TRUST - the hardest thing to do

di LouVelessy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***






Harry Styles era il bambino più bello del mondo. E a dirlo non erano solo i familiari, cosa che sarebbe stata scontata. No. Tutti quelli che lo vedevano, incontrandolo per strada in braccio alla madre o per qualche altra ragione, ne rimanevano colpiti. Già a pochi mesi aveva un caschetto di capelli sul biondo scuro da far invidia. Teneva le manine sempre chiuse, piangeva poco, dormiva molto, e non dava più fastidio del necessario. Anne faceva invidia alle sue “colleghe” mamma, costrette invece a fare le ore piccole per star dietro ai capricci dei loro piccoli.

La prima parola di Harry non fu il classico pa-pa o ma-ma che tutti possono vantare riguardo ai propri figli. La prima parola di Harry fu ge-ge, nomignolo che la sorella Gemma fu costretta a portarsi dietro per parecchi anni da quel momento in poi. Legatissimo alla sorella maggiore, era il minimo che tutti potessero aspettarsi. Non era per nulla pestifero, non faceva danni, non distruggeva i giocattoli né suo né tantomeno della sorella, e potevi lasciarlo ore a mettere in pila mattoncini colorati, che lo si trovava lì, un paio d’ore dopo, ancora intento nel suo lavoro.

Un bambino fin troppo attento, intelligente, silenzioso. Tutto troppo perfetto, tanto da aver paura di veder sfumare via quella magia incredibili che era la vita di Harry.
A quattro anni, ai tempi dell’asilo, fu la maestra del piccolo Styles a convocare i genitori, cosa che spaventò da subito Anne. Era un bambino così tranquillo, che era quasi impossibile che avesse combinato qualche cosa a scuola, soprattutto considerando la sua tenera età.

“Signora Styles… penso ci sia qualche cosa che non va in Harry…”

“Qualche cosa che non va? Non capisco…”

La maestra accusava le difficoltà del piccolo nel compiere semplici mansioni, come far scorrere le palline nell’abaco, colorare delle figure negli spazi giusti, infilare le formine nelle forme in cui potevano entrare senza alcuna difficoltà al primo colpo.

“Forse mi sbaglio, però credo sia meglio fare qualche accertamento più approfondito…”

Il calvario di Harry Styles cominciò così. Prime visite dal medico generico, poi qualche specialista. Esami di ogni tipo, alcuni invasivi altri meno.
Dopo diversi mesi, tra notizie velate, presentimenti, arrivarono le conferme dei medici.

“Harry è affetto da una malattia genetica che gli causerà, nel giro di qualche anno, la perdita della vista. Essendo una malattia degenerativa, non possiamo prevedere in quanto tempo questo accadrà… forse ci vorranno anni, forse mesi. Forse non perderà mai del tutto il senso della vista. Purtroppo non possiamo fare dei calcoli a riguardo. Ci dispiace…”

Per la prima volta nella sua vita, Anne scoprì cosa si prova quando il modo ti cade addosso. E non era come lo avrebbe immaginato. Sentì le gambe tremare, il pavimento sparirle sotto ai piedi e dovette appoggiarsi al marito, in un momento di mancamento.

Harry vedeva, ma non vedeva come gli altri. E soprattutto, non avrebbe visto così per sempre. La sua vista sarebbe peggiorata con il passare del tempo, rendendolo dapprima miope, fino a portarlo alla completa cecità. Completa cecità che forse non avrebbe mai raggiunto. Ma già a dieci anni Harry, durante il giorno, non riusciva a vedere nulla. Tutto totalmente buio. Seguiva dei corsi per aiutarlo ad imparare a muoversi con il bastone, picchiandolo in giro per evitare gli ostacoli, ma l’aiuto di qualcuno gli era sempre necessario. Perse quel brio, che nei primi anni di vita invece lo accompagnava.

Sempre più silenzioso, riusciva ad aprirsi davvero con pochi. Niall era uno di quelli. Il suo migliore amico, da sempre. L’unico con cui giocava al parco, e con il quale, nonostante la vista peggiorasse giorno per giorno anche se in maniera quasi impercettibile, continuò a giocare. Passarono dal correre insieme, l’uno affianco all’altro, a camminare insieme, con Harry che si teneva saldamente al braccio di Niall, mentre gli venivano descritte quelle caratteristiche che Harry ricordava, come il colore del cielo, la luminosità della giornata, il colore dell’erba che ogni stagione cambiava. Non si stancavano mai, e Niall non smise mai di essergli amico, senza fargli pesare quella condizione. Non era nulla di strano, in fin dei conti. Era semplicemente Harry. Niente di particolare alla quale doversi abituare. A differenza di quello che succedeva a tutti gli altri, invece. Amici nuovi a scuola, amici nuovi al liceo. Con gli altri era difficile. Soprattutto quando Niall fu costretto a cambiare liceo. La scuola che avrebbero frequentato, insieme, non disponeva di assistenti sociali, figura che invece la condizione di Harry richiedeva.

“Non ci voglio andare in quella scuola mamma. Io non ho bisogno di nessun aiutante per star dietro allo studio!”

“Amore, lo so. So che vorresti continuare ad andare a scuola con Niall, ma non ti farebbe bene. Dovresti conoscere qualcun altro, Harry…”

“Ma io non ne ho bisogno! Non ho bisogno di nessun altro amico, ho già Horan. E non ho bisogno di nessun aiutante, ce la faccio da solo!”

“Il liceo è molto più impegnativo…”

“Mi stai rovinando la vita mamma.”

Concluse così, prima di avviarsi a passi decisi, per nulla incerti, in camera propria. La casa di una persona non vedente, o ipovedente come in questo caso specifico, presenta pochi ostacoli, percorsi semplici, e tutto sempre nello stesso ordine. Così Harry riusciva tranquillamente a camminare in casa, senza bastone, senza alcun aiuto, e del tutto deciso. Fiducia. Fiducia in sé stesso, nelle persone che vivono in casa. Stessa fiducia che non riusciva invece ad avere fuori casa, soprattutto a scuola, quando troppi rumori e troppe persone gli giravano intorno, senza curarsi degli spazi necessari che avrebbe dovuto avere, per muoversi in sicurezza. Ma si sarebbe abituato. A tutto ci si abitua. Anche alle condizioni più difficoltose.

Di condizioni pericolose, Harry Styles, ne conosceva già abbastanza da poter sapere che anche questa l’avrebbe affrontata, e sarebbe passato tutto.
Lasciandolo vittorioso o meno, sarebbe di sicuro passato.
















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Salve, LouVelessy aka Giulia.
Spero vi piacerà quest'idea. 
Io, come sempre, mi impegno.
Ditemi cosa ne pensate, e se seguite la storia vi avviso al prossimo capitolo con un messaggio :)
( capitolo già sotto scrittura, che arriverà a brevissimo)
Un bacio, Giulia.
P.S: l'immagine l'ho fatta io. Spero renda. 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***







Ogni anno scolastico che finisce, da un’estrema sensazione di libertà ad Harry, il riccio con gli occhiali da sole ed il bastone bianco. Libertà, in quanto non è più obbligato a frequentare l’istituto che più che insegnargli nozioni scolastiche, non fa altro che insegnargli come può essere dura la vita di un ipovedente.
Ma quando la scuola ricomincia, tutto ha di nuovo inizio, compresi gli insulti velati che qualcuno sussurra al suo passaggio, e che riesce a sentire benissimo, essendo il suo udito, per ovvie ragioni, più fino e sensibile rispetto a quello di un udente. Ricomincia a combattere con i luoghi comuni, con quelli che vogliono aiutarlo solo perché ad alcuni può persino riuscire a far pena – quando ha davvero poco a farlo penare, se tutti semplicemente la smettessero di trattarlo come un disagiato disadattato. Ricominciano le gomitate tra la folla, perché è difficile nei corridoi cercare di fare attenzione a dove si sbattono le braccia facendosi largo tra gli altri studenti. Ricomincia la normalità, che per un normale studente può essere chiamata vita quotidiana, ma che per Harry è definibile come lo strazio di tutti i giorni.

Oramai ha sedici anni, sei anni di buio quasi totale, eccezion fatta per determinati momenti in cui, grazie ad una specifica tonalità di luci – non troppo intense né troppo soffuse – riesce ancora a distinguere i contorni delle cose, sebbene non con precisione. Un misto di ricordi di quello che una volta riusciva a vedere, quello che effettivamente riesce a distinguere tra il buio, di percezione tattile ed immaginazione. Sedici anni, terzo anno di liceo. Niente di più difficile. Andando avanti, anno in anno, si era ripromesso che tutto sarebbe migliorato. Le persone crescono, i compagni di classe maturano, e avrebbero fatto l’abitudine alla presenza del riccio, tanto da non sorprendersi più nel vederlo tornare. Ed invece, ogni anno, il primo giorno di scuola, l’ondata di stupore che riusciva a percepire quasi a pelle era incredibile.

Accompagnato, come ogni giorno da tre anni a questa parte, dalla madre, fino all’ingresso principale con l’automobile, nonostante le macchine non potessero percorrere i vialetti interni dell’istituto, fece il suo ingresso da bravo non vedente, per la gioia di tutti, che l’accolsero con le solite occhiatine incuriosite, nonostante oramai avrebbero dovuto fare il callo a quello che succedeva all’arrivo di Harry. L’automobile rallentò proprio all’altezza della porta d’ingresso, quella che conduce direttamente ai corridoi per le classi, ed appena si arrestò del tutto, la porta del passeggero si aprì e ne venne fuori la figura del riccio. Pochi attimi, uno leggero movimento della mano ed il bastone bianco, sottile e pieghevole scattò, srotolandosi sotto le sue dita, pronto per essere utilizzato. Anne si chinò di lato per baciare la guancia del figlio, che fece uno scatto dal verso opposto, evitandola.

“Smettila.”

Freddo, il ragazzo, si alzò in piedi, sistemandogli gli occhiali da sole scuri che portava per ovvie ragioni. La luce del sole lo infastidiva. Nei luoghi aperti era costretto ad avere gli occhi chiusi, nonostante dovesse forzarsi a farlo. Al chiuso, gli piaceva tenerli aperti. Occhi verdi, intensi e bellissimi, non vuoti. Non aveva lo sguardo perso nel vuoto, mai. Secondo l’oculista che da sempre seguì il caso Styles, era una condizione positiva, in quanto non aveva perso quell’atteggiamento positivo che purtroppo i non vedenti, soprattutto coloro che alla nascita vedono, perdono con l’andare via della vista. Dimenticano quasi di avere degli occhi da mostrare, non potendoli più usare. Harry no. Harry li aveva, e gli piaceva aprirli, perché le persone gli parlavano in modo diverso quando aveva gli occhi aperti, puntati sui suoi interlocutori. Con il tempo l’aveva capito. Parlare con qualcuno che ha gli occhi chiusi rende tutti più nervosi, era questa la conclusione alla quale era arrivato. Sceso dall’auto, chiuse la portiera ed aspettò immobile che la madre rimettesse in moto e si allontanasse da lì. Era stato chiaro al riguardo, prima di mettersi in macchina per il primo giorno di scuola del terzo anno.

“Non puoi continuare ad accompagnarmi fin dentro la classe mamma… non ho bisogno di queste cose. Ci pensa miss. Sophie, è il suo compito no? La paghi per questo. Quindi da oggi le cose cambiano.”

Quando voleva imporsi su qualche cosa, quando voleva far rispettare il proprio punto di vista e il proprio volere, non c’era nulla che reggesse. Nonostante le difficoltà di fronte il quale la vita l’aveva messo da sempre, aveva imparato ad essere severo con gli altri. Non voleva approfittare della condizione in cui si trovava, e su certe cose proprio non transigeva. Come il bacetto della buona giornata, avendo adesso sedici anni. Ed Anne doveva semplicemente accettare la cosa, ed evitare di baciarlo una volta arrivati a scuola. Semplice.

Un sospiro profondo, di incoraggiamento a sé stesso, e cominciò a battere leggermente la punta stondata del bastone avanti ai suoi piedi, trovando così la strada giusta da percorrere, libera da ostacoli. Le gradinate di fronte all’entrata erano il luogo preferito per gli studenti dove passare il tempo prima dell’inizio delle lezioni, altra difficoltà aggiuntiva per Harry, che doveva farsi strada tra le persone oltre che salire i gradini. Fortunatamente chiacchieravano in gruppetto, facendosi così guidare dalle loro voci, evitandole per non rischiare di inciampare in qualcuno. Appena entrato nell’istituto, dalla segreteria, la prima porta a destra, sentì una voce familiare, chiara.

“Mai in ritardo, come sempre. Buon giorno Harry, come sono andate le vacanze?”

Un sorriso si allargò sul volto del riccio. “Non c’è male. Ho preso tanto sole, nuotato in mare nonostante le ansie di mia madre e ho finito tutti i compiti per le vacanze! E lei miss Sophie?”

L’insegnante di sostegno di Harry, che lo seguiva dall’inizio del liceo, aiutandolo a trovare le classi giuste, negli appunti e nello svolgimento di alcuni esami che richiedevano l’utilizzo della vista, come quello d’arte, era una donna giovane, che cominciò la sua carriera lavorativa proprio con il piccolo Styles.

“Non posso lamentarmi. Con cosa cominciamo l’anno?”

“Biologia. Non poteva cominciare meglio insomma!”

L’insegnante gli si affiancò, senza toccarlo in alcun modo, procedendo insieme a lui verso la sesta porta a sinistra. L’aula di biologia. Harry conosceva tutta la cartina dell’istituto a memoria. Avrebbe potuto muoversi tranquillamente da solo per le aule, se i corridoi fossero stati più sgomberi o quantomeno ordinati. Ed invece c’era sempre qualcuno o qualcosa nella quale inciampare, motivo per il quale aveva accettato di essere accompagnato da Miss Sophie, che il primo giorno di scuola del primo anno l’aveva afferrato saldamente per il braccio, gesto che infastidì parecchio Harry che non perse tempo nel chiarire le cose.

“So muovermi benissimo da solo” gli disse, scostandosi bruscamente da lei. “Che non ci vedo non significa che deve trasportarmi in giro come se fossi merce da scambio.”

Di comune accordo, sotto decisione di Harry accettata da una miss Sophie abbastanza imbarazzata, decisero che avrebbero camminato l’uno affianco all’altra, e che solo in caso di estrema necessità la donna l’avrebbe aiutato. Altrimenti la sua compagnia sarebbe bastata. Doveva essere gli occhi del riccio in caso di necessità. E solo in caso di necessità.

Arrivati in classe, i due posti in fondo all’aula erano per Harry e Sophie. Era così da sempre. Ogni classe aveva quel banchetto più lungo, non i soliti banchi singoli per ogni studente, permettendo così allo studente ipovedente di avere affianco la propria aiutante. Ad Harry spesso piaceva pensarla come una segretaria. Era un modo simpatico per sentirsi si diverso dagli altri, ma in maniera positiva ed allegra. Cose che contraddistinguevano il vero Harry. L’allegria e la positività.

Quando la classe si riempì, in pochi fecero realmente caso ad Harry. In classe era più facile far finta che non esistesse, a differenza di quello che succedeva in giro per scuola, tra i corridoi, la mensa ed i cortili. Lì tutto diventava più facile, sia osservarlo che parlare con il gruppo d’amici del povero Styles non vedente, o di prendersi gioco di lui. Quando si è in gruppo tutto è più semplice. In aula invece, ognuno seduto nel proprio banchetto, pensavano più che altro a stare attenti alle lezioni ed evitare guai con i professori. A qualcuno, il primo anno soprattutto, era scappato qualche commento ad alta voce, con annessa ora di punizione. Esperienza che aveva da un lato giovato alla condizione di Harry, dall’altro però agevolato coloro che in cortile riversavano su di lui sfottò e quant’altro, perché anche i professori difendevano il “povero cieco”. Senza sapere che al “povero cieco” non andava a genio che terzi lo difendessero. Avrebbe preferito farlo da solo, molto volentieri. Ma la gerarchia certe cose non le permette, ed il bullismo non è mai accettato a scuola, soprattutto quando è palese, in classe, avanti ad un docente. E certe cose Harry le capiva.

Le lezioni procedevano per la maggior parte della mattina, una dopo l’altra, fino all’ora di pranzo, ora che il riccio odiava più di quelle in classe, essendo l’unico momento in cui avrebbe davvero potuto avere un contatto con gli altri. Contatto che se per gli studenti normali significava momento d’aggregazione con gli altri, in cui conoscersi, stare con gli amici, per Harry significava solitudine. Non che non c’avesse mai provato. Qualcuno, di tanto in tanto, negli anni precedenti, gli si era avvicinato. Ma non bisogna vedere per rendersi conto di certe cose, come le risatine che sotto ai baffi qualcuno si lascia scappare, perché per chissà quale motivo trova divertente scambiare quattro chiacchiere con lui, oppure il disagio che qualcuno finge di non provare, eppure prova. Disagio per Harry comprensibile, in quanto nessuno è abituato a parlare con un non vedente, a meno che non lo abbia in giro per casa, o come amico. E come vuoi farti amico un non vedente se la primissima cosa che gli dici, dopo esserti presentato, è “com’è che si vive non vedendo?”. E’ da folli solo pensandolo.

Il pranzo, a differenza degli altri, lo portava da casa. Ben custodito nel proprio armadietto, il numero 251, il primo della terza fila a sinistra al secondo piano, confezionato direttamente dalla madre. Vassoio vuoto per Styles insomma. Vassoio vuoto e tavolo vuoto. Miss Sophie aveva provato, sempre il primo anno, a pranzare con lui, ma anche qui Harry era stato chiaro. Non aveva bisogno di compagnia. Lungimirante, in quanto pranzare con la sua insegnante di sostegno, per quanto si sforzasse a pensarla come una segretaria, non giovava di sicuro alla propria condizione. Tanto valeva far lo sfigato “normale”, e pranzare da solo. Almeno in quello era bravo, e non veniva etichettato come lo sfigato degli sfigati, che si porta la compagnia da casa. Ma uno semplice, come tutti gli altri che pranzano da soli non avendo amici.

Il tavolo di fianco all’ingresso era quello che prediligeva da due anni a questa parte, tavolo isolato essendo lontano dalle finestre ma vicino all’uscita. Facile da raggiunge, altrettanto facile da abbandonare. E gli capitava spesso anche questo, dover abbandonare il tavolo velocemente, senza dare molto nell’occhio. Quando ad esempio c’era una rissa in atto, cosa che non capitava spessissimo, ma capitava. Momento di panico in cui far finta che non stesse accadendo nulla ed evitare di rientrare non volendo nella mischia, era l’unica soluzione sensata per Harry. Non rientrava mai nei meccanismi “sociali” della scuola. In certe cose non voleva avere a che fare, non c’entrava molto con quello che succedeva agli altri. Aveva già i suoi problemi, e gli bastavano quelli. Essere inserito in una rissa non era per niente il modo giusto per farsi accettare dagli altri, né tantomeno quel qualche cosa in più che l’avrebbe mostrato come per nulla diverso dai compagni.

Ma quel giorno, il primo giorno di scuola del terzo anno di liceo, fu un giorno memorabile, perché qualcuno gli si sedette accanto, senza prestare troppa attenzione – come era successo con chi precedentemente c’aveva provato – a dove mettere i piedi, dove mettere le mani e quanto rumore fare. Anzi. Qualcuno con l’aria stanca, che non sembrò far quasi caso ad Harry, seguito dal rumore di un pacchetto di snack aperto, nonché di una bibita gassata.

“E’ sempre così qua?” la voce apparteneva ad una ragazza.

“Così come?” domandò Harry, continuando a mangiucchiare il sandwich preparatogli dalla madre, a testa bassa.

“Così… strano! Sembrano tutti attenti a quello che fanno gli altri. Ma che guardino a quello che fanno loro, per la miseria!” continuò ad armeggiare con quella bustina di snack, riempiendosi la bocca e masticando rumorosamente.

“Facci l’abitudine… succede sempre così, si.” Altro morso al panino. “Sei nuova?”

“Si, quarto anno per me, ma dovevo essere al quinto. L’anno scorso non è andata benissimo, mettiamola così… e questo posto lo odio già. Non ci volevo venire, ma fino a quando vivi sotto al nostro tetto fai quello che diciamo noi!” imitò probabilmente la voce di uno dei due genitori, dalla quale si sentì dire quelle stesse identiche parole. “Sono Bridget. E non fare strane battute su quel filmaccio da quattro soldi, tratto da quella carta straccia, perché ti disintegro.”

Harry alzò le mani in segno di resa, sogghignando. “Nessuna battuta, ho capito. Io sono Harry.” Era divertito, dal fare della ragazza e dal modo in cui aveva decisamente sorvolato i momenti imbarazzanti in cui parlando con le persone solitamente lo prendevano. Niente di niente. Era stato semplice quasi.

“Anche questa storia dei tavoli… cos’è? Ognuno ha il proprio? Se ti siedi al tavolo sbagliato, sei finito?”

“Più o meno si…” il riccio rimase vago. Sapeva, per esperienza sentendo le voci qua e là, che ogni gruppo si sedeva ad un tavolo, ma non era molto bravo con le predisposizioni. Non essendosi mai inoltrato più di di tanto per la sala mensa, era completamente ignaro di tutto ciò che c’era una volta superato il tavolo di fianco all’ingresso.

“Immagino quello sia il tavolo delle fighette. Tutte bionde e plasticose…” aggiunse, con un tono di disprezzo. “Che poi, cosa ci trovate voi maschi nelle donne tutte cosce? Mah. Poi ci sono i secchioni… tavolo che mi fa ribrezzo solo a pensarci. Parleranno di roba di scuola tutto il tempo… i risultati dei test, i compiti a casa…” e fece un verso che ricordava un conato di vomito. “Ah, poi laggiù c’è l’immancabile tavolo dei bulli… Fanno a gara a chi ha più tatuaggi? Tutti con quei cappellini in testa, sembrano tanti peni con annessi preservativi” Harry lì rise, non potendone fare a meno. Immaginava il genere di cappellino alla quale si riferiva la ragazza nel suo racconto, quelli senza visiera, da infilare semplicemente sulla testa. “Ah… La normalità, questa sconosciuta!” concluse.

Harry non sentiva gli occhi della ragazza addosso. Era come se non si fosse accorta di nulla, nonostante non portasse gli occhiali da sole e lo sguardo del riccio si fosse posato solo un paio di volte, di sfuggita, nella direzione di Bridget. Qualche cosa gli vibrò in tasca. Era il suo orologio “speciale”, dove memorizzava degli orari particolari, come quello di inizio delle lezioni, che l’avvisavano quando era ora di andare, evitandogli così la scena imbarazzante del dover premere il pulsante che a voce squillante permetteva all’apparecchio di comunicargli l’orario preciso. Cosa che dava sempre molto nell’occhio a coloro che gli stavano intorno.

“E’ ora di tornare in classe!” comunicò alla ragazza, facendo per alzarsi e sfilando dalla tasca posteriore dei jeans il bastone bianco, ripiegato su sé stesso, che senza perder tempo fece scattare, in modo da averlo pronto per potersi incamminare velocemente verso l’uscita.

“Già è ora? Manco il tempo di mangiare avete, in questa specie di carcere?” chiese semplicemente lei, alzandosi rumorosamente, così come quando s’era seduta, recuperando tutte le sue cose dal tavolo. “Lasci il vassoio con tutte le tue cose da gettare sul tavolo? Ah, dovresti stare nel tavolo con gli incivili allora!” lo canzonò, con un tono tipicamente ironico che Harry colse subito, cosa che lo colpì positivamente.
Solo Niall, ad eccezion fatta dei propri familiari – e nemmeno di tutti – riusciva a fargli battute leggere, senza dover incorrere in gaffes incredibili riguardo la cecità o roba simile, cosa che comunque divertiva Harry, soprattutto quando due secondi dopo c’era il completo gelo nonché imbarazzo da parte di chi la battuta l’aveva lanciata.

“Saresti così gentile da pensarci tu?” domandò per nulla imbarazzato, anzi, con un bel tocco di faccia tosta. Una sorta d’esame, per come aveva immaginato la scena. La risposta che Bridget gli avrebbe dato avrebbe chiarificato nella mente di Harry parecchie cose. Non aspettò neanche un attimo e picchiettando con la punta del bastone per terra, già rivolto verso l’uscita.

“Ma per nulla al mondo! Cos’è, le mani non ce le hai?” inacidita quasi nei confronti di Harry, che fu stupito per le parole usate dalla ragazza, ma al tempo stesso felice. Finalmente qualcuno che non lo trattava in maniera diversa. Quella ragazza, quella Bridget, era una forza. Si rigirò su sé stesso, recuperando il vassoio con una mano e raggiungendo i carrelli di fianco all’uscita, depositò il proprio sulla pila con gli altri, raggiungendo solo allora l’uscita.

“Che ragazzo coraggioso! Riporre il vassoio al proprio posto tutto da solo! Sei un eroe!” sentì la voce di Bridget urlare, gioiosa e chiaramente con l’intento di prenderlo in giro. Ma una presa in giro diversa da quella che tutti gli avevano riservato fino ad allora. Quelle cattive, che fondamentalmente hanno lo scopo di ridere alle tue spalle. No, era un che di costruttivo, di divertente anche per Harry, che sostituì la smorfia di sorpresa ad una grassa risata, sventolando un pugno sulla propria testa, con aria vittoriosa.











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Salve,
la storia procede. Voi che mi dite? Comincia a piacervi?
Sapete che i vostri commenti sono importanti :)
Inserendo la storia tra le seguite/preferite, vi avviso con un messaggio
quando posto un nuovo capitolo. Quindi, se volete essere avvisate,
fatelo pure :)
Grazie per le visualizzazioni e soprattutto grazie per l'interesse che mostrate :)
Un bacio, 
Giulia.


 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


 









Harry sbattè la porta di camera sua, come non era mai successo prima. O almeno, non con così tanta decisione. La madre lo seguì, con altrettanta decisione nel passo.

“Non devi sbattermi la porta in faccia, quante volte devo ripetertelo?”

“E io quante volte devo ripeterti che non devi venirmi a prendere fino in classe, come se avessi cinque anni?”

“Credevo avessi bisogno di una mano… non ti ho visto all’uscita e…”

“Non mi hai visto all’uscita perché abbiamo tardato, mamma. Se la smettessi di venirmi a prendere tutti i giorni avanti a scuola, eviteremo anche quello!” aveva il tono deciso, e lo sguardo fisso verso il volto della madre. Era così abituato a lei, da conoscere l’angolazione precisa da dare al collo per poter trovare il suo viso. Non è poi così difficile come potrebbe sembrare, una volta che diventa abitudinario. “Voglio che la smettano di vedermi come quello strambo che ha bisogno della madre per tornare a casa! E devi capire che posso farcela anche da solo. Posso prendere il pullman, non è poi così difficile!”

“Ancora questa storia del pullman? Ti ho già detto che non se ne parla, toglitelo dalla testa.” Ed uscì, per evitare di intavolare l’ennesima discussione con il figlio. Anne faceva sempre così con Harry. Concludeva il suo discorso, spesso negando qualche cosa al riccio, e poi usciva dalla stanza chiudendo la porta, segno che doveva far capire ad Harry che anche il discorso, nello stesso momento, era chiuso. Definitivamente. Eppure il concetto di discorso definitivamente chiuso che aveva Anne, non era lo stesso che aveva Harry. Quindi quella che per la madre era da reputare come storia conclusa, per il ragazzo non era mai chiusa fino in fondo. Soprattutto quando ci si metteva con decisione.

Pochi secondi di pace, da solo. Giusto il tempo di sedersi ai piedi del proprio letto e lasciar andare poi la schiena all’indietro, rilassandosi quasi del tutto, portando entrambe le mani dietro la testa. I sensi sempre vigili, per ovvi motivi. Cogliere dettagli come la porta che scatta appena, ed un mezzo passo, leggero, con tanto di strusciatina di pantofola peluchosa annessa.

“Non dire nulla. Deve smetterla di starmi addosso così, non la sopporto più!”

“Sai com’è fatta, Harry… va in ansia per tutto.” Era Gemma, la sorella maggiore, ancora a casa dall’università. Ed il riccio avrebbe riconosciuto tra miliardi di suoni, quello che i passi della sorella procuravano sul parquet di camera sua.

“E va in ansia per tutto, ma io ho sedici anni! Non sono più un bambino e certe cose deve capirle! Prima le capisce, prima si abitua all’idea di lasciarmi andare in giro da solo! Non voglio più dipendere da lei, i suoi orari e le sue cose.. Mi sento un peso, e odio sentirmi un peso.”

Il letto cigolò e si piegò appena di lato, tanto che Harry mosse un braccio per lasciare spazio alla sorella al proprio fianco. E la ragazza non perse un attimo, poggiando la testa sul braccio del fratello, restando lì a coccolarlo silenziosamente, passandogli le dita leggere sul petto. “Non sei un peso, non lo sei mai stato e mai lo sarai… Però è difficile per lei. Devi darle tempo. Non è urlandole in testa che smetterà di metterti in imbarazzo a scuola, lo capisci questo vero?”

Seguì un silenzio, interrotto solo dai respiri profondi, quasi di rassegnazione, che il riccio si lasciò scappare. “E va bene, hai ragione. Però anche tu potresti aiutarmi! Basta fare la cocca di mamma e difenderla senza metterti nei miei panni!”

“Ah io sarei la cocca di mamma?!” rispose lei stizzita, ma in maniera del tutto innocente ed ironica. “E tu che mi dici, eh?! Se io sono la cocca di mamma, tu cosa sei?!”

Cominciò quindi una lotta a botte di solletico, quella che preferivano e che Anne odiava. Vedere i propri figli giocare tra di loro non dovrebbe essere fonte di ansie, a meno che uno dei due sia ipovedente e il gioco consiste in un contatto fisico che facilmente potrebbe trasformarsi in qualche strano incidente, con annesse lividure o robe simili. E c’aveva provato anche a richiamarli i primi tempi, ma con scarsi successi. E poi, Gemma sapeva bene come prenderlo. Era l’unica che riusciva a toccare il fratello in qualsiasi situazione, senza procurargli alcun fastidio. Harry era molto geloso del proprio spazio fisico, unica cosa sulla quale riusciva ad avere un controllo. Il tatto, senso parecchio sviluppato per lui, insieme all’udito era il senso che l’aiutavano ad entrare in contatto diretto con il mondo. Ma Gemma non invadeva i suoi spazi. Lo faceva nei momenti e nei modi giusti, quelli che non provocavano in Harry strane crisi di rabbia, cosa che purtroppo con altri succedeva.

“Oggi ho conosciuto una ragazza…” Dopo qualche attimo per riprendersi dallo scambio di solletico, Harry confessò alla sorella.

“Una ragazza?” rispose lei, mettendosi a sedere, visibilmente entusiasta. “Racconta, su!”

“Ero a pranzo. Mi si è seduta di fianco e nulla… abbiamo parlato dei vari gruppi che ci sono a mensa… e poi mi ha detto di mettere a posto il vassoio e di farlo da solo, perché le mani ce le ho. Si chiama Bridget, è nuova dell’istituto e credo abbia un paio d’anni più di me. E’ stato bello parlare con lei.“

Gemma emise una risatina bassa. “Addirittura è stato bello parlare con lei!?” con tono sorpreso, e quel sottofondo di ironia sempre pronta a punzecchiare il fratello. “Dov’è l’Harry che conosco eh?”

Lui, di tutta risposta, rise, rilassandosi di nuovo, mezzo steso sul letto. “Domani mi accompagni tu a scuola?”

“Mh, controllo l’agenda e ti faccio sapere i miei impegni… se riesco a trovare una mezz’oretta da dedicarti, e se proprio devo, vorrà dire che…”

“Quanto la fai lunga!” la interruppe il ragazzo, tirando uno spintone nella sua direzione, difficile da ignorare considerando il lungo monologo che la ragazza portava avanti. Finirono entrambi per ridere insieme e passare un po’ di tempo a scherzare, farsi il solletico a vicenda, confidarsi. Un rapporto fraterno indissolubile, che anche quando erano lontani a causa degli studi di lei, riusciva comunque a tenerli legati. Nonostante la madre e le sue ansie. Nonostante tutto e tutti.
 

 

***

 
La colazione dei campioni andava consumata con calma, seduti a tavola. L’idea di colazione che tutti hanno, ma che davvero in pochi riescono a mettere in atto. E la famiglia Styles, ovviamente, rientrava tra quelle che proprio non ci riuscivano. La sveglia in camera di Harry suonava mezz’ora prima di quella di tutte le altre stanze, perché più degli altri aveva bisogno dei suoi tempi e di tranquillità. E fare le cose con calma, con i tempi stretti e tutti intorno che vanno di corsa per non far tardi, di sicuro è difficile da trovare. E nonostante ciò, nonostante la partenza anticipata rispetto al resto della famiglia, riusciva comunque a tardare.

“Ti aspetto in macchina!” urlò Gemma dalla porta di ingresso, ovviamente verso il fratello. “Il ciuffo sta benissimo, muoviti!”

Ed Harry, con le mani ancora infilate nei capelli, a vaporizzarseli come la madre gli aveva sempre insegnato, per dare così un tono nonostante il disordine continuasse a regnare sovrano tra i suoi ciuffi, sogghignò sotto ai baffi. Recuperata la sacca, lasciata sempre allo stesso punto della stanza per trovarla facilmente, indossati gli occhiali da sole e recuperato, prima di uscire, il bastone della quale non poteva fare a meno, salutò la madre con un affettuoso bacio sulla guancia, prima di raggiungere la macchina nel vialetto. Sapeva bene che era preoccupata per la giornata. Lo era sempre.

Appena salì, Gemma non perse tempo a mettere in moto e partire. Furono abbastanza silenziosi durante il tragitto, distavano da scuola non più di dieci minuti di automobile, limitandosi a canticchiare le canzoni che andavano in radio. La ragazza rallentò una volta arrivata al parcheggio, fermando del tutto il mezzo al primo posto disponibile. Quindi scese, lasciando il fratello perplesso nel sentire la portiera del guidatore aprirsi e poi chiudersi.

“Che stai combinando.” Aveva un tono da un lato impaurito e dall’altro sorpreso. Non c’era molto di cui aver paura con Gemma, ma riusciva sempre a stupirlo.

“Cosa stai combinando tu! Hai intenzione di scendere, oppure resti in macchina tutto il giorno?” la voce di Gemma gli confessò la sua posizione. Era di fianco alla portiera del passeggero.

Harry non perse tempo, trovò la maniglia della portiera ed una volta aperta, scese dall’abitacolo, facendo scattare il bastone, spaesato.

“Siamo al parcheggio, Harry. Da domani ti farai lasciare qui da mamma, e le dirò che te la cavi benissimo da solo.” Lui sorrise, allungando un braccio verso la sorella, con l’intento di stringerla a sé. La tenne stretta al petto per diverso tempo, ringraziandola con un sussurro prima di staccarsi.

Poi cominciò quella che gli piaceva definire come visita guidata. Attraversarono il parcheggio, lentamente, uno di fianco l’altra, in modo che Harry potesse percorrere gli spazi, scoprendoli con il bastone, e lei al tempo stesso gli descriveva qualsiasi ostacolo, dai gradini ai bidoni per il pattume, nonostante gli spazi continuassero a riempirsi di studenti, man mano che l’orario della prima lezione si avvicinava.

“Vedo che ti fai accompagnare solo da belle ragazze!” commentò qualcuno, commento però che risuonò nelle orecchie di Harry, provocandogli un sorriso.

“Lei è mia sorella, Gemma. Gemma, ti presento Bridget.” La riconobbe. Una delle cose positive che c’era nella condizione in cui il riccio si trovava a vivere, era che riusciva a memorizzare i suoni, come le voci delle persone, più velocemente di quello che normalmente avviene per un vedente. Quindi, nonostante avessero chiacchierato solo per poco, riuscì a riconoscere la ragazza dalla sua voce.

Gemma le sorrise, salutandola cortesemente. Aveva parecchie cose in comune con Harry, soprattutto alcuni lati del carattere.

“Cosa fate?” domandò la nuova arrivata, considerando il passo lento con il quale entrambi continuavano a muoversi.

Gemma lasciò il tempo necessario ad Harry per comprendere che la risposta da dare alla ragazza spettava a lui, e non a lei.

“Sto studiando…” rispose così, dopo poco, con semplicità. “E’ la prima volta che passo dal parcheggio… ho bisogno di rendermi conto degli spazi, e Gemma mi aiuta.” Si irrigidì appena, e la sorella se ne accorse senza darci però peso.

“Ah figo!” aggiunse Bridget, restando lì senza fare ulteriori commenti. Masticava una gomma da masticare in maniera fastidiosa, ma la cosa fece sorridere Harry.

“Sei nervosa?” le domandò.

“Verifica di matematica, per il corso di recupero. Ed è solo il secondo giorno di scuola!” quindi sbuffò, aggiungendo subito dopo con voce accusatoria “Non utilizzare i tuoi poteri extrasensoriali su di me, Styles!” facendo ridere di vero gusto Gemma.

“Abituatici. E’ un difetto che nessuno gli toglierà mai!” e continuò a ridere, lasciando Harry senza parole e a braccia larghe.

“Gemma! Non dovresti darle corda!”

“Ma ha ragione!” si giustificò la sorella. “Usi il tuo super udito per indagare le persone! Non è un segno di buona educazione!”

Ed in fin dei conti, tutti e tre erano parecchio divertiti dall’accaduto. E Bridget, inconsapevolmente, conquistò non solo qualche punto in più con Harry, ma anche un paio di punti simpatia proprio con la maggiore Styles.

“Noi continuiamo la nostra visita guidata… ti aggiungi?” le chiese, sempre cortese, Gemma. Un invito per nulla ironico che rese Harry ancora più teso.

“Fate, fate. Mancano dieci minuti alla campanella… almeno non me ne sto da sola in un angolino, da brava sfigata.”

Risero ancora, prima di ricominciare a studiare gli spazi, con Bridget al seguito che si limitava a seguirli, in silenzio, affascinata in realtà dal legame di estrema fiducia che c’era tra i due fratelli. Harry si lasciava guidare dalla voce della sorella prima, e da quello che gli suggeriva il bastone poi, memorizzando i passi, le misure, gli spazi. Era come se danzasse, a debita distanza da tutto quello che avrebbe potuto farlo inciampare. Era affascinata a dir poco. Arrivarono così ai gradini, dopo diversi minuti, lì dove di solito la madre lasciava scendere Harry.

“Bene, ci siamo. Da qui continui da solo. E’ stato un piacere conoscerti Bridget… in bocca al lupo per l’anno scolastico!”

Le due si salutarono, lasciandosi andare a pochi convenevoli. Non era una da convenevoli la ragazza della mensa, e Harry l’aveva capito sin dall’inizio. Non si offrì di portargli la borsa, cosa che praticamente chiunque che gli si avvicinava gli chiedeva, come se non fosse capace di portarsela da solo. Oppure di dargli una mano a salire le scale, come se senza l’aiuto di qualcun altro da solo non potesse farcela. Era come se lei fosse realmente convinta delle potenzialità di Harry, o semplicemente lo reputasse capace di fare quelle cose completamente da solo, senza dover stargli dietro o offrirsi, per pura cortesia o pietà, nel doverlo aiutare. Era facile avere a che fare con lei, per questi motivi.

“Harry!” una volta nel corridoio principale furono affiancati da Miss Sophie. “Mi sono preoccupata. Non tardi mai di solito…”

“Altra ragazza accompagnatrice!” sussurrò ironica Bridget, procurando l’ennesima risata di Harry, con tanto di capo scosso e lunga sospirata.

“Miss, mi ha accompagnato Gemma oggi.” Si giustificò lui, scrollando semplicemente le spalle. Lei avrebbe capito. Quando c’era di mezzo la sorella, c’era sempre qualche cosa di nuovo nell’aria. Dopo due anni certe cose le sapeva.

“Ci vediamo a pranzo, Styles?” gli domandò l’altra ragazza, tagliando a corto i convenevoli con l’insegnante.

“Solito tavolo. A più tardi…”

Un’altra giornata tra i corridoi e la folla che si accalcava poco prima della campanella cominciò, e Harry avrebbe dovuto farci l’abitudine. Voler arrivare lì da solo, voleva significare arrivare quando i corridoi erano già pieni di studenti. Ma era pronto, prontissimo, ad affrontare tutto quello. Anzi, non vedeva l’ora di buttarcisi a capofitto.
 

 

***

 

Le lezioni della mattina passarono ancor più lentamente del solito, forse perché a differenza degli altri giorni, o forse è meglio dire a differenza degli altri anni, aveva veramente voglia che arrivasse il pranzo. Eppure, nonostante la voglia, l’ultima ora di lezione sembrava non voler proprio finire. Che poi è sempre così: più vuoi che arrivi un momento, meno velocemente ti sembrerà realizzarsi l’ora giusta. E furono inutili anche meri tentativi, come impegnarsi nel pensare al non voler vedere arrivare quell’ora, per far passare il tempo più velocemente. Certe cose, quando non devono andare, non vanno e basta. Nonostante tutto l’impegno che ci si possa mettere.

Ma al tempo stesso, nel momento in cui finalmente sentì il suono metallico della campanella riempire il corridoio, non attese come al solito che la classe si svuotasse prima di lasciarla. Raccolse le sue poche cose, per di più un paio di appunti in braille, trascritti da Miss Sophie per lui, e fece scattare il bastone, muovendosi un po’ impacciato ma con decisione tra i colleghi. L’insegnante di sostegno rimase stupita dalla voglia di Harry di raggiungere il proprio armadietto per recuperare il pranzo, essendo quella una novità.

“Hai parecchia fame oggi?” domandò, con un tono leggermente indagatorio.

“Ci vediamo dopo pranzo miss.” Tagliò a corto Harry. Era un libro chiuso per la maggior parte delle persone, e gli piaceva come cosa. Non s’apriva più del necessario, almeno non con chi non riteneva necessario farlo. E Miss Sophie era di sicuro una di quelle persone che non dovevano conoscerlo per forza, anzi. Meno cose avrebbero saputo riguardo al riccio, più sarebbe stato facile per lui aver a che fare con loro.

Il tempo che impiegò nel raggiungere il proprio armadietto e poi scendere al piano terra, tramite l’ascensore che l’istituto metteva a disposizione per gli insegnanti e per coloro che avessero determinate esigenze, come Harry, non seppe quantificarlo. Ma si reputò abbastanza soddisfatto. Aveva fatto di sicuro tempi peggiori.

Così fece il suo ingresso in sala mensa con un che di soddisfatto nel viso, con in mano il sacchetto del pranzo e tutta l’aria baldanzosa. Furono le voci che sentì nei pressi del primo tavolo, quello che impegnava da solo di solito, a fargli scomparire qualsiasi smorfia di velata felicità dalla faccia, per fare largo ad una decisamente tesa.

“La mamma non ti ha insegnato che più mangi quella robaccia e più metti su ciccia e brufoli? C’è un limite anche per quello, sai? Se superi due metri di circonferenza, paghi il doppio delle tasse perché sei due persone in una!” non conosceva quella voce, ma la cattiveria del tono, nonché delle parole, lo colpirono parecchio. Non aveva idea di chi fosse, né tantomeno a chi si stesse rivolgendo, ma c’era poco di amichevole in ogni caso.

“Non sai che potrei scoppiare da un momento all’altro? Ti conviene starmi alla larga.” Quella voce invece la riconobbe subito, cosa che lo innervosì ancor di più. Così, senza perder tempo, compì un altro paio di passi, gli ultimi che gli rimanevano per raggiungere il tavolo, e Bridget che aveva appena parlato.

“E questo dovrebbe spaventarmi? Dovresti semplicemente stare più attenta a dove metti i piedi, perché sei peggio di un elefante in vetrina.”

“O potresti fare in modo che il tuo culo non si trovi sulla mia strada! Sarebbe una buona idea…”

Si sentì quindi il rumore di qualche cosa che sbatteva al suolo, qualche cosa di plastica, pesante. Probabilmente un vassoio con tutto il pranzo.
“E adesso che fai? Mi salti addosso perché il tuo pranzo è da buttare? Non succede nulla se non mangi per un giorno, puoi sopravvivere due mesi nel deserto che non muori di fame!”

“Ma perché tutta questa cattiveria?” si inserì Harry, senza nemmeno pensarci o farci caso. Un semplice commento, ad alta voce, abbastanza alta da indirizzare l’attenzione del ragazzo.

“E tu che cazzo vuoi? Usa il bastone della felicità, e smamma.” Aveva sempre quel tono acido ed incattivito, senza alcun motivo in realtà. E il fatto che Harry fosse sempre rimasto al di fuori di risse, litigi o quant’altro, non lo rendeva pratico di certi meccanismi da bullo.

“O potrei spaccartelo in testa, volendo…” tirò fuori, con audacia, sorprendendosi di sé stesso nel momento stesso in cui le parole gli uscirono di bocca.

Nemmeno il tempo di mettere a fuoco la situazione nella propria testa, che si sentì afferrare per il colletto, mentre Bridget urlava qualche cosa come “lascialo stare”, senza successo.

“Il fatto che tu sia un cieco di merda non ti da il permesso di sentirti figo, è chiaro? Posso prendere a pugni la tua faccina di cazzo senza nemmeno pensarci due volte. Anzi, sarei avvantaggiato. Quindi vedi di non fare il coglione, perché non ci metto nulla. Continua a startene nel tuo angolino buio, ritornatene nel nulla da dove vieni, e non rompermi più il cazzo.” Ma la presa sulla collottola non si allentava, anzi.

Il panico si invase di Harry. Sentiva la presa stringergli al collo, la maglietta quasi lo soffocava, o era semplicemente la paura a chiudergli le vie respiratorie. Sta di fatto che si sentiva quasi leggero, vuoto da qualsiasi pensiero, inerme. Non alzò una mano, non fece alcun movimento brusco. Stava in silenzio, in balia del volere di quello che nemmeno conosceva, che gli teneva un pugno sotto al collo, mentre nessuno faceva nulla. Nessuno eccezion fatta di Bridget, che continuava a strattonare il bullo aggressore.

“Zayn.” Un’altra voce sopraggiunse, e poteva essere a tutti gli effetti la voce di un professore, o comunque di un adulto, per quanto era profonda. “possibile che debba sempre trovarti a prendertela con i mocciosi?”

La presa si allentò, ed il riccio provò quella strana sensazione di polmoni che si riempiono nuovamente, quasi dolorosa, come quando riaffiori dall’acqua dopo una lunga apnea.

“Ma tu perché non ti fai i cazzi tuoi, Tommo?”

Nonostante Harry non potesse vedere la scena, da come quel Zayn aveva chiamato l’”altra voce”, quel Tommo, era quasi sicuro del fatto che non si trattasse di un professore, ma solo di qualcuno più grande di loro tutti. Ed anche un po’ più controllato di Zayn, ma al tempo stesso influente per il bullo, che lasciò la presa del tutto per rivolgergli attenzioni.

“Perché stai facendo il coglione a mensa, mettendoti in ridicolo tra l’altro.” Lo sbeffeggiò. “Vai a mangiare il tuo pranzo, che è meglio.”

Seguirono diversi attimi di silenzio. La mensa non era mai stata così silenziosa. Poi arrivò un altro spintone dritto al petto di Harry, trovandolo ovviamente impreparato, motivo per il quale cadde all’indietro, finendo malamente addosso a Bridget che gli stava dietro. Solo in quel momento, con quel contatto che durò pochi attimi, si rese conto delle rotondità della ragazza, importanti considerando il fatto che atterrò quasi sul morbido. Si rimise sui propri piedi velocemente, imbarazzato e con tutta la voglia di sprofondare. Non era abituato ai contatti fisici, di alcun genere, tranne aggrapparsi al braccio di pochi conosciuti. Ma era da ritenersi contatto fisico quello?

Qualche altro attimo e quindi ricominciò la classica routine della mensa. Chiacchiere, persone che vagavano, proprio come se nulla fosse successo. Harry cercò con la mano il tavolo, per potersi sedere sulla panca adiacente e riprendere fiato.

“Non avresti dovuto metterti in mezzo.” Sbottò Bridget, che nonostante tutto non sembrava per nulla scossa dall’accaduto, al massimo leggermente in imbarazzo, a differenza del riccio, che rimase totalmente muto ed immobile. “Me la so cavare da sola con i coglioni come quel senza palle. Non ho bisogno dell’aiuto di nessuno. E il mio pranzo è andato a puttane. Ci vediamo in giro.”

Rimase totalmente solo, senza nemmeno capire cosa fosse successo e perché. Per comprendere certe cose avrebbe avuto bisogno di un interprete. La realtà, quando non puoi vederla ma solo percepirla, spesso ti lascia con parecchi dubbi nonché paure. Era stato una specie di incubo, che sembrava finito. E con quello anche l’ora del pranzo per lui, nonché la voglia di mangiare.










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Salve, qui Giulia aka LouVelessy.
Capitolo 2, compare Tommo. Zayn è decisamente un badbad boy qui, 
ma non si può avere tutto dalla vita no?
Di una Bridget come quella che si è letta tra le righe ve l'aspettavate?
Avevo detto a qualcuno di attendere per capirne di più.
Spero vi piaccia. Come sempre, se inserite la storia tra le preferite/se-
guite, vi avviso appena posto il nuovo capitolo.
Grazie per le condivisioni, visualizzazioni, commenti, come sempre :)
Un bacio, 
Giulia.

P.S: le descrizioni di persone e cose sono omesso volontariamente.
Pensate che Harry è ipovedente, e le cose le scopre a modo suo.
E' un esprerimento il mio, ma prima o poi si scoprirà ogni cosa, 
nel "modo di Harry". Poi capirete :) Spero apprezziate comunque.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***








 

Nonostante la campanella avvisasse della fine dell’ora di pranzo, Harry rimase seduto allo stesso posto che aveva conquistato dopo il breve incontro con Zayn. Sentiva gli altri studenti affollare l’uscita, riversandosi prima nel corridoio e poi nelle varie aule. Una volta rimasto solo, o quantomeno senza più quella gran calca intorno, tirò fuori dalla tasca dei jeans il proprio cellulare, che non aveva nulla a che fare con uno smartphone di ultima generazione. Piuttosto avrebbe ricordato uno di quegli apparecchi telefonici in stile anni novanta, tasti abbastanza grandi e i numeri scritti in braille. Davvero nulla di decisamente carino o alla moda. Gli bastò premere il tasto 3 ed inviare la chiamata, che automaticamente si compose il numero di Gemma prima di partire la telefonata.

“Harry! Che succede?”

“Devi venirmi a prendere Gem… Sono in mensa. Non sto bene..”

Aveva il cuore in gola, le gambe molli e una strana sensazione di impotenza alla bocca dello stomaco. Le mani gli tremavano, nonostante si fosse impegnato a mantenere la calma il più possibile. Ma il corpo del ragazzo aveva reazioni quasi sempre spropositate per alcuni particolari avvenimenti, come il sentirsi minacciato da qualcuno che non solo non conosceva, ma che gli aveva anche messo le mani alla gola. Mantenere la calma in un momento come quello gli sembrò la cosa più difficile da fare al mondo, pur considerando tutto l’impegno che potesse metterci.

La sorella non attese alcuna spiegazione, né tantomeno chiese dettagli o particolari sull’entità del malore di Harry. Semplicemente riagganciò, dopo aver aggiunto un breve “arrivo”. Non aveva bisogno di capire, almeno non al momento. Solo il fatto che il ragazzo avesse chiamato la preoccupava, poiché il riccio era sempre stato abbastanza sicuro nel voler fare tutto da solo. Rimase immobile, con il cellulare in mano, gli occhi aperti, coperti dalle lenti scure, il bastone nell’altra mano. In uno stato quasi di shock, come se non arrivasse abbastanza sangue al cervello. Non aveva nemmeno le idee chiare, nonostante l’unica cosa alla quale riusciva a pensare era una costante autoaccusa riguardo al livello di pateticità che stava raggiungendo, solo con il fatto di aver chiamato la sorella per farsi aiutare.

Passarono diversi minuti, prima che sentisse dei passi, qualcuno che entrava nella mensa. Ma era proprio impossibile che si trattasse già di Gemma. E poi, i passi della sorella li avrebbe sempre riconosciuti, qualsiasi sarebbe stata la superficie che ricopriva il pavimento o il particolare paio di calzature da lei indossate. Era la cadenza, il ritmo dei passi, la cosa che riconosceva.

“Va tutto bene?” si irrigidì quando quegli stessi passi si fermarono, a poca distanza da lui, ma semplicemente perché il tavolo che occupava era davvero vicinissimo all’ingresso. Annuì, anche se in maniera quasi goffa, data la tensione dei propri muscoli. Inoltre aveva riconosciuto la voce che gli parlava, il che non gli dava sicurezza alcuna. Si trattava di quel Tommo, c’avrebbe scommesso.

“Ti serve una mano?” la distanza tra lui ed il suo interlocutore non diminuì affatto. Restavano entrambi nelle proprie posizioni.

“Non ho bisogno di nessuna mano. Non mi serve niente. Ce la faccio da solo.” Il tono di Harry risuonò come irato, misto però a quell’ansia che si era oramai impossessata di lui.

“Non ti scaldare!” mise a tacere il riccio, interrompendo il fiotto di parole che stava uscendo dalle sue labbra. “Zayn è un imbecille, e non sei stato tanto furbo a pungolarlo, permettimelo.” aggiunse stizzito l’altro, cominciando a rumoreggiare con i vassoi impilati di fianco all’ingresso.

“Non ho pungolato nessuno, è stato lui ad offendere la mia amica senza una ragione. Cosa avrei dovuto fare? Lasciarlo continuare a riempirla di cattiverie? No grazie.”

“Sarebbe stata un’idea. Si sarebbe stancato se lei non avesse continuato a dargli corda, errore che commette chiunque venga preso di mira, e non capisco il motivo. Sarebbe finito tutto lì, con qualche battutina.” Continuava ad accatastare vassoi, ed il rumore di plastica procurava un certo fastidio ad Harry, essendo un fascio di nervi, ma lasciò correre. “Dovreste imparare ad aver a che fare con persone come Zayn. Basta evitarci. Vivreste meglio.”

Evitarci. Era ancora più chiaro il fatto che quel Tommo facesse parte della gag di Zayn, probabilmente catalogabili come i bulli della scuola, considerando l’atteggiamento del secondo più che del primo. Ed il fatto che Zayn sia stato ad ascoltare quello che gli veniva chiesto dal ragazzo, ovvero di lasciar perdere, gli rendeva chiaro che erano su due gradini differenti. Era come se facessero parte di una scala sociale, e Zayn era ad almeno un gradino più in basso del Tommo.

"Non mi sembravi come lui..." sussurrò appena. Ma l'altro si limitò ad armeggiare ancora di più con i vassoi in plastica, come se il rumore provocato dalla plastica potesse coprire le parole di Harry. “Comunque non sono abituato ad aver paura delle persone, sai com’è. Di solito sono loro che lasciano perdere me.” Il riccio non sembrava voler lasciar perdere la storia, spinto forse dal fatto che Gemma sarebbe arrivata presto, e di sicuro l’avrebbe difeso in caso di necessità. O forse semplicemente perché il discorso non gli filava, e cocciuto come al solito non gli bastava lo spavento appena preso, che ancora gli faceva tremare le gambe.

“Ah si? E perché? Cos’hai di diverso dagli altri?” domandò, sbeffeggiandolo quasi, senza fermarsi dal riordinare i vassoi, creando ancora quel rumore di plastica.

Harry rimase in silenzio, allargando semplicemente le braccia, come a volergli mostrare tutto sé stesso. No, non si sentiva diverso per molti aspetti, ma in certi casi la differenza era evidente. Non poteva difendersi dagli spintoni a sorpresa, ad esempio. O non poteva prevedere quando gli si attaccavano le mani alla gola. Era di sicuro da considerarsi una posizione di svantaggio! Il Tommo si fermò, ed Harry sapeva che i suoi occhi lo stavano studiando. Era come se sentisse il peso di quello sguardo su di sé. Ma poco dopo ricominciò il rumore di vassoi.

“E allora?” aggiunse semplicemente, con sufficienza, come se quello che il riccio gli aveva mostrato non gli bastasse.

“E allora?!” domandò Harry, stizzito. “Secondo te è bello prendersela con un ipovedente? Chiaramente non posso difendermi!” e nel momento stesso in cui quelle parole uscirono dalla sua bocca, si stupì. Non era per nulla d’accordo con quello che aveva appena detto, anzi. Era sempre stato deciso nell’affermare il contrario, soprattutto nelle discussioni avute con la madre iperprotettiva.

“Ma per favore!” rispose il Tommo. “Sei patetico. Vai in giro con un bastone sempre pronto a colpire qualcuno nelle palle e ti reputi indifeso?” sbuffò, passandogli vicinissimo, con la voce sotto sforzo. Probabilmente portando quei pesanti vassoi. “Fossi stato in te non c’avrei pensato due volte a colpirlo. Il problema non è che non ci vedi, fidati!”

“E quale sarebbe allora il problema?” anche il tono del riccio si fece più deciso, rispetto a qualche battuta precedente.

“Ah non lo so, ma non è di sicuro quello che credi. Se tirassi fuori le palle ogni tanto, ti rispetterebbero per quello che sei e non perché sei un povero cieco come vuoi far pensare, perché sostanzialmente ti conviene.”

“Non voglio far pensare a nessuno che sono un povero cieco, anche perché non mi ci reputo. Quindi, hai sbagliato persona.”

“Non sono stato io a riferirmi al fatto che sei ipovedente nel giustificare il motivo per il quale bisognerebbe lasciarti perdere. Chiarisciti le idee, ne hai bisogno.”

Se c’era una cosa, tra le tante, che mandava in bestia Harry in qualsiasi circostanza si trovasse, era proprio il fatto di non riuscire a spiegarsi, ad aver ragione come credeva sempre d’avere in fin dei conti. E spesso, anche quando c’era da ammettere che la ragione non era dalla propria nemmeno a sé stesso, rischiava di intavolare lunghe discussioni in cui rigirava le parole, per finire sempre con la ragione dalla propria. Bene, il Tommo l’aveva appena fregato tagliando il discorso prima ancora che potesse cominciarlo. Fu costretto a rimanere in silenzio, sentendo i passi dell’altro allontanarsi fino alla parte alta della sala mensa. Pochi attimi e quelli che percepì erano decisamente i passi della sorella.

“Harry!” aveva un leggero fiatone, ma più che altro era sorpresa, forse dal fatto di trovarselo in piedi, ancora a braccia aperte, immobilizzato così dalle parole del Tommo che l’avevano praticamente freddato. “Che diamine succede? Che hai?” gli passò una mano sul braccio, leggera, per fargli sentire la propria presenza. Poteva farlo. Era una delle poche persone che potevano toccarlo senza preavviso. Questione di fiducia.

“Sto bene…” biascicò lui.

“Stai bene e mi hai chiamato? Che succede. Siediti.”

“No davvero, sto bene. Ce la faccio.”

“Mi prendi in giro?!” domandò stizzita. “Mi sono catapultata qui e ora stai bene?!”

I passi del Tommo tornarono indietro, verso l’uscita e quindi il tavolo di fianco ad Harry, che urlò quasi “Sto bene ti ho detto!” per farsi sentire da lui, come se dovesse dimostrargli qualche cosa. Solo quando sentì i passi dell’altro uscire dalla sala ed allontanarsi, tirò un sospiro, indietreggiando fino a sentire la panca dietro le ginocchia, mettendosi a sedere.

“Cos’è successo con quel ragazzo?” Lo conosceva. Conosceva il fratello così bene da sapere che c’entrava qualche cosa quello che era appena passato. E poi, era così chiaro.

“Ho preso parte ad una specie di rissa oggi…” nonostante Gemma non rispose, percepì il suo stupore. “Un ragazzo s’è messo ad offendere Bridget e mi sono messo in mezzo, senza pensarci… e m’ha preso per il collo e…”

“Quel ragazzo che è appena passato?” se Harry non l’avesse fermata, probabilmente due attimi dopo già avrebbe tirato un paio di pugni in faccia al Tommo.

“Non lui, un altro. Lui ha fatto in modo che mi lasciasse andare. Mi sono spaventato, Gem.” Aggiunse in poco più che un sussurro.

“Quante volte devo ripeterti che devi evitare i casini Harry. Le teste calde non sono proprio il massimo per te.”

“E quindi avrei dovuto starmene da parte mentre offendevano Bridget?”

“Non mi sorprenderei se lo facessero.” Concluse semplicemente.

“Gemma!” aggiunse Harry infastidito, sbottando.

“Al liceo è normale Harry! Avrà una trentina di chili in più del dovuto! E’ un soggetto facile da puntare! Non sto dicendo che facciano bene e che sia giusto, solo che è quasi normale. Anche io al liceo era presa di mira per l’apparecchio. Purtroppo è una realtà, c’è poco da fare. E tu sicuramente puoi fare meno degli altri.”

Poggiò leggera una mano sulla spalla del fratello, passando il pollice a carezzarla, cosa che sapeva dargli una certa pace. Recuperarono le poche cose che ancora aveva in giro, e dopo aver avvisato Miss Sophie con un semplice messaggio da parte di Gemma, si avviarono verso casa. La voglia di continuare l’ultima lezione pomeridiana era propria assente. Ed in certi casi è meglio perdere tempo, piuttosto che forzarsi a seguire una lezione dalla quale non si apprenderebbe nulla per via dello stato d’animo negativo.

“Non dire nulla alla mamma, Gem.”

“E tu non metterti nei guai.”



 

***



 

Nel pomeriggio, mentre era intento a trascrivere in braille, con l’apposita macchina da scrivere, alcune audiocassette registrate in classe l’anno precedente, riguardo lezioni che aveva bisogno di ripassare, la madre lo chiamò dal piano di sotto. C’erano visite per lui. E quando gli si prospettava la possibilità di visite in casa, l’unica persona che andava liberamente a visitarlo era una. Niall. Lasciò perdere gli appunti, e si precipitò letteralmente al piano di sotto, anche se l’idea del precipitarsi di Harry era parecchio diversa dal normale. Ci mise la metà del tempo solito, ma comunque non fu velocissimo ecco, per ovvi motivi. Aveva bisogno di alcuni tempi tecnici, alla quale però tutti quelli che lo conoscevano bene erano abituati. Compreso Niall.

“Passavo di qua…” si giustificò, accogliendolo con un mezzo abbraccio una volta che l’amico si ritrovò giù dall’ultimo gradino. Abbraccio che il riccio apprezzò parecchio. Anche Niall rientrava nella schiera di quelli che potevano liberamente avere un contatto fisico con Harry. Anzi, era l’unico ad eccezion fatta dei genitori e della sorella.

“Hai fatto benissimo a fermarti! Che mi racconti? Ricominciato i corsi?” si spostarono in salone, e senza perdere tempo entrambi presero posto sull’enorme divano a forma di L che li accoglieva comodamente entrambi.

“Si, ieri. Tu che mi dici? Hai sempre quella strafiga di insegnante che ti segue ovunque?”

“Non proprio ovunque Niall.” Lo corresse Harry, sghignazzando. “Comunque si, sempre lei per fortuna. Ho conosciuto una ragazza anche!” sembrava entusiasta nel tono.

“Addirittura hai conosciuto una ragazza?! E dimmi di lei allora! Voglio sapere ogni cosa!” Niall gongolava.

“Abbiamo scambiato due chiacchiere, niente di che. Ma almeno non m’ha chiesto le solite cose che odio, sai. Vuoi una mano? Ti porto la cartella?” e sbuffò, stanco solo all’idea di dover affrontare sempre situazioni del genere. “E in più oggi ho avuto un incontro ravvicinato con un ragazzo…”

“Styles!” quasi stupito Niall gli si fece più vicino. “Ravvicinato in che senso? Ho sempre avuto un certo dubbio ma non credevo che già al secondo giorno…”

“Di cosa cazzo parli Horan!” Harry scoppiò a ridere “Non quel genere di incontro! Uno s’è messo ad offendere Bridget e io l’ho affrontato! E lui m’ha preso per il collo. Ma è durato poco, perché gli ho tirato un colpo nelle palle.” Aggiunse con fierezza, raccontando così non proprio la verità.

“Veramente non è andata proprio così…” il riccio si irrigidì nel sentire provenire dall’ingresso la voce di Bridget. “Gemma mi ha fatta entrare, ho preso il tuo indirizzo in segreteria. Ma continua a raccontare al tuo amico come hai fatto l’eroe oggi…” aveva un certo tono di sfida.

“Niall, lei è Bridget, la ragazza che ho conosciuto ieri. Lui è Niall, il mio miglior amico.” I due si salutarono, restando fermi ai propri posti. Bridget sulla porta e Niall sul divano.

“E quindi l’hai colpito con un calcio rotante?” comprendendo la situazione, l’amico non tardò a prenderlo in giro.

“E va bene, m’ha preso per il collo.” Tagliò a corto, voltandosi in direzione di Bridget. “Perché sei qui?”

“Volevo scusarmi. Ho reagito male oggi, ma perché non sono abituata a certe cose. So difendermi da sola. Quindi la prossima volta evita di fare l’eroe, anche perché non ti viene benissimo…” lo punzecchiò non solo con le parole, ma anche con il tono.

“Vorrà dire che la prossima volta me ne starò sulle mie, che è quelo che ho sempre fatto, evitando così di finire strozzato in sala mensa! Grazie per il consiglio!”

“Non c’è di che!” aggiunse lei, sempre sulla porta.

“Trattami bene Styles sah.” Il tono di Niall non era per nulla minaccioso, anzi. “Non ci sa fare con le ragazze, povera stella…”

“Niall.” Harry non sembrava entusiasta dell’argomento intavolato. Dal rossore che era improvvisamente comparso sulle sue gote, era chiarissimo il fatto che il riccio sapeva poco e nulla di quel genere di cose. A sedici anni non aveva nemmeno mai baciato qualcuno. Era difficile per lui, più che per gli altri, in quanto la difficoltà che provava nel contatto fisico era una delle cose che proprio non riusciva a superare. Lo psicologo che di tanto in tanto lo seguiva, soprattutto nei primi anni, quando la vista peggiorò drasticamente, gli suggerì di prenderla con calma, perché era una fase. Sarebbe passato. Eppure fidarsi delle persone era sempre più difficile, man mano che cresceva.

“C’avrei scommesso!” commentò Bridget, sghignazzando.

“E’ una congiura?” commentò il riccio, mettendosi a sedere, per far posto alla ragazza probabilmente. “Ce l’avete con me e la mia mascolinità?”

“La tua mascolinità, si… quando la trovi, chiamami eh!” il biondo sembrava divertirsi nel prendersi gioco dell’amico.

“Ho più mascolinità io di te, Harry. Mi spiace deluderti…” e anche a Bridget non sembrava affatto dispiacere.

“E va bene! Va bene, discorso chiuso!” Harry allargò entrambe le braccia, con fare  colpevole. “Volete qualche cosa da bere, vero?”

Chiamò a rapporto la sorella, costringendola a fare da cameriera per lui. C’erano sempre degli aspetti positivi nella condizione in cui si trovava a vivere. Portare un vassoio con dei bicchieri pieni di soda dalla cucina alla sala? Una missione impossibile. Cominciarono a chiacchierare come chiunque avrebbe comunemente fatto, soprattutto Bridget e Niall, lasciando il riccio un po’ in disparte, forse troppo perso in qualche strano pensiero, molto più probabilmente tra le parole di Gemma riguardo l’altra ragazza. Almeno fino a quando il telefono di Niall, puntuale quasi, non gli squillò in tasca, e fu costretto ad allontanarsi appena per rispondere. Aveva qualche cosa da nascondere probabilmente, ma Harry sapeva bene di chi potesse trattarsi. Juliette, la sua ragazza da un’eternità di tempo. Sarebbero finiti con lo sposarsi, come minimo. Anche se a lei, per chissà quale motivo, non andava molto a genio l’amico ipovedente di Niall.

Il silenzio che piombò in sala era quasi assordante. Per come la immaginava il riccio, Bridget si guardava intorno imbarazzata. “Posso chiederti una cosa Harry?” evidentemente non stava facendo quello che immaginava. Si limitò ad annuire, attendendo in silenzio, senza alcuna idea.

“Da oggi mi eviterai?” sul volto del ragazzo comparve una smorfia perplessa. “Hai capito a cosa mi riferisco su, non fare quella faccia.”

“Veramente no, non ho capito a cosa ti riferisci. Perché dovrei evitarti?”

“Per quello che ti ha di sicuro detto tua sorella, e ti dirà il tuo amico appena vado via.”

“Ovvero?” faceva fatica a seguire il filo del discorso.

Bridget sbuffò, infastidita. “A come sono fatta, Styles.” Sbottò subito dopo.

“E come sei fatta?” ma non attese alcuna risposta da parte della ragazza. Non le diede nemmeno il tempo di farlo, perché continuò il proprio discorso. “Non so se te ne sei reso conto, ma l’aspetto fisico delle persone non rientra tra i miei interessi. Non me ne faccio molto, del resto. A meno che tu non stia pressocchè immobile al buio, ma anche lì ci sono pochissime probabilità che la cosa possa interessarmi, credimi.” Bridget continuava a stare in silenzio, limitandosi a sospirare alla fine del discorso del riccio.

“Dici davvero?” aggiunse, dopo diversi attimi, quasi avesse avuto bisogno di immagazzinare le parole di Harry, che quasi incredulo le si avvicinò, mettendosi a sedere più vicino alla ragazza, provando a passarle un braccio dietro alle spalle, in quel modo goffo che però riusciva a trasformare con simpatia, essendo una persona prevalentemente positiva ed allegra.

“Dico davvero Bridget… Stai tranquilla.”

Rimasero così, per diversi momenti. Immobili. Il braccio di Harry circondava le spalle di Bridget, e per la prima volta, con calma, poteva rendersi conto della presenza fisica della ragazza. Lei, dal canto suo, stava ferma a guardarlo, memorizzando probabilmente ogni minimo dettaglio del suo viso, considerando la loro vicinanza. Nessuno dei due sembrava mostrare segni di imbarazzo. Avevano trovato una sorta di linea d’equilibrio, dove entrambi sembravano sentirsi al sicuro. Almeno fino a quando entrò Niall, e la sua presenza, improvvisamente, spezzò quel che di magico.






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Salve, sempre me.
La storia procede, e sono contenta che c'è chi la segue.
Così come sono contenta del fatto che suscita la curiosi-
tà di qualcuno. Quando mi fate domande al riguardo,
mi sento davvero felice. Come sempre, potete scrivermi
anche messaggi privati o su twitter (mi trovate come
@LouVelessy) per qualsiasi curiosità :)
E se volete essere avvertite all'uscita del prossimo capitolo,
basterà aggiungere la storia tra le preferite/seguite/ricordate.
Grazie sempre di ogni cosa,
non posterei la storia se non fosse per voi che la seguite :)
Un bacio,
Giulia.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


 

 

 

 

 

La monotonia è quella chiave di lettura che riempie di noia le giornate di chiunque. Ma per Harry Styles la parola monotonia era sinonimo di vita, spesso e volentieri. Giorno dopo giorno, ora dopo ora, non era null’altro che il ripetersi repentino della monotonia che scandiva ogni momento. In qualsiasi istante che si ritrovava a vivere, a scuola o a casa, era sempre definito quello che avrebbe fatto, e quello che sarebbe seguito. Poca scelta, quando non ti senti libero di decidere come occupare il tuo tempo. E poco ha a che fare il fatto che frequenti ancora il liceo, e quindi rientra a pieno nella routine delle lezioni da seguire a scuola e dei compiti da svolgere nel tempo libero.

Le giornate quindi si ripetevano tutte simili l’una all’altra, in un andirivieni abitudinali. A rompere la routine che da anni dettava il ritmo delle giornate firmate Harry Styles, si può dire che sia stata la conoscenza di Bridget. La stessa ragazza con la quale aveva condiviso una sorta di momento di intimità, vicini sul divano di casa, cosa che si era limitata a quella piccola parentesi, essendo poi ritornata a tutti gli effetti nei panni della fredda e distaccata ragazzona con la quale aveva scambiato qualche parola il primo giorno di scuola alla mensa. Stesso ed unico luogo dove gli capitava di incontrarla praticamente ogni giorno. Ed ogni giorno però era diverso dagli altri.

Momenti di allegria si alternavano a giornate di poche parole, dove solo un saluto e qualche chiacchiera di circostanza erano da ritenersi l’unico incontro verbale possibile tra i due. E non era il riccio a decidere a riguardo, nonostante la cosa non gli desse alcun fastidio per una volta. La mancanza di controllo della situazione, quando aveva a che fare con Bridget, gli dava una sorta di sicurezza, come se il fatto che non dovesse accollarsi responsabilità come la buona riuscita di una chiacchierata in mensa gli rendeva il tutto più allegro e spensierato. Novità assoluta per uno come Harry, alla quale piaceva avere sempre la situazione sotto controllo. Di qualsiasi tipo di situazione si potesse trattare.

E l’unica routine alla quale cominciò a sentirsi legato davvero, era l’attesa dell’ora di pranzo. Momento in cui poteva succedere qualsiasi cosa.

All’arrivo al solito tavolo, picchiettando a terra con il bastone, mentre nell’altra mano teneva il sacchetto del pranzo, preparatole della madre come tutti i giorni, sedette al solito tavolo, nel solito posto.

“Non cambiare mai angolo dove poggi il culo, mi raccomando!” la voce di Bridget comparve, ironica, sghignazzando subito dopo. Harry si limitò a scuotere il capo, dopo aver ripiegato e poggiato il bastone di fianco a sé, aprendo poi il sacchetto, con l’intento di cominciare a pranzare.

Passarono diversi minuti di silenzio, riempiti solo dal rumore delle stoviglie di coloro che pranzavano agli altri tavoli. “Posso chiederti una cosa?” la ragazza aveva quel modo rispettoso di insinuarsi in punta di piedi nei confronti di Harry, evitando di riempirlo di domande solo perché aveva voglia di farlo. Con la bocca piena, il riccio annuì, attendendo.

“Senti gli occhi addosso? Nel senso… la gente ti guarda, ma tu lo senti? Ti senti mai osservato?” e rese la domanda leggera, considerando il fatto che ricominciò a mangiucchiare come se nulla fosse.

Harry prese il suo tempo per mandar giù il boccone. “Qualche volta mi capita, si. Ma oramai non ci faccio più tanta attenzione. E’ normale che le persone mi guardino, soprattutto quando non sono abituate alla mia presenza. Sono fonte di curiosità, potrei quasi vantarmene!” concluse, con il tono allegro di chi non è per nulla abituato a darsi delle arie.

“Ci sono delle ragazze che ti guardano.” Aggiunse Bridget, subito dopo la conclusione del discorso di Harry, senza darsi nemmeno il tempo di riflettere su quello che le era appena stato detto.

Il riccio si stupì del tono utilizzato dalla ragazza. Non c’era né ironia, né tantomeno allegria in quello che gli aveva appena comunicato. Anzi. Era piuttosto testa. Il che lo spiazzò. “Saranno curiose…” si limitò a rispondere, facendo spallucce e ricominciando a mangiare.

“No Harry… ti guardano con interesse.” Nel tono di Bridget si aggiunse quello che il ragazzo percepì come imbarazzo. “Prima ti osservano, e poi parlottano tra di loro in maniera fittissima, da brave oche.”

Il ragazzo rise divertito, gettando il capo indietro in maniera quasi plateale. “E cosa hanno da dirsi in maniera fittissima?” ma più che prendersi gioco delle ragazze che lo osservavano, sembrava prendersi gioco di quella che gli stava affianco.

“E io che cosa ne so! Ti ho solo avvertito, pensavo volessi saperlo.” Il tono di Bridget lasciava chiaramente intendere un senso di fastidio. Ma per cosa di preciso si sentisse infastidita, non era facile a dirsi.

“Come sono?” le domandò, dopo un po’, recuperando il discorso a seguito del silenzio glaciale, che però continuava a divertire il ragazzo.

“Oche.” Commentò Bridget, aggiungendo però. “Non tanto alte, fisico asciutto, una delle due potrebbe sembrare un uomo per l’assenza di tette, l’altra se la gioca abbastanza bene. Ma tu non eri uno di quelli che l’aspetto fisico non è importante?!”

“Semplice curiosità!” si giustificò Styles, senza aver immagazzinato alcuna informazione datagli dall’amica. E tra una pausa e l’altra, entrambi continuavano a consumare il pranzo.

“Harry... ti capita di toccare il viso delle ragazze prima di baciarle?”

Fortuna che la bocca del riccio era libera, altrimenti come minimo il bolo gli sarebbe finito di traverso, come minimo.

“Sisi… certo che capita… può capitare, si. Ma non capita sempre… o forse capita, non lo so. Non è che ci faccio caso…” Aveva un che di vago, troppo vago per soddisfare la curiosità di Bridget. O forse non troppo per lasciare spazio ad un altro tipo di curiosità.

“Sei mai stato con una ragazza, Harry?” il tono fu parecchio più inquisitorio a questo punto.

“Certo!” rispose lui, sbrigativo. “Ho sedici anni, mica otto!” commentò, come se il solo fattore dell’età potesse dare ovvietà nella risposta.

“Mhmh…” ma non sembrava per nulla convinta, anzi. “Ed avendo sedici anni, sei anche andato a letto con una decina di donne immagino!” e qui riversò parecchia ironia, ridendosela subito dopo.

“Cosa vuoi sentirti dire Bridget?” Per la prima volta, Harry apparve realmente infastidito.

“Nulla, nulla!” ma aveva sempre quel che di ironico, che infastidì ancor di più il riccio.

“E va bene, non sono mai stato con una ragazza né ho mai baciato nessuno. Quindi? Pensi sia facile? Non lo è. Non è bello che tu faccia ironia su questa cosa, sai?”

“Ehi!” lo interruppe, infastidita anche lei a questo giro. “Guarda che non sto facendo ironia proprio su nulla! Sei tu che mi racconti delle cazzate, e te lo si legge in faccia che sono cazzate. Quindi non farmi la predica. Stavo scherzando sulla palese stronzata che mi hai detto, fine.” Era dura nel tono, presa malissimo in realtà.

“E come puoi avere la certezza che si trattasse di una stronzata? Solo perché sono ipovedente, non vuol dire che non possa permettermi una ragazza Bridget!” sputò via quella bella sentenza, cominciando già a raccogliere le proprie cose, con l’intento di abbandonare la mensa.

“Certo che sei proprio un imbecille.” Sbottò di rimando la ragazza, facendo più in fretta di lui nel raccogliere le cose. “Te lo si leggeva in faccia, stupido. Sono l’ultima persona qui dentro che fa differenza riguardo la tua condizione. Sei tu che la metti sempre al primo piano, e io sono un po’ stufa a riguardo. Stai pure, vado via io. Buona giornata.” Mentre parlava finì di raccogliere tutto, ed ebbe giusto il tempo di finire la frase, prima di rigirarsi ed allontanarsi dal loro tavolo a passo svelto. Evidentemente arrabbiata, considerando il tono utilizzato per tagliare a corto il discorso. Ad Harry non rimase che poggiare un gomito sul tavolo e rilassare il capo sul braccio, con gli occhi chiusi sotto agli occhiali da sole, lasciandosi andare a quel senso di impotenza che ciclicamente gli ritornava addosso, anche se mai come questa volta era stato lui stesso a causarlo, e non c’era nessun altro con il quale poteva prendersela se non sé stesso.

 

***

 

La seconda campanella, quella che avvisa gli studenti dell’effettivo inizio delle lezioni, era suonata da un paio di minuti oramai, e l’esperienza di Harry gli diceva chiaramente che appena arrivato in classe avrebbe dovuto sopportare una ramanzina riguardo all’importanza della puntualità nella vita di un uomo. Solite robe noiose alla quale il riccio non avrebbe mai fatto l’abitudine. E se una volta era tanto puntiglioso da ritrovarsi in classe addirittura qualche minuti prima del suono della prima campanella, che invece avvisava gli studenti dell’imminente inizio delle lezioni, da qualche giorno preferiva quasi perdere più tempo necessario in mensa ed arrivare in ritardo.

Dopo aver gettato quello che rimaneva del proprio pranzo, essendosi chiuso lo stomaco a causa del battibecco avuto con l’amica, una volta fatto scattare il bastone bianco, si incamminò verso l’ascensore, per raggiungere il piano giusto dell’aula dove avrebbe tenuto la lezione di chimica. Miss Sophie, a differenza di quello che accadeva la mattina, dopo il pranzo l’attendeva  nella classe giusta, lasciandogli pregustare quel senso di libertà, che seppur minima rendeva Harry un po’ più autonomo. E il fatto che potesse utilizzare l’ascensore, senza rischiare di rallentare ancor più la sua andatura a causa delle scale, rendeva di sicuro il tutto più facile.

I passi del riccio, accompagnati dal ticchettio del bastone che batteva a terra ad ogni movimento, l’accompagnavano, rimbombando appena nel silenzio del corridoio rivestito di marmo, praticamente vuoto ed abbandonato dai colleghi, che invece occupavano le classi. Era quasi godibile come situazione. Il profumo di libri, l’aria fresca, i suoni ovattati che arrivavano dalle classi che affacciavano proprio in quel corridoio. Il tutto creava una sorta di atmosfera magica, un mondo parallelo, lontanissimo da quello che si trovava a vivere la mattina, quando a riempire gli spazi erano in migliaia di studenti e le loro voci.

L’unica voce che invece poté sentire, nel bel mezzo del silenzio nella quale riusciva a sentirsi a proprio agio, fu quella di Zayn, che riconobbe alla prima sillaba.

“Non vai in giro con l’accompagnatrice?” non era molto vicino, ma solo il fatto che fossero soli nel corridoio lo intimoriva. Così decise di seguire la strada suggerita dal Tommo qualche tempo prima. Bastava evitarlo. Quindi riprese a camminare, seguendo il suo percorso mentale. Avrebbe dovuto raggiungere l’ascensore alla fine del corridoio, quindi proseguire per la sua strada. Non dare filo da torcere al ragazzo sarebbe bastato.

 “Ehi, cieco. Sto parlando con te!” non alzò la voce, ma la impostò in maniera diversa. Più decisa nel tono, più cattiva quasi e sicura di sé. Come se il fatto che Harry l’avesse bellamente ignorato, fosse stata una scelta sbagliata. Mai ignorare un bullo che ti rivolge la parola, anche se lo fa solo per punzecchiarti ed avere una reazione. Almeno, secondo quello che era il punto di vista del ragazzone, che nonostante tutto rimaneva immobile nella sua posizione, dalla quale il riccio continuava ad allontanarsi, sebbene con il suo passo non propriamente veloce.

“Sei diventato anche sordo adesso?” seguì un tonfo metallico, il rumore dell’anta di un armadietto che si richiudeva, facendo scattare le spalle di Harry, come a volersi proteggere da chissà che cosa. Un rumore alla quale non era preparato, e lo scatto del suo corpo procurato dal semplice istinto, accentuato per certi versi nel ragazzo, che comunque continuava a camminare, proprio come se fosse diventato davvero anche sordo.

Quindi fu questione di tempistica. I passi di Harry continuavano a cadenzare nel solito modo, senza fretta,  mentre quelli di Zayn, alle sue spalle, non facevano altro che essere più veloci. Ed ebbe giusto il tempo di rendersene conto, che si ritrovò entrambe le mani del ragazzo sulle spalle. Pur non conoscendone gli intenti, non diede a lui modo né tantomeno tempo di agire. Il bastone che teneva nella mano destra scattò quasi per autodifesa alle sue spalle, colpendo il bullo, probabilmente all’altezza del polpaccio. Nulla di studiato, una semplice reazione a quello che poteva essere considerato un attacco. Odiava essere toccato. Odiava il fatto che senza preavviso gli si mettessero le mani addosso. Ed odiava soprattutto quando a farlo era qualcuno che già prima era stato violento nei suoi confronti. Non era mai stato un ragazzo violento, ma a certi atteggiamenti non c’erano altre soluzioni. E per di più, gli era stato praticamente suggerito di utilizzare il bastone sottile come arma. Con la necessaria spinta si sarebbe trasformato in una specie di frustino da cavallo. E il verso che fuoriuscì dalla bocca di Zayn gli fece chiaramente intendere che non era stato piacevole ricevere quel colpo.

Si sentì tirar via il bastone dalle mani, con forza. Fu costretto a lasciarlo andare, facendosi avanti velocemente, con le braccia parate dinanzi al corpo, per evitare così di andare a sbattere contro gli armadietti. Recuperò un po’ di spazio tra lui e Zayn, prima di parlare. “Perché ce l’hai così tanto con me? Cosa ti ho fatto? Non potresti semplicemente lasciarmi in pace?!”aveva la voce appena roca, rotta probabilmente dall’ansia che montava e si accresceva ad ogni battito cardiaco accelerato. Era come avere un martello non solo nel petto, ma anche nello stomaco e nelle braccia. Ancora una volta si sentiva inerme, senza difese. Ed era una sensazione che riusciva malamente a tollerare. Poggiò la schiena contro gli armadietti, e rimase con le braccia tese in avanti, in posizione di misera autodifesa.

“No che non posso lasciarti in pace, Styles. Per colpa tua sono stato messo in ridicolo in mensa, avanti a tutti. Capisci che non è accettabile! La mia posizione ne ha risentito parecchio.. ora tutti credono di potermi tenere testa. Devo correggere quest’errore.” il tono di Zayn era disarmante. Riusciva a parlare tranquillamente, come se stesse raccontando una favola della buona notte. Prendeva i suoi tempi tra una frase e l’altra, avvicinandosi sempre più ad Harry, che poteva sentire non solo la sua voce più vicina, ma anche i suoi passi risuonare sul marmo. “Mi sento anche buono oggi, sei fortunato! Puoi decidere tu. Preferisci un occhio nero, un paio di pugni in pancia… “ lo sentiva sempre più vicino, e le sue mani arrivarono a toccare la maglia del ragazzo, che continuava quella pressa psicologica, la quale non faceva altro che pesargli sulla testa. “…oppure puoi decidere tu!”

Oramai il ragazzo gli era arrivato vicinissimo. Sentiva quasi il suo respiro sulla pelle, e non fece altro che ritirarsi in sé stesso, farsi sempre più piccolo, per evitare il contatto con l’altro. Le gambe gli tremavano quasi, ma rimase immobile, in piedi, senza lasciarsi andare a stupide manifestazioni di paura. Nelle orecchie gli risuonarono nuovamente le parole del Tommo. Ignoralo, oppure lascia perdere la tua condizione fisica, ma fai qualche cosa. Quindi raccolse le idee, e seppure le gambe continuassero a tremargli, raccolse veloce le braccia al petto e poi le spinse lontano, con i palmi aperti verso il busto di Zayn, con tutta la forza che aveva.

Il bullo, spiazzato, perse appena l’equilibrio e dovette compiere un paio di passi indietro per ritrovarlo. “Addirittura uno spintone?” lo prese in giro, picchiettando con il bastone per terra in maniera nervosa. “Vediamo se hai riacquistato l’udito…” aggiunse, con tono di sfida.

Non fu chiarissimo all’inizio quello che era l’intento del ragazzo, ma dopo pochi attimi il rumore sordo di plastica rotta gli fece piegare lo stomaco. “cosa hai fatto…” sussurrò appena Harry, in preda al panico. Aveva un’unica scena possibile in testa. E se le orecchie non l’avevano tradito, Zayn aveva appena piegato a metà, rompendolo, il suo bastone da passeggio. Il che significava non avere il modo di muoversi con semplicità da qui a casa. L’unica cosa che lo faceva sentire ancora all’altezza degli altri. L’unico oggetto che riusciva a tenerlo aggrappato nel mondo dei “normali”. Lo lasciò cadere per terra, sghignazzando ed allontanandosi da lì, con passo tronfio, di chi ha avuto la sua rivincita.

Ad Harry rimase davvero molto poco, se non l’accovacciarsi a terra e cercare, a tentoni, di trovare quello che rimaneva del suo bastone. Le ginocchia sul marmo e la testa bassa. Sentiva gli occhi pesanti traboccanti di lacrime, ma tentò con tutte le forze di ricacciarle. Doveva fare in fretta. Avrebbe dovuto trovare l’uscita, un rifugio sicuro, e quindi chiamare la sorella, o forse Niall, qualcuno per aiutarlo. Non poteva rimanere lì. Tempo mezz’ora e le lezioni sarebbero finite, e tutti l’avrebbero trovato lì, inerme. Sarebbe stata una vergogna troppo grande da sopportare, nonché una soddisfazione troppo facile per Zayn. E non voleva dargliela vinta così.

“Harry?” un’altra voce risuonò nel corridoio, seguita dal rumore della porta della mensa che si richiudeva. Seguirono dei passi frettolosi, una corsetta più che altro, fino a fermarsi di fianco a lui praticamente. “Cos’è successo?” nella voce del Tommo c’era una sorta di inquietudine.

“Nulla. Non è successo niente.” Continuava a cercare a tentoni altri pezzi del bastone, della quale riuscì a trovare solo una parte.

“Non mi sembra non sia successo nulla… sei caduto? Cosa cerchi? Posso darti una mano!”

“Non sono caduto! E non ho bisogno di nessuna mano!” alzò appena la voce, sbuffando subito dopo. Si sentiva inerme. “Sto bene!” aggiunse, deciso.

“E’ più grande il bisogno di fingere che vada tutto bene? Lascia che ti aiuti. Tutti hanno bisogno di una mano, prima o poi…” non aggiunse altro, se non qualche attimo dopo “Qui non c’è nulla. Se mi dici cosa cerchi, potrei fare prima.”

“L’altra parte del bastone.” Mormoro Harry, richiedendo quindi il bisogno del ragazzo.

“Non c’è nulla. Sicuro di averlo perso qui?”

“Non ho perso un bel niente!” sbottò Harry. “Un cieco non perderebbe mai il proprio bastone! Sarebbe come perdere gli occhi!” era nervoso e teso. “E’ stato quello stronzo del tuo amico. Vi divertite con poco!” sbottò, facendo per alzarsi, cercando poi, muovendosi lateralmente, la fila di armadietti alla quale si appoggiò.

“Il mio amico chi?” domandò il Tommo, con un’aria incazzata. “Zayn? E’ stato lui? Ti ha spaccato il bastone?” era incredulo e al tempo stesso iracondo.

Harry annuì. “Ho fatto come mi avevi detto. L’ho ignorato. E poi l’ho colpito. Ma non è servito a niente. Adesso devo arrivare in segreteria, avvisare miss Sophie, avvisare a casa e farmi venire a prendere.” Il riccio si sentiva frustrato, per ogni cosa.

“Ti accompagno verso la segreteria…” il Tommo poggiò semplicemente una mano sul braccio del riccio libero dalla vicinanza degli armadietti, ed Harry fece per scansarsi. “Non ti faccio del male. Fidati di me.” Gli sussurrò. Aveva qualche cosa di caldo, di rassicurante nel tono. “Puoi fidarti di me Harry.” Parlò ancora, cambiando tattica. Questa volta non lo toccò in alcun modo, se non sfiorandogli un fianco con il gomito. Un modo istintivo per fargli sentire la presenza di un appiglio. Il resto venne da sé. Il riccio si sciolse, sebbene non del tutto, e fu lui a prendere salda la presa sul braccio del Tommo, che pochi istanti dopo cominciò ad incamminarsi verso la segreteria, all’inizio del corridoio.

“Questa volta ha davvero esagerato. Ti chiedo scusa per conto suo… E’ un ragazzo difficile.”

“Sarà. Ma io davvero non gli ho fatto nulla... e non trovo giusto che debba prendersela con me, né con nessun altro. Trovi qualche altra cosa da fare con la sua vita.”

“Non dovresti giudicare le persone che non conosci.” Commentò il Tommo, mentre guidava il ragazzo ipovedente per il corridoio.

“Non dovrei giudicare la persona che ha mandato in frantumi il mio bastone da passeggio? E’ la cosa più cattiva che mi abbiano mai fatto.”

“Dietro ognuno di noi si cela un lato che nessuno conosce.. certe reazioni non riusciamo a controllarle. Ti chiedo ancora scusa per lui. Non capiterà più.”

“Gli tirerai le orecchie e lo metterai in punizione?” commentò Harry, con una vena di ironia incattivita.

“Su per giù…” concluse il Tommo, arrestando i passi fuori dalla segreteria. “E ti sarei grato se non lo dicessi al preside.” Sussurrò, un attimo prima di aprire la porta.

“Louis!” la voce squillante della segretaria li accolse calorosamente. “C’hai messo più del dovuto in mensa, oggi! La psicologa ha chiesto un incontro riguardo Malik, ma le ho det…” non concluse, avvedendosi probabilmente solo in quel momento del riccio. “Signor Styles, che succede?” apprensiva.

Il braccio del Tommo lo abbandonò, e si ritrovò inerme, nuovamente senza appigli, vicinissimo alla scrivania della segretaria.

Harry titubò qualche istante, poi però, deciso rispose. “Miss Pincher… Ho perso il bastone. Può chiamare mia sorella?”

 

 

 

 

 

_____________________________note_autore___

Salve :)

Postare questo capitolo è stato più difficile di quanto pensassi.

L'editor non mi funzionava, e ho dovuto fare salti mortali per 

inserire un codice html che funzionasse. Quindi perdonatemi

gli spazi. Lo perfezionerò nel tempo, appena l'editor mi andrà

di nuovo. Che ne pensate del capitolo?

Come promesso a qualcuno di voi (soprattutto su twitter,

dove spesso lancio spoiler u.u lo ammetto) c'è stato un pò

più di Larry qui :)

Grazie sempre di tutto.

Giulia.

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