del suo essere fosse andata a pescare quell’ispirazione di audacia che le aveva suggerito, forse quasi imposto, di gettare alle ortiche qualsiasi tipo di remora. Forse era stato il pensiero di Orvoloson Gaunt, di quel famoso pomeriggio e delle ombre pesanti che dominavano il terzo piano…forse era stato il pensiero di quella voce contraffatta che, anche in quell’istante, le ripeteva all’orecchio che c’era un traditore all’interno del loro gruppo. Non lo sapeva: fatto sta che alla fine, con voce sufficiente solo a farsi sentire dai due ragazzi, aveva aggiunto: < Ma tu sembri molto più informato di me riguardo a quello che Tom fa o non fa. Forse, sei tu quello che dovrebbe riferire a noi quello che sai…>
Il silenzio che si creò rese irrequieto perfino Lionel Rookwood che, per la prima volta da quando era entrato nella Sala Grande, mise da parte la sua fedele matita e fece scorrere lo sguardo da Mulciber alla Hool e poi viceversa. Il ragazzo più grande non aveva smesso di osservare la testa abbassata della ragazzina nemmeno per un secondo e la mascella terribilmente contratta sembrava il presagio di una tempesta di proporzioni inimmaginabili, tanto che Rookwood si ritrovò a sudare freddo, chiedendosi cosa avrebbe dovuto fare nel caso il compagno di classe avesse dato sfogo a una reazione eccessiva. Per sua fortuna non dovette mai trovare una risposta a quel quesito: dopo quello che sembrò un tempo interminabile, infatti, Aaron Mulciber scoppiò in una risata nervosa e irritata. E continuando a ridere abbandonò velocemente il suo posto.
< Non sono al corrente della benché minima informazione, Hool. E, anche se lo fossi, sicuramente saresti l’ultima persona con cui ne parlerei…soprattutto considerando le tue recenti frequentazioni > rispose acido, per poi allontanarsi a passo spedito dalla tavolata dei Serpeverde e dalla Sala Grande.
Fino a quando la figura alta ed elegante del ragazzo non fu scomparsa oltre il gigantesco ingresso, né la ragazzina né l’altro ragazzo si arrischiarono a pronunciare una parola. Phoebe Hool si decise ad alzare la testa solo dopo che furono trascorsi parecchi minuti, mentre Lionel Rookwood si sentì abbastanza sicuro per rompere il silenzio solo quando ebbe riacciuffato tutto il suo materiale da disegno.
< E’ parecchio nervosetto, stamattina > commentò semplicemente, tornando a far scorrere la matita sul foglio.
< Già…>
< Povero, vecchio Mulciber > continuò lui. < Si vede che la sua nuova e misteriosa ragazza l’ha mandato in bianco, ieri sera.>
Phoebe sorrise debolmente in risposta. Afferrò ciò che restava del suo croissant e finì di mangiare senza aggiungere altro. L’unica cosa che le riuscì di pensare in quel momento era che compativa, sinceramente, la povera disgraziata che aveva volutamente deciso di sorbirsi quell’odioso musone di Aaron Mulciber!
 
 
* * *
 
 
Alla fine, Horace Lumacorno l’aveva scovata.
Come un cagnaccio da caccia testardo e sfrenato, che stana il coniglio direttamente dalla sua tana, il professore di Pozioni aveva intravisto e bloccato Phoebe Hool proprio nel momento in cui, armata di tracolla e passo spedito, attraversava la Sala d’Ingresso affollata di studenti, diretta alle scale che l’avrebbero indirizzata verso i piani superiori del castello.
La ragazzina era rimasta letteralmente scioccata dal passo felpato che il professore possedeva, nonostante la sua presenza corpulenta!
Aveva preso in consegna l’ennesima circolare sospirando tristemente fra sé, mentre Lumacorno si accomiatava dedicandole un sorrisetto accondiscendente che, probabilmente, era lo stesso che avrebbe usato per parlare a un soggetto con gravi difficoltà mentali. Si incamminò verso gli uffici del corpo insegnanti a testa bassa, rinunciando perfino a sbirciare il contenuto del foglio per lo sconforto.
Silente, Gaiamens e di seguito tutti gli altri. Le ci sarebbe voluta sicuramente più di un’ora, se tutto andava bene e li trovava asserragliati nei loro rispettivi uffici.
Sospirò di nuovo, pensando che avrebbe dovuto rinunciare ai suoi propositi per quel pomeriggio: aveva passato quasi l’intera mattinata a racimolare il coraggio necessario per convincere se stessa ad accettare e realizzare l’idea di scovare Tom, in qualunque dei suoi innumerevoli nascondigli si fosse andato a cacciare, affrontarlo a muso duro e costringerlo a riferirle tutto ciò che aveva e stava tramando nell’ultimo periodo.
Accidenti: non sarebbe mai più stata in grado di trovare di nuovo abbastanza ardire – e follia – per fare una cosa del genere!
Per sua fortuna, la porta scura dell’ufficio di Albus Silente comparve davanti ai suoi occhi prima che cominciasse a prendere a testate il muro per la delusione.
A Tom non piaceva affatto Silente. La ragazzina conosceva benissimo il modo in cui il suo migliore amico storceva il naso, ogni volta che sentiva nominare il nome del professore di Trasfigurazione. Non gli piaceva il modo pacato e allegro con il quale sembrava affrontare qualunque situazione e l’accondiscendente indifferenza con cui omaggiava i suoi evidenti successi scolastici. La ragazza sapeva fin troppo bene quale fosse il pensiero di Tom riguardo al vice-preside di Hogwarts, ma tutto sommato a lei non dispiaceva affatto. Non che le riservasse chissà che tipo di attenzioni particolari, ma anche se non era proprio una cima nemmeno nella sua materia con lei era sempre stato gentile, comprensivo e incoraggiante. Decisamente, era molto diverso dall’atteggiamento che invece le riservava Lumacorno: la faceva sentire a proprio agio e non una completa frana.
Fece un respiro profondo e attese una risposta, dopo aver bussato sulla porta per tre volte.
< Avanti > esclamò allegramente la voce dall’interno.
Il professor Silente, con il collo leggermente allungato per vedere chi fosse arrivato a fargli visita, sfoggiò un enorme sorriso nel vedere la piccola Phoebe Hool che sbucava esitante dalla soglia.
< Signorina Hool > la salutò, sistemandosi meglio gli occhiali a mezzaluna sul naso. < Che piacere vederla. Prego, si accomodi, non stia sulla porta.>
< Grazie, professor Silente > rispose semplicemente la ragazzina, avanzando nella stanza e prendendo posto su una delle sedie posizionate davanti alla grossa scrivania. Sorrise leggermente, mentre il suo sguardo vagava curioso sugli strani oggetti che popolavano lo stretto studiolo e su un trespolo vuoto.
Il mago incrociò le dita delle mani davanti a sé e, lasciandosi andare contro lo schienale della poltrona, chiese divertito:
< Mi lasci indovinare il motivo della sua visita. Il professor Lumacorno?>
Phoebe scosse la testa in segno di assenso, mentre afferrava la pergamena che aveva in tasca e la allungava verso le mani del professore.
< Devo ammettere che, all’inizio, mi divertivano molto queste…”circolari” > disse Silente, prendendo la pergamena e aprendola sul ripiano. Lesse per un veloce momento il contenuto e, mentre cercava a tastoni la piuma bianca abbandonata vicino a lui sul tavolo, alzò lo sguardo verso la studentessa, aggiungendo: < Vuole un biscotto, signorina Hool?>
Solo in quel momento, la ragazzina fece caso a un piccolo piatto di ceramica bianca decorata, sul quale erano stati sistemati ordinatamente una dozzina di biscotti. Erano tremendamente invitanti e il suo stomaco, alla sola vista, rumoreggiò lievemente.
< Hanno il ripieno di crema al caffè > la incoraggiò ancora Silente.
< Grazie, professore > disse lei, infine, sorridendo grata e leccandosi istintivamente le labbra ingolosita, mentre prendeva il biscotto in cima al mucchio e lo divorava letteralmente in due soli bocconi. Il mago terminò la firma riempiendola di svolazzi e ripose la piuma al suo posto, all’interno del calamaio. Phoebe arraffò un altro biscotto, poi si alzò e fece per prendere la pergamena firmata, ma lo sguardo penetrante dell’insegnante la costrinse a bloccare la mano a mezz’aria. Rimase in silenzio per un po’ e quando finalmente parlò, disse:
< Allora…come sta, signorina Hool?>
< Sto…sto bene, professore > rispose lei balbettando sconcertata da quella domanda, mentre cercava di essere abbastanza convincente. < E’ tutto a posto. Grazie…?>
Il professore continuò a fissarla impassibile: la ragazzina, per la prima volta di fronte a Silente, si sentì fastidiosamente a disagio. Non le era mai capitato, nemmeno la prima volta che si erano incontrati all’orfanotrofio di Wool’s.
< Ultimamente >, riprese il mago senza mollare i suoi occhi nemmeno per un secondo, < ho notato che lei e il signor Riddle vi frequentate meno spesso.>
Phoebe abbassò lo sguardo cominciando a torturarsi nervosamente le mani. Stava ancora pensando a una buona risposta da snocciolare all’insegnante, quando quello rincarò la dose:
< C’è stato qualche problema tra di voi?>
< Ehm…no! E’ che ultimamente è molto impegnato in una ricerca…>
< Una ricerca scolastica?>
< Certo…sì, proprio così! Una ricerca sui…sui…sui Clabbert > rispose incerta la studentessa, continuando a tenere la testa bassa. E mordendosi la lingua nell’istante esatto in cui le parole le sgusciarono fuori dalle labbra.
Il vecchio mago si accarezzò pensosamente la barba sempre più candida, prima di domandare nuovamente:
< I Clabbert…sono un argomento che tratta il professor Kettleburn nel corso di Cura delle Creature Magiche, giusto? Non credevo che il signor Riddle lo frequentasse.>
< Infatti! Non lo frequenta…più. Nel senso che una volta aveva deciso di frequentarlo, ma ci sono stati dei problemi…delle situazioni…> blaterò sconclusionatamente lei in risposta, gesticolando goffamente per cercare di nascondere il folle tremito che l’eccessiva agitazione le provocava alle mani. < Va bene: non lo frequenta. Non lo ha mai frequentato. Sta facendo quella ricerca perché…perc…per me! Sì, per me…>
Il vice-preside continuò a fissarla, facendole capire con il solo sguardo che quella risposta non lo aveva convinto per niente. Le rivolse un sorrisetto vagamente malizioso, mentre formulava un pensiero a voce alta:
< Lo sa, signorina Hool, che sarebbe mio dovere, come professore di questa scuola, informare il professor Kettleburn dell’aiuto esterno che ha ricevuto per terminare il compito che le è stato assegnato?>
Il sangue scomparve completamente dalle guance di Phoebe Hool, lasciandola con la stessa espressione pallida ed emaciata di un fantasma che ha appena scoperto di essere inavvertitamente passato a miglior vita. Aprì e chiuse le labbra a vuoto per più di due volte, incapace di formulare qualsiasi tipo di suono.
< Riprenda a respirare, signorina Hool: le assicuro che il suo segreto non lascerà questo ufficio > sogghignò il vecchio mago, ridendo questa volta apertamente dell’espressione esterrefatta della propria studentessa. Arrotolò con cura la pergamena e finalmente la riconsegnò alla ragazzina, che l’afferrò cautamente solo dopo molti secondi d’esitazione, per poi aggiungere lievemente più serio e allusivo: < E dica al signor Riddle di non rompersi eccessivamente la testa sopra tutti quei libri: il troppo studio non sempre fa bene.>
Lei non si azzardò ad aggiungere altro. Fece uno sbrigativo gesto di saluto e si avviò verso la porta dell’ufficio. Aveva già abbassato la maniglia e aperto la porta, quando Albus Silente la chiamò di nuovo:
< Non ho ancora deciso se essere compiaciuto o meno del fatto che il signor Riddle le abbia trasmesso il suo vizio di non affidarsi a nessuno, per risolvere i suoi problemi. Ad ogni modo, lo sa che può rivolgersi a me per qualsiasi cosa, vero?>
< Sì, certamente, professore > rispose lei dopo una lunga pausa. < Ora…ora vado. Grazie per il biscotto. E buona giornata!>
Phoebe Hool si assicurò di aver chiuso accuratamente l’ingresso prima di mettersi a correre a gambe levate per il corridoio, fermandosi soltanto dopo aver messo fra sé e il vice-preside della scuola almeno cinque o sei corridoi deserti. Si fermò a riprendere fiato, con una mano appoggiata contro la parete e piegata leggermente in avanti. Il respiro affannato che le bruciava i polmoni l’aiutò in qualche modo a scacciare quella sensazione fredda e oleosa che sembrava avvolgerle completamente le spalle e il petto. Per quanto la conversazione con il professor Silente non fosse durata nemmeno una ventina di minuti, la ragazzina non riusciva proprio a ricordare un altro momento della sua vita in cui si fosse sentita tanto inadeguata, come se all’improvviso i vestiti che portava indosso si fossero ristretti senza motivo facendole mancare il fiato! L’anziano mago non aveva usato parole spiacevoli né fatto alcunché potesse essere considerato sconveniente, anzi, si era comportato come aveva sempre fatto con lei: gentile e tranquillo, forse solo un po’ troppo enigmaticamente inquietante, ma comunque gentile. Eppure non riusciva a levarsi di dosso la certezza che quella conversazione, così apparentemente cordiale, non fosse stata altro che un tentativo ben organizzato di sfruttarla, come una sorta di gradino o di scaletta per raggiungere un obiettivo molto più in alto di lei. Quell’apprensione molesta continuò a torturarla ancora per parecchi minuti, anche dopo che ebbe ripreso fiato, e fu per questo motivo che non riuscì proprio a trattenere lo strillo atterrito che emise, quando si sentì afferrare per il soprabito e sollevare letteralmente da terra. Non lo vide né lo sentì arrivare: semplicemente, a un certo punto i suoi piedi si levarono per qualche secondo da terra e fu trascinata e spintonata senza tanti complimenti nell’aula vuota a pochi passi da lì.
Quando finalmente riuscì a voltarsi, vide Tom Riddle con la testa fuori dalla porta che controllava che non ci fosse nessuno nei paraggi – in nessuno dei due versi – che li avessi visti o sentiti e che li potesse spiare. Poi, dopo essersi assicurato che l’ingresso fosse ben chiuso e sigillato, si voltò verso Phoebe fissandola molto serio. La ragazzina rimase ammutolita e lo fissò di rimando, sconcertata. Era passato un po’ di tempo dall’ultima volta che lei e il suo migliore amico erano stati  insieme nella stessa stanza…non era nemmeno più sicura di essere capace di stare lì, a pochi passi da lui, senza farsi prendere dalle vertigini!
Avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma non le venne in mente niente di buono o di sensato. E intanto lui continuava a osservarla in silenzio, con le braccia abbandonate lungo i fianchi. Per un momento le sembrò che non fosse così arrabbiato come lo era stato l’ultima volta che avevano avuto l’opportunità di parlare, e questo le diede il coraggio per balbettare qualche parola:
< Che…che c’è? E’ successo qualcosa? Ho…ho fatto qualcosa…>
< Cosa diavolo ci facevi nell’ufficio di Silente?> la interruppe glaciale il ragazzo, sempre con gli occhi saldi nei suoi. < Non ti bastava avermi venduto al McDougall? Ora ti diverti a spiattellare i miei segreti anche a quell’odioso Babbanofilo?!>
< Ma…ma no! Sono stata costretta ad andare da lui: Lumacorno mi ha affibbiato l’ennesima pergamena da firmare. Fosse stato per me sarei stata alla larga dal suo ufficio…e poi non è successo altro! Non abbiamo parlato di te nemmeno per un secondo; non ti abbiamo mai menzionato > mentì lei, rintracciando velocemente il foglio giallastro e sventolandolo con la mano davanti a sé per nascondere la propria bugia.
In risposta, Tom allontanò lo sguardo da lei facendo una smorfia scocciata e incrociando le braccia sul petto. Phoebe torturò leggermente il documento fra le dita per poi borbottare, risentita e seccata:
< Mi hai trascinata qua dentro, facendomi quasi venire un colpo, solo per farmi sapere ancora quanto non ti fidi di me?>
< No, non si tratta di questo. Ora chiudi quella bocca e stammi a sentire > rispose il ragazzo, con una evidente sfumatura di rabbia nella voce. Le lanciò un’occhiataccia che la spinse a fare un passo indietro e a deglutire rumorosamente, facendole anche mordere la lingua per la seconda volta in quel pomeriggio. < Dobbiamo parlare.>
Lei fece segno di sì con la testa e non aprì più bocca. Lui attese qualche secondo per assicurarsi di avere su di sé la sua completa attenzione, poi fece un respiro profondo e cominciò:
< Bene. Devo andare in un posto. Ma siccome non so esattamente a cosa vado incontro, voglio che ci sia qualcuno con me che possa darmi una mano in caso di necessità. Ci devo andare subito. Stanotte. Quindi questa sera ti farai trovare in Sala Comune, a mezzanotte in punto. Chiaro? Porta la bacchetta, vestiti comoda e portati dietro il mantello: potrebbe fare molto freddo.>
Parlò tutto d’un fiato e con un tono di voce che non ammetteva repliche. Restò a fissare la compagna di classe ancora per qualche secondo, come se volesse accertarsi che avesse compreso anche l’importanza sottointesa di ciò che le stava chiedendo, oltre che alle semplici istruzioni che le aveva dato. Si avvicinò di altri due passi e poi domandò, impercettibilmente minaccioso:
< E’ tutto chiaro?>
Phoebe scosse di nuovo la testa in segno di assenso.
< Ottimo > rispose semplicemente Tom. Si voltò e si diresse verso la porta, senza aspettare che lei potesse dire qualcosa e aggiungendo soltanto: < In Sala Comune. A mezzanotte.>
< Posso…posso chiederti almeno che cosa dobbiamo fare, stanotte?> chiese la ragazzina riprendendosi all’improvviso, come se una scarica elettrica le avesse attraversato tutto il corpo da capo a piedi.
< Te lo dirò solo quando avrò fra le mani qualcosa di concreto.>
< Posso almeno sapere dove andiamo?> ritentò lei, sospirando abbattuta e torturandosi nervosamente le dita fra loro.
Il ragazzo allontanò la mano che già circondava la maniglia della porta e si voltò piano verso di lei, mentre rispondeva semplicemente:
< A Little Hangleton.>

 
 
 
 
Note dell’autore.
 
Sono talmente in ritardo che mi sono chiesta più volte se fosse il caso di scrivere due parole nell’angolo riservato a me.
So che oramai ho terminato la mia scorta di scuse e giustificazioni, quindi non starò qui a tediarvi. Vi chiedo semplicemente scusa, e nient’altro. Chiedo immenso perdono a tutte quelle persone che mi hanno atteso per questi due mesi: scusatemi tanto. L’unica cosa che posso aggiungere è che cercherò in tutti i modi di non farvi mai più attendere così tanto.
Scusatemi ancora. Davvero!
 
Spendo altre due parole solo per dirvi che ho odiato questo capitolo: l’ho odiato tantissimo! Non sapevo cosa scrivere, come scriverlo e altro. Lo avrò scritto, cancellato interamente e riscritto almeno dieci volte. Non c’era verso! Non mi ispirava per niente, anche perché ero ansiosa di passare immediatamente ai capitoli successivi – che sono decisamente più coinvolgenti – quindi terminare questo capitolo è stato davvero un parto!
Ma finalmente l’ho finito e posso passare oltre.
 
Per il capitolo successivo, credo di poter fare una sorta di miracolo di Natale e riuscire a pubblicarlo proprio per il 25! Anche perché la maggior parte è praticamente già scritto, mi manca solo una scena da aggiungere e mettere a posto qualche errore. Questa volta spero proprio di non deludervi!
 
I RINGRAZIAMENTI, IN QUESTO CAPITOLO, SONO PER TUTTI! SONO PER TUTTI VOI CHE CONTINUATE A SEGUIRMI E CHE NON MI AVETE ANCORA MANDATO AL DIAVOLO, NONOSTANTE IO SIA DAVVERO UNA COMPLETA IDIOTA!
GRAZIE.
 
Un bacio. Latis.

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Capitolo 10
*** Little Hangleton ***


Capitolo dieci: Little Hangleton.
 
 
Dopo un’ora e mezza di attesa i gomiti di Phoebe Hool, immersi in un leggero strato di fanghiglia melmosa, avevano cominciato a dolerle in modo insopportabile. Ogni tentativo di muoversi o cambiare posizione era inutile: scomoda era e scomoda rimaneva. E quando per l’ennesima volta si era mossa sperando finalmente di trovare un po’ di sollievo, Tom, sdraiato di fianco a lei nel fango, le aveva mormorato con stizza, continuando a scrutare in mezzo alle foglie piccole e verdi del cespuglio dietro il quale si erano nascosti:
< Se volevi farci scoprire, bastava dirlo!>
La ragazzina sospirò rassegnata e, incrociando le braccia davanti a sé e appoggiandovi sopra il mento, si rimise a fissare la piccola casetta.
Aveva continuato a guardarla per così tanto tempo che oramai le stava uscendo dagli occhi!
Se qualcuno fosse passato distrattamente da quelle parti avrebbe fatto molta fatica a individuarla, perché si nascondeva con facilità in mezzo a un fitto e ampio groviglio di tronchi d’albero. Era tanto malridotta e poco curata, con le finestre rotte e incrostate di sporco e ragnatele; con erbacce e ortiche che la costeggiavano su tutti i lati e il muschio che si era oramai impadronito della quasi totalità dei muri, il tetto spiovente e dissestato e tegole rotte o asportate, da infonderle una pesante tristezza. Per non parlare, poi, di quel povero serpente che era stato inchiodato alla porta d’ingresso, con un grosso chiodo arrugginito che gli trapassava la testa da parte a parte. Doveva essere lì da parecchio tempo, perché era in evidente e avanzato stato di decomposizione e aveva già perso parecchie parti anatomiche. Appena erano riusciti a individuarla, Tom si era avvicinato con circospezione a una delle piccole finestre – che mostrava la stessa sporcizia e lo stesso squallore del resto della casa: una buona metà del vetro era rotta e l’altra metà era ricoperta da un vecchio strato di polvere e crepata in più punti. Senza toccare nulla, il ragazzo aveva sbirciato all’interno e rimase a scrutare l’unica stanza della catapecchia per diversi minuti. Una volta soddisfatto, era tornato verso il punto dove aveva lasciato Phoebe e aveva detto, semplicemente:
< La casa è vuota. Aspettiamo.>
Così, si erano rannicchiati per terra in mezzo al fitto fogliame poco lontano, in attesa. La ragazzina cercava di stare attenta a individuare qualsiasi cosa che si muovesse, anche di poco, visto che non sapeva assolutamente nulla riguardo alla casetta in mezzo al bosco o su chi l’abitasse. Il ragazzo non le aveva voluto rivelare niente e lei non riusciva nemmeno a immaginare cosa aspettarsi.
Una volta usciti dalla loro Sala Comune, si erano mossi silenziosi e veloci per i corridoi immersi nel buio della scuola, con lui davanti che la guidava a passo spedito e lei che lo seguiva facendo fatica a tenere il passo. Senza dire nulla e senza fare una piega, Tom l’aveva afferrata per un polso, portandola vicino a sé il più possibile: Phoebe Hool era da sempre un’incorreggibile imbranata, ci mancava solo che si perdesse in mezzo ai corridoi e li facesse scoprire da qualche Caposcuola o Prefetto che facevano il giro di controllo notturno. La ragazzina aveva trattenuto il fiato quando la mano calda e ferma le si era avvolta intorno al polso. In quel momento il sangue aveva cominciato a scorrerle più velocemente all’interno delle vene, facendola sentire come se del suo intero corpo non esistesse più niente, a parte quei centimetri di pelle e carne circondati dalla sua mano.
Per fortuna è troppo buio perché mi veda, aveva pensato, sentendo la faccia scaldarsi e immaginando di essere diventata terribilmente rossa.
Il suo migliore amico nel frattempo, con abilità e un pizzico di fortuna, riuscì a evitare ogni tipo di contro e ad arrivare a destinazione senza nessun inconveniente. Ciò che stavano cercando era un piccola e poco appariscente statua, che raffigurava una bambina con indosso un elegante vestitino da cerimonia e i capelli raccolti in due abbondanti trecce. Era stata posizionata in fondo a un corridoio senza uscita al piano terra che, almeno a quanto i due ragazzi sapessero, non aveva alcun tipo di utilità o di funzione. La statua era stata scolpita per omaggiare una strega, molto famosa durante gli anni del Medioevo, che aveva avuto il merito di padroneggiare in modo impeccabile incantesimi e magie molto complesse nonostante la sua giovanissima età.
Tom aveva scoperto il meccanismo di attivazione del passaggio segreto al primo anno, quando spinto dall’insaziabile curiosità e dall’irrefrenabile desiderio di aumentare e moltiplicare le sue conoscenze – già ad allora piuttosto ampie – passava la maggior parte del suo tempo in giro per il castello, fermandosi a leggere ogni targhetta dorata che dava informazioni sulla storia e sugli autori di tutti i quadri e le statue di Hogwarts. Avevano utilizzato quel passaggio diverse volte in passato e, anche quella volta, il ragazzo si avvicinò alla bambina di pietra ad altezza naturale e la circondò con le braccia in una specie di abbraccio, mentre le dita lunghe e sensibili percorrevano avanti e indietro la schiena fredda alla ricerca del praticamente invisibile meccanismo. Senza il minimo rumore, a un certo punto la scultura cominciò a sollevarsi, rivelando sotto di essa uno stretto e oscuro passaggio. La ragazzina cercò di ricordasi la struttura del passaggio segreto: il buco subito sotto la statua permetteva a chiunque vi entrasse di poter accedere a un percorso costruito all’interno delle pareti del castello. Si doveva camminare per un po’ in mezzo alle tubature, lo sporco, le ragnatele e qualche cadavere di ratto, fino a quando la pietra centenaria di Hogwarts non lasciava il campo a un tratto di strada scavato sotto l’enorme parco della scuola, dove grosse travi di legno e vecchissime radici avevano fatto in modo che non scomparisse col passare del tempo. Infine il tragitto terminava in prossimità di un grosso e stomachevole fiumiciattolo di liquami, che faceva parte dell’intricato impianto fognario di Hogsmeade. Ci si doveva arrampicare su una scaletta poco lontana, si sollevava e rimuoveva il coperchio di metallo pesante del tombino e si faceva capolino in una stradina secondaria del villaggio magico.
Quando Phoebe riuscì a uscire con un verso di sforzo, la stradina era avvolta in una sonnolenta e pacifica semioscurità. Non c’era anima viva in giro, solo un leggero ma tagliente vento d’autunno inoltrato spazzava le foglie ingiallite, sia quelle precipitate a terra che quelle ancora ancorate agli alberi.
< Mettiti il cappuccio > ordinò Tom alle sue spalle, senza preoccuparsi di abbassare la voce.
Le si voltò a guardarlo. Il ragazzo era indaffarato a cercare qualcosa in una tracolla di pelle che, fino a quel momento, era rimasta nascosta sotto il mantello nero. Quando riuscì a estrarre dalla piccola borsa una vecchia scopa volante, che doveva avere decisamente visto giorni migliori e di almeno cinque volte più grande del suo contenitore, la ragazzina rimase con gli occhi sgranati.
Notando quello sguardo strano, Tom Riddle domandò sulla difensiva:
< Beh? Che c’è? Mai visto un incantesimo di Estensione Irriconoscibile?!>
Senza permetterle di aggiungere altro, la obbligò ad accomodarsi sulla scopa davanti a sé e presero rapidamente il volo. Non c’era nemmeno bisogno di precisare che quel contatto sfrusciante tra i loro mantelli, le sue braccia che la circondavano in un abbraccio protettivo per impedirle di schiantarsi al suolo e la pressione confortante del suo mento che si appoggiava delicatamente sul suo capo la facevano palpitare e fremere. Si vergognò pensando che avrebbe desiderato moltissimo che si fosse avvicinato un po’ di più! L’aria fredda della sera che le schiaffeggiava con violenza il viso, nonostante il cappuccio del mantello, la fecero lacrimare copiosamente impedendole così di tenere gli occhi aperti e di osservare il paesaggio sottostante.
Per un secondo le vennero in mente le lezioni di Volo e i commenti del professor Nuvolaris riguardo al talento di Tom sulla scopa. Il mago diceva di essere rimasto sbalordito di fronte alla straordinaria capacità del Serpeverde di manovrare la scopa: aveva sviluppato una tecnica del tutto personale, un modo di virare, di accelerare e di frenare che gli permetteva di essere sempre in vantaggio sugli avversari, anche se utilizzava un modello di scopa più vecchio e obsoleto. Più volte l’insegnante aveva cercato di convincerlo a entrare nella squadra di Quidditch dei verde-argento: avrebbe potuto benissimo occupare ed eccellere in qualsiasi posizione, ma il ragazzo aveva sempre educatamente reclinato ogni offerta affermando che lo sport non era fra i suoi principali interessi. Per questo motivo non si sorprese troppo quando, meno di un’ora dopo, il suo migliore amico indirizzò la scopa in un punto molto più in basso di dove si trovavano prima e, cominciando ad atterrare con movimenti circolari sempre più piccoli, la informò:
< Siamo arrivati. Questa è Little Hangleton.>
Da dove si trovavano, Phoebe riusciva soltanto a vedere una piccola valle formicolante di modeste casette, con quasi tutte le luci spente e solo qualche caminetto ancora fumante. Era chiaramente un villaggio Babbano, con i lampioni a gas che illuminavano le piccole stradine di terra battuta dove non circolava anima viva – a parte per un edificio davanti al quale sostava un piccolo gruppetto di persone, grandi come chicchi di riso. Ipotizzò che si trattasse di una specie di taverna o di birreria. Solo dopo qualche minuto, con la testa ancora sporta oltre le braccia di Tom, la ragazzina notò una piccola ma incombente altura che sovrastava tutto il villaggio con la sua ombra. Sulla cima c’era un enorme e imponente maniero: doveva avere almeno due piani, un grande e spazioso balcone sul davanti dal quale si poteva contemplare il panorama al di sotto e un altrettanto enorme giardino perfettamente curato e sontuosamente allestito. A differenza delle altre abitazioni la maggior parte delle finestre erano illuminate da un’allegra luce arancione, come se i padroni di casa si fossero attardati davanti al camino a conversare. Rimase a fissarla per parecchi minuti, anche dopo che il ragazzo effettuò una brusca virata dirigendosi con sicurezza verso un folto tratto boschivo, pensando che era una casa bellissima!
E ci stava ancora pensando anche in quel momento, mentre se ne stava sdraiata sul terriccio appiccicoso sotto il cespuglio: la ragazzina, come l’amico, amava moltissimo Hogwarts, dopotutto era stato il primo e unico posto dove entrambi non erano stati etichettati come orfani e disadatti – cosa che invece, alla Wool’s, succedeva sistematicamente. Nella scuola di magia erano ragazzi normali come tutti gli altri, senza nulla da invidiare ai loro compagni di classe. Ma rimaneva sempre e comunque una scuola, un luogo che non sarebbe appartenuto a loro per sempre; un posto che abbandonavano durante l’estate e che, conclusi i sette anni di studi, avrebbero dovuto abbandonare per sempre. Definitivamente.
Invece quella sterminata ed elegante villa era una casa. E, per un solo momento, Phoebe Hool desiderò di avere una così un giorno. Ma anche se non fosse stata così bella, anche se fosse stata come la baracca che aveva di fronte, sarebbe stata comunque bellissima. Sarebbe stato il suo angolino di paradiso, un posto dove si sarebbe sentita protetta e sempre a suo agio. Un posto dove avrebbe potuto rifugiarsi quando il mondo la confondeva e la impauriva. Un posto dove avrebbe potuto trovare un po’ di affetto e di conforto quando si sentiva triste e stava male. Il suo cuore diede un colpo duro e netto quando un pensiero le attraversò la mente, con una lucidità e una sicurezza che la spaventarono un poco.
In un posto così vorrei che ci fosse Tom.
Lanciò un’occhiata veloce verso il ragazzo per assicurarsi che non avesse notato la lieve agitazione che l’aveva scossa. Ma lui fissava ancora l’edificio fatiscente davanti a loro, perso nei suoi inscrutabili pensieri. Riappoggiò il mento sulle braccia e cercò di esaminare meglio quel pensiero, che le era venuto con tanta, completa naturalezza. Era probabile che fosse innamorata di lui, oramai lo aveva capito, per quanto tentasse di negarlo perfino a se stessa o cercasse una qualche risposta alternativa al suo comportamento e alle sensazioni che provava. E teneva ancora moltissimo a lui nonostante tutto il dolore che aveva provato, in quell’ultimo periodo in cui lui l’aveva trattata come uno straccio da pavimenti vecchio e logoro che nemmeno l’inserviente di Hogwarts, Argus Gazza senior, avrebbe utilizzato per pulire le ragnatele dei sotterranei. Nel bene o nel male, era Tom il suo angolino di paradiso. Non importava dove fossero, a Hogwarts o all’orfanotrofio; sotto quella siepe verde, sotto un ponte o dentro a un vulcano pronto a eruttare: quando lui le era accanto non c’erano paure, non c’era preoccupazione né freddo. Non solo era fuori dal proprio Dormitorio, era addirittura fuori dalla scuola in un paesino sperduto nella pianura inglese a un orario a dir poco indicibile. Eppure il pensiero che il preside e i professori avessero potuto scoprirli e punirli più severamente del solito – forse, addirittura espellerli! – non l’aveva sfiorata nemmeno per un secondo. Perché Tom era lì e i problemi non esistevano. E se esistevano diventavano bazzecole. Lui le infondeva sicurezza, la incoraggiava e la faceva sentire accettata. Desiderò ancora, desiderò di poter essere sempre dove c’era lui, qualunque posto fosse – bello o brutto che fosse. Perché qualunque posto in cui lui si trovasse, per lei era lì la sua casa.
Dove c’era lui, ecco, quella era casa sua.
Sospirò rassegnata.
Un tuono sommesso interruppe il suo rimuginare. Pochi secondi dopo, una pioggerellina lieve le solleticò il naso e il viso convertendosi poi, con una velocità davvero sbalorditiva, in un acquazzone fitto e violento.
< Maledizione > imprecò Tom, sollevandosi sulle ginocchia. < Ci mancava solo il temporale!>
Phoebe si voltò a fissarlo incuriosita, mentre oramai la pioggia l’aveva completamente infradiciata e la fanghiglia sotto di lei diventava vero e proprio fango. Il ragazzo aveva di nuovo infilato quasi tutto il braccio all’interno della piccola tracolla bofonchiando sommessamente, i capelli bagnati che cominciavano ad appiccicarsi sulla sua fronte. Dopo una breve ricerca estrasse un quadrato ripiegato di lana che Phoebe identificò come una coperta, ma soltanto quando lui gliela gettò addosso coprendola completamente. Aveva dei disegni a quadrettini e dei colori così sbiaditi che avrebbero potuto mimetizzarsi alla perfezione in mezzo alla boscaglia. Subito dopo il ragazzo sollevò un lato della trapunta e ci si ficcò sotto, accomodandosi di fianco a lei. Le loro spalle si toccavano e la coperta non li teneva all’asciutto, ma almeno attutiva un poco i colpi secchi dell’acqua sulla testa. La ragazzina cominciò a sentire un caldo innaturale: si sentiva quasi mancare l’aria. Fino a quando lui era rimasto a qualche centimetro di distanza, non si era resa conto di quanto fossero stati vicini. Di quanto fossero soli – solamente loro due! Quel silenzio che fino a pochi minuti prima non le aveva dato alcun tipo di problema, ora la opprimeva come un peso insopportabile. Deglutì un paio di volte e alla fine, facendosi forza, osò bisbigliare:
< Secondo te…dovremmo aspettare ancora molto?>
< Non lo so > rispose pensieroso Tom, senza degnarla di uno sguardo e senza aggiungere nient’altro.
< Sei ancora intenzionato a non dirmi nulla, riguardo a quello che stiamo facendo?> insistette Phoebe, fissandolo. < Non pensi che ti sarei molto più utile se fossi messa a conoscenza di questa cosa?>
Lui non rispose e continuò ostinatamente a non guardarla. Sembrava quasi che temesse di perdere di vista la baracca, se avesse distolto lo sguardo da essa anche solo per un istante. La ragazzina attese per un po’, poi, intuendo che non le avrebbe risposto e non le avrebbe rivelato niente, riportò le braccia davanti a sé e vi riappoggiò il mento, sbuffando.
Quando faceva così, era davvero insopportabile…
< Non riesco a capire perché hai voluto che ti accompagnassi proprio io > buttò li lei, con la voce piena di fastidio. < Tanto valeva che ti portassi dietro qualcun altro, visto che non mi ritieni degna della benché minima fiducia!>
Rimase di stucco quando, con una smorfia, Tom si mosse piano e finalmente si mise a guardarla dritto negli occhi. Da vicino il suo sguardo era ancora più penetrante e seducente di quanto già non fosse: con quei due occhi avrebbe potuto convincere anche il diavolo a fare quello che più desiderasse e volesse. Poi sentenziò, con ostilità:
< Non ti è mai passato per la testa che, forse, non mi fido di te perché tu non mi hai dato il benché minimo motivo per farlo?!>
< COSA?! Ma come puoi…> sbottò Phoebe, alzando inavvertitamente il tono di voce.
La mano del ragazzo le tappò prontamente la bocca e si allontanò soltanto dopo che ebbe ascoltato i rumori tutt’intorno, accertandosi che quello strillo non avesse richiamato l’attenzione di nessuno nei dintorni. E soltanto dopo averle lanciato un’occhiataccia!
< Vuoi proprio sapere come posso?> sibilò lui, alzando di un poco un lembo della coperta e scrutando attentamente fra la vegetazione fitta. < Te lo spiego con due sole parole: Gordon McDougall.>
La ragazzina scosse la testa, mordicchiandosi le labbra per non permettere a un sospiro deluso e irritato di fuggire. Ma non riuscì a trattenersi dal borbottare:
< Di nuovo con questa storia…>
< Ti conviene chiudere quella bocca, Phoebe > l’avvisò minacciosamente l’altro.
< Per quanto ancora dovrò ripetertelo?! Non ho mai avuto niente a che fare con McDougall o…o le sue spie: a momenti nemmeno lo conosco!>
< Oh, certo > la beffeggiò Tom, crudelmente sarcastico. < Lui invece sembra conoscerti fin troppo bene.>
< Oh, Tom, ti prego…>
< “Oh, Tom, ti prego” cosa? Chiudi quella bocca, ho detto!>
Phoebe Hool tacque per qualche minuto. L’audacia e l’ostinazione che l’avevano miracolosamente sorretta fino a quel punto erano rapidamente scemate, abbandonandola poi sull’orlo dell’esasperazione e della tristezza. Respirò profondamente e piano, così da impedire ai grossi lacrimoni che le bruciavano gli angoli degli occhi di andarsene in giro liberamente per la sua faccia - il suo migliore amico aveva sempre detestato i bambini che piangevano e lei, nel corso degli anni, aveva imparato a sviluppare una propria, discreta tecnica che le permettesse di ricacciare indietro tutto quanto il suo sconforto, per poi riprenderlo in esame, eventualmente, in un secondo momento.
Lei sapeva di non aver mai tradito Tom e sapeva che non avrebbe mai potuto farlo. E conosceva alla perfezione anche il motivo. Forse se glielo avesse fatto sapere, se glielo avesse confidato…forse lui avrebbe potuto rivedere i suoi sospetti e le sue convinzioni e liberarla finalmente da tutte quelle infondate accuse. Ma come avrebbe potuto dirgli una cosa del genere?! Dove trovare le parole per confessargli una cosa che perfino lei ancora non era riuscita ad accettare? E, soprattutto, dove trovare il coraggio per affrontare tutte le conseguenze – più o meno catastrofiche – che quella rivelazione avrebbe comportato? Il suo amico d’infanzia non avrebbe preso affatto bene una situazione di quel tipo: era praticamente certa che, messo di fronte alla realtà accecante e sconveniente dei suoi sentimenti, avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per allontanarla, per farla sparire e cancellarla, come se nella sua vita la ragazzina non ci fosse mai nemmeno inciampata. E questa paura continuava a stringerle il cuore con più forza e prepotenza di quanto potesse fare qualsiasi tipo di passione che stesse lentamente coltivando nei suoi confronti: se per non perderlo avesse dovuto sopportare il suo disprezzo e la sua ostilità per tutto il resto della vita, lo avrebbe fatto in un silenzioso e accondiscendente sollievo.
< Io non potrei mai farti una cosa tanto orribile…>
Il ragazzo non si voltò e si limitò a commentare:
< Questo lo hai già detto.>
< Perché è vero! Dammi un solo motivo per cui avrei dovuto farlo > insistette Phoebe, serrando le mani in due pugni.
< Se lo conoscessi, te lo rinfaccerei senz’altro > soffiò Tom, minacciosamente. Le aveva dedicato un veloce sguardo con gli occhi strizzati in due fessure, per poi tornare a fissare la catapecchia dispersa nel bosco con espressione meditabondo. E si rinchiuse in quel silenzio riflessivo per molto tempo, tanto che, quando riprese a parlare, il suo tono di voce aveva perso ogni sfumatura di rabbia e astio che aveva precedentemente avuto, facendo pensare alla ragazzina che stesse esponendo un pensiero ad alta voce senza rendersene conto. < Con tutti gli altri non ho mai avuto problemi a capire quali fossero le loro fantasie e le loro ambizioni. E’ sempre stato così assurdamente facile – per me – indovinare su quali leve fare pressione, quali tasselli spostare per ottenere la loro collaborazione e la loro completa devozione. Non ho mai avuto problemi a capire chi sarebbe stato disposto a seguirmi fino alla morte e chi no. E come persuaderli a farlo.
< Ma tutti gli altri sono uomini, giusto? E gli uomini hanno desideri semplici. Sono facili da decifrare e da manovrare. Per voi donne il discorso è diverso: le vostre aspirazioni sono tutt’altro che materiali. Alimentate sottili sogni ad occhi aperti che fate crescere illimitatamente o distruggete fino alla radice, con la stessa velocità di un battito di ciglia. Cercate e bramate cose che nemmeno voi sapete comprendere appieno. Quindi, come posso essere assolutamente certo che Gordon McDougall non abbia da offrirti qualcosa che io non possiedo e non possiederò mai?>
La ragazzina non comprese esattamente quel discorso strano né quelle ultime parole, perché il ragazzo le pronunciò con un tono tanto sommesso che annegarono nel sottofondo picchiettante della pioggia che continuava a cadere attorno a loro. Ma non fece in tempo a chiedergli di ripetere ciò che aveva appena detto che l’altro aggiunse subito, con voce un poco più alta:
< Ad ogni modo…non credo che sia tu la spia di McDougall.>
Phoebe Hool non poté fare a meno di rimanere a bocca aperta.
Lo aveva detto davvero o una goccia di pioggia le era finita nell’orecchio, mandandole in corto circuito tutto il suo apparato uditivo?!
< Da – davvero?> mormorò, incespicando in un illogico sorrisetto gioioso. Sapeva di risultare probabilmente stupida, ma si sentiva come se il regalo che più aveva desiderato per tutta la vita fosse caduto dal cielo, direttamente fra le sue braccia. < Grazie, Tom.>
Lui le lanciò un’ultima occhiataccia imbarazzata e ritornò a guardare davanti a sé. Ma nemmeno mezzo minuto dopo, Phoebe riuscì a vedere chiaramente il corpo dell’altro che si irrigidiva e lo sguardo che diventava tempestivamente più attento, mentre scrutava i dintorni. La ragazzina stava per chiedergli che cosa stesse succedendo, quando lo sentì: rumore di passi pesanti e barcollanti che calpestavano con forza le pozzanghere e il fango, emettendo così un rumore gocciolante. Una voce, impastata di alcool e stanchezza, bestemmiò verso il cielo piovoso e intonò malamente quelle che sembrarono le strofe di una canzonaccia da osteria di quart’ordine. Per un momento ebbe il dubbio di conoscere le parole di quel motivetto, ma poi un brivido le salì saettando lungo la schiena quando si rese conto che quelle parole, che lei comprendeva fin troppo bene, non erano un linguaggio umano, ma bensì soffi e sibili animaleschi. Da rettile!
L’individuo che si stava avvicinando stava parlando il Serpentese!
Alla fine una figura entrò nel suo campo visivo, incespicando. Quando si ritrovò vicino alla casetta allungò un braccio per sostenersi contro la parete e i muri corrosi dal tempo, senza smettere di cantare e mischiando ora parole inglesi e il momento dopo la lingua dei serpenti. Aveva i capelli e la barba così folti da nascondergli praticamente tutto il viso ed era orrendamente sporco, come se da anni avesse scordato cosa fosse l’igiene personale. Nella mano libera teneva stretto il collo di una bottiglia di vetro, contenente un liquido ramato che sciabordava sulle pareti lisce ogni volta che l’uomo l’agitava. Ruttò in modo disgustoso mentre si lasciava letteralmente cadere sulla porta logora ed entrava in casa.
Phoebe aveva la bocca spalancata per lo stupore: chi diavolo era quello strano individuo?
Si voltò nuovamente verso Tom cercando spiegazioni e vide che era ancora rigidamente sconvolto dall’apparizione di quell’ubriacone. Le sue mani, però, tremavano leggermente. La ragazzina non avrebbe mai potuto capirlo, ma quel tremolio era provocato dall’eccitazione. C’era riuscito. A pochi passi da dove si trovava, c’era una delle poche persone che avrebbe finalmente potuto dare una risposta alle sue infinite domande. Quell’uomo poteva rivelargli chi era!
Aspettò ancora qualche minuto, immobile, poi scostò la coperta da entrambi con un solo gesto e la fece sparire velocemente all’interno della tracolla. Afferrò la bacchetta con decisione e, facendo un cenno a Phoebe con la testa, si avvicinò silenzioso e cauto verso l’ingresso della baracca. Mentre lo seguiva da vicino, assicurandosi di mettere i piedi nel punto esatto in cui li aveva messi precedentemente l’altro, la ragazzina poteva vedere come la sua bacchetta sussultasse convulsamente fra le sue mani, scivolose e sudate. Cercava di respirare il meno possibile perché le sembrava che il suo respiro facesse un rumore assordante, nonostante il tamburellare della pioggia. Quando furono a un passo e mezzo dalla porta – talmente vicini che al padrone di casa sarebbe bastato semplicemente buttare un occhio fuori dalla finestra per scovarli – Tom si fermò e rimase in ascolto, per cercare di capire se ci fossero dei movimenti all’interno. Il silenzio assoluto che gli rispose lo insospettì un po’. Ma incapace di attendere oltre e con la bacchetta puntata, si decise ad aprire la porta con decisione e a entrare con calma, per non tradire l’agitazione che gli stava scuotendo tutto il corpo. Phoebe nel frattempo, praticamente appiccicata al mantello nero dell’amico, lanciò uno sguardo tutt’intorno alla stanza: la tristezza che l’esterno della casetta le aveva dato era impossibile da paragonare alla sensazione di pena e nausea che le provocò quella vista. Più che in un salotto, le sembrò di essere entrata all’interno di una discarica! C’erano mobili e cianfrusaglie sparsi per tutto il pavimento e ognuno di essi era distrutto o ricoperto di sporco e ragnatele. L’odore dolciastro e acre del cibo avariato e dei cadaveri di piccoli animaletti in putrefazione le colpì il naso, rendendole difficile respirare anche con la bocca. Bottiglie di liquori e vini scadenti erano state ammucchiate in un angolo, alcune integre e altre rotte in mille schegge che avevano formato una grossa pozza scura e appiccicosa, dove gli ultimi insetti della stagione gironzolavano indifferenti. La miseria governava incontrastata all’interno della baracca. Soltanto dopo un po’ riuscì a distinguere faticosamente una figura ingobbita, con il mento rivolto verso il proprio petto, che sedeva immobile su una poltrona veccia e sfondata e con il rivestimento mangiucchiato dalle tarme.
La sua orribile condizione era in perfetta sintonia con lo stato decadente e trascurato della casa. I vestiti che indossava erano poco più che stracci: erano talmente consumati e ingrigiti che sarebbe stato impossibile indovinarne il colore originale. Teneva ancora pigramente la bottiglia di vetro nella mano, facendola ciondolare piano avanti e indietro. La ragazzina cominciò a sospettare che fosse così poco lucido da non essersi nemmeno accorto della loro presenza nella stanza, quando con un sibilo freddo e ironico l’uomo parlò, strascicando le parole:
< Mi stavo giusto chiedendo quanto ci avreste messo a entrare.>
Lei sussultò visibilmente, più per il suono raschiante di quella voce che per il fatto che l’individuo li avesse notati già da prima, nascosti in mezzo alla vegetazione. Tom, invece, rimase impassibile con la punta della bacchetta puntata verso la poltrona; l’agitazione e l’eccitazione di alcuni minuti prima che sembravano non essere mai esistite. Tutto il suo essere era concentrato verso quell’individuo tanto singolare.
Non ottenendo risposta dall’altra parte, l’uomo sollevò vacillando la gran massa di capelli e barba – grigi e spettinati e sporchi – e fissò addosso a loro i piccoli occhietti strabici. Sebbene fossero parecchio annebbiati e appannati dall’alcool, il loro colore scuro lampeggiò di una fiammeggiante luce di ostilità. Di odio
< Perché sei tornato?> ringhiò, mostrando i denti rotti e mancanti. < Sei venuto per rigirare il coltello nella piaga? Per farti beffe di me? Rispondi! Cosa vuoi?!>
< Credo che lei mi stia confondendo con qualcun…> cominciò il ragazzo con tono serio e…abbassando impercettibilmente e senza accorgersene la bacchetta.
Successe tutto talmente in fretta che Phoebe non riuscì nemmeno a capire come fosse finita con la schiena sbattuta contro la porta! Tutto ciò che era riuscita a registrare era il suono fragoroso della bottiglia che si spezzava contro il pavimento, frantumandosi. Poi, con un’agilità insospettabile per un corpo tanto esile e malridotto, l’uomo sulla poltrona balzò in piedi e si gettò contro Tom, costringendolo alla parete opposta e sollevandolo lievemente da terra. Aveva estratto velocemente un pugnale corto ma affilato e gli aveva puntato la punta luccicante appena sotto il pomo d’Adamo, pizzicandolo, mentre con l’altra mano gli stringeva prepotentemente il mantello, immobilizzandolo così contro il muro. Doveva avere una forza incredibile.
Nell’impeto della corsa aveva allontanato la ragazzina da sé con un forte spintone e in quel momento, distesa scompostamente per terra, lei li fissava pietrificata e sbigottita. L’uomo rise sguaiatamente, inondando il ragazzo con il suo alito fetido e guardandolo con gli occhi neri brucianti di sadica e folle crudeltà.
< Lasciami andare > protestò vivamente Tom, scalpitando con i piedi penzoloni e cercando di lottare contro il senso di soffocamento che gli provocavano le mani del suo aggressore intorno al collo. Avrebbe dovuto lanciare un incantesimo, difendersi, ma la mancanza d’ossigeno non gli permetteva di ragionare con lucidità. Continuò ad agitarsi, cercando di svincolarsi dalla presa robusta.
< Da dove potrei cominciare?> domandò a se stesso l’altro, continuando a ridacchiare sinistramente. < Potrei cavarti i tuoi bei occhioni…oppure, oppure farti a pezzetti la boccuccia, sì…sì, così non potrai mai più sfoggiare il tuo meraviglioso sorriso tronfio…>
Aveva alzato la punta del pugnale, facendola scorrere lentamente sulla pelle bianca del giovane e lasciando l’ombra vermiglia di un graffio superficiale, la condusse fino a uno degli angoli bocca e lì lo derise nuovamente sollevandogli leggermente il labbro superiore. Tom cercò di voltare il viso dall’altra parte ma la mano del suo aggressore, sporca e con le unghie rotte, lo bloccò tenendolo saldamente fermo. L’uomo aveva allontanato la lama di pochi millimetri e si accingeva a cominciare il suo macabro lavoro, quando…
< Flipendo > urlò la voce tremante di Phoebe alle sue spalle. L’incantesimo schizzò incerto dalla sua bacchetta andando a finire sul muro, molti centimetri sopra le teste dei due. Le mani le tremavano enormemente e i suoi occhi si spalancarono per il panico, quando l’uomo posò il suo sguardo feroce per la prima volta direttamente su di lei. La guardava con sospetto e confusione, come se prima non ci fosse stata e avesse fatto il suo ingresso in casa solo in quell’istante. Poi abbassò la testa verso la bacchetta ancora malamente puntata verso di lui e, con un gesto elegante e deciso, fece comparire da chissà dove la propria bacchetta, mentre pronunciava con tono fermo e beffardo:
< Expelliarmus!>
Il sottile pezzo di legno di tasso le schizzò via dalle mani con uno schiocco, roteando veloce in qualche angolo nascosto della stanza. Phoebe lanciò uno sguardo dietro di sé cercandola disperatamente con lo sguardo, poi, quando tornò a riportare la propria attenzione sull’avversario, cominciò a indietreggiare, terrorizzata. Lui aveva liberato Tom dalla sua morsa, lasciandolo cadere rovinosamente a terra dove, con le mani al collo, aveva cominciato a tossire violentemente. Ed ora si dirigeva con passi lenti e pesanti verso di lei, studiandola con uno sguardo di folle e maniacale divertimento.
< Hai voglia di giocare, eh, bambina?> aveva mormorato, sempre continuando ad avanzare e ridacchiando orrendamente. Il suo volto sembrava quello di un animale affamato.
La ragazzina riusciva soltanto a continuare a indietreggiare. Le labbra e le gambe vacillavano senza nessun tipo di controllo. Andò a sbattere contro il tavolo di legno in mezzo alla sala, sul quale erano state impilate e gettate a casaccio pentole sporche e incrostate che, urtate, caddero a terra provocando uno schiamazzo fastidioso. L’altro approfittò del diversivo creato dal crollo delle stoviglie per avvicinarsi ulteriormente di altri due passi. Quel movimento repentino mozzò il fiato di Phoebe Hool che, presa alla sprovvista, cercò di fuggire dal contatto indietreggiando ancora di più, ma in quel modo finì solo per incespicare contro il bracciolo consunto della poltrona, cadendoci sopra distesa. Non fece in tempo a rendersene conto che il ginocchio dell’uomo le si impiantò sullo stomaco, bloccandola. Sentì la lama tagliente del pugnale infilarsi sotto il nodo che aveva fatto per chiudere il mantello, tagliandolo di netto in due. Il mantello si aprì rivelando il suo maglione blu, sul quale lui fece ballare le punte del coltello e della bacchetta.
< Te ne sei trovato un’altra, eh?> aveva domandato ironico a Tom, ma sempre fissando la ragazza sotto di lui. < Le scegli sempre molto carine…>
Sembrava indeciso, come se dovesse decidere accuratamente quale parte del suo corpo iniziare a dilaniare. Phoebe, istintivamente, cominciò a dimenarsi per liberarsi e cercare di allontanarlo da sé, ma l’uomo, infastidito, l’afferrò per i capelli e li strattonò con prepotenza e rabbia. La ragazzina sentì la testa diventarle umida nel punto in cui la ciocca, che lui stringeva nella mano come un trofeo, si era staccata con un leggero strappo dal cuoio cappelluto. Si sarebbe messa a urlare, se non fosse stata tanto spaventata da non accorgersi nemmeno del dolore.
Alla fine il suo aggressore optò per la lama e, mentre le teneva indietro il viso con l’altra mano che impugnava la bacchetta, la sollevò all’altezza della testa pronto ad abbassarla.
La voce alle sue spalle lo sorprese – o meglio, ciò che la voce disse lo lasciò sbigottito – al punto che si immobilizzò, con gli occhi sgranati per la sorpresa e il coltello ancora per aria.
< Stupeficium!> urlò Tom, scaricando nell’incantesimo tutta la rabbia che aveva in corpo e rendendolo così ancora più violento e potente.
La luce abbagliante dell’incanto colpì l’uomo in pieno, inondando per pochi secondi la baracca di una fredda e pura luce bianca. Phoebe, che alla vista del pugnale sollevato aveva chiuso con forza le palpebre, sentì un peso caderle direttamente addosso e coprirla. L’odore intenso e irritante del sudore e dello sporco dell’ubriacone le inondò le narici e, dopo aver aperto e chiuso gli occhi un paio di volte, cominciò a dimenarsi di nuovo trattenendo a stento un urlo colmo di orrore e panico. Si trascinò via da lui, facendolo ricadere inerme sulla poltrona. Non dava alcun segno di vita. Continuò ad allontanarsi, seduta e aiutandosi con le mani e i piedi ad arretrare, gli occhi spalancati e impauriti che non mollavano la barba e i capelli scompigliati.
Sentì appena la voce di Tom che, mettendole una mano fra i capelli insanguinati e l’altra sulla spalla, le domandava visibilmente preoccupato:
< Phoebe. Stai bene?>
< Chi…chi diavolo é…lui?> balbettò lei, ignorando completamente la sua domanda e continuando a fissare il corpo esanime di fronte a loro. Il ragazzo poteva percepire perfettamente i suoi sussulti nervosi, sotto le mani. Sospirò piano e, alzando anche lui lo sguardo verso la poltrona, rispose con un tono a metà tra la tristezza e il disprezzo:
< Io credo che…credo che lui sia mio zio.>

 
 
Note dell’autore.
 
*Latis e Phoebe stappano champagne e offrono panettone e pandoro a tutte quelle buone anime che hanno avuto il coraggio di arrivare fino alla fine del capitolo*
 
Non credevo che ce l’avrei mai fatta…e invece sono riuscita a raggiungere la quota di ben DIECI CAPITOLI prima della fine di questo anno! Mi merito davvero una pacca sulla spalla!
*Latis costringe Tom a darle una pacca sulla spalla*
 
Avevo pensato di pubblicarlo il giorno di Capodanno, per commemorare il compleanno del nostro Mago Oscuro preferito *Tom vuole il suo regalo di compleanno!* ma visto che sono un po’ in ritardo con la pubblicazione, ho deciso di pubblicarlo oggi – anche per farmi perdonare di non essere riuscita a realizzare il miracolo di Natale ç__________ç
 
Allora, che dire di questo capitolo? E’ decisamente più movimentato degli ultimi! Rispetto alla versione precedente non ho cambiato praticamente nulla, a parte una scenetta e qualche correzione qua e là: ho sempre considerato questo capitolo uno dei migliori che io abbia scritto, quindi ho deciso di lasciarlo – quasi – intatto.
 
Voglio solo spendere due altre parole per parlare di una cosetta: la chiacchierata tra Tom e Phoebe. Spero che quello che ha detto Tom, quando ha fatto la distinzione tra i suoi seguaci uomini e tra Phoebe che è una femminuccia, non sia stato interpretato come un discorso sessista. L’obiettivo non era assolutamente quello…soprattutto perché il nostro caro Riddle è un grande e appassionato sostenitore della parità fra i sessi! *Tom: Non è vero. Latis: Sssssh!*
E anche se lo fosse stato, tanto era un’opinione a favore di noi femminucchie…yeah!
Quello che volevo dire era, semplicemente, che lui fa fatica a capire quello che passa per la testa di Phoebe per il fatto che lei è una ragazza…e che probabilmente desidera cose diverse da quello che potrebbero desiderare i ragazzi – non lo ha proprio espresso apertamente, ma in pratica ha il sospetto che la sua amica potrebbe trovare Gordon McDougall attraente ed essersi presa una cotta per lui! Ma non ne è completamente sicuro…
 
Ecco. Mi sembra di aver detto tutto. Spero che il capitolo vi sia piaciuto! Voglio proprio sapere cosa ne pensate del nostro caro zio Orfin XD
Ah, un’altra cosa: sono parecchio indietro con le risposte alle recensioni. Farò in modo di rispondere a tutto quanto il prima possibile, ma non so entro quando perché vorrei anche leggere e recensire qualche storia – parecchie storie! – che ho in arretrato.
Per ora, vorrei augurare a tutte voi un buonissimo nuovo anno.
E ringraziare tutti coloro che continuano a seguirmi con tanto affetto. In special modo ELVASS, RURUE, ERODIADE e KURAPIKA95, che hanno anche commentato il capitolo scorso.
Spero di riuscire a pubblicare prestissimo. E vi ringrazio ancora con tutto il cuore!
 
Un bacio.
Latis.
 
 
 
Tom: E adesso…dov’è il mio regalo?
Phoebe: E va bene, testone, eccolo.
Latis: E’ anche da parte mia!
*Tom scarta il pacco e ci trova un gigantesco peluche di Nagini. E va in delirio!*
 

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Capitolo 11
*** Riunione di famiglia ***


Capitolo dodici: Riunione di famiglia

 

 

For the life of me I cannot remember.

For the life of me I cannot believe.”

 

(“Freshmen”; The Verve Pipe)

 

 

< Pizzica > si lamentò Phoebe Hool spostando istintivamente la testa, mentre l’unguento molle e appiccicoso si appoggiava sulla ferita in mezzo ai suoi capelli causandole un pizzicore veramente insopportabile.

< Se tu stessi ferma a quest’ora avremmo già finito > la rimproverò Tom Riddle con tono distratto, mentre cercava di concentrarsi sul modo in cui stendeva la pomata, nel tentativo di renderla uniforme su tutti i punti. < Purtroppo non conosco nessun incantesimo che faccia ricrescere i capelli, ma appena torniamo a scuola faccio un salto in Biblioteca. Per ora, questa dovrebbe bastare per far rimarginare la ferita senza problemi.>

La ragazzina, che si era seduta a gambe incrociate sul tavolo di legno dopo aver allontanato e sistemato in disparte le pentole sporche, teneva la testa piegata in avanti e con le mani sollevava i lunghi capelli neri, che Tom aveva prontamente liberato dal loro consueto laccio. Le dita del ragazzo facevano una pressione dolce e gradevole, mentre massaggiavano la porzione di cuoio cappelluto ferito. Poco dopo, l’altra percepì il contatto compatto e sfrusciante di un pezzo di garza che veniva posizionato sopra l’unguento, in modo che non si disperdesse o le macchiasse in qualche modo i vestiti. L’aveva resa un po’ appiccicosa, perché non si muovesse da dove l’aveva posata.

< Voltati > le ordinò con tono calmo, allontanando le dita dalla garza.

Phoebe si voltò, ubbidiente, allungando le gambe e lasciandole penzolare dal bordo del tavolo. Le mani del ragazzo le scivolarono dietro le orecchie, dove le dita ricominciarono a pigiare piano la garza nel tentativo di farla aderire perfettamente.

La ragazzina percepì distintamente la faccia avvampare a poco a poco sotto il contatto dolce dei pollici di lui, che si muovevano lentamente sulla linea delle sue guance. Lui si avvicinò di un passo, senza mettere fine allo scorrere leggero delle sue dita sul pezzo di garza. Era così vicino da farle mancare il fiato. La ragazza aveva smesso di pensare: esistevano solo gli occhi di Tom. Lo stomaco le sfarfallava tanto forte che sembrava volesse prendere il volo da un momento all’altro e aveva perso sensibilità nelle gambe: le sentiva molli e tremavano enormemente. Era in completa balia di quelle mani morbide, di quegli occhi…era completamente, incondizionatamente e volontariamente in suo potere. In quell’esatto momento, acquisì la chiara consapevolezza che avrebbe fatto qualunque cosa. Per lui.

Improvvisamente Tom allontanò le mani dal suo viso, bruscamente. E anche Phoebe si riscosse in malo modo, quando il ragazzo le domandò a bruciapelo:

< Perché mi stai guardando in quel modo?!>

< Oh! No! Niente…io…devo essermi incantata > farfugliò in risposta lei, abbassando lo sguardo e arrossendo ancora più di prima. Ricominciò a respirare normalmente solo in quel momento: si sentiva come se fosse stata risvegliata da un incantesimo, come se fosse uscita malamente da una prolungata seduta di ipnosi.

< Ad ogni modo >, cominciò il ragazzo con il suo consueto tono distaccato, come se avesse ripreso una discussione che avevano lasciato in sospeso, < se proprio vuoi utilizzare il Flipendo durante un combattimento, cerca almeno di tenere salda la bacchetta e di prendere bene la mira.>

La ragazzina, sempre con lo sguardo basso, fece un cenno di sì con la testa e subì senza dire nulla la frecciatina dell’amico.

Lui si allontanò di qualche passo e si diresse verso la poltrona sfondata, dove il proprietario della catapecchia era stato sistemato e giaceva ancora privo di sensi, rimanendo a osservarlo per qualche istante.

Prima di occuparsi di Phoebe e delle sue ferite Tom si era assicurato che l’uomo fosse veramente fuori combattimento e, dopo averlo rimesso a sedere, aveva puntato la bacchetta verso la folta e trascurata chioma di capelli, pronunciando con decisione:

< Incarceramus.>

Immediatamente, la punta della bacchetta aveva rigettato un gran numero di corde che si erano avventate velocemente sul corpo esanime, ricoprendolo interamente e legandolo stretto.

In questo modo, l’uomo non avrebbe più avuto possibilità di muoversi e sarebbe stato più…gestibile.

Non lo imbavagliò: dubitava che fosse il tipo che si mettesse a urlare per cercare aiuto ma, soprattutto, dubitava che qualcuno si sarebbe preso il disturbo di risalire il colle e attraversare la fitta boscaglia per soccorrerlo. Poi, con meno esitazione di prima, armeggiò con le logore mani chiuse a uncino, che stringevano ancora con forza la piccola lama e la vecchia bacchetta. Le allontanò dallo “zio” e le fece sparire in una delle tante tasche del mantello nero. Mentre era indaffarato a sfilare dalla mano sinistra la bacchetta, la sua attenzione fu richiamata verso una specie di brutto anello nero che circondava il dito medio dell’ubriacone. La foggia non era delle migliori, somigliava più ad un pezzo di legno intagliato che a un gioiello. Ma ciò che lo attirò più di tutto il resto fu la grossa e rozza pietra incastonata, decorata da una P maiuscola piena di svolazzi e ghirigori, che doveva essere una specie di blasone. Rimase a pensare per qualche secondo poi, strattonandolo con forza e rischiando seriamente di spezzare il dito dell’uomo, fece scivolare il gioiello via dalla sua mano. Doveva essere passato parecchio tempo dall’ultima volta che lo aveva tolto, perché la parte che fino a quel momento era stata nascosta dall’anello era più chiara e più pulita del resto della mano. Tom si allontanò lentamente, rigirandosi il monile fra le dita.

E in quel momento, dopo essersi distanziato dal tavolo e da Phoebe ed essersi appoggiato al muro vicino alla finestra, l’aveva nuovamente estratto dalla tasca e si era rimesso a esaminarlo. La ragazzina, ancora seduta sul tavolo e leggermente scossa, lanciò uno sguardo prima al ragazzo e poi un altro verso il suo aggressore, che ancora dormiva con il capo che ciondolava pesantemente da un lato. Ritornò a guardare Tom e, non riuscendo più a trattenersi, domandò incerta:

< Cosa ti fa pensare che…che lui sia tuo zio?>

Lui non rispose subito. Sembrava che non l’avesse nemmeno sentita. Faceva scorrere i polpastrelli sulla P decorata, assorto nelle sue riflessioni. La ragazzina aspettò un po’ poi, cominciando seriamente a pensare che non l’avesse proprio sentita, aprì la bocca per parlare di nuovo, ma lui fu più veloce di lei e, dopo aver lanciato uno sguardo indecifrabile verso l’uomo legato alla poltrona, rispose:

< Ho fatto delle ricerche.>

Phoebe Hool non poté fare a meno di trattenere il fiato per un secondo. Erano anni che il suo migliore amico non faceva altro che riempirle la testa con tutte quelle cose: il suo incontrollabile desiderio di rintracciare la sua famiglia, di scoprire chi fossero i suoi genitori e quali fossero le sue vere origini, così da capire un po’ meglio anche chi era lui davvero. Gliene aveva sentito così tanto parlare, lo aveva seguito per così tanto tempo nelle sue fantasticherie che era arrivata al punto di considerare tutti quei progetti e tutti quegli obiettivi al pari di sogni sfocati, qualcosa che sapeva gli appartenessero completamente ma che, allo stesso tempo, sapeva fin troppo bene che non sarebbe mai riuscito a raggiungere o afferrare a piene mani.

Era possibile che ce l’avesse fatta davvero?

< Lui è…un Riddle? > domandò ancora la ragazza, sbalordita. < Quest’uomo è fratello di tuo padre?>

< NO!> sbottò il ragazzo, lanciandole un’occhiata rabbiosa. Aveva risposto con più slancio di quanto avesse voluto – se n’era accorto anche lui – perché subito dopo si calmò, mentre osservava Phoebe che lo ricambiava con uno sguardo confuso. Lei non sapeva nulla e lui non era ancora pronto per parlare di suo padre. La rabbia gli scattava ancora dentro come una molla impossibile da fermare, quando pensava a quello che era, con tutta probabilità, il suo genitore Babbano. Non riusciva a sopportare l’idea che, fra i suoi genitori, non fosse il padre a essere un mago, perché questo voleva dire che, allora, doveva essere per forza sua madre a essere una strega. E il fatto che l’uomo che l’aveva aggredito possedesse una bacchetta e che fosse riuscito a lanciare l’Incantesimo di Disarmo, confermava ampiamente questa ipotesi.

Ma allora, perché sua madre era morta dandolo alla luce? Perché non aveva usato le sue capacità magiche per salvarsi? Perché non era rimasta in vita per stare con lui?!

Scrollò leggermente il capo, per scacciare quei pensieri che facevano più male di quanto volesse. Ricacciò l’anello nero in tasca e, mettendo mano alla tracolla di pelle, si avvicinò al tavolo di legno dove la ragazzina lo osservava ancora in silenzio. Rimase con il braccio immerso nella borsa per qualche istante e, infine, ne estrasse alcuni rotoli di pergamena avvolti con cura. Tom li porse a Phoebe e rimase in silenzio a guardarla, mentre con mano esitante li disfaceva piano.

Prima che riuscisse ad afferrarle, tre foto in bianco e nero le caddero in grembo. Raffiguravano due ragazzi e una ragazza, tutti con la divisa scolastica di Hogwarts: Phoebe ipotizzò che il suo amico le avesse recuperate dagli album scolastici che la scuola conservava in un reparto riservato della Biblioteca. Evitò di pensare a come fosse riuscito a procurarsele. Sul retro, scritti con la grafia curata e netta di Tom, c’erano segnati tre nomi.

Orvoloson Gaunt, la cui foto era decisamente più vecchia e deteriorata.

Orfin Gaunt. Osservando il volto giovane e abbastanza piacente ritratto nella foto – l’unica e sola cosa che stonava era l'evidente strabismo dello sguardo – la ragazza faticò a riconoscere in quell’Orfin l’uomo che, circa mezzora prima, l’aveva assalita strappandole i capelli. Aveva un’espressione seria e ostile, ma aveva anche una bella forma del viso, labbra piene e lunghi e sottili capelli neri, perfettamente pettinati e legati in una bassa coda di cavallo, che gli circondavano il viso. Per un momento, pensò che la piega imbronciata delle labbra di quel giovane Orfin somigliasse in maniera sorprendente alla piega che assumeva la bocca di Tom, quando era arrabbiato o infastidito per qualcosa. Intravide lo sguardo del suo amico in quello burbero e arrogante di Orvoloson, che guardava verso l’obiettivo con una saccente aria di sfida. Ed era sicura di avere già visto nel suo migliore amico anche quel taglio della bocca, deformato in un ghigno spocchioso. Per quanto riguardava il resto del volto, sicuramente Tom non aveva ereditato nulla dai Gaunt: non c’era la minima traccia dei loro geni sul viso e il corpo perfetto del ragazzo. Solo alcune espressioni li accomunavano.

L’ultima foto, quella della ragazza, sembrava essere la più stropicciata, come se qualcuno se la fosse tenuta davanti agli occhi per molto, molto tempo. Aveva gli stessi capelli neri e sottili del padre e del fratello, con il quale poi condivideva anche lo stesso strabismo, sebbene in modo molto meno accentuato. A differenza degli altri due, però, il suo sguardo e la sua espressione non presentavano nessuna traccia di insolenza o superbia, nessun sentimento di sfida o di ostilità: a Phoebe sembrò che fosse…irrimediabilmente triste. Ma non quel tipo di tristezza passeggera, quella che forse l’aveva colpita il giorno in cui si era fatta scattare la foto e che era sparita il giorno seguente. No. Sembrava una tristezza più profonda, saldamente radicata nel suo animo. Talmente a fondo che, oramai, era diventata una parte di lei.

Girò la foto e lesse il nome: Merope Gaunt.

Sebbene la calligrafia fosse sempre quella precisa e sicura di Tom, la ragazza notò delle leggerissime, quasi impercettibili sbavature nel tratto. Possibile che la mano del ragazzo stesse tremando, quando aveva scritto quel nome?

< Se le mie ricerche sono giuste >, disse lui, rompendo il silenzio e sfilandole piano dalla mano la foto, < lei doveva essere mia madre.>

Phoebe alzò lo sguardo verso l’altro: fissava la foto con un’amarezza che non gli aveva mai visto, in tutti gli anni che si conoscevano. Le si strinse il cuore. Avrebbe voluto abbracciarlo, stringerlo forte, fare qualsiasi cosa che potesse confortarlo almeno un po’, che potesse fargli capire che nonostante tutto lei era ancora lì con lui. Ma non fece nulla di tutto questo. Dopo tutti i loro litigi non aveva idea di che tipo di rapporto fosse diventato il loro. Non riusciva nemmeno più a immaginare come Tom avrebbe potuto reagire di fronte a un suo abbraccio. Quindi si limitò ad appoggiargli una mano sul braccio, stringendoglielo piano.

Lui si riscosse immediatamente e, in meno di un secondo, sparì anche l’espressione triste che aveva avuto fino a quel momento. E parlò, con tono duro, come se non sopportasse il fatto di aver avuto quell’attimo di…di cosa?

< Dopo il giorno in cui trovai quella medaglia di bronzo, decisi di interrompere le ricerche su mio padre e di concentrarmi invece su quel nome: Orvoloson Gaunt. Era un vecchio battitore della squadra di Quidditch di Serpeverde e, infatti, mi sono imbattuto nel suo nome in diversi altri riconoscimenti. Certo, all’inizio non ero sicuro che potesse trattarsi davvero di…mio nonno, ma il nome Orvoloson non è molto diffuso e, basandomi sugli anni in cui frequentò Hogwarts, sono riuscito a calcolare la sua data di nascita. Aveva l’età giusta per esserlo. Così, mi sono concentrato ulteriormente su di lui e sulla sua famiglia.>

Detto questo, fece un lieve cenno col capo verso le altre pagine di pergamena che Phoebe teneva in mano. La ragazzina fece scorrere velocemente lo sguardo su tre fogli: nella sua solita maniera scrupolosa e dettagliata, Tom aveva segnato e preso appunti su tutte le informazioni rilevanti che riguardavano la carriera scolastica dei tre Gaunt: Orvoloson aveva conseguito diversi premi sia sportivi che scolastici, ottenendo anche i titoli di Prefetto e Caposcuola, mentre Orfin, al contrario, aveva raggruppato diverse segnalazioni per cattiva condotta e comportamento violento. La lista di Merope era decisamente la più scarna, sembrava quasi che non avesse nemmeno frequentato la scuola di magia o che non avesse concluse l’intero percorso di studi. C’era anche una parte dedicata alle poche e brevi informazioni sulla carriera lavorativa, ma nessuno dei tre doveva aver perso molto del proprio tempo a lavorare o a cercare un qualsiasi tipo di attività.

< A questo punto >, continuò il ragazzo, dopo una brevissima pausa, < quando scoprii che Orvoloson aveva una figlia, i miei dubbi cominciarono ad affievolirsi. Ora sono quasi completamente certo che sia lei mia madre. Ma ho bisogno di qualcosa di concreto, di una certezza assoluta. Per questo ho cercato l’ultimo indirizzo conosciuto della famiglia Gaunt: è stato un giochetto da ragazzi trovarlo, in mezzo ad alcuni documenti di vecchi censimenti.>

Si fermò di nuovo, ma questa volta la pausa fu molto più lunga. Raccolse rapidamente le pergamene e i fogli, li ficcò senza troppi complimenti all’interno della tracolla e si mise a fissare Phoebe dritto negli occhi, con un’intensità maggiore del solito. E disse in un mormorio lento:

< E questo è il motivo per cui, ora, siamo a Little Hangleton e per cui ti ho portata con me in questa spedizione. Chiunque altro non capirebbe. Io…io volevo che ci fossi tu, stasera.>

La ragazzina rimase a guardarlo ammutolita, senza sapere cosa dire o fare. Rimase in silenzio e si limitò a ricambiare lo sguardo di Tom, sperando che potesse percepire quanto quelle parole l’avessero resa…felice. Lui si allontanò all’improvviso, senza lasciarle il tempo di aggiungere altro o di pensare a qualcosa da aggiungere, sfoderò la bacchetta impugnandola con fermezza e si avvicinò a Orfin.

< E ora che cosa vuoi fare?> domandò Phoebe, scendendo dal tavolo e raggiungendolo.

< Ora credo che sia giunto il momento di fare due chiacchiere col mio amato zietto.>

 

 

 

 

Dopo il brusco risveglio, Orfin fece saettare il suo sguardo feroce sulle due facce che gli si erano parate davanti. Sembrava un animale ferito che, andando avanti e indietro per la gabbia in cui era rinchiuso, calcolava e stabiliva le proprie possibilità. Non aveva avuto bisogno di muoversi per capire che era stato legato, né di allungare le mani per capire che era stato disarmato. I denti rotti e marci erano orribilmente digrignati: Phoebe pensò che l’uomo non si sarebbe fatto nessuno scrupolo a compiere un atto di cannibalismo. Se glielo avessero permesso, probabilmente avrebbe divorato la giugulare a entrambi.

L’uomo si maledisse pensando alla propria stupidità, che aveva permesso a quei mocciosi di stordirlo e di legarlo, alla pari di qualsiasi altra feccia. Si era fatto gabbare come un bambino mezzosangue al primo anno a Hogwarts. Ma la somiglianza tra il ragazzo che aveva di fronte e quel Babbano era a dir poco incredibile! Per questo non aveva fatto caso alla bacchetta che gli aveva puntato addosso appena entrato e per questo se n’era completamente scordato, mentre si occupava della ragazzina. Per questo si era come pietrificato, quando aveva udito pronunciare la formula dell’incantesimo. Era un mago, senza ombra di dubbio. Eppure erano identici Due gocce d’acqua! Forse un po’ troppo giovane, ma come poteva non essere quel Babbano?!

Si maledisse ancora e ancora. E bestemmiò.

Tom rimase in silenzio per molto tempo sostenendo lo sguardo furibondo dell’uomo, con la bacchetta precisamente puntata verso il petto stretto fra le corde. Phoebe era dietro di lui: teneva la propria bacchetta nella mano stringendola con forza e osservava la scena in un silenzio angosciato. Angoscia per ciò che Orfin avrebbe potuto fare e, soprattutto, per ciò che avrebbe potuto rivelare loro.

Finalmente, il ragazzo si decise a parlare. La sua voce era controllata e perfettamente calma:

< Tu sei Orfin Gaunt, giusto?>

L’altro aspettò qualche secondo, poi, muovendo convulsamente la gran massa di capelli sporchi, si lasciò andare in una risatina folle che risuonò sinistra e terrificante sulle pareti vecchie e malandate della baracca. Continuò a ridere, risucchiando malamente l’aria ed emettendo così degli orrendi grugniti, che lo fecero assomigliare ancora di più a un animale.

< Fottiti, mezzosangue > mormorò, continuando a ridacchiare. Nonostante i vari fori dei denti rotti, il linguaggio soffiante e sibilante del Serpentese arrivò alle orecchie dei due ragazzi in modo chiaro: anzi, sembrava che parlasse molto meglio quella lingua magica piuttosto che l’inglese.

Questa volta toccò al ragazzo sorridere, abbassando un poco il capo e scuotendolo in un gesto di divertita disapprovazione. Ritornò a guardare Orfin, sorridendogli con arroganza. Quest’ultimo perse il sorrisetto folle che gli aveva stirato il viso fino a pochi minuti prima; forse perché non si aspettava quella reazione o forse perché, in quell’espressione, per un fugace momento aveva rivisto suo padre.

< Dovresti stare attento a quello che dici. Non sei l’unico a conoscere questa lingua, sai?> gli rispose Tom, ancora sorridendo malignamente. < Stasera giochiamo ad armi pari, Orfin!>

Quelle parole, pronunciate in quella lingua di cui credeva essere l’unico padrone, furono come una doccia ghiacciata che investì l’uomo, inondando e inabissando tutte le sue certezze. A Phoebe sembrò davvero che si fosse afflosciato, come un palloncino che perdendo tutta l’aria che conteneva di colpo dimezzasse la propria grandezza.

< Lo parli > disse, continuando a fissare il volto del ragazzo con grandi occhi sbarrati di incredulità. Non ci poteva davvero credere…infatti, più che un’affermazione, le sue parole suonarono come una domanda.

< Sì. Lo parlo.>

La furia dell’uomo era sparita. Risucchiata alla massima velocità. Se ne stava con occhi sgranati e imbambolati a fissare Tom. Era come se il ragazzo avesse distrutto tutte le certezze su cui lui aveva basato la sua vita, la sua esistenza. Continuò a non parlare, per molti minuti.

< Dov’è Orvoloson?> domandò ancora Tom, vedendo che l’uomo non accennava a riprendersi e a parlare.

< Morto. Parecchio tempo fa.>

Questa volta toccò al ragazzo tacere: il suo sguardo si rabbuiò un poco ma continuò a fissare lo zio, che lo guardava a sua volta con il solito sguardo di adorante confusione, come se fosse stata una qualche specie di divinità che gli era apparsa in tutta la sua magnificenza. Phoebe fissò il ragazzo e l’espressione corrucciata che aveva assunto. Probabilmente, mentre progettava la sua spedizione a Little Hangleton, aveva sperato di poter parlare direttamente con il capostipite dei Gaunt. Il fatto che Orfin, un animale pazzo e incontrollabile, fosse il suo unico e solo referente non lo rallegrava per niente.

< Io…io avevo creduto che tu fossi…quel Babbano…> disse all’improvviso Orfin con tono sognante, rompendo il silenzio.

Il ragazzo si irrigidì. Lanciò un’occhiata fulminante all’uomo e, quasi ringhiando, domandò con fervore:

< Quale Babbano?!>

< Quel Babbano…di cui si era invaghita la mia sorellina…> rispose l’altro con tono incerto, quasi cercasse di non irritarlo. < Ma sei troppo giovane…>

A momenti non gli permise nemmeno di finire la frase. E domandò ancora, con slancio:

< Tua sorella. Si chiamava Merope Gaunt, giusto?>

Orfin scosse la testa, facendo segno di sì. Per quanto sembrasse impossibile, la sua mente stava elaborando tutto ciò che stava succedendo in quel momento.

< Tu sei il figlio di Merope…> affermò con un barlume di certezza. Nella sua follia, l’uomo aveva guardato oltre la sua rabbia e i suoi pregiudizi – oltre ciò che c’era del Babbano che tanto odiava, oltre l’atteggiamento superbo e arrogante che apparteneva a lui ed era appartenuto anche a suo padre – e aveva rivisto la sua sorellina. Nel modo in cui le dita del ragazzo si contraevano per la tensione. Nel modo in cui i suoi piedi spostavano il peso dall’uno all’altro, cercando di ostentare una calma e un sangue freddo che in realtà non aveva ancora. Nel modo in cui la lingua passava sulle labbra secche, velocemente, umettandole per l’eccitazione.

Il figlio di Merope…

< E’ morta, vero?> aggiunse Orfin con una lontana nota di triste consapevolezza, che trapelò dal suo tono piatto e trasognato. Il ragazzo era rimasto in silenzio fino a quel momento, non sapendo cosa rispondere. Per qualche strano motivo, sentiva che il lutto e il dolore per la morte di sua madre era qualcosa che poteva condividere soltanto con lui.

Con Orfin, il fratello di sua madre. Suo zio.

< > rispose, semplicemente. < E’ morta quattordici anni fa, dandomi alla luce.>

L’uomo scosse il capo senza dire nulla, tenendo lo sguardo abbassato. Phoebe pensò che ci avrebbe messo parecchio a riprendersi da quella notizia. Non aveva ancora digerito che Tom conoscesse il Serpentese, figuriamoci la notizia della morte della sua unica sorella! Ma, con sorpresa di entrambi i ragazzi, dopo poco alzò il volto trascurato verso di loro con un piccolo sorrisetto.

< E’ grazie a lei, quindi, che conosci questo linguaggio> disse, ridacchiando appena. < La nostra gloriosa famiglia la conosce da secoli!>

Tom rise e, dopo aver guardato il marciume e la sporcizia che invadevano la baracca, con aria ironica domandò:

< Gloriosa?! Se qui c’è della gloria, l’hai nascosta molto bene.>

Invece che risentirsi di quella battutina, Orfin ricominciò a ridacchiare trasformando ben presto il suo sorrisetto in una sonora e sghignazzante risata, molto simile alla prima che aveva fatto. Ma stavolta, invece che di follia, quel ghigno era sfigurato da una profonda derisione.

< Non lo sai…NON LO SAI! Tu davvero…non sai niente. NON SAI NIENTE DI NIENTE!>

Prima che Phoebe potesse afferrarlo per il mantello per impedirgli di avventarsi contro di lui, il ragazzo si era già lanciato verso lo zio e, strattonandolo per quello che avrebbe dovuto essere il logoro bavero dei suoi malridotti abiti, lo attirò verso di sé e gli puntò la bacchetta a pochi centimetri dalla faccia sogghignante, ringhiando:

< Chiudi quella bocca. Di cosa diavolo stai parlando?!>

< Dovresti già saperlo, o almeno averlo capito> continuò a ridacchiare l’altro, per nulla intimorito dallo sguardo duro e furente del nipote. < Dal medaglione che ti ha lasciato tua madre.>

< Non ho nessun medaglione.>

A quelle parole, gli occhi di Orfin si ridussero a due fessure che lo fecero assomigliare incredibilmente a un serpente.

Era lui quello furibondo, ora.

Avvicinò pericolosamente il viso verso Tom, che non arretrò di nemmeno un millimetro, sibilando come una vipera pronta ad attaccare la sua preda:

< Non hai il medaglione?! Quel prezioso medaglione, che vale anche più della tua insulsa vita da mezzosangue! Mi stai dicendo che il MEDAGLIONE DEL GLORIOSO SALAZAR SERPEVERDE E’ ANDATO PERDUTO?! Quella sgualdrina di tua madre, oltre che averci derubato, ha anche portato il disonore sulla nostra famiglia smarrendo il medaglione!>

Il ragazzo mollò il colletto di Orfin, che ancora stava urlando contro di lui, con sguardo confuso. Non aveva ascoltato l’insulto rivolto a sua madre: il suo cervello si era bloccato su quel nome tanto conosciuto, che sentiva almeno una volta al giorno a scuola.

Salazar Serpeverde.

Cosa c’entrava uno dei quattro fondatori di Hogwarts, il capostipite della sua Casata, con la famiglia andata in rovina dei Gaunt?

< Cosa c’entra Salazar Serpeverde?> domandò ancora Tom, senza rabbia. Anche Phoebe fissava l’uomo senza capire. L’altro sembrò calmarsi un po’, anche se lo sguardo era ancora ostile e collerico, voltò lo sguardo e senza porsi alcun problema scatarrò sul pavimento. E una volta ritornato a guardare il ragazzo domandò, come avrebbe fatto un genitore mentre rimprovera il figlio:

< Ma cosa diavolo insegnano ai giovani d’oggi? Davvero non sai che Salazar Serpeverde è uno dei più importanti Rettilofoni che siano mai esistiti?!>

< Quello che non capisco >, precisò il ragazzo, sorvolando sulla ramanzina, < è cosa c’entri un personaggio tanto importante…con te.>

Orfin sorrise compiaciuto. Si era raddrizzato il più possibile con la schiena, assumendo un’aria quasi maestosa, inorgoglito da ciò che la sua bocca stava per pronunciare. Articolò le parole lentamente, con chiarezza:

< Io sono l’ultimo discendente vivente di Salazar Serpeverde.>

< Cazzate > commentò Tom, sbuffando.

< Guarda l’anello > rispose l’uomo, senza perdere il suo sorrisetto soddisfatto. Phoebe sussultò un poco: l’ultimo membro dei Gaunt si dimostrava ancora una volta più scaltro di quanto in realtà sembrasse o non volesse dimostrare. Si era accorto, senza fare una piega, che l’anello nero che portava al dito gli era stato sottratto dal nipote. Quest’ultimo, senza scomporsi o negare, estrasse il gioiello dalla tasca e lo tenne sollevato davanti al viso, fra il pollice e l’indice.

< Quella P decorata >, continuò Orfin, sicuro, < rappresenta lo stemma nobiliare della famiglia dei Peverell, parenti diretti di Serpeverde. Quell’anello è stato tramandato nella nostra famiglia di generazione in generazione e ci decreta come discendenti del grande Salazar.>

Phoebe era completamente allibita. Il suo sguardo abbandonò l’uomo legato alla poltrona per posarsi sul suo amico, che fissava concentrato il blasone incastonato nell’anello.

Tom Orvoloson Riddle, uno degli eredi viventi di Salazar Serpeverde? Il bambino che era nato e cresciuto solo e abbandonato da tutti, in uno squallido orfanotrofio Babbano, aveva delle origini così antiche?

Era…era incredibile!

Il ragazzo continuò a restare in silenzio. Osservava attentamente i disegni floreali e circolari di quella P dorata, come se volesse collocarli saldamente nella memoria. Non rispose nulla. Si limitò a tacere e a rigirarsi fra le dita il gioiello. Poi, come se niente fosse, lo lanciò in aria in direzione della poltrona e, con una velocità e una bravura magistrale, mosse con grazia la bacchetta facendo così sparire le corde che tenevano imprigionato Orfin. Quest’ultimo, con riflessi da biscia, acchiappò al volo l’anello. I suoi occhi sospettosi vagavano sul viso del nipote, cercando di cogliere qualsiasi minimo segnale di una trappola o di un trabocchetto.

Si fronteggiarono con lo sguardo ancora per qualche secondo, poi, dopo aver riposto la bacchetta nella tasca del mantello e aver afferrato con delicatezza il polso di Phoebe, Tom si congedò, senza usare il Serpentese:

< Se quello che dici è solo lontanamente vero, Orfin, allora sbagli ancora. Io sono l’ultimo discendente vivente di Salazar Serpeverde!>

Gli lanciò uno dei suoi sorrisetti arroganti e, dopo aver lasciato la bacchetta e il pugnale dello zio sul tavolo di legno, senza minimamente preoccuparsi di ciò che avrebbe potuto fare, gli voltò le spalle e si diresse verso la porta, trascinandosi dietro la ragazzina.

Avevano appena aperto l’uscio e accennato a fare un passo verso l’esterno, quando la voce sibilante e maligna di Orfin li richiamò:

< E’ tornato, sai.>

Tom lo fulminò con un’occhiataccia e, simulando alla perfezione un certo disinteresse nella voce, domandò annoiato:

< Di cosa stai parlando, ora?>

< Tom Riddle. Il Babbano con il quale Merope è fuggita. E’ tornato a casa, la sua bella e grande casa lassù, in cima alla collina > rispose l’altro, mentre si rimetteva con cura l’anello al dito. In qualche modo, sapeva di stare giocherellando con un nervo scoperto e, soprattutto, sapeva che la cosa lo faceva divertire follemente.

Phoebe sentì la stretta del ragazzo sul suo polso diventare più rigida, al punto che arrivò anche a farle un po’ male. Tutto il suo corpo era in tensione: ora non avrebbe più potuto fingere che quell’informazione non gli interessasse. Faticava anche a mascherare lo sconvolgimento che gli aveva alterato il volto. Era impossibile che Orfin stesse sbagliando, che si fosse confuso con un’altra persona. Aveva pronunciato chiaramente e con assoluta sicurezza il nome di suo padre.

Suo padre era…vivo? Come era possibile?! Lui era morto.

Doveva essere morto!

Se era vivo…perché non lo aveva mai cercato, in tutti quegli anni? Doveva essere morto, perché se fosse stato vivo sarebbe andato certamente a riprenderlo all’orfanotrofio. Se fosse stato vivo sarebbe andato a cercare il suo unico figlio. Avrebbe dovuto cercare il suo unico figlio!

< Tu non sai cosa stai dicendo> disse Tom, tornando a usare la lingua dei serpenti. Cercava di infondere sicurezza alla propria voce, anche se malamente e senza troppa convinzione.

< Io c’ero, sai?> continuò imperterrito Orfin, sorridendo perfido. < Io so com’è andata. Cosa abbia combinato esattamente tua madre, beh, quello non te lo so dire con precisione. Io ero rinchiuso ad Azkaban, in quel periodo. Ma in qualche modo era riuscita a farsi sposare dal suo bel Babbano. E poi sono fuggiti insieme. Con questo affronto, mischiare il puro sangue di Serpeverde con sporco sangue Babbano, ha fatto morire di crepacuore il mio dannato vecchio, quella puttana…>

Il ragazzo scattò come una molla.

Lasciò andare il polso di Phoebe, piantandola ammutolita davanti alla porta, e colmando a grande velocità il poco spazio che lo separava dalla poltrona si avventò sullo zio. Lo afferrò nuovamente per il bavero ma questa volta, con una rabbia feroce, lo obbligò ad alzarsi. I loro volti si potevano quasi toccare. Phoebe lo sentiva respirare affannosamente a causa della collera e si spaventò anche lei, quando il ragazzo urlò:

< Parla ancora così, riferendoti a mia madre, e ti assicuro che ti squarcerò la gola con le mie stesse mani. Cosa ha fatto Tom Riddle? CHE COSA LE HA FATTO?!>

Orfin gli rise in faccia, squisitamente divertito.

< L’ha abbandonata. Mentre era ancora incinta > disse lui, quasi vomitandogli addosso quelle parole crudeli. < L’ha ripudiata e l’ha lasciata sola, senza nulla, a parte il suo ripugnante marmocchio. E poi, come se niente fosse, è tornato candidamente alla casa dei suoi genitori, dimenticandosi di tutto, come se fosse stato solo uno…spiacevole incidente. Si è dimenticato di Merope. Si è dimenticato di te!>

Tom urlò di nuovo – uno straziante urlo di odio e di dolore – e lanciò nuovamente l’uomo contro la poltrona, dove rimase a fissarlo mentre perdeva il controllo e si lasciava sopraffare dal furore, con un ghigno di gioia sadica. Il ragazzo tremava da capo a piedi e gli occhi erano paurosamente iniettati di sangue. Le narici fremevano come non mai e le dita delle mani gli si contraevano convulsamente, come se non sapesse se chiuderle a pugno o lasciarle aperte.

Fino a quel momento l’aveva soltanto disprezzato, suo padre. Ora lo odiava. Lo voleva morto.

Anzi, lo voleva uccidere con le proprie mani!

Come aveva potuto. Come si era permesso, quella feccia, quell’insulso Babbano, di abbandonare sua madre, una discendente di Salazar Serpeverde? Di trattarla come una donnaccia qualsiasi? Mentre lui se ne stava beato, nel caldo accogliente della sua sfarzosa e ricca casa, Merope moriva come una vagabonda, tra i dolori del parto, in un povero e orribile orfanotrofio. Come aveva potuto farle questo? Come aveva potuto fare questo a lui!

Si voltò di scatto, procedendo a passo spedito verso l’uscita. Spintonò di lato Phoebe, che era rimasta immobile davanti alla porta, e uscì inoltrandosi nella vegetazione che circondava la casa, senza rallentare. La ragazzina si risvegliò dal suo torpore solo quando, qualche istante prima che l’amico la spingesse via, lo vide sfoderare la bacchetta.

Poteva aver deciso di fare soltanto una cosa…

Quel pensiero la terrorizzò e anche lei uscì di corsa dalla baracca, inseguendolo nel sottobosco. La risata cattiva di Orfin la accompagnò per un lungo pezzo del tragitto.

< Tom!> lo chiamò, mentre correva a perdifiato per lo stesso sentiero che avevano percorso precedentemente. < Tom! Cosa stai facendo? Che cosa vuoi fare?!>

Lui non le rispose, non si voltò e non decelerò. Continuò la sua marcia spedito, senza esitazione. Nonostante lo avesse raggiunto, la ragazzina dovette continuare a correre per potergli restare a pochi passi. E con il fiatone continuò a parlargli cercando di fermarlo, di farlo desistere:

< Tom, ti prego, non farlo! Non puoi andare da lui. Cerca di ragionare! Cosa vorresti fargli una volta che lo avrai davanti? Ucciderlo?! Tom! Fermati!>

Phoebe allungò una mano e lo afferrò appena per un lato del mantello ma, sempre camminando, il ragazzo si scrollò di dosso quella presa, rischiando di fare cadere e inciampare la ragazzina. Erano stati così veloci che, a quel punto, la casa di Orfin era nuovamente sparita nel bosco e, attraverso i rami sempre più isolati, potevano vedere la figura nera della dimora dei Riddle, che nella sua magnificenza li guardava dall’altra parte della valle.

< Non puoi essere sicuro che ciò che…ha detto tuo zio sia vero > affermò ancora lei, mentre le sue energie cominciavano a defluire. < Orfin è una serpe velenosa! Chi ti dice che non si sia inventato tutto?! Chi ti dice che non ti abbia detto quelle cose solo per farti infuriare?>

Lui continuò a ignorarla. Erano appena usciti dal boschetto: di fronte a loro si apriva un immenso prato verde che, con una leggera pendenza, si gettava fino al fondo della valle, dove cominciava il villaggio Babbano. In quel preciso momento – più per casualità che per una vera e propria volontà – Phoebe, che non aveva smesso di correre, inciampò in una delle tante, ultime radici della vegetazione boschiva che sporgevano di parecchio dal terreno e cadde scompostamente in avanti. Finendo direttamente addosso a Tom.

Il ragazzo, troppo concentrato sul suo obiettivo e non aspettandosi di essere fermato in quel modo, non riuscì a fare resistenza e si ritrovò sospinto in avanti. A causa della pendenza e della forza di gravità, rotolarono malamente per qualche metro giù per la discesa. Fortunatamente il pendio era ricoperto per la maggior parte di erba, così, quando finalmente si fermarono su un piccolo dislivello dove la pendenza era quasi nulla, si ritrovarono le mani e il viso ricoperti solo di pochi e leggeri graffi. Senza sapere come e sorprendendo anche se stessa, Phoebe si alzò rapidamente per prima e si parò davanti a Tom con le braccia aperte, sbarrandogli il cammino. Il ragazzo si mise in ginocchio e, guardandola con sguardo ostile, ordinò scandendo le parole:

< Togliti di mezzo.>

< No, dovrai schiantarmi se vuoi che mi sposti. Non ti permetterò di compiere una tale follia > rispose la ragazzina, ricambiando l’altro con la propria espressione decisa. Cielo, nemmeno lei sapeva da dove aveva tirato fuori tutto quel coraggio! Non si era mai opposta all’amico in quel modo così netto. Forse, ciò che la spingeva a non gettarsi a terra tremante e con le braccia a proteggere la testa, era il solo e semplice desiderio che lui non marcisse tutto il resto della sua esistenza ad Azkaban! Quando lo vide alzarsi e sovrastarla le sue ginocchia ebbero un tremito violento, ma si affrettò ad aggiungere con fermezza: < Non puoi farlo, Tom! E’ una cosa sbagliata. E’…>

< IO LO UCCIDERO’!> gridò il ragazzo, il volto paonazzo per la collera e l’indignazione. Aveva lanciato le mani in avanti e afferrato Phoebe per il maglione blu. < E nessuno – tantomeno tu! – me lo impedirà. Lo farò pentire di essere nato! Lo…lo…>

La bacchetta gli tremava nel pugno in maniera incontrollabile. Phoebe Hool era certa di non aver mai visto Tom Riddle così: era completamente fuori di sé! E le sembrava a dir poco impossibile. Tom era sempre stato una persona controllata, sia nelle emozioni positive che, soprattutto, in quelle negative. Cercava di dissimulare al massimo i propri umori perché, come diceva sempre lui, se il nemico è a conoscenza dei tuoi stati d’animo gli è più facile sapere dove colpire. E Orfin aveva colpito. Con violenza e crudeltà, dove sapeva di poter fare il più male possibile.

Tenendo sempre le spalle dell’altra strette nelle sue mani, il ragazzo la allontanò di un passo con un movimento deciso ma meno rabbioso. E la ragazzina, temendo che l’amico riprendesse con la propria folle marcia di vendetta, cominciò a parlare di getto, senza pensare:

< Ti prego, Tom, non farlo…è una pazzia! Tuo padre è stato un miserabile, un codardo...e si merita tutto ciò che di terribile tu stia immaginando di fargli. Ma non ora! Non sei in te, finiresti per commettere qualche errore e...e...>

Non era sicura che l'avesse sentita. L'altro fissava ostinatamente il contorno della villa, poco più in alto di loro e completamente avvolta nell'oscurità. Se il suo sguardo avesse potuto darle fuoco l'avrebbe fatto sicuramente! Ma nonostante le spalle fossero ancora rigide e tese e il respiro fosse ancora un poco ansante, stava lentamente smettendo di tremare; le dita stavano ritornando ferme. Poi finalmente, facendo un respiro profondo, Tom abbassò lo sguardo su di lei. Continuò a fissarla per molti minuti in silenzio ma in modo strano, come se non riuscisse veramente a vederla.

< Tom...> lo chiamò alla fine lei, piano. La testa leggermente piegata da un lato. < Co-come...come ti senti....>

< Prestami il tuo petto.>

Prima che Phoebe potesse dire o fare qualsiasi cosa, il ragazzo aumentò di nuovo la pressione sulle sue spalle, costringendola così a inginocchiarsi sull'erba nello stesso modo in cui lo fece lui, e poi abbandonò il proprio capo in avanti appoggiando la fronte appena sotto il collo dell'altra. La ragazzina rimase talmente sbalordita da non riuscire nemmeno a provare imbarazzo per quel gesto inaspettato e inspiegabile.

Tom aveva ricominciato a tremare leggermente. Tutto ciò che era successo quella notte gli tormentava dolorosamente la testa. Non aveva ancora deciso come affrontare tutte quelle cose, ma ci avrebbe pensato il giorno dopo.

In quel momento voleva solo trovare un istante di pace, un solo istante di pace. Un istante in cui Orfin non esisteva; un istante in cui Merope non esisteva. Un istante in cui suo padre non era un viscido verme che aveva abbandonato senza nemmeno il più piccolo rimorso sua moglie e suo figlio.

E quando, infine, il profumo famigliare di Phoebe gli passò sotto il naso, superando l'odore dell'erba e del terriccio, tutte le sue difese crollarono. I singhiozzi cominciarono a scuoterlo. Cercava di trattenerli il più possibile, ma quelli riuscivano comunque a sfuggirgli. Le sue braccia cercarono bisognose la vita della ragazzina, stringendola forte e avvicinandola a sé più che poteva. Lei, nel frattempo, rimaneva immobile e ancora stordita da tutto quello che stava succedendo.

Tom...mi dispiace così tanto, pensò, mentre gli circondava le spalle con le braccia e lo teneva stretto.

E non lo lasciò andare. Nemmeno per un secondo.

 

 

* * *

 

 

Non si erano più detti una parola.

Per tutto il viaggio di ritorno, Tom Riddle era sprofondato in un ostinato mutismo e Phoebe Hool aveva deciso di non sforzarlo. Le sembrava già un miracolo il semplice fatto di essere riuscita a convincerlo a non reclamare a gran voce lo scalpo del genitore, quindi non voleva sfidare nuovamente la sorte!

Non disse nulla, mentre ritornavano a Hogsmeade in scopa. Non disse nulla, mentre ripercorrevano a ritroso il percorso del passaggio segreto passando attraverso la fogna, nel tunnel sotto il parco della scuola e nel sentiero interno alle pareti. Non disse nulla, mentre facevano scattare il meccanismo della statua della strega bambina e ne uscivano.

Ma soprattutto, non disse nulla quando entrambi furono costretti a coprirsi gli occhi con le mani per proteggersi dal raggio luminoso che fuoriusciva da una bacchetta puntata contro di loro. E la mano che reggeva la stecca era, come se non bastasse, quella della temutissima e inflessibile professoressa di Difesa Contro le Arti Oscure della scuola: Galatea Gaiamens.

La vecchia strega comparve nel loro campo visivo strusciando i piedi al suolo. La luminescenza opaca dell'incantesimo le illuminava in parte l'antico viso rugoso e spigoloso e creava ombre inquietanti sulla schiena ingobbita. I capelli grigi erano strettamente legati in un grosso chignon alla base della testa e i suoi occhietti scuri e perennemente strizzati erano ingigantiti dalle spesse lenti degli occhiali. Strizzò ancora di più gli occhi mentre cercava di mettere meglio a fuoco i due giovani studenti.

< Non posso fare a meno di constatare con disappunto che aveva ragione, signor McDougall > commentò aspramente la donna, facendo una smorfia cupa alle proprie spalle che creò un'intricata ragnatela di rughe sull'intero viso. Nel frattempo, dalle tenebre del corridoio comparve lentamente la figura elegante e tronfia del Caposcuola di Serpeverde che, con le braccia incrociate sul petto, lanciò un odioso cenno di saluto col mento ai due compagni di Casa trovati con le mani nel sacco. Poi, riportando lo sguardo verso il signor Riddle e la signorina Hool, la vecchia strega aggiunse, con una lievissima nota di sadico piacere: < Temo che questa volta le sue belle parole forbite non le saranno di nessun aiuto, signor Riddle.>

 

 

 

 

Note dell'autore.

 

Salve a tutti!

Eccoci con il nuovo capitolo di questa storia. Come sempre, chiedo perdono per l'immenso ritardo e vi ringrazio ancora sentitamente tutti quanti per non organizzare una spedizione punitiva nei miei confronti...me la meriterei tutta, davvero!

 

Allora, non voglio perdermi troppo in chiacchiere perché sono ansiosa di pubblicare. Quindi, spero davvero che questo capitolo vi piaccia: come il precedente, anche questo non é stato cambiato molto dalla versione originale. Ma sarà davvero l'ultimo: dal prossimo la storia cambia completamente! Come avrete capito anche da questo finale.

 

RINGRAZIAMENTI!

I ringraziamenti vanno a tutti: a tutte le persone che aggiungono la storia alle preferite, alle seguite o alle ricordate. E a chi legge soltanto! Ma un grazie va anche a chi decide di darmi comunque una possibilità, nonostante la mia inopportuna incapacità di essere puntuale con gli aggiornamenti – per non parlare delle risposte alle recensioni! Ora che ho pubblicato, prometto che mi metterò sotto e risponderò a tutti, anche magari solo con due righe veloci, ma risponderò a tutti voi! Giurin giurello ;)

 

Un ringraziamento particolare é d'obbligo per chi ha recensito lo scorso capitolo: ONDINA94, ELVASS, BLOOD_MARY95, ERODIADE, KURAPIKA95, CRY, ALEVILLY e ARTEMIDE22.

Grazie davvero di tutto cuore!

 

 

Spero di rivedervi al prossimo capitolo!

Un bacio. Latis.

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