Frammenti di vita di ciocco (/viewuser.php?uid=11693)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - Behind blue eyes ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - Do you remember me? ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - Every you Every me ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - All of my love ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 - Certe notti ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 - Goodbye blue sky ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 - Seventeen ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 - Welcome to my life ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 - With or without you ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 - Where are you going now? ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 - Behind blue eyes ***
Capitolo 1: Behind blue
eyes
Il cielo di maggio mi avvolge completamente
con il suo odore tenue e la sua luce soffusa mentre sono ancora a letto,
sdraiato nell’ombra di un tramonto semi estivo a contemplare il nulla. L’odore
dei ciliegi di qualche giardino non troppo lontano mi entra nelle narici, e la
luce rossa e arancione, (e poi viola e poi bianca), che entra dalla finestra, mi
cade sul volto, costringendomi a socchiudere gli occhi.
I ricordi affollano la mia mente,
accavallandosi l’uno sull’altro in un continuo susseguirsi d’immagini scolorite
e parole dimenticate.
La prima cosa ad esser tirata fuori è una
foto.
E’ stropicciata, malandata dal tempo e dal
calore, ingiallita, sbiadita, con i contorni non più nitidi, non troppo
riconoscibili.
Io però li riconosco quei contorni, certo
che li riconosco, perché in quella foto ci sono anche io, anzi ci sono solo io
in primo piano in quella foto, e me lo ricordo fin troppo bene.
E’ sabbia quella cosa bianca che occupa
quasi tutta l’immagine, sabbia asciutta, bollente, tantissima.
E in mezzo a quella sabbia ci sono io,
sdraiato, completamente abbandonato al calore, e la sabbia mi ricopre
completamente, ed è nei miei capelli, nei miei occhi ancora innocenti, ancora di
quell’azzurro così limpido, nella mia bocca, tanto che mi sembra quasi di
risentirne il sapore.
Ho gli occhi socchiusi, e fisso la macchina
fotografica senza timore, senza riserve, quasi volendomi mostrare, dicendo "ehi,
sono qui, immortalami pure se ti fa piacere".
Non devo avere più di sette anni.
Ho i capelli ricci, biondo scuro, capelli
che vanno a inanellarsi in tanti piccoli boccoli che mi scendono leggeri, che mi
coprono la faccia, che coprono la mia espressione corrugata, che arrivano fino
alle spalle magre, facendomi assomigliare a una bambina, e lì si fermano,
ondeggiando solo al muoversi del vento estivo.
Sono solo in quella foto. Sono solo, e
sembro incredibilmente piccolo ed indifeso.
E’ indifesa la mia espressione spavalda e
accigliata, è indifesa la mia posa scomposta, con le gambe lunghe e magre
piegate in due direzioni opposte, è indifeso persino lo scenario della foto,
un’immensa distesa di sabbia bianca, e lì sullo sfondo il mare, un mare blu e
verde, un mare agitato dalle onde e dal vento.
E’ passato così tanto tempo da quando quella
foto è stata scattata che il mio volto è diventato totalmente diverso da quello
di quel bambino biondo immerso nella sabbia.
Diavolo se ne è passato di tempo. Chissà
dov’è finito quel bambino dall’espressione sfrontata e dai boccoli biondi…Mi
piacerebbe saperlo. Mi piacerebbe andare da lui e chiedergli che fine ha fatto,
dove è andato a finire, se è ancora nascosto da qualche parte dentro di
me.
Ricordi...
Scivolano su di me uno dietro l’altro,
ognuno con i suoi protagonisti, i suoi volti e i suoi odori.
Eccone un altro soffermarsi un po’ di più,
giusto il tempo di rivederlo per un momento, di riviverlo per una frazione di
secondo.
Un’immagine di pochi secondi, più un insieme
di voci, di colori, di suoni, che un ricordo vero e proprio.
E’ il mio decimo compleanno. Il giardino di
casa è affollato di persone dai vestiti leggeri e colorati, estivi, che ridono,
giocano, sovrappongono le loro voci le une alle altre.
Io sono seduto su una seggiola di legno, di
quelle basse che usa tutt’ora la mamma per il giardino, e aspetto la mia fetta
di torta con in testa un cappellino di carta rossa.
Intorno a me ci sono un mucchio di bambini
che ridono con le loro voci ancora infantili, che mi si accalcano intorno,
chiedendomi di giocare con loro.
L’aria profuma d’estate, di caldo,
d’allegria.
I fiori del giardino sprigionando la loro
piacevole fragranze, colorando lo scenario a macchie, lì bianche, lì verdi, lì
gialle.
Io sono immobile, fermo sulla seggiola, con
la faccia triste, gli occhi pieni di lacrime timorose di scendere.
Papà non è in giardino, non è alla festa.
Probabilmente è da qualche parte del mondo a stipulare qualche affare multi
milionario, circondato dai suoi efficienti collaboratori e dalle sue belle
segretarie, talmente tanto impegnato da dimenticarsi il compleanno di suo
figlio.
E le lacrime che riempiono i miei occhi, che
li inondano, minacciano inesorabilmente di scendere, di trovare spazio sulle mie
gote arrossate dal sole e illuminate dalla luce delle fiaccole del
giardino.
E ne cade prima una, la più grossa, la più
trattenuta, la più sofferta, e poi un’altra, e un'altra ancora, e via, in un
pianto quanto mai silenzioso.
Così silenzioso che non se accorge nessuno,
e le risate continuano, e anzi, paiono aumentare di volume, e moltiplicarsi, e
l’aria della sera diventa più soffocante, più calda, impregnata dall’odore dei
fiori, pressocché insostenibile.
E i capelli biondi, più scuri, più
riccioluti, mi cadono sugli occhi, bagnandosi con le mie lacrime, coprendomi il
volto, mascherando il mio pianto.
E una risata suona più alta delle altre, più
squillante, più argentina.
Ed è la risata di mia madre, mentre ride a
bocca spalancata, appoggiandosi al braccio di un uomo dai capelli scuri, e la
risata le si estende a tutto il volto, facendole socchiudere gli occhi e agitare
il corpo, e i capelli castani le cadono sul volto, esattamente come fanno i
miei, ma le vengono subito scostati da quell’uomo, quell’uomo che la sta facendo
ridere a squarciagola, e che le impedisce di vedere il mio pianto, che le
impedisce di vedere suo figlio seduto su una seggiola di paglia intrecciata che
piange miseramente nel giorno del suo compleanno.
E i miei occhi si stanno di nuovo riempiendo
di lacrime qui, nel mio letto inondato di luce e calore, con le lenzuola ancora
sfatte, lenzuola che conservano ancora il ricordo e il profumo della notte
passata e sono pronte a riceverne altro tra qualche ora.
E la mia mente continua a vagare tra i pezzi
della mia vita, e ne coglie qualcuno, ora qui ora lì, dove capita, senza alcuna
cognizione se non quella affidata alla mia mente, senza omettere niente, senza
dimenticare alcunché.
E puntuale ne arriva un altro, un po’ più
vicino e un po’ più lungo, accurato.
Ed è il mio primo giorno di scuola media che
mi si affaccia in mente, e ci rimane qual tanto che basta per farmi ricordare
tutto il resto.
E mi rivedo lì, sulla soglia della porta,
impaurito, smarrito, senza idea di cosa fare, di cosa dire, con il cervello
attanagliato dal timore, dallo smarrimento.
E vedo dei ragazzini che mi sfrecciano al
fianco, con le loro cartelle colorate dei cartoni animati, che ridono e parlano
fra di loro, già disinvolti, già capaci di muoversi in quella scuola così nuova,
così grande, così diversa. E vedo altri ragazzini, un po’ più grandi, un po’
meno vivaci e un po’ più esperti, con quell’aria così sicura che camminano per i
corridoi come se fossero di loro proprietà, e mi sento ancora più spaurito e più
insicuro, e ho voglia di prendere, voltare i piedi e tornare a casa, o ancora
meglio, alla vecchia scuola, dove il più grande ero io, dove ero io ad
intimorire i più piccoli, dove i corridoi erano miei e solo miei.
E sento qualcuno che mi spinge da dietro, ed
è un bambino più basso di me, dallo sguardo tremante quanto il mio e il sorriso
forzato.
E vedo che si sofferma per qualche secondo
accanto a me, fissando la classe ancora mezza vuota, per poi prendere coraggio e
avanzare verso un banco in seconda fila, mentre io sono ancora fermo sulla
soglia, a tormentarmi un ricciolo ribelle sceso sulla fronte
abbronzata.
E poi rivedo l’arrivo della professoressa,
che mi prende, mi chiede chi sono e cosa ci faccio sulla porta, e mi porta in
classe, e mi fa sedere allo stesso banco in seconda fila a cui è seduto il
bambino di prima, e no, sbaglio a chiamarlo bambino, perché è un ragazzino, e in
quella stanza l’unico bambino sono io.
E la lezione inizia, e la mia testa rimane
china sul banco per tutto il tempo, e io ignoro i tentativi di fare amicizia del
mio compagno di banco, e rimango immobile fino al suono della campanella, con
gli occhi chini, bassi, e una gran voglia di piangere.
E risento la voce della professoressa che
parla costante, incessante, che spiega, che illustra, che insegna, una voce
chiara, limpida, una voce simile a quella di mia madre, una voce che mi fa
venire ancora più voglia di piangere.
E anche le voci dei miei nuovi compagni di
classe sono intorno a me, una più alta ancora infantile, e una un po’ più bassa,
quasi pronta per essere cambiata, e una femminile, più morbida, più dolce, e
un’altra squillante, e una ancora fioca e debole, timida.
E loro, i miei compagni, sono tutti intorno
a me, e mi parlano e io rispondo a fatica, cercando di ricordarmi se quello alto
e magro è Giovanni e se quello basso, grassottello e dalla faccia simpatica è
Mattia, e se la bambina seduta dietro di me è Luisa o Jessica, e vedo le loro
facce una dietro l’altra, in una carrellata di figure totalmente estranee, di
figure che ormai non mi appartengono più, che ormai fanno parte del passato, e
in esso sono relegate.
E un altro ricordo, strettamente correlato a
quello precedente, mi invade la mente, e mi fa chiudere gli occhi.
Sono sempre in classe, sempre alle medie,
sempre allo stesso banco.
Sto parlando con il mio compagno di banco, e
siamo vicini, con le sedie incrociate e i quaderni davanti ai volti, le penne
impugnate, pronte per copiare gli esercizi non svolti a casa da un altro
quaderno più bravo, più preparato. E ridiamo, diavolo se ridiamo, ridiamo
complici, uniti, e ci divertiamo a copiare quei compiti non nostri, ben
consapevoli del rischio che stiamo correndo. E il mio amico ride con la bocca
aperta, mostrando i denti bianchi, regolari, e ha negli occhi scuri
un’espressione felice, la stessa che invade anche i miei occhi più chiari. E
anche le nostre teste sono vicine, talmente vicine che i nostri capelli si
confondo, e i suoi capelli neri sembrano mischiarsi ai miei più chiari e più
ricci.
E ridiamo, ridiamo, ridiamo fino a tenerci
lo stomaco.
Un’altra foto mi torna davanti agli occhi,
una foto più recente di quella di prima, dai contorni meno scoloriti e dai volti
più familiari, ma che comunque non sono quegli attuali.
Ed è una foto che risale al secondo anno di
scuola media, o almeno così mi pare di ricordare.
Ci sono ancora io in primo piano, in quella
foto, ed è ancora lontano il tempo in cui nelle foto compaiono altri senza di
me, e sono ancora lontani gli anni in cui una foto più era cara più ritraeva
altre persone.
Sono nel giardino della scuola stavolta, ed
è inverno. Lo si capisce dal fatto che l’erba è secca, asciutta, e gli alberi
sono spogli, senza foglie, e gli studenti che appaiono sullo sfondo, immortalati
senza saperlo, indossano pesanti maglioni, giacche a vento, cappelli.
Io ho circa dodici anni, e un gran sorriso
allargato sulla faccia. I capelli sempre più ricci, ormai quasi crespi, sono
diventati castani, di un castano bello, dolce, caldo, che richiama ancora dei
tratti biondi, e indosso un maglione di lana grigia, e attorno al collo ho una
sciarpa arancione, di un arancione orrendo, vistoso, aggressivo. Accanto a me,
con un braccio attorno al mio collo e una mano sollevata a scompigliarmi i
capelli, c’è Luca, il mio compagno di banco, anche lui con un gran sorriso, il
suo solito sorriso largo che mostra i denti. Gli occhi scuri, scurissimi, quasi
color pece, ammiccano divertiti al fotografo, e la sua felpa gialla e rossa fa a
pugni con la mia sciarpa arancione, mescolando nella foto una gran quantità di
colori assurdi.
E ancora una volta stiamo ridendo io e Luca,
e i colori delle nostre risate, la nostra allegria, fanno in modo di non
accorgersi dello sfondo triste, invernale, spoglio, grigio.
Ed è così che lo ricordo, Luca, ridendo,
ridendo sempre, ovunque, con quell’allegria contagiosa che ti prendeva e ti
faceva scoppiare a ridere senza motivo, senza un perché, e ti faceva dimenticare
che in quel momento eri la persona più infelice della terra, e ti trascinava, e
ti faceva venir voglia di gridare, di cantare, di buttarti per terra in mezzo
all’erba e rotolarti fino a farti male.
E la luce del tramonto se ne sta andando
dalla mia camera, e allora posso riaprire gli occhi, e socchiudere la finestra
perché l’odore di maggio inizia a scemare, e l’aria fresca della notte a salire,
e il calore del letto non è più quello di un’ora prima, e il profumo delle
lenzuola inizia a svanire, e chiede di essere rinnovato. E io mi alzo da quel
letto, sistemo le coperte come capita e infilo la prima maglia che trovo, e quel
paio di jeans che non sono ancora stati raccolti dal pavimento, e getto
un’occhiata allo specchio, e mi trovo stanco, sonnolento, completamente
distrutto.
E ci sono modi e modi per ricordare, e non
sempre serve la luce del tramonto di maggio, a volte basta anche solo una
poltrona comoda, una lattina di birra buona e un po’ di musica.
Sorrido, lasciandomi cadere sulla poltrona.
Birra.
La prima volta che l’ho assaggiata è stata
proprio in quel periodo.
Ero con Luca, sempre con Luca, inseparabili,
uniti in tutto, ed era la prima volta che uscivamo di sera, da soli. Entusiasti,
eccitati, impreparati, piccoli, ancora piccoli e inesperti. Avevamo incontrato
alcuni compagni di scuola, piccoli quanto noi, ancora più entusiasti, ancora più
inesperti di noi, e ci eravamo uniti a loro in quella prima scorribanda notturna
tra le vie delle città mai esplorate alla luce della luna.
E io me lo ricordo Luca che rideva sotto la
luce dei lampioni, mentre si decideva dove andare, cosa esplorare per primo, e
la luce gli cadeva esattamente a metà del volto, illuminandogli la pelle
ambrata, rendendola giallastra, e gli baciava le gote arrossate dal freddo, e
gli faceva splendere gli occhi ridenti. E noi eravamo lì, cinque o sei
ragazzetti alle prime armi, eccitati dall’odore della notte, dal silenzio
interrotto solo dal rombo di qualche macchina solitaria o dalla radio di un
appartamento vicino, e volevamo divertirci ad ogni costo, far in modo che quella
prima scorribanda fosse bella, magica, indimenticabile.
E allora avevamo iniziato ad entrare in
qualche bar, scegliendo accuratamente quelli che ci sembravano più alla nostra
portata, quelli dove c’era più gente non troppo maggiore di noi, quelli dove il
fumo era ristretto a poche comitive, e l’acool era disponibile e
leggero.
E siamo andati lì, al bancone, ed era la
prima volta che mi avvicinavo ad un bancone del genere in vita mia, e l’ho
subito trovata fantastica quella sensazione di star lì ad aspettare che ti
servano, che ti portino quello che tu hai espressamente chiesto, e che dopo
espressamente pagherai, possibilmente non troppo, perché cavolo, hai quasi
tredici anni e la tua paghetta settimanale ti basta a mala pena per qualche
giornaletto e un pezzo di pizza il pomeriggio, e allora sei lì, e chiedi al
barista una birra, di quelle leggere, leggerissime, di quelle che il succo di
frutta è più alcolico, o almeno lo credi tu, e il barista ti scruta, ti chiede
quanti anni hai, e si, ne hai quattordici? e forse basta la tua altezza
prematura a farglielo credere, o la voce quasi completamente cambiata, e la
birra arriva, come se arriva, e tu la guardi, e non hai mai visto niente di più
eccitante.
E quasi ci rivedo adesso, seduti in quel bar
da ragazzini con le nostre prime, meravigliose birre davanti, che le fissiamo,
increduli di esserci riusciti, e prendiamo il primo sorso e lo troviamo prima
amaro, decisamente amaro, e ci chiediamo come diavolo è possibile che una cosa
così bella come la birra, una cosa grande, come noi, perché si, dai Luca, è
vero, ormai noi siamo grandi, ci chiediamo come può far così schifo. E poi ne
prendiamo un altro, di sorso, e ci sembra meno aspro, meno spiacevole, e guarda,
sotto sotto c’è un retrogusto strano, piacevole, molto piacevole, e allora via
con il terzo sorso, e ora si, sta diventando buona, e via con il quarto, e ora è
quasi perfetta, e dopo il quinto non si capisce più niente, iniziamo a bere
attaccati alla bottiglia, incollando le labbra contro il vetro scuro, e Luca
ride, diavolo se ride, ride mentre beve la sua prima birra, e io rido con lui,
ridiamo insieme, uniti, e gli altri intorno a noi ridono insieme, e siamo belli,
siamo grandi, e l’alcol scende piano piano, e quella gradazione bassa,
bassissima, inizia a farsi sentire. E i miei capelli ricci, lunghi fino alle
orecchie mi cadono come al solito davanti alla faccia, e un paio mi finiscono in
bocca, e li sento mentre bevo la mia seconda birra, mentre inizio a sentire
caldo e Luca sembra diventare sempre più divertente, sempre più amico, e io in
quel momento gli voglio bene come non mai, e capisco che si, lui è il mio
migliore amico e lo sarà per sempre.
Luca. La metà dei miei ricordi è invasa da
Luca, la metà della mia vita è stata vissuta a stretto contatto con lui. Sempre,
sempre insieme, a scuola, a casa, per strada, al cinema, al parco, sempre uniti,
inseparabili, ed era diventato quasi mio fratello Luca, ed era come se lo fosse
sul serio. Abbiamo fatto tutte le nostre prime esperienze insieme, se c’era una
cosa nuova da provare stà sicuro che io e Luca eravamo lì, pieni d’entusiasmo e
pronti a tutto, pur di divertirci, pur di ride, pur di stare insieme.
Ed eccone un altro di ricordo legato a lui,
al mio amico, e mi fa sorridere questo ricordo, perché non lo so, ma sorrido, e
mi accorgo di mostrare anche io i denti, esattamente come faceva lui a
scuola.
Ed è durante la terza media, ed è inverno,
precisamente novembre, e noi due siamo davanti alla scuola, le cartelle non più
dei cartoni animati in spalla, e ci guardiamo, cercando di prendere una
decisione.
Luca si è alzato durante l’estate, è alto
quasi quanto me adesso, e ora porta gli occhiali, un paio di occhiali quadrati,
di quelli senza montatura, e gli danno un’aria seria, precisa, da intellettuale,
un’ aria che poco s’accorda con il perenne sorriso che gli adorna la faccia, un
sorriso che gli allarga ancora di più la bocca alla Mick Jagger, un sorriso
capace di mettere di buonumore tutti quanti. E io sono uguale all’anno passato,
sempre alto, magro, con i capelli ricci, riccissimi, che mi cadono lunghi, che
ora raggiungono quasi le spalle, raggiungendo la lunghezza degli infantili
boccoli biondi, ma ora non sono più biondi, si sono scuriti, sono castani, un
castano che probabilmente diventerà nero con il passare degli anni, e i miei
vestiti sono sempre gli stessi, e fanno a pugni con il colore di quelli di Luca,
ed è una cosa che non cambierà mai, questa.
E noi due siamo ancora lì davanti, cercando
di decidere se entrare, o se fare sega, la nostra prima sega, e dai Luca, non
entriamo, oggi quella mi interroga e giuro che se m’interroga faccio interrogare
anche te, e su, non aver paura, tanto chi vuoi che se ne accorga. E Luca mi
guarda perplesso, riluttante, forse ha paura sul serio, sua madre è severa, se
lo dovesse venir a sapere chissà che punizione da panico gli darebbe, ma io non
voglio entrare, voglio restare fuori, all’aperto, voglio andare a giocare a
pallone al parco, e dai Luca, facciamolo, oggi è il primo giorno che non piove,
guarda che sole, sta sicuro che un sole così non lo rivedremo fino a maggio, dai
Luca, facciamolo.
E alla fine lo facciamo sul serio, non
entriamo, Luca si aggiusta la sua cartella rossa sulla spalla e si fa guidare
fino al marciapiede opposto, e lì la salutiamo la scuola, ciao, oggi non vengo,
veditela da sola, e ciao prof, oggi non potrai interrogarci, noi andiamo al
parco.
E ci allontaniamo così come siamo venuti, le
cartelle ciondolanti in spalla, e un sorriso allegro c’illumina mentre alziamo
gli occhi e guardiamo il sole di novembre.
Ricordi. Ricordi che coinvolgono tutti i
sensi, la vista, il gusto, l’olfatto, l’udito, il tatto, e anche quel sesto
senso, la mente, perché è lì che sono stipati tutti quanti, sono ammassati lì,
l’uno insieme all’altro. E c’è una foto sbiadita, e il profumo di un vecchio
maglione, il gusto della prima birra, la sensazione dell’erba di aprile sulla
pelle, il suono di quella chitarra.
Ed è la mia prima chitarra quella che sta
suonando dentro la mia testa, e mi invade con le sue note più alte, e mi riporta
ancora una volta indietro nel tempo.
E’ natale, e il giardino di casa mia è pieno
di neve, e gli alberi non hanno più foglie, e il caminetto del salotto è acceso,
ed è la prima volta che viene acceso in vita mia.
C’è mia madre inginocchiata vicino al
camino, mia madre che è cambiata, è diversa adesso, è invecchiata, ed
invecchiando si è fatta ancora più bella. I capelli castani le cadono sul volto
dalla pelle bianca, oscurandole gli occhi azzurro cielo appena truccati con una
matita nera, il maglione bianco che porta le evidenzia appena le linee del
busto, e accentua il nero dei suoi pantaloni di stoffa pregiata. E accanto a lei
c’è un uomo, un uomo che ormai da molto anni vive in casa nostra, ma che no, non
è mio padre, e io quasi non so come si chiama, e no, non voglio saperlo, non mi
interessa, lui non è mio padre, non lo è e non lo sarà mai, e non mi importa di
quanti regali mi faccia, non mi interessa, non mi interessa nemmeno questo qui
che mi sta porgendo adesso, che è grande, lungo, incartato con un gran nastro
rosso e con della luccicante carta argentata.
E io lo apro tentennando, questo regalo,
perché non voglio assolutamente sentirmi in dovere di dire grazie a quell’uomo,
ma so che non appena romperò quella carta e slaccerò quel nastro dovrò farlo,
dovrò dirgli ehi, grazie amico, tu si che sei un buon padre, tu si che sei
presente, fai un sacco di regali a tuo figlio, anche se figlio tuo lui non lo è,
e sei sempre a cena la sera, e fai felice la mamma, perciò non importa di quanto
tu possa starmi antipatico o di quanto mi manchi mio padre, io dovrò dirti
grazie lo stesso, perché è così che mi hanno insegnato, e così si deve fare. E
quando finalmente riesco a togliere tutta la carta mi appare davanti agli occhi
una chitarra. Una chitarra bella, di legno chiaro, probabilmente già accordate,
già pronta per essere suonata. E il compagno di mia madre me la mette in mano, e
mi sorride, e mi dice di provarla, di toccare quelle corde, di farle suonare, e
io lo faccio, poggio le mie mani sul legno e tocco quelle corde, e il loro
suono, quella prima nota insicura che esce, mi arriva dritta al cuore e lì
rimane per qualche istante.
E i miei occhi chiari brillano, e sento che
la mia bocca si allarga in un sorriso dal sapore dolciastro, e il grazie esce
spontaneo, e mia madre sorride, stringendo il suo uomo, e io stringo tra le mani
la mia chitarra, e tocco di nuovo le sue corde, e suono un’altra nota, e non
importa quale nota sia, è la mia, sono io che l’ho suonata, e mia
rimane.
E così rimangono mie queste memorie, che
suonano alte e basse nella mia testa, tra le note di un pentagramma fatto da
reminiscenze di anni perduti.
*
Allora...Inanzitutto salve a chiunque stia
leggendo il primo capitolo di questa storia.
Mi è uscita spontanea, semplicemente
pensando a quanti ricordi serbe ognuno di noi dentro di sè, e a quanto è
difficile esprimerli in tutta la loro complessità.
So che non è un capolavoro, ma mi auguro che
a qualcuno possa piacere. Detto questo...Fatemi sapere che ne
pensate!
Ciocco
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 - Do you remember me? ***
Capitolo 2: Do you remember
me?
Te lo ricordi il mio viso,
Fabio?
Ti ricordi il colore dei miei occhi,
quello della mia pelle, quello dei miei capelli?
Ti ricordi le mie mani che ti
accarezzavano appena nato?
Ti ricordi chi sono?
Ricordi che ruolo ho nella tua
vita?
Ricordi perché sono andato
via?
Ho dovuto farlo, Fabio, ho dovuto.
Ho dovuto per una serie di ragione che
forse non ti hanno mai spiegato, e probabilmente non ti spiegheranno
mai.
Ho dovuto perché era quello che mi era
stato richiesto, e anche se tu non puoi saperlo, io faccio sempre ciò che mi si
richiede.
Chi sei, Fabio?
Chi sei diventato in tutti questi
anni?
Sei già un uomo o ancora solo un
bambino?
Come sei fatto?
Qual è il suono della tua voce,
l’espressione dei tuoi occhi, la tonalità della tua pelle?
Qual è la piega del tuo
spirito?
Vorrei tanto saperlo, Fabio.
Vorrei tanto poterti vedere, poterti
toccare, poter parlare con te.
Vorrei poter svolgere appieno quel
compito che doveva esser mio tanti anni fa.
Vorrei poterti insegnare a
parlare,
ad andare in bicicletta,
accompagnarti il tuo primo giorno di
scuola,
insegnarti a farti la barba.
Vorrei poterti vedere ridere,
piangere,
urlare,
gridare di gioia,
arrabbiarti.
Vorrei semplicemente poter vedere come
sei, come sei stato, come sarai.
Vorrei sentire la tua voce che mi
chiama,
il tuo sguardo che mi cerca,
la tua mente che mi pensa.
Vorrei te, Fabio.
Forse credi che io non mi ricordi di
te,
che io non ti abbia pensato in tutti
questi anni,
che non me ne sia mai importato nulla di
te.
Oh, Fabio, quanto ti sbagli.
Non c’è mai stato un momento in cui non
ti ho pensato,
un’ora in cui non ho pronunciato il tuo
nome,
un minuto in cui non mi sei
mancato.
Sei il mio primo pensiero la
mattina
e l’ultimo la sera.
Sei il mio costante
interrogativo,
la mia continua domanda in cerca di
risposta,
il mio invisibile punto di
approdo.
Fabio, Fabio, pensi mai a me?
Ti fai le stesse domande che mi faccio
io?
Dov’è adesso,
cosa sta facendo,
cosa sta pensando?
Non hai idea di come siano stati
difficili questi anni lontano da te, Fabio.
Non hai idea di cosa si provi restando
così lontano da chi si ama,
senza alcuna possibilità di limitare
questa distanza in qualche modo.
Non ho il tuo numero,
non ho una tua foto,
non ho una tua lettera.
Ho solo un ricordo.
Solo un ricordo che resta saldo nella
mia mente,
che non vuole andarsene,
che non se ne andrà mai.
E sei tu, Fabio.
Sei tu nella tua culla,
appena nato,
con quei tuoi incredibili occhi dal
colore del cielo spalancati,
che guardano il mondo per la prima
volta,
che si nutrono di esso,
che mi guardano,
mi fissano,
mi assaporano
e mi lacerano il cuore come la lama di
un coltello.
E mi pare quasi di vederli ancora i tuoi
occhi,
quegli occhi che non sono come i
miei,
quegli occhi che non avranno mai la
possibilità di incontrare i miei,
quegli occhi che appaiono in tutti i
miei sogni e in ogni mio incubo.
Quegli occhi sgranati,
quegli occhi che tanto agogno
quegli occhi che mai vedrò.
*
So che questa storia non riscuoterà molto successo,
ma ci terrei se, una volta letta, voi la commentaste, anche solo per farmi
sapere cos'ha che non và.
Ah, una precisazione sul capitolo precedente: il
titolo è lo stesso di una canzone degli Who, e anche se il testo della canzone
non c'entra molto, il titolo mi sembrava perfetto...
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 - Every you Every me ***
Capitolo 3: Every you
Every me
E la notte di maggio ormai è calata
sulla mia casa, e ha portato con sé altri ricordi, altre sensazioni di quel
tempo andato, altri odori che hanno attraversato la mia vita, altri sapori che
ho sentito in bocca, altre pelli che ho toccato, altre note che hanno
risuonato.
E finisco la mia birra, e la butto,
così come butto me stesso in quell’oceano di rammenti nostalgici.
Una leggera brezza entra dalla
finestra aperta, e porta con sé sempre lo stesso profumo di ciliegi e roseti in
fiore, e che presto si andranno a confondere nelle mie narici con il profumo
della pelle, del sudore, della passione.
E questo vento leggero che mi
accarezza me ne fa ricordare un altro, di vento, un vento che non sapeva di
fiori, che era il vento del mare, ed era forte, era rumoroso, era
caldo.
Ed eccomi lì, su quella spiaggia
dimenticata dove ho passato tutte le estati della mia infanzia e della mia prima
giovinezza.
Ho un anno di più dal mio ultimo
ricordo e la scuola media è stata appena conclusa.
Il mio volto sta cambiando, inizia a
farsi più marcato, i tratti infantili vanno pian piano scomparendo,
assottigliandosi, gli occhi iniziano ad avere un’espressione diversa, i capelli
più scuri, più ricci, più lunghi, più arruffati, il corpo resta sempre magro,
dai muscoli poco accennati, poco sfruttati, e sono alto, e il pantalone nero che
porto pare scivolarmi dalla vita, e allora io stringo la cintura, e la copro con
quella maglia grigia che sembra esser passata attraverso un cespuglio di rovi
per quanto è rovinata.
E’ mattina, ma il cielo è grigio,
scuro, oppresso da nubi cariche di pioggia, e il mare è in tempesta, le onde
alte, il vento forte, l’aria afosa. E io sono seduto sulla sabbia appena
bagnata, e sono solo, sto contemplando il mare in burrasca, e non sto pensando a
niente, la mia mente è vuota, riempita solo dal rumore delle onde che si
confonde con quello del vento. E a un tratto sento dei passi al mio fianco, e
una figura che si avvicina a me, ed è una ragazza quella che si siede affianco a
me, in un silenzio dalle sembianze fittizie, rotto dallo stridio dei gabbiani.
E’ bella. Ha una bellezza semplice,
delicata, quasi infantile. I capelli biondi le cadono sulle spalle come una
cascata in movimento, e ondeggiano al vento, finendole davanti al volto dai
tratti angelici, fini, morbidi. Ha gli occhi chiari, di un colore che sembra
riprodurre esattamente quello del mare che ho davanti. Un colore che và dal blu
al verde, al grigio, all’azzurro più chiaro, al viola. E ha un corpo da ninfa,
esile, sottile, dalle curve poco accennate, e la sua pelle è bianca, e le labbra
sembrano fatte da petali di rosa.
E mi guarda, mi guarda fissandomi
negli occhi e non dicendo nulla, lasciando che sia il mare, che sia il vento a
parlare per lei. E mi prende una mano, e la stringe nella sua, più piccola, più
liscia, più bianca, e continua a guardarmi, e io sembro perdermi nei suoi occhi
color del mare, e non capisco cosa voglia da me, perché questa ninfa marina mi
stia stringendo la mano e mi stia fissando. E poi lei si avvicina ancora di più
a me, e i suoi occhi sembrano liquefarsi nei miei, e sento il suo respiro che mi
accarezza la pelle del volto, e i suoi capelli che mi sfiorano, mossi dal vento,
e le sue labbra si avvicinano alle mie, e premono contro le mie, le sfiorano, le
mordono, le accarezzano.
E io mi lascio guidare da lei, in
balia completa delle sue azioni, dei suoi movimenti, e non capisco nulla, lascio
che le sue labbra bacino le mie, e la sua lingua cerchi la mia, e la trovi, e ci
giochi in un bacio che non ha nulla di reale, in un bacio che sembra
accompagnare i movimenti delle onde e lo strepito del vento, in un bacio che non
è mio, non è voluto, non è desiderato, in un bacio che di mio non ha proprio
nulla. E non basta che la ragazza che mi stia baciando sia la creatura più bella
che io abbia mai visto, questo non basta, e non basta il colore dei suoi occhi,
la bellezza dei suoi capelli, la morbidezza delle sue labbra, il candore della
sua pelle, non basta l’innocente sensualità del suo corpo, non basta niente di
tutto questo. E io mi stacco da lei dopo qualche attimo, e la guardo senza
un’espressione precisa sul volto, e lei pare stupita, ha le labbra rosse, umide,
e lo sguardo perplesso. E io corro via, corro lontano da lei, da quella ninfa
che mi ha appena baciato, corro lontano da quella spiaggia che all’improvviso mi
pare stretta, strana, dalle fattezze irreali.
Strano come un episodio del genere
possa esser ricordato in una maniera tutt’altro che positiva. E’ strano, come
sono strani quasi tutti i miei ricordi. Sono strani quasi quanto queste chitarre
stonante che lo stereo fa riecheggiare per tutta la casa, chitarre stonate come
lo era la mia un tempo, chitarre distorte, rabbiose, aggressive.
Chitarre che paiono urlare fuori
tempo, che sembrano gridare nel buio esattamente come stanno facendo adesso,
chitarre che vanno a tempo con i miei ricordi storti e strani, chitarre che mi
fanno ricordare di tutto e mi fanno scordare ogni cosa.
Come quella notte. E’ settembre, il
mio ultimo settembre da ragazzino delle medie, il settembre che vedrà l’inizio
del mio primo anno di liceo, il mio primo anno da ragazzo.
L’aria odora ancora di sole e
salsedine, tra i capelli c’è ancora sabbia, il sole si ostina a non voler
tramontare e la musica risuona fino a tardi nelle case, dagli sterei dei ragazzi
seduti a un falò sulla spiaggia. E’ settembre, e io sono a letto, fermo,
immobile, ascoltando il cicaleccio dei grilli che si confonde col rumore del mio
respiro, che a sua volta si mescola con il suono distorto della chitarra di Jimi
Hendrix che suona nel mio stereo e che pare andare a tempo con i miei pensieri,
altrettanto distorti, altrettanto urlati, altrettanto violenti.
Non so a cosa penso, la sequenza dei
miei pensieri è troppo sconclusionata per capirci qualcosa, per cavare alcunché
di buono, alcunché di utile, qualsiasi cosa che possa servire a capire il perché
del mio umore, il perché della mia ansia, la risposta alle domande che mi
frullano in testa. E la chitarra smette di suonare per un attimo, lasciando il
posto alla batteria, ed è allora che mi viene in mente la risposta. E’ allora
che capisco cosa sto cercando, cosa sto agognando, cosa mi farebbe star bene.
Mio padre.
E’ a lui che sto pensando, e mi
accorgo che per la prima volta da anni non c’è odio in me, non c’è rabbia, non
c’è dolore, non c’è rimpianto. C’è solo tristezza. Tristezza di non avere un
padre accanto a me, di non poter vedere i suoi occhi o udire la sua voce, di non
potergli dare fraternamente la mano come Luca la dà a suo padre quando questi
ritorna dal lavoro, la tristezza di non poter litigare con lui per il volume
troppo alto, per il poco studio, per il poco sport praticato, la tristezza di
non poter vedere insieme la partita di calcio alla domenica, il calcio che a me
neanche piace, che non mi interessa, ma che vorrei poter guardare insieme a lui,
magari sgolandoci per la nostra squadra, facendo il tifo insieme. Ed è quella la
sensazione che ho in quella notte di fine estate, mentre la canzone cambia e ne
arriva una più veloce, più ritmata, una che non sta troppo bene con il mio
umore. E così cambia il tempo, e all’improvviso non mi piace più l’odore della
salsedine, il canto dei grilli notturni, le stelle luminose, ma vorrei le
nuvole, la pioggia, il vento, perché è così che mi sento io dentro, così che
sento la tempesta.
Il campanello suona, interrompendo il
mio ricordo con il suo suono stonato e sgradevole, e mi costringe ad alzarmi.
Apro la porta, sorridendo per un attimo, sapendo già chi sta suonando, chi è lì
fuori ad aspettare che io gli apra. E quando la apro, quella porta, il mio
sorriso non si spegne, ma anzi, diventa più largo, più vero, addirittura più
bello. Perché lì, dietro la porta, c’è lui, c’è lui che mi guarda e mi sorride a
sua volta e il suo sorriso è diecimila volte più bello del mio, e i suoi occhi
paiono illuminare tutta la stanza con quel loro sguardo profondo, con quella
luce così diversa, così affascinante, così misteriosa, quella luce che pare
avvolgere tutta la sua persona, che pare accompagnare ogni suo passo, che pare
infondersi in ogni sua parola, in ogni suo gesto. E, Dio mio, non riesco ancora
a capire come io possa restare qui immobile davanti a lui senza parlare, senza
muovere un solo muscolo, fermo a guardarlo, fermo a guardare colui che mi ha
fatto scoprire la vita e la morte con un solo sguardo, che mi ha fatto salire in
paradiso e discendere all’inferno con una sola carezza, che mi ha reso immortale
e cadavere con il solo tocco delle sue labbra.
Quanto tempo è passato dalla prima
volta. Quanto tempo.
Piove. E’ il mio primo giorno di liceo
e piove, piove a dirotto, piove in una maniera incessante, continua, violenta.
Non c’è freddo, non c’è vento, non c’è rumore, c’è solo pioggia che scende dal
cielo e cade su di me, e mi bagna, mi penetra fino alle ossa, mi inzuppa, mi
impregna, bagna le mie scarpe, i miei pantaloni stretti e sdrucii, i miei
capelli coperti dal cappuccio della felpa nera, pioggia che cade ovunque, che
lava ogni cosa, che batte contro i vetri delle finestre, contro le portiere
delle macchine, contro la stoffa degli ombrelli. E io vado avanti,cammino sotto
la pioggia senza alcun riparo che non sia la mia felpa leggera, e sono a pochi
metri dalla scuola, dal liceo, e vedo Luca che arriva in lontananza, che mi
vede, che si sbraccia per farsi vedere a sua volta, che mi sorride, che urla il
mio nome. Luca. Mi strappa un sorriso constatare che ancora una volta sembra che
i nostri vestiti facciano a cazzotti, che i miei siano l’opposto dei suoi, che
le mie Converse inzuppate, sporche, nere, siano l’esatto contrario delle sue
scarpe da ginnastica bianche, pulite, nuove di zecca, che la mia felpa nera sia
l’ opposto della sua t-shirt arancio brillante, che i miei jeans stretti, neri,
siano la perfetta antitesi dei suoi larghi, blu, vagamente sformati, che i
nostri volti siano così diversi, nonostante tutti gli anni passati insieme, che
i nostri occhi siano specchi dai colori opposti, che perfino i nostri sorrisi
parlino così diversamente. Ed è un abbraccio la prima cosa che mi dà Luca appena
arriva abbastanza vicino a me, un abbraccio forte, sincero, che parla di
un’estate di lontananza, di avventure non vissute insieme, di voglia di parlare,
di raccontare, di spiegare, di narrare.
E poco ci importa della pioggia che
cade sulle nostre teste, che ci bagna sempre di più, che macchia le scarpe
immacolate di Luca e increspa ancora di più i miei capelli.
E parlando con dei grossi sorrisi
stampati in faccia, parlando accalorati, vivaci, felici di esserci ritrovati,
parlando così, entriamo a scuola quasi senza accorgercene, camminiamo per i
corridoi senza una meta precisa, ci dirigiamo verso una classe che non sappiamo
dove sia e non ce ne importa nemmeno, e parliamo, parliamo, ridiamo e
scherziamo, come se questi mesi di distanza non si siano ridotti ad altro che a
pochi giorni.
E ci ritroviamo in classe quasi per
caso, senza sapere bene come ci siamo finiti, e ci sediamo ad un banco vicino
alla finestra, in modo che si possa guardare fuori durante i momenti di noia,
momenti che si sa, sono parecchi, momenti che hai bisogno di guardare fuori, di
respirare aria e osservare le macchine che sfrecciano sotto di te, i passanti,
le mamme che portano a passeggio i bambini, le donne che escono dai negozi
all’ora di pranzo, gli impiegati che si affrettano ad andare in ufficio. Ci
sediamo lì e continuiamo a parlare sorridendo, e Luca è sempre lo stesso, sempre
con quel sorriso felice sul volto, quel sorriso che è uno dei miei più cari
ricordi, quel sorriso che solo ripensandoci mi mette di buon umore. Perché
questo faceva Luca, questo era Luca: era buon umore, era allegria, era felicità,
era gioia, era riso, riso che partiva dal cuore e prorompeva in gola, riso che
era impossibile trattenere, che stessi facendo matematica in classe o
passeggiando al parco, dovevi ridere, ridere, ridere e non smettere più. Luca.
E ci sei tu qui, davanti a me, seduto
su una poltrona foderata di rosso con una gamba ripiegata sotto di te e l’altra
penzoloni, e mi stai guardando sorridendo, un sorriso che non accenna a
scomparire dal tuo volto, un sorriso obliquo, un sorriso malizioso, un sorriso
che so perfettamente cosa voglia dire. E so cosa succederà tra poco, appena
poserai la tua birra e ti avvicinerai a me, lo so perché è successo già
centinaia di volte, e spero che succederà ancora altre cento, e poi altre mille,
e poi ancora cento, e poi ancora mille, e comunque non saranno mai abbastanza,*
perché io non ne avrò mai a sufficienza di te, perché io non mi stancherò mai di
vederti sorridere così, con quelle tue labbra rosse, gonfie, che è un piacere
mordere ancora e poi ancora, che è un piacere baciare, leccare, succhiare, quasi
fino a vederle insanguinate, rotte. E io non mi stancherò mai di vederti
ondeggiare leggermente verso di me, i capelli lunghi che ti coprono gli occhi,
che non lasciano intravedere quell’espressione che io conosco a menadito, non
lasciano vedere quegli occhi che sono il mio incubo e il mio sogno, quegli occhi
che popolano le mie notti e i miei giorni, non mi stancherò di vederti
avvicinare a me, di concedermi pian piano quella vicinanza che tanto bramo, non
mi stancherò dei tuoi jeans strappati che ti coprono le gambe lunghe e magre,
non mi stancherò del tuo giubbotto di pelle buttato in un angolo, non mi
stancherò del tuo odore, quell’odore così particolare, quell’odore che è tuo,
solo tuo, fatto di pelle, di fumo di sigaretta, di alcol, quell’odore che si
mescola al mio, che si ogni volta si fonde e crea lo stesso aroma inebriante.
Siamo ragazzi ormai. Siamo cresciuti,
siamo cambiati, siamo liceali insicuri e fragili, ma ormai siamo ragazzi. Ed è
in quella sera che me accorgo, in quella sera così speciale, in quella sera che
poi segnerà la mia vita, la mia intera esistenza, che sarà la sostanza stessa
della mia esistenza.
La prima prova del nostro gruppo.
Siamo nel mio garage, siamo quattro ragazzi con i loro strumenti in mano,
quattro ragazzi che per la prima volta provano a suonare insieme, provano a
riversare in una sola cosa tutte le loro emozioni, la loro rabbia, la loro
gioia, il loro riso, le loro grida. E c’è Luca che fa scorrere le mani eleganti
lungo la tastiera, mani esercitate da tanti anni di pianoforte obbligato, mani
abituate a Mozart che ora provano a suonare il rock, mani che scorrono veloci
quanto le emozioni del loro proprietario che sembra il meno adatto a quel
garage, sembra il più spaesato, il più distante da quello che sta succedendo lì
dentro. E c’è Giulio seduto dietro la sua batteria, portata lì qualche ora prima
con sudore e fatica, Giulio che è alto, robusto, Giulio che ascolta il metal,
Giulio che fuma, Giulio che ha lunghi capelli neri lisci, liscissimi, che gli
cadono dietro la schiena, raccolti in una bassa coda di cavallo, Giulio che è
diverso, Giulio che ha dieci in matematica e tre in latino, Giulio che è sempre
serio, Giulio che non ride mai, Giulio che ha una ragazza di cui non sappiamo il
nome ma che abbiamo visto diverse volte abbracciata a lui nei corridoi della
scuola, nascosti dietro una colonna a baciarsi, Giulio.
E poi lì, appoggiato al muro consumato
dall’umidità e dal tempo, c’è Alessio, il basso in mano, gli occhi bassi, le
lunghe trecce rasta che gli sfiorano il volto, il labbro superiore che gioca con
il piercing di quello inferiore, Alessio che ha già suonato con altri gruppi in
passato, Alessio che è bello, bellissimo, Alessio che fa girare tutti quando
passa per i corridoi, Alessio che non studia, non vuole studiare, che vuole solo
suonare, suonare e suonare per tutto il giorno, Alessio che si fa le canne a
scuola nascosto nel cortile durante l’ora di educazione fisica, Alessio che alla
sua giovane età, solo sedici anni, sedici miseri anni, ha già girato il mondo,
Alessio che vuole vivere in Irlanda, Alessio che suona come un Dio, Alessio che
non si è nemmeno fatto pregare per entrare nel gruppo. E io sono lì, davanti
alla batteria, mentre collego gli ultimi fili all’amplificatore, mentre decido
cosa suonare, come comportarmi con gli altri, perché io sono una specie di
leader in quel gruppo, sono io che l’ho messo su, sono io che ci metterò l’anima
per portarlo avanti, sono io che darò sangue, sudore, voce e mani per quel
gruppo. E mi rialzo, afferro la mia chitarra e guardo Alessio che mi sorride,
Alessio che mi vuole mettere alla prova, che vuole vedere quanto io sia pronto,
quanto sia bravo, che vuole ascoltarmi cantare con tutte le mie forze, che vuole
vedermi suonare come non ho mai suonato prima. E faccio un cenno agli altri,
accenno alla canzone, e guardo per l’ultima volta Alessio, e poi inizio a
suonare, e la mia voce parte piano, sussurrandola quasi quella canzone, e poi
aumenta di volume, e poi scende di nuovo, e la batteria di Giulio mi accompagna,
mi dà il ritmo, e il basso di Alessio è come un martello nelle orecchie, e siamo
fuori tempo, siamo poco pratici, poco esperti, ma quella canzone pare uscire
perfetta, pare esser stata scritta apposta per noi, per essere suonata da noi,
urlata da noi, e vedo Luca con la coda dell’occhio che ci segue arrancando con
le dita sulla tastiera, che non ha il nostro stesso ritmo, la nostra stessa
carica, ma che la acquisterà, dovessi suonare e cantare con lui giorno e notte,
ma sarà pronto anche lui, saremo pronti tutti, saremo perfetti.
Ti pieghi su di me, come hai fatto
mille altre volte, e i tuoi capelli mi sfiorano il volto, il tuo profumo mi
invade le narici, sento il tuo respiro caldo sulla mia guancia, vedo i tuoi
occhi che fissano i miei e non osano lasciarli. Le tue mani salgono, si posano
sotto la mia maglietta e un brivido mi corre lungo la spina dorsale. E’
meraviglioso che dopo così tanti anni, così tante notti, le tue mani riescano
ancora a farmi rabbrividire solo con il loro contatto sulla mia pelle. E quando
le tue labbra si poggiano sulle mie, e sento il tuo sapore mescolarsi con il
mio, sento la tua lingua che cerca la mia, che ci gioca, come succede ogni
notte, come succede in ogni mio sogno, la mia mente vola oltre le pareti di
questa stanza, torna a molti anni fa, torna a percorrere quella vita che mi ha
portato fin qui, fin da te, fino a questo divano dove mi stai
baciando.
Foto. E’ una foto del mio primo
concerto quella che mi torna davanti agli occhi. Ho circa sedici anni, una
maglietta nera che pare incollata al mio torace per quanto è sudata, un sorriso
estatico sul volto. E’ il 1989, sono a Venezia, e sul palco davanti a me, su
quel palco memorabile, ci sono loro. I Pink Floyd. Sono lì, sono davanti a me,
sono su quel parco con le loro chitarre, con la loro musica, quella loro musica
incredibile, allucinante, completamente fuori dagli schemi, quella musica che mi
fa accelerare il battito cardiaco, che mi fa uscire dal mondo, che mi lancia in
una situazione psichedelica, di estasi completa, dove il delirio è normale, dove
non c’è più tempo, non c’è più spazio, c’è solo musica, e io sono lì, faccio
parte di quella musica, sono in mezzo a quelle tremila persone che sono ferme, a
bocca aperta, incapaci di muoversi, di parlare, di reagire a quella cosa
meravigliosa che sta avvenendo proprio su quel palco davanti a noi. E in quella
foto la mia faccia è esattamente quella di una persona estasiata, una persona
che ha l’impressione di non trovarsi più semplicemente a un concerto rock, ma in
un altro mondo, un mondo che ha sempre sognato, un mondo fatto di luci e di
colori, di note, di suoni, dei rintocchi della batteria e le profondità del
basso, un mondo dove si vive, dove si respira, un mondo che fino ad allora non
avevo mai visto.
* Non ho potuto fare a meno di
riprendere una citazione qui, mi dispiace. A chi interessasse si tratta di
Catullo, e più esattamente del Carmen V. Perdonate questo piccolo riferimento,
ma ci stava meravigliosamente.
Beh, che dire. Come avete notato si
tratta di un capitolo piuttosto importante per lo sviluppo della vicenda.
Vengono introdotti nuovi personaggi, anche se di qualcuno non sappiamo il nome,
e succedono cose che porteranno ad delle inevitabili conseguenza.
Il titolo è una canzone dei Placebo
(scusa se l'ho usato anche io dopo di te, Lem, ma era quello che ci voleva) e
come potete vedere ci sono riferimenti al rock e ai suoi personaggi più
importanti sparsi un pò ovunque.
Nonostante la povertà di commenti
spero che a qualcuno piaccia questa storia (se vi piace, vi prego, ditemelo, che
sto cominciando ad avere il blocco dello scrittorre!)
E, passando all'unica anima pia che ha
commentato questo delirio...
Lem: Oddio, addirittura un incrocio tra Virginia Woolf e James Joyce?!? Beh,
mi sento persino imbarazzata solo a pronunciare i nome di due geni del genere
nella stessa frase dove c'è il mio... Onestamente non ho mai letto qualcosa
della Woolf, ma provvederò al più presto, e per quanto riguarda Joyce...Ammetto
che l'uso del flusso di coscienza è tutta opera sua (adoro Joyce), è uno stile
che sento particolarmente affine. Per quanto riguarda le tue ipotesi ti dico
solo che si, hai ben capito di chi si trattava nel capitolo antecedente, e che
si, potresti fare la detective! Per sapere chi sia il "consumatore" del yaoi
dovrai aspettare un pò, però! XD
Spero che questo capitolo sia stato
all'altezza delle tue aspettative!
Per tutti gli altri che leggono grazie
lo stesso, e ricordate i commenti (positivi e non) sono sempre bene
accetti!!
Ciocco
|
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 - All of my love ***
Capitolo 4: All of my
love
Fabio.
Fabio, Fabio, Fabio.
Da quanto tempo non ti chiamo più per
nome?
Da quanto tempo non ho più occasione di
sentirlo, il tuo nome, che sia invocato da me o da altri?
Fabio.
Sai chi era Fabio, figlio mio?
Sai perché porti questo nome?
Fabio era lui.
Fabio era quel lui che non ho mai
dimenticato,
quel lui che è sempre stato presente
nella mia mente,
quel lui che è stato il
primo,
e sarà l’ultimo.
Quel lui che non era tuo
padre,
non era il tuo patrigno,
non era niente per te,
e tutto per me.
Fabio.
Ti ho mai raccontato, figlio
mio,
chi fosse costui?
Ti ho mai raccontato cosa fosse per
me?
Non credo.
Non ne ho mai avuto la forza.
Non ho avuto la forza di svegliarti una
mattina
e dirti che se tuo padre se ne era
andato era per colpa mia.
Non ho avuto il coraggio di sedermi
accanto a te e di dirti il perché di quello che stava succedendo.
Non ce l’ho fatta.
Perdonami Fabio, perdonami figlio mio.
Sono solo una donna che ha
sbagliato,
che ha sbagliato tutto nella sua
vita,
la cui intera vita è stata
errata,
inesatta,
distorta.
Lui era diverso.
Lui aveva saputo vedere la mia luce e il
mio buio come nessun altro aveva fatto,
lui aveva saputo toccare la mia pelle
esattamente come era stato scritto che dovesse esser toccata,
lui aveva saputo baciarmi come dovevo
essere baciata,
lui aveva saputo parlarmi come doveva
essere.
Lui era il mio tutto,
il mio niente,
la mia luce,
il mio buio,
la mia vita
e la mia morte.
E tu, Fabio, sei esattamente la stessa
cosa.
Hai saputo essere esattamente come
l’uomo di cui porti inconsapevolmente il nome.
Ricordo il giorno in cui te ne sei
andato.
Il giorno in cui hai varcato la soglia
di questa casa senza guardare indietro,
senza una parola,
senza uno sguardo.
Il giorno in cui hai varcato questa
soglia per sempre.
L’ultimo giorno in cui ti ho
visto.
Fabio, perdonami.
Perdona questa donna,
colpevole solo di averti amato troppo
silenziosamente,
un silenzio che doveva compensare l’urlo
dell’amore con il quale avevo amato il tuo omonimo,
quell’amore da capogiro,
da incubo,
da sogno.
Quell’amore che è stato la mia
rovina,
la tua rovina,
la nostra rovina.
Fabio, hai mai amato qualcuno a tal
punto da esser pronto a lasciare tutto per lui?
Hai mai amato qualcuno tanto da esser
disposto a uccidere per lui,
a rubare per lui,
a mentire,
a scappare,
a morire?
Io si Fabio, io ho amato qualcuno
così.
E quando sei nato tu,
quando ho visto per la prima volta in
tuo viso pallido,
i tuoi occhi azzurri così simili ai
miei,
i tuoi capelli biondi che di mio non
avevano nulla,
e non avevano nulla neanche di
suo,
mi sono sentita persa.
Volevo che fossi figlio suo,
Fabio.
Volevo che i tuoi capelli fossero neri,
che i tuoi occhi fossero
scuri,
che la tua pelle non fosse color
latte,
ma color cioccolata,
volevo che fossi suo.
Volevo che fossi figlio mio e di
Fabio.
Ma non è stato così.
I tuoi capelli erano biondi,
come biondi erano quelli di tuo
padre,
la tua pelle era latte,
come la sua.
Solo i tuoi occhi erano miei,
e potevo fingere che fossero anche un
po’ suoi.
Perché io ero sua, Fabio.
Io sono ancora sua.
Io sarò sempre sua.
Beh...che dire? Altro capitolo d'intermezzo, e
stavolta è ancora più semplice capire chi sta parlando.
Vedo che questa storia non piace molto, le letture
diminuiscono di capitolo in capitolo, ma io continuerò a postare, perchè mi sto
impegnando per scriverla e mi piace come esce fuori, anche se non và sempre come
avevo deciso che andasse.
Comunque, rispondo di nuovo alla mitica Lem, l'unica
che mi commenta e a cui pare piaccia quest'"opera"!
Lem: Tifi per
Luca? Mi fa piacere, anche se Luca non mi piace granchè come personaggio...Mi
spiego, mi è uscito fuori esattamente come volevo che uscisse, ma diciamo che
preferisco altri! In quanto ai bassisti con i rasta e il piercing...ammetto che
il tuo Jake mi piace così tanto che mi ci sono ispirata, anche se Alessio è
alquanto diverso...E poi lo sai che questa passione è pienamente condivisa da
me! (PIENAMENTE) Spero che ti piaccia anche questo intermezzo, anche se qui non
c'è traccia né di rock, né di yaoi, né dei nostri giovincelli...I Placebo dal
vivo? Mi piacerebbe, ma Brescia è un pò lontanuccia, e il 30 giugno non posso
proprio essere da quelle parti! Beh...Un bacione, bella!
In quanto a chi legge...Ditemi cosa ne pensate, che
cerco di capire cosa aggiustare e dove posso aver sbagliato...
Un saluto a tutti!
Ciocco
Ps: il titolo è preso dall'omonima canzone dei Led
Zeppelin, dedicata anch'essa a un figlio...
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 - Certe notti ***
Capitolo 5: Certe
notti
Ci sono ricordi che fanno più male
che bene, ricordi che si bloccano nel tuo cervello, che lo trapanano piano
piano, che lo assoggettano al loro potere inconscio, ricordi che sarebbe meglio
non avere, ricordi che ti bloccano, ti fermano, ti mozzano il respiro, ricordi
che non vanno né avanti né indietro, ricordi che non sono solo ricordi, sono di
più, sono i pezzi di una vita che deve essere dimenticata, i pezzi di un’anima
lacerata, straziata dal dolore, ricordi che dentro serbano esattamente lo stesso
dolore, le stesse urla, la stessa sofferenza.
Come quello.
E’ la notte di Natale del 1989, e io
sto entrando in casa dalla porta del retro, dopo aver trascorso una serata di
fumo, alcol e musica insieme a Luca, Alessio e Giulio. In realtà avrei dovuto
dormire fuori, avremmo dovuto dormire fuori, insieme nella vecchia casa di
campagna di Luca, ma i nostri piani sono sfumati, si sono dissolti in una bolla
di sapone.
E io adesso sto entrando in casa mia
come un ladro, con la paura di svegliare mia madre, mia madre che ha passato la
serata da sola, e l’ha deciso lei, ha detto lei di voler del tempo per stare con
se stessa, perché suo marito, il mio patrigno, è sempre presente, ed è una
piacevole novità che lei abbia un po’ di tempo libero, seppure questo tempo
libero sia la notte di Natale, e così io adesso entro in casa piano, in
silenzio, al buio, evitando le sedie sparse per la cucina e imboccando alla
cieca il corridoio che porta alle camere da letto. E mentre barcollo nel buio a
tentoni, ecco che sento qualcosa, qualcosa che dapprima non riesco a
distinguere, qualcosa che non è un suono familiare, ma che è troppo strano per
essere casuale, qualcosa che non mi piace, non mi suona bene.
E poi lo sento di nuovo, e lo
riconosco, riconosco che quel suono è un sospiro, un sospiro strano, un sospiro
che sul momento non so ancora riconoscere per quello che è, un sospiro che mi
conduce alla porta della camera di mia madre e mi fa tendere le orecchie, mi fa
ascoltare più attentamente. E poi al primo sospiro ne segue un altro, e un altro
ancora, e due voci diverse si sovrappongono, e in una riconosco la voce di mia
madre, ma l’altra mi è nuova, mi suona del tutto sconosciuta, del tutto
estranea.
E poi sento quel nome, sento mia
madre che invoca un nome che non è quello del mio patrigno, non è quello di mio
padre, ma è il mio.
Fabio.
Sento che lo ripete, lo ripete più di
una volta, sfumando la sua voce con dei sospiri, dei gridi soffocati, e allora
la nausea mi sale allo stomaco e mi arriva in gola, e io mi precipito fuori,
nella notte fredda e stellata, mi getto sul prato ghiacciato del giardino con il
cuore in tumulto, la bile in gola, gli occhi sbarrati, la mente che ripete i
sospiri di mia madre e del suo amante, di mia madre che invoca quel nome, il mio
nome, di mia madre che tradisce suo marito, che non è nemmeno mio padre. E resto
lì per non so quanto tempo, il cuore che continua a martellarmi il petto, la
nausea che mi sale in gola a intervalli regolari, nelle orecchie ancora quei
suoni, quei rumori, mentre pian piano si và formando la consapevolezza di quello
che stava succedendo in quella stanza, mentre pian piano la realtà di quei
sospiri mi arriva al cervello, mentre mia madre e il suo amante assumono toni
reali, mentre i loro sospiri assumono un senso, un senso che per me non c’è, un
senso che non vedo, che non voglio vedere, ma che c’è, che esiste, che esiste
per loro, un senso che è presente in ogni loro mossa, in ogni fruscio delle
lenzuola che probabilmente si stanno ancora movendo, e mi rendo conto che mia
madre, mia madre, la donna che mi ha dato la vita, la donna che mi sta facendo
martellare il cuore e annebbiare il cervello, mia madre è lì dentro che si dona
a un uomo che non è mio padre, non è suo marito, ma è un terzo, un altro uomo
ancora, uno che non c’entra nulla, o forse è il centro di tutto.
E le tue labbra sono ancora premute
sulle mie, mentre la mia mano sale ad accarezzarti il volto, mentre sento la tua
pelle morbida a contatto con la mia, mentre scosto i tuoi capelli dal tuo viso,
così che posso vederti bene, così che posso osservare l’espressione del tuo
volto, la linea della tua bocca, la perfezione dei tuoi lineamenti. E le tue
labbra stanno torturando le mie, ci giocano, le mordono, le leccano, e io sono
steso sotto di te, lungo su questo divano che ci ha visto tante volte giocare
così, e che presto vedrà altro, vedrà molto altro ancora, e il gioco sta
iniziando a farsi serio, la mia maglietta già giace abbandonata sul pavimento
scuro, già le tue mani iniziano a farsi più esigenti, già i nostri respiri
iniziando a farsi più veloci, frammentati, quasi spezzati. Ed eccolo lì, un
altro ricordo si affaccia nella mia mente, e diventa sempre più vicino al
presente, più vicino a te, più vicino a noi, ed è un ricordo che mi piace, che
mi fa sorridere contro le tue labbra, mi fa sospirare in pace sulla tua pelle,
mi parla di te, mi ricorda te.
Sono ancora nel mio garage, aspetto
gli altri tre per iniziare a provare. Fuori c’è vento, un vento cattivo, gelido,
un vento che muove gli alberi e fa ondeggiare le bandiere, un vento che parla di
violenza, di freddo, di terrore. Un vento che arriva da lontano, che dentro di
sé porta rancore, porta odio, porta miseria, un vento che mi sta parlando contro
i vetri del garage, un vento che pare assoggettarmi al suo potere, un vento che
mi condiziona, condiziona i miei pensieri e il mio umore. Sono stanco. Sono
stanco di tutto, sono stanco della mia vita, delle mie abitudini, sono stanco
della mia famiglia, dei miei studi, sono stanco di quella stanchezza che
necessità un cambiamento, sono stanco e basta.
E Luca è in ritardo, ma del resto
Luca è sempre in ritardo, e sono in ritardo anche Giulio e Alessio, e sì, è vero
che di Alessio non ci si può mai fidare, ma Giulio di solito è così attento,
così affidabile, così puntuale che deve essere successo per forza
qualcosa.
E poi entrano tutti e tre, in fila
indiana, con dei sorrisi complici stampati sui volti divertiti, Alessio che fa
dondolare il basso che porta in spalla, Luca e Giulio spalla a spalla che
ridono, ammiccano verso di me, portano le mani alle tasche e poi ridono ancora.
E io mi alzo, vado verso di loro, e
loro mi mostrano un bustina piccola, trasparente, piena di erba, e sulle loro
facce si legge la chiara intenzione di cosa vogliono farci con quell’erba, e
Alessio è tranquillo dietro di loro, non è divertito come loro, non è entusiasta
come loro, per lui è tutto normale, è lui che gli ha procurato l’erba, è lui che
tra un momento la rollerà e ci insegnerà come fumarla. E ci mette poco Alessio a
rollare la canna, è pratico, esperto, deve averlo fatto decine e decine di
volte, e poi l’accende, tira una lunga boccata, sorride, e poi la passa a me, mi
spiega come tirare il fumo, come gettarlo giù nei polmoni, e io ci provo, e per
un attimo mi sembra di soffocare, mi affogo, ma poi ci riprovo, e ci riesco, e
mi piace, ha un buon sapore, un buon odore, e la passo a Luca, e poi a
Giulio.
E ben presto l’aria assume
quell’odore, il garage ne viene impregnato, e una leggera sonnolenza scende su
noi quattro, e la sensazione è diversa da come me l’aspettavo, non è forte, non
è niente di così strano, mi sento solo insonnolito, tranquillo, rilassato, e ho
voglia di bere e di dormire, ma Alessio mi fa alzare, fa alzare a tutti e tre, e
prende in mano il suo basso, mi porge la chitarra e fa sedere Luca e Giulio
dietro i loro strumenti, e attacca a suonare, e io gli vado dietro, e poi ci
raggiungono anche gli altri due, ma dura poco, perché io ho sonno, Luca ha
sonno, e Alessio ci fa sedere di nuovo, e rolla un’altra canna, e noi fumiamo di
nuovo, e mi piace sempre di più questa cosa, mi intriga, e Alessio mi sorride, e
per la prima volta noto quanto sia bello il sorriso di Alessio, quanto siano
intriganti le sue labbra rosse, le sue treccine rasta che gli sfiorano il viso
dalla pelle ambrata, mi rendo conto che mi piacciono i suoi occhi verde scuro,
che mi piace il modo in cui mi sta porgendo da fumare, mi piacciono i suoi
vestiti stropicciati e le sue maniere rilassate, mi piace il suo odore, mi piace
come si muove e come mi parla.
E non mi stupisco troppo di questo,
non è una rivelazione scioccante, è come se l’avessi sempre saputo, come se
fosse sempre stata una cosa naturale, niente di diverso, e mi torna in mente
quel bacio di quell’estate, e a come non era stato per niente naturale, per
niente tranquillo, per niente rilassato, come invece è ora osservare Alessio e
accorgermi che mi piace più lui che quella ninfetta marina di cui non ho mai
saputo il nome.
Ormai la notte è inoltrata, perfino i
grilli hanno smesso di cantare, lo stereo ha smesso di suonare, tutto tace
attorno a noi, c’è silenzio, c’è pace, c’è solo il rumore dei nostri baci, delle
nostre carezza, c’è solo il nostro rumore, il rumore della nostra passione, del
nostro amore, c’è il rumore delle nostre mani che s’incontrano, dei nostri corpi
che si uniscono, c’è il rumore dei miei sospiri, dei tuoi sorrisi, c’è quel
rumore che conosciamo entrambi a menadito. E il percorso dei miei ricordi si
avvicina a te passo dopo passo, ricordo dopo ricordo, in una sequenza che non
smette, che culla la nostra passione, che fa da sottofondo al nostro amore, una
sequenza ininterrotta, una sequenza in cui tu prendi sempre più parte, una
sequenza che si avvicina inesorabilmente a te, a noi.
Mese più, mese meno, stesso anno,
stessi amici, stessa musica. Siamo in un locale, seduti tutti e quattro attorno
a un tavolo tondo, leggermente graffiato, con qualche macchia di caffè e l’alone
di qualche bicchiere non troppo pulito, davanti a noi le nostre birre scure, le
sigarette spente nel posacenere di plastica bianca, quelle appena accese che
penzolano ad un angolo delle bocche dischiuse. Alessio è seduto accanto a me, il
suo braccio è attorno al mio collo, la sua mano gioca con i miei ricci, le sue
trecce rasta mi solleticano ogni tanto il collo e la guancia. Mi guarda Alessio,
mi parla sottovoce, mi sorride con quel suo sorriso un po’ storto, sbilenco, con
quei suoi occhi brillanti, socchiusi, appannati dal fumo, mi guarda e mi parla,
non parlandomi di niente in realtà, mi guarda e mi sorride, e ogni tanto prende
un sorso della sua birra quasi finita.
E poi c’è Luca, che guarda il palco
dove stanno portando gli strumenti per l’esibizione di un nuovo gruppo, guarda
il palco attento, cogliendo ogni movimento delle persone, mentre lascia che la
sigaretta si bruci lentamente, mentre lascia che la cenere gli cada sulla
maglietta bianca, perfettamente stirata, mentre lascia che gli occhiali gli si
appannino, mentre lascia cadere ogni tanto il suo sguardo su me e Alessio, uno
sguardo perplesso, che ancora non capisce del tutto. Giulio è seduto davanti a
me, fuma una sigaretta dopo l’altra, fuma nervoso, inquieto, scazzato, e
scazzato è anche il suo sguardo, scazzati sono i suoi movimenti agitati,
scazzata è la sua gamba che trema, la sua mano che tamburella veloce sul tavolo.
Non ha senso questo ricordo, non ha
scopo, non ha rumore, non ha significato, almeno non per altri all’infuori di
me, apparentemente non porta a niente. Ma è lì, nella mia memoria, appena dopo
il ricordo precedente e appena prima di quello che seguirà. E’ solo un altro
pezzo della mia vita, un altro frammento che scivola via mentre le nostre labbra
s’ incontrano, mentre i minuti e le ore passano lenti e poi veloci, mentre la
mia vita si fa un po’ più vicina a te.
Ecco. Hai spento la luce, hai gettato
la tua maglia in un angolo, mi hai fatto sdraiare accanto a te sul mio letto.
Sai, ci sono volte in cui vorrei che il tempo si fermasse. Ci sono volte in cui
vorrei restare così, fermo, accanto a te, il respiro leggermente appannato,
sfumato dalla passione, i tuoi occhi fissi nei miei. Ci sono volte in cui il
tempo pare fermarsi davvero, ci sono volte in cui mi pare di perdermi e di non
risalire più, di non riuscire a muovermi più e a baciarti di nuovo. Come adesso.
C’è lo spazio di un’ intero ricordo mentre ci guardiamo, persi nei nostri
pensieri, mentre il tuo petto si alza e si abbassa lentamente, mentre i tuoi
capelli ti finisco sul volto, spinti dal vento notturno che entra dalla
finestra.
Un’ intero, meraviglioso
ricordo.
E’ stato in quello stesso anno che ti
ho visto per la prima volta. E’ stata quella sera, una banale sera di marzo, una
sera come tutte le altre, passata con gli altri tre al pub, ascoltando musica,
fumando e bevendo birra scura, è stato in quella sera che ti ho incontrato.
Fuori fa freddo, lo ricordo bene, piove a dirotto, il vento urla contro le
finestre scure del locale, mentre sul palco montano gli strumenti di un gruppo
che deve suonare da qui a dieci minuti. Noi quattro ci guardiamo, con gli
sguardi che s’incrociano per alcuni lunghi minuti e che paiono dire "si, un
giorno saremo anche noi lì sopra", con le labbra che si muovono piano,
sussurrando parole spezzate, con le sigarette che ardono, impregnandoci di fumo
i capelli, i vestiti, la pelle, con le birre che finiscono in fretta, le mani
che si agitano sul tavolo o sulle gambe, ci guardiamo e stiamo in silenzio,
aspettiamo di sentire la musica, immaginiamo che musica sarà, se sarà migliore
della nostra, uguale, peggiore, ci guardiamo e aspettiamo in religioso silenzio.
Alessio esce per rollarsi una canna, Luca e Giulio vanno a prendere altre birre,
e io rimango al tavolo, seduto scomposto sul divanetto a due posti, una mano che
regge la birra e l’altra che arruffa nervosamente i miei stessi capelli.
E poi ti vedo. Sei sul palco,
inginocchiato per collegare qualche cavo elettrico, la schiena rivolta al
pubblico, in bocca una sigaretta non ancora accesa. I capelli rosso cupo, quasi
porpora, ti nascondono gli occhi, i jeans scuri e strappati si tendono sulle
gambe magre, le mani bianche si muovono veloci. Alessio torna a sedersi, mi
rivolge qualche parola, ma io non lo ascolto. Sto guardando te, ti sto
osservando, ti sto osservando così intensamente che mi stupisco che tu non te ne
accorga, i miei occhi paiono non volersi muovere, non volerti abbandonare, non
voler abbandonare il ragazzo più bello, o forse no, non è bello l’aggettivo che
sto cercando, ma non riesco a trovarne un altro talmente sono incantato dalla
tua vista, che io abbia mai visto. Tornano anche Giulio e Luca, si siedono
commentando qualcosa, ma non sento neanche loro, rimango a guardare te, seguendo
ogni tuo movimento. Ti alzi. Sei alto, molto magro, con i capelli lunghi fino
alle spalle, mossi, stupendi. Ti guardo e non riesco a fare altro. Neanche
quando iniziate a suonare,
neanche quando impugni la tua
chitarra e inizi a suonare, neanche quando mi accorgo di come suoni bene, di
quanta passione ci metti, ed è palese la cosa, non me ne accorgo.
Resto lì, fermo, a
guardarti.
Ecco qui un altro capitolo, e
stavolta a parlare (o meglio, a ricordare) è di nuovo Fabio. Non ho molto da
dire al riguardo, tranne che questo capitolo forse è uno dei più importanti per
la storia, poichè contiene alcuni ricordi che portano Fabio ad un totale
cambiamente della sua vita.
E, come potete vedere, il titolo è il
primo in italiano, e come tutti gli altri è il titolo di una canzone.
Lem, che dirti? Sei ancora l'unica a
commentarmi! Sono onorata perchè sai quanto apprezzo i tuoi lavori e il tuo modo
di scrivere, e mi fa infinitamente piacere che "Frammenti" ti piaccia...Non
sapevo avessi gli esami! Spero sia andato tutto bene, specie agli orali dopo il
concerto...E' stato bello? Mi sarebbe piaciuto esserci...
Comunque...No, il padre non è gay,
tutt'altro! E poi mi sarebbe sembrata troppo una copia del meraviglioso
TEARS...In questo capitolo puoi vedere che fine ha fatto l'altro Fabio, ma per
sapere perchè il nostro Fabio se ne è andato ci vorrà ancora un pò...Beh, non so
perchè Luca non mi piaccia, è una sensazione incondizionata che mi dà il suo
personaggio! Beh...grazie delle tue recensioni, continua a leggermi almeno tu!
Baci
|
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 - Goodbye blue sky ***
Capitolo 6: Goodbye blue
sky
Quando l’ho conosciuta aveva appena
vent’anni e una luce strana negli occhi.
Parevano scrutarti dentro, quegli
occhi, talmente era profondo il loro sguardo.
Talmente erano belli,
di quel blu chiaro,
color del cielo.
Pareva di guardare il cielo ogni volta
che il suo sguardo si posava su di me.
Aveva appena vent’anni,
ed era la donna più bella che io
avessi mai incontrato.
L’ho conosciuta una sera di marzo, nel
giardino di casa sua – era un incontro combinato, il nostro -
mentre il vento soffiava
forte.
Le ho offerto la mia
giacca,
le ho acceso una sigaretta.
Mi sono innamorato dei suoi occhi
quella sera di marzo, Fabio.
Mi sono innamorato degli occhi di una
ragazza che avevo visto per pochi secondi.
Mi sono innamorato di tua
madre.
L’ho rivista tre sere dopo,
le ho riacceso una
sigaretta,
e l’ho baciata.
Mentre la baciavo guardavo i suoi
occhi, Fabio.
Guardavo i suoi occhi e mi sembrava di
star guardando il cielo estivo,
di esser perso nel cielo,
abbandonato al vento e alle
nuvole.
Era la prima donna che, mentre la
baciavo, aveva gli occhi aperti.
Fabio, ho amato tua madre più di ogni
altra cosa.
Era l’amore della mia vita,
era la mia stessa vita.
E quando, un giorno di ormai molti
anni fa, me la sono vista portare via dal nulla
mi è sembrato che con lei mi
portassero via anche la vita.
Forse è stata colpa mia.
Forse sono stato io che non sono stato
capace di farle capire quanto l’amassi,
cosa rappresentasse per me.
I suoi occhi erano il mio cielo,
Fabio.
Quando penso a lei penso ai suoi
occhi,
a come erano grandi,
belli,
limpidi,
puri.
A come era bella lei quando mi
guardava e sorrideva,
quando si sedeva accanto a me dandomi
la mano,
e io mi perdevo nel suo
sguardo.
Addio, cielo blu.
Addio.
Fabio, guarda gli occhi di tua
madre.
Non trovi che siano i più belli che tu
abbia mai visto?
Non trovi che siano talmente
belli
da non riuscire a guardarli per più di
qualche secondo
senza distogliere i tuoi?
Chissà, forse tu riesci a non
distogliere i tuoi occhi.
Io no,
io non ci sono mai
riuscito.
Sarà stato questo il mio errore,
Fabio?
Sarà stata questa la causa del suo
addio?
Il cielo era blu come i suoi occhi la
mattina in cui me ne sono andato.
Ho alzato gli occhi,
e per un attimo ho creduto di star di
nuovo guardando i suoi occhi.
Mi succede ancora qualche volta, sai
Fabio?
Guardo il cielo,
e mi pare di perdermi nel suo
sguardo.
Ora a chi rivolge i suoi occhi, eh
Fabio?
Chi bacia ora con gli occhi
aperti?
I tuoi occhi erano così simili ai
suoi, figlio mio.
Quando mi hai guardato per la prima
volta
non riuscivo a credere che mi avessero
fatto un dono così bello.
Mio figlio aveva gli occhi di sua
madre.
Mio figlio aveva il cielo intero nello
sguardo.
Oh, Fabio, Fabio.
Mi manca tua madre.
Mi manca il suo cielo blu.
Mi manca tanto da togliermi il
respiro,
da mozzarmi il fiato nei
polmoni.
Non riesco a vivere senza il suo
cielo.
E tu?
Tu sai di avere il cielo nei tuoi
occhi?
Sai di avere il cielo di tua madre –
non un cielo qualunque – in te?
Eccomi, sono qui, seduto su una sedia
nel mio ufficio,
e sto piangendo.
Mi manca.
Mi manca tantissimo.
E non c’è niente che io possa fare per
riaverlo.
Per riavere il mio cielo.
Il mio sguardo non si è più posato su
altri occhi da quel giorno.
Ho fatto l’amore con altre
donne,
ho baciato altre labbra,
ho carezzato altre teste,
ma non ho mai guardato altri
occhi.
C’è la tempesta negli occhi
altrui.
Io voglio il cielo estivo.
Voglio il mio cielo blu.
Addio, cielo blu.
Addio.
E' abbastanza facile, tutto sommato, scrivere sul
padre di Fabio. Non so perchè, ma mi riesce semplice. Quindi quest'ultimo
capitolo è arrivato veloce, almeno per i miei standard, anche se ci ho messo un
pò a pubblicarlo perchè ho avuto altri impegni.
Lem:
Alessio...Beh, diciamo che Alessio è un misto tra vari ragazzi della mia città
(che però purtroppo non prendono l'autobus con me...sigh!) e il uomo ideale...Il
problema è che, almeno per adesso, è solo un personaggio di questa storia!
Università...Beh, scelta difficile quella...Io ho le idee piuttosto chiare, ma
chissà che non le cambi tra qualche tempo...
Il rosso ti incuriosisce? Bene, mi fa piacere,
quello era il mio scopo. Baci!
Babyjenks: Oh,
che bello, qualcun altro che mi recensisce! Sono molto contenta che la mia
storia ti piaccia, mi ci sto impegnando davvero per farla uscire
bene.
Luca? Beh, non sei la prima che mi dice che Luca è
adorabile, sono contenta che a voi piaccia (non è tra i miei preferiti, invece),
Alessio come ho detto sopra E' realmente sexy (ho unito le parti migliori dei
ragazzi più belli della città e li ho mescolati con taaanta bella
immaginazione!), e il rosso...vedrete, se ne parlarà parecchio!
Grazie a tutti coloro che leggono (anche se non
commentano)!
Ciocco
Ps: Il titolo è tratto dall'omonima canzone dei
mitici Pink Floyd...
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 - Seventeen ***
Capitolo 7:
Seventeen
La porta si è chiusa con un rumore
sordo. La luce dell’alba inizia a entrare dalle finestre, ancora aperte dalla
notte precedente, e colora di bianco e d’oro tutto quello che sfiora.
Sono steso a letto, le lenzuola
tirate sul torace che si alza e si abbassa lentamente, riacquistando il suo
ritmo regolare – un ritmo perso durante la notte, dove il respiro si è fatto più
veloce, il fiato è stato mozzato più volte. Ho perso il filo dei ricordi, questa
notte.
Ho perso la cognizione del tempo,
dello spazio, di ogni cosa. Ma adesso che il mio respiro si è acquietato, che il
mio cuore ha smesso di battere innaturalmente, che le mie mani sono ferme, e le
mie labbra non incontrano più altre labbra, adesso posso chiudere di nuovo gli
occhi, riportare la mia mente al passato, ai miei ricordi.
Luca è sdraiato sul mio letto, e si
accende una sigaretta, passandomi poi l’accendino.
E’ strano vedere Luca fumare,
nonostante ormai io ci sia più che abituato, nonostante siano anni ormai che i
nostri polmoni vengono invasi dalla nicotina, dal catrame, che l’aria attorno a
noi odora di fumo, che i nostri vestiti, la nostra pelle, i nostri capelli,
hanno sempre quel profumo intenso, deciso, riconoscibile tra mille. E’ strano
vedere me e Luca da soli, di nuovo, come un tempo, come prima di conoscere
Giulio e Alessio, come prima di iniziare a suonare, come al tempo del primo
giorno di scuola, della prima birra, della prima sega, come prima di scoprirmi
diverso da lui ancora, in un’altra cosa.
Luca non lo sa ancora. Luca non sa
che sono gay, non sa che i miei sguardi non sono per le donne, ma sono per gli
uomini, per quelli come me, come lui, come Alessio.
Non lo sa, e io non so come
dirglielo. Non è un problema per me, non è un problema per la mia vita, non è
niente che io non sappia gestire o affrontare, non è un problema per chi, come
Alessio, l’ha capito prima che lo capissi io stesso, e l’ha accettato prima di
farlo accettare a me stesso. Ma per Luca? Per Luca sarà un problema sapere che
il suo migliore amico è gay? Sapere che le labbra che sogna di baciare non sono
quelle di una bella biondina, o della ragazza più carina del liceo, ma quelle di
un ragazzo dai capelli porpora visto suonare in un locale? Sapere che potrei
innamorarmi di lui, o di Alessio, oppure di Giulio, e per me non ci sarebbe
niente di male? Luca mi guarda, interrogandomi con il solo sguardo, come ha
sempre fatto, senza bisogno di parole, di frasi inutili, di circostanza,
fastidiose e seccanti, frasi che lui non ha bisogno di usare, perché Luca mi
conosce di più di ogni altro, o forse no, visto che non sa chi sia in realtà il
suo migliore amico. Cerco di parlare, mettere insieme qualche frase, qualche
parola più significativa delle altre, un’idea anche solo vaga di quello che
voglio dirgli. Ma Luca continua a fissarmi, mi sorride incoraggiante, mi sprona
ad andare avanti. E poi, ad un tratto, riesco a dirglielo.
Una sola frase, intera, dritta,
diretta, mirata. Una sola frase, e Luca improvvisamente sa.
Sa, e continua a guardarmi, ma il
sorriso è scomparso dalle sue labbra, i suoi occhi non sono più incoraggianti,
ma privi d’espressione, il nero del suo iride ha inghiottito la pupilla, e il
suo sguardo sembra un pozzo nero senza fondo. Mi alzo, gli vado vicino, ma Luca
non accenna a parlare, a dare un segno di comprensione, di dire qualsiasi cosa,
anche la più stupida, la più inadatta. Aspira un’ultima boccata dalla sigaretta
ormai finita, lascia che il fumo esca dalla sua bocca in cerchi concentrici – un
giochetto che io non ho mai saputo fare – e poi si alza e lascia la mia stanza.
Luca.
Ho acceso una sigaretta, e ora la sto
fumando lentamente, assaporandone tiro per tiro, lasciando che il fumo invada i
miei polmoni per qualche secondo di più del solito.
Ho sempre fumato in maniera nervosa,
scostante, le mie sigarette erano sempre quelle che finivano prima, quelle
fumate velocemente, quelle che servivano a scaricare la tensione, il nervosismo.
Poi quando ho conosciuto lui ho imparato a fumare lentamente, piano, con gusto e
metodo. Le sigarette durano di più adesso. Man mano che vado avanti con gli anni
tutto sembra durare di più, sembra essere diverso, acquistare esperienza,
significato, passione perfino.
Maggio arriva, portando con sé i suoi
odori, i suoi sapori, i suoi venti e i suoi fiori. Maggio arriva, e Luca ancora
non mi parla. Mi evita, cerca di sfuggire i miei sguardi, di evitare i miei
tentativi, le mie attenzioni, ogni mia parola sembra scottarlo, renderlo
nervoso, irritato, arrabbiato. Mi chiedo perché. Sono seduto in giardino,
accanto a me una bottiglia mezza vuota di birra, il pacchetto di sigarette
dimezzato, il vento profumato di ciliegi tra i capelli, le mani a tormentarli.
Sto piangendo. Dentro casa si sente la voce di mia madre che discute con suo
marito, che urla, che grida, voci che salgono di volume man mano che il litigio
avanza, man mano che mia madre prosegue nelle sue grida, che suo marito alza il
tono, che un piatto cade della credenza, si schianta sul pavimento, e il rumore
della porcellana rotta, infranta, arriva fino al giardino, e sembra quasi che si
sia rotto vicino a me quel piatto. Sto piangendo, ma i capelli – ormai lunghi
fino alle spalle e scuri, praticamente neri – mi coprono il viso, nascondendo le
lacrime. Si sta infrangendo tutto nella mia vita, come si è appena infranto quel
piatto in cucina. Mia madre sta piangendo, mentre continua a gridare contro suo
marito, mentre la sua voce si alza, infrangendosi, rompendosi a metà di una
frase. Le mie lacrime scendono silenziose, tanto quanto le sue sono fragorose,
singhiozzanti e struggenti. Suo marito esce dalla casa, sbattendo la porta
talmente forte da far temere per i suoi cardini, e lascia mia madre che piange
ancora rumorosamente, esce dalla porta e mi guarda, e nei suoi non vedo rabbia,
non vedo ira, vedo solo dolore.
E’ ancora colpa sua, è ancora colpa
di mia madre se tutto è andato a rotoli, se la mia vita si è di nuovo
catapultata nel dolore, nel pianto, se la sua vita ha visto di nuovo andare via
una persona cara. E’ tutta colpa sua, e le mie lacrime scendono arrabbiate,
infuriate con quella donna che piange insieme a me, separata da me da una parete
e un po’ di prato verde, è colpa di mia madre, è ancora colpa sua.
A volte le lacrime arrivano così,
solo pensando al passato. Arrivano, e tu devi sopportarle, trattenerle o
permettergli di scenderti sulle guance, in uno sfogo che arriva dal passato, ma
che brucia, brucia ancora, brucia come aveva bruciato quel giorno, quella notte,
quell’anno. E’ ora di alzarsi, di vestirsi, di uscire di casa, di lasciarsi alle
spalle la notte appena trascorsa e i ricordi più dolorosi. E’ ora di respirare
l’aria di maggio che non è quella di quel giorno, e non le assomiglia, il suo
profumo di ciliegio non è lo stesso, perché i ciliegi di qui sono diversi, e le
loro foglie e i loro fiori si muovono diversamente al passare del vento. E’ ora
di andare, di partire. E’ ora di muoversi.
E’ notte. E’ una notte bella,
luminosa, tranquilla, con il cielo scuro privo di nuvole, con le stelle bene in
evidenza, che brillano senza ostacoli, si fanno vedere, orgogliose della loro
bellezza notturna e immortale. Sono sdraiato su un prato a qualche chilometro da
casa mia, in cima ad una collinetta nascosta, scovata qualche anno prima insieme
a Luca.
Luca. Luca non mi parla ancora, Luca
ha perfino smesso di guardarmi, Luca mi vede soffrire e non dice niente, non
parla, si chiude nel silenzio, abbassa lo sguardo, suona stancamente e poi se ne
va, senza un saluto, senza un sorriso, senza un’occhiata.
E io sto guardando le stelle, a poche
settimane di distanza dal mio diciassettesimo compleanno, a poche settimane di
distanza dal secondo divorzio di mia madre, a poche settimane di distanza dal
nostro primo concerto. Sono nervoso all’idea di suonare in quel locale, dove
tante volte abbiamo sentito suonare altri gruppi emergenti, sono teso all’idea
di impugnare la mia chitarra davanti a tutti, all’idea di cantare per un
pubblico, sono agitato al pensiero che tutti possano sentirmi, vedermi,
giudicarmi. Sono emozionato, perché so che su quello stesso palco dove suoneremo
noi tra qualche settimana ha suonato lui. Lui.
Non l’ho più visto dopo quella sera,
ma le sue labbra hanno continuato a tormentarmi in sogno, ho continuato ad
immaginarmi i suoi occhi che non ho visto. E sto pensando proprio a lui mentre
guardo le stelle, mentre cerco di ricordarmi le varia costellazioni, mentre
penso a che ne sarà di me, a che ne sarà di me e di Luca. Sto pensando a tutto
questo, quando qualcuno si avvicina a me, un’ombra scura alle mie spalle, una
presenza non prevista, non richiesta. Mi giro, alzandomi sui gomiti, e dietro di
me vedo Alessio che mi sorride, la sua sigaretta che arde nel buio. Mi sorride
nell’oscurità della notte, Alessio, e si sdraia accanto a me, come se fosse la
cosa più naturale del mondo. Mi offre da fumare, e io accetto ben volentieri. E’
strano il sorriso di Alessio, diverso dal solito. Ha una pendenza strana,
obliqua, quasi maliziosa, una pendenza che diventa ancora più accentuata nel
momento in cui le sue mani sfiorano le mie passandomi il pacchetto di sigarette.
Mi guarda dritto negli occhi Alessio, e continua a sorridermi in questa maniera
strana. Steso accanto a me sull’erba Alessio mi parla a bassa voce, sussurrando
le parole al mio orecchio, accostando la sua testa alla mia nell’osservare le
stelle, sfiorandomi nel tirare qualche tiro alla mia sigaretta. Alessio è
bellissimo questa notte. I suoi occhi brillano, il suo sorriso obliquo seduce, i
suoi capelli ondeggiano al vento, la sua pelle profuma.
Alessio si alza, appoggiandosi sui
gomiti, rotola sulla pancia e accosta il suo viso al mio.
Un sussurro, una carezza, una mano
tra i capelli, e Alessio mi bacia. Le sue labbra si accostano alle mie, prima
leggere, poi sempre più insistenti, Alessio mi accarezza il volto, lo prende tra
le sue mani, mi stringe a lui, e io ricambio il bacio, ricambio la stretta,
ricambio le carezze, e lascio che le sue labbra lambiscano le mie, lascio che i
nostri corpi si stringano l’uno all’altro, lascio che Alessio mi baci.
Fuori brilla il sole, il vento fa
muovere le foglie verdi, scombina leggermente i capelli ai passanti. Sto
camminando senza una meta, mettendo solo un piedi davanti all’altro, lasciando
vagare la mia mente attraverso i boulevard della città, lunghi e stretti, con
gli alberi in fiore lungo i fianchi, lasciando che la musica di un violinista
girovago che suona ad un angolo della strada mi segua, lasciando che i bambini
mi passino accanto correndo, chiamandosi l’un l’altro con le loro voci
infantili, acute, brillanti. Lasciando scorrere i pensieri ad una vecchia foto,
scovata nel mezzo di un vecchio quaderno di musica.
E’ una foto che risale a quella
stessa estate, a quello stesso prato. Ha i bordi consumati, ma la foto è ancora
nitida, i colori abbastanza vivi, il ricordo ben vivo. E’ un’immagine di me e
Alessio quella che ritrae la foto, un’immagine ravvicinata, quasi un primo
piano. Siamo sdraiati su una coperta bianca, di stoffa leggera, probabilmente di
cotone, circondati dal prato verde, di un verde che si fa più chiaro man mano
che l’occhio si allontana da noi due, un prato che sembra volerti trascinare
nella foto per quanto è incantevole, per quanto sembra fresco, riposante, di una
bellezza tutta naturale.
La foto ci inquadra i volti e i
mezzibusti, i volti dagli occhi socchiusi per ripararsi dal sole accecante,
Alessio con una mano a riparargli gli occhi verdi – di un verde incredibilmente
simile a quello del prato che ci circonda –io con la frangia sugli occhi quasi
chiusi, il sole che riesce ad arrivarmi ugualmente, e mi costringe a nascondere
la faccia nell’incavo del braccio di Alessio, che ne approfitta per stringermi a
sé, e mi tiene lì per un bel po’. Alessio ha una maglietta che una volta doveva
essere di un bel rosso scuro, ma che adesso è stinta, sgualcita, vecchissima, e
indosso a lui pare perfetta, pare abbinarsi perfettamente con le sue trecce
rasta biondo sporco, con il suo cerchietto di metallo all’orecchio destro, con
il sorriso scanzonato e la sigaretta accesa stretta fra le dita. Io porto una
maglietta nera né nuova né vecchia, non ho niente di particolare addosso, non ho
la bellezza di Alessio, il suo sorriso, il suo fascino, talmente forti, talmente
palesi che non riescono a non trasparire dalla foto. E intorno a noi erba,
vento, sole, in una cornice paradisiaca che non fa altro che rendere quella foto
ancora più bella, ancora più importante di come già non lo sia.
Sorrido mentre una signora con dei
fiori – rossi, gialli, perfino blu – sottobraccio mi si avvicina e tenta di
vedermene qualcuno. Sorrido alla primavera che vedo davanti a me, sorrido al
vento di Parigi che mi soffia in faccia, sorrido alle ultime note strascicate
del violinista girovago, sorrido al ricordo di Alessio in un altro giorno
d’estate.
E’ il mio diciassettesimo compleanno.
Mia madre è in vacanza, non so dove, non so con chi, non so perché, e
sinceramente non mi interessa saperlo, non mi interessa sapere dove mia madre
sta passando il giorno del compleanno di suo figlio, e soprattutto non mi
interessa sapere con chi lo sta passando, non mi interessa nemmeno il fatto che
i suoi auguri siano stati borbottati telefonicamente questo mattino, la linea
interrotta a metà chiamata, una chiamata già di pochi secondi. Mi interessa
molto di più il fatto che la casa sia completamente libera, completamente a
disposizione mia e dei miei amici, invitati ad una mega festa di compleanno. E
c’è Giulio con la sua ragazza – una moretta magrolina dall’aria molto dark –
vicino alle casse di birra, che parlottano fra di loro scolandosi una birra dopo
l’altra; ci sono alcuni compagni di classe seduti sul dondolo che fumano,
cantando a squarciagola un alticcio "Buon compleanno"; qualche ragazza,
probabilmente portata lì da Giulio e Alessio, che balla al centro del giardino
sulle note dei Led Zeppelin; un paio di amiche del nostro gruppo che vagano da
gruppetto a gruppetto ridendo, bevendo, fumando e divertendosi con qualche
ragazzo; qualche amico di Alessio che rolla una canna sul prato sorridendo
apertamente. E poi c’è il grande assente della serata, Luca, lo stesso Luca che
anni prima mi aveva giurato che non sarebbe mai mancato ad un mio compleanno,
qualsiasi cosa fosse successo tra noi, quel Luca che si comporta come se io non
esistessi, Luca che in un minuto ha rinnegato tutti gli anni della nostra
amicizia, Luca che ora non viene più neanche alle prove del gruppo, Luca che ci
ha lasciato nella merda, considerando il concerto di dopodomani sera. E alla
fine ci siamo noi due, seduti contro il muro sul retro della casa, in una
posizione che ci permette di vedere tutti ma che non fa vedere noi. Alessio mi
tiene contro il suo petto, accarezzandomi pian piano i capelli, arricciandoli
con le dita, intrecciandoli e poi sciogliendoli, giocando poi con le mie mani,
con una piega della mia maglietta stropicciata, piegando ogni tanto il volto per
darmi un breve bacio. Alessio ha un profumo buonissimo, che sa di erba
primaverile, di sabbia asciutta e di sole, profumi che forse non esistono, ma
che per me sono i ricordi più belli della mia infanzia, della mia adolescenza,
Alessio ha le labbra morbide, invitanti, fatte apposta per essere morse tra la
fine di un bacio e l’inizio di un altro, Alessio ha gli occhi dolci e maliziosi
allo stesso tempo, Alessio ha le mani forti, grandi, callose a furia di suonare
il suo basso, Alessio ha tutto quello che si possa desiderare, Alessio adesso ha
il mio cuore, il mio stomaco, il mio cervello. Non stiamo insieme, non
dichiaratamente perlomeno, ma si vede quello che c’è tra noi, è palese, è
perfettamente visibile quel filo che ci lega, ci tiene insieme, ci attira l’uno
all’altro come due calamite. E con Alessio mi sento completo, mi sento io, mi
sento bene, e non importa dove, non importa quando, Alessio è con me e io sono
con lui. E va bene così.
Mi sono seduto su di una panchina,
stanco per la lunga camminata. E’ l’ora di pranzo, i viali iniziano a spopolarsi
di mamme e bambini, diretti a casa per mangiare, cucinare, e iniziano a
popolarsi di adolescenti che escono dalle scuole, con le loro cartelle in
spalla, i capelli al vento, alcuni belli, alcuni un po’ meno, alcuni allegri,
alcuni tristi, alcuni innamorati, altri no. E mentre guardo la folla mi sovviene
agli occhi l’immagine di una ragazza, bellissima, quasi perfetta. E ricordo
un’altra ragazza così, talmente bella da sembrare quasi finta, talmente perfetta
da sembrare innaturale, una ragazza che ha salvato me, ha salvato Luca, ha
salvato noi due.
E ‘ la sera del nostro primo
concerto, e il nostro tastierista ancora non si è presentato. Nelle settimane
precedenti abbiamo provato a suonare senza di lui, ma si vede che non è la
stessa cosa, si vede che manca qualcosa, che manca quella carica che avevamo
prima, quel vigore, quell’energia, quella forza che senza di Luca non è più la
stessa. E Giulio sta fumando una sigaretta dietro l’altra in quel modo nervoso
in cui fuma sempre quando è preoccupato, Alessio si guarda intorno cercando di
non perdere la sua proverbiale calma, e io sono appoggiato al muro, tengo gli
occhi bassi, e so che se questo concerto, questo primo concerto, sarà un
disastro sarà solo colpa mia, tutta colpa mia. E mancano circa dieci minuti
all’inizio quando vedo entrare nel locale una ragazza. E’ meravigliosa. Non è
molto magra, ha delle curve abbastanza pronunciate, i capelli lunghi, vaporosi,
di un castano caldo, che le scendono lungo la schiena formando tante onde, gli
occhi neri, profondi, che guardano nella mia direzione, che sembrano squadrarmi
da testa a piedi, che in un minuto cercano di leggere la mia anima, la mia
mente. E’ vestita semplicemente, una gonna nera, ampia, lunga fino ai piedi, una
maglietta bianca, un pendente di legno ad un orecchio. Ha fascino, un fascino
quasi palpabile. Entra, e dopo avermi osservato per qualche secondo si dirige
verso di me. Mi rivolge la parola con naturalezza, come se ci conoscessimo da
sempre, mi parla e mi racconta di Luca, del perché del suo allontanamento, del
perché della sua reazione, del suo stato d’animo attuale, della sua assenza al
mio compleanno. Ed è lì che capisco perché il mio miglior amico si è allontanato
così da me, capisco che non è stato voluto con cattiveria, ma solo per paura. E
mentre quella stupenda ragazza mi sta ancora parlando, con la coda dell’occhio
vedo un volto familiare che entra nel locale, vedo il volto del mio miglior
amico che mi guarda, mi guarda e mi sorride. Luca è tornato. Sale dietro il
palco dove siamo radunati noi, saluta con un cenno Alessio e Giulio, sorride
alla sua ragazza, e poi si rivolge a me. Restiamo qualche secondo immobili,
fermi a guardarci, poi ci sorridiamo – un sorriso vero, sincero, come quelli di
un tempo – e alla fine ci abbracciamo, restando stretti per qualche istante,
abbracciandoci dopo esserci persi, dopo esserci ritrovati. La ragazza di Luca
scende dal palco dopo aver baciato il suo ragazzo, poi noi quattro saliamo sul
palco, accolti dagli applausi di un pubblico formato quasi del tutto da amici e
conoscenti, applausi forse un po’ forzati, ma che fanno comunque piacere. E
suoniamo, suoniamo come abbiamo suonato la prima volta, suoniamo insieme,
guardandoci l’un l’altro, suoniamo come un gruppo, suoniamo perché ci piace,
perché è bello, perché finalmente il mio miglior amico è di nuovo con
me.
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 - Welcome to my life ***
Capitolo 8: Welcome to my
life
Quando l’ho conosciuto avevo diciotto
anni e la voglia di scoprire il mondo.
Prima di allora avevo vissuto in un
mondo ovattato,
protetto,
dove non poteva succedermi niente di
male,
niente di sbagliato,
niente di diverso;
dove le persone erano tutte
gelidamente uguali,
dove le loro espressioni erano
vuote,
dove i miei sogni erano infranti con
un precisione da manuale.
Poi ho conosciuto Fabio.
Lavorava nel nostro
giardino
e quando vidi il suo sorriso per la
prima volta mi sentii rinascere.
Era bello, Fabio.
Era bello come te, figlio
mio,
ma la sua era una bellezza
diversa.
La tua – come quella di tuo padre – è
una bellezza fredda,
dalla classicità dei
canoni,
dal rigore agghiacciante degli
elementi.
La sua no.
La sua era calore,
era fuoco,
era passione.
Era diversità.
Quella diversità che cercavo da
tempo,
che agognavo da anni.
Mi ha sorriso,
e io mi sono innamorata di
lui.
Della sua pelle scura - color del
cioccolato -
dei suoi occhi neri – profondi come la
notte –
del suo sorriso – seducente come non
ne avevo mai visti.
Mi ha parlato,
e io ho capito che lui era l’uomo che
faceva per me.
Ci siamo baciati due giorni
dopo,
nella penombra della serra,
nascosti tra le rose ei
garofani,
e dopo due settimane abbiamo fatto
l’amore.
Mentre lo facevamo, Fabio,
io ho capito che nella mia vita nessun
altro avrebbe più saputo darmi quelle emozioni.
Lo amavo, figlio mio.
Lo amo ancora.
Quando i miei genitori scoprirono la
nostra relazione,
l’inverno successivo,
la loro ira fu
spettacolare.
Fabio fu cacciato dalla villa,
gli fu intimato di sparire dalla mia
vita,
di non farsi rivedere mai
più.
E lui, un ragazzo di vent’anni venuto
dal sud,
senza famiglia,
senza amici,
senza più un lavoro,
non potè far altro che obbedire,
lasciandomi in preda alla disperazione
e al dolore.
Due mesi dopo,
avvolta in dieci metri di raso
bianco,
percorsi la navata centrale della
cattedrale cittadina al braccio di mio padre.
Stavo andando a sposarmi.
A sposare un uomo che non
amavo,
di cui non mi importava
niente.
A sposare un uomo che non avrei reso
felice,
che non mi avrebbe reso felice.
A sposare un uomo buono, bello,
gentile.
Un uomo che non aveva il suo fuoco,
che non aveva il suo sorriso.
A sposare un uomo che non era
lui.
Fabio, quel giorno io sono
morta.
Il mio cuore è morto quando tuo padre
mi ha baciata, davanti all’altare di quella chiesa;
quando ho visto lacrime di felicità
che scendevano sulle guance pallide di mia madre;
quando in lontananza,
sulla soglia della chiesa,
ho visto lui che piangeva.
Ho pianto anche io,
mentre al braccio del mio nuovo marito
percorrevo al contrario la navata,
mentre la folla – un matrimonio
principesco, il nostro – ci gettava del riso addosso,
mentre la mia vita mi veniva portata
via.
Quando ho saputo di essere
incinta,
al ritorno dal nostro viaggio di nozze
– il viaggio peggiore della mia vita –
un filo sottile di speranza si accese
in me.
Poteva essere di Fabio, quel
figlio.
Poteva essere l’ultimo legame con lui
che mi rimaneva,
il suo ultimo regalo.
Ma non fu così.
Non eri figlio di Fabio,
ma dell’uomo che mi stava aspettando
in sala parto,
trepidante d’attesa,
traboccante di felicità.
Era facile voler bene a tuo padre,
Fabio.
Era facile volergli bene come si vuole
bene ad un fratello,
ad un caro amico,
ma amarlo per me era impossibile.
Ecco perché,
anni dopo,
la ricomparsa di Fabio segnò la fine
del nostro breve matrimonio.
Era tornato l’amore della mia
vita,
e io non potevo dirgli di
no.
Ho rovinato tutto, Fabio,
è vero,
ma dovetti farlo per forza.
Cosa faresti se l’amore della tua vita
tornasse indietro a prenderti?
Scuoteresti la testa e rimarresti con
chi non ami?
Non credo Fabio, non credo.
Perdona tua madre, Fabio,
perdona me,
che non sono riuscita a dire di no
all’amore.
Beh, che dire...La storia và avanti, anche se un pò
a fatica (le vacanze estive evidentemente non so il periodo migliore per la mia
ispirazione), e spero che continui a piacervi...
Un grazie a chiunque
legga!
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 - With or without you ***
Capitolo 9: With or without
you
Un altro tramonto arriva, così come è
arrivato quello di ieri notte, e della notte prima ancora, così come arriverà
quello di domani notte. Il cielo si tinge di colori sanguigni, la luce soffusa
del sole morente mi cade sul viso mentre apro la porta di casa. E’ tutto uguale
a come l’avevo lasciato questa mattina. Il letto sfatto, lo stereo in pausa, il
posacenere pieno, il suo profumo non ancora scomparso. Mi siedo in poltrona,
davanti a me c’è il tavolino basso ingombro di riviste musicali, fogli, libri,
cd, vecchi quaderni.
Ne apro uno, il primo che mi trovo
davanti, lo stesso che stavo osservando qualche giorno fa. E trovo un’altra
foto.
Stavolta io non ci sono. Stavolta
sono io che scatto la foto, stavolta i protagonisti dell’immagine sono altri. E
‘ novembre probabilmente, e noi quattro siamo fuori dal garage di casa mia,
avvolti in una grigiastra luce autunnale che sembra intristire la foto. Nella
foto in piedi, schierati come tanti soldati pronti all’attacco, ci sono i miei
tre amici, con dei grandi sorrisi sui volti e i capelli che ondeggiano al vento.
I volti stanno iniziando ad assumere fattezze più adulte, più mature, i tratti
s’induriscono, assumono toni squadrati, regolari, gli sguardi sembrano più
consapevoli, più pronti, più esperti, lasciano trasparire emozioni più
complesse, lasciano meno spazio all’immaginazione infantile. Il primo su cui
cade il mio sguardo è Giulio. Sta lì, in piedi contro la porta grigia del
garage, le mani sprofondate nelle tasche dei jeans consumati – è una toppa
quella che s’intravede sul ginocchio sinistro – i lunghi capelli neri legati
nella sua solita coda bassa, un accenno di barba sul volto pallido, un sorriso
che però non si estende agli occhi scuri, dove aleggia quella perenne aria
composta, seria, sicura, che sembra non scalfirsi mai, quella compostezza di cui
solo Giulio è capace, quella placida tranquillità che non lo abbandona mai, quel
rigore che pare prendere fuoco solo quando Giulio siede dietro la sua batteria e
inizia a suonare. Giulio in quella foto sembra – e lo era veramente – il più
adulto di noi quattro, quello che sa cosa fare e quando farlo, che non si lascia
sfuggire di mano niente, che ha un rimedio per tutto. Giulio che, anni dopo,
mentre ci rovinavamo con le nostre stesse mani, è stato l’unico capace di
riportarci alla ragione. Alla sua destra, un sorriso allegro sulle grandi labbra
e un guizzo divertito negli occhi neri, c’è Luca. Luca che è tornato ad essere
il mio migliore amico, Luca che ora è innamorato, e la cosa è talmente evidente
che sembra urlarlo anche nella foto, sembra che la sua posa scherzosa contro la
porta – le mani sulle spalle degli altri due, le gambe allargate, i piedi
storti, una sigaretta spenta dietro l’orecchio destro – sembra che dica "si,
sono tornato, sono ancora qui e sono pazzamente felice", Luca con il suo
abbigliamento preciso, accurato, ben tenuto, che come al solito stona con il
nostro sgualcito, vecchio, consunto, Luca con i capelli corti come noi non li
abbiamo mai avuti, Luca con gli occhiali, il colletto della maglia ben stirato,
le scarpe pulite, la faccia da bravo ragazzo. Luca che è tornato ad essere il
mio migliore amico, Luca che sembra avermi accettato nella mia nuova realtà,
Luca che è tornato ad essere il nostro tastierista un po’ timido, quasi
imbarazzato dal rock. E infine, accanto a Luca, una gamba piegata contro il
garage e le mani dietro il collo, c’è Alessio. Bello, pazzamente bello anche
alla grigia luce di un triste novembre, bello da togliere il fiato, bello nella
sua enorme felpa grigia – tutto è grigio in quella foto – bello nel suo
sorrisetto malizioso ovviamente diretto a me, bello negli occhi verdi che
fissano l’obiettivo, sprezzati, sicuri, arroganti, bello come l’assente sole di
novembre. Alessio che continua con me questa pazza segreta storia di baci, di
abbracci rubati, di carezze furtive, di sguardi lascivi durante le prove, di
mani che s’incontrano per lasciarsi andare subito, di desideri inconfessati e
passioni che si accendono. Dietro di loro il cielo grigio, le nuvole cariche di
pioggia, minacciose di scaricare al più presto sulla Terra il loro pesante
fardello, un albero spoglio, la porta metallizzata del garage, il prato
secco.
La musica continua a uscire dallo
stereo, assumendo toni bassi, tenebrosi, rochi, lamenti lontani, grigiori simili
a quelli della foto. Non verrà stanotte. E’ partito un’altra volta, e Dio solo
sa quando lo rivedrò di nuovo. Parte così, all’improvviso, avvertendomi con un
arido messaggio in segreteria, un biglietto sul cuscino dopo una notte d’amore,
un messaggio sul cellulare. Parte e mi lascia solo in questo piccolo
appartamento di Parigi, a circondarmi di ricordi, di musica, di profumi e vecchi
libri.
Alessio corre verso di me, corre
senza preoccuparsi della gente che urta, di quelli che lo guardano stupiti, di
quella vecchietta che ha appena toccato, rischiando di farla cadere. Corre come
se non gli importasse altro, corre come se lo portasse il vento, corre come se
lui fosse lo stesso vento. E quando arriva mi guarda senza dire una parola, mi
guarda e mi bacia, incurante dei passanti, dei bigotti, dei benpensanti. Alessio
mi bacia, e mi spinge in un angolo buio della strada, un vicolo pieno di
rifiuti, dove si sentono i rumori dei topi e dell’acqua che scorre nelle fogne
sotto di noi. Ci accasciamo per terra, Alessio che continua a baciarmi, che mi
sfila la cintura dai pantaloni, che slaccia i suoi jeans e poi i miei, Alessio
che mi spinge contro il muro freddo, duro, umido, Alessio che mi sussurra parole
di passione all’orecchio, Alessio che mi dice di fare l’amore con lui, ora,
subito, in quel vicolo sporco, freddo, angoscioso. Alessio e i suoi occhi verdi
accessi di desiderio, Alessio e le sue carezze che nessun altro mi aveva mai
dato, Alessio che afferra le mie mani, che accoglie i miei baci, Alessio che
accarezza i miei capelli, che si lascia graffiare le spalle per il mio dolore,
Alessio che mi lascia affondare le unghie nella sua carne mentre trattengo un
urlo, Alessio che sfiora il mio viso con i suoi lunghi capelli.
Alessio…
Fuori il sole sta tramontando. Non ho
fame, non ho voglia di alzarmi e sedermi solo a quel tavolo di legno scuro, ad
aspettare che lui torni, ad aspettare di rivedere il suo sorriso, i suoi occhi
velati dai capelli lunghi, non voglio alzarmi da questa poltrona dove pian piano
sto mettendo insieme i pezzi della mia vita. Una sigaretta accesa, una sorsata
di vino rosso, ed ecco, prende forma un altro ricordo.
Solito pub, solita aria pregna di
fumo, alcol, musica, soliti noi seduti attorno al solito tavolo, solito umore,
solita sera, solita vita da adolescenti scazzati. Sul palco una batteria vuota,
un microfono senza cantante, l’attesa del gruppo che sta per suonare. Luca tiene
la mano della sua ragazza, che stasera è di una bellezza allucinante,
sconvolgente, che non può far altro che rapire gli sguardi di tutto il locale,
una bellezza accentuata dalla castità del suo vestito scuro, dal fascino
tranquillo dei suoi occhi neri come la pece, dalla semplicità della sua
pettinatura – una lunga treccia che raccogli i suoi vaporosi capelli dal colore
del cioccolato – dalla morbidezza delle sue forme – altri li chiamerebbero chili
di troppo - una bellezza che sminuisce quella di tutte le altre ragazze presenti
nel locale, che non parole sufficienti per essere descritta, che la rende la
ragazza più affascinante che io abbia mai visto. Anche Giulio è con la sua
ragazza, ma non la tiene per mano, si limita a giocare con i suoi lunghi capelli
neri di tanto in tanto, schioccandole un bacio ad un lato della bocca,
fissandola nei suoi glaciali occhi azzurri. Tutto sembra freddo in quella
ragazza, tutto sembra contrastare con la morbidezza, la dolcezza dell’altra,
tutto pare rigido, dai toni oscuri, bui, che si accompagnano perfettamente a
quelli di Giulio. Alessio mi tiene un braccio attorno al collo, nella solita
posa che adotta quando siamo al pub, e ogni tanto mi guarda, come in attesa di
una mia reazione. E’ strano Alessio, questa sera. Pare preoccupato, sembra
aspettare che succeda qualcosa. Glielo leggo nello sguardo, lo vedo nei suoi
occhi, lo vedo da come mi guarda, da come mi parla. Poi, ad un tratto, le luci
nel locale si abbassano, e sul palco entrano tre ragazzi vestiti di scuro. Uno,
il più basso, si piazza dietro la batteria, i capelli biondi a coprirgli quasi
intermante il volto; un altro, dai capelli castano scuro, arruffati in tanti
riccioli – quasi come i miei – entra portando in mano un basso, salutando con
una mano il pubblico. E poi entra il terzo, e il mio cuore pare bloccarsi per un
attimo. E’ lui. E’ quel ragazzo dai capelli color porpora, quel ragazzo che ha
fatto incantare il mio sguardo e palpitare il mio cuore, che mi ha dato la
conferma a quella risposta che stavo cercando, che seppur inconsapevolmente mi
ha data il coraggio di accettare la mia realtà omosessuale. E’ quel ragazzo
alto, magro, dalla pelle lattea e i capelli coloro fuoco, è quel ragazzo il cui
fascino è quasi palpabile, tangibile nell’aria attorno a noi, che lascia a bocca
aperta tutto il pub, a fissare quella meraviglia che sul palco sta afferrando la
sua chitarra e avvicinarsi al microfono. E io sento il braccio che Alessio tiene
attorno a me irrigidirsi, sento il suo sguardo penetrarmi, sento la
preoccupazione di Alessio e la sua tensione. Ma non posso farci niente, il mio
sguardo continua a dirigersi verso il palco, verso quel ragazzo che inizia a
cantare, e la sua voce è bassa, roca, profonda e allo stesso tempo dolce come il
miele, sento il mio cuore vibrare d’emozione, il mio desiderio farsi vivo, la
mia anima spingersi verso di lui. E quasi inconsciamente sposto il braccio di
Alessio e mi alzo, per dirigermi più vicino al palco, per guardarlo meglio, per
studiarne i tratti, per vedere i suoi movimenti. E rimango lì, inerme, inebetito
da lui, dalla sua voce, dalle sue movenze, rimango lì fino a quando il concerto
non finisce, e i tre scompaiono dal palco. Quando finalmente mi volto e guardo
il nostro tavolo, Alessio non c’è più. E’ sparito.
La notte è calata definitivamente su
Parigi, avvolgendola con il suo manto scuro, seducente, dal fascino ammaliatore,
a cui è impossibile resistere. L’ ha dipinta di luce viva, l’ha puntellata con
le sue stelle, con la superficie lunare grande, tonda, spettralmente bella. La
notte ha un fascino tutto particolare, che non tutti sanno amare. Io si. Io l’ho
sempre saputo fare. Ho amato il fascino torbido della notte, come di tutto il
resto. Ho amato le parti più oscure dei miei amanti, il loro buio, i lati oscuri
e più profondi.
I suoi occhi mi fissano in una
maniera che non avevo mai visto. Incastonati nei miei, immobili, privi
d’espressione, di qualsiasi emozione. Freddi, glaciali, esattamente come è il
suo volto ambrato. Poche parole, dure, aspre, come ghiaccio che ti scheggia la
pelle, come pioggia che ti cade addosso, come fuoco che ti brucia, come luce che
ti acceca. Alessio è in piedi, davanti a
me, e mi guarda. E mi parla. Mi parla di noi, di me, di lui, di quello che
doveva essere un amore, di quella che non doveva essere solo passione, mera
attrazione fisica, puro sfogo sessuale. Mi parla di quello in cui sperava per
noi, mi parla di come aveva capito di amarmi, mi parla di come inconsapevolmente
ero riuscito a domarlo. Mi parla Alessio,
continuando a fissarmi con quei suoi occhi verde prato, che ora sono glaciali
nello sguardo, sono aridi nelle emozioni. Alessio è calmo, pacato. Ma io riesco
a vedere il fuoco dell’ira in lui. Ha visto il mio sguardo l’altra notte. Ha
visto come stavo guardando lui, come i miei occhi si dirigevano naturalmente a
cercare la sua figura, come ero rapito dai movimenti delle sue mani e delle sue
gambe. Alessio ha capito che non lo amo. Alessio l’ha capito prima di me. Ero
convinto di amarlo, ero convinto che fosse lui quello che stavo cercando, ero
convinto che avremmo avuto altri giorni felici, altre foto, altri baci, altri
pomeriggi passati a fare l’amore nascosti in giardino. Ero sicuro di me e
Alessio. Ma ancora una volta lui, quello splendido ragazzo dai capelli rasta e
dagli occhi verdi, ha saputo leggermi dentro prima che lo facessi io. Alessio se
ne va, e i suoi occhi non accennano a perdere quell’aria glaciale che mi
spaventa, mi fa rabbrividire.
E sebbene Alessio non faccio più
parte della mia da talmente tanto tempo che non ricordo più quanto sia, sebbene
stenti a ricordare la sua voce, il suo profumo, sebbene lui resti solo una
parentesi della mia vita – una parentesi che ricorderò fino alla morte – sebbene
ora nella mia vita ci sia lui, ripensando alla durezza del suo sguardo quella
notte, al ghiaccio che mi seminò nel cuore, se ripenso a tutto quello non posso
fare a meno che piegare la testa sul cuscino e lasciare che scenda una lacrima
amara.
Alessio se ne è andato. E’ un freddo
pomeriggio di gennaio, illuminato da un sole lieve, da una sottile luce
giallastra, che dà fastidio agli occhi e ti costringe a tenerli
socchiusi.
L’aria è gelida, ti entra nei polmoni
come una lama, ti sale alla testa. E io entro nel solito garage per le prove,
intimorito dal rivedere Alessio, dal rivedere quei suoi occhi così duri di
qualche sera fa – non ci siamo più incontrati da allora – intimorito dal
rivedere lui, così bello e col cuore spezzato da me, intimorito dalla reazione
che potrei avere, che potrebbe avere. Entro e per un attimo mi pare di vederlo,
lì, in piedi appoggiato al muro, il suo basso a tracolla e lo sguardo
strafottente in viso. Ma Alessio non c’è. E’ solo un’illusione la mia.
Alessio non è lì. C’è Giulio seduto
alla batteria, Luca dietro le tastiere, la mia chitarra appoggiata al muro, ma
lui non c’è. Alessio se ne è andato, e, probabilmente, non tornerà.
Ogni volta che penso a quei giorni mi
viene da piangere. Ricordo quel periodo come vuoto, privo di significato, pieno
di sensi di colpa, degli sguardi attoniti di Giulio e Luca, del loro non capire,
delle prove interrotte a metà, del suonare senza voglia, dei sabato sera
solitari, tristi, bui, chiuso in camera a fumare una sigaretta dietro l’altra.
Vedevo poco mia madre, non sapevo più nulla della sua vita al di fuori della
nostra casa, e forse era meglio così. Ogni volta che penso a quei giorni mi dico
che sarebbe potuta andare diversamente, che avrebbe potuto essere diverso,
migliore.
Forse non sarebbe stato il deprimente
inizio di una vorticosa discesa delle nostre vite.
Ci serve un bassista. Ora che Alessio
se ne è andato – è ancora una ferita aperta, che brucia, che mi scotta ogni
volta che penso a lui, che penso a noi – ora che il nostro bassista non è più
con noi. Abbiamo appeso un annuncio alla bacheca del liceo, abbiamo sparso la
voce nei pub, e adesso siamo qui, seduti nel garage ad aspettare un ragazzo, uno
dei pochi che si sono mostrati interessati. La sigaretta accesa mi penzola ad un
angolo della bocca, le dita tamburellano sulle gambe, i piedi battono irrequieti
a terra. Sono nervoso. Chissà come sarà.
Certamente non come lui, con la sua passione, con la sua bellezza, con quelle
dita nervose che strimpellavano le corde del basso, con lo sguardo sicuro ogni
volta che si iniziava a suonare. Certamente non avrà il suo fascino ammaliatore,
quella luce strana negli occhi, quei modi così seducenti. Certamente non sarà
Alessio, il mio Alessio. Mio. Chissà se lo è mai stato sul serio. Gli è bastata
una mia occhiata di troppo ad un altro per farlo scappare, un momento di
debolezza per allontanarlo da me. La sigaretta finisce di bruciarsi senza che io
me ne accorga e io mi accorgo che no, non era una debolezza, non era uno sguardo
di troppo. Ero io. Sono stato io incapace di tenerlo con me, di dimostrargli che
lo amavo – ma lo amavo sul serio? o era solo l’entusiasmo del primo bacio, della
prima volta, quell’innamoramento sottile e fittizio che ho scambiato per amore –
incapace di vederlo come lui vedeva me, di appartenergli totalmente e
incondizionatamente. La porta metallica
del garage si apre ed entra lui. E’ alto, robusto, con i capelli castani
raccolti in un codino spettinato, la barba bruna, lunga e incolta, e una sciarpa
multicolore al collo. Ha un’aria distratta, occhiali da intellettuale che paiono
voler nascondere le profonde occhiaie nere che gli solcano il viso, dei vestiti
poveri, dall’aspetto consumatissimo. Si chiama Filippo. Gli stringiamo la mano
uno per volta, osservandolo attentamente, cercando di capire che tipo sia. Poi
iniziamo a suonare, e Filippo è indubbiamente bravo, e il basso nero che stringe
tra le mani sembra far parte di lui, della sua immagine, esattamente come quello
rosso di Alessio sembrava far parte di lui, ma con Filippo l’immagine è diversa:
c’è rabbia nel modo in cui stringe lo strumento, c’è dolore nel modo in cui
strimpella le sue corde, c’è tutto lo scazzo di questo mondo nel suo modo di
suonare, tutto quello che nei modi rilassati di Alessio non c’era, tutto quello
che in Alessio era calmo in Filippo pare agitato. E’ un turbinio di note, di
parole urlate sopra la musica, di canti stonati e di nuove emozioni: è la prima
prova del nostro nuovo bassista.
Filippo probabilmente è stata la
figura più controversa che abbia mai conosciuto in tutta la mia vita. Non
riuscivo ad inquadrare quel ragazzo, non riuscivo a capire chi fosse, cosa
pensasse. Non sapevo chi era, ed ero sicuro – oggi le mie ipotesi sono state
confermate – che non lo avrei mai saputo nonostante tutto il tempo che avessi
potuto trascorrere in sua compagnia. Filippo era diverso da chiunque avessi mai
conosciuto.
Lunatico, poliedrico, con una tempra
artistica che non si limitava solo alla musica – Filippo dipingeva, scriveva,
disegnava – Filippo sapeva ammaliarti, coinvolgerti oltre ogni
limite.
Si rimaneva affascinati dai suoi
discorsi: sentirlo parlare era entusiasmante, qualsiasi fosse l’argomento. Ma
Filippo era difficile, nel vero senso del termine: nel suo mondo fatto d’arte e
sogni non c’era posto per altri. Al massimo si poteva rimanere al limite, in
bilico tra la realtà e lui, in un continuo oscillare di situazioni e sentimenti,
dove si capiva solo a stento quale chi lui fosse, cosa lui fosse. Questo
non capire Filippo, questo essere affascinati da lui e non riuscire a entrare in
contatto con il suo vero essere ben presto ci portò alla consapevolezza che
l’entrata di Filippo nelle nostre vite avrebbe potuto solo complicarle
ulteriormente.
Che dirvi...Scrivere questa storia
sta diventando sempre più complicato: le idee ci sono, ma metterle in pratica è
un pò più difficile del previsto...
Continuo a ringraziare chiunque
legga...
Ciocco
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 - Where are you going now? ***
Capitolo 10: Where are you going
now?
Fabio.
Ti ricordo ancora.
Ti ricordo fervidamente,
come se non fosse passata una vita
intera dall’ultima volta che ci siamo visti.
Era gennaio, ricordi?
Un gennaio freddo e
luminoso.
Fabio, Fabio.
Ricordo ancora i tuoi riccioli bruni
arruffati
– li avevi sempre davanti agli occhi,
rammenti? –
ricordo il limpido azzurro dei tuoi
occhi grandi
– erano così chiari, il tuo sguardo
pareva ghiaccio –
ricordo la tua figura esile,
smilza,
eppure così morbida tra le mie
braccia.
Dove sei adesso, Fabio?
Sei ancora in quella casa circondata
da piante,
quella casa che ci ha visti crescere,
che ha visto nascere la nostra
storia,
che ha visto i nostri primi
sguardi,
il primo bacio.
Quella casa dove abbiamo suonato con
passione,
con rabbia,
con gioia.
Quella casa dove abbiamo
bevuto,
fumato,
dove abbiamo dormito stesi bocconi sul
pavimento dopo una sbronza,
dove abbiamo fatto l’amore per ore e
ore.
Mi manca la tua casa, sai
Fabio?
La ricordo con nostalgia.
Ricordo te, con nostalgia.
Ti ho amato, ragazzino.
Ti ho amato davvero.
Ma era troppo presto per
noi.
Non eri preparato ad amare, Fabietto
mio,
non eri ancora pronto per tutto
questo.
Era troppo presto per me.
Troppo presto per noi.
Ho preferito andare via e lasciarti
solo.
Ma non ti ho dimenticato – come avrei
potuto? –
Non ho dimenticato il tuo profilo
scultoreo,
la perfezione dei tuoi
lineamenti,
la profondità del tuo
sguardo.
Sembravi così piccolo tra le mie
braccia, Fabio.
Così incredibilmente innocente
cos’eri.
Ah, Fabio….
Un bambino spaventato, ecco
Chissà dove sei adesso.
Chissà cosa stai facendo.
Se solo potessi scoprirlo.
Se solo potessi sbirciarti un attimo,
entrare per qualche minuto nella tua
vita,
capire chi sei diventato.
Sapere se sei felice.
Cosa è successo alla tua vita dopo che
ne sono uscito, Fabio?
Cosa è successo a te?
Me lo sono domandato spesso in questi
anni.
Ho amato altri dopo di te,
Fabio.
Ho amato uomini e donne,
bianchi e neri.
Ho amato artisti e
intellettuali,
ho amato gente di strada e persone
famose.
Ho amato incondizionatamente,
senza remore,
senza rimpianti,
senza paure.
Ho amato spudoratamente,
ho amato per passione e per odio,
ho amato per il semplice gusto di
farlo.
E tu?
Tu hai imparato ad amare,
Fabio?
Finalmente riesco ad aggiornare...
Scusate se ci ho messo così tanto, ma sono stati
mesi un pò caotici...E per vari motivi personali non sono riuscita a scrivere
nulla di buono (e infatti questo capitolo non è che mi vada così a
genio).
Spero che vi ricordiate ancora della mia
storia!
Ciocco
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