Frammenti di vita

di ciocco
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - Behind blue eyes ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - Do you remember me? ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - Every you Every me ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - All of my love ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 - Certe notti ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 - Goodbye blue sky ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 - Seventeen ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 - Welcome to my life ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 - With or without you ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 - Where are you going now? ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 - Behind blue eyes ***


 

Capitolo 1: Behind blue eyes

 

Il cielo di maggio mi avvolge completamente con il suo odore tenue e la sua luce soffusa mentre sono ancora a letto, sdraiato nell’ombra di un tramonto semi estivo a contemplare il nulla. L’odore dei ciliegi di qualche giardino non troppo lontano mi entra nelle narici, e la luce rossa e arancione, (e poi viola e poi bianca), che entra dalla finestra, mi cade sul volto, costringendomi a socchiudere gli occhi.

I ricordi affollano la mia mente, accavallandosi l’uno sull’altro in un continuo susseguirsi d’immagini scolorite e parole dimenticate.

La prima cosa ad esser tirata fuori è una foto.

E’ stropicciata, malandata dal tempo e dal calore, ingiallita, sbiadita, con i contorni non più nitidi, non troppo riconoscibili.

Io però li riconosco quei contorni, certo che li riconosco, perché in quella foto ci sono anche io, anzi ci sono solo io in primo piano in quella foto, e me lo ricordo fin troppo bene.

E’ sabbia quella cosa bianca che occupa quasi tutta l’immagine, sabbia asciutta, bollente, tantissima.

E in mezzo a quella sabbia ci sono io, sdraiato, completamente abbandonato al calore, e la sabbia mi ricopre completamente, ed è nei miei capelli, nei miei occhi ancora innocenti, ancora di quell’azzurro così limpido, nella mia bocca, tanto che mi sembra quasi di risentirne il sapore.

Ho gli occhi socchiusi, e fisso la macchina fotografica senza timore, senza riserve, quasi volendomi mostrare, dicendo "ehi, sono qui, immortalami pure se ti fa piacere".

Non devo avere più di sette anni.

Ho i capelli ricci, biondo scuro, capelli che vanno a inanellarsi in tanti piccoli boccoli che mi scendono leggeri, che mi coprono la faccia, che coprono la mia espressione corrugata, che arrivano fino alle spalle magre, facendomi assomigliare a una bambina, e lì si fermano, ondeggiando solo al muoversi del vento estivo.

Sono solo in quella foto. Sono solo, e sembro incredibilmente piccolo ed indifeso.

E’ indifesa la mia espressione spavalda e accigliata, è indifesa la mia posa scomposta, con le gambe lunghe e magre piegate in due direzioni opposte, è indifeso persino lo scenario della foto, un’immensa distesa di sabbia bianca, e lì sullo sfondo il mare, un mare blu e verde, un mare agitato dalle onde e dal vento.

E’ passato così tanto tempo da quando quella foto è stata scattata che il mio volto è diventato totalmente diverso da quello di quel bambino biondo immerso nella sabbia.

Diavolo se ne è passato di tempo. Chissà dov’è finito quel bambino dall’espressione sfrontata e dai boccoli biondi…Mi piacerebbe saperlo. Mi piacerebbe andare da lui e chiedergli che fine ha fatto, dove è andato a finire, se è ancora nascosto da qualche parte dentro di me.

Ricordi...

Scivolano su di me uno dietro l’altro, ognuno con i suoi protagonisti, i suoi volti e i suoi odori.

Eccone un altro soffermarsi un po’ di più, giusto il tempo di rivederlo per un momento, di riviverlo per una frazione di secondo.

Un’immagine di pochi secondi, più un insieme di voci, di colori, di suoni, che un ricordo vero e proprio.

E’ il mio decimo compleanno. Il giardino di casa è affollato di persone dai vestiti leggeri e colorati, estivi, che ridono, giocano, sovrappongono le loro voci le une alle altre.

Io sono seduto su una seggiola di legno, di quelle basse che usa tutt’ora la mamma per il giardino, e aspetto la mia fetta di torta con in testa un cappellino di carta rossa.

Intorno a me ci sono un mucchio di bambini che ridono con le loro voci ancora infantili, che mi si accalcano intorno, chiedendomi di giocare con loro.

L’aria profuma d’estate, di caldo, d’allegria.

I fiori del giardino sprigionando la loro piacevole fragranze, colorando lo scenario a macchie, lì bianche, lì verdi, lì gialle.

Io sono immobile, fermo sulla seggiola, con la faccia triste, gli occhi pieni di lacrime timorose di scendere.

Papà non è in giardino, non è alla festa. Probabilmente è da qualche parte del mondo a stipulare qualche affare multi milionario, circondato dai suoi efficienti collaboratori e dalle sue belle segretarie, talmente tanto impegnato da dimenticarsi il compleanno di suo figlio.

E le lacrime che riempiono i miei occhi, che li inondano, minacciano inesorabilmente di scendere, di trovare spazio sulle mie gote arrossate dal sole e illuminate dalla luce delle fiaccole del giardino.

E ne cade prima una, la più grossa, la più trattenuta, la più sofferta, e poi un’altra, e un'altra ancora, e via, in un pianto quanto mai silenzioso.

Così silenzioso che non se accorge nessuno, e le risate continuano, e anzi, paiono aumentare di volume, e moltiplicarsi, e l’aria della sera diventa più soffocante, più calda, impregnata dall’odore dei fiori, pressocché insostenibile.

E i capelli biondi, più scuri, più riccioluti, mi cadono sugli occhi, bagnandosi con le mie lacrime, coprendomi il volto, mascherando il mio pianto.

E una risata suona più alta delle altre, più squillante, più argentina.

Ed è la risata di mia madre, mentre ride a bocca spalancata, appoggiandosi al braccio di un uomo dai capelli scuri, e la risata le si estende a tutto il volto, facendole socchiudere gli occhi e agitare il corpo, e i capelli castani le cadono sul volto, esattamente come fanno i miei, ma le vengono subito scostati da quell’uomo, quell’uomo che la sta facendo ridere a squarciagola, e che le impedisce di vedere il mio pianto, che le impedisce di vedere suo figlio seduto su una seggiola di paglia intrecciata che piange miseramente nel giorno del suo compleanno.

E i miei occhi si stanno di nuovo riempiendo di lacrime qui, nel mio letto inondato di luce e calore, con le lenzuola ancora sfatte, lenzuola che conservano ancora il ricordo e il profumo della notte passata e sono pronte a riceverne altro tra qualche ora.

E la mia mente continua a vagare tra i pezzi della mia vita, e ne coglie qualcuno, ora qui ora lì, dove capita, senza alcuna cognizione se non quella affidata alla mia mente, senza omettere niente, senza dimenticare alcunché.

E puntuale ne arriva un altro, un po’ più vicino e un po’ più lungo, accurato.

Ed è il mio primo giorno di scuola media che mi si affaccia in mente, e ci rimane qual tanto che basta per farmi ricordare tutto il resto.

E mi rivedo lì, sulla soglia della porta, impaurito, smarrito, senza idea di cosa fare, di cosa dire, con il cervello attanagliato dal timore, dallo smarrimento.

E vedo dei ragazzini che mi sfrecciano al fianco, con le loro cartelle colorate dei cartoni animati, che ridono e parlano fra di loro, già disinvolti, già capaci di muoversi in quella scuola così nuova, così grande, così diversa. E vedo altri ragazzini, un po’ più grandi, un po’ meno vivaci e un po’ più esperti, con quell’aria così sicura che camminano per i corridoi come se fossero di loro proprietà, e mi sento ancora più spaurito e più insicuro, e ho voglia di prendere, voltare i piedi e tornare a casa, o ancora meglio, alla vecchia scuola, dove il più grande ero io, dove ero io ad intimorire i più piccoli, dove i corridoi erano miei e solo miei.

E sento qualcuno che mi spinge da dietro, ed è un bambino più basso di me, dallo sguardo tremante quanto il mio e il sorriso forzato.

E vedo che si sofferma per qualche secondo accanto a me, fissando la classe ancora mezza vuota, per poi prendere coraggio e avanzare verso un banco in seconda fila, mentre io sono ancora fermo sulla soglia, a tormentarmi un ricciolo ribelle sceso sulla fronte abbronzata.

E poi rivedo l’arrivo della professoressa, che mi prende, mi chiede chi sono e cosa ci faccio sulla porta, e mi porta in classe, e mi fa sedere allo stesso banco in seconda fila a cui è seduto il bambino di prima, e no, sbaglio a chiamarlo bambino, perché è un ragazzino, e in quella stanza l’unico bambino sono io.

E la lezione inizia, e la mia testa rimane china sul banco per tutto il tempo, e io ignoro i tentativi di fare amicizia del mio compagno di banco, e rimango immobile fino al suono della campanella, con gli occhi chini, bassi, e una gran voglia di piangere.

E risento la voce della professoressa che parla costante, incessante, che spiega, che illustra, che insegna, una voce chiara, limpida, una voce simile a quella di mia madre, una voce che mi fa venire ancora più voglia di piangere.

E anche le voci dei miei nuovi compagni di classe sono intorno a me, una più alta ancora infantile, e una un po’ più bassa, quasi pronta per essere cambiata, e una femminile, più morbida, più dolce, e un’altra squillante, e una ancora fioca e debole, timida.

E loro, i miei compagni, sono tutti intorno a me, e mi parlano e io rispondo a fatica, cercando di ricordarmi se quello alto e magro è Giovanni e se quello basso, grassottello e dalla faccia simpatica è Mattia, e se la bambina seduta dietro di me è Luisa o Jessica, e vedo le loro facce una dietro l’altra, in una carrellata di figure totalmente estranee, di figure che ormai non mi appartengono più, che ormai fanno parte del passato, e in esso sono relegate.

E un altro ricordo, strettamente correlato a quello precedente, mi invade la mente, e mi fa chiudere gli occhi.

Sono sempre in classe, sempre alle medie, sempre allo stesso banco.

Sto parlando con il mio compagno di banco, e siamo vicini, con le sedie incrociate e i quaderni davanti ai volti, le penne impugnate, pronte per copiare gli esercizi non svolti a casa da un altro quaderno più bravo, più preparato. E ridiamo, diavolo se ridiamo, ridiamo complici, uniti, e ci divertiamo a copiare quei compiti non nostri, ben consapevoli del rischio che stiamo correndo. E il mio amico ride con la bocca aperta, mostrando i denti bianchi, regolari, e ha negli occhi scuri un’espressione felice, la stessa che invade anche i miei occhi più chiari. E anche le nostre teste sono vicine, talmente vicine che i nostri capelli si confondo, e i suoi capelli neri sembrano mischiarsi ai miei più chiari e più ricci.

E ridiamo, ridiamo, ridiamo fino a tenerci lo stomaco.

Un’altra foto mi torna davanti agli occhi, una foto più recente di quella di prima, dai contorni meno scoloriti e dai volti più familiari, ma che comunque non sono quegli attuali.

Ed è una foto che risale al secondo anno di scuola media, o almeno così mi pare di ricordare.

Ci sono ancora io in primo piano, in quella foto, ed è ancora lontano il tempo in cui nelle foto compaiono altri senza di me, e sono ancora lontani gli anni in cui una foto più era cara più ritraeva altre persone.

Sono nel giardino della scuola stavolta, ed è inverno. Lo si capisce dal fatto che l’erba è secca, asciutta, e gli alberi sono spogli, senza foglie, e gli studenti che appaiono sullo sfondo, immortalati senza saperlo, indossano pesanti maglioni, giacche a vento, cappelli.

Io ho circa dodici anni, e un gran sorriso allargato sulla faccia. I capelli sempre più ricci, ormai quasi crespi, sono diventati castani, di un castano bello, dolce, caldo, che richiama ancora dei tratti biondi, e indosso un maglione di lana grigia, e attorno al collo ho una sciarpa arancione, di un arancione orrendo, vistoso, aggressivo. Accanto a me, con un braccio attorno al mio collo e una mano sollevata a scompigliarmi i capelli, c’è Luca, il mio compagno di banco, anche lui con un gran sorriso, il suo solito sorriso largo che mostra i denti. Gli occhi scuri, scurissimi, quasi color pece, ammiccano divertiti al fotografo, e la sua felpa gialla e rossa fa a pugni con la mia sciarpa arancione, mescolando nella foto una gran quantità di colori assurdi.

E ancora una volta stiamo ridendo io e Luca, e i colori delle nostre risate, la nostra allegria, fanno in modo di non accorgersi dello sfondo triste, invernale, spoglio, grigio.

Ed è così che lo ricordo, Luca, ridendo, ridendo sempre, ovunque, con quell’allegria contagiosa che ti prendeva e ti faceva scoppiare a ridere senza motivo, senza un perché, e ti faceva dimenticare che in quel momento eri la persona più infelice della terra, e ti trascinava, e ti faceva venir voglia di gridare, di cantare, di buttarti per terra in mezzo all’erba e rotolarti fino a farti male.

E la luce del tramonto se ne sta andando dalla mia camera, e allora posso riaprire gli occhi, e socchiudere la finestra perché l’odore di maggio inizia a scemare, e l’aria fresca della notte a salire, e il calore del letto non è più quello di un’ora prima, e il profumo delle lenzuola inizia a svanire, e chiede di essere rinnovato. E io mi alzo da quel letto, sistemo le coperte come capita e infilo la prima maglia che trovo, e quel paio di jeans che non sono ancora stati raccolti dal pavimento, e getto un’occhiata allo specchio, e mi trovo stanco, sonnolento, completamente distrutto.

E ci sono modi e modi per ricordare, e non sempre serve la luce del tramonto di maggio, a volte basta anche solo una poltrona comoda, una lattina di birra buona e un po’ di musica.

Sorrido, lasciandomi cadere sulla poltrona. Birra.

La prima volta che l’ho assaggiata è stata proprio in quel periodo.

Ero con Luca, sempre con Luca, inseparabili, uniti in tutto, ed era la prima volta che uscivamo di sera, da soli. Entusiasti, eccitati, impreparati, piccoli, ancora piccoli e inesperti. Avevamo incontrato alcuni compagni di scuola, piccoli quanto noi, ancora più entusiasti, ancora più inesperti di noi, e ci eravamo uniti a loro in quella prima scorribanda notturna tra le vie delle città mai esplorate alla luce della luna.

E io me lo ricordo Luca che rideva sotto la luce dei lampioni, mentre si decideva dove andare, cosa esplorare per primo, e la luce gli cadeva esattamente a metà del volto, illuminandogli la pelle ambrata, rendendola giallastra, e gli baciava le gote arrossate dal freddo, e gli faceva splendere gli occhi ridenti. E noi eravamo lì, cinque o sei ragazzetti alle prime armi, eccitati dall’odore della notte, dal silenzio interrotto solo dal rombo di qualche macchina solitaria o dalla radio di un appartamento vicino, e volevamo divertirci ad ogni costo, far in modo che quella prima scorribanda fosse bella, magica, indimenticabile.

E allora avevamo iniziato ad entrare in qualche bar, scegliendo accuratamente quelli che ci sembravano più alla nostra portata, quelli dove c’era più gente non troppo maggiore di noi, quelli dove il fumo era ristretto a poche comitive, e l’acool era disponibile e leggero.

E siamo andati lì, al bancone, ed era la prima volta che mi avvicinavo ad un bancone del genere in vita mia, e l’ho subito trovata fantastica quella sensazione di star lì ad aspettare che ti servano, che ti portino quello che tu hai espressamente chiesto, e che dopo espressamente pagherai, possibilmente non troppo, perché cavolo, hai quasi tredici anni e la tua paghetta settimanale ti basta a mala pena per qualche giornaletto e un pezzo di pizza il pomeriggio, e allora sei lì, e chiedi al barista una birra, di quelle leggere, leggerissime, di quelle che il succo di frutta è più alcolico, o almeno lo credi tu, e il barista ti scruta, ti chiede quanti anni hai, e si, ne hai quattordici? e forse basta la tua altezza prematura a farglielo credere, o la voce quasi completamente cambiata, e la birra arriva, come se arriva, e tu la guardi, e non hai mai visto niente di più eccitante.

E quasi ci rivedo adesso, seduti in quel bar da ragazzini con le nostre prime, meravigliose birre davanti, che le fissiamo, increduli di esserci riusciti, e prendiamo il primo sorso e lo troviamo prima amaro, decisamente amaro, e ci chiediamo come diavolo è possibile che una cosa così bella come la birra, una cosa grande, come noi, perché si, dai Luca, è vero, ormai noi siamo grandi, ci chiediamo come può far così schifo. E poi ne prendiamo un altro, di sorso, e ci sembra meno aspro, meno spiacevole, e guarda, sotto sotto c’è un retrogusto strano, piacevole, molto piacevole, e allora via con il terzo sorso, e ora si, sta diventando buona, e via con il quarto, e ora è quasi perfetta, e dopo il quinto non si capisce più niente, iniziamo a bere attaccati alla bottiglia, incollando le labbra contro il vetro scuro, e Luca ride, diavolo se ride, ride mentre beve la sua prima birra, e io rido con lui, ridiamo insieme, uniti, e gli altri intorno a noi ridono insieme, e siamo belli, siamo grandi, e l’alcol scende piano piano, e quella gradazione bassa, bassissima, inizia a farsi sentire. E i miei capelli ricci, lunghi fino alle orecchie mi cadono come al solito davanti alla faccia, e un paio mi finiscono in bocca, e li sento mentre bevo la mia seconda birra, mentre inizio a sentire caldo e Luca sembra diventare sempre più divertente, sempre più amico, e io in quel momento gli voglio bene come non mai, e capisco che si, lui è il mio migliore amico e lo sarà per sempre.

Luca. La metà dei miei ricordi è invasa da Luca, la metà della mia vita è stata vissuta a stretto contatto con lui. Sempre, sempre insieme, a scuola, a casa, per strada, al cinema, al parco, sempre uniti, inseparabili, ed era diventato quasi mio fratello Luca, ed era come se lo fosse sul serio. Abbiamo fatto tutte le nostre prime esperienze insieme, se c’era una cosa nuova da provare stà sicuro che io e Luca eravamo lì, pieni d’entusiasmo e pronti a tutto, pur di divertirci, pur di ride, pur di stare insieme.

Ed eccone un altro di ricordo legato a lui, al mio amico, e mi fa sorridere questo ricordo, perché non lo so, ma sorrido, e mi accorgo di mostrare anche io i denti, esattamente come faceva lui a scuola.

Ed è durante la terza media, ed è inverno, precisamente novembre, e noi due siamo davanti alla scuola, le cartelle non più dei cartoni animati in spalla, e ci guardiamo, cercando di prendere una decisione.

Luca si è alzato durante l’estate, è alto quasi quanto me adesso, e ora porta gli occhiali, un paio di occhiali quadrati, di quelli senza montatura, e gli danno un’aria seria, precisa, da intellettuale, un’ aria che poco s’accorda con il perenne sorriso che gli adorna la faccia, un sorriso che gli allarga ancora di più la bocca alla Mick Jagger, un sorriso capace di mettere di buonumore tutti quanti. E io sono uguale all’anno passato, sempre alto, magro, con i capelli ricci, riccissimi, che mi cadono lunghi, che ora raggiungono quasi le spalle, raggiungendo la lunghezza degli infantili boccoli biondi, ma ora non sono più biondi, si sono scuriti, sono castani, un castano che probabilmente diventerà nero con il passare degli anni, e i miei vestiti sono sempre gli stessi, e fanno a pugni con il colore di quelli di Luca, ed è una cosa che non cambierà mai, questa.

E noi due siamo ancora lì davanti, cercando di decidere se entrare, o se fare sega, la nostra prima sega, e dai Luca, non entriamo, oggi quella mi interroga e giuro che se m’interroga faccio interrogare anche te, e su, non aver paura, tanto chi vuoi che se ne accorga. E Luca mi guarda perplesso, riluttante, forse ha paura sul serio, sua madre è severa, se lo dovesse venir a sapere chissà che punizione da panico gli darebbe, ma io non voglio entrare, voglio restare fuori, all’aperto, voglio andare a giocare a pallone al parco, e dai Luca, facciamolo, oggi è il primo giorno che non piove, guarda che sole, sta sicuro che un sole così non lo rivedremo fino a maggio, dai Luca, facciamolo.

E alla fine lo facciamo sul serio, non entriamo, Luca si aggiusta la sua cartella rossa sulla spalla e si fa guidare fino al marciapiede opposto, e lì la salutiamo la scuola, ciao, oggi non vengo, veditela da sola, e ciao prof, oggi non potrai interrogarci, noi andiamo al parco.

E ci allontaniamo così come siamo venuti, le cartelle ciondolanti in spalla, e un sorriso allegro c’illumina mentre alziamo gli occhi e guardiamo il sole di novembre.

Ricordi. Ricordi che coinvolgono tutti i sensi, la vista, il gusto, l’olfatto, l’udito, il tatto, e anche quel sesto senso, la mente, perché è lì che sono stipati tutti quanti, sono ammassati lì, l’uno insieme all’altro. E c’è una foto sbiadita, e il profumo di un vecchio maglione, il gusto della prima birra, la sensazione dell’erba di aprile sulla pelle, il suono di quella chitarra.

Ed è la mia prima chitarra quella che sta suonando dentro la mia testa, e mi invade con le sue note più alte, e mi riporta ancora una volta indietro nel tempo.

E’ natale, e il giardino di casa mia è pieno di neve, e gli alberi non hanno più foglie, e il caminetto del salotto è acceso, ed è la prima volta che viene acceso in vita mia.

C’è mia madre inginocchiata vicino al camino, mia madre che è cambiata, è diversa adesso, è invecchiata, ed invecchiando si è fatta ancora più bella. I capelli castani le cadono sul volto dalla pelle bianca, oscurandole gli occhi azzurro cielo appena truccati con una matita nera, il maglione bianco che porta le evidenzia appena le linee del busto, e accentua il nero dei suoi pantaloni di stoffa pregiata. E accanto a lei c’è un uomo, un uomo che ormai da molto anni vive in casa nostra, ma che no, non è mio padre, e io quasi non so come si chiama, e no, non voglio saperlo, non mi interessa, lui non è mio padre, non lo è e non lo sarà mai, e non mi importa di quanti regali mi faccia, non mi interessa, non mi interessa nemmeno questo qui che mi sta porgendo adesso, che è grande, lungo, incartato con un gran nastro rosso e con della luccicante carta argentata.

E io lo apro tentennando, questo regalo, perché non voglio assolutamente sentirmi in dovere di dire grazie a quell’uomo, ma so che non appena romperò quella carta e slaccerò quel nastro dovrò farlo, dovrò dirgli ehi, grazie amico, tu si che sei un buon padre, tu si che sei presente, fai un sacco di regali a tuo figlio, anche se figlio tuo lui non lo è, e sei sempre a cena la sera, e fai felice la mamma, perciò non importa di quanto tu possa starmi antipatico o di quanto mi manchi mio padre, io dovrò dirti grazie lo stesso, perché è così che mi hanno insegnato, e così si deve fare. E quando finalmente riesco a togliere tutta la carta mi appare davanti agli occhi una chitarra. Una chitarra bella, di legno chiaro, probabilmente già accordate, già pronta per essere suonata. E il compagno di mia madre me la mette in mano, e mi sorride, e mi dice di provarla, di toccare quelle corde, di farle suonare, e io lo faccio, poggio le mie mani sul legno e tocco quelle corde, e il loro suono, quella prima nota insicura che esce, mi arriva dritta al cuore e lì rimane per qualche istante.

E i miei occhi chiari brillano, e sento che la mia bocca si allarga in un sorriso dal sapore dolciastro, e il grazie esce spontaneo, e mia madre sorride, stringendo il suo uomo, e io stringo tra le mani la mia chitarra, e tocco di nuovo le sue corde, e suono un’altra nota, e non importa quale nota sia, è la mia, sono io che l’ho suonata, e mia rimane.

E così rimangono mie queste memorie, che suonano alte e basse nella mia testa, tra le note di un pentagramma fatto da reminiscenze di anni perduti.

 

                                                                                                                                                   *

 

Allora...Inanzitutto salve a chiunque stia leggendo il primo capitolo di questa storia.

Mi è uscita spontanea, semplicemente pensando a quanti ricordi serbe ognuno di noi dentro di sè, e a quanto è difficile esprimerli in tutta la loro complessità.

So che non è un capolavoro, ma mi auguro che a qualcuno possa piacere. Detto questo...Fatemi sapere che ne pensate!

Ciocco

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 - Do you remember me? ***


 

Capitolo 2: Do you remember me?

Te lo ricordi il mio viso, Fabio?

Ti ricordi il colore dei miei occhi, quello della mia pelle, quello dei miei capelli?

Ti ricordi le mie mani che ti accarezzavano appena nato?

Ti ricordi chi sono?

Ricordi che ruolo ho nella tua vita?

Ricordi perché sono andato via?

Ho dovuto farlo, Fabio, ho dovuto.

Ho dovuto per una serie di ragione che forse non ti hanno mai spiegato, e probabilmente non ti spiegheranno mai.

Ho dovuto perché era quello che mi era stato richiesto, e anche se tu non puoi saperlo, io faccio sempre ciò che mi si richiede.

Chi sei, Fabio?

Chi sei diventato in tutti questi anni?

Sei già un uomo o ancora solo un bambino?

Come sei fatto?

Qual è il suono della tua voce, l’espressione dei tuoi occhi, la tonalità della tua pelle?

Qual è la piega del tuo spirito?

Vorrei tanto saperlo, Fabio.

Vorrei tanto poterti vedere, poterti toccare, poter parlare con te.

Vorrei poter svolgere appieno quel compito che doveva esser mio tanti anni fa.

Vorrei poterti insegnare a parlare,

ad andare in bicicletta,

accompagnarti il tuo primo giorno di scuola,

insegnarti a farti la barba.

Vorrei poterti vedere ridere,

piangere,

urlare,

gridare di gioia,

arrabbiarti.

Vorrei semplicemente poter vedere come sei, come sei stato, come sarai.

Vorrei sentire la tua voce che mi chiama,

il tuo sguardo che mi cerca,

la tua mente che mi pensa.

Vorrei te, Fabio.

Forse credi che io non mi ricordi di te,

che io non ti abbia pensato in tutti questi anni,

che non me ne sia mai importato nulla di te.

Oh, Fabio, quanto ti sbagli.

Non c’è mai stato un momento in cui non ti ho pensato,

un’ora in cui non ho pronunciato il tuo nome,

un minuto in cui non mi sei mancato.

Sei il mio primo pensiero la mattina

e l’ultimo la sera.

Sei il mio costante interrogativo,

la mia continua domanda in cerca di risposta,

il mio invisibile punto di approdo.

Fabio, Fabio, pensi mai a me?

Ti fai le stesse domande che mi faccio io?

Dov’è adesso,

cosa sta facendo,

cosa sta pensando?

Non hai idea di come siano stati difficili questi anni lontano da te, Fabio.

Non hai idea di cosa si provi restando così lontano da chi si ama,

senza alcuna possibilità di limitare questa distanza in qualche modo.

Non ho il tuo numero,

non ho una tua foto,

non ho una tua lettera.

Ho solo un ricordo.

Solo un ricordo che resta saldo nella mia mente,

che non vuole andarsene,

che non se ne andrà mai.

E sei tu, Fabio.

Sei tu nella tua culla,

appena nato,

con quei tuoi incredibili occhi dal colore del cielo spalancati,

che guardano il mondo per la prima volta,

che si nutrono di esso,

che mi guardano,

mi fissano,

mi assaporano

e mi lacerano il cuore come la lama di un coltello.

E mi pare quasi di vederli ancora i tuoi occhi,

quegli occhi che non sono come i miei,

quegli occhi che non avranno mai la possibilità di incontrare i miei,

quegli occhi che appaiono in tutti i miei sogni e in ogni mio incubo.

Quegli occhi sgranati,

quegli occhi che tanto agogno

quegli occhi che mai vedrò.

 

 

 

 

 

 

 

 

*

 

So che questa storia non riscuoterà molto successo, ma ci terrei se, una volta letta, voi la commentaste, anche solo per farmi sapere cos'ha che non và.

Ah, una precisazione sul capitolo precedente: il titolo è lo stesso di una canzone degli Who, e anche se il testo della canzone non c'entra molto, il titolo mi sembrava perfetto...

 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 - Every you Every me ***


Capitolo 3: Every you Every me

E la notte di maggio ormai è calata sulla mia casa, e ha portato con sé altri ricordi, altre sensazioni di quel tempo andato, altri odori che hanno attraversato la mia vita, altri sapori che ho sentito in bocca, altre pelli che ho toccato, altre note che hanno risuonato.

E finisco la mia birra, e la butto, così come butto me stesso in quell’oceano di rammenti nostalgici.

Una leggera brezza entra dalla finestra aperta, e porta con sé sempre lo stesso profumo di ciliegi e roseti in fiore, e che presto si andranno a confondere nelle mie narici con il profumo della pelle, del sudore, della passione.

E questo vento leggero che mi accarezza me ne fa ricordare un altro, di vento, un vento che non sapeva di fiori, che era il vento del mare, ed era forte, era rumoroso, era caldo.

Ed eccomi lì, su quella spiaggia dimenticata dove ho passato tutte le estati della mia infanzia e della mia prima giovinezza.

Ho un anno di più dal mio ultimo ricordo e la scuola media è stata appena conclusa.

Il mio volto sta cambiando, inizia a farsi più marcato, i tratti infantili vanno pian piano scomparendo, assottigliandosi, gli occhi iniziano ad avere un’espressione diversa, i capelli più scuri, più ricci, più lunghi, più arruffati, il corpo resta sempre magro, dai muscoli poco accennati, poco sfruttati, e sono alto, e il pantalone nero che porto pare scivolarmi dalla vita, e allora io stringo la cintura, e la copro con quella maglia grigia che sembra esser passata attraverso un cespuglio di rovi per quanto è rovinata.

E’ mattina, ma il cielo è grigio, scuro, oppresso da nubi cariche di pioggia, e il mare è in tempesta, le onde alte, il vento forte, l’aria afosa. E io sono seduto sulla sabbia appena bagnata, e sono solo, sto contemplando il mare in burrasca, e non sto pensando a niente, la mia mente è vuota, riempita solo dal rumore delle onde che si confonde con quello del vento. E a un tratto sento dei passi al mio fianco, e una figura che si avvicina a me, ed è una ragazza quella che si siede affianco a me, in un silenzio dalle sembianze fittizie, rotto dallo stridio dei gabbiani.

E’ bella. Ha una bellezza semplice, delicata, quasi infantile. I capelli biondi le cadono sulle spalle come una cascata in movimento, e ondeggiano al vento, finendole davanti al volto dai tratti angelici, fini, morbidi. Ha gli occhi chiari, di un colore che sembra riprodurre esattamente quello del mare che ho davanti. Un colore che và dal blu al verde, al grigio, all’azzurro più chiaro, al viola. E ha un corpo da ninfa, esile, sottile, dalle curve poco accennate, e la sua pelle è bianca, e le labbra sembrano fatte da petali di rosa.

E mi guarda, mi guarda fissandomi negli occhi e non dicendo nulla, lasciando che sia il mare, che sia il vento a parlare per lei. E mi prende una mano, e la stringe nella sua, più piccola, più liscia, più bianca, e continua a guardarmi, e io sembro perdermi nei suoi occhi color del mare, e non capisco cosa voglia da me, perché questa ninfa marina mi stia stringendo la mano e mi stia fissando. E poi lei si avvicina ancora di più a me, e i suoi occhi sembrano liquefarsi nei miei, e sento il suo respiro che mi accarezza la pelle del volto, e i suoi capelli che mi sfiorano, mossi dal vento, e le sue labbra si avvicinano alle mie, e premono contro le mie, le sfiorano, le mordono, le accarezzano.

E io mi lascio guidare da lei, in balia completa delle sue azioni, dei suoi movimenti, e non capisco nulla, lascio che le sue labbra bacino le mie, e la sua lingua cerchi la mia, e la trovi, e ci giochi in un bacio che non ha nulla di reale, in un bacio che sembra accompagnare i movimenti delle onde e lo strepito del vento, in un bacio che non è mio, non è voluto, non è desiderato, in un bacio che di mio non ha proprio nulla. E non basta che la ragazza che mi stia baciando sia la creatura più bella che io abbia mai visto, questo non basta, e non basta il colore dei suoi occhi, la bellezza dei suoi capelli, la morbidezza delle sue labbra, il candore della sua pelle, non basta l’innocente sensualità del suo corpo, non basta niente di tutto questo. E io mi stacco da lei dopo qualche attimo, e la guardo senza un’espressione precisa sul volto, e lei pare stupita, ha le labbra rosse, umide, e lo sguardo perplesso. E io corro via, corro lontano da lei, da quella ninfa che mi ha appena baciato, corro lontano da quella spiaggia che all’improvviso mi pare stretta, strana, dalle fattezze irreali.

Strano come un episodio del genere possa esser ricordato in una maniera tutt’altro che positiva. E’ strano, come sono strani quasi tutti i miei ricordi. Sono strani quasi quanto queste chitarre stonante che lo stereo fa riecheggiare per tutta la casa, chitarre stonate come lo era la mia un tempo, chitarre distorte, rabbiose, aggressive.

Chitarre che paiono urlare fuori tempo, che sembrano gridare nel buio esattamente come stanno facendo adesso, chitarre che vanno a tempo con i miei ricordi storti e strani, chitarre che mi fanno ricordare di tutto e mi fanno scordare ogni cosa.

Come quella notte. E’ settembre, il mio ultimo settembre da ragazzino delle medie, il settembre che vedrà l’inizio del mio primo anno di liceo, il mio primo anno da ragazzo.

L’aria odora ancora di sole e salsedine, tra i capelli c’è ancora sabbia, il sole si ostina a non voler tramontare e la musica risuona fino a tardi nelle case, dagli sterei dei ragazzi seduti a un falò sulla spiaggia. E’ settembre, e io sono a letto, fermo, immobile, ascoltando il cicaleccio dei grilli che si confonde col rumore del mio respiro, che a sua volta si mescola con il suono distorto della chitarra di Jimi Hendrix che suona nel mio stereo e che pare andare a tempo con i miei pensieri, altrettanto distorti, altrettanto urlati, altrettanto violenti.

Non so a cosa penso, la sequenza dei miei pensieri è troppo sconclusionata per capirci qualcosa, per cavare alcunché di buono, alcunché di utile, qualsiasi cosa che possa servire a capire il perché del mio umore, il perché della mia ansia, la risposta alle domande che mi frullano in testa. E la chitarra smette di suonare per un attimo, lasciando il posto alla batteria, ed è allora che mi viene in mente la risposta. E’ allora che capisco cosa sto cercando, cosa sto agognando, cosa mi farebbe star bene. Mio padre.

E’ a lui che sto pensando, e mi accorgo che per la prima volta da anni non c’è odio in me, non c’è rabbia, non c’è dolore, non c’è rimpianto. C’è solo tristezza. Tristezza di non avere un padre accanto a me, di non poter vedere i suoi occhi o udire la sua voce, di non potergli dare fraternamente la mano come Luca la dà a suo padre quando questi ritorna dal lavoro, la tristezza di non poter litigare con lui per il volume troppo alto, per il poco studio, per il poco sport praticato, la tristezza di non poter vedere insieme la partita di calcio alla domenica, il calcio che a me neanche piace, che non mi interessa, ma che vorrei poter guardare insieme a lui, magari sgolandoci per la nostra squadra, facendo il tifo insieme. Ed è quella la sensazione che ho in quella notte di fine estate, mentre la canzone cambia e ne arriva una più veloce, più ritmata, una che non sta troppo bene con il mio umore. E così cambia il tempo, e all’improvviso non mi piace più l’odore della salsedine, il canto dei grilli notturni, le stelle luminose, ma vorrei le nuvole, la pioggia, il vento, perché è così che mi sento io dentro, così che sento la tempesta.

Il campanello suona, interrompendo il mio ricordo con il suo suono stonato e sgradevole, e mi costringe ad alzarmi. Apro la porta, sorridendo per un attimo, sapendo già chi sta suonando, chi è lì fuori ad aspettare che io gli apra. E quando la apro, quella porta, il mio sorriso non si spegne, ma anzi, diventa più largo, più vero, addirittura più bello. Perché lì, dietro la porta, c’è lui, c’è lui che mi guarda e mi sorride a sua volta e il suo sorriso è diecimila volte più bello del mio, e i suoi occhi paiono illuminare tutta la stanza con quel loro sguardo profondo, con quella luce così diversa, così affascinante, così misteriosa, quella luce che pare avvolgere tutta la sua persona, che pare accompagnare ogni suo passo, che pare infondersi in ogni sua parola, in ogni suo gesto. E, Dio mio, non riesco ancora a capire come io possa restare qui immobile davanti a lui senza parlare, senza muovere un solo muscolo, fermo a guardarlo, fermo a guardare colui che mi ha fatto scoprire la vita e la morte con un solo sguardo, che mi ha fatto salire in paradiso e discendere all’inferno con una sola carezza, che mi ha reso immortale e cadavere con il solo tocco delle sue labbra.

Quanto tempo è passato dalla prima volta. Quanto tempo.

Piove. E’ il mio primo giorno di liceo e piove, piove a dirotto, piove in una maniera incessante, continua, violenta. Non c’è freddo, non c’è vento, non c’è rumore, c’è solo pioggia che scende dal cielo e cade su di me, e mi bagna, mi penetra fino alle ossa, mi inzuppa, mi impregna, bagna le mie scarpe, i miei pantaloni stretti e sdrucii, i miei capelli coperti dal cappuccio della felpa nera, pioggia che cade ovunque, che lava ogni cosa, che batte contro i vetri delle finestre, contro le portiere delle macchine, contro la stoffa degli ombrelli. E io vado avanti,cammino sotto la pioggia senza alcun riparo che non sia la mia felpa leggera, e sono a pochi metri dalla scuola, dal liceo, e vedo Luca che arriva in lontananza, che mi vede, che si sbraccia per farsi vedere a sua volta, che mi sorride, che urla il mio nome. Luca. Mi strappa un sorriso constatare che ancora una volta sembra che i nostri vestiti facciano a cazzotti, che i miei siano l’opposto dei suoi, che le mie Converse inzuppate, sporche, nere, siano l’esatto contrario delle sue scarpe da ginnastica bianche, pulite, nuove di zecca, che la mia felpa nera sia l’ opposto della sua t-shirt arancio brillante, che i miei jeans stretti, neri, siano la perfetta antitesi dei suoi larghi, blu, vagamente sformati, che i nostri volti siano così diversi, nonostante tutti gli anni passati insieme, che i nostri occhi siano specchi dai colori opposti, che perfino i nostri sorrisi parlino così diversamente. Ed è un abbraccio la prima cosa che mi dà Luca appena arriva abbastanza vicino a me, un abbraccio forte, sincero, che parla di un’estate di lontananza, di avventure non vissute insieme, di voglia di parlare, di raccontare, di spiegare, di narrare.

E poco ci importa della pioggia che cade sulle nostre teste, che ci bagna sempre di più, che macchia le scarpe immacolate di Luca e increspa ancora di più i miei capelli.

E parlando con dei grossi sorrisi stampati in faccia, parlando accalorati, vivaci, felici di esserci ritrovati, parlando così, entriamo a scuola quasi senza accorgercene, camminiamo per i corridoi senza una meta precisa, ci dirigiamo verso una classe che non sappiamo dove sia e non ce ne importa nemmeno, e parliamo, parliamo, ridiamo e scherziamo, come se questi mesi di distanza non si siano ridotti ad altro che a pochi giorni.

E ci ritroviamo in classe quasi per caso, senza sapere bene come ci siamo finiti, e ci sediamo ad un banco vicino alla finestra, in modo che si possa guardare fuori durante i momenti di noia, momenti che si sa, sono parecchi, momenti che hai bisogno di guardare fuori, di respirare aria e osservare le macchine che sfrecciano sotto di te, i passanti, le mamme che portano a passeggio i bambini, le donne che escono dai negozi all’ora di pranzo, gli impiegati che si affrettano ad andare in ufficio. Ci sediamo lì e continuiamo a parlare sorridendo, e Luca è sempre lo stesso, sempre con quel sorriso felice sul volto, quel sorriso che è uno dei miei più cari ricordi, quel sorriso che solo ripensandoci mi mette di buon umore. Perché questo faceva Luca, questo era Luca: era buon umore, era allegria, era felicità, era gioia, era riso, riso che partiva dal cuore e prorompeva in gola, riso che era impossibile trattenere, che stessi facendo matematica in classe o passeggiando al parco, dovevi ridere, ridere, ridere e non smettere più. Luca.

E ci sei tu qui, davanti a me, seduto su una poltrona foderata di rosso con una gamba ripiegata sotto di te e l’altra penzoloni, e mi stai guardando sorridendo, un sorriso che non accenna a scomparire dal tuo volto, un sorriso obliquo, un sorriso malizioso, un sorriso che so perfettamente cosa voglia dire. E so cosa succederà tra poco, appena poserai la tua birra e ti avvicinerai a me, lo so perché è successo già centinaia di volte, e spero che succederà ancora altre cento, e poi altre mille, e poi ancora cento, e poi ancora mille, e comunque non saranno mai abbastanza,* perché io non ne avrò mai a sufficienza di te, perché io non mi stancherò mai di vederti sorridere così, con quelle tue labbra rosse, gonfie, che è un piacere mordere ancora e poi ancora, che è un piacere baciare, leccare, succhiare, quasi fino a vederle insanguinate, rotte. E io non mi stancherò mai di vederti ondeggiare leggermente verso di me, i capelli lunghi che ti coprono gli occhi, che non lasciano intravedere quell’espressione che io conosco a menadito, non lasciano vedere quegli occhi che sono il mio incubo e il mio sogno, quegli occhi che popolano le mie notti e i miei giorni, non mi stancherò di vederti avvicinare a me, di concedermi pian piano quella vicinanza che tanto bramo, non mi stancherò dei tuoi jeans strappati che ti coprono le gambe lunghe e magre, non mi stancherò del tuo giubbotto di pelle buttato in un angolo, non mi stancherò del tuo odore, quell’odore così particolare, quell’odore che è tuo, solo tuo, fatto di pelle, di fumo di sigaretta, di alcol, quell’odore che si mescola al mio, che si ogni volta si fonde e crea lo stesso aroma inebriante.

Siamo ragazzi ormai. Siamo cresciuti, siamo cambiati, siamo liceali insicuri e fragili, ma ormai siamo ragazzi. Ed è in quella sera che me accorgo, in quella sera così speciale, in quella sera che poi segnerà la mia vita, la mia intera esistenza, che sarà la sostanza stessa della mia esistenza.

La prima prova del nostro gruppo. Siamo nel mio garage, siamo quattro ragazzi con i loro strumenti in mano, quattro ragazzi che per la prima volta provano a suonare insieme, provano a riversare in una sola cosa tutte le loro emozioni, la loro rabbia, la loro gioia, il loro riso, le loro grida. E c’è Luca che fa scorrere le mani eleganti lungo la tastiera, mani esercitate da tanti anni di pianoforte obbligato, mani abituate a Mozart che ora provano a suonare il rock, mani che scorrono veloci quanto le emozioni del loro proprietario che sembra il meno adatto a quel garage, sembra il più spaesato, il più distante da quello che sta succedendo lì dentro. E c’è Giulio seduto dietro la sua batteria, portata lì qualche ora prima con sudore e fatica, Giulio che è alto, robusto, Giulio che ascolta il metal, Giulio che fuma, Giulio che ha lunghi capelli neri lisci, liscissimi, che gli cadono dietro la schiena, raccolti in una bassa coda di cavallo, Giulio che è diverso, Giulio che ha dieci in matematica e tre in latino, Giulio che è sempre serio, Giulio che non ride mai, Giulio che ha una ragazza di cui non sappiamo il nome ma che abbiamo visto diverse volte abbracciata a lui nei corridoi della scuola, nascosti dietro una colonna a baciarsi, Giulio.

E poi lì, appoggiato al muro consumato dall’umidità e dal tempo, c’è Alessio, il basso in mano, gli occhi bassi, le lunghe trecce rasta che gli sfiorano il volto, il labbro superiore che gioca con il piercing di quello inferiore, Alessio che ha già suonato con altri gruppi in passato, Alessio che è bello, bellissimo, Alessio che fa girare tutti quando passa per i corridoi, Alessio che non studia, non vuole studiare, che vuole solo suonare, suonare e suonare per tutto il giorno, Alessio che si fa le canne a scuola nascosto nel cortile durante l’ora di educazione fisica, Alessio che alla sua giovane età, solo sedici anni, sedici miseri anni, ha già girato il mondo, Alessio che vuole vivere in Irlanda, Alessio che suona come un Dio, Alessio che non si è nemmeno fatto pregare per entrare nel gruppo. E io sono lì, davanti alla batteria, mentre collego gli ultimi fili all’amplificatore, mentre decido cosa suonare, come comportarmi con gli altri, perché io sono una specie di leader in quel gruppo, sono io che l’ho messo su, sono io che ci metterò l’anima per portarlo avanti, sono io che darò sangue, sudore, voce e mani per quel gruppo. E mi rialzo, afferro la mia chitarra e guardo Alessio che mi sorride, Alessio che mi vuole mettere alla prova, che vuole vedere quanto io sia pronto, quanto sia bravo, che vuole ascoltarmi cantare con tutte le mie forze, che vuole vedermi suonare come non ho mai suonato prima. E faccio un cenno agli altri, accenno alla canzone, e guardo per l’ultima volta Alessio, e poi inizio a suonare, e la mia voce parte piano, sussurrandola quasi quella canzone, e poi aumenta di volume, e poi scende di nuovo, e la batteria di Giulio mi accompagna, mi dà il ritmo, e il basso di Alessio è come un martello nelle orecchie, e siamo fuori tempo, siamo poco pratici, poco esperti, ma quella canzone pare uscire perfetta, pare esser stata scritta apposta per noi, per essere suonata da noi, urlata da noi, e vedo Luca con la coda dell’occhio che ci segue arrancando con le dita sulla tastiera, che non ha il nostro stesso ritmo, la nostra stessa carica, ma che la acquisterà, dovessi suonare e cantare con lui giorno e notte, ma sarà pronto anche lui, saremo pronti tutti, saremo perfetti.

Ti pieghi su di me, come hai fatto mille altre volte, e i tuoi capelli mi sfiorano il volto, il tuo profumo mi invade le narici, sento il tuo respiro caldo sulla mia guancia, vedo i tuoi occhi che fissano i miei e non osano lasciarli. Le tue mani salgono, si posano sotto la mia maglietta e un brivido mi corre lungo la spina dorsale. E’ meraviglioso che dopo così tanti anni, così tante notti, le tue mani riescano ancora a farmi rabbrividire solo con il loro contatto sulla mia pelle. E quando le tue labbra si poggiano sulle mie, e sento il tuo sapore mescolarsi con il mio, sento la tua lingua che cerca la mia, che ci gioca, come succede ogni notte, come succede in ogni mio sogno, la mia mente vola oltre le pareti di questa stanza, torna a molti anni fa, torna a percorrere quella vita che mi ha portato fin qui, fin da te, fino a questo divano dove mi stai baciando.

Foto. E’ una foto del mio primo concerto quella che mi torna davanti agli occhi. Ho circa sedici anni, una maglietta nera che pare incollata al mio torace per quanto è sudata, un sorriso estatico sul volto. E’ il 1989, sono a Venezia, e sul palco davanti a me, su quel palco memorabile, ci sono loro. I Pink Floyd. Sono lì, sono davanti a me, sono su quel parco con le loro chitarre, con la loro musica, quella loro musica incredibile, allucinante, completamente fuori dagli schemi, quella musica che mi fa accelerare il battito cardiaco, che mi fa uscire dal mondo, che mi lancia in una situazione psichedelica, di estasi completa, dove il delirio è normale, dove non c’è più tempo, non c’è più spazio, c’è solo musica, e io sono lì, faccio parte di quella musica, sono in mezzo a quelle tremila persone che sono ferme, a bocca aperta, incapaci di muoversi, di parlare, di reagire a quella cosa meravigliosa che sta avvenendo proprio su quel palco davanti a noi. E in quella foto la mia faccia è esattamente quella di una persona estasiata, una persona che ha l’impressione di non trovarsi più semplicemente a un concerto rock, ma in un altro mondo, un mondo che ha sempre sognato, un mondo fatto di luci e di colori, di note, di suoni, dei rintocchi della batteria e le profondità del basso, un mondo dove si vive, dove si respira, un mondo che fino ad allora non avevo mai visto.

* Non ho potuto fare a meno di riprendere una citazione qui, mi dispiace. A chi interessasse si tratta di Catullo, e più esattamente del Carmen V. Perdonate questo piccolo riferimento, ma ci stava meravigliosamente.

Beh, che dire. Come avete notato si tratta di un capitolo piuttosto importante per lo sviluppo della vicenda. Vengono introdotti nuovi personaggi, anche se di qualcuno non sappiamo il nome, e succedono cose che porteranno ad delle inevitabili conseguenza.

Il titolo è una canzone dei Placebo (scusa se l'ho usato anche io dopo di te, Lem, ma era quello che ci voleva) e come potete vedere ci sono riferimenti al rock e ai suoi personaggi più importanti sparsi un pò ovunque.

Nonostante la povertà di commenti spero che a qualcuno piaccia questa storia (se vi piace, vi prego, ditemelo, che sto cominciando ad avere il blocco dello scrittorre!)

E, passando all'unica anima pia che ha commentato questo delirio...

Lem: Oddio, addirittura un incrocio tra Virginia Woolf e James Joyce?!? Beh, mi sento persino imbarazzata solo a pronunciare i nome di due geni del genere nella stessa frase dove c'è il mio... Onestamente non ho mai letto qualcosa della Woolf, ma provvederò al più presto, e per quanto riguarda Joyce...Ammetto che l'uso del flusso di coscienza è tutta opera sua (adoro Joyce), è uno stile che sento particolarmente affine. Per quanto riguarda le tue ipotesi ti dico solo che si, hai ben capito di chi si trattava nel capitolo antecedente, e che si, potresti fare la detective! Per sapere chi sia il "consumatore" del yaoi dovrai aspettare un pò, però! XD

Spero che questo capitolo sia stato all'altezza delle tue aspettative!

Per tutti gli altri che leggono grazie lo stesso, e ricordate i commenti (positivi e non) sono sempre bene accetti!!

Ciocco

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 - All of my love ***


Capitolo 4: All of my love

 

Fabio.

Fabio, Fabio, Fabio.

Da quanto tempo non ti chiamo più per nome?

Da quanto tempo non ho più occasione di sentirlo, il tuo nome, che sia invocato da me o da altri?

Fabio.

Sai chi era Fabio, figlio mio?

Sai perché porti questo nome?

Fabio era lui.

Fabio era quel lui che non ho mai dimenticato,

quel lui che è sempre stato presente nella mia mente,

quel lui che è stato il primo,

e sarà l’ultimo.

Quel lui che non era tuo padre,

non era il tuo patrigno,

non era niente per te,

e tutto per me.

Fabio.

Ti ho mai raccontato, figlio mio,

chi fosse costui?

Ti ho mai raccontato cosa fosse per me?

Non credo.

Non ne ho mai avuto la forza.

Non ho avuto la forza di svegliarti una mattina

e dirti che se tuo padre se ne era andato era per colpa mia.

Non ho avuto il coraggio di sedermi accanto a te e di dirti il perché di quello che stava succedendo.

Non ce l’ho fatta.

Perdonami Fabio, perdonami figlio mio.

Sono solo una donna che ha sbagliato,

che ha sbagliato tutto nella sua vita,

la cui intera vita è stata errata,

inesatta,

distorta.

Lui era diverso.

Lui aveva saputo vedere la mia luce e il mio buio come nessun altro aveva fatto,

lui aveva saputo toccare la mia pelle esattamente come era stato scritto che dovesse esser toccata,

lui aveva saputo baciarmi come dovevo essere baciata,

lui aveva saputo parlarmi come doveva essere.

Lui era il mio tutto,

il mio niente,

la mia luce,

il mio buio,

la mia vita

e la mia morte.

E tu, Fabio, sei esattamente la stessa cosa.

Hai saputo essere esattamente come l’uomo di cui porti inconsapevolmente il nome.

Ricordo il giorno in cui te ne sei andato.

Il giorno in cui hai varcato la soglia di questa casa senza guardare indietro,

senza una parola,

senza uno sguardo.

Il giorno in cui hai varcato questa soglia per sempre.

L’ultimo giorno in cui ti ho visto.

Fabio, perdonami.

Perdona questa donna,

colpevole solo di averti amato troppo silenziosamente,

un silenzio che doveva compensare l’urlo dell’amore con il quale avevo amato il tuo omonimo,

quell’amore da capogiro,

da incubo,

da sogno.

Quell’amore che è stato la mia rovina,

la tua rovina,

la nostra rovina.

Fabio, hai mai amato qualcuno a tal punto da esser pronto a lasciare tutto per lui?

Hai mai amato qualcuno tanto da esser disposto a uccidere per lui,

a rubare per lui,

a mentire,

a scappare,

a morire?

Io si Fabio, io ho amato qualcuno così.

E quando sei nato tu,

quando ho visto per la prima volta in tuo viso pallido,

i tuoi occhi azzurri così simili ai miei,

i tuoi capelli biondi che di mio non avevano nulla,

e non avevano nulla neanche di suo,

mi sono sentita persa.

Volevo che fossi figlio suo, Fabio.

Volevo che i tuoi capelli fossero neri,

che i tuoi occhi fossero scuri,

che la tua pelle non fosse color latte,

ma color cioccolata,

volevo che fossi suo.

Volevo che fossi figlio mio e di Fabio.

Ma non è stato così.

I tuoi capelli erano biondi,

come biondi erano quelli di tuo padre,

la tua pelle era latte,

come la sua.

Solo i tuoi occhi erano miei,

e potevo fingere che fossero anche un po’ suoi.

Perché io ero sua, Fabio.

Io sono ancora sua.

Io sarò sempre sua.

Beh...che dire? Altro capitolo d'intermezzo, e stavolta è ancora più semplice capire chi sta parlando.

Vedo che questa storia non piace molto, le letture diminuiscono di capitolo in capitolo, ma io continuerò a postare, perchè mi sto impegnando per scriverla e mi piace come esce fuori, anche se non và sempre come avevo deciso che andasse.

Comunque, rispondo di nuovo alla mitica Lem, l'unica che mi commenta e a cui pare piaccia quest'"opera"!

Lem: Tifi per Luca? Mi fa piacere, anche se Luca non mi piace granchè come personaggio...Mi spiego, mi è uscito fuori esattamente come volevo che uscisse, ma diciamo che preferisco altri! In quanto ai bassisti con i rasta e il piercing...ammetto che il tuo Jake mi piace così tanto che mi ci sono ispirata, anche se Alessio è alquanto diverso...E poi lo sai che questa passione è pienamente condivisa da me! (PIENAMENTE) Spero che ti piaccia anche questo intermezzo, anche se qui non c'è traccia né di rock, né di yaoi, né dei nostri giovincelli...I Placebo dal vivo? Mi piacerebbe, ma Brescia è un pò lontanuccia, e il 30 giugno non posso proprio essere da quelle parti! Beh...Un bacione, bella!

In quanto a chi legge...Ditemi cosa ne pensate, che cerco di capire cosa aggiustare e dove posso aver sbagliato...

Un saluto a tutti!

Ciocco

Ps: il titolo è preso dall'omonima canzone dei Led Zeppelin, dedicata anch'essa a un figlio...

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 - Certe notti ***


Capitolo 5: Certe notti

Ci sono ricordi che fanno più male che bene, ricordi che si bloccano nel tuo cervello, che lo trapanano piano piano, che lo assoggettano al loro potere inconscio, ricordi che sarebbe meglio non avere, ricordi che ti bloccano, ti fermano, ti mozzano il respiro, ricordi che non vanno né avanti né indietro, ricordi che non sono solo ricordi, sono di più, sono i pezzi di una vita che deve essere dimenticata, i pezzi di un’anima lacerata, straziata dal dolore, ricordi che dentro serbano esattamente lo stesso dolore, le stesse urla, la stessa sofferenza.

Come quello.

E’ la notte di Natale del 1989, e io sto entrando in casa dalla porta del retro, dopo aver trascorso una serata di fumo, alcol e musica insieme a Luca, Alessio e Giulio. In realtà avrei dovuto dormire fuori, avremmo dovuto dormire fuori, insieme nella vecchia casa di campagna di Luca, ma i nostri piani sono sfumati, si sono dissolti in una bolla di sapone.

E io adesso sto entrando in casa mia come un ladro, con la paura di svegliare mia madre, mia madre che ha passato la serata da sola, e l’ha deciso lei, ha detto lei di voler del tempo per stare con se stessa, perché suo marito, il mio patrigno, è sempre presente, ed è una piacevole novità che lei abbia un po’ di tempo libero, seppure questo tempo libero sia la notte di Natale, e così io adesso entro in casa piano, in silenzio, al buio, evitando le sedie sparse per la cucina e imboccando alla cieca il corridoio che porta alle camere da letto. E mentre barcollo nel buio a tentoni, ecco che sento qualcosa, qualcosa che dapprima non riesco a distinguere, qualcosa che non è un suono familiare, ma che è troppo strano per essere casuale, qualcosa che non mi piace, non mi suona bene.

E poi lo sento di nuovo, e lo riconosco, riconosco che quel suono è un sospiro, un sospiro strano, un sospiro che sul momento non so ancora riconoscere per quello che è, un sospiro che mi conduce alla porta della camera di mia madre e mi fa tendere le orecchie, mi fa ascoltare più attentamente. E poi al primo sospiro ne segue un altro, e un altro ancora, e due voci diverse si sovrappongono, e in una riconosco la voce di mia madre, ma l’altra mi è nuova, mi suona del tutto sconosciuta, del tutto estranea.

E poi sento quel nome, sento mia madre che invoca un nome che non è quello del mio patrigno, non è quello di mio padre, ma è il mio.

Fabio.

Sento che lo ripete, lo ripete più di una volta, sfumando la sua voce con dei sospiri, dei gridi soffocati, e allora la nausea mi sale allo stomaco e mi arriva in gola, e io mi precipito fuori, nella notte fredda e stellata, mi getto sul prato ghiacciato del giardino con il cuore in tumulto, la bile in gola, gli occhi sbarrati, la mente che ripete i sospiri di mia madre e del suo amante, di mia madre che invoca quel nome, il mio nome, di mia madre che tradisce suo marito, che non è nemmeno mio padre. E resto lì per non so quanto tempo, il cuore che continua a martellarmi il petto, la nausea che mi sale in gola a intervalli regolari, nelle orecchie ancora quei suoni, quei rumori, mentre pian piano si và formando la consapevolezza di quello che stava succedendo in quella stanza, mentre pian piano la realtà di quei sospiri mi arriva al cervello, mentre mia madre e il suo amante assumono toni reali, mentre i loro sospiri assumono un senso, un senso che per me non c’è, un senso che non vedo, che non voglio vedere, ma che c’è, che esiste, che esiste per loro, un senso che è presente in ogni loro mossa, in ogni fruscio delle lenzuola che probabilmente si stanno ancora movendo, e mi rendo conto che mia madre, mia madre, la donna che mi ha dato la vita, la donna che mi sta facendo martellare il cuore e annebbiare il cervello, mia madre è lì dentro che si dona a un uomo che non è mio padre, non è suo marito, ma è un terzo, un altro uomo ancora, uno che non c’entra nulla, o forse è il centro di tutto.

E le tue labbra sono ancora premute sulle mie, mentre la mia mano sale ad accarezzarti il volto, mentre sento la tua pelle morbida a contatto con la mia, mentre scosto i tuoi capelli dal tuo viso, così che posso vederti bene, così che posso osservare l’espressione del tuo volto, la linea della tua bocca, la perfezione dei tuoi lineamenti. E le tue labbra stanno torturando le mie, ci giocano, le mordono, le leccano, e io sono steso sotto di te, lungo su questo divano che ci ha visto tante volte giocare così, e che presto vedrà altro, vedrà molto altro ancora, e il gioco sta iniziando a farsi serio, la mia maglietta già giace abbandonata sul pavimento scuro, già le tue mani iniziano a farsi più esigenti, già i nostri respiri iniziando a farsi più veloci, frammentati, quasi spezzati. Ed eccolo lì, un altro ricordo si affaccia nella mia mente, e diventa sempre più vicino al presente, più vicino a te, più vicino a noi, ed è un ricordo che mi piace, che mi fa sorridere contro le tue labbra, mi fa sospirare in pace sulla tua pelle, mi parla di te, mi ricorda te.

Sono ancora nel mio garage, aspetto gli altri tre per iniziare a provare. Fuori c’è vento, un vento cattivo, gelido, un vento che muove gli alberi e fa ondeggiare le bandiere, un vento che parla di violenza, di freddo, di terrore. Un vento che arriva da lontano, che dentro di sé porta rancore, porta odio, porta miseria, un vento che mi sta parlando contro i vetri del garage, un vento che pare assoggettarmi al suo potere, un vento che mi condiziona, condiziona i miei pensieri e il mio umore. Sono stanco. Sono stanco di tutto, sono stanco della mia vita, delle mie abitudini, sono stanco della mia famiglia, dei miei studi, sono stanco di quella stanchezza che necessità un cambiamento, sono stanco e basta.

E Luca è in ritardo, ma del resto Luca è sempre in ritardo, e sono in ritardo anche Giulio e Alessio, e sì, è vero che di Alessio non ci si può mai fidare, ma Giulio di solito è così attento, così affidabile, così puntuale che deve essere successo per forza qualcosa.

E poi entrano tutti e tre, in fila indiana, con dei sorrisi complici stampati sui volti divertiti, Alessio che fa dondolare il basso che porta in spalla, Luca e Giulio spalla a spalla che ridono, ammiccano verso di me, portano le mani alle tasche e poi ridono ancora.

E io mi alzo, vado verso di loro, e loro mi mostrano un bustina piccola, trasparente, piena di erba, e sulle loro facce si legge la chiara intenzione di cosa vogliono farci con quell’erba, e Alessio è tranquillo dietro di loro, non è divertito come loro, non è entusiasta come loro, per lui è tutto normale, è lui che gli ha procurato l’erba, è lui che tra un momento la rollerà e ci insegnerà come fumarla. E ci mette poco Alessio a rollare la canna, è pratico, esperto, deve averlo fatto decine e decine di volte, e poi l’accende, tira una lunga boccata, sorride, e poi la passa a me, mi spiega come tirare il fumo, come gettarlo giù nei polmoni, e io ci provo, e per un attimo mi sembra di soffocare, mi affogo, ma poi ci riprovo, e ci riesco, e mi piace, ha un buon sapore, un buon odore, e la passo a Luca, e poi a Giulio.

E ben presto l’aria assume quell’odore, il garage ne viene impregnato, e una leggera sonnolenza scende su noi quattro, e la sensazione è diversa da come me l’aspettavo, non è forte, non è niente di così strano, mi sento solo insonnolito, tranquillo, rilassato, e ho voglia di bere e di dormire, ma Alessio mi fa alzare, fa alzare a tutti e tre, e prende in mano il suo basso, mi porge la chitarra e fa sedere Luca e Giulio dietro i loro strumenti, e attacca a suonare, e io gli vado dietro, e poi ci raggiungono anche gli altri due, ma dura poco, perché io ho sonno, Luca ha sonno, e Alessio ci fa sedere di nuovo, e rolla un’altra canna, e noi fumiamo di nuovo, e mi piace sempre di più questa cosa, mi intriga, e Alessio mi sorride, e per la prima volta noto quanto sia bello il sorriso di Alessio, quanto siano intriganti le sue labbra rosse, le sue treccine rasta che gli sfiorano il viso dalla pelle ambrata, mi rendo conto che mi piacciono i suoi occhi verde scuro, che mi piace il modo in cui mi sta porgendo da fumare, mi piacciono i suoi vestiti stropicciati e le sue maniere rilassate, mi piace il suo odore, mi piace come si muove e come mi parla.

E non mi stupisco troppo di questo, non è una rivelazione scioccante, è come se l’avessi sempre saputo, come se fosse sempre stata una cosa naturale, niente di diverso, e mi torna in mente quel bacio di quell’estate, e a come non era stato per niente naturale, per niente tranquillo, per niente rilassato, come invece è ora osservare Alessio e accorgermi che mi piace più lui che quella ninfetta marina di cui non ho mai saputo il nome.

Ormai la notte è inoltrata, perfino i grilli hanno smesso di cantare, lo stereo ha smesso di suonare, tutto tace attorno a noi, c’è silenzio, c’è pace, c’è solo il rumore dei nostri baci, delle nostre carezza, c’è solo il nostro rumore, il rumore della nostra passione, del nostro amore, c’è il rumore delle nostre mani che s’incontrano, dei nostri corpi che si uniscono, c’è il rumore dei miei sospiri, dei tuoi sorrisi, c’è quel rumore che conosciamo entrambi a menadito. E il percorso dei miei ricordi si avvicina a te passo dopo passo, ricordo dopo ricordo, in una sequenza che non smette, che culla la nostra passione, che fa da sottofondo al nostro amore, una sequenza ininterrotta, una sequenza in cui tu prendi sempre più parte, una sequenza che si avvicina inesorabilmente a te, a noi.

Mese più, mese meno, stesso anno, stessi amici, stessa musica. Siamo in un locale, seduti tutti e quattro attorno a un tavolo tondo, leggermente graffiato, con qualche macchia di caffè e l’alone di qualche bicchiere non troppo pulito, davanti a noi le nostre birre scure, le sigarette spente nel posacenere di plastica bianca, quelle appena accese che penzolano ad un angolo delle bocche dischiuse. Alessio è seduto accanto a me, il suo braccio è attorno al mio collo, la sua mano gioca con i miei ricci, le sue trecce rasta mi solleticano ogni tanto il collo e la guancia. Mi guarda Alessio, mi parla sottovoce, mi sorride con quel suo sorriso un po’ storto, sbilenco, con quei suoi occhi brillanti, socchiusi, appannati dal fumo, mi guarda e mi parla, non parlandomi di niente in realtà, mi guarda e mi sorride, e ogni tanto prende un sorso della sua birra quasi finita.

E poi c’è Luca, che guarda il palco dove stanno portando gli strumenti per l’esibizione di un nuovo gruppo, guarda il palco attento, cogliendo ogni movimento delle persone, mentre lascia che la sigaretta si bruci lentamente, mentre lascia che la cenere gli cada sulla maglietta bianca, perfettamente stirata, mentre lascia che gli occhiali gli si appannino, mentre lascia cadere ogni tanto il suo sguardo su me e Alessio, uno sguardo perplesso, che ancora non capisce del tutto. Giulio è seduto davanti a me, fuma una sigaretta dopo l’altra, fuma nervoso, inquieto, scazzato, e scazzato è anche il suo sguardo, scazzati sono i suoi movimenti agitati, scazzata è la sua gamba che trema, la sua mano che tamburella veloce sul tavolo.

Non ha senso questo ricordo, non ha scopo, non ha rumore, non ha significato, almeno non per altri all’infuori di me, apparentemente non porta a niente. Ma è lì, nella mia memoria, appena dopo il ricordo precedente e appena prima di quello che seguirà. E’ solo un altro pezzo della mia vita, un altro frammento che scivola via mentre le nostre labbra s’ incontrano, mentre i minuti e le ore passano lenti e poi veloci, mentre la mia vita si fa un po’ più vicina a te.

Ecco. Hai spento la luce, hai gettato la tua maglia in un angolo, mi hai fatto sdraiare accanto a te sul mio letto. Sai, ci sono volte in cui vorrei che il tempo si fermasse. Ci sono volte in cui vorrei restare così, fermo, accanto a te, il respiro leggermente appannato, sfumato dalla passione, i tuoi occhi fissi nei miei. Ci sono volte in cui il tempo pare fermarsi davvero, ci sono volte in cui mi pare di perdermi e di non risalire più, di non riuscire a muovermi più e a baciarti di nuovo. Come adesso. C’è lo spazio di un’ intero ricordo mentre ci guardiamo, persi nei nostri pensieri, mentre il tuo petto si alza e si abbassa lentamente, mentre i tuoi capelli ti finisco sul volto, spinti dal vento notturno che entra dalla finestra.

Un’ intero, meraviglioso ricordo.

E’ stato in quello stesso anno che ti ho visto per la prima volta. E’ stata quella sera, una banale sera di marzo, una sera come tutte le altre, passata con gli altri tre al pub, ascoltando musica, fumando e bevendo birra scura, è stato in quella sera che ti ho incontrato. Fuori fa freddo, lo ricordo bene, piove a dirotto, il vento urla contro le finestre scure del locale, mentre sul palco montano gli strumenti di un gruppo che deve suonare da qui a dieci minuti. Noi quattro ci guardiamo, con gli sguardi che s’incrociano per alcuni lunghi minuti e che paiono dire "si, un giorno saremo anche noi lì sopra", con le labbra che si muovono piano, sussurrando parole spezzate, con le sigarette che ardono, impregnandoci di fumo i capelli, i vestiti, la pelle, con le birre che finiscono in fretta, le mani che si agitano sul tavolo o sulle gambe, ci guardiamo e stiamo in silenzio, aspettiamo di sentire la musica, immaginiamo che musica sarà, se sarà migliore della nostra, uguale, peggiore, ci guardiamo e aspettiamo in religioso silenzio. Alessio esce per rollarsi una canna, Luca e Giulio vanno a prendere altre birre, e io rimango al tavolo, seduto scomposto sul divanetto a due posti, una mano che regge la birra e l’altra che arruffa nervosamente i miei stessi capelli.

E poi ti vedo. Sei sul palco, inginocchiato per collegare qualche cavo elettrico, la schiena rivolta al pubblico, in bocca una sigaretta non ancora accesa. I capelli rosso cupo, quasi porpora, ti nascondono gli occhi, i jeans scuri e strappati si tendono sulle gambe magre, le mani bianche si muovono veloci. Alessio torna a sedersi, mi rivolge qualche parola, ma io non lo ascolto. Sto guardando te, ti sto osservando, ti sto osservando così intensamente che mi stupisco che tu non te ne accorga, i miei occhi paiono non volersi muovere, non volerti abbandonare, non voler abbandonare il ragazzo più bello, o forse no, non è bello l’aggettivo che sto cercando, ma non riesco a trovarne un altro talmente sono incantato dalla tua vista, che io abbia mai visto. Tornano anche Giulio e Luca, si siedono commentando qualcosa, ma non sento neanche loro, rimango a guardare te, seguendo ogni tuo movimento. Ti alzi. Sei alto, molto magro, con i capelli lunghi fino alle spalle, mossi, stupendi. Ti guardo e non riesco a fare altro. Neanche quando iniziate a suonare,

neanche quando impugni la tua chitarra e inizi a suonare, neanche quando mi accorgo di come suoni bene, di quanta passione ci metti, ed è palese la cosa, non me ne accorgo.

Resto lì, fermo, a guardarti.

 

Ecco qui un altro capitolo, e stavolta a parlare (o meglio, a ricordare) è di nuovo Fabio. Non ho molto da dire al riguardo, tranne che questo capitolo forse è uno dei più importanti per la storia, poichè contiene alcuni ricordi che portano Fabio ad un totale cambiamente della sua vita.

E, come potete vedere, il titolo è il primo in italiano, e come tutti gli altri è il titolo di una canzone.

Lem, che dirti? Sei ancora l'unica a commentarmi! Sono onorata perchè sai quanto apprezzo i tuoi lavori e il tuo modo di scrivere, e mi fa infinitamente piacere che "Frammenti" ti piaccia...Non sapevo avessi gli esami! Spero sia andato tutto bene, specie agli orali dopo il concerto...E' stato bello? Mi sarebbe piaciuto esserci...

Comunque...No, il padre non è gay, tutt'altro! E poi mi sarebbe sembrata troppo una copia del meraviglioso TEARS...In questo capitolo puoi vedere che fine ha fatto l'altro Fabio, ma per sapere perchè il nostro Fabio se ne è andato ci vorrà ancora un pò...Beh, non so perchè Luca non mi piaccia, è una sensazione incondizionata che mi dà il suo personaggio! Beh...grazie delle tue recensioni, continua a leggermi almeno tu! Baci

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 - Goodbye blue sky ***


Capitolo 6: Goodbye blue sky

 

Quando l’ho conosciuta aveva appena vent’anni e una luce strana negli occhi.

Parevano scrutarti dentro, quegli occhi, talmente era profondo il loro sguardo.

Talmente erano belli,

di quel blu chiaro,

color del cielo.

Pareva di guardare il cielo ogni volta che il suo sguardo si posava su di me.

Aveva appena vent’anni,

ed era la donna più bella che io avessi mai incontrato.

L’ho conosciuta una sera di marzo, nel giardino di casa sua – era un incontro combinato, il nostro -

mentre il vento soffiava forte.

Le ho offerto la mia giacca,

le ho acceso una sigaretta.

Mi sono innamorato dei suoi occhi quella sera di marzo, Fabio.

Mi sono innamorato degli occhi di una ragazza che avevo visto per pochi secondi.

Mi sono innamorato di tua madre.

L’ho rivista tre sere dopo,

le ho riacceso una sigaretta,

e l’ho baciata.

Mentre la baciavo guardavo i suoi occhi, Fabio.

Guardavo i suoi occhi e mi sembrava di star guardando il cielo estivo,

di esser perso nel cielo,

abbandonato al vento e alle nuvole.

Era la prima donna che, mentre la baciavo, aveva gli occhi aperti.

Fabio, ho amato tua madre più di ogni altra cosa.

Era l’amore della mia vita,

era la mia stessa vita.

E quando, un giorno di ormai molti anni fa, me la sono vista portare via dal nulla

mi è sembrato che con lei mi portassero via anche la vita.

Forse è stata colpa mia.

Forse sono stato io che non sono stato capace di farle capire quanto l’amassi,

cosa rappresentasse per me.

I suoi occhi erano il mio cielo, Fabio.

Quando penso a lei penso ai suoi occhi,

a come erano grandi,

belli,

limpidi,

puri.

A come era bella lei quando mi guardava e sorrideva,

quando si sedeva accanto a me dandomi la mano,

e io mi perdevo nel suo sguardo.

Addio, cielo blu.

Addio.

Fabio, guarda gli occhi di tua madre.

Non trovi che siano i più belli che tu abbia mai visto?

Non trovi che siano talmente belli

da non riuscire a guardarli per più di qualche secondo

senza distogliere i tuoi?

Chissà, forse tu riesci a non distogliere i tuoi occhi.

Io no,

io non ci sono mai riuscito.

Sarà stato questo il mio errore, Fabio?

Sarà stata questa la causa del suo addio?

Il cielo era blu come i suoi occhi la mattina in cui me ne sono andato.

Ho alzato gli occhi,

e per un attimo ho creduto di star di nuovo guardando i suoi occhi.

Mi succede ancora qualche volta, sai Fabio?

Guardo il cielo,

e mi pare di perdermi nel suo sguardo.

Ora a chi rivolge i suoi occhi, eh Fabio?

Chi bacia ora con gli occhi aperti?

I tuoi occhi erano così simili ai suoi, figlio mio.

Quando mi hai guardato per la prima volta

non riuscivo a credere che mi avessero fatto un dono così bello.

Mio figlio aveva gli occhi di sua madre.

Mio figlio aveva il cielo intero nello sguardo.

Oh, Fabio, Fabio.

Mi manca tua madre.

Mi manca il suo cielo blu.

Mi manca tanto da togliermi il respiro,

da mozzarmi il fiato nei polmoni.

Non riesco a vivere senza il suo cielo.

E tu?

Tu sai di avere il cielo nei tuoi occhi?

Sai di avere il cielo di tua madre – non un cielo qualunque – in te?

Eccomi, sono qui, seduto su una sedia nel mio ufficio,

e sto piangendo.

Mi manca.

Mi manca tantissimo.

E non c’è niente che io possa fare per riaverlo.

Per riavere il mio cielo.

Il mio sguardo non si è più posato su altri occhi da quel giorno.

Ho fatto l’amore con altre donne,

ho baciato altre labbra,

ho carezzato altre teste,

ma non ho mai guardato altri occhi.

C’è la tempesta negli occhi altrui.

Io voglio il cielo estivo.

Voglio il mio cielo blu.

Addio, cielo blu.

Addio.

 

E' abbastanza facile, tutto sommato, scrivere sul padre di Fabio. Non so perchè, ma mi riesce semplice. Quindi quest'ultimo capitolo è arrivato veloce, almeno per i miei standard, anche se ci ho messo un pò a pubblicarlo perchè ho avuto altri impegni.

Lem: Alessio...Beh, diciamo che Alessio è un misto tra vari ragazzi della mia città (che però purtroppo non prendono l'autobus con me...sigh!) e il uomo ideale...Il problema è che, almeno per adesso, è solo un personaggio di questa storia! Università...Beh, scelta difficile quella...Io ho le idee piuttosto chiare, ma chissà che non le cambi tra qualche tempo...

Il rosso ti incuriosisce? Bene, mi fa piacere, quello era il mio scopo. Baci!

Babyjenks: Oh, che bello, qualcun altro che mi recensisce! Sono molto contenta che la mia storia ti piaccia, mi ci sto impegnando davvero per farla uscire bene.

Luca? Beh, non sei la prima che mi dice che Luca è adorabile, sono contenta che a voi piaccia (non è tra i miei preferiti, invece), Alessio come ho detto sopra E' realmente sexy (ho unito le parti migliori dei ragazzi più belli della città e li ho mescolati con taaanta bella immaginazione!), e il rosso...vedrete, se ne parlarà parecchio!

Grazie a tutti coloro che leggono (anche se non commentano)!

Ciocco

Ps: Il titolo è tratto dall'omonima canzone dei mitici Pink Floyd...

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 - Seventeen ***


 

 

 

Capitolo 7: Seventeen

 

La porta si è chiusa con un rumore sordo. La luce dell’alba inizia a entrare dalle finestre, ancora aperte dalla notte precedente, e colora di bianco e d’oro tutto quello che sfiora.

Sono steso a letto, le lenzuola tirate sul torace che si alza e si abbassa lentamente, riacquistando il suo ritmo regolare – un ritmo perso durante la notte, dove il respiro si è fatto più veloce, il fiato è stato mozzato più volte. Ho perso il filo dei ricordi, questa notte.

Ho perso la cognizione del tempo, dello spazio, di ogni cosa. Ma adesso che il mio respiro si è acquietato, che il mio cuore ha smesso di battere innaturalmente, che le mie mani sono ferme, e le mie labbra non incontrano più altre labbra, adesso posso chiudere di nuovo gli occhi, riportare la mia mente al passato, ai miei ricordi.

Luca è sdraiato sul mio letto, e si accende una sigaretta, passandomi poi l’accendino.

E’ strano vedere Luca fumare, nonostante ormai io ci sia più che abituato, nonostante siano anni ormai che i nostri polmoni vengono invasi dalla nicotina, dal catrame, che l’aria attorno a noi odora di fumo, che i nostri vestiti, la nostra pelle, i nostri capelli, hanno sempre quel profumo intenso, deciso, riconoscibile tra mille. E’ strano vedere me e Luca da soli, di nuovo, come un tempo, come prima di conoscere Giulio e Alessio, come prima di iniziare a suonare, come al tempo del primo giorno di scuola, della prima birra, della prima sega, come prima di scoprirmi diverso da lui ancora, in un’altra cosa.

Luca non lo sa ancora. Luca non sa che sono gay, non sa che i miei sguardi non sono per le donne, ma sono per gli uomini, per quelli come me, come lui, come Alessio.

Non lo sa, e io non so come dirglielo. Non è un problema per me, non è un problema per la mia vita, non è niente che io non sappia gestire o affrontare, non è un problema per chi, come Alessio, l’ha capito prima che lo capissi io stesso, e l’ha accettato prima di farlo accettare a me stesso. Ma per Luca? Per Luca sarà un problema sapere che il suo migliore amico è gay? Sapere che le labbra che sogna di baciare non sono quelle di una bella biondina, o della ragazza più carina del liceo, ma quelle di un ragazzo dai capelli porpora visto suonare in un locale? Sapere che potrei innamorarmi di lui, o di Alessio, oppure di Giulio, e per me non ci sarebbe niente di male? Luca mi guarda, interrogandomi con il solo sguardo, come ha sempre fatto, senza bisogno di parole, di frasi inutili, di circostanza, fastidiose e seccanti, frasi che lui non ha bisogno di usare, perché Luca mi conosce di più di ogni altro, o forse no, visto che non sa chi sia in realtà il suo migliore amico. Cerco di parlare, mettere insieme qualche frase, qualche parola più significativa delle altre, un’idea anche solo vaga di quello che voglio dirgli. Ma Luca continua a fissarmi, mi sorride incoraggiante, mi sprona ad andare avanti. E poi, ad un tratto, riesco a dirglielo.

Una sola frase, intera, dritta, diretta, mirata. Una sola frase, e Luca improvvisamente sa.

Sa, e continua a guardarmi, ma il sorriso è scomparso dalle sue labbra, i suoi occhi non sono più incoraggianti, ma privi d’espressione, il nero del suo iride ha inghiottito la pupilla, e il suo sguardo sembra un pozzo nero senza fondo. Mi alzo, gli vado vicino, ma Luca non accenna a parlare, a dare un segno di comprensione, di dire qualsiasi cosa, anche la più stupida, la più inadatta. Aspira un’ultima boccata dalla sigaretta ormai finita, lascia che il fumo esca dalla sua bocca in cerchi concentrici – un giochetto che io non ho mai saputo fare – e poi si alza e lascia la mia stanza. Luca.

Ho acceso una sigaretta, e ora la sto fumando lentamente, assaporandone tiro per tiro, lasciando che il fumo invada i miei polmoni per qualche secondo di più del solito.

Ho sempre fumato in maniera nervosa, scostante, le mie sigarette erano sempre quelle che finivano prima, quelle fumate velocemente, quelle che servivano a scaricare la tensione, il nervosismo. Poi quando ho conosciuto lui ho imparato a fumare lentamente, piano, con gusto e metodo. Le sigarette durano di più adesso. Man mano che vado avanti con gli anni tutto sembra durare di più, sembra essere diverso, acquistare esperienza, significato, passione perfino.

Maggio arriva, portando con sé i suoi odori, i suoi sapori, i suoi venti e i suoi fiori. Maggio arriva, e Luca ancora non mi parla. Mi evita, cerca di sfuggire i miei sguardi, di evitare i miei tentativi, le mie attenzioni, ogni mia parola sembra scottarlo, renderlo nervoso, irritato, arrabbiato. Mi chiedo perché. Sono seduto in giardino, accanto a me una bottiglia mezza vuota di birra, il pacchetto di sigarette dimezzato, il vento profumato di ciliegi tra i capelli, le mani a tormentarli. Sto piangendo. Dentro casa si sente la voce di mia madre che discute con suo marito, che urla, che grida, voci che salgono di volume man mano che il litigio avanza, man mano che mia madre prosegue nelle sue grida, che suo marito alza il tono, che un piatto cade della credenza, si schianta sul pavimento, e il rumore della porcellana rotta, infranta, arriva fino al giardino, e sembra quasi che si sia rotto vicino a me quel piatto. Sto piangendo, ma i capelli – ormai lunghi fino alle spalle e scuri, praticamente neri – mi coprono il viso, nascondendo le lacrime. Si sta infrangendo tutto nella mia vita, come si è appena infranto quel piatto in cucina. Mia madre sta piangendo, mentre continua a gridare contro suo marito, mentre la sua voce si alza, infrangendosi, rompendosi a metà di una frase. Le mie lacrime scendono silenziose, tanto quanto le sue sono fragorose, singhiozzanti e struggenti. Suo marito esce dalla casa, sbattendo la porta talmente forte da far temere per i suoi cardini, e lascia mia madre che piange ancora rumorosamente, esce dalla porta e mi guarda, e nei suoi non vedo rabbia, non vedo ira, vedo solo dolore.

E’ ancora colpa sua, è ancora colpa di mia madre se tutto è andato a rotoli, se la mia vita si è di nuovo catapultata nel dolore, nel pianto, se la sua vita ha visto di nuovo andare via una persona cara. E’ tutta colpa sua, e le mie lacrime scendono arrabbiate, infuriate con quella donna che piange insieme a me, separata da me da una parete e un po’ di prato verde, è colpa di mia madre, è ancora colpa sua.

A volte le lacrime arrivano così, solo pensando al passato. Arrivano, e tu devi sopportarle, trattenerle o permettergli di scenderti sulle guance, in uno sfogo che arriva dal passato, ma che brucia, brucia ancora, brucia come aveva bruciato quel giorno, quella notte, quell’anno. E’ ora di alzarsi, di vestirsi, di uscire di casa, di lasciarsi alle spalle la notte appena trascorsa e i ricordi più dolorosi. E’ ora di respirare l’aria di maggio che non è quella di quel giorno, e non le assomiglia, il suo profumo di ciliegio non è lo stesso, perché i ciliegi di qui sono diversi, e le loro foglie e i loro fiori si muovono diversamente al passare del vento. E’ ora di andare, di partire. E’ ora di muoversi.

E’ notte. E’ una notte bella, luminosa, tranquilla, con il cielo scuro privo di nuvole, con le stelle bene in evidenza, che brillano senza ostacoli, si fanno vedere, orgogliose della loro bellezza notturna e immortale. Sono sdraiato su un prato a qualche chilometro da casa mia, in cima ad una collinetta nascosta, scovata qualche anno prima insieme a Luca.

Luca. Luca non mi parla ancora, Luca ha perfino smesso di guardarmi, Luca mi vede soffrire e non dice niente, non parla, si chiude nel silenzio, abbassa lo sguardo, suona stancamente e poi se ne va, senza un saluto, senza un sorriso, senza un’occhiata.

E io sto guardando le stelle, a poche settimane di distanza dal mio diciassettesimo compleanno, a poche settimane di distanza dal secondo divorzio di mia madre, a poche settimane di distanza dal nostro primo concerto. Sono nervoso all’idea di suonare in quel locale, dove tante volte abbiamo sentito suonare altri gruppi emergenti, sono teso all’idea di impugnare la mia chitarra davanti a tutti, all’idea di cantare per un pubblico, sono agitato al pensiero che tutti possano sentirmi, vedermi, giudicarmi. Sono emozionato, perché so che su quello stesso palco dove suoneremo noi tra qualche settimana ha suonato lui. Lui.

Non l’ho più visto dopo quella sera, ma le sue labbra hanno continuato a tormentarmi in sogno, ho continuato ad immaginarmi i suoi occhi che non ho visto. E sto pensando proprio a lui mentre guardo le stelle, mentre cerco di ricordarmi le varia costellazioni, mentre penso a che ne sarà di me, a che ne sarà di me e di Luca. Sto pensando a tutto questo, quando qualcuno si avvicina a me, un’ombra scura alle mie spalle, una presenza non prevista, non richiesta. Mi giro, alzandomi sui gomiti, e dietro di me vedo Alessio che mi sorride, la sua sigaretta che arde nel buio. Mi sorride nell’oscurità della notte, Alessio, e si sdraia accanto a me, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Mi offre da fumare, e io accetto ben volentieri. E’ strano il sorriso di Alessio, diverso dal solito. Ha una pendenza strana, obliqua, quasi maliziosa, una pendenza che diventa ancora più accentuata nel momento in cui le sue mani sfiorano le mie passandomi il pacchetto di sigarette. Mi guarda dritto negli occhi Alessio, e continua a sorridermi in questa maniera strana. Steso accanto a me sull’erba Alessio mi parla a bassa voce, sussurrando le parole al mio orecchio, accostando la sua testa alla mia nell’osservare le stelle, sfiorandomi nel tirare qualche tiro alla mia sigaretta. Alessio è bellissimo questa notte. I suoi occhi brillano, il suo sorriso obliquo seduce, i suoi capelli ondeggiano al vento, la sua pelle profuma.

Alessio si alza, appoggiandosi sui gomiti, rotola sulla pancia e accosta il suo viso al mio.

Un sussurro, una carezza, una mano tra i capelli, e Alessio mi bacia. Le sue labbra si accostano alle mie, prima leggere, poi sempre più insistenti, Alessio mi accarezza il volto, lo prende tra le sue mani, mi stringe a lui, e io ricambio il bacio, ricambio la stretta, ricambio le carezze, e lascio che le sue labbra lambiscano le mie, lascio che i nostri corpi si stringano l’uno all’altro, lascio che Alessio mi baci.

Fuori brilla il sole, il vento fa muovere le foglie verdi, scombina leggermente i capelli ai passanti. Sto camminando senza una meta, mettendo solo un piedi davanti all’altro, lasciando vagare la mia mente attraverso i boulevard della città, lunghi e stretti, con gli alberi in fiore lungo i fianchi, lasciando che la musica di un violinista girovago che suona ad un angolo della strada mi segua, lasciando che i bambini mi passino accanto correndo, chiamandosi l’un l’altro con le loro voci infantili, acute, brillanti. Lasciando scorrere i pensieri ad una vecchia foto, scovata nel mezzo di un vecchio quaderno di musica.

E’ una foto che risale a quella stessa estate, a quello stesso prato. Ha i bordi consumati, ma la foto è ancora nitida, i colori abbastanza vivi, il ricordo ben vivo. E’ un’immagine di me e Alessio quella che ritrae la foto, un’immagine ravvicinata, quasi un primo piano. Siamo sdraiati su una coperta bianca, di stoffa leggera, probabilmente di cotone, circondati dal prato verde, di un verde che si fa più chiaro man mano che l’occhio si allontana da noi due, un prato che sembra volerti trascinare nella foto per quanto è incantevole, per quanto sembra fresco, riposante, di una bellezza tutta naturale.

La foto ci inquadra i volti e i mezzibusti, i volti dagli occhi socchiusi per ripararsi dal sole accecante, Alessio con una mano a riparargli gli occhi verdi – di un verde incredibilmente simile a quello del prato che ci circonda –io con la frangia sugli occhi quasi chiusi, il sole che riesce ad arrivarmi ugualmente, e mi costringe a nascondere la faccia nell’incavo del braccio di Alessio, che ne approfitta per stringermi a sé, e mi tiene lì per un bel po’. Alessio ha una maglietta che una volta doveva essere di un bel rosso scuro, ma che adesso è stinta, sgualcita, vecchissima, e indosso a lui pare perfetta, pare abbinarsi perfettamente con le sue trecce rasta biondo sporco, con il suo cerchietto di metallo all’orecchio destro, con il sorriso scanzonato e la sigaretta accesa stretta fra le dita. Io porto una maglietta nera né nuova né vecchia, non ho niente di particolare addosso, non ho la bellezza di Alessio, il suo sorriso, il suo fascino, talmente forti, talmente palesi che non riescono a non trasparire dalla foto. E intorno a noi erba, vento, sole, in una cornice paradisiaca che non fa altro che rendere quella foto ancora più bella, ancora più importante di come già non lo sia.

Sorrido mentre una signora con dei fiori – rossi, gialli, perfino blu – sottobraccio mi si avvicina e tenta di vedermene qualcuno. Sorrido alla primavera che vedo davanti a me, sorrido al vento di Parigi che mi soffia in faccia, sorrido alle ultime note strascicate del violinista girovago, sorrido al ricordo di Alessio in un altro giorno d’estate.

E’ il mio diciassettesimo compleanno. Mia madre è in vacanza, non so dove, non so con chi, non so perché, e sinceramente non mi interessa saperlo, non mi interessa sapere dove mia madre sta passando il giorno del compleanno di suo figlio, e soprattutto non mi interessa sapere con chi lo sta passando, non mi interessa nemmeno il fatto che i suoi auguri siano stati borbottati telefonicamente questo mattino, la linea interrotta a metà chiamata, una chiamata già di pochi secondi. Mi interessa molto di più il fatto che la casa sia completamente libera, completamente a disposizione mia e dei miei amici, invitati ad una mega festa di compleanno. E c’è Giulio con la sua ragazza – una moretta magrolina dall’aria molto dark – vicino alle casse di birra, che parlottano fra di loro scolandosi una birra dopo l’altra; ci sono alcuni compagni di classe seduti sul dondolo che fumano, cantando a squarciagola un alticcio "Buon compleanno"; qualche ragazza, probabilmente portata lì da Giulio e Alessio, che balla al centro del giardino sulle note dei Led Zeppelin; un paio di amiche del nostro gruppo che vagano da gruppetto a gruppetto ridendo, bevendo, fumando e divertendosi con qualche ragazzo; qualche amico di Alessio che rolla una canna sul prato sorridendo apertamente. E poi c’è il grande assente della serata, Luca, lo stesso Luca che anni prima mi aveva giurato che non sarebbe mai mancato ad un mio compleanno, qualsiasi cosa fosse successo tra noi, quel Luca che si comporta come se io non esistessi, Luca che in un minuto ha rinnegato tutti gli anni della nostra amicizia, Luca che ora non viene più neanche alle prove del gruppo, Luca che ci ha lasciato nella merda, considerando il concerto di dopodomani sera. E alla fine ci siamo noi due, seduti contro il muro sul retro della casa, in una posizione che ci permette di vedere tutti ma che non fa vedere noi. Alessio mi tiene contro il suo petto, accarezzandomi pian piano i capelli, arricciandoli con le dita, intrecciandoli e poi sciogliendoli, giocando poi con le mie mani, con una piega della mia maglietta stropicciata, piegando ogni tanto il volto per darmi un breve bacio. Alessio ha un profumo buonissimo, che sa di erba primaverile, di sabbia asciutta e di sole, profumi che forse non esistono, ma che per me sono i ricordi più belli della mia infanzia, della mia adolescenza, Alessio ha le labbra morbide, invitanti, fatte apposta per essere morse tra la fine di un bacio e l’inizio di un altro, Alessio ha gli occhi dolci e maliziosi allo stesso tempo, Alessio ha le mani forti, grandi, callose a furia di suonare il suo basso, Alessio ha tutto quello che si possa desiderare, Alessio adesso ha il mio cuore, il mio stomaco, il mio cervello. Non stiamo insieme, non dichiaratamente perlomeno, ma si vede quello che c’è tra noi, è palese, è perfettamente visibile quel filo che ci lega, ci tiene insieme, ci attira l’uno all’altro come due calamite. E con Alessio mi sento completo, mi sento io, mi sento bene, e non importa dove, non importa quando, Alessio è con me e io sono con lui. E va bene così.

Mi sono seduto su di una panchina, stanco per la lunga camminata. E’ l’ora di pranzo, i viali iniziano a spopolarsi di mamme e bambini, diretti a casa per mangiare, cucinare, e iniziano a popolarsi di adolescenti che escono dalle scuole, con le loro cartelle in spalla, i capelli al vento, alcuni belli, alcuni un po’ meno, alcuni allegri, alcuni tristi, alcuni innamorati, altri no. E mentre guardo la folla mi sovviene agli occhi l’immagine di una ragazza, bellissima, quasi perfetta. E ricordo un’altra ragazza così, talmente bella da sembrare quasi finta, talmente perfetta da sembrare innaturale, una ragazza che ha salvato me, ha salvato Luca, ha salvato noi due.

E ‘ la sera del nostro primo concerto, e il nostro tastierista ancora non si è presentato. Nelle settimane precedenti abbiamo provato a suonare senza di lui, ma si vede che non è la stessa cosa, si vede che manca qualcosa, che manca quella carica che avevamo prima, quel vigore, quell’energia, quella forza che senza di Luca non è più la stessa. E Giulio sta fumando una sigaretta dietro l’altra in quel modo nervoso in cui fuma sempre quando è preoccupato, Alessio si guarda intorno cercando di non perdere la sua proverbiale calma, e io sono appoggiato al muro, tengo gli occhi bassi, e so che se questo concerto, questo primo concerto, sarà un disastro sarà solo colpa mia, tutta colpa mia. E mancano circa dieci minuti all’inizio quando vedo entrare nel locale una ragazza. E’ meravigliosa. Non è molto magra, ha delle curve abbastanza pronunciate, i capelli lunghi, vaporosi, di un castano caldo, che le scendono lungo la schiena formando tante onde, gli occhi neri, profondi, che guardano nella mia direzione, che sembrano squadrarmi da testa a piedi, che in un minuto cercano di leggere la mia anima, la mia mente. E’ vestita semplicemente, una gonna nera, ampia, lunga fino ai piedi, una maglietta bianca, un pendente di legno ad un orecchio. Ha fascino, un fascino quasi palpabile. Entra, e dopo avermi osservato per qualche secondo si dirige verso di me. Mi rivolge la parola con naturalezza, come se ci conoscessimo da sempre, mi parla e mi racconta di Luca, del perché del suo allontanamento, del perché della sua reazione, del suo stato d’animo attuale, della sua assenza al mio compleanno. Ed è lì che capisco perché il mio miglior amico si è allontanato così da me, capisco che non è stato voluto con cattiveria, ma solo per paura. E mentre quella stupenda ragazza mi sta ancora parlando, con la coda dell’occhio vedo un volto familiare che entra nel locale, vedo il volto del mio miglior amico che mi guarda, mi guarda e mi sorride. Luca è tornato. Sale dietro il palco dove siamo radunati noi, saluta con un cenno Alessio e Giulio, sorride alla sua ragazza, e poi si rivolge a me. Restiamo qualche secondo immobili, fermi a guardarci, poi ci sorridiamo – un sorriso vero, sincero, come quelli di un tempo – e alla fine ci abbracciamo, restando stretti per qualche istante, abbracciandoci dopo esserci persi, dopo esserci ritrovati. La ragazza di Luca scende dal palco dopo aver baciato il suo ragazzo, poi noi quattro saliamo sul palco, accolti dagli applausi di un pubblico formato quasi del tutto da amici e conoscenti, applausi forse un po’ forzati, ma che fanno comunque piacere. E suoniamo, suoniamo come abbiamo suonato la prima volta, suoniamo insieme, guardandoci l’un l’altro, suoniamo come un gruppo, suoniamo perché ci piace, perché è bello, perché finalmente il mio miglior amico è di nuovo con me.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 - Welcome to my life ***


Capitolo 8: Welcome to my life

 

Quando l’ho conosciuto avevo diciotto anni e la voglia di scoprire il mondo.

Prima di allora avevo vissuto in un mondo ovattato,

protetto,

dove non poteva succedermi niente di male,

niente di sbagliato,

niente di diverso;

dove le persone erano tutte gelidamente uguali,

dove le loro espressioni erano vuote,

dove i miei sogni erano infranti con un precisione da manuale.

Poi ho conosciuto Fabio.

Lavorava nel nostro giardino

e quando vidi il suo sorriso per la prima volta mi sentii rinascere.

Era bello, Fabio.

Era bello come te, figlio mio,

ma la sua era una bellezza diversa.

La tua – come quella di tuo padre – è una bellezza fredda,

dalla classicità dei canoni,

dal rigore agghiacciante degli elementi.

La sua no.

La sua era calore,

era fuoco,

era passione.

Era diversità.

Quella diversità che cercavo da tempo,

che agognavo da anni.

Mi ha sorriso,

e io mi sono innamorata di lui.

Della sua pelle scura - color del cioccolato -

dei suoi occhi neri – profondi come la notte –

del suo sorriso – seducente come non ne avevo mai visti.

Mi ha parlato,

e io ho capito che lui era l’uomo che faceva per me.

Ci siamo baciati due giorni dopo,

nella penombra della serra,

nascosti tra le rose ei garofani,

e dopo due settimane abbiamo fatto l’amore.

Mentre lo facevamo, Fabio,

io ho capito che nella mia vita nessun altro avrebbe più saputo darmi quelle emozioni.

Lo amavo, figlio mio.

Lo amo ancora.

Quando i miei genitori scoprirono la nostra relazione,

l’inverno successivo,

la loro ira fu spettacolare.

Fabio fu cacciato dalla villa,

gli fu intimato di sparire dalla mia vita,

di non farsi rivedere mai più.

E lui, un ragazzo di vent’anni venuto dal sud,

senza famiglia,

senza amici,

senza più un lavoro,

non potè far altro che obbedire,

lasciandomi in preda alla disperazione e al dolore.

Due mesi dopo,

avvolta in dieci metri di raso bianco,

percorsi la navata centrale della cattedrale cittadina al braccio di mio padre.

Stavo andando a sposarmi.

A sposare un uomo che non amavo,

di cui non mi importava niente.

A sposare un uomo che non avrei reso felice,

che non mi avrebbe reso felice.

A sposare un uomo buono, bello, gentile.

Un uomo che non aveva il suo fuoco, che non aveva il suo sorriso.

A sposare un uomo che non era lui.

Fabio, quel giorno io sono morta.

Il mio cuore è morto quando tuo padre mi ha baciata, davanti all’altare di quella chiesa;

quando ho visto lacrime di felicità che scendevano sulle guance pallide di mia madre;

quando in lontananza,

sulla soglia della chiesa,

ho visto lui che piangeva.

Ho pianto anche io,

mentre al braccio del mio nuovo marito percorrevo al contrario la navata,

mentre la folla – un matrimonio principesco, il nostro – ci gettava del riso addosso,

mentre la mia vita mi veniva portata via.

Quando ho saputo di essere incinta,

al ritorno dal nostro viaggio di nozze – il viaggio peggiore della mia vita –

un filo sottile di speranza si accese in me.

Poteva essere di Fabio, quel figlio.

Poteva essere l’ultimo legame con lui che mi rimaneva,

il suo ultimo regalo.

Ma non fu così.

Non eri figlio di Fabio,

ma dell’uomo che mi stava aspettando in sala parto,

trepidante d’attesa,

traboccante di felicità.

Era facile voler bene a tuo padre, Fabio.

Era facile volergli bene come si vuole bene ad un fratello,

ad un caro amico,

ma amarlo per me era impossibile.

Ecco perché,

anni dopo,

la ricomparsa di Fabio segnò la fine del nostro breve matrimonio.

Era tornato l’amore della mia vita,

e io non potevo dirgli di no.

Ho rovinato tutto, Fabio,

è vero,

ma dovetti farlo per forza.

Cosa faresti se l’amore della tua vita tornasse indietro a prenderti?

Scuoteresti la testa e rimarresti con chi non ami?

Non credo Fabio, non credo.

Perdona tua madre, Fabio,

perdona me,

che non sono riuscita a dire di no all’amore.

 

Beh, che dire...La storia và avanti, anche se un pò a fatica (le vacanze estive evidentemente non so il periodo migliore per la mia ispirazione), e spero che continui a piacervi...

Un grazie a chiunque legga!

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 - With or without you ***


Capitolo 9: With or without you

Un altro tramonto arriva, così come è arrivato quello di ieri notte, e della notte prima ancora, così come arriverà quello di domani notte. Il cielo si tinge di colori sanguigni, la luce soffusa del sole morente mi cade sul viso mentre apro la porta di casa. E’ tutto uguale a come l’avevo lasciato questa mattina. Il letto sfatto, lo stereo in pausa, il posacenere pieno, il suo profumo non ancora scomparso. Mi siedo in poltrona, davanti a me c’è il tavolino basso ingombro di riviste musicali, fogli, libri, cd, vecchi quaderni.

Ne apro uno, il primo che mi trovo davanti, lo stesso che stavo osservando qualche giorno fa. E trovo un’altra foto.

Stavolta io non ci sono. Stavolta sono io che scatto la foto, stavolta i protagonisti dell’immagine sono altri. E ‘ novembre probabilmente, e noi quattro siamo fuori dal garage di casa mia, avvolti in una grigiastra luce autunnale che sembra intristire la foto. Nella foto in piedi, schierati come tanti soldati pronti all’attacco, ci sono i miei tre amici, con dei grandi sorrisi sui volti e i capelli che ondeggiano al vento. I volti stanno iniziando ad assumere fattezze più adulte, più mature, i tratti s’induriscono, assumono toni squadrati, regolari, gli sguardi sembrano più consapevoli, più pronti, più esperti, lasciano trasparire emozioni più complesse, lasciano meno spazio all’immaginazione infantile. Il primo su cui cade il mio sguardo è Giulio. Sta lì, in piedi contro la porta grigia del garage, le mani sprofondate nelle tasche dei jeans consumati – è una toppa quella che s’intravede sul ginocchio sinistro – i lunghi capelli neri legati nella sua solita coda bassa, un accenno di barba sul volto pallido, un sorriso che però non si estende agli occhi scuri, dove aleggia quella perenne aria composta, seria, sicura, che sembra non scalfirsi mai, quella compostezza di cui solo Giulio è capace, quella placida tranquillità che non lo abbandona mai, quel rigore che pare prendere fuoco solo quando Giulio siede dietro la sua batteria e inizia a suonare. Giulio in quella foto sembra – e lo era veramente – il più adulto di noi quattro, quello che sa cosa fare e quando farlo, che non si lascia sfuggire di mano niente, che ha un rimedio per tutto. Giulio che, anni dopo, mentre ci rovinavamo con le nostre stesse mani, è stato l’unico capace di riportarci alla ragione. Alla sua destra, un sorriso allegro sulle grandi labbra e un guizzo divertito negli occhi neri, c’è Luca. Luca che è tornato ad essere il mio migliore amico, Luca che ora è innamorato, e la cosa è talmente evidente che sembra urlarlo anche nella foto, sembra che la sua posa scherzosa contro la porta – le mani sulle spalle degli altri due, le gambe allargate, i piedi storti, una sigaretta spenta dietro l’orecchio destro – sembra che dica "si, sono tornato, sono ancora qui e sono pazzamente felice", Luca con il suo abbigliamento preciso, accurato, ben tenuto, che come al solito stona con il nostro sgualcito, vecchio, consunto, Luca con i capelli corti come noi non li abbiamo mai avuti, Luca con gli occhiali, il colletto della maglia ben stirato, le scarpe pulite, la faccia da bravo ragazzo. Luca che è tornato ad essere il mio migliore amico, Luca che sembra avermi accettato nella mia nuova realtà, Luca che è tornato ad essere il nostro tastierista un po’ timido, quasi imbarazzato dal rock. E infine, accanto a Luca, una gamba piegata contro il garage e le mani dietro il collo, c’è Alessio. Bello, pazzamente bello anche alla grigia luce di un triste novembre, bello da togliere il fiato, bello nella sua enorme felpa grigia – tutto è grigio in quella foto – bello nel suo sorrisetto malizioso ovviamente diretto a me, bello negli occhi verdi che fissano l’obiettivo, sprezzati, sicuri, arroganti, bello come l’assente sole di novembre. Alessio che continua con me questa pazza segreta storia di baci, di abbracci rubati, di carezze furtive, di sguardi lascivi durante le prove, di mani che s’incontrano per lasciarsi andare subito, di desideri inconfessati e passioni che si accendono. Dietro di loro il cielo grigio, le nuvole cariche di pioggia, minacciose di scaricare al più presto sulla Terra il loro pesante fardello, un albero spoglio, la porta metallizzata del garage, il prato secco.

La musica continua a uscire dallo stereo, assumendo toni bassi, tenebrosi, rochi, lamenti lontani, grigiori simili a quelli della foto. Non verrà stanotte. E’ partito un’altra volta, e Dio solo sa quando lo rivedrò di nuovo. Parte così, all’improvviso, avvertendomi con un arido messaggio in segreteria, un biglietto sul cuscino dopo una notte d’amore, un messaggio sul cellulare. Parte e mi lascia solo in questo piccolo appartamento di Parigi, a circondarmi di ricordi, di musica, di profumi e vecchi libri.

Alessio corre verso di me, corre senza preoccuparsi della gente che urta, di quelli che lo guardano stupiti, di quella vecchietta che ha appena toccato, rischiando di farla cadere. Corre come se non gli importasse altro, corre come se lo portasse il vento, corre come se lui fosse lo stesso vento. E quando arriva mi guarda senza dire una parola, mi guarda e mi bacia, incurante dei passanti, dei bigotti, dei benpensanti. Alessio mi bacia, e mi spinge in un angolo buio della strada, un vicolo pieno di rifiuti, dove si sentono i rumori dei topi e dell’acqua che scorre nelle fogne sotto di noi. Ci accasciamo per terra, Alessio che continua a baciarmi, che mi sfila la cintura dai pantaloni, che slaccia i suoi jeans e poi i miei, Alessio che mi spinge contro il muro freddo, duro, umido, Alessio che mi sussurra parole di passione all’orecchio, Alessio che mi dice di fare l’amore con lui, ora, subito, in quel vicolo sporco, freddo, angoscioso. Alessio e i suoi occhi verdi accessi di desiderio, Alessio e le sue carezze che nessun altro mi aveva mai dato, Alessio che afferra le mie mani, che accoglie i miei baci, Alessio che accarezza i miei capelli, che si lascia graffiare le spalle per il mio dolore, Alessio che mi lascia affondare le unghie nella sua carne mentre trattengo un urlo, Alessio che sfiora il mio viso con i suoi lunghi capelli. Alessio…

Fuori il sole sta tramontando. Non ho fame, non ho voglia di alzarmi e sedermi solo a quel tavolo di legno scuro, ad aspettare che lui torni, ad aspettare di rivedere il suo sorriso, i suoi occhi velati dai capelli lunghi, non voglio alzarmi da questa poltrona dove pian piano sto mettendo insieme i pezzi della mia vita. Una sigaretta accesa, una sorsata di vino rosso, ed ecco, prende forma un altro ricordo.

Solito pub, solita aria pregna di fumo, alcol, musica, soliti noi seduti attorno al solito tavolo, solito umore, solita sera, solita vita da adolescenti scazzati. Sul palco una batteria vuota, un microfono senza cantante, l’attesa del gruppo che sta per suonare. Luca tiene la mano della sua ragazza, che stasera è di una bellezza allucinante, sconvolgente, che non può far altro che rapire gli sguardi di tutto il locale, una bellezza accentuata dalla castità del suo vestito scuro, dal fascino tranquillo dei suoi occhi neri come la pece, dalla semplicità della sua pettinatura – una lunga treccia che raccogli i suoi vaporosi capelli dal colore del cioccolato – dalla morbidezza delle sue forme – altri li chiamerebbero chili di troppo - una bellezza che sminuisce quella di tutte le altre ragazze presenti nel locale, che non parole sufficienti per essere descritta, che la rende la ragazza più affascinante che io abbia mai visto. Anche Giulio è con la sua ragazza, ma non la tiene per mano, si limita a giocare con i suoi lunghi capelli neri di tanto in tanto, schioccandole un bacio ad un lato della bocca, fissandola nei suoi glaciali occhi azzurri. Tutto sembra freddo in quella ragazza, tutto sembra contrastare con la morbidezza, la dolcezza dell’altra, tutto pare rigido, dai toni oscuri, bui, che si accompagnano perfettamente a quelli di Giulio. Alessio mi tiene un braccio attorno al collo, nella solita posa che adotta quando siamo al pub, e ogni tanto mi guarda, come in attesa di una mia reazione. E’ strano Alessio, questa sera. Pare preoccupato, sembra aspettare che succeda qualcosa. Glielo leggo nello sguardo, lo vedo nei suoi occhi, lo vedo da come mi guarda, da come mi parla. Poi, ad un tratto, le luci nel locale si abbassano, e sul palco entrano tre ragazzi vestiti di scuro. Uno, il più basso, si piazza dietro la batteria, i capelli biondi a coprirgli quasi intermante il volto; un altro, dai capelli castano scuro, arruffati in tanti riccioli – quasi come i miei – entra portando in mano un basso, salutando con una mano il pubblico. E poi entra il terzo, e il mio cuore pare bloccarsi per un attimo. E’ lui. E’ quel ragazzo dai capelli color porpora, quel ragazzo che ha fatto incantare il mio sguardo e palpitare il mio cuore, che mi ha dato la conferma a quella risposta che stavo cercando, che seppur inconsapevolmente mi ha data il coraggio di accettare la mia realtà omosessuale. E’ quel ragazzo alto, magro, dalla pelle lattea e i capelli coloro fuoco, è quel ragazzo il cui fascino è quasi palpabile, tangibile nell’aria attorno a noi, che lascia a bocca aperta tutto il pub, a fissare quella meraviglia che sul palco sta afferrando la sua chitarra e avvicinarsi al microfono. E io sento il braccio che Alessio tiene attorno a me irrigidirsi, sento il suo sguardo penetrarmi, sento la preoccupazione di Alessio e la sua tensione. Ma non posso farci niente, il mio sguardo continua a dirigersi verso il palco, verso quel ragazzo che inizia a cantare, e la sua voce è bassa, roca, profonda e allo stesso tempo dolce come il miele, sento il mio cuore vibrare d’emozione, il mio desiderio farsi vivo, la mia anima spingersi verso di lui. E quasi inconsciamente sposto il braccio di Alessio e mi alzo, per dirigermi più vicino al palco, per guardarlo meglio, per studiarne i tratti, per vedere i suoi movimenti. E rimango lì, inerme, inebetito da lui, dalla sua voce, dalle sue movenze, rimango lì fino a quando il concerto non finisce, e i tre scompaiono dal palco. Quando finalmente mi volto e guardo il nostro tavolo, Alessio non c’è più. E’ sparito.

La notte è calata definitivamente su Parigi, avvolgendola con il suo manto scuro, seducente, dal fascino ammaliatore, a cui è impossibile resistere. L’ ha dipinta di luce viva, l’ha puntellata con le sue stelle, con la superficie lunare grande, tonda, spettralmente bella. La notte ha un fascino tutto particolare, che non tutti sanno amare. Io si. Io l’ho sempre saputo fare. Ho amato il fascino torbido della notte, come di tutto il resto. Ho amato le parti più oscure dei miei amanti, il loro buio, i lati oscuri e più profondi.

 

I suoi occhi mi fissano in una maniera che non avevo mai visto. Incastonati nei miei, immobili, privi d’espressione, di qualsiasi emozione. Freddi, glaciali, esattamente come è il suo volto ambrato. Poche parole, dure, aspre, come ghiaccio che ti scheggia la pelle, come pioggia che ti cade addosso, come fuoco che ti brucia, come luce che ti acceca.  Alessio è in piedi, davanti a me, e mi guarda. E mi parla. Mi parla di noi, di me, di lui, di quello che doveva essere un amore, di quella che non doveva essere solo passione, mera attrazione fisica, puro sfogo sessuale. Mi parla di quello in cui sperava per noi, mi parla di come aveva capito di amarmi, mi parla di come inconsapevolmente ero riuscito a domarlo. Mi parla Alessio, continuando a fissarmi con quei suoi occhi verde prato, che ora sono glaciali nello sguardo, sono aridi nelle emozioni. Alessio è calmo, pacato. Ma io riesco a vedere il fuoco dell’ira in lui. Ha visto il mio sguardo l’altra notte. Ha visto come stavo guardando lui, come i miei occhi si dirigevano naturalmente a cercare la sua figura, come ero rapito dai movimenti delle sue mani e delle sue gambe. Alessio ha capito che non lo amo. Alessio l’ha capito prima di me. Ero convinto di amarlo, ero convinto che fosse lui quello che stavo cercando, ero convinto che avremmo avuto altri giorni felici, altre foto, altri baci, altri pomeriggi passati a fare l’amore nascosti in giardino. Ero sicuro di me e Alessio. Ma ancora una volta lui, quello splendido ragazzo dai capelli rasta e dagli occhi verdi, ha saputo leggermi dentro prima che lo facessi io. Alessio se ne va, e i suoi occhi non accennano a perdere quell’aria glaciale che mi spaventa, mi fa rabbrividire.

 

E sebbene Alessio non faccio più parte della mia da talmente tanto tempo che non ricordo più quanto sia, sebbene stenti a ricordare la sua voce, il suo profumo, sebbene lui resti solo una parentesi della mia vita – una parentesi che ricorderò fino alla morte – sebbene ora nella mia vita ci sia lui, ripensando alla durezza del suo sguardo quella notte, al ghiaccio che mi seminò nel cuore, se ripenso a tutto quello non posso fare a meno che piegare la testa sul cuscino e lasciare che scenda una lacrima amara.

 

Alessio se ne è andato. E’ un freddo pomeriggio di gennaio, illuminato da un sole lieve, da una sottile luce giallastra, che dà fastidio agli occhi e ti costringe a tenerli socchiusi.

L’aria è gelida, ti entra nei polmoni come una lama, ti sale alla testa. E io entro nel solito garage per le prove, intimorito dal rivedere Alessio, dal rivedere quei suoi occhi così duri di qualche sera fa – non ci siamo più incontrati da allora – intimorito dal rivedere lui, così bello e col cuore spezzato da me, intimorito dalla reazione che potrei avere, che potrebbe avere. Entro e per un attimo mi pare di vederlo, lì, in piedi appoggiato al muro, il suo basso a tracolla e lo sguardo strafottente in viso. Ma Alessio non c’è. E’ solo un’illusione la mia.

Alessio non è lì. C’è Giulio seduto alla batteria, Luca dietro le tastiere, la mia chitarra appoggiata al muro, ma lui non c’è. Alessio se ne è andato, e, probabilmente, non tornerà.

 

Ogni volta che penso a quei giorni mi viene da piangere. Ricordo quel periodo come vuoto, privo di significato, pieno di sensi di colpa, degli sguardi attoniti di Giulio e Luca, del loro non capire, delle prove interrotte a metà, del suonare senza voglia, dei sabato sera solitari, tristi, bui, chiuso in camera a fumare una sigaretta dietro l’altra. Vedevo poco mia madre, non sapevo più nulla della sua vita al di fuori della nostra casa, e forse era meglio così. Ogni volta che penso a quei giorni mi dico che sarebbe potuta andare diversamente, che avrebbe potuto essere diverso, migliore.

Forse non sarebbe stato il deprimente inizio di una vorticosa discesa delle nostre vite.

 

Ci serve un bassista. Ora che Alessio se ne è andato – è ancora una ferita aperta, che brucia, che mi scotta ogni volta che penso a lui, che penso a noi – ora che il nostro bassista non è più con noi. Abbiamo appeso un annuncio alla bacheca del liceo, abbiamo sparso la voce nei pub, e adesso siamo qui, seduti nel garage ad aspettare un ragazzo, uno dei pochi che si sono mostrati interessati. La sigaretta accesa mi penzola ad un angolo della bocca, le dita tamburellano sulle gambe, i piedi battono irrequieti a terra. Sono nervoso. Chissà come sarà. Certamente non come lui, con la sua passione, con la sua bellezza, con quelle dita nervose che strimpellavano le corde del basso, con lo sguardo sicuro ogni volta che si iniziava a suonare. Certamente non avrà il suo fascino ammaliatore, quella luce strana negli occhi, quei modi così seducenti. Certamente non sarà Alessio, il mio Alessio. Mio. Chissà se lo è mai stato sul serio. Gli è bastata una mia occhiata di troppo ad un altro per farlo scappare, un momento di debolezza per allontanarlo da me. La sigaretta finisce di bruciarsi senza che io me ne accorga e io mi accorgo che no, non era una debolezza, non era uno sguardo di troppo. Ero io. Sono stato io incapace di tenerlo con me, di dimostrargli che lo amavo – ma lo amavo sul serio? o era solo l’entusiasmo del primo bacio, della prima volta, quell’innamoramento sottile e fittizio che ho scambiato per amore – incapace di vederlo come lui vedeva me, di appartenergli totalmente e incondizionatamente.  La porta metallica del garage si apre ed entra lui. E’ alto, robusto, con i capelli castani raccolti in un codino spettinato, la barba bruna, lunga e incolta, e una sciarpa multicolore al collo. Ha un’aria distratta, occhiali da intellettuale che paiono voler nascondere le profonde occhiaie nere che gli solcano il viso, dei vestiti poveri, dall’aspetto consumatissimo. Si chiama Filippo. Gli stringiamo la mano uno per volta, osservandolo attentamente, cercando di capire che tipo sia. Poi iniziamo a suonare, e Filippo è indubbiamente bravo, e il basso nero che stringe tra le mani sembra far parte di lui, della sua immagine, esattamente come quello rosso di Alessio sembrava far parte di lui, ma con Filippo l’immagine è diversa: c’è rabbia nel modo in cui stringe lo strumento, c’è dolore nel modo in cui strimpella le sue corde, c’è tutto lo scazzo di questo mondo nel suo modo di suonare, tutto quello che nei modi rilassati di Alessio non c’era, tutto quello che in Alessio era calmo in Filippo pare agitato. E’ un turbinio di note, di parole urlate sopra la musica, di canti stonati e di nuove emozioni: è la prima prova del nostro nuovo bassista.

 

Filippo probabilmente è stata la figura più controversa che abbia mai conosciuto in tutta la mia vita. Non riuscivo ad inquadrare quel ragazzo, non riuscivo a capire chi fosse, cosa pensasse. Non sapevo chi era, ed ero sicuro – oggi le mie ipotesi sono state confermate – che non lo avrei mai saputo nonostante tutto il tempo che avessi potuto trascorrere in sua compagnia. Filippo era diverso da chiunque avessi mai conosciuto.

Lunatico, poliedrico, con una tempra artistica che non si limitava solo alla musica – Filippo dipingeva, scriveva, disegnava – Filippo sapeva ammaliarti, coinvolgerti oltre ogni limite.

Si rimaneva affascinati dai suoi discorsi: sentirlo parlare era entusiasmante, qualsiasi fosse l’argomento. Ma Filippo era difficile, nel vero senso del termine: nel suo mondo fatto d’arte e sogni non c’era posto per altri. Al massimo si poteva rimanere al limite, in bilico tra la realtà e lui, in un continuo oscillare di situazioni e sentimenti, dove si capiva solo a stento quale chi lui fosse, cosa lui fosse. Questo non capire Filippo, questo essere affascinati da lui e non riuscire a entrare in contatto con il suo vero essere ben presto ci portò alla consapevolezza che l’entrata di Filippo nelle nostre vite avrebbe potuto solo complicarle ulteriormente.

 

Che dirvi...Scrivere questa storia sta diventando sempre più complicato: le idee ci sono, ma metterle in pratica è un pò più difficile del previsto...

Continuo a ringraziare chiunque legga...

Ciocco

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 - Where are you going now? ***


Capitolo 10: Where are you going now?

 

Fabio.

Ti ricordo ancora.

Ti ricordo fervidamente,

come se non fosse passata una vita intera dall’ultima volta che ci siamo visti.

Era gennaio, ricordi?

Un gennaio freddo e luminoso.

Fabio, Fabio.

Ricordo ancora i tuoi riccioli bruni arruffati

– li avevi sempre davanti agli occhi, rammenti? –

ricordo il limpido azzurro dei tuoi occhi grandi

– erano così chiari, il tuo sguardo pareva ghiaccio –

ricordo la tua figura esile, smilza,

eppure così morbida tra le mie braccia.

Dove sei adesso, Fabio?

Sei ancora in quella casa circondata da piante,

quella casa che ci ha visti crescere,

che ha visto nascere la nostra storia,

che ha visto i nostri primi sguardi,

il primo bacio.

Quella casa dove abbiamo suonato con passione,

con rabbia,

con gioia.

Quella casa dove abbiamo bevuto,

fumato,

dove abbiamo dormito stesi bocconi sul pavimento dopo una sbronza,

dove abbiamo fatto l’amore per ore e ore.

Mi manca la tua casa, sai Fabio?

La ricordo con nostalgia.

Ricordo te, con nostalgia.

Ti ho amato, ragazzino.

Ti ho amato davvero.

Ma era troppo presto per noi.

Non eri preparato ad amare, Fabietto mio,

non eri ancora pronto per tutto questo.

Era troppo presto per me.

Troppo presto per noi.

Ho preferito andare via e lasciarti solo.

Ma non ti ho dimenticato – come avrei potuto? –

Non ho dimenticato il tuo profilo scultoreo,

la perfezione dei tuoi lineamenti,

la profondità del tuo sguardo.

Sembravi così piccolo tra le mie braccia, Fabio.

Così incredibilmente innocente cos’eri.

Ah, Fabio….

Un bambino spaventato, ecco

Chissà dove sei adesso.

Chissà cosa stai facendo.

Se solo potessi scoprirlo.

Se solo potessi sbirciarti un attimo,

entrare per qualche minuto nella tua vita,

capire chi sei diventato.

Sapere se sei felice.

Cosa è successo alla tua vita dopo che ne sono uscito, Fabio?

Cosa è successo a te?

Me lo sono domandato spesso in questi anni.

Ho amato altri dopo di te, Fabio.

Ho amato uomini e donne,

bianchi e neri.

Ho amato artisti e intellettuali,

ho amato gente di strada e persone famose.

Ho amato incondizionatamente,

senza remore,

senza rimpianti,

senza paure.

Ho amato spudoratamente,

ho amato per passione e per odio,

ho amato per il semplice gusto di farlo.

E tu?

Tu hai imparato ad amare, Fabio?

 

 

Finalmente riesco ad aggiornare...

Scusate se ci ho messo così tanto, ma sono stati mesi un pò caotici...E per vari motivi personali non sono riuscita a scrivere nulla di buono (e infatti questo capitolo non è che mi vada così a genio).

Spero che vi ricordiate ancora della mia storia!

Ciocco

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