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A
volte ci voltiamo indietro cercando il nostro passato, cercando quelle orme
testimoni dei nostri passi e che qualcuno ci ha sottratto percorrendo il nostro
cammino.
Le testimonianze
di una vita sembrano tanto lontane quanto irraggiungibili, distanti da un
futuro che vorrebbe volare ad ali spiegate ma che inconsapevolmente è legato a
quelle ombre buie che ancora tormentano il cuore.
Trish
è alla continua ricerca del suo essere.
Tanto
bella quanto altera, si imbatterà nel cuore solitario di un giocatore a cui il
passato ha tolto la gioia più grande: amare.
Riuscirà
il tormento di Holly a sciogliere il cuore di ghiaccio di Trish?
Riuscirà
Trish a riacquistare la sua identità nel nome di un grande amore che attende
solo di albeggiare su un mare di sentimenti?
Scandros
CAPITOLO 1
Ricordi di un passato
Barcellona.
Era seduta all’ombra di un grande albero vicino un edificio
circondato da strutture utilizzate per le attività sportive. Sembrava un
complesso scolastico e forse lo era. All’improvviso, sentì i rintocchi dell’orologio
e si alzò velocemente. Doveva correre. Era in ritardo per quell’appuntamento.
Le nubi basse e nere rendevano tetro il paesaggio. Il cielo plumbeo sembrava un
peso insormontabile sulle sue giovani spalle. Correva sempre di più lungo
quella strada: sembrava infinita. Sentiva i tuoni echeggiare nell’aria e una
voce che la chiamava. Continuava a correre insistentemente lungo quella strada
mentre la pioggia copiosa cadeva giù dal cielo. Tutto accadde all’improvviso.
Un fulmine si schiantò sull’asfalto illuminando a giorno la strada. L’odore
acre dello zolfo persisteva nell’aria. Il suo corpo era riverso sull’asfalto
umido ed elettrizzato dalla carica del fulmine. Sotto di lei, una macchia di
sangue continuava ad ingrandirsi al ritmo dei secondi che inesorabili
trascorrevano.
- Dottoressa Hamilton! Dottoressa! - disse l’infermiera
cercando di attirare l’attenzione della donna presa completamente dai suoi
pensieri.
- Ehm…sì, scusami Carmen, ero assorta nei miei
pensieri. - rispose cercando di giustificare la sua momentanea
estraniazione.
- Beh, l’avevo notato. Tutto bene? - chiese Carmen
interessata all’atteggiamento del medico.
- Ma certo, non preoccuparti. - rispose accennando un
timido sorriso.
- Bene. Sta arrivando un’ambulanza. Giovane di circa
ventisei anni vittima di un incidente con la motocicletta. Pare sia stato
scaraventato sul marciapiede da un’auto in folle corsa. - informò Carmen
porgendo alla dottoressa Hamilton il camice sterile e i guanti.
Entrambe corsero verso l’entrata riservata all’ambulanza
nell’attesa che arrivasse il ferito.
Quell’attesa era interminabile. Una fitta la colse all’improvviso.
Ancora quei suoi mal di testa. Doveva decidersi a parlarne ad uno specialista e
fare forse degli accertamenti per appurare che non si trattasse di nulla di
grava. Sentiva i battiti del cuore accelerare all’improvviso. Proprio come
quella notte…esattamente come tutte le volte che quell’incubo tornava
incontrastato a tormentarle il sonno. Forse aveva bisogno di un analista o
chissà di una vacanza rilassante.
I paramedici entrarono velocemente spingendo la barella all’interno
del pronto soccorso.
- Frattura scomposta del perone destro con probabile
distorsione del ginocchio, abrasioni e lesioni su entrambe le gambe e sul
braccio destro. Perdita di conoscenza dovuta all’impatto con l’asfalto,
escoriazioni superficiali sul volto e l’addome. Fortunatamente indossava
il casco integrale. -
- Sappiamo come si chiama? Avete già contattato i
parenti? -
- Ha 27 anni e si chiama Oliver Hutton…porca miseria ma
lui è il centravanti del Barcellona. Dottoressa non vorrei dirle come fare
il suo mestiere ma penso che sia meglio contattare prima la squadra. -
- Di cosa parli Quan? - chiese la dottoressa Hamilton
rilevando i battiti cardiaci.
- E’ un calciatore, dottoressa, uno dei più famosi. Fu
una rivelazione già ai campionati mondiali under 18…
- Ok, ok, non m’interessa la sua carriera agonistica.
Era cosciente quando siete arrivati? Ha detto qualcosa prima dello
svenimento? - chiese informandosi su eventuali dettagli che sarebbero
occorsi per ricostruire la dinamica dell’incidente.
- Beh sì, qualcosa l’ ha detto…un nome: Patty.
Continuava a ripeterlo insistentemente fino a quando non ha perso
conoscenza. -. Ebbe un fremito, un brivido che le percorse la schiena. La
stanza era riscaldata. Non vi erano correnti d’aria eppure ebbe la
sensazione di freddo.
- E l’auto che l’ha travolto? - domandò cercando di
scacciare quella strana angoscia che continuava a seguirla come un’ombra.
- Pare essere sbucata dal nulla ad alta velocità e poi
si è dileguata. Almeno, così sostengono dei testimoni. -
- Okay, portiamolo in sala 4. - disse poi a Carmen e al
dottor Arnau giunto in loro aiuto.
- Dottoressa tenga…in questa busta ci sono i suoi
effetti personali! - le disse Quan prima di congedarsi.
Quan guardò la dottoressa e sorrise. Oramai la conosceva da
qualche anno, da quando aveva cominciato a fare il tirocinio presso di loro. Era
uno degli interni migliori e da voci di corridoio aveva saputo che stava facendo
domanda per l’assistentato in chirurgia plastica d’urgenza. Non si tirava
mai indietro se c’erano doppi turni oppure turni di notte. Era sempre seria e
competente sul lavoro ed estremamente affascinante nonostante non facesse nulla
per far risultare la sua bellezza..
Si girò e andò via verso l’ambulanza richiamato dal suo
collega.
Intanto, in sala emergenza 4 la dottoressa Hamilton e il
dottor Arnau cercavano di rimettere in sesto il calciatore prima di mandarlo in
chirurgia per un eventuale operazione.
- Carmen, per favore controlla tra gli effetti personali
se c’è un numero di telefono da contattare in caso d’emergenza. Poi
vieni qua e fai il prelievo per l’emocromo e gli esami di routine. Luis
come va? - chiese al collega mentre suturava le abrasioni che il calciatore
si era procurato nella caduta.
- Qui tutto okay. Tra un po’ ho finito. Ma ci pensi,
stiamo curando un gran calciatore! -
- Complimenti. Sembrate tutti affascinati dal personaggio
e non dal paziente. Per favore richiedi l’RX toracico e alle gambe. -
disse poi con tono quasi di rimprovero nei confronti del collega.
- Avanti Trish non capita tutti i giorni di avere un vip
tra le mani, no? -
- Dottoressa nella busta, oltre agli indumenti c’è un
cellulare che segnala otto chiamate non risposte e un portafogli. - disse
Carmen esaminando gli oggetti, - Ah, c’è anche un braccialetto con un
ciondolo, forse un portafortuna. Glielo avrà regalato un’ammiratrice! -
- Non cancellare le chiamate senza risposta. Potrebbero
essere importanti per risalire all’orario in cui è successo l’incidente.
Quel pirata è fuggito. Prova a dare un’occhiata nel portafogli per
cortesia. - le chiese mentre gli fasciava il capo.
Lo guardò in volto cercando di cogliere i segni del suo
risveglio. Da quando era arrivato non aveva ancora ripreso conoscenza. Trish
guardò l’elettrocardiogramma. I battiti diminuivano sensibilmente
probabilmente per effetto del trauma causato dalla caduta. Si portò una mano
alla fronte. Ancora quella fitta accompagnata dai battiti accelerati del suo
cuore.
- Porca miseria non ora! - pensò tra se cercando
di mascherare quel suo mancamento. Il paziente sussultò. - Maledizione,
Luis prendi il defibrillatore….i battiti sono sempre meno intensi. -
gridò cercando di destare il collega da uno strano torpore.
Luis afferrò il macchinario e lo caricò per indurre la
scossa elettrica sul petto del ragazzo.
- Dai che ti riprendi…forza! - incitò Luis mentre gli
dava la quarta scarica.
- Okay, ritmo sinusale normale, battito in aumento. Ti
abbiamo ripreso. -
- Trish penso che si stia riprendendo! - affermò il
medico guardando le dita del giovane muoversi e le labbra schiudersi.
- Signor Hutton ci sente? - chiese Trish cercando di
capire se comprendesse o no dove si trovava.
- Sta cercando di dire qualcosa! - esclamò Trish
Hamilton non riuscendo a comprendere cosa il ragazzo avesse sussurrato.
- Patty…- sibilò nell’orecchio della dottoressa che
si era chinata su di lui per ascoltarlo. Rimase atterrita. Continuava a
guardarlo cercando di capire. Il cuore le batteva sempre più velocemente.
- Signor Hutton mi sente? Sono la dottoressa Hamilton. Sa
dove si trova? -
Il giovane aprì gli occhi e fu investito dalla forte luce
della lampada che sovrastava il lettino sul quale giaceva dolorante.
- Cosa….é successo? - chiese a bassa voce cercando di
muoversi.
- Non si muova. Ha avuto un incidente con la sua
motocicletta. - asserì Luis. Carmen si avvicinò alla dottoressa con il
portafoglio del calciatore.
- Guardi dottoressa, a parte un po’ di soldi e le carte
di credito, c’è un cartoncino con dei numeri di telefono. -
- Bene, prova a chiamare questo dove c’è scritto
Julian Ross. E’ il primo sulla lista. Chiedi se conosce Oliver Hutton e in
caso affermativo di contattare i parenti e la squadra di calcio. -
- Guardi, c’è anche questa fotografia. - le disse
avvicinandosi con la piccolo foto tra le mani. Ritraeva un Oliver Hutton
adolescente, probabilmente di circa sedici anni ed una sua coetanea. Si
guardavano e sorridevano. Dietro di loro un grande ciliegio in fiore. Carmen
guardò la dottoressa.
- Lo sa dottoressa, secondo me questa ragazzina le
somiglia. -
- Ma certo, e cosa ci farei io con Oliver Hutton? - le
chiese quasi in maniera scontrosa.
- Beh…eppure..- sostenne mostrando la fotografia al
dottor Arnau.
- Carmen ha ragione. Trish questa ragazzina ti somiglia.
Perché non ci mostri una tuo foto da adolescente? Magari scopriamo che
Oliver Hutton conosce una tua sosia! - disse quasi divertito. Trish lo
fissò. La sua adolescenza. Quale adolescenza? Ne aveva mai avuta una?
Abbassò lo sguardo e continuò quello che stava facendo.
- Carmen chiama in radiologia. Si muovono a portarci l’
RX portatile? - le intimò cercando di non perdere la calma.
- A volte siamo circondati da incompetenti. - sentenziò
Luis Arnau.
- Già. -
- A che ora stacchi? - le chiese cercando di dare un tono
alla loro conversazione.
- Alle diciotto, ma domani ho doppio turno. -
- Ti va di andare a mangiare qualcosa insieme stasera?
Magari possiamo andare a degustarci un’ottima paella sotto i portici de L’Ambos
Mundos! - le chiese guardandola.
- Ti ringrazio Luis, ma vorrei riposarmi. Ieri ho avuto
una giornata massacrante e domani me ne aspetta un’altra. - rispose
abbassando lo sguardo.
Non era la prima volta che Luis le chiedeva di uscire. Di
rado aveva accettato e non si era mai mostrata troppo contenta della sua
compagnia. Luis era un trentenne alto, sempre abbronzato con i capelli castano
chiari che gli circondavano un ovale regolare. Le infermiere impazzivano per lui
e per quegli occhi di un verde scurissimo. E doveva ammetterlo anche lei che era
davvero un uomo piacevole. Eppure, non si sentiva attratta né da lui né da
altri.
Si era trasferita a Barcellona da circa due anni. Dopo aver
conseguito la laurea in medicina negli Stati Uniti aveva cominciato il suo
internato al Saint James Hospital di Chicago. In seguito aveva vinto una borsa
di studio per l’Europa. Aveva visionato più proposte, tra cui Londra, Parigi,
Mosca, Berlino ma lei aveva preferito la Spagna perché c’era il mare.
Talvolta, soprattutto la domenica mattina, quando non era di
turno, le piaceva correre lungo il mare e i giardini che costeggiavano la
Barceloneta. Restava per ore a fissare il mare, il tramonto stemperarsi sulle
onde, disperdendosi in miriadi di colori caldi. Ne assaporava le tinte, il
profumo, la voglia di libertà che le incuteva.
Luis la guardava sempre più interessato. Non solo si era
dimostrata sempre all’altezza della situazione ma era una donna estremamente
enigmatica. E questo lo affascinava. Non si scomponeva mai, agli occhi di altri
poteva sembrare superba, ma Luis era certo che dietro quella sua sicurezza si
celava una donna passionale e bisognosa di affetto. Il suo fisico era longilineo
con le curve nei punti giusti. Aveva dei lunghi capelli neri che portava sempre
raccolti in uno chignon basso. No, non ricordava di averla mai veduta con i
capelli sciolti o senza occhiali. Sembrava quasi una maschera la sua. Si
chiedeva come mai una donna così avvenente non cambiasse il suo aspetto
quotidianamente: lei sembrava aver scelto uno stereotipo da seguire, ed era
quello che faceva.
- Dottoressa Hamilton, ho rintracciato quel tale Julian
Ross. E’ un compagno di squadra del signor Hutton. Ha detto che avverte
lui la famiglia e la squadra. -
- Benissimo. Carmen avverti in chirurgia che abbiamo
stabilizzato il paziente e che lo portiamo su per terminare gli
accertamenti. Se ho ragione, a giudicare da come si è gonfiato, potrebbe
avere del liquido al ginocchio e sarà necessaria un’artroscopia. Chiedi l’ausilio
del chirurgo ortopedico! Se è vero che si tratta di un campione di calcio,
non possiamo certo trascurare la sua carriera! - dispose Trish guardando il
paziente. Aveva gli occhi aperti ma sembrava stordito dall’incidente o
forse dall’effetto degli analgesici.
- Signor Hutton. Le sue condizioni sono stabili. Adesso
la mandiamo su in chirurgia dove le sistemeranno la gamba. Probabilmente,
dopo una piccola operazione la ingesseranno e rimarrà in trazione per un po’
di tempo. - gli disse Luis Arnau. Oliver Hutton sembrava non ascoltarlo e
non distogliere lo sguardo dalla dottoressa. Lei lo guardò e prima di
risistemare le barre di protezione del lettino, gli sorrise.
- Potrò tornare a giocare? - chiese con un filo di voce.
Continuava a fissarla e lei a guardare lui. Trish si portò una mano alla
fronte. Ancora una fitta.
- Questo glielo potranno dire dopo l’operazione! -
esclamò Luis allontanandosi per chiamare l’ascensore.
- Si….sente bene? - le chiese il calciatore notando
quell’attimo di defaillance da parte del medico.
- Cosa? Ma certo! E’ stato solo un lieve giramento di
testa. Grazie…- disse prima di entrare con la barella nell’ascensore.
Luis li salutò con una mano lasciando che le porte dell’ascensore si
chiudessero.
- Signor Hutton abbiamo avvertito un certo Julian Ross
dell’incidente. Ha detto che avrebbe avvertito lui i suoi parenti e la
squadra. -
Socchiuse le palpebre in segno di assenso.
- Vedrà che dopo l’operazione si sentirà meglio. Mi
hanno detto che è un calciatore. Dovrà stare lontano dal campo di calcio
per un po’ di settimane. Ma sono sicura che il dottor Velasquez riuscirà
a rimetterla a posto in meno che non si dica. -
- Grazie,….Patty…- sibilò richiudendo le palpebre.
Le porte si aprirono e Trish, con l’aiuto di un inserviente
spinsero la barella fino all’anticamera della sala operatoria che avevano
preparato.
- Mi allontano un attimo. Vado a ragguagliare i medici
sulle sue condizioni! - gli disse. Sebbene la guardasse, il suo sguardo
sembrava assente.
Trish entrò nella stanza di sterilizzazione e ragguagliò i
colleghi circa le condizioni del calciatore.
Dopo circa un quarto d’ora, Oliver Hutton entrò in sala
operatoria.
Oramai le diciotto erano passate da un pezzo. Trish ripose il
camice e lo stetoscopio nel suo armadietto, indossò il cappottino in renna e
afferrò la borsa. Richiuse l’armadietto e cercò le chiavi di casa nella
borsa. Le afferrò e uscì dal salottino. Si avvicinò al bancone accettazione
del pronto soccorso e al telefono compose l’interno di chirurgia.
- Sono la dottoressa Hamilton, dal Pronto soccorso.
Volevo sapere se Oliver Hutton è uscito dalla sala operatoria. - chiese all’interlocutore.
Rimase in attesa qualche minuto prima che l’uomo tornasse al telefono.
- Sì dottoressa, circa venti minuti fa. E’ ricoverato
qui in chirurgia. Le sue condizioni sono stazionarie. -
- Bene. E’ venuto qualche familiare? -
- Sì, la madre è qui insieme ad alcuni dei compagni di
squadra e all’allenatore. -
- Benissimo. Grazie per le informazioni. - concluse la
conversazione uscendo poi dal pronto soccorso.
Quel giorno si sentiva tremendamente malinconica.
Piovigginava, oramai si era in autunno inoltrato e le giornate si stavano
rinfrescando. Scese dalla metropolitana e percorse di corsa i due isolati che la
dividevano dal palazzo in cui viveva. Al terzo piano di quello stabile, aveva
preso in affitto un appartamento di due vani, abbastanza grande e sufficiente
per le sue esigenze. Inserì la chiave nella serratura e la fece girare. Appena
dentro accese la luce e appoggiò sul divano la giacca e la borsa. Accese il
computer portatile sullo scrittoio ed avviò la connessione internet per
scaricare la posta elettronica. Andò in camera da letto e si buttò a peso
morto sul letto. La stanchezza stava prendendo il sopravvento. Girò il capo
verso il comodino e guardò la sveglia. Era il dodici ottobre. Qualcuno, qualche
tempo addietro le aveva detto che il dodici ottobre era il suo compleanno. Il
notifier vocale le annunciò che c’era posta in arrivo. Si alzò e andò a
visionare i messaggi..
- Trish, ciao tesoro. Ti volevamo fare tanti auguri per
il tuo compleanno. Come stai? Perché non ti fai mai sentire? Se lavori
tanto ti affaticherai. Se sei in casa per favore, rispondi. Possibile che io
non riesca ad avere il tuo numero di cellulare per poterti raggiungere,
ovunque tu sia? Scusami, non dovrei rimproverarti, so bene che sei autonoma.
Ancora auguri, tesoro. -. Chiuse gli occhi per cercare di allontanare la
voce della madre che le sembrava di aver udito leggendo quel messaggio.
Sua madre? Chissà se lo era davvero. Da circa dieci anni non
sapeva più nulla del suo passato. Ricordava solo di essersi risvegliata in un
letto di ospedale dopo quattro mesi di coma, con una donna accanto che diceva di
essere sua madre. Le avevano detto che era stata vittima di un incidente nel
quale aveva riportato un grave trauma cranico che le aveva provocato la perdita
della memoria. Da allora la sua vita era cambiata. Ricordava che quel giorno d’autunno,
quando finalmente i medici la dimisero, non andarono a casa ma all’aeroporto.
Non capiva nulla di quello che stava succedendo. Seguiva quella coppia di adulti
che dicevano di essere i suoi genitori senza parlare, senza neppure pensare a
quello che stava succedendo. Era priva di una sua identità. In fase di
atterraggio, la hostess disse ai passeggeri che stavano per giungere a Chicago.
Ed era lì che aveva trascorso gli anni prima di trasferirsi a Barcellona.
Si alzò e camminò per la casa quasi in cerca di qualcosa.
Il suo appartamento era completamente anonimo. Non c’erano ne fotografie ne
libri, ne cd musicali ne videocassette con gli ultimi film trasmessi al cinema.
Nulla, assolutamente nulla. Sospirò. Era l’ennesima crisi d’identità che
prendeva forma.
- Perché non riesco ad accettare questa mia vita?
Perché vorrei tanto scoprire chi ero prima dell’incidente? Perché i miei
genitori dicono solo che ero un’alunna perfetta, timida, introversa, a cui
non piaceva lo sport e cose del genere? Possibile che fossi così piatta
già da allora? Possibile che in tutta la mia vita l’unica cosa di buono
che sia riuscita a fare sia stato laurearmi in medicina? - sospirò
sedendosi sul divano alla penombra della luce del lume acceso in camera da
letto. Sollevò le ginocchia e le strinse al petto quasi in segno di
protezione. Di tutto quello che era successo, la cosa che meno accettava era
proprio sua madre. Sin da dopo l’incidente era diventata la sua ombra. Le
acquistava gli abiti, i testi da leggere, la consigliava su tutto,
praticamente viveva la sua vita. Fino a quando non decise di iscriversi all’università
di Chicago e di frequentare medicina. I suoi genitori erano rimasti molto
entusiasti di quella sua scelta, meno però dei cambiamenti che la figlia
stava subendo. Diventava sempre più introversa e parlava poco. Studiare
sembrava il suo unico interesse anche se la loro preoccupazione era proprio
l’assenza di dialogo. Tutto era filato nella più ipocrita perfezione fino
a due anni prima, quando Trish aveva deciso di lasciare i suoi genitori.
- Cos’hai detto Trish? - chiese suo padre drizzandosi
dalla poltrona. Il giornale gli cadde sul pavimento. Il suo viso era
adirato.
- Quello che hai sentito. Qualche mese fa ho fatto
domanda per un concorso interno. Andrò all’estero, in Europa. -. Sua
madre era pallida come un cencio.
- Non dirai sul serio. Tu non puoi partire. Non stai
bene? - le disse afferrandole un braccio.
- Io sto benissimo. Mi sono laureata in poco tempo con il
massimo dei voti ed esercito la professione medica già da quando era
studentessa. Se ho ottenuto questi risultati è stato perché ero lucida di
mente. - rispose sciogliendosi dalla presa.
- Tu non puoi andartene dopo tutto quello che è
successo, dopo quello che noi abbiamo fatto per te! -. Le parole della madre
le risuonavano ancora in mente. Forti, brutali, sprezzanti.
Fu proprio in quel preciso istante che decise che non sarebbe
più tornata indietro. Doveva rompere la campana di vetro sotto la quale l’avevano
rinchiusa anni prima.
- Vi ringrazio per l’avermi rinchiusa in una teca di
cristallo dalla quale non potevo uscire. Non solo non ricordo nulla del mio
passato, di come è accaduto l’incidente, di quelli che forse erano i miei
amici, ma da quando siamo arrivati qui mi avete soffocato con le vostre
fobie circa la mia salute. Io sto bene. Frequentando il college ho anche
fatto attività sportiva, ovviamente a vostra insaputa perché mi avreste
ostacolato anche in questo. Cosa volete da me? Il mio bene? Allora
lasciatemi vivere. Io non ce la faccio più a stare qui con voi. Mi
dispiace, ma io…devo andar via. -
- Trish ti rendi conto di quello che stai dicendo? Se tu
non avessi avuto noi…
- Ma cosa diavolo stai dicendo. A me sembra una cosa
naturale, che un genitore si occupi del proprio figlio, senza
rinfacciarglielo. Per anni mi avete ripetuto le solite cose, che dovevo
riguardarmi, che ero cagionevole di salute, che avrei dovuto condurre uno
stile di vita tranquillo senza provare particolari emozioni! Perché?
Perché io non posso vivere come le altre ragazze della mia età? Sono in
buona salute e lo dimostrano gli accertamenti medici che mi faccio
costantemente. Siete voi che mi volete come una bella statuina. Non ho
conseguito la laurea in medicina per riporla nel cassetto. Ho diritto anch’io
alla mia vita. Ho già perso il passato, lasciatemi costruire il mio futuro.
-
- Tu non puoi farci questo! - sentenziò Jim.
- E da quando ti preoccupi dei miei sentimenti? L’ultima
volta che l’hai fatto, mi hai affibbiato il figlio idiota di un tuo
superiore, solo ed esclusivamente per fare carriera! - rispose quasi urlando
puntandogli il dito contro. Sua madre continuava a guardarla quasi attonita
cercando di riordinare le idee per poter dire qualcosa. Non la vedeva così
da tanto tempo, tanto che aveva dimenticato la sua irruenza e la sua voglia
di libertà.
- Mi hai quasi fatto perdere il posto? -
- Ti preoccupi ancora di quella storia? Dovrei farlo io
visto che mi sono trovata ad essere l’oggetto di una serata piacevole tra
tre amici. Devo ricordarti che per poco non mi hanno violentata? Oppure devo
continuare a pensare che avresti voluto esserci anche tu? -
- Smettila di dire idiozie. -
- Tu non sei mio padre, quindi taci per quanto riguarda
la mia vita. - gli disse guardandolo quasi con odio. Non gli aveva mai
perdonato quell’avventura meschina che l’aveva lasciata cadere in un
baratro buio e tetro dal quale era risalita solo grazie alle sue forze.
- Se esci da questa casa non ci metterai più piede. -
tuonò Jim infervorato dalle parole di astio e odio pronunciate dalla figlia
adottiva.
- Aspetta Jim…- sussurrò sua madre cercando di sedare
gli animi e di riprendere l’autocontrollo perduto. - Trish tesoro…cercheremo
di cambiare atteggiamento…-
- Ormai ho deciso. Me ne vado…-
- Ma dove andrai? - esclamò in tono supplichevole.
- Ovunque purché sia lontano da qui…
- Ci odi fino a questo punto? - le chiese supplichevole.
- Non vi odio: voglio solo vivere. Penso di averne
diritto. Vi ho chiesto tante volte di parlarmi del mio passato. Siete sempre
stati evasivi e non ho mai scoperto il perché. Dato che il mio passato è
oscuro, vorrei far luce almeno sul mio futuro. Argomento chiuso. -
- Trish, pensaci. Ti prego. -
- Ho già deciso. - disse risoluta andando in camera sua.
Il suo risentimento era tale da spingerla ad andar via pur di non restare in
un ambiente quanto mai opprimente ed asfissiante.
Con la mente percorse i singoli attimi che avevan preceduto
la sua partenza da quella litigata con i suoi genitori. Aveva preparato i suoi
bagagli da giorni attendendo con trepidazione il giorno della partenza.
Ricordava come il giorno della sua iscrizione al concorso, leggendo le varie
destinazioni, era rimasta affascinata da Barcellona. Si era iscritta ad un corso
serale di spagnolo e si sentiva preparata a quell’esperienza che avrebbe
mutato il suo futuro. Aveva studiato con impegno e assiduità pur di coronare il
suo sogno di fuga, per mettere alla prova le sue conoscenze e le sue capacità.
Jason Mulder. Fu lui, il suo compagno di corso a darle la notizia.
- Trish, finalmente ti ho trovata. - le disse senza
fiato. Aveva corso lungo i corridoi dell’ospedale. Voleva essere il primo
a darle la notizia.
- Cos’è successo? Riprendi fiato o ti verrà una
crisi! - gli rispose incitandolo a calmarsi.
- Tu…ce l’hai fatta. - le disse regalandole il più
bel sorriso che lei avesse mai ricordato.
- Cosa? -
- Hai vinto la borsa di studio! Sei arrivata prima! -
esclamò prendendola tra le braccia e facendola volteggiare in aria.
Istintivamente la baciò con ardore e lei rispose a quel gesto affettuoso di
colui che era diventato il suo più grande amico. Dopo che anche lei si rese
conto della splendida notizia, andarono a festeggiare in una birreria
irlandese e tra una bevuta e l’altra, si risvegliarono nel letto dell’appartamento
di Jason.
- Stai andando via? - le chiese guardandola mentre si
alzava dal letto, nello splendore della sua nudità. Era successo ancora una
volta. Trasportati dalle emozioni, dall’energia del momento, dall’attimo,
si erano riscoperti amanti ma solo ed unicamente amici. Almeno per lei.
Un tuono la riportò alla realtà. Jason Mulder. Sorrise al
ricordo dell’ amico e del compagno di alcune notti. Il suo ovale regolare, i
suoi occhi scuri sempre vigile, le labbra carnose di un rosso ciliegia. Le sue
grandi e protettive braccia. A lui aveva confidato i dubbi sul passato, i
silenzi della sua vita, i progetti sul futuro. Quella era stata la loro ultima
notte. Poi era andata via lasciandogli solo una lettera nella quale si congedava
da quel capitolo della sua vita.
Chiuse gli occhi cercando di assaporare la sensazione del suo
ultimo passionale bacio scambiato prima di andar via. Gli aveva detto addio per
sempre, per ricominciare una nuova vita.
La ragazza era riversa sulla strada. La pioggia battente non
riusciva a disperdere la pozza di sangue sotto il suo corpo. Vide un ombra
correre verso la giovane, il capo coperto dal cappuccio della felpa.
La guardò ancora e fu pervasa da un senso di indefinita
tristezza. Inconsapevolmente, senza alcuna ragione, cominciò a piangere. L’uomo
si avvicinò alla figura distesa sull’asfalto. La prese tra le sue braccia e
cercò di smuoverla. Rimase in attesa di un suo movimento, ma non vide il
benché minimo segno di vita. Scosse il capo e il cappuccio si riversò sulle
sue spalle. Alzò il capo al cielo urlando mentre le sue lacrime amare si
mischiavano a quelle del cielo. Lo guardava attonita. Non riusciva a distogliere
lo sguardo da quel giovane, da Oliver Hutton mentre disperato stringeva a se la
ragazza urlando inconsolabilmente il suo nome: Patty.
Continuava a rigirarsi nel letto disturbata dai suoi soliti
incubi. Un’improvvisa sensazione di freddo la destò. Si levò improvvisamente
a sedere sul letto. La fronte madida di sudore, il battito accelerato. I suoi
incubi la angosciavano ancora di più.
Oliver Hutton. Era arrivato ferito il giorno prima e lei lo
aveva curato. Cosa ci faceva nel suo sogno? Perché si disperava dinnanzi alla
morte di quella ragazza di cui lei non riusciva mai a vedere il volto? Guardò
la sveglia. Erano le cinque. Nell’arco di un’ora sarebbe squillata
ricordandole che alle sette e trenta doveva essere in ospedale.
Si passò le mani tra i capelli nel ricordo ancora vivo di
quel sogno. Perché proprio lui? Patty. Quel nome. L’aveva pronunciato anche
il giorno prima e l’aveva chiamata così. Perché?
- Forse si tratta della sua ragazza e per questo la
cercava ieri. Ma allora perché mi è venuto in sogno? Non ci capisco più
nulla. Continuo a chiedermi se tutti questi incubi, il mio mal di testa,
fanno parte di reminiscenze del mio passato. -. Si voltò verso la finestra.
Il vento l’aveva spalancata e adesso spirava gelido nella sua stanza da
letto. Rabbrividì, ma era ben cosciente che non si trattava di freddo.
Chiuse gli occhi e fece una smorfia di dolore. Non capiva nulla di quello
che le stava accadendo. Scostò le coperte e si alzò dirigendosi in bagno.
Si soffermò a guardare il lungo specchio dietro la porta del
bagno. Si spogliò continuando a rimirare le forme perfette del suo corpo. Da
qualche anno, con una certa assiduità, faceva jogging per mantenersi in forma.
I capelli lunghi e scuri ricadevano sul biancore etereo della sua pelle creando
un contrasto evidente e sensuale. Era bella, molto, ma lei non si sentiva tale.
I suoi grandi occhi nocciola sembravano inespressivi, inanimati e spesso erano
annebbiati dalle sue lacrime. Tanti uomini le avevano detto che era splendida,
ma lei aveva amato solo Jason, seppure come un amico. Non era riuscita a provare
neanche per lui quel grande sentimento che in molti chiamavano amore, a
lasciarsi trasportare in un turbine di emozioni e passione. L’aveva amato, e
basta. Non aveva sofferto per averlo lasciato, tale era il suo anelito di
libertà.
Trish sospirò cercando di riprendere l’autocontrollo e si
infilò sotto la doccia nella speranza che potesse alleviare il senso di ansia
che la avvolgeva.
- Buongiorno dottoressa Hamilton! - disse l’infermiera
incrociandola all’ingresso del reparto ortopedia. Non appena si era
liberata, si era diretta in quel reparto dove dal giorno prima era stato
ricoverato il calciatore Oliver Hutton. Voleva sapere se incontrarlo ancora
una volta gli avrebbe provocato lo stesso effetto dell’incubo di quella
notte.
- Buongiorno. Qual è la stanza di Oliver Hutton? -
chiese regolando gli occhiali sul naso.
- La numero 218, in fondo al corridoio. Ci sono visite
per lui. -
- Bene grazie. - rispose congedando l’infermiera. Era
quasi mezzogiorno. Il suo cerca persona squillò e si fermò in corridoio
per richiamare il pronto soccorso.
- Chi mi ha cercata? - chiese con tono professionale.
- Il dottor Arnau. E’ qui, glielo passo dottoressa. -
- Sì, grazie, Miguel. -
- Trish! -
- Dimmi Luis. Problemi? -
- Nulla di grave. Volevo solo sapere se avevi già
provveduto a far ritirare le analisi complete del signor Aribau. Ho qui la
moglie…
- Già ritirate. Ho aggiornato anche la sua cartella. La
trovi nello schedario. -
- Sapevo che di te potevo fidarmi. -
- Ma va? Adesso giudichi anche il mio lavoro? - gli
chiese in tono ironico.
- Dovresti saperlo che sei la mia preferita. Anzi, visto
che ieri hai rifiutato l’invito a cena, ti va di pranzare insieme nella
nostra meravigliosa, calda, insuperabile e quanto mai schifosa mensa? - le
chiese sarcastico.
- Okay. Non appena mi libero ti chiamo. -
- Dove sei? -
- Ortopedia. -
- Oliver Hutton! Non ti sarai mica presa una sbandata per
il personaggio famoso? -
- Luis non dire scemenze. Come potrei infatuarmi di una
persona che neppure conosco? -
- Effettivamente da te non mi aspetterei un comportamento
del genere. Anche perché non sarebbe giusto nei miei confronti, vista la
corte spietata che ti faccio. -
- Smettila di dire scemenze e torna al lavoro. Gli sto
riportando gli effetti personali. Ci vediamo dopo. -
- Sì, amore mio. - concluse canzonando la collega. Trish
sorrise alle battute infantili ma piacevoli del noto Casanova dell’ospedale.
La sua compagnia era piacevole e gli ricordava il suo amico Jason. Proprio
perché vittima del suo ricordo, temeva di poter ripetere gli stessi errori,
illudendo l’amico di un amore improbabile.
Non appena si voltò, si imbatté in una coppia di ragazzi
che attendendo di entrare nella stanza del calciatore. Le due ragazze si
guardarono. Trish da un lato, avvolta nel camice bianco, con i capelli
scurissimi raccolti nel classico chignon, gli occhiali da riposo sempre sul
naso. L’altra invece, era una ragazza più o meno della sua stessa altezza,
snella e dal portamento aggraziato. L’ovale chiaro era incorniciato da una
chioma castano ramata che morbidamente le scendeva sulle spalle. Non avrebbe
mai dimenticato quel suo sguardo fisso su di lei, i suoi occhi sgranati che la
guardavano, mentre il mazzo di fiori le scivolava via dalle mani posandosi sul
pavimento del corridoio. E lui la guardava nella stessa maniera. Sembravano
entrambi catturati dalla sua immagine, incapaci di fare un minimo movimento o
pronunciare il più piccolo sibilo. La ragazza dai capelli rossi tremava e
tentoni si aggrappò al braccio di lui.
Trish ebbe un fremito, proprio come durante l’incontro
con Oliver Hutton.
- Posso aiutarvi? - chiese loro cercando di interrompere
quello stato di strano torpore.
- Pat…Patty! Sei tu! - sussurrò lei con le lacrime
agli occhi.
- Prego? Ha detto qualcosa? - le chiese guardandola con
maggiore curiosità.
- Tu…tu sei…Patty! - le disse ancora una volta.
- Mi dispiace, temo mi stia confondendo con qualcun
altro. Mi chiamo Trish Hamilton, non Patty! - rispose cortesemente senza
distogliere lo sguardo dalla coppia.
- Ma…io sono Amy e lui…Julian Ross. -
- Signora, sono davvero spiacente ma non sono la persona
che crede lei. Evidentemente ci somigliamo ma, le assicuro che mi chiamo
Trish Hamilton. Ora scusatemi, devo vedere un paziente. - disse loro
lasciandoli senza parole. Prima che potesse girare la maniglia, un uomo
seguito dal dottor Velasquez aprì la porta.
- Dottoressa Hamilton, cercavo proprio lei! - disse il
dottor Velasquez evidentemente inasprito dal colloquio con l’uomo che l’aveva
preceduto.
- Mi dica dottore. -
- Il signor Gomez è il procuratore del signor Hutton. -
- Piacere di conoscerla. - gli disse ponendogli la mano
in segno di saluto. L’uomo gliela strinse ma era palesemente adirato. -
Cosa posso fare per voi? - chiese per nulla intimorita dall’espressione
cagnesca.
- Il signor Velasquez è adirato con noi perché siamo
intervenuti tempestivamente sul signor Hutton senza prima consultare lo
staff medico della squadra. Il signor Hutton è un calciatore professionista
molto noto e le sue gambe valgono parecchi milioni di euro. -. Trish aveva
ascoltato i commenti del primario di ortopedia e aveva compreso dal suo
sguardo che era alquanto tediato da quel comportamento poco coerente con la
loro mentalità.
- Signor Gomez, mi sono occupata io del primo soccorso
del signor Hutton. Sebbene le sue condizioni non fossero gravi, a causa del
trauma dovuto alle cadute e al dolore procuratogli dalle ferite, è svenuto.
Non solo. Il battito del cuore ha cominciato a rallentare e abbiamo dovuto
utilizzare il defibrillatore per ristabilire il ritmo normale. Di fronte a
tutto questo, secondo lei era opportuno attendere che qualcuno di voi fosse
contatto e venisse subito. E comunque, sapendo che si trattava di uno
sportivo, abbiamo richiesto esami complementari a quelli di routine e più
specifici per accertarci che una caduta rovinosa avesse procurato danni a
legamenti o altro. - disse Trish sicura e preparata sull’argomento.
- Infatti, come le ho già detto, dall’esame
artoscopico è risultato solo un lieve distacco della cartilagine rotulea.
Abbiamo fatto quello che era necessario. Il signor Hutton dovrà rimanere
ingessato per qualche settimana, e con la gamba in trazione non correremo il
rischio di rigetti. Per quanto concerne il trauma cranico, è di lieve
entità e non ha procurato alcun danno cerebrale. - concluse il dottor
Velasquez visibilmente più rilassato dopo l’ampio prologo fatto da Trish.
- Oramai è fatto. Avrei preferito consultare prima altri
specialisti. -
- Signor Gomez, solitamente ci occupiamo di feriti ben
più gravi e generalmente salviamo loro una vita. Mi sembra davvero
eccessiva la sua preoccupazione. In questo ospedale i malati sono curati in
maniera eccellente e indistintamente, sicuramente non in base al nome, al
titolo o a raccomandazioni. - esplose Trish cercando di mantenere la calma
ma pur sempre seccata dal comportamento di quell’uomo.
- Me lo auguro per voi. In ogni caso predisporrò il
trasferimento del signor Hutton. -
- Faccia come crede, fin quando resterà, sarà ben
curato. Con permesso. - gli disse aprendo la porta della stanza di Oliver
Hutton. Aveva visto il sorriso sulle labbra del primario. Condivideva le sue
idee e quanto Trish aveva declamato al procuratore.
Il volto girato verso la finestra. Rimirava silenziosamente
il paesaggio oltre i vetri cercando forse di assaporare la fresca giornata di
ottobre. Il vento ululava tra le fronde dei platani facendo ondeggiare le fogli
al suo ritmo. Aveva la stessa impressione del giorno prima, del sogno di quella
notte: lui era triste, malinconico. Perché un giovane attraente, rampante come
lui doveva sentirsi così mesto? Richiuse la porta alle sue spalle destandolo
dai pensieri. Si voltò lentamente verso di lei e la guardò con più attenzione
rispetto al giorno prima. Quegli occhi sembravano perdersi nei suoi. Ebbe un
fremito. Non ricordava se qualcuno l’aveva mai guardata con la stessa
attenzione, premura, forse eccitazione. Gli incuteva timore o probabilmente
qualche altra strana, inspiegabile sensazione! Ma quale? Non era paura la sua,
non temeva l’aggressione o il comportamento scorretto di Hutton. Ma nella sua
espressione c’era qualcosa che la incuriosiva e al tempo stesso preoccupava.
Smosse le labbra e fievolmente pronunciò qualcosa.
- Patty! -. Trish assottigliò gli occhi per guardare
meglio l’immagine dinanzi ai suoi occhi. Una copia di adolescenti
sorridenti che si rincorrevano. Un flashback. Negli ultimi tempi le capitava
sovente di avere dei flashback che all’improvviso comparivano ai suoi
occhi come immagini confuse. Scosse il capo. Oliver Hutton la fissava.
Ripeté quel nome quasi eccitato. Gli occhi sgranati su di lei in preda all’euforia
di quell’attimo.
- Signor Hutton, io mi chiamo Trish Hamilton. L’ho già
detto ai suoi amici. Evidentemente somiglio a questa persona di nome Patty.
-
- No. Non può essere così. Tu sei Patty, la mia Patty!
- esclamò non convinto dell’affermazione della dottoressa.
- Le ripeto che mi chiamo Trish Hamilton! - sentenziò
quasi infastidita da quelle continue insinuazioni sul suo nome. Si avvicinò
al letto e gli diede una busta.
- Sono venuta per consegnarle i suoi effetti personali. -
gli disse spiegando la ragione della sua visita. Non era vero. Era solo una
scusa e lei lo sapeva. C’era qualcosa in quel ragazzo che la attirava.
Oliver abbassò lo sguardo afferrando la busta. Lei prese la cartella
clinica al bordo del letto e cominciò a scorrerla velocemente in attesa che
il giovane controllasse che i suoi effetti fossero interamente contenuti nel
sacchetto. Alzò leggermente lo sguardo su di lui. Gli oggetti erano sparsi
sul copriletto: tra le mani tratteneva solo la fotografia e il braccialetto
di cui le aveva parlato Carmen. Non staccava gli occhi da quella foto. La
sua mano tremava.
- Patty! Per un attimo ho pensato che tu fossi tornata da
me. Non c’è giorno che non ti pensi, che ti cerchi nella mia
quotidianità, nella mia vita oramai così monotona da quando non ci sei
più. Sono disperato. Sei andata via senza dir nulla, forse per punirmi del
mio egoismo, senza lasciarmi la possibilità di spiegarti. Mi hai
abbandonato al nulla e adesso mi ritrovo qui, in un letto di ospedale, con
il tuo fantasma di fronte a me. Ti somiglia. Tanto. Sono certo che se si
sciogliesse i capelli e si togliesse gli occhiali, sareste identiche. Ma
come faccio a dirlo? L’ultima volta che ti ho vista, avevi sedici anni.
Perché non riesco a chiudere gli occhi e ad abbandonarmi all’oblio?
Perché ogni giorno cerco la ragione per andare avanti senza di te? Piccola
stella mia, quanto vorrei rivederti, almeno, solo per un piccolissimo
attimo. - pensò continuando a rimirare quell’immagine. Trish l’aveva
guardato costantemente. Possibile che il sentimento per quella ragazza fosse
tale da indurlo ad essere così nostalgico? Provò compassione per lui. Si
avvicinò di nuovo al suo letto.
- Ha trovato tutto? - gli chiese senza pretendere che la
guardasse.
- Non lo so, e comunque non ha importanza. Ho trovato
quello che volevo. - disse stringendo la foto e il braccialetto. Era una
catenina in argento con appesa una iniziale. Era una “P”.
- D’accordo. Allora, io vado via. Ci sono dei suoi
amici, posso farli entrare? -
- Le hanno detto chi sono? -
- Se non ho capito male, Julian Ross ed una certa Amy. -
- Sì, va bene. - rispose in tono distaccato. Trish lo
guardò ancora e poi gli voltò le spalle. - Grazie! - aggiunse prima che la
donna si congedasse.
Quando Amy e Julian entrarono, trovarono Holly ancora
impegnato a rimirare la fotografia.
- Come stai? - gli chiese Julian cortesemente.
- Bene, grazie Julian. Gomez dice che mi vuole far
dimettere e trasferire a casa così potrò stare più tranquillo. -. Amy si
era avvicinata alla finestra e guardava il cortile estraniata dal mondo
interno. La guardarono entrambi. Julian sapeva cosa stava provando. Aveva
visto la sosia della sua cara amica Patty, la ragazza di cui uno dei suoi
migliori amici era disperatamente innamorato.
- L’hai vista! - esclamò rivolgendosi all’amica.
Chinò il capo in segno di assenso e strinse i pugni.
- E’ lei. - disse Holly guardando nel vuoto.
- No. Lei è Trish Hamilton. -
- No Amy. Sono sicuro che sia lei. -
- Holly non dire stupidate. Se si fosse trattato di lei,
ci avrebbe riconosciuti. - ribatté seccamente cercando di convincersi che
effettivamente non si trattava dell’amica.
- L’istinto mi dice che è lei. -
- Amy ha ragione. Patty non era così fredda e
distaccata. Lei era adorabile, gioiosa, allegra…lei era la nostra Patty e
tu dovresti fartene una ragione. -
- Sai bene come la penso a tal proposito. Fino a che non
la troverò, o qualcuno non mi dirà che è morta, non mi darò pace. -
- Holly, non puoi continuare a vivere con il suo
fantasma. Lei non c’è più. Se ne è andata dieci anni fa al tuo ritorno
dal Brasile. Nessuno ha più notizie di lei da allora. Non è più tornata a
Fujisawa e in quella che era la sua casa, ci abita da allora un’altra
famiglia. -
- Patty non sarebbe mai andata via senza una ragione. -
- Mi sembra inutile parlarne perché il tuo cuore ha già
deciso. Vuoi continuare a tormentarti? Fallo pure amico. Non hai il diritto
di soffrire così tanto. Hai perso l’entusiasmo, sei diventato una
macchina che gioca a calcio per dovere e non per il piacere di stare con
quello che una volta era il tuo migliore amico. Lei non tornerà Holly,
fattene una ragione! - ribadì risoluto Julian. Holly non parlò ed Amy
continuò a fissare il paesaggio oltre la finestra. Come l’amico, non
aveva mai perduto la speranza di trovare la sua cara amica Patty.
- Anche se non tornerà, lei rimarrà sempre con me! -
sussurrò accompagnato dalle lacrime di Amy che lentamente le stavano
scivolando giù per le gote.
Trish percorreva il corridoio quasi soffocata da quella
sensazione di angoscia che avevano pervaso le quattro mura. Aveva avvertito la
stessa sensazione del sogno, la medesima malinconia. Si toccò la fronte sudata.
Aveva la strana impressione che le loro vite si stessero intrecciando! Qualcosa
li accomunava, forse la tristezza delle loro vite oramai piatte e prive dei
migliori sentimenti un po’ per scelta, un po’ per l’incessante procedere
degli eventi. Oliver Hutton si sarebbe ripreso facilmente dalle ferite riportate
nell’incidente, ma Trish sapeva che la ferita che aveva al cuore, non si
sarebbe mai rimarginata. Andò in bagno e si guardò allo specchio.
Cosa aveva lei di tanto somigliante con la ragazza che cercavano? Possibile
che i loro tratti somatici fossero tanto simili e che tutte le persone che
ruotavano attorno a Oliver Hutton la scambiassero per la misteriosa Patty? Si
portò una mano al viso accarezzando la pelle morbida. Quale grande sentimento
aveva legato quel giocatore alla ragazza? Possibile che il destino era stato
così cruento e ingiusto da dividerli? Più pensava a lui, più accresceva il
desiderio di sapere cosa angosciava Oliver Hutton.
I giorni trascorrevano nella più grigia routine e
saltuariamente, Trish andava a visitare Oliver Hutton che per qualche strana
ragione aveva deciso di rimanere in ospedale. Anche nei giorni successivi al
loro primo vero incontro, lei aveva provato le medesime sensazioni: il cuore
avvolto in uno strano e quasi disperato tumulto. Era così che stava vivendo la
sua degenza. Inspiegabilmente, soffriva per quel ragazzo. Lo vedeva sempre mesto
e alla ricerca della solitudine e del silenzio. Spesso si soffermava a guardare
la sua finestra dal giardino e senza saperlo, era il momento in cui anche lui la
guardava. Quando le giornate erano belle e soleggiate, Trish consumava il suo
pranzo seduta su una panchina all’ombra degli alti platani.
Lui la rimirava rinchiusa nei suoi segreti, nell’aurea
misteriosa che pareva circondarla. Era sicuro di aver trovato la sua Patty e dal
giorno in cui si erano parlati, non aveva smesso di seguirla con gli occhi e con
la mente. Per questo motivo aveva chiesto al suo procuratore di rimanere
ricoverato in ospedale.
E anche quel mezzogiorno, mentre il sole splendeva nel cielo
terso, la vide lì, seduta sulla panchina, che leggeva all’ombra del platano.
Rivide la sua Patty seduta all’ombra del grande ciliegio, tante volte
testimone delle loro chiacchierate e del loro ultimo incontro. La ricordò
mentre i grandi occhi nocciola si perdevano nei suoi, le stringeva la mano per
sigillare l’intensità del momento.
Trish Hamilton. Non sembrava una persona gioiosa eppure, nei
giorni che erano seguiti, durante i loro sporadici incontri, gli aveva
dimostrato di essere dolce e premurosa. Questa sua tendenza aveva rafforzato il
pensiero di Holly che si trattasse della sua Patty. Ma allora, perché mai
avrebbe continuato a vestire l’identità di un’altra persona? La sua Patty
sarebbe stata contenta di vederlo, ne era sicuro.
- Signor Hutton, perché non va a fare una passeggiata in
giardino? - gli chiese il primario visitandolo. Era in ospedale da circa
quindici giorni e la sua degenza progrediva di giorno in giorno. Entro pochi
giorni gli avrebbero tolto l’ingessatura e dopo aver ripetuto gli esami,
avrebbe dovuto iniziare la fisioterapia ortopedica. Se tutto fosse andato
per il meglio, il primario gli aveva assicurato che prima di Natale sarebbe
sceso nuovamente sul terreno di gioco.
- Pensa sia una buona idea? - gli chiese guardandolo.
- Certamente. Deve cominciare ad abituarsi all’idea di
alzarsi indipendentemente dai suoi bisogni fisiologici. Oggi è una bella
giornata e l’aria è calda. Se vuole l’accompagno. - gli disse indicando
la porta. Oliver lo guardò e pensò che non era affatto una cattiva idea
uscire per prendere un po’ d’aria fresca. Impacciato e movendosi
lentamente, riuscì a mettere entrambe le gambe per terra. Il medico gli
passò la vestaglia che indossò facilmente. Afferrò le stampelle
imbracandole sotto le braccia e preceduto dal primario, iniziò adagio a
camminare verso il corridoio. Finalmente, poteva alzarsi per andare in un
posto che non fosse la toelette. Gli sembrava di aver respirato una boccata
d’aria pulita. Si guardava intorno cercando di memorizzare i luoghi che
stava percorrendo. Quando finalmente arrivarono all’esterno dell’edificio,
Oliver alzò gli occhi al cielo e fu colpito dal luminoso bagliore del sole.
Chiuse gli occhi accecato e assaporò la frizzante aria ottobrina sentendosi
già meglio.
La vide ancora seduta lì, romanticamente e splendidamente
immersa nei suoi pensieri, nel suo sognare, nel lungo viaggio oltre la realtà.
La rivedeva ancora seduta all’ombra del ciliegio mentre la
brezza ondeggiava dolcemente tra i suoi capelli scuri. Trish li portava sempre
legati. Mentre timidi spicchi di sole si riflettevano sulla sua pelle candida.
Dov’era? Era inevitabile pensare a lei. Ogni più piccolo gesto, la più
timida sensazione, le ricordavano il grande amore della sua vita.
Lentamente si avvicinò alla dottoressa memorizzando ogni
singolo tratto di quel volto tanto somigliante a quello dell’amata. Nulla. Era
leggermente differente perché più maturo, lontano dall’adolescenza che
avevano trascorso insieme.
Rimase a guardarla in silenzio. La discesa lenta di una
foglia secca sul suo libro sembrò destarla dall’atmosfera ovattata in cui
pareva giacere. Alzò lo sguardo verso di lui e istintivamente gli sorrise. Non
le capitava spesso, ma con lui sì. Imbarazzato cercò di sedersi ma perse l’equilibrio
cadendo. L’improvviso intervento di Trish attutì quella che altrimenti si
sarebbe rivelata una caduta rovinosa.
Faccia a faccia, l’uno nelle braccia dell’altra. Poteva
sentire il suo respiro vicino il viso, i suoi occhi scrutare curiosi ogni minimo
particolare del suo ovale perfetto. Il cuore batteva veloce al ritmo dei
pensieri che confusi si accavallavano gli uni sugli altri. Il suo sguardo dentro
di lei. Così profondo, audace, sembrava quasi volerla spogliare di quella
maschera che con consuetudine vestiva. Avvertì l’impulso di buttargli le
braccia al collo e baciare quelle labbra vogliose. Schiuse le palpebre per
riprendersi dall’attimo di defaillance. Non l’aveva lasciata neppure per un
secondo.
- Sta bene? - gli chiese cercando di ricomporsi e
aiutandolo ad alzarsi. Si sedettero entrambi sulla panchina. - Le fa male da
qualche parte? -
- Ho l’impressione che si siano accavallati i nervi del
braccio! - le disse con una smorfia di dolore. Gli si avvicinò alzando la
manica del pigiama e della vestaglia fino alla spalla. Posò le sue mani sul
braccio intorpidito. Una sensazione di immediato calore lo investì. Le sue
mani cominciarono a salire e scendere lungo la pelle, movendosi con un ritmo
dolce e quasi sensuale. Sussultò. Quel gesto così spontaneo era davvero
insolito da parte sua. Non ricordava di averlo fatto mai prima, soprattutto
ad un uomo. Cosa le stava succedendo?
Ebbe un flashback. Ancora Oliver Hutton e quella ragazzina
che gli massaggiava i polpacci stanchi. Scosse leggermente il capo per cercare
di cancellare l’immagine apparsa improvvisamente. Chi era quella ragazza che
oramai l’assillava da tempo? Forse doveva chiederlo a Oliver Hutton? Ma cosa
avrebbe pensato sapendo che lei l’aveva sognato o che spesso compariva nei
flashback della sua mente? Rinunciò all’idea per non doversi esporsi troppo
con lui e continuò il massaggio.
Lui sembrava incantato da quei gesti e ammutolito dalla sua
predominanza. Patty. Lei era bravissima a massaggiargli le gambe. Non occorreva
che le dicesse qualcosa: se ne accorgeva da sola e in pochi istanti era da lui
con unguenti miracolosi che lenivano i suoi dolori. Gli mancava molto, troppo.
Ma da quando era in ospedale, riusciva a pensare ad altro, a Trish.
- Perché mi guardava prima? - gli chiese con tono
divertito, senza alcun ammonimento quand’ebbe terminato il massaggio.
- Pensavo non mi avesse visto! - rispose imbarazzato
portandosi una mano tra i capelli.
- L’ho notata mentre usciva dal portone. Ed ho visto il
riflesso della sua ombra. -
- Non le sfugge nulla. -
- Più cose di quante lei possa immaginare, signor Hutton.
- gli rispose continuando a guardarlo. Era un bel giovane, alto, dal fisico
atletico, con i pettorali e le braccia scolpite da dure ore di allenamento.
Si riscoprì leggermente imbarazzata. Non era da lei fissare qualcuno
soprattutto se non si trattava di un amico. Gli sorrise ancora.
- E’ più carina quando ride. - le sussurrò
spontaneamente.
- Grazie. -. Ancora il silenzio tra loro. Eppure era
piacevole. Il sole tiepido li riscaldava mentre i loro pensieri vagavano
chissà per quali orizzonti. Ascoltavano gradevolmente i loro respiri.
- Non ha risposto alla mia domanda! - esclamò lei
interrompendo quel complice mutismo.
- Sarei sconveniente se le dicessi perché è una bella
donna? - le chiese ironico. Dai pochi momenti in cui avevano avuto scambi di
parole e idee, aveva compreso che era una donna preparata e alla quale
piaceva conversare solo con le persone che lei giudicava interessanti.
- No, ma non le crederei. Il suo non è lo sguardo di un
ammiratore. - rispose sicura guardandolo. Era impressionante la loro
somiglianza. Holly non riusciva a distogliere lo sguardo da lei. Persisteva
a guardarla negli occhi quasi catturato da un filo magico invisibile.
Sentiva il turbinoso fluire del sangue nelle vene quasi a volergli ricordare
che esisteva, che era lì con una figura enigmatica. Nonostante non la
conoscesse bene, si sentiva a suo agio con lei.
- Non sarà da ammiratore ma non mi impedisce certo di
farle un complimento sincero. -
- Allora nuovamente grazie. - gli rispose guardando il
libro.
Occhi oscuri, una poesia di Herman Hesse che spesso
rileggeva. La seguì con gli occhi e scorse velocemente le tre strofe.
Occhi oscuri
E' la mia nostalgia ed il mio amore
oggi in questa notte calda
dolce come il profumo di fiori esotici,
svegliati ad una vita che scotta.
La mia nostalgia ed il mio amore
e' tutta la mia fortuna e sfortuna
e' scritta come una muta canzone
nel tuo sguardo oscuro da fiaba.
E' la mia nostalgia ed il mio amore,
sfuggito al mondo e ad ogni suo rumore,
si e' costruito nei tuoi occhi oscuri
un segreto trono da re
.
Herman Hesse (1877-1962)
Chiuse gli occhi ripensando ai suoi occhi nocciola che
pulsavano alla vita, al ritmo del suo cuore innamorato. Non l’aveva mai
capita, fino a che non l’aveva perduta. Era questo il suo peggior incubo. Non
averla amata abbastanza non quanto il suo cuore e il suo corpo desideravano fare
ora. Lei si voltò verso il giovane e sembrò comprendere quale stato d’animo
stesse vivendo in quell’attimo, quale tumulto avesse preso il sopravvento nel
suo cuore.
- E’ molto bella. - le disse ancora ad occhi chiusi.
- Sì, lo é. -
- Lei è una persona nostalgica? -
- La nostalgia fa parte della nostra essenza, proprio
come la felicità. Sentimenti contrastanti che ci accarezzano, ci
accompagnano dalla nascita alla morte, come ombre. Le emozioni creano lampi
di trepidazioni, turbini di passioni e noi…non possiamo nulla dinanzi a
loro: dobbiamo solo avere la speranza di poterli provare, di essere
investiti dalla loro energia e ritrovarci un giorno, innamorati della vita.
- disse trascinata da un’insolita passione.
- La nostalgia è insita dentro di noi e solo chi soffre
ne conosce davvero il significato. - rispose malinconico e serio.
- La sofferenza non è solo la perdita di qualcuno ma
anche di qualcosa. La sofferenza non conosce ragione o metodo. Arriva e
basta, scompigliando un momento della tua vita e adombrando le giornate che
ne seguono. - gli rispose imperiosa.
- Non c’è niente che possa far soffrire di più della
perdita di una persona importante. - sentenziò lui cercando di esternare.
- Non sono d’accordo. - disse richiudendo il libro e
alzandosi dalla panchina.
- Perché, c’è qualcosa che può far soffrire di più?
Io non penso. - le disse cercando di trattenerla ancora in quel discorso
oramai degenerato.
- Sarebbe egoistico dire che si soffre qualcuno. La
sofferenza è dentro di noi, e basta. Dobbiamo conviverci tutti i giorni,
non dobbiamo aspettare che muoia qualcuno a noi caro per provarla. -
- Ma cosa stai dicendo! - esclamò lui drizzandosi in
piedi. Il volto era infervorato, i suoi occhi furenti. Le afferrò un polso
per trattenerla. Lei si girò di scatto verso di lui. - Evidentemente non
hai mai perso qualcuno perché altrimenti non parleresti così. Perdere la
persona alla quale tieni di più al mondo nell’impotenza di poter fare
qualcosa per riportarla da te. Ti trovi all’improvviso catapultato in una
dimensione a te sconosciuta, in una sorta di camera insonorizzata dove tutti
cercano di avvicinarsi a te, e il tuo cuore ti impedisce di avere qualsiasi
reazione. La perdita delle persone a cui tieni ti porta una tale sofferenza
che anche dopo tanto tempo non riesci a dimenticare il suono della loro
voce, la sensazione di una loro carezza, ogni piccolissimo gesto che a loro
era legato. La sofferenza è tua, è vero e ti porta a non dimenticare le
persone che ami, ad averne una grande, infinita nostalgia. -
- Come fai a dire che non capisco? Come ti permetti di
giudicarmi? Si può soffrire anche solo ed esclusivamente per la mancanza di
un’identità che ti impedisce di costruire il futuro, che ti fa vivere
ogni singolo giorno sul baratro dell’oblio. La perdita di una persona
porta sofferenza ma anche la rassegnazione. La perdita di se stessi porta
soltanto a un continuo turbamento che notte e giorno non ti lascia
respirare. Non c’è minuto nella tua grigia giornata, che non porti a
domandarti cosa diavolo ci fai qui? Continui a farti domande alle quale
nessuno ti può rispondere, e coloro che possono farlo, restano lì ad
aspettare un tuo passo falso per il solo desiderio di puntarti il dito
contro! Cosa ne sai tu di me! - urlò guardandolo sprezzante, adirata,
desiderosa di andare oltre quelle frasi, di urlare al mondo intero che lei
Trish Hamilton, non sapeva nulla di se stessa. - La sofferenza non
riporterà in vita la tua Patty ed io non sono lei, mettitelo in testa! -
concluse tirando verso di se il braccio.
- Patty non è morta! - replicò gelido. - Lei tornerà.
-.
Trish lo guardò ancora. Sul suo volto c’era la convinzione
che quella ragazza prima o poi sarebbe tornata a splendere nella sua vita. Si
rese conto dalle sue parole, che doveva averla amata e ancora l’amava in
maniera assoluta e disperata. Si poteva soffrire così, disperandosi nel
desiderio del ritorno di una persona amata? Quale straordinario sentimento aveva
unito Oliver Hutton alla sua Patty? Si girò per andarsene. Quella conversazione
l’aveva turbata fin troppo e dopo Jason, era lui la prima persona alla quale
parlava così sinceramente. No, era diverso da Jason. Oliver Hutton era più
passionale, si lasciava trasportare dalle emozioni, aveva conosciuto la
sofferenza. Jason era e sarebbe rimasto sempre e solo uno dei suoi più grandi
amici, il rampollo di una nota famiglia statunitense che prima o poi avrebbe
sposato una donna di importanza rilevante.
- Non ti servirà a nulla fuggire dai fantasmi del tuo
passato. Non riuscirai mai ad essere te stesso pensando a quello che eri. -
pensò Hutton. Le parole che il suo amico Julian gli aveva ripetuto tante
volte. Adesso, le avrebbe volute gridare a Trish Hamilton per sovrastare il
suo sguardo tagliente e accusatorio. Ma come poteva dire a lei le parole che
tanto odiava ascoltare?
- Mi dispiace. - le disse.
- Invidio quella ragazza. La passione e il sentimento che
ti legano a lei è tanto grande quanto ingiusta è stata la vita che vi ha
separati. -
- Non invidiare i miei sentimenti. Ognuno di noi può
amare, basta solo aprire il proprio cuore. Io l’ho imparato a caro prezzo…e
a distanza di anni, non riesco a trovare il coraggio di ricominciare. -
disse con voce flebile.
- Ah…imparare ad amare…chissà, forse…un giorno. -
gli disse guardandolo ancora, un’ultima volta per poi correre via.
Julian, Amy e Philip Callaghan avevano assistito all’ultima
parte della loro lite. Si avvicinarono all’amico apparentemente in stato di
tranche.
- Adesso che l’ho vista.. penso che Amy e Holly abbiano
ragione. - disse rivolgendosi a Julian.
- Ti prego, Phil, non ricominciare anche tu con questa
storia. Non è lei, non può essere. Si sarebbe ricordata di noi. -
- Holly, tu cosa ne pensi? - chiese Amy.
- Io? Non lo so più. - gli disse sedendosi nuovamente
sulla panchina. I tre amici lo guardarono cadere nello sconforto dell’amore
perduto, ancora una volta.
Amy si girò verso il viale doveva l’aveva vista correre
via. Cercava ancora la sua ombra, qualche minimo particolare che l’avrebbe
ricondotta alla sua cara amica. Non c’era più. Dal giorno in cui l’aveva
incontrata, dentro di se era maturata e cresciuta l’idea che si trattasse di
lei. Julian non era riuscito a distogliere la moglie da quel pensiero e l’arrivo
di Philip Callaghan in città, per la partita contro il Manchester United, aveva
solo aggravato questa tesi.
Holly sembrava prostrato dallo scontro con Trish, duramente
provato dalle parole che aveva udito e che le aveva detto. Forse era stato
troppo duro nei suoi confronti e probabilmente non aveva avuto alcun diritto a
parlarle così. Ma c’era qualcosa di indefinibile nella sua persona, nel suo
carattere che continuava a tormentarlo. Quella donna era diventato il suo tarlo
fisso, la persona alla quale, a parte la sua Patty, pensava durante il giorno.
Il calcio, la sua più grande passione e amata professione
erano orami passati in secondo ordine.
Stesa sul divano, immersa nel buio della sera, Trish
ripensava alla discussione avuta con Oliver Hutton quel mezzogiorno. Cosa sapeva
lui della sua vita? L’incidente prima, il coma dopo. Il trasferimento della
sua famiglia a Chicago. La campana di vetro sotto la quale l’avevano fatta
crescere fino a che non aveva deciso di andare via per sempre.
- No. Lui non può sapere queste cose di me! Nessuno lo
sa, solo io e i miei pensieri. Sono fuggita dagli Stati Uniti anche per
questo, per cercare di costruire una vita migliore. E invece, mi ritrovo qui
a piangermi addosso, a pensare continuamente a quel maledetto incidente. Se
solo sapessi, tutto mi sarebbe più chiaro, non vivrei più con questa
angoscia. Ma lui? Perché ha tanta influenza su di me? Cosa mi sta
succedendo? Possibile che la mia attrazione verso di lui sia tale da
permettergli di parlarmi con tale insolenza? Oliver Hutton. Dal giorno in
cui è arrivato in ospedale, non faccio che pensare a lui, cercare il
pretesto per andare a trovarlo. E’ vero, devo ammetterlo. Il cuore mi
batte quando lo vedo, ma non riesco ad essere felice. Lui è già innamorato
e non permetterà a nessuno di portargli via la sua sofferenza, il ricordo
della persona amata. Patty! Chi sei tu che gli procuri tanto dolore? - si
chiese guardando il soffitto. Avrebbe voluto che Jason fosse lì ad
ascoltarla, a consigliarla sul da fare. I loro rapporti erano limitati
oramai solo agli auguri di Natale. Adesso c’era Oliver Hutton. Jason non
si era mai permesso di parlarle così, nonostante conoscesse particolari
della sua vita totalmente oscuri ad Hutton. Lui invece, non aveva avuto
alcuna remora a dirle di guardare avanti e non indietro, a farle capire che
doveva vivere la vita e non voltarsi indietro. Stupido. Come aveva osato.
Doveva diradare se non smettere del tutto le sue visite a quel paziente
tanto ostile nei suoi confronti.
- Non invidiare i miei sentimenti. Ognuno di noi può
amare, basta solo aprire il proprio cuore. - pensò ricordando a
menadito le parole che le aveva detto. Come si imparava ad amare? - E’ una
parola tanto semplice da pronunciare quanto difficile da provare. Come
faccio a non pensare al mio passato se mi chiedo continuamente se ho mai
amato qualcuno? Perché non sono riuscita ad innamorarmi di Jason o ad
infatuarmi di Luis? Cosa c’è di sbagliato in me? Possibile che il mio
cuore sia offuscato dalle nebbie di un amore passato, al quale
inconsapevolmente mi sento ancora legata? - si chiese prima che il
sonno e la stanchezza prendessero il sopravvento su di lei.
Continuava a guardare fuori dalla finestra. Gli alberi erano
avvolti dalla notte e le stelle erano troppo in alto per poterle vedere ad
occhio nudo. Non riusciva a dormire, non per i dolori, ma per l’assillante
pensiero di Trish Hamilton. Era entrata nella sua vita all’improvviso, proprio
come una folata di vento.
- Cosa diavolo mi sta succedendo? Cosa mai mi passa per
la mente? Avevo voglia di baciarla, di stringerla a me. Come può essere? Io
non posso amarla, io amo Patty! Maledizione. Trish Hamilton perché sei
entrata nella mia vita? Io…non so più cosa fare. Patty aiutami. Dove sei
stella mia? Vorrei tanto che tu fossi qui, tu…che quando io avevo bisogno,
mi sentivo insicuro, c’eri sempre. Tu che eri la parte migliore di me.
Quando finirà questo oblio? Quando lascerò che la dimenticanza porti via
con se il sapore amaro della tua scomparsa? Forse è per questo motivo che l’ho
incontrata? -
- Siamo così simili perché entrambi abbiamo sofferto e
ancora soffriamo per qualcuno o qualcosa. Cosa la fa disperare così tanto?
Quale motivo può essere più valido della perdita di qualcuno che si ama?
Mi sento scombussolato. Non so cosa fare. Vorrei andare da lei e sapere cosa
la affligge forse per lenire le mie ferite o forse perché davvero vorrei
aiutarla. Oggi, in preda al panico, ho esagerato. Ho fatto sì che il nostro
incontro degenerasse in quella maniera. Non ne avevo il diritto. E qualcosa
mi dice che non la rivedrò molto presto! - pensò rimuginando sull’esito
di quell’incontro.
Di una cosa entrambi erano certi: quel loro scontro avrebbe cambiato il corso
del loro rapporto e forse delle rispettive emozioni.
L’aereo partito da Barcellona stava per atterrare a Tokyo.
Finalmente sarebbe stata di nuovo a casa.
Era molto preoccupata. Doveva assolutamente scoprire qualcosa
che era accaduto circa dieci anni prima. Lo doveva fare per lei, per
riconquistare forse un’amica perduta e lo doveva fare per un grande amico che
da tempo soffriva. La scusa per partire a Tokyo le era piovuta su un piatto d’argento.
Julian si era infortunato ad una spalla nella partita contro il Manchester
United e così avevano deciso di tornare insieme in Giappone per trovare amici e
parenti.
- Tesoro stai bene? - chiese Julian alla moglie
prendendole la mano.
- Ma certo Jul. Ero solo soprappensiero. -
- Questa storia ti sta sfinendo. Perché ti ostini tanto?
-
- Perché sono sempre più convinta che si tratti di lei!
- asserì determinata.
- Cosa te lo fa pensare? -
- Lei. A parte la somiglianza, è proprio l’espressione
dei suoi occhi. Sembra quasi voler nascondere qualcosa. -
- Ma dai. Amy, se davvero si trattasse di lei, Trish
Hamilton sarebbe un’attrice strepitosa. Come potrebbe mentire in maniera
così perfetta di fronte a noi e soprattutto di fronte a quello che è stato
l’amore della sua vita? -
- Non lo so Julian. Non so spiegarmi tante cose, ma
esattamente come Holly, io sono convinta che si tratta di lei. Sembra quasi
aver acquisito una nuova personalità. Il corpo è il suo ma lei è un’altra.
Quando l’altro giorno ha improvvisato quel massaggio a Holly, lui mi ha
confermato che ha avuto provato le medesime sensazioni di quando Patty lo
assisteva ai tempi dei campionati scolastici. -
- Avanti Amy, come fa Holly a ricordare le sensazioni
provate quando Patty gli rifaceva le fasciature? -
- Forse perché ne era innamorato? - sentenziò lei
dispiaciuta.
- Non volevo offenderti. So quanto tieni a Patty e Holly
è anche un mio grande amico. Se potessi, lo aiuterei in ogni modo, solo che
non so come fare! -
- Io ci devo provare. Se solo ripenso a quante lacrime ha
versato lei per amor suo e a quante ne ha versate lui dopo la sua scomparsa.
Non hanno mai avuto la possibilità di amarsi e questo mi fa molto male: non
è giusto. Devo scoprire che fine ha fatto Patty: perché è scomparsa prima
che Holly tornasse dal Brasile? - si domandò prima che l’aereo
cominciasse la fase di atterraggio.
Julian guardò sua moglie e sospirò. Erano felicemente
sposati da due anni. Lei non aveva mai dimenticato la cara amica e l’incontro
casuale con Trish Hamilton aveva cambiato i suoi ultimi giorni. Lei e Holly
sembravano vivere nell’incubo della dottoressa Hamilton.
L’indomani mattina, Amy si destò molto presto. Era stato
abbastanza strano svegliarsi nella grande camera da letto di Julian, in
particolare perché per la prima volta non dormivano in quella stessa alcova da
clandestini, ma da marito e moglie. Guardò fuori dalla finestra e sospirò. Si
guardò il grembo che oramai cominciava a crescere. Avrebbe dovuto dirglielo.
Oramai era al terzo mese ma a lui non aveva ancora detto niente perché le
avrebbe impedito di partire.
Il suo cuore le aveva indicato la strada del ritorno. Solo
lei poteva farlo visto che nessuno degli ex compagni di Patty aveva saputo più
niente di lei. C’era qualcosa che la spingeva a cercare la verità a Fujisawa.
Guardò Julian ancora dormiente. Lo amava più della sua stessa vita e proprio
per questo aveva sempre compreso i sentimenti di Patty. I tempi della scuola,
dei campionati nazionali, la partenza di Holly e il tanto sospirato ritorno.
Perché quel giorno non andò all’aeroporto, e perché quando Holly andò a
casa sua non vi trovò nessuno fino a quando non vide solo il vendesi della
società immobiliare? Perché era andata via tutto d’un tratto senza dir
nulla?
Andò in bagno, si fece la doccia e si vestì velocemente. Si
guardò allo specchio. Chissà se sarebbe stato un maschietto o una femminuccia.
Se avesse concluso qualche cosa, quella sera avrebbe rivelato alla famiglia dell’imminente
maternità.
Quando terminò di prepararsi si accorse che Julian era
sveglio.
- Ciao tesoro. - gli disse baciandolo dolcemente sulla
fronte.
- Ciao cara. Stai uscendo? -
- Sì, pensavo di andare subito a Fujisawa a vedere se
riesco a combinare qualcosa. Così, se mi sbrigo magari passo da Evelyn a
vedere i bambini. Ti va di venire con me? -
- Non me l’avevi ancora chiesto: perché proprio ora?
-. Lei abbassò lo sguardo. Non l’aveva reso complice delle sue indagini.
- Scusami, è che credevo non ti importasse molto di
questa cosa o comunque che l’avessi presa un po’ alla leggera. -.
- Il fatto è che mi è difficile credere ai fantasmi del
passato. Ma ti vedo così convinta che sto cambiando idea. Di una cosa sono
certo: se stai facendo tutto questo è perché sei sicura di ricavarne
qualcosa. - le disse poi, balzando a sedere sul letto.
Com’era bello il suo Julian, anche appena svegliato, con i
capelli scompigliati e il volto segnato dal cuscino.
- Ti amo Jul. -
- Anche io, amore mio. - rispose tirandola a se e
appoggiando il capo al suo ventre. Lei gli accarezzò i capelli conscia che
quella sera l’avrebbe reso l’uomo più felice del mondo.
Julian decise di seguirla, così si preparò in fretta e
scesero entrambi in soggiorno per fare colazione. I genitori di Julian erano
già al tavolo che si versavano del caffè.
Dopo i convenevoli e la colazione, Julian prese le chiavi
della sua macchina, ancora parcheggiata nel garage della villa, e insieme alla
moglie si diresse alla volta di Fujisawa.
Seguendo i ricordi, Amy indicò a Julian la strada per
arrivare a quella che era stata la casa di Patty. Parcheggiarono l’auto lungo
la strada e scesero per proseguire ai piedi cercando di districarsi tra i vicoli
di quelle villette.
- Sei sicura che è da queste parti? -
- Sì, in fondo a quella strada c’è la casa di Holly,
ci siamo passati prima in auto. E da queste parti dovrebbe esserci la
villetta in cui abitava Patty. -.
Amy sembrava non distogliere lo sguardo da una villetta
recentemente ristrutturata.
- E’ quella. - disse indicandola con il dito.
- Sei sicura? A me sembra nuova! -
- Forse è stata recentemente ristrutturata. - sussurrò
avvicinandosi al giardinetto che circondava la villa. - Adesso ne sono
sicura. -
- In che senso? - chiese Julian non capendo.
- Vedi il ciliegio? Beh era proprio sotto la finestra
della stanza di Patty. -
- Uhm…tesoro, come pensiamo di entrare in questa casa?
-
- Suonando il campanello, mi sembra ovvio. - rispose
precedendolo.
Un signore anziano aprì la porta e si avvicinò al cancello.
Guardò la coppia con aria incuriosita. Amy era davvero elegante nel tailleur
rosso rubino che le fasciava le forme longilinee. I capelli ramati le cadevano
leggeri sulle spalle.
- Buongiorno. - dissero i ragazzi in coro.
- Salve. Sentite, non siamo interessati ne alla vostra
pubblicità ne ai prodotti che rivendete porta a porta. -
- No, non si preoccupi, non siamo agenti pubblicitari o
venditori porta a porta. - rispose lei cercando di tranquillizzare l’anziano.
- Allora cosa volete? -
- Beh..lei è il proprietario, il signor Morgan? -
- Perché mai dovrei rispondere ad una domanda del
genere? - chiese scattando sulla difensiva.
- Mi dispiace, lei ha ragione, siamo piombati qui all’improvviso
senza neppure annunciare il nostro arrivo. Non ci giudichi in maniera
prevenuta. Stiamo cercando informazioni sulla famiglia che abitava in questa
casa prima di voi, la famiglia Gatsby. -
L’anziano si mise le mani in tasca e si avvicinò ancora di
più.
- Tu sei uno sportivo? - chiese a Julian sorprendendolo.
- Sì, gioco a calcio. Perché? -
- Evidentemente, nella famiglia che abitava prima qui,
qualcuno coltivava la passione per lo sport. -
- In che senso? -
L’uomo non rispose. Sembrava non voler scoprire le sue
carte.
- La prego, signore. Sto cercando una mia carissima amica
che una volta abitava qui. All’improvviso é scomparsa e non abbiamo più
avuto notizie di lei. Si chiamava Patty, Patricia Gatsby! - aggiunse Amy
sperando di risvegliare in quell’uomo delle emozioni.
- Venite! - esclamò aprendo il cancello. Julian prese
per mano Amy e la tenne al suo fianco. Lo seguirono in casa silenziosamente.
Non sembrava esserci nessuno, si sentiva solo il profumo del caffè. Indicò
loro un sofà consunto e i ragazzi si accomodarono in segno di educazione.
Si allontanò in cucina e quando tornò aveva con se un vassoio con delle
tazze colme di caffè fumante.
- Ci siamo trasferiti qui circa dieci anni fa. Eravamo in
visita presso dei parenti. Mia moglie soffriva di attacchi di asma e il
medico ci consigliò di trasferirci in provincia abbandonando la vita
caotica di Tokyo. Chiamai subito l’agenzia immobiliare e con mia somma
sorpresa chiudemmo il contratto in quella stessa settimana. La famiglia che
abitava qui aveva fretta di concludere l’affare ma senza svendere la
proprietà. -
- Perché avevano fretta? -
- Non lo so bene. Incontrai il padrone di casa solo due
volte. Mi sembrava un uomo fugace, che avesse fretta di concludere quasi
stesse fuggendo da qualcosa. Vidi solo lui. Quando mi fece visitare la casa
rimasi colpito dalla stanza del figlio. Almeno pensavo fosse un ragazzo.
Avevo notato appesi al muro dei poster e delle fotografie sempre della
stessa squadra di calcio. In particolar modo, nelle foto avevo notato un
ragazzo e una ragazza: c’erano sempre. Per questo pensai che si trattasse
di quel ragazzo e forse della sua fidanzatina. Sapete, io ho uno spirito di
osservazione molto vasto anche perché dipingo, quindi mi piace analizzare i
minimi particolari.
- Quello che credevo essere il signor Gatsby, mi rispose
quasi in maniera scortese che si trattava di sua figlia. Entrò in camera e
strappò dal muro un poster di quel ragazzo. Poi ne uscì profondamente
adirato. Non capivo. Quando tornai la seconda volta, dopo che ebbi concluso
il contratto, la casa era stata parzialmente svuotata. La maggior parte dei
mobili erano stati già portati via e c’erano solo dei cartoni. Poi mia
moglie mi chiamò e la raggiunsi al piano di sopra. Sapete, lei era
psicologa e analizzava tutto quello che trovava, anche gli oggetti. -
- Perché sua moglie la chiamò? Cosa aveva visto di
tanto interessante? - chiese Amy sporgendosi verso l’uomo, evidentemente
interessata da quella conversazione.
- Aveva trovato una scatola. La ricordo ancora quella
scena. La trovai abbassata, raccoglieva delle buste da lettera dal
pavimento. Mi disse di guardare. Provenivano dal Brasile ed erano tutte
indirizzate a Patricia Gatsby. Erano tutte aperte, quelle buste: ognuna
conteneva ordinatamente la sua lettera. Tranne una. Ancora sigillata
arrivata da un paio di settimane. Evidentemente non l’aveva mai aperta. -
Julian impallidì. Ricordò vagamente che Holly gli aveva
detto di aver spedito a Patty una lettera prima del suo rientro in Giappone e,
che non vedendola più, aveva sperato almeno in una sua risposta scritta. Si
trattava della lettera che Patty evidentemente non aveva mai letto.
- Accanto alle buste, sul pavimento, trovammo anche una
fotografia. La cornice si era ammaccata e il vetro infranto. -
- Chi ritraeva quella foto? -
- I due ragazzi che avevamo precedentemente visto durante
la nostra prima visita alla casa. -. L’anziano signore si alzò e andò
verso uno scrittoio sistemato all’angolo della stanza. Ne aprì il grande
cassetto estraendo una scatola. La portò ai due ospiti posandola sul
tavolinetto antistante il sofà. Gli occhi di Amy si riempirono di lacrime.
- Tesoro, che hai? -
- Jul, questo…questa è la scatola porta lettere che
regalai a Patty dopo la partenza di Holly. - disse rammaricata. In quella
bella scatola di tessuto fiorato, erano conservati i ricordi e le speranze,
i sentimenti e i dispiaceri di Holly e Patty.
- Signora, si sente bene? - domandò l’anziano
intimorito dalla reazione di Amy.
- Vede, non vedo Patty da così tanto tempo che il
ritrovare un pezzo del suo passato, qui, in questa casa, non può che
rattristarmi. In questa scatola, lei conservava le lettere che il ragazzo di
cui era innamorata, le scriveva durante il suo soggiorno in Brasile. -
- In questi anni mi sono spesso domandato il perché di
tanto mistero nel comportamento del padrone di casa. Mia moglie si era
subito affezionata a quei due ragazzi. Conservò gelosamente la fotografia
che aveva ritrovato e queste lettere. Non le abbiamo mai lette. Lei diceva
che dovevamo rispettare i sentimenti dei due giovani, che aveva
romanticamente ribattezzato in Romeo e Giulietta. Mia moglie diceva che
quella fotografia parlava. Nelle loro espressioni era dipinto l’amore che
provavano l’uno per l’altra. -
- Sua moglie aveva ragione! Un amore mai dichiarato ma
intenso e sincero. - esclamò Julian sorprendendo Amy. Anche lui, finalmente
stava credendo a quella storia.
- Non ha mai cercato di contattare la famiglia Gatsby? -
chiese Amy.
- Sì. Dopo che ritrovammo la scatola con le lettere, mia
moglie chiamò l’agenzia immobiliare. Volevamo restituire gli oggetti alla
legittima proprietaria. Mi ricordo che l’agente che ci aveva seguiti nell’acquisto
della casa, ci disse che si erano trasferiti negli Stati Uniti. Fino a prima
della sua morte, mia moglie Hanna mi disse che era sicura che quei due
giovani un giorno avrebbero vissuto la loro storia d’amore. -. Amy e
Julian tacquero. Se Patty si era trasferita negli Stati Uniti, forse non si
trattava di Trish Hamilton visto che lei risiedeva in Spagna!
Prima di congedarsi, l’anziano diede a Amy la scatola con
le lettere dicendole che non aveva alcun motivo per conservarle lui, che forse
era più giusto che le conservasse una cara amica. La foto invece la trattenne
perché a quella immagine legava quella della moglie, tanto affascinata da quei
due ragazzi.
- Sono sicura che si tratti di lei! - disse poi in auto.
- Hai sentito cos’ha detto? Patty si è trasferita
negli Stati Uniti. -
- Già, ma poi potrebbe essersi trasferita in Spagna. -
- Non far viaggiare troppo la tua fantasia. -
- Non è giusto Julian. -
- Lo so tesoro, ma forse…e se provassimo ad andare all’agenzia
immobiliare? -
- Non penso sia una buona idea. Sono trascorsi dieci anni
e probabilmente l’agente che trattenne la trattativa per la vendita della
casa non c’è più. Senza contare poi che all’epoca non volle dare
riscontro alle richieste del signor Morgan. Amy, capisco che vorresti
arrivare alla verità, sapere perché Patty è sparita e non si è fatta
più viva, ma forse il destino non vuole. -
- Potremmo ingaggiare un investigatore privato. -
- Amy! -
- Okay, ma io non mi do per vinta. Scoprirò cosa è
successo. Che ne dici di passare da Bruce e da Evelyn? -
- Sì, certo. - rispose Julian sconsolato. Quando Amy si
metteva in testa una cosa, diventava irremovibile. Tuttavia, era stata
proprio quella forza d’animo, quel suo carattere fermo ad aiutarlo nelle
situazioni più critiche.
Trovarono facilmente la residenza di Bruce ed Evelyn, oramai
sposati da quattro anni e genitori di due splendidi gemelli di pochi mesi. Era
proprio sopra il negozio che Evelyn gestiva con l’aiuto del marito, quando non
allenava la squadra cittadina dei pulcini.
Parcheggiò la bella auto di lusso proprio davanti l’ingresso
del negozio. Mano nella mano, solcarono la soglia e videro una giovane con due
simpatiche codine intenta a sistemare alcuni oggetti su uno scaffale.
- Pensavo che col matrimonio avresti sciolto i tuoi
codini? - disse Amy cercando di attirare la sua attenzione. Evelyn si voltò
di scatto riconoscendo la voce dell’amica e corse ad abbracciarla.
- Amy, Julian. Che sorpresa. Che bello avervi qui! -
disse loro dopo averli salutati adeguatamente.
- E Bruce dov’è? - chiese Julian. - Starà per
arrivare. E’ andato a fare una consegna. Non riesco ancora a crederci, voi
due qui. -
- In carne e ossa. Come state Eve? -
- Benissimo. Mi sono ripresa del tutto dopo il parto e
adoro i miei cuccioli. Vieni, sono qui che dormono. - disse a Amy
trascinandola verso una culla riposta dietro il bancone.
- Scusami Eve. E’ stata un’improvvisata e non ho
avuto neanche il tempo di prendere un regalo a questi splendidi pargoletti.
-
- Ma scherzi? Non devi neppure pensarci ad una cosa del
genere. -
- Tesoro, io son….Julian, Amy! - esclamò Bruce
attonito e incredulo nel vedere i due amici.
- Eve, è quasi ora di pranzo. Potremmo chiudere il
negozio e andare tutti a casa. Pranzate da noi. -
- E’ un’ottima idea tesoro. - gli rispose.
- No, noi non vorremmo essere ….
- Assolutamente. Non si accettano rifiuti. Quando ci
capita un’occasione del genere? - disse Bruce entusiasta. - Allora
campione, come mai qui in Giappone? -
- Mi sono infortunato e devo stare a riposo. Così ho
chiesto al mister di poter tornare in Giappone e lui mi ha dato il
benestare. Tutta colpa di Philip Callaghan. Mi sono infortunato nell’incontro
con il Manchester. -
- Come stanno Philip e Jenny? -
- Benissimo. Jenny non è venuta insieme. La gravidanza
glielo ha impedito. Comunque se la cavano a gonfie vele. -
- E…Holly? - chiese conoscendo la risposta di Julian.
Amy abbassò lo sguardo e Eve notò la sua espressione malinconica.
- Sempre uguale. Oramai è diventato una macchina che
gioca a calcio. Anche quest’anno sarà eletto il miglior giocatore del
campionato…ma ha perso l’entusiasmo, la gioia di vivere…più passa il
tempo e più diventa nostalgico. -
- Non l’ha dimenticata? - chiese Eve. Julian scosse il
capo.
- Al contrario. E’ convinto che un giorno tornerà. -.
Calò il silenzio tra loro, spezzato improvvisamente dal pianto di uno dei
gemelli. Evelyn si destò e corse verso la culla.
- Vieni qui tesoro, ti presento zia Amy e zio Julian. -
disse prendendo tra le sue braccia la bimbetta di pochi mesi.
- Come si chiama? - chiese Julian prendendole una manina
tra le sue.
- Patty! - esclamò timoroso Bruce. Amy e Julian lo
guardarono e gli occhi della signora Ross si riempirono di lacrime.
- Anch’io non ho mai perso le speranze di ritrovare la
mia migliore amica! - disse malinconica Evelyn. E’ stato Bruce a decidere
che doveva chiamarsi così. -
- Anche se litigavamo spesso, volevo un gran bene alla
nostra Patty: era come una sorella per me. - disse passandosi una mano tra i
capelli corti.
- Su, adesso andiamo così possiamo pranzare. - ribatté
Evelyn cercando di spezzare l’aria tesa e mesta che si era creata nel
ricordo di un’amica scomparsa.
Amy e Evelyn cucinarono per i loro mariti che nel frattempo
accudivano i due gemelli. Trascorsero un pranzo piacevole cercando di ricordare
solo i momenti più felici della loro adolescenza e parlando ovviamente di
calcio. Evelyn si alzò per andare a preparare il caffè e Amy la seguì in
cucina. Eve la guardò e le sorrise.
- Volevo chiedertelo prima ma c’erano Julian e Bruce! -
- Cosa? -
- Tu…aspetti un bambino? -
- E tu come…
- Dai tuoi occhi, dalla tua espressione. Si riconosce una
donna in stato interessante. O Amy. Sono così contenta per voi. - le disse
abbracciandola.
- Ma Julian lo sa? -. Scosse il capo in segno di
dissenso.
- Come no! Secondo me lo renderesti l’uomo più felice
del mondo. -
- Ne sono consapevole, ma in questo stato, non mi avrebbe
mai permesso di venire in Giappone. -. Evelyn la scrutò e si sedette al
tavolo della cucina. Era un invito per l’amica a svelarle la motivazione
di quel viaggio.
- Non comprendo. C’è una ragione particolare che ti ha
spinta a tornare in Giappone? -. Amy annuì accomodandosi di fronte all’amica.
- Patty! -
- Continuo a non capire. Spiegati. -
- Circa tre settimane fa Holly ha avuto un incidente con
la motocicletta ed è stato ricoverato d’urgenza. Quando siamo andati a
trovarlo in ospedale, abbiamo casualmente incontrato una donna. Evelyn
credimi, è la fotocopia di Patty. -. Eve era attonita, non riusciva a
credere alle sue orecchie.
- Quando l’ho vista, per poco non ho perduto i sensi.
Io e Julian eravamo paralizzati di fronte a lei. E’ un medico dell’ospedale
in cui è ricoverato Holly. I capelli raccolti in uno chignon dietro la nuca
e degli occhiali leggerissimi sul volto. Per il resto: identiche. -
- Le hai parlato? Hai sentito la sua voce? -
- Simile anche quella. Più fredda, distaccata, troppo
professionale. Istintivamente l’ho chiamata Patty, ma lei ci ha detto che
non si chiama così. Comunque, da quel giorno non ho fatto che pensare a lei
e non riesco a togliermi dalla testa che siano la stessa persona. -
- Suvvia Amy, se si fosse trattato di Patty, sarebbe
stata contenta di vedervi e immagino quale poteva essere la sua reazione di
fronte al nostro capitano. -
- E’ quello che sostiene Julian. Eppure, io e Holly la
pensiamo alla stessa maniera. -
- Incredibile. -
- Se vedessi Holly, proveresti un immediato desiderio di
andar via. Da quando lei non c’è più, si è intristito talmente tanto
che oramai gioca solo ed esclusivamente per dovere. Non lo riconosceresti.
Non ha mai smesso di pensarla e soprattutto di colpevolizzarsi per quello
che è accaduto. Vive nel rimorso di non averle mai detto quanto l’amava.
-
- Se solo Holly sapesse quali splendidi sentimenti
provava Patty per lui….-
- Lo sa bene. E se ne rammarica perché se lei non fosse
scomparsa, adesso starebbero vivendo la loro meravigliosa storia d’amore.
-.
- Tesoro, noi usciamo, andiamo al campo di calcio. -
disse Bruce comparendo sulla porta della cucina insieme a Julian. Baciarono
repentinamente le mogli ed uscirono.
- Torniamo al tuo viaggio. Cosa pensi di scoprire qui? -
- Siamo andati a verificare chi abita in quella che era
la casa di Patty. -
- Il signor Morgan. -
- Esatto. Mi ha raccontato di come ha acquistato la casa.
Mi ha detto che il padrone di casa aveva una gran fretta di concludere la
vendita dell’immobile e che subito dopo sono partiti per gli Stati Uniti.
-
- Vuoi forse dirmi che…
- Non lo so. La storia è abbastanza strana e confusa.
Pare che ebbe un comportamento guardingo e spesso adirato e che entrando
nella stanza di Patty, strappò via dai muri i poster della nazionale
giovanile e le fotografie che la ritraevano insieme a Holly. In una
successiva visita con la moglie, il signor Morgan trovò la scatola con le
lettere che Holly scriveva a Patty quando era in Brasile e una loro
fotografia la cui cornice si era rotta cadendo sul pavimento. Insomma, un
atteggiamento poco gentile. I signori Morgan non gli fecero domande ma non
hanno mai veduto ne Patty ne sua madre. -
- Che strano…eppure, io ricordo che il padre di Patty
era una persona molto gentile. Veniva spesso a vedere le partite della New
Team travolto dall’entusiasmo della figlia. Al contrario della madre di
Patty alla quale non piaceva l’idea che la figlia frequentasse tutti quei
ragazzi. - disse Evelyn alzandosi per controllare la cottura del caffè.
- Ora che ci penso…il signor Morgan ha detto che quello
che pensava essere il signor Gatsby non lo era. Tuttavia disse che si
trattava della stanza della figlia. -
- Adesso che ci penso: i genitori di Patty erano
divorziati da quattro anni. Si erano separati a causa dei continui
spostamenti di lavoro di sua madre, e durante uno di quei viaggi, se non
ricordo male, lei si invaghì di un funzionario della società presso cui
lavorava. Dopo qualche tempo decisero di divorziare perché la situazione
era insostenibile. -
- Non lo sapevo. Patty non me ne ha mai parlato. -
- Non l’avrebbe fatto neanche con me se non l’avessi
scoperta in lacrime. A parte me, solo Holly sapeva della separazione dei
suoi genitori. Subito dopo la separazione consensuale, il nuovo compagno
della madre si trasferì da lei. Patty aveva un pessimo rapporto con lui e
spesso pernottava a casa del padre. -
- Quindi l’uomo che si è occupato della vendita della
casa era evidentemente il patrigno di Patty! - disse Amy confusa.
- Penso proprio di sì. Se quello che mi hai detto è
vero, non si trattava sicuramente del signor Gatsby. Ricordo un altro
particolare. Due giorni prima dell’arrivo di Holly, Patty mi disse che l’aveva
chiamata entusiasta perché stava rientrando in Giappone e finalmente si
sarebbero riabbracciati. Aggiunse anche che sarebbe andata fuori con suo
padre e che ci dovevamo incontrare direttamente in aeroporto. Dopo quella
telefonata, non ho più visto ne sentito Patty. -
- Scomparsa nel nulla due giorni prima dell’arrivo di
Holly. Non posso pensare che sia fuggita per non vederlo. -
- Impensabile e quanto mai assurdo. Non ho mai visto
amare qualcuno come Patty amava Holly. Lei viveva per lui. Avrebbe fatto di
tutto per riabbracciarlo. Quando Holly arrivò e vide che Patty non c’era
comprese subito che c’era qualcosa che non andava. Gli dissi che era
andata fuori città col padre e che probabilmente non avevano fatto in tempo
a tornare per il suo arrivo. Tuttavia, come tutti sappiamo, Patty non è mai
tornata da quel viaggio. -
- Già. Scomparsa. Non hai più visto suo padre? -
- No Amy. Lui era un noto architetto e viaggiava spesso.
Non ho più visto neanche la madre e di Patty e il suo compagno. -
- Un’intera famiglia sparita nel nulla. - sentenziò
Amy pensando a Trish Hamilton. Evelyn si alzò per versare il caffè. -
Evelyn, ricordi come si chiamava il patrigno di Patty? Forse possiamo
provare a rintracciarlo. - le chiese sperando in una risposta positiva.
- Ricordo che era un americano. L’ho visto un paio di
volte. Patty lo odiava soprattutto perché voleva sposare sua madre e
allontanarla da suo padre. Dunque, come si chiamava….mi spiace Amy, ma non
ricordo il suo nome! - esclamò rammaricata. Appoggiò il vassoio sul tavolo
e circondate dall’aroma, sorseggiarono lentamente il loro caffè.
- Aspetta un attimo. Mi è venuto in mente un
particolare. Non appena si trasferì a casa di Patty, decise di far rifare
le aiuole e il prato intorno alla casa e così venne al nostro negozio per
ordinare il materiale che gli serviva. Se ricordo bene, prese talmente tanto
materiale che ci chiese di fargli una fattura anziché la solita ricevuta. -
- Anche se gli hai fatto la fattura, non ricordando il
nome come pensi di risalire a lui? - le chiese non comprendendo dove volesse
arrivare.
- Al termine del liceo, andando tutti i giorni al
negozio, decisi di immettere nel computer i dati di tutti i nostri clienti
in maniera tale da avere un archivio storico ed eliminare un po’ di
scartoffie. Il mio archivio ad oggi raccoglie i dati di clienti che sono
passati dal negozio in circa quindici anni. Con un po’ di fortuna, se
facciamo una ricerca per strada, potremmo anche trovarlo. -
- E’ una buona idea. Speriamo solo che ci porti a
qualcosa. -
- A cosa non sappiamo. Anche se troviamo il nome, non
possiamo certo telefonare in tutto il paese per rintracciarlo. - ribatté
Evelyn alzandosi e spostandosi nello studio dove aveva il computer. Lo
accese e in pochi minuti avviò il programma di ricerca dati dell’archivio.
- Quanti nominativi in questa strada. - disse scorrendo
lentamente i nomi dei clienti residenti vicino casa di Patty.
- O santo cielo! - esclamò Amy non distogliendo lo
sguardo dal monitor.
- Cosa succede? Hai visto qualcosa? - le chiese Eve
voltandosi verso l’amica. Il volto era pallido e allibito.
- James Hamilton. - sussurrò Amy leggendo il nominativo
che lampeggiava vicino il cursore.
- Sì, è lui. Si chiamava James Hamilton, l’americano.
- aggiunse Eve. Amy tremava come una foglia.
- Amy cosa ti succede? -. Non riusciva ad emettere alcun
suono. Cercava disperatamente di smuovere le labbra che parevano incollate.
Si sentiva mancare l’aria. Eve si alzò e la costrinse a sedersi al posto
suo. Corse in cucina e prese dell’acqua fresca. Evelyn ebbe un lampo e
nella sua mente si formulò una sola domanda.
- Come si chiama la dottoressa che somiglia a Patty? - le
chiese diretta.
- Trish…Trish Hamilton. - sussurrò Amy abbastanza
forte da far percepire a Eve quel nome. Gli occhi le si riempirono di
lacrime, il cuore le batteva talmente veloce che nulla avrebbe potuto
arrestare la sua corsa.
- Sua madre, la chiamava Trish! - esclamò con un fil di
voce guardando l’amica.
Julian guardò la moglie seduta al suo fianco. Era sfinita
dopo una giornata che l’aveva provata intensamente. Era bella la sua Amy. Le
luci del tramonto si coloravano sul suo volto dipingendola come in un quadro di
Botticelli. Ne era profondamente innamorato e riusciva a sentire il dolore che
stava provando in quella estenuante ricerca della verità. Quando gli era stato
offerto di giocare nel Barcellona cinque anni prima, Julian antepose alla sua
carriera la volontà di Amy. Chiese a lei se era il caso di trasferirsi in
Spagna, in un paese tanto lontano quanto affascinante. Ed Amy non ci pensò due
volte: sarebbero andati a vivere in Europa, avrebbero riabbracciato il loro
amico Holly e soprattutto avrebbero potuto confortarlo nei momenti bui che stava
trascorrendo dalla scomparsa di Patty.
Gli aveva parlato di quello che aveva scoperto con Evelyn:
secondo loro Trish Hamilton e Patricia Gatsby erano la stessa persona. Tuttavia,
nessuno riusciva a spiegarsi perché avesse cambiato nome e il perché di quel
suo comportamento tanto lontano da quello della loro cara amica Patty.
- Dove siamo? -gli chiese destandosi dal riposo.
- Siamo quasi a casa, tesoro! Dormito bene? - le chiese
premurosamente.
- Scusami, mi sono addormentata mentre guidavi. -
- Sei bella quando dormi! - le disse sorridente.
- Perché, quando sono sveglia somiglio ad una vecchia
strega? - gli chiese ironica.
- Assolutamente. Tu sei la donna più bella del mondo per
me. -. Guardò la scatola fiorata contenente le lettere che Holly inviava a
Patty.
- Cosa pensi di farne? - gli chiese Julian.
- Non lo so ancora. Spero mi possano tornare utili nella
mia ricerca. -
- Sei sempre sicura che si tratti della stessa persona? -
- Il mio cuore dice di sì. Jul, la loro somiglianza è
tale che non potrebbe essere altrimenti. E poi pensaci, si chiama Trish
Hamilton. Trish era il diminutivo con cui la chiamava sempre sua madre ed
Hamilton era il cognome del compagno di sua madre. -
- Non capisco. Perché mai avrebbe dovuto cambiare
cognome? -
- Non saprei. Patty era molto affezionata a suo padre ed
effettivamente non ci sarebbe una ragione plausibile in questo, a meno che…-
- A meno che suo padre non sia morto e il patrigno non la
abbia adottata! - aggiunse Julian.
- Già, anche se mi sembra improbabile. Evelyn mi ha
detto che a Patty non piaceva James Hamilton. -
- Se si tratta effettivamente di Patty, o è un’ottima
attrice e in tal caso non capirei i motivi di questo suo strano
comportamento, oppure….oppure ha perso la memoria! - disse guardando la
moglie.
- Lo stavo pensando anch’io. Dovremmo accertarcene.
Solo così potremmo saperlo. -
- Senti Amy e se invece stessimo sbagliando, se non si
trattasse di lei. Ti sembrerebbe giusto indagare tanto nella vita di
qualcuno? -
- Holly sta soffrendo e giorno per giorno peggiora. Jul,
non è giusto che sia finita così. Patty amava intensamente Holly e nulla l’avrebbe
resa più felice del suo amore. E quando lui finalmente si è sentito pronto
per dichiararsi, lei è scomparsa nel nulla. La sofferenza che è stata di
lei, è diventata la sua adesso. Fino ad ora non ha costituito nessun legame
serio. E perché? Perché spera sempre che lei torni e se c’è una minima
speranza che Trish Hamilton e Patty siano la stessa persona, beh, io devo
scoprirlo. -
- E’ un gesto nobile il tuo. -
- Patty avrebbe fatto lo stesso per noi e per chiunque.
Ha sempre anteposto la felicità altrui alla sua. Soffriva ed amava in
silenzio. - concluse guardando Julian. Erano arrivati alla villa dei Ross.
Julian varcò il cancello percorrendo il lungo viale alberato e parcheggiò
l’auto nel cortile dinanzi il portico d’entrata.
- Jul. -.
- Sì Amy. - rispose avvicinandosi alla moglie. Lo
guardò imbarazzata. Era il momento di dirgli che stava per realizzare un
sogno che li avrebbe resi felici entrambi. Afferrò le mani del marito tra
le sue.
- Julian…tu sai che io..ti amo tanto. Io volevo che tu
mi promettessi una cosa? -
- Sei strana! Cosa dovrei prometterti? -
- Se io dovessi…prendere qualche chilo, tu ameresti
comunque tua moglie? -. Julian la guardò incuriosito da quelle parole. Il
sorriso di lei era talmente luminoso che lo abbagliava. Comprese di cosa
stava parlando.
- Amore mio, certo che ti amerei, ma tu forse…vuoi
dirmi che noi…-. Amy annuì. Afferrò la moglie tra le sue braccia e la
fece volteggiare in aria in un impeto di felicità.
- Mi hai reso l’uomo più felice del mondo. Un bambino…avremo un figlio!
- gridò in preda all’entusiasmo. Amy era gioiosa e ancora una volta si rese
conto che aveva fatto la scelta giusta nel rimanere con quell’uomo
straordinario con il quale aveva condiviso gioie e dispiaceri e che le sarebbe
rimasta al fianco per tutta la vita.
Udì suonare alla porta e si precipitò ad aprire nonostante
fosse ancora claudicante. Dal grande salone che si affacciava sull’immensa
terrazza, si mosse verso l’ingresso e aprì la porta senza accertarsi di chi
fosse.
La vide lì, ferma sulla soglia in attesa che proferisse
qualcosa, che la invitasse ad entrare. La luce alle sue spalle che proveniva dal
lucernaio delle scale scuriva la sua figura snella e ben proporzionata. I
capelli, sciolti sulle spalle erano di un colore così scuro che poteva
confondersi con quello della notte. La cosa che più lo colpì fu il suo sguardo
deciso, risoluto. I grandi occhi nocciola sembravano essersi assottigliati,
divenuti più adulti, e lo scrutavano con circospezione. Gli sorrise e il suo
cuore cominciò a palpitare rapidamente, il sangue scivolare velocemente. Quelle
labbra rosse, ben disegnate, profumate, che più di una volta aveva desiderato
baciare in preda ad una tempesta ormonale che sempre più spesso lo faceva
sentire uomo.
Avanzò di pochi passi tanti quanti bastavano ad avvicinarsi
pericolosamente a lui. Poteva sentire il suo respiro, il profumo esotico e
sensuale della sua pelle liscia e morbida, che inavvertitamente si trovò ad
accarezzare. Le lacrime gli sgorgarono innocentemente e scesero lungo il volto
sorpreso.
- Amore mio, sono tornata per te! - esclamò gettandosi
tra le sue braccia. Aveva un nodo in gola. L’emozione soffocava ogni
sibilo che avrebbe voluto emettere per lei. La strinse al suo petto sentendo
un immane calore sul suo corpo.
- Quanto ti ho aspettato. Non ti lascerò più, te lo
prometto. Ti amo più della mia stessa vita. - le disse poi prendendole il
volto e baciandola con passione e ardore. Lei si staccò da lui e gli prese
le mani tra le sue. Lo guardò con espressione placida, arricciando il naso
in una smorfia divertita. Non riusciva a staccarle gli occhi di dosso.
Sembrava ipnotizzato dal suo sguardo.
- Io non sono Trish…sono Patty! E tu, amore mio, ti sei
innamorato di lei. -
- Ma cosa…stai dicendo. Io ho amato e amerò per sempre
solo ed esclusivamente te. Non mi importa di Trish, io voglio stare con te.
-
- Non mentire. Puoi ingannare la mente, ma non il tuo
cuore. Ti senti attratto da lei, la sogni, il tuo corpo di uomo si eccita al
solo sfiorarla. La desideri come uomo e come amante. E’ il principio dell’amore.
-
- Non dire sciocchezze, Patty. Ti ho atteso per anni e
adesso che sei tornata…
- Io sono tornata per dirti di andare da lei…io sono
solo il tuo più bel sogno e il tuo peggior incubo. Io non ci sono più
Holly. Sono venuta per dirti addio. E’ lei la tua speranza, il tuo
presente e il tuo futuro. -. Impulsivamente si levò verso il suo volto e lo
baciò per un’ultima volta. La guardò mentre inesorabilmente impotente,
lei si allontanava verso il bagliore che l’aveva avvolta al suo arrivo.
- Patty! Pattiiiiiiiiiiiiiiiiy! - gridò in preda all’emozione
travolgente di quell’incubo. Respirando affannosamente cercò di
riprendersi dal sogno scotendo il capo e passandosi le mani tra i capelli
roridi di sudore.
- Maledizione! Era un incubo. Patty, tu..sembravi così
vera, sembravi Trish! - esclamò guardandosi intorno in cerca della sua
ombra. La porta della sua stanza d’ospedale era chiusa. Solo la luce del
corridoio filtrava dalle feritoie della porta. Lo spiraglio illuminava
qualcosa. Era il braccialetto d’argento che portava al suo polso. Il
braccialetto che le aveva regalato Patty prima della sua partenza in
Brasile, lo stesso che lui le aveva fatto riprodurre in Brasile e che le
aveva rispedito con la sua ultima lettera, quasi come un pegno d’amore.
- Sono giorni che penso a Trish e…sento un vuoto...lei
non c’é. Da quel dì non viene più a trovarmi. Forse dovrei cercarla e
scusarmi con lei. Patty. Mi sei apparsa in sogno dicendomi di andare da
Trish, che è con lei che dovrei costruire il mio futuro. Ma come faccio se
lei è tanto simile a te? Ogni qual volta la vedo, mi sembra di vedere te e
questo mi rattrista perché non ho mai potuto dirti veramente quanto ti
amavo.
- Vorrei tanto poter capire, sapere se sei scomparsa
perché io trovassi Trish sulla mia strada…ma ogni volta che ci penso,
riesco solo a darmi una risposta: sei scomparsa senza dir nulla, senza
lasciare tracce di te. Vivo con questo rimorso. Se penso a Trish, mi sembra
di poter sentire la sua tristezza, la sua nostalgia, la sua sofferenza. Non
mi era mai capitato prima. Probabilmente ha ragione lei: non si soffre solo
per la perdita di qualcuno che si è amato. Cosa voleva dire quando ha detto
che si può soffrire per la perdita dell’identità? Quello che mi volevi
dire nel sogno era che devo starle vicino? Che devo prendermi cura di lei
esattamente come avrei fatto con te? - si chiese distendendosi nel letto. Si
portò una mano alla fronte e il ciondolo appeso al suo braccialetto brillò
ancora una volta, ricordandogli con quanto affetto Patty glielo aveva
regalato.
Mancava un’ora alle sei e trenta e quel giorno lui sarebbe
stato dimesso. Era rimasto in ospedale per stare con Trish, se ne rendeva conto,
e per pigrizia, per non dover stare a casa, sorvegliato a vista da un infermiere
professionale e dal medico sportivo. Aveva prolungato fin troppo la degenza
ospedaliera e avrebbe dovuto continuare fisioterapia e riabilitazione presso il
centro sportivo della sua squadra. Il medico sportivo del Barcellona l’avrebbe
seguito per una repentina ripresa. Il presidente e l’allenatore gli avevano
detto che lo volevano in squadra prima di Natale per concludere la prima parte
del girone di andata della Liga Spagnola.
Trish Hamilton. Quel nome continuava a martellare nella sua
mente come un marchio indelebile. Aveva ragione Patty. Quando per fermarla le
aveva afferrato il polso o quando inavvertitamente era caduto tra le sue
braccia, aveva provato un fremito che tumultuosamente l’aveva scosso e l’aveva
fatto sentire uomo. Quante donne c’erano state nella sua vita? Alcune, ma solo
per una notte di sesso, non di amore, perché l’amore sublime era destinato
alla sua Patty. Oppure a Trish.
I suoi compagni erano andati a trovarlo a turno e si
sentivano spesso telefonicamente. Ma gli mancavano Benji e Tom, troppo occupati
con i rispettivi campionati per potersi recare da lui; Julian e Amy con i quali
aveva un rapporto di complicità nato fin da quando erano ragazzini. Sarebbero
arrivati entro una settimana. Anche Julian avrebbe dovuto sottoporsi alla
fisioterapia e doveva rientrare in campo entro poco tempo. Le loro assenze
stavano penalizzando la squadra che nelle ultime quattro partite aveva
totalizzato solo due vittorie, una sconfitta e un pareggio. Si sentiva solo,
sempre più malinconico, nell’impotenza di poter fare qualcosa per cambiare il
corso degli eventi.
- Ciao Trish. -
- Buongiorno Luis. Tutto bene? - chiese al collega
procedendo al suo fianco, entrambi diretti al distributore di caffè.
- Starei meglio se accettassi un invito a cena. -
- Alle dieci del mattino? Sono troppo impegnata, dovresti
saperlo. -
- Questo è vero. A che ora stacchi? -
- Il mio turno è finito alle otto ma sono arrivate due
emergenze e sono rimasta qui. Spero di andarmene tra un po’. -
- Da un po’ di tempo a questa parte sembra che ti sia
fatta carico di tutti i turni dell’ospedale. Ti servono soldi? -
- Mi sembra una domanda un po’ indiscreta, la tua! No,
non mi servono soldi, è solo un grande desiderio di lavorare e rendermi
utile agli altri. - mentì rispondendo alla curiosità del collega.
- Così non ti troverai mai un buon marito. -
- E se tu continui a fare il casanova con tutte le donne
di quest’ospedale, dubito che qualcuna ti metterà l’anello al dito. -
- Io desidero solo te. - le disse porgendole il bicchiere
con il caffè fumante e fissandola con sguardo ammiccante. I suoi occhi
erano di un verde scuro ed intenso, ma non riusciva ad emozionarsi, non come
con Oliver Hutton.
Oliver era fermo, sembrava in attesa di qualcosa. Continuava
a girare il capo in cerca di qualcuno mentre i passeggeri in entrata ed uscita
camminavano vorticosamente attorno a lui. All’improvviso scorse un’ombra a
lui familiare e il suo viso si illuminò del più caldo dei sorrisi.
- Capitano…so che ci siamo salutati ieri…ma io…. -
gli disse affannata dalla corsa.
- Non preoccuparti…sono felice che tu sia venuta…mi
fa piacere, davvero! -
- Desideravo darti questo! - gli disse porgendogli una
piccola scatola azzurra. Oliver la aprì e ne estrasse un braccialetto d’argento
con un ciondolo.
- E’ bellissimo…grazie, Patty! -
- Io..é solo un pensiero…un portafortuna. Quando ti
sentirai solo, ed avrai bisogno di sentirti un po’ a casa…-. Non la fece
terminare di parlare che le posò un bacio sulla guancia.
- Grazie, dolce Patty! - le sussurrò. La vide arrossire
per l’imbarazzo mentre stranita si accoccolava tra le sue braccia.
- Trish! Trish, mi senti? - le chiese Luis preoccupato.
- Ehm…sì, Luis, certamente. - rispose scotendo il
capo. Era pallida come un cencio.
- Sicura di star bene? - le domandò cercando di capire
cosa la angosciava tanto.
- Sì, è stato solo un giramento di testa! - rispose
mentendo per occultare il flashback che aveva appena avuto. Non solo era
impallidita, ma soprattutto tremava come una foglia. Aveva visto la ragazza
che spesso le era apparsa in sogno insieme a Oliver Hutton.
- Scusami Luis, vado a sciacquarmi il viso. -
- Sarebbe il caso che tu andassi a casa e non alla
toelette. Ti chiamo un taxi? -
- No, non preoccuparti. Sto bene. Forse…lavoro troppo,
hai ragione tu! - esclamò accennando un timido sorriso per tranquillizzare
il collega.
- Ti accompagno io, se vuoi. -
- Ti ringrazio davvero Luis, ma non è necessario. Mi
sciacquo il viso, mi bevo il caffè e termino le mie cose prima di andar
via. -
- Perché sei così testarda? Non pensare a quello che
devi fare, posso finire io il tuo lavoro. Va a casa a riposarti, anzi,
prenditi qualche giorno di ferie. -
- Certo, e dove me ne vado? - pensò tristemente. Era
sola in quella città e non aveva amicizie al di fuori dei colleghi di
lavoro con i quali usciva di rado.
- Andrò a casa, ma non penso di prendermi delle ferie. -
rispose con tono accondiscendente nell’intento di accontentare il collega
insistente. Si allontanò da Luis ancora in preda all’ansia procuratale
dal flashback. Entrò nella toelette richiudendo a chiave la porta alle sue
spalle. Si guardò allo specchio. Posò il bicchiere del caffè sul
lavandino e si tolse gli occhiali. Si sciolse lo chignon smovendo il capo
facendo ondeggiare i capelli sulle sue spalle. Le lacrime cominciarono a
rigarle silenziosamente le gote lievemente arrossate dallo sbalzo di
pressione. Accennò un sorriso alla superficie argentata posta di fronte a
lei. Fu colta dal panico. Si portò le mani al volto coprendo quei tratti
tanto somiglianti a quelli della ragazzina vista nel flashback…e nei suoi
sogni. Identiche. In preda allo sconforto e ai singulti si lasciò scivolare
lungo la porta. Afferrò le ginocchia tra le gambe e accoccolò il capo su
di esse. I brividi seguitavano a percorrerla mentre le ombre del passato
sembravano essersi impossessate di lei. La ragazza del sogno: le somigliava
molto. No. Erano due gocce d’acqua. Patty. Le venne in mente quel nome che
più di una volta Oliver aveva ripetuto, il nome con cui lui l’aveva
chiamata al suo arrivo e anche successivamente. Era forse questa la ragione
della confusione del ragazzo? La loro somiglianza?
- Cosa mi sta succedendo! Queste immagini che si
sovrappongono, i mal di testa, lo stato ansioso. Mi sento di impazzire. Devo
andare da un medico, non posso continuare così. No, forse ho solo bisogno
di riposo, di riordinare le idee e capire perché il pensiero di Oliver
Hutton è diventato tanto assillante. -. Si rialzò lentamente e cercando di
riacquistare l’autocontrollo, si sciacquò il volto, si risistemò i
capelli e inforcò gli occhiali. Titubante e incerta su quello che avrebbe
fatto, uscì lentamente e si avviò verso l’ufficio accettazione del
pronto soccorso. Silenziosa, smise il camice bianco e andò oltre il
bancone, afferrò le cartelle di sua competenza con l’intenzione di
terminare di compilarle prima di andare via.
- Dottoressa Hamilton! - esclamò una voce alle sue
spalle. La stessa del sogno, la stessa che oramai aveva avuto occasione di
sentire più volte. Si voltò e vide un ragazzo alto e bruno di fronte a
lei. Istintivamente gli sorrise. Avrebbe dovuto essere adirata con lui per
il comportamento avuto durante l’ultimo incontro. Tutt’altro. Si
riscoprì felice di vederlo. Mentre il cuore le batteva forte in petto, ebbe
l’impulso di correre tra le sue braccia. Le gote si colorarono di quell’imbarazzo
adolescenziale, che non ricordava aver mai provato.
I capelli scompigliati, il fisico atletico, quel suo sguardo
quieto, il sorriso dolce, l’aria sicura che infondeva. Era quello Oliver
Hutton. L’aveva fermata per salutarla. Dietro di lui riconobbe il suo
procuratore e il dottor Velasquez.
- La stanno dimettendo signor Hutton? - gli chiese
tralasciando il tono confidenziale che si erano scambiati in precedenza. Lui
le sorrise divertito chinando il capo in segno di assenso. Era bella Trish
Hamilton. Indossava un dolcevita nero aderente che sottolineava le forme
generose e perfette del suo essere donna. Le gambe lunghe e ben tornite
erano fasciate da un pantalone dello stesso colore della maglia, sulla quale
riverberava una catenina con appesa una perla. Nella sua semplicità, era di
una raffinatezza ed eleganza disarmanti.
- Sì. Vado via. - le disse sempre a capo chino. Era
dispiaciuto perché in quelle quasi quattro settimane trascorse in ospedale
non aveva avuto il coraggio di avvicinarla, di conoscerla. In fondo, era
rimasto sempre il solito timido Holly imbranato con le donne. Dov’era
finito il coraggio con il quale avrebbe voluto confessare a Patty il suo
amore?
- Spero che possa riprendere a giocare al più presto. -
esclamò continuando a guardarlo negli occhi incurante del rossore che le
procurava. Era dispiaciuta. Andava via, forse per sempre.
- Me lo auguro anch’io. L’inattività mi impigrisce.
-. Era una conversazione sterile, priva di sentimento eppure, doveva esserci
e per questo Oliver l’aveva intavolata.
- Allora, buona fortuna! - gli disse tendendogli la mano.
Holly protese la sua verso quella della dottoressa. Dal polsino della
camicia pendeva il ciondolo del braccialetto che aveva visto nel suo
flashback. Lo guardò intontita e quasi ipnotizzata. Aveva l’impressione
che lui la stesse guardando esattamente come nella visione che aveva avuto
poco prima, nella stessa maniera in cui aveva guardato Patty.
- Grazie per quello che hai fatto per me, Trish. - le
disse comprendendo il disagio del momento. Lei distolse lo sguardo dal
bracciale e fissò i suoi occhi scuri. Erano nostalgici. L’aveva chiamata
per nome e il suono della sua voce le era sembrato dolcissimo, le aveva
riempito il cuore e la mente come un raggio di sole che prorompente era
entrato di lei per splendere con tutto il suo bagliore.
“Amore è ogni moto della nostra anima in cui essa sente
se stessa e percepisce la propria vita.
La felicità è amore, nient'altro. Felice è chi sa amare.
Amore è ogni moto della nostra anima in cui essa senta se stessa e percepisca
la propria vita. Felice è dunque chi è capace di amare molto. Ma amare e
desiderare non è la stessa cosa. L'amore è il desiderio fattosi saggio;
L'amore non vuole avere; vuole soltanto amare.”
Quelle frasi di Herman Hesse echeggiarono nella sua mente
accompagnate dalla voce di Oliver. Quel nuovo contatto l’aveva fatta fremere.
Era forse stato un attimo di felicità? Quello strano sentimento, l’amore, che
lei ricordava di non aver mai vissuto? Ripensò a quanta passione Oliver avesse
esternato nel parlare di Patty. Il suo amore verso quella ragazza era tale da
portarlo a soffrire in quel modo? Pensò a lei. Non riusciva a non pensare a
Oliver, desiderava percepire la sua malinconia, far propri i suoi dispiaceri ed
aiutarlo a risorgere. Era questa la felicità? L’amore incontrastato verso una
persona, fatto di rinunce e sofferenza pur di veder realizzata la sua felicità?
- Ho fatto quello che dovevo, Oliver…anzi…devo
scusarmi per quello che è successo…
- No. E’ colpa mia. Mi sono lasciato trasportare
egoisticamente dalla mia sofferenza, senza tener conto dei pensieri o dei
problemi altrui. Dovrei essere io a scusarmi…per non averti capita! -
aggiunse quasi con un sussurro.
- Allora ci scusiamo reciprocamente dimenticando quello
che è successo! - gli disse sorridente. Le loro mani erano ancora una
dentro l’altra. Il procuratore di Holly lo riportò alla realtà
esortandolo ad andar via.
- Buona fortuna Oliver. -
- Trish…io…-. Dalle sue labbra avrebbe voluto far
uscire frasi ben definite, parole che le avrebbero accarezzato la mente,
sciolto il ghiaccio che incatenava il suo cuore ad un nostalgico passato.
Nulla. Riuscivano solo a guardarsi profondamente negli occhi. Desiderava
avere quella donna. In quel momento ne fu certo. Lei era il completamento
della sua amata Patty.
Patty era la cara amica di cui si era innamorato, la presenza
incontrastata della sua vita, la persona che maggiormente aveva contribuito alla
realizzazione del suo sogno di calciatore. Trish era la parte adulta che avrebbe
dovuto sbocciare in Patty, la donna che non aveva visto formarsi dinanzi i suoi
occhi. Lei era colei che con un semplice sguardo risvegliava l’uomo che era in
lui creandogli un fermento e un’eccitazione tali che non aveva mai provato
prima. Non solo era inverosimilmente somigliante a Patty, ma era come lei, senza
la sua evanescenza da adolescente ma con una passione dormiente che attendeva
solo di essere risvegliata. Ne era certo.
- Allora…addio Oliver. - gli disse mentre il
procuratore continuava a richiamare il suo assistito.
- E’ un arrivederci, Trish. - rispose staccando la mano
dalla sua. La guardò ancora una volta e la oltrepassò varcando l’uscita
dell’ospedale.
- Oliver! - pensò voltandosi verso l’uscio. Era lì,
oltre la porta a vetri, che attendeva solo di ricevere un suo ultimo saluto.
Salì sull’auto del suo accompagnatore alzando la mano in segno di saluto.
Trish sperava in cuor suo che quello era stato solo un arrivederci, prologo
forse di un incontro non troppo lontano. Incapace di non pensare ad altri
che a Oliver e ai flashback, Trish consegnò a Luis le cartelle e andò via
in preda ai tumulti del cuore.
Nonostante si fosse già a metà novembre, il clima era mite
e la temperatura sembrava essersi stabilizzata sui venti gradi centigradi. Le
giornate di sole si alternavano a quelle variabili e la pioggia pareva esser
scomparsa dalle previsioni meteo. Era trascorsa una settimana dacché Oliver
Hutton aveva lasciato l’ospedale e soprattutto aveva inferto una dura ferita
al cuore di Trish Hamilton.
Correva lungo la passeggiata che costeggiava la Barceloneta
mentre il sole intrideva dei suoi più caldi colori il mare del crepuscolo. Toni
dorati e vermigli si alternavano a quelli purpurei trascinati da un ondeggiare
lucente che sembrava percorrere il lungomare. Coppie di innamorati, famiglie,
amici, passeggiavano felici nel parco e lungo il viale che dalla ramblas
conduceva alla piazza intitolata al navigatore Cristoforo Colombo.
Il capo incurvato coperto dal cappuccio del giubbino che la
abbracciava, mentre le gambe flessuose vestite di un morbido pantajazz si
rincorrevano sull’erba fresca adombrata dall’incedere della sera.
Una pietra rimbalzò vicino i suoi piedi facendole perdere l’equilibrio.
Il cappuccio ricadde all’indietro e i capelli lunghi si distribuirono lungo la
schiena. Respirò l’aria della sera a pieni polmoni, sentendo una ventata di
libertà. Un pastore tedesco di media taglia, evidentemente giovane, le si
avvicinò per recuperare l’oggetto del lancio. Divertita dal cane, afferrò il
sasso mostrandoglielo e cercando di attirare la sua attenzione. Le erano sempre
piaciuti i cani. Il pastore tedesco continuava a scodinzolare la coda in segno
di amicizia, fino a ché, palesemente catturato da quell’incontro casuale, non
prese a mordicchiarle le scarpe da ginnastica.
- Ehy, che fai birbante. Vuoi il tuo sasso, ed io non te
lo do. No…aspetta, hai vinto tu! - disse ridendo e rilanciando il sasso
verso una panchina deserta.
- Tutto bene signorina? - le chiese una voce
sopraggiungendo alle sue spalle. Si voltò e guardò in alto verso l’interlocutore.
Il ritmo cardiaco era accelerato. Un nodo in gola le impediva di parlare. Il
sorriso scomparve dal suo volto lasciando spazio alla meraviglia. Il
pensiero che le aveva risvegliato tristezza e malinconia in quei giorni, l’oggetto
del suo desiderio era lì dinanzi a lei spinto da un destino che sempre più
spesso li faceva incontrare. Lui la guardava stranito, catturato dalla sua
bellezza e dalla sua strabiliante somiglianza.
- Patty! - pensò tra sé prima di proferire quel nome.
Vide la catenina con la perla che circondava il collo nudo. Parve
risvegliarsi dal sogno e tornare ad una dimensione in cui lei era sempre
più spesso presente. Era Trish, la sua amica Trish.
- Trish! - esclamò cercando di imprimere nella mente
ogni singolo particolare di quel viso dipinto dalla penombra della sera. Il
sole sembrava una grande lampada dalla luce soffusa che aveva creato intorno
a loro una romantica atmosfera.
- O…Oliver! - rispose incredula balbettando il nome del
ragazzo. Era dinanzi a lui, come non gli si era mai mostrata, sempre più
identica al fantasma del suo passato.
- Ma cosa ci fai qui? - le chiese cercando di rompere il
ghiaccio.
- Mi faccio atterrare da un cane! -. Lui la guardò e poi
scoppiò a ridere divertito da quella battuta ironica. Fintamente offesa,
voltò il capo dal lato opposto per poi guardarlo nuovamente e ridere anche
lei. Il ghiaccio si stava sciogliendo riscaldando i loro cuori.
- E tu? -
- Porto a spasso il cane che ti ha atterrato. Abito
lassù. - le disse indicandole un attico in un palazzo ben visibile dal
parco.
Senza neppure chiederglielo, Holly si sedette sull’erba
accanto a lei e così, rimasero in silenzio a guardare il sole infuocare il mare
e il cielo in un unico dipinto.
- Le somiglio così tanto da destare sempre tanta
meraviglia in te? - gli chiese non sorprendendolo.
- Più di quanto tu non possa immaginare. Con i capelli
sciolti e senza occhiali…sembri lei…e per un attimo ho pensato di averla
dinanzi ai miei occhi. -
- Allora sei rimasto deluso di aver trovato me…
- No.…ma cosa dici? Lei è Patty e tu sei Trish! -
sentenziò con un velo di tristezza facendo assumere ad ognuna di loro la
rispettiva identità.
- Parlami di lei…così potrò capire la tua sofferenza.
- gli disse posando la sua mano su quella del ragazzo. Seguitava a guardare
lo spettacolo di colori che si offriva ai loro occhi.
- L’ho conosciuta al mio arrivo a Fujisawa, circa
quindici anni fa. Era la mia prima fan, la manager della squadra in cui
giocavo e della nazionale juniores, la mia migliore amica, la mia ombra,
colei che sognava insieme a me, colei che c’era sempre…quando la cercavo
o quando ne avevo bisogno. Ho sempre creduto che vivesse in funzione mia,
per l’amore tanto declamato dai miei compagni e del quale fingevo di non
accorgermi. La verità l’ho capita quando a quattordici anni mi trasferii
in Brasile realizzando il mio più grande sogno. Imparare a giocare a calcio
da professionista. Sebbene ci fossimo salutati il giorno prima, lei venne
all’aeroporto, e mi regalò questo braccialetto, che ho sempre portato con
me, come un portafortuna…come una parte di lei. -. Trish sbarrò gli
occhi. La scena dell’aeroporto l’aveva vista poco prima che fosse
dimesso. Tolse la sua mano da quella del giovane, completamente assorbito
dai ricordi.
- Mi resi conto dei miei sentimenti solo al mio arrivo in
Sud America. Lei era la parte migliore di me…il mio completamento, la
persona che più di tutte mi mancava. Compresi allora che ero io che ero
vissuto in funzione sua e non il contrario. Costantemente cercavo la sua
immagine tra i tifosi sugli spalti, o la vedevo in panchina mentre prendeva
diligentemente appunti sugli schemi della partita. E quando mi arrivavano le
sue lettere o sentivo la sua voce…mi emozionavo come un bambino. Mi ero
innamorato di lei e decisi di dirle tutto. Sono sempre stato timido nell’esternare
i miei sentimenti, così decisi che le avrei fatto una sorpresa. Le feci
riprodurre lo stesso braccialetto che lei mi regalò due anni prima come
pegno della nostra amicizia e le scrissi una lettera nella quale la
informavo che sarei arrivato per Natale. Quando rientrai in Giappone
purtroppo, ebbi una cattiva sorpresa. Patty era scomparsa, con lei la sua
famiglia. Da allora non l’ho più ne vista ne sentita e ogni giorno vivo
con il rammarico di non averle mai detto quanto la amavo. - disse chiudendo
gli occhi. Trish aveva ascoltato silenziosamente il suo racconto,
profondamente toccata dalla storia che aveva udito. Comprendeva solo adesso
perché accusasse tanta nostalgia di quella creatura che timidamente l’aveva
accudito vivendo il suo sogno d’amore e il motivo della sua immane
sofferenza. Avrebbe voluto amare quella ragazza ma il destino li aveva
separati ancor prima di farli rincontrare, prima che potessero scoprire
insieme la grandezza del loro sentimento, prima che potessero essere felici.
- La ami ancora? - gli chiese cercando di sincerarsi su
quali fossero i reali sentimenti nei suoi confronti. Era una domanda diretta
e l’eventualità di una risposta positiva la spaventava.
- Non lo so più. - rispose sinceramente confuso da tutti
i sentimenti e le emozioni che contrastanti turbinavano nel suo cuore
dacché aveva incontrato Trish. Si sentiva molto attratto da lei ma aveva
quasi l’impressione di tradire il suo amore per Patty.
- Una volta forse avrei risposto di sì, e per quanto
dolce sia il suo ricordo…adesso sono confuso…non so più cosa fare e
cosa desiderare! -. Ancora il silenzio che adagio scese tra di loro mentre i
lampioni illuminavano timidamente il parco. I colori caldi del crepuscolo
avevan lasciato il turno a quelli più freddi della sera che aveva avvolto
quasi del tutto la città ricoprendo la superficie del mare di un velo scuro
e setoso.
- Perché soffri tanto Trish? - le chiese di soppiatto
destandola dai pensieri. Non rispose non sapendo da che parte cominciare. Si
sentiva a suo agio con lui. Sapeva che poteva aprirsi con quel giovane che
le aveva ispirato subito tanta fiducia. Era diverso da Jason, somaticamente
e caratterialmente. Oliver aveva in se una grande passione a cui era stato
impedito di crescere sottoforma di travolgenti emozioni. Era più uomo di
lui, aveva più cuore di lui.
- Perché non ho una mia identità. I miei ricordi
partono da meno di dieci anni fa. Il resto è rinchiuso nel buio più scuro
e lontano della mia mente. -. Erano vicini, pericolosamente richiamati da
una strana eccitazione che prendeva forma nei loro corpi.
- Non capisco. - le disse guardandola incuriosito.
Lentamente, con la mente ne disegnò il profilo incorniciato dai capelli
vellutati che si muovevano leggermente sospinti dalla brezza. Sentiva il suo
profumo, scorgeva i seni maturi sollevarsi al ritmo del suo respiro.
- Ho avuto un incidente a causa del quale ho perso la
memoria. Non ricordo più nulla della mia adolescenza e tanto meno della mia
infanzia. Ho perso tutti quelli che erano i miei ricordi, gli affetti e i
sogni che avevo coltivato per il mio futuro. Ho dovuto ricominciare tutto
daccapo, cercando di ricostruire me stessa, con l’aiuto della mia
famiglia. -. Un sospetto prendeva sempre più piega nella sua mente e nel
suo cuore. Doveva sapere.
- Come hai avuto l’incidente? -
- Mia madre mi ha detto che è successo mentre eravamo in
visita presso dei parenti. Uscita dal coma e dimessa dall’ospedale siamo
tornati nella nostra casa a Chicago. Lentamente ho ripreso gli studi e mi
sono laureata in medicina. Ho scelto di studiare medicina per potermi
dedicare a coloro che avevano bisogno, tutte quelle persone che avevo visto
soffrire durante la mia degenza in ospedale. Volevo rendermi utile al
prossimo, fare quello che qualcuno aveva fatto per me, per salvarmi la vita.
-. Deluso dalla sua spiegazione, Holly annuì e la guardò ancora. Era così
triste che poteva sentire la sua malinconia.
- Come mai sei qui in Spagna? -
- Non ne potevo più di stare con loro: mi avevano fatto
vivere in una campana di vetro. Iperprotetta, una ragazza di porcellana, che
al minimo urto avrebbe potuto rompersi. Ma io non ero così. Mi ero ripresa
dall’incidente, almeno fisicamente. Desideravo solo poter vivere come le
mie coetanee, correre con loro, respirare la mia adolescenza. Loro mi
impedivano di fare tutto questo. Dovevo essere protetta da qualsiasi cosa
che avrebbe potuto ledere il mio fragile stato psico-fisico.
- Durante il mio tirocinio a Chicago, feci domanda per un
concorso interno vincendo una borsa per studiare all’estero. Tra le città
proposte scelsi Barcellona perché c’era il mare. -. Anche a Patty piaceva
il mare. Lo adorava. - Ricordo di aver sempre vissuto in loro funzione,
cercando di non deludere le loro aspettative, di essere una studentessa
modello, una figlia per bene. Ero esasperata. Dovevo andar via per non
continuare a vivere succube della loro volontà. Non li vedo da due anni. A
mia madre ho dato solo l’indirizzo e-mail perché ogni tanto potesse
scrivermi. Sono caduta nel loro dimenticatoio. Sterili auguri di buon
compleanno o di Natale per la figlia fedifraga fuggita all’estero dalle
grinfie di una famiglia asfissiante. -.
- Hai avuto molto coraggio. -
- Non so se fosse stato più forte il coraggio o l’esasperazione.
Volevo vivere la mia vita, cercare me stessa e costruire un futuro….ma gli
incubi continui del mio passato, mi hanno sempre impedito di vivere
serenamente i giorni avvenire.
Avevo un amico negli Stati Uniti, un mio compagno di studi,
un bravo ragazzo, figlio di una ricca famiglia di Chicago, il fidanzato tanto
sospirato e sognato da ogni madre. Non siamo mai stati insieme. Ogni tanto ci
trovavamo nello stesso letto ed ogni volta, me ne andavo in preda alla
tristezza e a un senso di sgomento verso la mia vita vuota. Mi mancava l’amore.
Non ho mai amato Jason…e forse, non ho mai amato nessuno. -. Era
rammaricata, crucciata verso quel passato vuoto che non le aveva permesso di
vivere al meglio i migliori anni della sua vita. Oliver non aveva distolto lo
sguardo da lei e nel buio della sera vide i suoi occhi umidi e gonfi di quelle
lacrime che chissà quante altre volte aveva versato. Per un attimo, un lungo
istante, aveva sperato che le dicesse di essere Patty, che aveva perduto la
memoria e che qualcuno, inspiegabilmente le aveva dato una nuova identità. In
quel momento, era cosciente che lei era Trish, una donna che l’aveva colpito
al cuore, le cui confessioni adesso echeggiavano nella sua mente ricordandogli
che era una creatura fragile ed indifesa. Erano soli loro, con i rispettivi
fantasmi, così differenti eppure così simili, bisognosi di un amore che li
aveva sfiorati ma mai travolti. Impulsivamente le mise un braccio intorno alla
spalla e l’accolse in un abbraccio tanto d’amore quanto di speranza.
- Mi sento sola, Oliver, ed ho paura di restarlo per
tutta la vita. -
- Ora…non sei più sola. - le sussurrò stringendola
ancor più forte a se. Diceva seriamente. Voleva rassicurarla, tenerla
stretta al suo petto e…amarla.
Lo squillo del telefono cellulare di Oliver irruppe spezzando
l’incantesimo di quell’attimo.
- Pronto? -
- Oliver, ciao sono Edoardo. Come stai? - chiese il
compagno di club calcistico.
- Bene grazie, Edo. Mi sto riprendendo dall’incidente e
molto presto tornerò ad allenarmi. -
- Senti, sono nei pressi di casa tua. Dovrei lasciarti un
pacco da parte dei ragazzi. -
- Sono al parco. Arrivo subito. Grazie Edo. -
- Ti aspetto giù al portone. -
- Okay, ci vediamo tra un po’. - concluse spegnendo il
cellulare.
Trish lo guardò dispiaciuta. Sarebbe andato via entro pochi
minuti per raggiungere l’amico. Cosa sarebbe successo tra loro?
- Ti accompagno a casa! - le disse dolcemente. Lei scosse
il capo e gli sorrise. Sembrava più tranquilla.
- Va pure. Non preoccuparti. Resto qui ancora un po’. E’
una bella serata. - rispose con il cuore ansioso di ricevere il suo amore.
Avrebbe voluto che restasse lì con lei, accoccolati sotto le stelle, nel
silenzio del loro amore che lentamente stava sbocciando, ma forse era troppo
presto. Il cane corse verso di loro richiamato dal fischio di Oliver. Gli si
buttò addosso per giocare e non smise fino a quando Trish non lo richiamò
verso se. Oliver si alzò e la guardò ancora. Fischiò nuovamente al suo
cane e si allontanarono. Non si diedero appuntamento ne si scambiarono i
numeri di telefono. Erano consapevoli che in un modo o nell’altro, si
sarebbero ritrovati.
Il faro acceso di una bicicletta di passaggio, illuminò un
oggetto nell’erba. Trish lo cercò con la mano sentendo subito un brivido
percorrerla. Era un oggetto metallico, freddo, non pesante. Comprese subito di
cosa si trattasse. Lo rigirò tra le mani e se lo portò più vicino agli occhi
cercando di scorgere in esso i più intimi segreti che ne erano contenuti.
- Il braccialetto che Patty regalò a Oliver prima della
sua partenza. - pensò stringendolo nel suo pugno. - Devi averlo amato più
della tua stessa vita. Eri solo un’adolescente eppure eri capace di vivere
il tuo sentimento in silenzio senza sapere di essere profondamente
ricambiato. Patty, mi sto innamorando di Oliver, del tuo amato. Sei uscita
drasticamente dalla sua vita e adesso che lui mi ha teso la mano, io non
posso ritirarla. Perdonami se provo qualcosa per lui, ma…ho bisogno del
suo affetto, della sua amicizia, del suo amore. Ho bisogno di sentirmi
donna. Ti posso fare solo una promessa: cercherò di renderlo felice. Non
farò in modo che ti dimentichi, sei una parte di lui, e non potrei
portargliela via. Cercherò di donargli il mio amore…è l’unica cosa che
ho e di cui ho bisogno. - pensò sollevandosi. Strinse ancora il
braccialetto e decise che doveva andare a restituirlo al legittimo
proprietario. Immediatamente.
Corse verso il palazzo indicatole da Oliver. Si sentiva
libera e desiderosa di avvertire ancora sulla sua pelle il calore delle sue
braccia.
Ansimante lo trovò e scorse velocemente i cognomi sul
citofono. Ultimo piano. Non fu necessario suonare. Il portone era aperto. Fece
un respiro profondo cercando di attenuare l’ansia che l’attanagliava.
Gli avrebbe lasciato il braccialetto sotto la porta e sarebbe
andata via. Rise di se pensando a quello che stava facendo. Aveva timore di
suonare a quel campanello, di rivederlo.
Quando l’ascensore si fermò, spalancò le porte e si
ritrovò su quel pianerottolo dove c’era solo una porta. La targhetta esterna
riportava il suo nome. Riprese fiato e si avvicinò all’uscio. Il cuore le
batteva così forte che temeva potesse sentirla. Guardò il braccialetto che
aveva stretto fino a poco prima. All’improvviso la porta si aprì e si sentì
mancare per l’imbarazzo. Di fronte, l’uno all’altra, ancora una volta.
- Trish…! - esclamò sorpreso di vederla.
- O..Oliver..io…hai perso questo! - gli disse
porgendogli il braccialetto. Non smetteva di guardarla. I capelli
leggermente scompigliati, il rossore sul suo viso, i lineamenti perfetti, i
suoi occhi che vibravano, il suo corpo sinuoso di donna. Senza proferire
alcuna parola, le si avvicinò, le prese il volto tra le mani e la baciò
spinto da un’irrefrenabile passione. Lei ricambiò subito, non colta di
sorpresa da quel gesto ma vogliosa e ansiosa di quel giovane incontrato per
caso, che aveva aperto il lei lo spiraglio di un futuro più luminoso.
Senza lasciarla, la trascinò all’interno dell’appartamento richiudendosi
la porta alle spalle. Seguitava a baciarla prima sul volto e poi sul collo fino
a percorrere con le labbra i movimenti sicuri delle sue mani sul corpo di lei.
Carezze dolci, intense che si scambiavano reciprocamente esplorando i loro corpi
prima vestiti poi nudi, che caddero sul letto stretti nella morsa di un
sentimento troppo a lungo represso e in attesa solo di respirare. Stanchi solo
quando i loro cuori e i loro corpi furono sazi, si addormentarono l’uno nelle
braccia dell’altra attendendo di vedere insieme l’alba di un nuovo giorno.
Un bagliore bianco proveniente dal salone fievolmente
illuminava la camera da letto. Schiuse le palpebre e tentò di girarsi ma sentì
subito il peso di qualcosa sul suo corpo. Il braccio di Oliver le cingeva la
vita sottile nascosta sotto le lenzuola candide. Chiuse gli occhi ripensando a
quello che era successo qualche ora prima e sentì un immane calore invaderla.
Era andata per restituirgli il braccialetto e si erano lasciati andare,
trascorrendo una straordinaria notte in cui si erano amati intensamente. Lei lo
aveva amato e se solo glielo avesse chiesto, sarebbe rimasta lì per tutta la
vita. Se ne era innamorata. La sua sincerità, la freschezza e la semplicità
del suo carattere: Oliver l’aveva conquistata con poco perché aveva mirato
diritto al cuore. Posò la sua mano sulla sua accarezzando la pelle morbida.
Guardò l’orologio sul comodino che segnava le sei del mattino. Alle sette
doveva essere in ospedale. Movendosi cautamente per non svegliarlo, si liberò
dal suo abbraccio, scese dal letto, raccolse i suoi indumenti dal pavimento,
afferrò lo zainetto nel quale portava sempre con sé un cambio di biancheria
intima e si diresse verso la porta che intuì celare il bagno in camera.
La richiuse alle sue spalle e aprì il rubinetto dell’acqua
calda nella doccia lasciando che una miriade di piccolissime gocce scivolassero
lungo il suo corpo infondendole subito un effetto benefico. Era felice come non
lo era mai stata. Una sensazione che non aveva mai provato prima. Aveva amato
Oliver anche col cuore, non solo col corpo. Un’emozione del tutto differente
da quella che aveva provato in precedenza con Jason. Sorrise al mattino che la
stava accogliendo, incurante di quello che sarebbe accaduto. Desiderava
conservare nella sua mente ogni minimo particolare di quella notte che avrebbe
voluto piacevolmente ripetere. Avvolta in un grande telo di spugna, si spazzolò
i capelli e li asciugò velocemente con il phon. Si guardò allo specchio. Aveva
un’espressione diversa. Lei, che il mattino prima era scoppiata in lacrime
dopo aver visto l’immagine di Patty, impaurita da tanta somiglianza, adesso si
specchiava gioiosa per quello che le era successo. Si rivestì in fretta e uscì
dal bagno. Oliver dormiva ancora. Gli si avvicinò silenziosamente. Dormiva
beato come un angelo. La luce proveniente dal corridoio illuminava appena il suo
giovane volto. Posò delicatamente le labbra su quelle di lui sfiorandole
lievemente per salutare l’amante di quella notte. Camminando in punta di
piedi, uscì furtivamente dalla stanza da letto percorrendo il corridoio e
accedendo al grande salone. Il bagliore che l’aveva destata proveniva dalla
grande porta finestra che dava accesso alla terrazza. Catturata dalla luce, si
avvicinò alla finestra spostando leggermente le tende bianche. Era uno
spettacolo meraviglioso. La terrazza si affacciava direttamente sul mare che
brillava alle prime luci del mattino. Durante la notte il cielo si era coperto e
adesso, i toni argentati delle nuvole si riflettevano metallicamente sullo
specchio d’acqua.
Col sorriso sulle labbra richiuse la tenda, afferrò il suo
zainetto e ne estrasse un biglietto da visita ed una penna.
- Lavoro fino alle diciannove. Trish. - scrisse
sinteticamente. Non sapeva se doveva esprimere i suoi sentimenti all’indomani
di quella notte, ma desiderava fargli sapere che non era fuggita. Diversamente
da Patty lei c’era e sarebbe rimasta volentieri a condividere altri momenti
della sua vita. Uscì silenziosamente dall’appartamento. Avrebbero potuto
trascorrere insieme la serata. Lei l’avrebbe cercato e in cuor suo sperava che
anche lui facesse qualcosa per alimentare la fiamma di un sentimento appena
nato.
L’aereo proveniente da Tokyo iniziò la sua discesa sulla
pista dell’aeroporto internazionale di Barcellona. Amy strinse la mano di
Julian ancora assopito per il lungo viaggio. Amava suo marito e per lui nutriva
quasi uno strano sentimento di adorazione.
- Jul tesoro, svegliati. Siamo arrivati. -
- Uhm…ma come già a casa? -
- Certo tesoro. Siamo in fase di atterraggio. -
- Ma quanto ho dormito? -
- Tanto. - rispose divertita.
- E tu? Hai riposato? - le chiese premuroso.
- Sì certo, ma non vedo l’ora di essere a casa e farmi
un bel bagno caldo. -
- A chi lo dici…come ti senti? -
- Piuttosto bene. Carica di energie. -
- Avrai una giornata intensa? -
- Intendo svegliare Holly e dirgli quello che abbiamo
scoperto. -
- Amy, sono le sei e mezza del mattino. Forse starà
dormendo! -
- Si sveglierà ben volentieri…vedrai se questa volta
non troviamo Patty! -
- Mah. Spero solo che tutto questo tuo indagare alla fine
porti a qualcosa di sostanziale. Non vorrei che ci fossimo sbagliati. -
- Anche se si trattasse di un banalissimo errore…almeno
ci avremo provato. -
- Già. Sempre filosofica, eh? -
- Non mi sfottere. Ti dirò di più. Adesso andiamo
direttamente a casa di Holly. Non sono cose di cui parlarne per telefono. -
- Hai proprio intenzione di farlo irritare. -
- Holly non si arrabbia mai. Lui è sempre molto
salomonico. Gli porteremo la colazione calda e vedrai che si addolcirà. -
- Speriamo. E i bagagli ce li portiamo insieme? -
- Ho pensato anche a quello. Manuel ci aspetta qui fuori.
L’ho chiamato ieri per dirgli a che ora arrivavamo. Li porterà a casa. -
- Demordo. Hai vinto tu. - concluse slacciandosi la
cintura di sicurezza. Amy desiderava scoprire dov’era finita Patty e se c’era
il benché minimo legame con Trish Hamilton. Nulla l’avrebbe scoraggiata,
tanto meno svegliare Holly alle prime ore del mattino. In fondo, Julian ne
era consapevole, che senza quel carattere testardo e comprensivo, lui non
sarebbe arrivato dov’era.
Si rigirò nel letto cercandola con la mano. Quando sentì solo il materasso
coperto dal lenzuolo, aprì gli occhi e comprese che era andata via. Sospirò e
si portò le mani sotto la nuca.
- Mi manca già. Mi sto innamorando di lei. Ci si può
innamorare di qualcuno se si è stati con questa persona una sola notte?
Patty. Il mio adorato angelo…ho l’impressione di averla tradita eppure…Trish
mi manca. Ho bisogno di tutte e due. Di vivere nel ricordo di Patty e di
amare Trish. Non avevo mai provato una sensazione del genere. Non è stata
solo la passione di una notte, la necessità di sentirmi uomo…sono stato
bene con lei, molto bene: l’ho desiderata amandola intensamente…e questa
mattina avrei voluto trovarla qui, accanto a me, stringerla ancora tra le
mie braccia, sentire le sue labbra morbide sulle mie. - pensò guardando il
soffitto. Rise di se, di come in poche settimane la sua vita sembrava aver
preso una piega differente. Oramai sveglio, si alzò e si diresse in bagno
scoprendo piacevolmente che prima di andar via, Trish si era fatta la
doccia.
Quel gesto gli fece chiaramente comprendere che la sua non
era stata una fuga ma probabilmente una necessità.
Terminata la doccia, ancora avvolto nell’accappatoio si
diresse nel salone e come d’abitudine scostò le tende della porta finestra
per vedere com’era il tempo. Guardò il mare e ripensò a Fujisawa, alla
città in cui era vissuto per tanti anni, in cui aveva iniziato a giocare a
calcio, la città in cui aveva conosciuto Patty e quelli che ancora rimanevano i
suoi più cari amici. Con una nota di tristezza pensò a Bruce e a quante volte
lui e Patty litigavano bonariamente rincorrendosi per spogliatoi e campi di
calcio. A Evelyn che l’aveva reso padre di due gemelli. Ai ragazzi della New
Team: Bob, Paul, Jhonny e Ted giocavano nei club principali del Giappone. Pensò
a sua madre che in occasione dell’incidente voleva andarlo a trovare: le aveva
impedito di fare quel lungo viaggio tranquillizzandola che stava bene. Sapeva
come avrebbe reagito di fronte a Trish. L’avrebbe scambiata per Patty e non si
sarebbe tolta quel pensiero neppure dopo la partenza. Esattamente come Philip,
Julian e Amy. Un brivido gli percorse la schiena. Ebbe la strana sensazione che
qualcosa avrebbe cambiato il corso di quella giornata iniziata in maniera
apparentemente tranquilla.
Tornò in camera da letto e si vestì comodamente per uscire
a fare una corsetta. Si stava riprendendo dall’incidente e da qualche giorno
gli era tornata la voglia di giocare a calcio. Subito dopo andò in veranda per
accertarsi che il suo fedele amico fosse in buone condizioni. Il telefono
squillò riportandolo alla realtà. In cuor suo, sperava che si trattasse di
Trish ma non le aveva lasciato il recapito telefonico.
- Pronto? -
- Buongiorno Oliver, sono il dottor Andres. Come va
stamattina? -
- Bene dottore. Stavo uscendo per fare una corsa e poi
alle nove ci vediamo al centro sportivo come sempre. -
- Va bene. Mi raccomando Oliver, non sforzare troppo la
gamba. Il recupero deve essere graduale e non invasivo. Ti ho telefonato
perché volevo sapere quando rientrava Julian Ross. - gli disse.
- Oggi. L’aereo dovrebbe essere già atterrato. Sono le
otto meno venti. E’ probabile che stia andando a casa. -
- Va bene, grazie Oliver. Ci vediamo dopo. -
- Dottore vorrei farle una domanda. -
- Sì, dimmi pure. -
- Secondo lei è possibile che una persona possa
recuperare la memoria dopo tanto tempo? - gli chiese pensando al problema di
Trish e a come avrebbe potuto aiutarla.
- Dipende. Non è certo ma talvolta è capitato. Vedi
Oliver, spesso la perdita di memoria non è dovuta ad un problema fisico ma
psichico. Per esempio, la perdita di qualcuno a cui si tiene molto, legato
ad altri fattori potrebbe causare un trauma psichico con relativo shock e
perdita di memoria. Se mi dai qualche altro indizio, forse posso darti
maggiori chiarimenti. -
- Una mia amica ha avuto un incidente qualche anno fa e
conseguentemente a questo ha perso la memoria. -
- Capisco. Per poter stabilire se può riacquistare la
memoria, bisognerebbe sapere a cosa è dovuto il suo trauma. A volte, subire
una grave perdita anche affettiva, può procurare un forte shock e si può
desiderare di perdere i ricordi legati a questa persona. In tal caso, un
trauma della stessa intensità, che provochi forti emozioni, può far sì
che si risveglino gli antichi ricordi. Se ti interessa, dovresti parlarne
con uno specialista, sicuramente sarà più ferrato di me in materia. -
- Grazie dottore, è stato gentilissimo e chiaro nelle
sue spiegazioni. Ci vediamo più tardi. -
- Bene Oliver, a dopo! - rispose mentre Holly riponeva la
cornetta sull’apparecchio.
Forse, se avesse chiesto a Trish maggiori chiarimenti sull’incidente,
avrebbe potuto aiutarla a recuperare i suoi ricordi e a vivere in maniera più
serena. Ma se poi quei ricordi avessero destato in lei preoccupazioni
differenti, avessero fatto rinascere sentimenti ed emozioni verso persone e cose
che appartenevano al suo passato, che ruolo avrebbe avuto lui? Che fine avrebbe
fatto? In quale angolo della sua mente sarebbe stato relegato? Holly non avrebbe
potuto reggere ad una nuova delusione sentimentale. Il destino gli aveva fatto
incontrare Trish, l’aveva messa sulla sua strada perché somigliava a Patty. E
lui lentamente stava imparando ad amare quella creatura tanto forte quanto
fragile.
- Amy è il tuo telefono che squilla! -
- Strano. A quest’ora poi? - si disse cercando il
cellulare nella borsa. Quando lo trovò fu stranita nel veder visualizzato
un numero di telefono del Giappone.
- Pronto? - disse aprendo la comunicazione.
- Qui è il centralino internazionale. C’è una
telefonata dal Giappone. Accetta l’addebito? - chiese la centralinista con
fare meccanico.
- Sì certamente. -
- La metto in comunicazione. -
- Sì grazie. Pronto? -
- Ciao Amy, sono Evelyn. -
- Ciao Eve. Come mai a quest’ora? E’ forse successo
qualcosa? - chiese preoccupata.
- Stiamo tutti bene, non temere. Volevo dirtelo ieri ma
sai…con questi fusi orari alla fine ho perso l’orientamento. -
- Cos’è successo? -
- Come da accordo, mi sono recata presso lo studio in cui
lavorava il padre di Patty, il signor Gatsby. Non ci crederai! -
- Cosa? Non tenermi sulle spine. Aspetta, ti metto in
viva voce così ti può sentire anche Julian. - le disse dando il telefono
al marito che lo sistemò nell’apposito apparecchio.
- Ciao Evelyn. -
- Ciao Julian, piacere di sentirti. -
- Allora Evelyn, raccontaci. - la esortò Amy impaziente
di conoscere gli sviluppi delle loro ricerche.
- Come ti ho detto, mi sono recata in quello che una
volta era lo studio in cui lavorava il signor Gatsby. Ho chiesto di lui,
nessuno lo conosceva. Demoralizzata sono andata via, ma prima di entrare in
macchina, il portiere mi ha chiesto chi cercassi. Quando gli ho chiesto del
signor Gatsby, mi ha detto che dieci anni fa ebbe un incidente. Amy, il
padre di Patty è morto in quell’incidente. -
- O santo cielo. E’ terribile! - esclamò preoccupata.
- Infatti. E’ stato un colpo davvero duro. Non me l’aspettavo.
Ma non è tutto. -
- Cosa vuoi dire? -
- Ho chiesto al portiere dell’incidente. Mi ha detto
che quel giorno il signor Gatsby si allontanò dall’ufficio contento
perché avrebbe trascorso il pomeriggio insieme alla figlia. -
- Vuoi forse dire che erano insieme quando si è
verificato l’incidente? -
- Esatto! -
- Cosa ti ha detto della figlia? - chiese avidamente e
desiderosa di risposte immediate.
- A causa delle gravi condizioni fu portata in elicottero
al centro traumatologico di Tokyo. -
- E poi? -
- Niente altro. Non ne ha saputo più nulla, ne di Patty
ne della sua famiglia. Parlando con mio padre, mi ha detto che un suo amico
lavora da quasi vent’anni all’anagrafe comunale. Avremmo dovuto pensarci
prima Amy. Era la cosa più ovvia da fare. Ci sarebbe bastato un semplice
certificato di residenza almeno per capire dove si trovava. -
- Continua. - domandò ansiosa con gli occhi di Julian
puntati su di lei.
- Mi sono recata all’anagrafe. Effettivamente il padre
di Patty risulta deceduto nell’incidente. Adesso viene il bello. Prima di
chiedere di controllare i dati di Patty, ho fatto verificare quelli di James
Hamilton. Sì è sposato con la signora Gatsby due mesi dopo l’incidente
chiedendo al giudice non solo la custodia di Patty, ma data la prematura
morte del padre naturale, di adottarla! -
- Vuoi forse dire che Patricia Gatsby è diventata
Patricia Hamilton? - chiese all’amica mentre l’angoscia si insinuava
sempre più nei suoi pensieri. Il cuore le batteva forte e un nodo in gola
quasi le impediva di parlare. Evelyn era eccitata dalle scoperte.
- Sì Amy. Evidentemente aveva conoscenze importanti
perché il certificato legale di adozione è stato rilasciato dopo poco e
subito dopo l’inizio dell’anno la famiglia Hamilton si è trasferita a
Chicago. Purtroppo non mi hanno potuto rilasciare una copia del certificato
di adozione ne di quello di residenza. Quindi, non abbiamo neanche l’indirizzo
di Chicago e non penso che negli Stati Uniti ci siano poche persone il cui
cognome è Hamilton. Ammesso che risiedano ancora a Chicago. -
- Mi sembra tutto così…impossibile. Non riesco
comunque a spiegarmi il motivo per il quale Patty sia andata via senza dir
nulla a nessuno. -
- Amy, l’incidente si è verificato il giorno prima
dell’arrivo di Holly dal Brasile. E’ questo il motivo per il quale Patty
non venne all’aeroporto quel giorno. Sono andata al centro traumatologico
di Tokyo ma sfortunatamente nessuno mi ha voluto dare le informazioni che mi
servivano. Sono tutte strettamente riservate. -
- Non penso sia un problema. Sono sicuro che il padre di
Julian conosce qualcuno e non ci negherà la cortesia di visionare la
cartella clinica di Patty. Sei stata bravissima Evelyn.- le disse
ringraziandola per il prezioso apporto che aveva dato alle ricerche.
- Lo penso anch’io. Non appena arriviamo a casa
chiamerò mio padre e gli chiederò questo favore. Spero solo che ci dia le
informazioni al più presto. Anzi, se sarà possibile, potremmo farci
inviare per fax oppure per e-mail la copia della cartella clinica di Patty.
- disse Julian sorprendendo Amy. Dov’era finito il suo scetticismo?
- Benissimo. Ragazzi, fatemi sapere qualcosa perché
spero davvero che tutto questo serva a riportare a casa la nostra Patty. -
- Lo spero anch’io Eve. Un abbraccio a te, a Bruce e ai
bambini. - le disse infine salutandola.
Terminata la conversazione, Amy distese il capo sul poggia
testa del sedile posteriore. Sembrava stanca, non tanto del lungo viaggio quanto
di quell’estenuante ricerca.
- Cosa facciamo ora? - le chiese Julian.
- Ti riferisci a Holly? -
- Sì. -
- Non so se è il caso di dirgli tutto questo. Non prima
di essercene accertati. -
- Che situazione complicata. Più andiamo avanti e più
scopriamo retroscena inverosimili. -
- Già. Jul, forse è il caso che diciamo ad Holly quello
che ci ha detto il signor Morgan e magari gli mostriamo le lettere. -
- Ci rimarrà molto male quando scoprirà che Patty non
ha mai letto la sua ultima lettera. -
- Cosa vuoi dire? - gli chiese Amy sospettando che
sapesse qualcosa.
- Prima di tornare in Giappone, Holly scrisse quella
lettera a Patty chiedendole di aspettarlo, dicendole che le mancava e che le
voleva bene. Insomma, un preludio ad una dichiarazione d’amore che gli
avrebbe fatto non appena tornato a casa. Le fece riprodurre anche una copia
fedele del braccialetto che Patty gli regalò prima della partenza, con un
ciondolo simboleggiante la sua iniziale, la “H”.-
- Non sapevo tutto questo…
- Non potevi..doveva rimanere un segreto fino a che Patty
non avesse aperto la lettera. Evidentemente la lettere è arrivata quando
lei non c’era. Di seguito c’è stato l’incidente e quindi non ha più
avuto la possibilità di leggerla. -
- Sì è possibile. Mi domando perché è successo tutto
questo. Insomma, perché il destino ha proibito a due ragazzi che si amavano
di stare insieme? -
- Quello che succede è già stato scritto. Forse era
destino che succedesse. -
- Ma non è giusto. -
- Lo so tesoro, ma purtroppo è accaduto. -
- Eppure…l’istinto mi dice che sono la stessa
persona. Sono tentata di incontrare Trish Hamilton e farle vedere le
lettere. Voglio vedere come si comporta di fronte a quelle. -
- Amy…lo amava fino allo spasimo. Se fosse davvero
Patty, non mentirebbe così spudoratamente. -
- Magari c’è una ragione che noi non conosciamo…siamo
arrivati. Julian, mentre do istruzioni a Manuel su cosa fare, per favore
prendi la colazione in quella pasticceria. -
- Sì capo. - le rispose schioccandole un dolce bacio
sulla guancia.
Dopo pochi minuti erano entrambi pronti a salire nell’attico
dove risiedeva il loro caro amico. Da dove avrebbero cominciato il discorso? Non
lo sapevano neppure loro…comunque avrebbero parlato con Holly.
Al suono del campanello, il campione nipponico si apprestò
ad aprire e con sua meraviglia trovò Julian e Amy.
- Ehy, che entusiasmo Holly. Noi torniamo da un lungo
viaggio e tu ci accogli in maniera così fredda? - disse Amy abbracciando l’amico
d’infanzia.
- E che non vi aspettavo, tutto qui. Sono felice di
vedervi. -
- Sicuro? - gli chiese Julian posando il vassoio della
pasticceria sul tavolino del salone. Gli amici si accomodarono e Holly
comprese che non sarebbe andato a correre quella mattina.
- Come mai vi siete precipitati da me? E’ forse
successo qualcosa? - chiese loro cercando di interpretare il loro strano
entusiasmo.
- Diciamo che tra circa sei mesi diventerai zio! - disse
Julian stringendo la mano della moglie.
- Vuoi dire che voi due…ma è fantastico. - esclamò
gioioso Holly abbracciando i due amici.
- Sì. E’ una notizia stupenda. Come stai Holly? - gli
chiese Julian.
- Bene. Mi sto riprendendo velocemente e sto terminando
la fisioterapia e cominciando i primi allenamenti. A proposito Julian. Ha
chiamato il dottor Andres poco fa e voleva sapere se oggi verrai al centro
sportivo. -
- Sono stanco del viaggio Holly. Non so se ce la faccio.
Magari nel pomeriggio. -
- Bene. Amy non avevi portato delle brioches? - chiese
all’amica ironicamente. Lo strano entusiasmo di Holly la preoccupava. Non
lo vedeva così da così tanto tempo che non ricordava quanto. Quando
afferrò il vassoio, qualcosa cadde ai piedi di Julian. Si chinò e raccolse
il bigliettino pensando si trattasse dello scontrino fiscale della
pasticceria.
- Lavoro fino alle diciannove. Trish. - lesse compito.
Girò il biglietto e lesse il nome della dottoressa e il suo recapito
interno presso l’ospedale. Holly gli si avvicinò e Julian gli pose il
bigliettino. Amy era attonita. Trish Hamilton era stata da lui e gli aveva
lasciato un messaggio.
- Okay…forse vi devo una spiegazione. Non saprei da che
parte cominciare. Ci siamo re-incontrati e ieri…ha passato la notte qui: l’abbiamo
passata insieme! - disse in tono sommesso e palesemente imbarazzato.
Qualcosa l’aveva spinto a confessare a Amy e Julian cos’era accaduto.
Holly continuava a guardarlo sorridente. Non era fuggita, era solo andata al
lavoro. Tirò un evidente sospirò di sollievo che parve infastidire i due
amici.
- Te la sei portata a letto! - esclamò quasi in tono
adirato la signora Ross.
- Amy! - ribattè Julian in tono di rimprovero verso la
moglie.
- No Amy…cioè sì, abbiamo fatto l’amore ma non per
una questione di sesso: lo desideravamo con il corpo e con il cuore…
- Ma se nemmeno la conosci! -
- Non è così. Più vado avanti e più mi sembra di
stare con lei da sempre…Quando parlo con lei mi sembra…di stare con
Patty! Ecco, adesso l’ho detto. Non sono solo somiglianti…ma…ragazzi,
non mi giudicate male! Abbiamo sentito questa forte attrazione, l’uno
verso l’altra e siamo stati bene e sarei felice di continuare questa
relazione! -
- Holly…è bene che tu sappia che quando siamo andati
in Giappone…abbiamo provato a rintracciare Patty! - disse Amy risoluta.
Non capiva il perché di quella sua rabbia. In fondo, se Trish Hamilton
corrispondeva a Patricia Gatsby, avrebbe dovuto essere felice di quello che
aveva detto Holly. Ma in lei si era insinuato il dubbio che non si trattasse
della stessa persona e quindi temeva che Trish stesse velocemente prendendo
il posto dell’amica nel cuore del calciatore.
- Cosa vuoi dire? - chiese con una smorfia di
disapprovazione.
- Siamo tornati in quella che era la casa di Patty,
attualmente di proprietà del signor Morgan. -. In maniera sintetica Amy
spiegò a Holly di come il signor Morgan avesse detto loro del misterioso
proprietario di casa che in realtà si era dimostrato il signor Hamilton,
dei suoi strani comportamenti e del ritrovamento delle lettere.
- Cosa pensavate di trovare? Patty? Che magari all’improvviso
si è ricordata che sono tornato dal Brasile? - domandò loro adirato.
- Se Patty non è potuta venire in aeroporto, c’era una
ragione, Holly! - esclamò Julian in tono quieto cercando di sedare gli
animi.
- Cosa vuoi dire? Scrissi una lettera a Patty, le
telefonai per avvertirla, era la prima persona che desideravo riabbracciare.
E invece? E’ scomparsa nel nulla senza lasciare traccia di se. Insieme al
rammarico per non averle detto mai quanto l’amassi, in me è cresciuta la
rabbia della sua immotivata fuga! Non c’è stato giorno da allora che non
abbia pensato e adesso che nella mia vita è comparsa Trish…sono confuso
ma allo stesso tempo qualcosa mi dice di non lasciarmi andare, di vivere
questa relazione esattamente come viene! -
- Pensi che a noi non sia dispiaciuto perdere le tracce
di Patty? Pensi di essere stato l’unico a soffrire? -
- No, non lo penso ma so quanta sofferenza ho provato io…la
nostalgia, la sensazione di vuoto, la perdizione. Mi è venuta a mancare l’anima,
Amy, la persona che mi è sempre stata accanto. Io vivevo in funzione sua.
Per una volta, dopo dieci anni, questa notte non ho provato paura,
sofferenza, dolore: semplicemente amore, complicità, tenerezza verso una
persona che ha perso più di qualcuno in passato. Ha smarrito se stessa. Ed
io voglio cercare di aiutarla, forse per espiare la mia colpa o più
semplicemente perché per lei provo qualcosa di più di una semplice
amicizia o della passione. - disse con trasporto. Amy e Julian non sentivano
Holly parlare così da tempo. Stava palesemente percorrendo la strada dell’innamoramento.
- Cosa volevi dire con “Ha smarrito se stessa?” -
domandò Amy avvicinandosi a Holly tremante. Julian aveva intuito a cosa
stesse pensando la moglie.
- Ha perso la memoria in un incidente! -. Quelle parole
risuonarono nella stanza con tono rimbombante. Amy guardò Julian sempre
più pallida. Timorosa di poter perdere l’equilibrio, si appoggiò a Holly
che la prese tra le braccia aiutandola a sedersi sul divano.
- Che ti succede Amy! Stai male? - le chiese premuroso
temendo di averla stancata troppo con quei discorsi. Appoggiò il capo sullo
schienale del divano e i suoi occhi cominciarono a guardare il soffitto.
- Holly…sai perché Patty non è potuta venire all’appuntamento?
- sibilò con un filo di voce guardando nel vuoto. Il silenzio del
calciatore era una perfetta negazione. - Il giorno prima del tuo arrivo in
Giappone, ha avuto un incidente stradale nel quale suo padre ha perso la
vita! -
- Che…che hai detto? - chiese con gli occhi sbarrati e
il cuore ferito da quella truce verità.
- Le sue condizioni erano gravi e fu trasportata in
elicottero al centro traumatologico di Tokyo. -
- Non vorrai dirmi che …che Patty…é…è morta! -
sibilò in un angosciante sillabare. Amy scosse leggermente il capo
dissentendo.
- Non lo sappiamo. Non abbiamo avuto accesso alla sua
cartella. Da un controllo al comune, Evelyn ha scoperto che sua madre si
risposò dopo circa due mesi dall’incidente e che il suo compagno volle
adottarla facendole acquisire il suo cognome. -
- Dove vuoi arrivare? - domandò in preda all’ansia. -
Come si chiamava il patrigno? -.
- James Hamilton! - esclamò Julian stringendo la mano
della moglie. Incredulo, attonito, sgomento, privo di ogni forza, Holly si
sedette sulla poltrona appoggiando nervosamente le mani sulle ginocchia. Non
riusciva a parlare, un nodo in gola gli soffocava ogni minimo sibilo. I
pensieri confusi sembravano vorticare nella mente, il cuore in tumulto
batteva talmente forte che sentiva dolore al petto, il sangue fluiva
velocemente nelle vene in preda ad un impeto di ira e ansia.
- Patricia Hamilton! - sussurrò con un fil di voce che
per quanto basso non impedì a Amy e Julian di sentire. Amy abbassò il capo
assentendo a quell’esclamazione. - Sua madre la chiamava Trish! -
continuò Holly cercando nella sua memoria ogni minimo particolare che
legava Patty a James Hamilton. Si alzò lentamente e si avvicinò alla porta
finestra aprendola ed uscendo sulla terrazza fiorita. Il vento soffiava
fresco ed invadente e portava con se il piacevole odore salmastro del mare.
La città sembrava dormire ancora e i ricchi yatch attraccati ai moli
danzavano nel lento ondeggiare della corrente. Guardava il mare in cerca di
una spiegazione. Perché il destino era stato così crudele? Perché non
riusciva ad essere felice di quella scoperta? Chi più di lui avrebbe potuto
provare gioia nel sapere che Trish e Patty erano la stessa persona? Pensò
alla sofferenza che doveva aver provato e fu assalito da una profonda
nostalgia.
- Holly! - gli disse Julian mettendogli una mano sulla
spalla. Era visibilmente a pezzi, traumatizzato da quella rivelazione,
estremamente confuso e incapace di ogni reazione.
- E ora cosa faccio? - gli domandò sperando che il
saggio amico potesse dargli consigli utili per uscire da quella situazione
anomala. - Ne siete sicuri? - chiese ancora vedendo Amy sopraggiungere
dietro di loro.
- No! Sembra che all’inizio dell’anno successivo all’incidente
si siano trasferiti a Chicago. -. Holly sorrise di scherno. - E’ difficile
poter controllare i dati anagrafici in una metropoli del genere.
Bisognerebbe recarsi sul posto. -.
- Trish ha studiato a Chicago. E’ lì che si è
laureata in medicina. Ed è fuggita da una famiglia che la soffocava! -
disse loro cercando di ricomporre il puzzle. - Povera Patty. Deve aver
sofferto tanto. L’incidente, la morte del padre, il trasferimento dall’altra
parte del mondo, una famiglia morbosa, l’assenza di identità…-
- Il destino è stato crudele con lei. - disse Julian. -
Forse sarebbe giusto raccontarle la verità, magari lei non la conosce. -
- Infatti. E’ stata molto evasiva circa la sua famiglia
e comunque non deve essere particolarmente affezionata a loro. Cosa dobbiamo
fare adesso? - domandò ancora cercando più conforto che aiuto.
Continuava a guardare il mare e i gabbiani librare liberi
sotto il cielo dalle tonalità argentee. Ripensò a quella notte in cui aveva
provato la gioia dell’amore, aveva dimenticato il dolore e la sofferenza che
negli ultimi dieci anni l’avevano seguito come un’ombra. I suoi respiri
sulle labbra, i sospiri ai baci dolci e passionali, i fremiti alle sue carezze
così sicure ed esperte. L’avevano desiderato e l’avevan fatto,
riscoprendosi abili e disincantati amanti. Quella notte erano stati Oliver e
Trish: nulla degli attimi trascorsi li aveva riportati alle loro passate
identità, avevan smesso gli abiti adolescenziali di Holly e Patty per vestire
quelli adulti di una coppia in preda ad un’attrazione quasi fatale.
Quelli che al momento dell’incidente gli erano parsi dubbi,
adesso erano certezze.
- Come pensi che possa reagire se le diciamo tutto quello
che abbiamo scoperto? -
- Non lo so Amy. A me non piacerebbe sapere che qualcuno
ha indagato sul mio conto. Patty era una ragazza indipendente, discreta per
quello che riguardava la sua vita privata. Penso che questo le sia rimasto
anche nella sua nuova identità. Secondo me andare lì e dirle cosa sapete,
potrebbe solo peggiorare le cose…andrebbe su tutte le furie…
- Forse ho trovato…dovremmo insinuarle il dubbio e far
sì che sia proprio lei a scoprire chi è in realtà! - disse Julian
illustrando la sua idea.
- E come? -
- Le lettere. Se le leggesse magari ricorderebbe qualcosa
della sua adolescenza e chissà probabile che chieda ai suoi genitori
spiegazioni in merito. - continuò.
- Non so se è una buona idea. - ribatté Holly scettico.
- A me no. Se io fossi al suo posto e leggessi quella
corrispondenza, mi interesserei alla vicenda e cercherei spiegazioni. -
- E quale spiegazione potrebbe cercare Trish? -
- Perché ha ricevuto quelle lettere! Fidati Holly. Se in
fondo al suo cuore è rimasta la vecchia Patty, non lascerà incompiuto
quello che ha iniziato tempo addietro. Le lettere faranno risvegliare in lei
i vecchi ricordi. Holly, Patty ti amava intensamente, non era la pura
adorazione di una manager verso il suo capitano. Lei viveva per te, perché
tu realizzassi i tuoi sogni. Non voleva nulla in cambio. Avrebbe solo
desiderato che tu ricambiassi i suoi sentimenti. E qualora tu non l’avessi
fatto, lei avrebbe continuato ad amarti lo stesso. Anche se ha perso la
memoria, nascosto in fondo al suo cuore ci sarà ancora il ricordo del suo
più grande amore. Bisogna solo incoraggiarla. Probabilmente le persone che
le sono state accanto non hanno fatto nulla perché lei potesse risvegliarsi
dal suo sonno apparente. - disse Amy più speranzosa che certa. Holly
tacque. Le parole di Amy gli echeggiavano nella mente. Le sentiva nel cuore
cos’ forte che gli faceva male. La sua cara Patty l’aveva amato a tal
punto? Si sentiva in colpa perché adesso provava un sentimento forte che
sentiva crescere ogni attimo per Trish. Se non si fosse trattato della
stessa persona, era certo che sarebbe impazzito.
- E se invece non dovessero servire a nulla? - chiese
Holly ritornando all’argomento principale.
- Sono sicura che te ne parlerà. Sia tu che noi l’abbiamo
più volte chiamata Patty! Si sentirà chiamata in causa. -
- Ragazzi…io desidero solo una cosa: che sia Trish o
Patty, voglio che rimanga al mio fianco. E’ questo l’aiuto che vi
chiedo. Nulla di più. Non posso più permettermi di sbagliare. La mia lunga
attesa ha comportato solo dolore nella mia e nella vita degli altri. A
cominciare da Patty.
- Se si dovesse trattare realmente di Patty, non potrei
far altro che gioire per averla ritrovata. Ma se non dovesse essere così,
devo chiudere un capitolo del mio passato e cercare un futuro diverso
insieme a Trish….provo davvero dei sentimenti per lei Non voglio
illuderla, non se lo merita, e soprattutto non voglio commettere gli stessi
errori che ho fatto con Patty. - disse loro rientrando in casa. Le sue
parole erano state scandite in maniera ferma, decisa. Aveva deciso che una
delle due sarebbe rimasta al suo fianco, nel ricordo e nell’amore dell’altra.
Il cercapersone di Trish Hamilton squillò insistentemente.
Stava ultimando il giro delle visite insieme a un nuovo tirocinante. Nonostante
fosse stanca, era contenta. Quello che era successo la sera prima l’aveva
felicemente turbata e il suo umore era stranamente positivo quel giorno. Si
avvicinò al bancone accettazione del pronto soccorso e chiese all’impiegato
chi l’avesse cercata.
- Sono stato io dottoressa. Sono arrivati due pacchi per
lei! -
- Saranno riviste mediche e prodotti di informatori
medici. Puoi metterli nel salottino, per favore? -
- Non penso dottoressa. Sono arrivati uno a distanza di
poco tempo dall’altro: uno con un pony express, l’altro invece a mano da
un signore che non ha richiesto neanche la firma su una ricevuta. Ecco,
questi sono i pacchi. - le disse Jorge poggiando le due scatole sul bancone.
Una era lunga e stretta legata da un nastro rosso intenso. L’altra
era una normale scatola di imballaggio di medie dimensioni con sopra scritto il
suo nome a penna. Le afferrò entrambe e le portò nel salottino dove i medici
si riposavano nei momenti di pausa. Curiosa come non mai, li poggiò entrambi
sul tavolo e aprì prima quello sigillato dal nastro rosso.
Quando sollevò il coperchio della scatola, un gradevole
profumo fiorito si sparse per la stanza. Tre magnifiche rose bordeaux a stelo
lungo giacevano su un telo di organza. Prese tra le mani il bigliettino con il
cuore in tumulto stretto in una morsa che le soffocava le parole in gola.
- Mi manchi! O.H. - scorse con gli occhi quelle
poche parole che poi lesse sottovoce quasi per timore che qualcuno potesse
udirla. Sorrise di gioia chiudendo gli occhi e pensando al giovane amante di
quella notte. Il cercapersone la riportò alla realtà destandola dal sogno
che stava vivendo. Aprì il suo armadietto e vi appoggiò le scatole curiosa
di aprire anche l’altra. Il suono continuo del cercapersone glielo
impedì.
- Tesoro…svegliati…non dormire…io sono qui…guardami,
ti prego, apri gli occhi, tu devi vivere! Devi incontrare Holly! Devi
realizzare i tuoi sogni….Non morire, Patty! -. Quel flashback improvviso
la fece sussultare. Si portò una mano al petto nella speranza che il cuore
decelerasse e che il sangue riprendesse il suo lento scorrere. Respirò
profondamente cercando di riacquistare l’autocontrollo perduto.
Barcollante uscì dalla stanza precipitandosi in accettazione da dove
proveniva la chiamata.
- Dottoressa, stanno arrivando due ambulanze. Incidente
stradale. Sono rimasti coinvolti padre e figlia. -
- Patty, non morire…guardami, Patty…guarda tuo padre,
ti prego….rispondimi! -. L’eco del flashback continuava a martellare
nella sua mente e a materializzarsi dinanzi i suoi occhi. La macchina
ridotta in rottami e i loro corpi riversi all’interno. L’uomo grondante
di sangue guardava la giovane donna seduta al suo fianco. Le cinture di
sicurezza ancora allacciate. La camicia bianca della ragazza era oramai
intrisa del sangue che lentamente grondava dal cranio traumatizzato dall’urto.
L’uomo gemeva cercando di svegliare la figlia. Aveva le lacrime agli
occhi. Non riusciva a muovere neppure un dito.
- Trish ci sei? - chiese Luis riportandola alla realtà.
- Ehy, sei su questo pianeta? Ma mi ascolti Trish? -. Che stava succedendo?
Le due ambulanze. Padre e figlia. Scosse il capo come per riprendersi da
quell’apparente stato di tranche. L’arrivo dei paramedici sembrò
ridestarla completamente dal torpore in cui era caduta. La vista le si
annebbiò e sentì velocemente salire le lacrime. Perché? L’immagine di
quell’uomo e di sua figlia sembravano ferme, paralizzate dinanzi le sue
cornee. Avrebbe voluto farle sparire ma nella sua mente sentiva ancora il
grido disperato di quel padre verso la figlia…una giovane donna priva di
sensi…sempre lei…la misteriosa Patty di cui aveva sentito parlare altre
volte ma soprattutto la ragazza che più di una volta le era comparsa in
sogno o nei suoi flashback senza volto. Si sentì toccare e sobbalzò. La
mano di Luis sulla sua spalla che la scoteva, cercava di riportarla ad una
realtà terrena.
- Ma che ti prende? Stai male? - le chiese non
distogliendo lo sguardo dalla collega.
- Ehm…no…era solo un capogiro! -
- Ne parliamo dopo…forza vieni con me! - le disse
passandole la tunica impermeabilizzante e i guanti in lattice.
Trish sembrò tornare alla realtà e seguì il collega nell’atrio
riservato all’arrivo delle ambulanze.
Con la pena nel cuore, seguendo con lo sguardo Luis che
impartiva le direttive agli infermieri, si avvicinarono alle ambulanze. I suoi
occhi sembravano ipnotizzati dal flashback che aveva avuto. Il cuore era gonfio
di lacrime e non riusciva a spiegarsi il perché. Le parole le morivano in gola.
- Trish, tu prendi la ragazza: io il padre. Forza
ragazzi, diamoci una mossa. Fate liberare sala 2 e 3. Arriviamo con i
feriti! - urlò sperando che qualcuno l’avesse udito.
Ascoltarono i ragguagli dei paramedici e aiutati dai
tirocinanti, spinsero le barelle nelle sale d’urgenza 2 e 3, separate da una
semplice porta a vetro. Le condizioni di Loreta e Alejandro Curtiz erano
critiche. Sia Trish sia Luis richiesero l’aiuto di due medici da chirurgia.
- Come va Trish? -
- Male. Ha sbattuto la testa contro qualcosa di molto
duro perché il cranio è fratturato. Spero solo che dalla TAC non salti
fuori un’emorragia cerebrale….ma ho dubbi in merito. L’encefalogramma
è quasi piatto. Il battito cardiaco è talmente debole che non capisco come
riesca ad essere ancora in vita. Escoriazioni varie, ustione alla gamba
destra ed emorragia al fegato. E tu? -
- Lo stiamo stabilizzando ma solo un miracolo può
salvarlo. Ha entrambe le gambe fratturate e qualcosa di metallico gli ha
penetrato il petto recidendo quasi l’aorta. -
- Che situazione! Ma dove diavolo sono finiti? - si
chiese continuando a tamponare le ferite sulla ragazza. Il chirurgo
coadiuvava gli assistenti cercando di stabilizzare la giovane donna prima di
un intervento chirurgico d’urgenza mentre Trish continuava il suo lavoro
in maniera del tutto indipendente.
- Hanno cercato di evitare l’impatto frontale con un
autotreno uscito fuori strada e si sono schiantati contro il new jersey. -
le disse Carmen continuando ad effettuare i test preliminari sulla paziente.
La luce della grande lampada sul letto operatorio era talmente accecante e
calda che per un attimo Trish temette di rimanerne folgorata. Si sentiva
venir meno e non comprendeva se dipendeva dallo stress lavorativo o dal
mancamento causato dal flashback. Guardò la ragazza dai capelli corvini il
cui corpo tumefatto riposava sopra la barella. appena Si strinse nelle
spalle, intimorita da quella presenza e provando un’indefinita tristezza
verso quella vita che lentamente si stava spegnendo. Il sensore dell’elettrocardiogramma
cominciò a vibrare in maniera sonora richiamando l’attenzione dei medici.
Non c’era più battito.
- Presto, il defibrillatore! - esclamò scossa da un
qualcosa che le diceva di continuare a tentare di salvarla.
- Trish non ne vale la pena. Probabilmente riporterà dei
gravi danni cerebrali. - le disse il dottor Mendez, aiuto primario di
chirurgia. Ignorando completamente il consiglio del collega, Trish
continuava a scaricare scosse elettrica sul petto della ragazza.
- Trish ascoltami…è tutta fatica sprecata! -
- Non mi importa quello che dici. Dobbiamo riprenderla. E’
troppo giovane per morire, ha tutta una vita da vivere. - rispose aspra non
degnandolo di uno sguardo. - Maledizione Loreta, non vorrai farmi fare
brutta figura. Avanti, non darti per vinta, lotta insieme a me, ce la puoi
ancora fare! Non puoi morire, hai solo sedici anni. - esclamò quasi in una
supplica cercando di coinvolgere la ragazza. I colleghi la guardavano
attoniti incapaci di proferire altro o prendere qualche decisione. Le
lacrime le annebbiavano la vista ma non poteva permettersi quel gesto tanto
sensibile quanto debole di fronte ai colleghi. Lei era Trish Hamilton, la
dottoressa di ghiaccio, come molti la chiamavano per la sua persona
integerrima e professionale.
- Dottore guardi, c’è di nuovo il ritmo cardiaco. -
disse Carmen esterrefatta richiamando l’attenzione del dottor Mendez. Il
medico sorrise e si avvicinò a Trish. Senza dir nulla, riprese a lavorare
intensamente nel disperato tentativo di riportare in vita Loreta Curtiz.
La porta della sala 3 si aprì e Luis entrò chiedendo
ragguagli sulla ragazza.
- Come sta il padre? - chiese Trish.
- L’abbiamo stabilizzato. Lo stanno portando su in
chirurgia per operarlo. Speriamo in un miracolo. E la ragazza? -
- E’ grave…ma ce la farà…ne sono sicura. - disse
senza alzare lo sguardo. - Se suo padre si salverà, anche Loreta lo farà.
- sussurrò cercando di formulare un pensiero ottimista più per se stessa
che per gli altri. Luis sentì quello che aveva detto Trish ma non riuscì a
comprenderne il significato.
- Avanti, portiamola su in chirurgia. - disse il dottor
Mendez spingendo la barella fuori dalla sala 2. - Trish! - esclamò
voltandosi verso di lei. Era pronta ad un rimprovero sonoro per aver
criticato l’aiuto primario dinanzi ai subalterni.
- Sì, dottor Mendez! - rispose guardandolo diritto negli
occhi. Non gli importava di averlo contraddetto durante il soccorso. Erano
riusciti a stabilizzare Loreta Curtiz e questo le bastava per sapere di aver
fatto ancora una volta il suo dovere. La mente era confusa e il cuore
intriso di ansia e angoscia. Non sapeva neanche lei cosa le stesse
succedendo: era solo cosciente che doveva andar via e rifugiarsi nelle
braccia di Oliver che sicuramente avrebbe saputo consolarla.
- Complimenti. Ottimo lavoro. - le disse allontanandosi
verso l’ascensore. Luis e Trish tacquero temendo di non aver sentito bene
l’ultima frase pronunciata da Mendez, noto per il suo carattere tanto
irruente quanto polemico.
- Non posso crederci che tu abbia fatto breccia nel cuore
di quell’uomo. Brava la mia adorata Trish. - le disse sorridente. La
guardò e capì che la sua mente era totalmente assente. A cosa pensava
quando si estraniava dal mondo intero? Avrebbe voluto essere il suo
confidente e l’amante di quella bella donna sempre celata dietro una
maschera perfettamente dipinta.
- Trish che cos’hai? Non ti senti bene? - le chiese
dolcemente.
- Scusami Luis…no, ho un gran mal di testa e penso che
me ne andrò a casa. Il mio turno è finito. -
- Per l’ennesima volta ti ripeto che dovresti prenderti
una vacanza. Che ne diresti se ce ne andassimo tutti e due a fare una bella
crociera sul Nilo? Ho visto una locandina presso un’agenzia di viaggi!
Adesso il tempo è ideale: non fa molto caldo in Egitto. -. Lei gli sorrise
amichevolmente. Il bel casanova dell’ospedale continuava a corteggiarla
nonostante i suoi numerosi rifiuti. Le infermiere e le dottoresse avrebbero
fatto carte false per essere al suo posto. Ma lei aveva un’altra persona
nel cuore.
- Ti ringrazio Luis, sei un amico. -
- Trish! - esclamò lui afferrandole una mano. Lei
comprese e si voltò verso di lui. I suoi occhi verdi erano così luminosi e
quieti. Abbassò il capo per evitare di perdersi in quel mare di emozioni.
- Io…lo sai…a me piacerebbe davvero frequentarti…non
solo come amico! Ma tu mi sembri così lontana, distante. Dimmi la verità
così mi metterò il cuore in pace. C’è qualcuno nella tua vita? -. Era
una dichiarazione. Già, il più bel medico dell’ospedale si era chinato
al suo cospetto declamando il suo interessamento verso un rapporto ben più
profondo dell’amicizia. Era contenta che qualcuno in quella struttura
avesse capito che non c’era un pezzo di ghiaccio nel suo petto, ma un
cuore che batteva e che attendeva solo di infiammarsi d’amore. Gli portò
una mano al volto ben rasato e l’accarezzò gentilmente. Le labbra si
unirono dolcemente per donargli il più sincero dei sorrisi.
- Ti voglio bene Luis…ma non potrei mai innamorarmi di
te. -
- Come puoi dirlo se non ci proviamo? - le disse non
demordendo.
- C’è già qualcuno nella mia vita e mi sento legata a
questa persona in maniera profonda e inestricabile. -
- Non sarà mica quel giocatore? - le chiese quasi
adirato. Trish non parlò e il suo tacere valse l’assenso. - Ma Trish, se
non lo conosci neppure? Che cosa ha lui che a me manca? -
- Luis ti prego…mi sembra inutile far degenerare questa
conversazione. Lui è nella mia vita, c’è sempre stato. L’ho scoperto
quando ci siamo incontrati. C’è qualcosa di inscindibile che ci lega e
adesso me ne sto rendendo conto. -
- Quindi…è proprio finita! -
- Luis…non è mai cominciata. Noi due siamo e resteremo
sempre dei buoni amici. Io ti voglio bene sinceramente, ma…
- Ma non mi ami! -
- Sì. - gli disse definitivamente sperando che
finalmente si mettesse il cuore in pace. Alzò le spalle, si staccò da lei
e si avviò verso la porta senza proferire.
- Se ti vedrò soffrire a causa sua…non risponderò
delle mie azioni! -. Le sue ultime parole rimbombarono nella stanza in
maniera sonora. Sospirò cercando di far ristabilire al suo cuore il ritmo
normale. Un brivido la percorse e sentì freddo. Si strinse nelle braccia
cercando di cancellare quella sensazione scomoda e gelida. Guardò l’orologio
appeso al muro della stanza. Erano passate le 19 e 30. Come sempre sarebbe
uscita oltre l’orario di lavoro. Appena fu nel corridoio, Miguel, l’impiegato
all’accettazione la richiamò.
- Dottoressa deve finire di aggiornare le cartelle? -.
Lei lo guardò esausta. Non avrebbe potuto tenere neppure la penna in mano.
Era troppo stanca per fare altro e sentiva il bisogno di un caldo bagno
rilassante.
- No Miguel, se guardi bene quelle cartelle sono già
state aggiornate. Le devi solo sistemare al proprio posto. -
- Ops…ha ragione, mi scusi dottoressa. -
- Non fa niente. Io sto andando via. Chi c’è di turno?
-
- La dottoressa Stevenson e il dottor Arnau. -
- Bene…allora non chiamatemi fino a domani! -
- D’accordo. - gli rispose sorridendo a quella
richiesta. Si diresse nel salottino riservato ai medici e si lasciò cadere
sul divanetto. Chiuse gli occhi stremata dalla stanchezza.
- Devi smetterla di correre dietro a queste stupidaggini.
La colpa è anche di tuo padre che alimenta le tue fantasie. - ribatté
quasi urlando sua madre.
- Non sono stupidaggini. E’ la mia vita, la mia
adolescenza e tu non puoi impedirmi di coltivare aspirazioni e sogni. -
- Tanto tra non molto la smetterai con questa storia del
calcio. Non appena ci trasferiremo negli Stati Uniti, tu cambierai vita. -
- Te lo puoi solo scordare. Chiederò al giudice di farmi
restare qui con papà. -
- Sai cosa ti dico? Fai come vuoi. Sono esausta di
correrti dietro. Tu sei uno spirito ribelle. Spasimi per un ragazzo che non
ha esitato ad abbandonarti e continui a coltivare la sua passione nella
speranza che un giorno torni da te. - le urlò sua madre additandola. Le
lacrime le sgorgarono spontanee.
- Tu non sai niente di noi. Pensi solo ed esclusivamente
a te stessa…a seguire quello stupido del tuo compagno negli Stati Uniti.
Hai mai pensato a me? Che se te ne vai mi abbandonerai? Certo che no perché
è quello che vuoi. Allora sai cosa ti dico io? Vattene pure negli Stati
Uniti, tanto non sentirai la mia mancanza! - gridò scappando via. Patty!
Ancora lei, ancora un flashback. La ragazza oramai presente quotidianamente
nella sua vita le era apparsa dinanzi agli occhi mentre litigava in maniera
furente con la propria madre.
- Perché continuo ad essere ossessionata da questa
ragazza? E’ la stessa che ho visto più volte con Oliver, la sua amica
Patty, quella di cui mi ha parlato. Come faccio a conoscerla se non l’ho
mai vita? Cosa ci lega? - si chiese mettendosi le mani al capo in cerca per
l’ennesima volta di una spiegazione logica a quello che da qualche
settimana le stava accadendo. Si alzò decisa ad andar via. Smise il camice
bianco e lo stetoscopio e aprì il suo armadietto. Il profumo intenso delle
rose inviatele da Oliver le ricordò che doveva aprire ancora l’altro
pacco che qualcuno le aveva fatto recapitare. Guardò le rose e sorrise a
quell’amore che stava nascendo e che la rendeva felice. Prese la borsa e
la giacca e la indossò. Richiuse l’armadietto e mise la scatola sul
tavolo. La guardò, la prese tra le sue mani e ne constatò il peso.
- Uhm…non è molto pesante. Forse è meglio aprirla
così non dovrò portarmi insieme anche il cartone. - pensò cercando un
taglierino tra gli articoli di cancelleria sistemati su un tavolino dove
solitamente i medici si appartavano per completare la compilazione delle
cartelle. Il cuore aveva ripreso a battere intensamente quasi a volerla
preavvertire del contenuto della scatola. Rimase alquanto allibita quando
constatò che altri non erano che una ventina di lettere ordinatamente
custodite nelle rispettive buste. Le afferrò e si sedette colta da un’improvvisa
fitta al cuore. Non c’era mittente, ma il destinatario era sempre lo
stesso: Sig.na Patty Gatsby! Le mani tremanti reggevano a malapena le
lettere. Le rigirò nervosamente cercando una traccia del mittente. L’unica
cosa che si leggeva, seppur in maniera poco distinguibile, era il paese di
provenienza. Le lettere erano state spedite tutte dal Brasile.
- Perché? Chi può avermi fatto recapitare queste
lettere? Cosa ho a che fare io con Patty Gatsby? - si chiese intimorita
sapendo che si trattava della stessa persona che spesso sognava e per la
quale era stata scambiata da Oliver e dai suoi amici? Bruscamente prese una
busta e ne svuotò il contenuto. Non avrebbe mai letto la corrispondenza
altrui, ma qualcuno gliela aveva inviata proprio perché lo facesse. Era la
prima lettera, oramai vecchia di circa tredici anni.
Mia carissima manager,
come stai? Qui in Brasile è tutto diverso dal Giappone.
Dov’è il rigoroso ordine nipponico, le nostre case così particolari? Tu
aggiungeresti anche: dove sono i miei ciliegi in fiore? Già, sono proprio
in un altro mondo, ma mi piace. Grazie a Roberto mi sono ambientato subito
ed ho conosciuto i miei compagni di squadra. Parto dalla panchina, sai?
Non ti arrabbiare, ti prego. Già ti ci vedo su tutte le
furie rivolgerti al mister per farmi giocare come titolare. Devo guadagnarmi
la loro fiducia se voglio diventare un titolare e ti prometto, Patty, che ce
la farò.
Tra un po’ inizierà il campionato e vedrai che dopo un
po’ riuscirò a partire tra gli undici che scenderanno in campo. Non
importa quanto dovrò lavorare, non mi spaventano gli allenamenti. Sarai
fiera di me.
Porto sempre con me il braccialetto che mi hai regalato…sarà
il mio portafortuna, il legame con la mia terra e…con te.
Non ti deluderò Patty: quando avrò realizzato il mio
sogno, quando sarò diventato un calciatore professionista, tornerò…
A presto,
Holly
p.s. Nella busta troverai un bigliettino da visita di
Roberto completo di indirizzo a cui inviare la corrispondenza.
Trish guardò ancora quella lettera, scorse velocemente le
righe. Holly e Oliver. La stessa persona. Aveva abbandonato la sua amica Patty
per inseguire il suo sogno. Doveva amarlo tanto per non provare neppure ad
opporsi alla sua partenza. Si era trasferito dall’altra parte del mondo per
realizzare il suo sogno e lei gli era accanto sempre, anche se non fisicamente.
La corrispondenza era alquanto generica. Si parlava
soprattutto di calcio e delle squadre brasiliane. Evidentemente Patty era un’ottima
ascoltatrice e si intendeva di sport se lui le descriva particolari e tecniche
accurate come se stesse parlando con il più esperto dei giocatori.
Era compiaciuto dei progressi della squadra di calcio che
aveva lasciato, che Patty continuava a seguire; si complimentava con lei per gli
ottimi risultati scolastici e per i suoi corsi linguistici pomeridiani. Cercava
di consolarla quando lei gli scriveva dei pessimi rapporti che aveva con sua
madre e con il suo compagno. Sempre più spesso desiderava trasferirsi da suo
padre per poter vivere più serenamente.
Man mano che i mesi trascorrevano, Trish denotava nelle
lettere maggior sentimento. Holly evidentemente stava cominciando ad accusare la
sua mancanza e in una lettera le diceva anche che gli sarebbe piaciuto poterla
riabbracciare in terra straniera.
Rovistando tra le buste, fu attratta da una lettera e da una
busta chiusa.
“ Caro capitano,
i giorni passano e oramai siamo quasi a Dicembre. Natale si
avvicina e presto le strade si riempiranno di candida neve. Il campionato
scolastico procede a gonfie vele. Con il ritorno di Benji e Tom la squadra sta
andando avanti di pari passo alla Toho. Penso che anche quest’anno la finale
sarà tra di noi. Mark Lenders è migliorato molto e il suo tiro della tigre
sembra sempre più inafferrabile. Per fortuna che abbiamo Benji in porta. Ci
manca un attaccante come te…ci manchi tu.
Come sto io? Sempre al solito. Mi divido tra la scuola e il
club di calcio e nel tempo che mi rimane, litigo sempre più spesso con mia
madre e il suo “individuo”. Non lo sopporto proprio e conoscendo la mia
proverbiale tolleranza dovresti riuscire a comprendere quanto saturo sia il mio
livello di pazienza. Cerco di trascorrere più tempo possibile con mio padre.
Con lui sto bene, mi capisce, gli parlo di me, della squadra, di te.
Holly…io…so che non è il momento giusto e che forse non
dovrei dirti certe cose ma…mi manchi. Forse ho aspettato troppo per dirtelo e
probabilmente avrei dovuto attendere ancora. La mattina spero sempre di poterti
incontrare sul ponticello sulla via della scuola dove ci vedevamo prima. Oppure
spero di scorgere la tua ombra sul campo di calcio mentre ti alleni in attesa
che arrivino gli altri. La lontananza ha solo alimentato la tua mancanza.
Ti ringrazio per l’invito a raggiungerti in Brasile, ma
temo che per quanto desideri saltare sul primo aereo, si tratti di un progetto
da rimandare per il momento.
Adesso devo lasciarti perché abbiamo un’amichevole con la
Flynet. A proposito, Jenny è tornata dagli Stati Uniti e finalmente lei e
Philip stanno insieme. Sono contenta che abbiano potuto coronare il loro sogno.
Holly, ovunque tu sia, sappi che ti voglio bene e spero di
cuore che tu possa realizzare i tuoi sogni.
Tua Patty “
Era solo un’adolescente eppure era così sicura dei suoi
sentimenti. Anche se non riusciva a dirgli che l’amava, lui lo sapeva e
corrispondeva il suo affetto. Sorrise pensando che in fondo erano solo due
timidi innamorati che giocavano a nascondere i propri sentimenti dietro falsi
giochi e dubbi amletici. Ripiegò la fotocopia e prese la busta chiusa sentendo
qualcosa di metallico all’interno. Prese il tagliacarte e la aprì in maniera
accurata rovesciando il contenuto sul tavolo.
- Ma questo…è il braccialetto che Oliver le fece fare
prima di ripartire per il Giappone! Il bracciale uguale a quello che Patty
gli aveva regalato prima della sua partenza. -. Senza attendere oltre
spiegò la lettera.
Mia carissima Patty,
ho ricevuto oggi la tua lettera. Sono contento dei
progressi della squadra e sapevo che con il ritorno di Benji e Tom anche quest’anno
la New Team avrebbe disputato un ottimo campionato.
Mi dispiace che i rapporti con tua madre e il suo compagno
siano così incrinati. Vorrei essere lì con te…per consolarti, come hai
sempre fatto tu con me quando c’era qualcosa che non andava bene. Sai, mi
sono infortunato. Durante una partita di campionato, l’avversario mi è
venuto addosso scaricando tutta la sua potenza sul mio polpaccio sinistro.
Dovrò saltare tre partite e poi ci sarà la sospensione per il Natale. Ho
chiesto alla dirigenza se posso tornare in Giappone. Così potremo rivederci.
Quando mi sono infortunato mi è venuto in mente l’episodio di qualche anno
fa…alla fine del terzo campionato…finale con la Toho.
Ancora ricordo bene la tua espressione, le tue lacrime e le
tue preghiere all’allenatore e al medico per farmi giocare seppur
infortunato. Grazie Patty. Non ti ho mai ringraziata abbastanza per essermi
stata sempre così vicina, per aver condiviso gioie e dispiaceri e perfino i
miei infortuni. Cos’avrei fatto se tu non mi fossi stata accanto? Anch’io
sento la vostra mancanza, ma soprattutto, mi manca qualcuno che mi inciti
continuamente dagli spalti, che mi sorride durante gli allentamenti, qualcuno
i cui occhi sono sempre su di me vigili e attenti…mi manchi Patty…non sai
quanto…non ho mai trovato il coraggio di dirtelo, ma penso che sia giunto il
momento per ringraziarti per tutti i sacrifici che hai fatto per me!
Nella busta troverai un piccolo regalo per te: si tratta
dello stesso braccialetto che mi hai regalato tu ma con l’iniziale del mio
nome…anzi del mio diminutivo. Quando sarai giù di morale, in qualsiasi
momento ne avrai voglia, guardalo e io sarò con te.
Parto tra due settimane. Ti telefono per dirti a che ora
arriverò. Non appena sarò a Fujisawa, devo parlarti di una cosa molto
importante.
Ti abbraccio
Tuo Holly
p.s. Ehy manager! Non mollare, ricordati che ti voglio
bene.
Finalmente Holly aveva cominciato a scoprire le sue carte e
a rivelare i propri sentimenti alla sua cara Patty. Ma perché lei non aveva
letto quella lettera? Cosa glielo aveva impedito?. Si alzò profondamente
adirata e attratta dal profumo delle rose. I pacchi erano arrivati
praticamente insieme. Era stato lui ad inviarle quelle lettere. Ma perché?
Cosa voleva dirle? Un dubbio si insinuò nella sua mente. Dopo quella notte d’intenso
amore, Oliver aveva subito i rimorsi di una coscienza che lo legavano ad una
ragazza scomparsa. Inviandole le lettere aveva forse voluto dimostrarle quanto
ancora amava Patty? E se invece aveva finto di amarla unicamente perché
somigliava al suo grande amore perduto? Divenne rossa per la rabbia. Si sentì
pervadere il corpo da un forte calore avvertendo il veloce fluire del sangue
nelle sue vene. Si sentiva usata e derubata di un sentimento sincero che
provava per quel ragazzo. Prese le lettere, le mise nella sua borsa e andò
via di corsa.
Il vento del passato era tornato a spirare sulla storia di
Patty e Holly e stranamente, quella brezza di ricordi stava lambendo la sua
vita e quella di Oliver Hutton. Due coppie divise da dieci anni. Un vuoto
spazio temporale nel quale le loro vite erano cambiate e si erano stranamente
intrecciate. Possibile che il destino stesse cercando di riaffermare quanto
aveva previsto per loro in un lontano passato? Cosa la accomunava a Patty
Gatsby? Possibile che l’amore di Oliver Hutton per la sua amica Patty fosse
così disperato da continuare a cercare la sua amata nel corpo di Trish?
Senza tregua continuava a correre verso la stazione della
metropolitana più vicina all’ospedale. Nei suoi occhi rivedeva le frasi
scritte da Holly alla sua Patty, la ragazza che più di ogni cosa al mondo aveva
amato. Perché l’aveva cercata e attirata in quell’incubo che lo tormentava
da tanto tempo? Perché aveva voluto proprio lei? Per la somiglianza? Possibile
che fosse attratto unicamente dai tratti somatici tanto simili tra loro due? Per
quante domande si ponesse, Trish non trovava alcuna risposta plausibile al suo
comportamento tanto meschino. L’aveva usata solo ed unicamente nel ricordo di
un amore tanto disperato quanto irraggiungibile. Desiderava piangere, gridare al
mondo la sua sofferenza, ma ogni benché minimo sibilo cercasse di emettere, le
moriva in gola soffocato dall’angoscia che sempre più la stava attanagliando.
Evitando persone ed ostacoli e stando ben attenta a non
scivolare sull’asfalto reso viscido dalla strada, Trish intravide la stazione
del metrò e scese le scale cercando di accelerare il passo. Dinanzi gli
sportelli d’accesso alle linee obliterò la sua tessera e continuò la sua
corsa frenetica. Desiderava quasi spasmodicamente salire sul primo treno diretto
a Barceloneta e correre da lui in cerca di giustizia. Era completamente
fradicia. I capelli scomposti e roridi le incorniciavano il volto pallido reso
tale dalla spossatezza di un’intensa giornata lavorativa e dagli eventi che si
erano verificati. Il cuore le batteva così forte che temeva potesse saltar
fuori dal petto. Alcune persone sostavano lungo il marciapiede della linea che l’avrebbe
condotta al porto. Osservò fremente il display che segnalava quanti minuti di
attesa ci fossero fino all’arrivo del treno successivo. Un minuto esatto. In
una mente avvolta in un turbine di pensieri e sensazioni, Trish stava cercando
di costruire un discorso serio e forse non troppo adirato da pronunciare in
presenza di Oliver. Voleva le spiegazioni, le pretendeva e le avrebbe ottenute.
Dopo di che, alterata per il comportamento da lui assunto nei suoi confronti, l’avrebbe
lasciato senza concedergli alcun motivo di giustificazione.
I fari del treno illuminarono il tunnel della metropolitana e
poco dopo essersi fermato, le porte si aprirono automaticamente.
A quell’ora gli uffici e gli edifici scolastici erano
chiusi, quindi non c’era molta gente. Si sedette su una poltrona vicina la
porta automatica e attese che il treno la conducesse verso Barceloneta.
James Hamilton guardava la moglie Mary seduta accanto a lui
sul sedile posteriore del taxi. La pioggia cadeva scrosciante e le strade erano
oramai madide di quelle gocce che incessantemente si stavano riversando dal
primo pomeriggio accompagnate da fulmini e lampi.
- Sei preoccupata? -
- Non la vedo da tempo. Come pensi che possa stare? -
- Secondo me non meritava neppure tutta questa
considerazione da parte nostra. Se ne è andata di casa non volendo lasciare
la benché minima traccia di se. Solo qualche timida e sterile e-mail per
tranquillizzarci. E’ un comportamento inconcepibile il suo. -
- Ma che stai dicendo! E’ pur sempre mia figlia e mi
rendo conto di aver commesso fin troppi errori con lei. Se solo ci fossimo
comportati diversamente, probabilmente adesso saremmo una famiglia felice,
lei sarebbe sposata a qualche rampollo dell’alta borghesia di Chicago e
forse avrei perfino dei nipoti. E invece? E’ fuggita via cercando una sua
vita! -
- Lei la sua vita ce l’aveva a Chicago e questo
bastava. -
- Non dire sciocchezze. Quella era la vita che avevamo
voluto darle noi! Non la sua. Era ben diversa da come era e forse aveva
ragione nel dire che la soffocavamo! -
- E da quando ti sono venuti tutti questi buoni propositi
e sensi di colpa? -
- Da quando hai scoperto dove si trova! - rispose
seccamente ma in estremo disagio.
- Oppure da quando hai letto quell’articolo su Oliver
Hutton? -. La signora Hamilton tacque. Suo marito aveva evidentemente
centrato il bersaglio. Si passò una mano nel caschetto scuro e chiuse per
un attimo gli occhi. Vide quella piccola creatura stretta nelle braccia del
padre, il suo primo giorno di scuola, una giovane adolescente piena di
sogni, una ragazza agonizzante in un letto di ospedale. E ancora rivide la
sua stanza, i testi scolastici e quelli di letteratura straniera che lei
adorava, la fotografia che aveva sul comodino vicino quella scatola a fiori
nella quale custodiva gelosamente il rapporto che la legava a lui. Quel
timido ragazzo che per realizzare il suo sogno era volato dall’altra parte
del mondo. E lei, innamorata, aveva seguito con spasimo ogni suo passo,
vivendo la sua passione, come fosse propria. Un’adolescenza in cui l’aveva
vista correre dietro una sfera a scacchi con l’unico scopo di stare con
lui.
E adesso, dopo quasi dieci anni in cui aveva perso ogni
contatto, non l’aveva più visto estraniandosi da quello che era stato il
mondo di sua figlia, lui era ricomparso nella loro vita. Era stato suo marito a
parlargliene. La nazionale giapponese aveva preso parte ad un torneo a quattro
squadre disputatosi negli Stati Uniti. L’assenza di Oliver Hutton dovuta ad un
incidente era stata subito rilevata dalla stampa e inevitabilmente, James
Hamilton aveva visto la sua foto in prima pagina su un quotidiano. Aveva così
appreso che la grande promessa del calcio internazionale, da anni giocava in una
delle più titolate squadre europee. E poco prima, chissà come, James Hamilton
aveva scoperto che Trish si trovava a Barcellona.
- E’ assurdo. Come può essere che si trovino nello
stesso paese? -
- La forza del destino! - rispose lei pensando quasi
divertita di come due continenti diversi non avevan potuto separarli.
- Adesso sei tu che dici stupidaggini. - ribatté acido
alla moglie.
- Temo proprio di no. -
- Stai forse pensando che….che Trish abbia scoperto
cosa è successo dieci anni fa? - le chiese turbato.
- No. La conosco troppo bene. Se l’avesse scoperto,
sarebbe tornata a casa in cerca di giustizia. Lei è sempre stata fatta
così. Per quanto dolce e carina potesse sembrare, nascondeva un coraggio ed
un orgoglio immensi ereditati da suo padre. Abbiamo sbagliato con lei.
Avremmo dovuto dirle tutto. -
- Ricordati che se le abbiamo tenuto nascosta la verità
è stato unicamente per il suo bene e per farle vivere una vita più
normale. Volevi che continuasse ad andare in giro per il mondo dietro un
pallone? -
- No di certo ma l’abbiamo privata di un’identità. -
- Non ti far prendere dai sensi di colpa. L’abbiamo
fatto unicamente per farla vivere più serenamente. - sentenziò lui
mentendo.
- Come hai avuto il suo indirizzo? - gli chiese aprendo
un po’ il finestrino. Si sentiva mancare l’aria.
- A Chicago. E’ stato un mio amico giornalista. Me l’ha
procurato quando la nazionale nipponica è stata negli Stati Uniti. -
- Capisco. Sei sicuro che la troveremo lì? -
- No, ma se come pensiamo non si sono mai incontrati,
potremo dire a lui di starle alla larga dicendole che ha un equilibrio psico
fisico troppo instabile per poter reggere certe situazioni e soprattutto
provare questi traumi. -
- Non è affatto vero. Questo è quello che crediamo noi.
Lei sta bene. Altrimenti non sarebbe diventata un medico. E poi, lui non ci
aspetta. Magari non sa neppure che vivono nella stessa città. Non vorrei
innescare una bomba senza alcun motivo. -
- L’unica cosa da farsi è parlargli. Di lei non
sappiamo niente e fino a che non la troveremo, non potremo riportarla a
casa. - disse tediato da quella conversazione. Non aveva mai avuto un buon
rapporto con la figlia adottiva e in passato non aveva esitato a
programmarle incontri galanti pur di maritarla a qualche buon partito
statunitense e quindi liberarsi di lei. Guardò suo marito e sospirò. Non l’aveva
mai amata, e forse neanche lei, non quanto il suo primo marito. Lui
spasimava per la figlia, era la sua gioia, il sole che risplendeva ogni
giorno nel suo cuore. E lei aveva ricamato quell’amore in maniera totale.
Adesso James la voleva riportare negli Stati Uniti e lei
sapeva che l’unico motivo era legato alla polizza assicurativa che la
riguardava. Aveva intuito a cosa stesse pensando suo marito. La polizza
assicurativa che al compimento del ventiseiesimo anno di età le avrebbe
fruttato una fortuna non indifferente rivenente da investimenti a lungo termine
fatti a suo nome dal padre. Trish neppure lo sapeva che suo padre aveva pensato
di lasciarle qualcosa per il suo avvenire. E se James Hamilton avesse dimostrato
che non era propriamente capace di intendere e volere, sarebbe divenuto lui il
tutore dei suoi soldi. Afferrò lo specchietto dal beauty-case e si guardò. Lo
stesso taglio degli occhi, le labbra ben proporzionate di un rosso intenso. Cosa
stava facendo a sua figlia? Davvero voleva che suo marito la facesse passare per
un’interdetta sociale buttando così all’aria la sua carriera di medico?
In fondo, cosa aveva fatto Trish per meritare tutto questo?
Lei se ne era andata di casa per non protrarre oltre un rapporto fin troppo
avverso, si era lasciata alle spalle un passato oramai caduto nel dimenticatoio
e cercando di costruire un futuro senza le loro ombre. Desiderava solo essere
libera, indipendente, caratteristica che non aveva mai perso, a prescindere dall’incidente.
Sospirò con un gran patema nel cuore. Era insicura sul da farsi. Il cuore di
madre le suggeriva di aiutare la figlia, ma dall’altra, sapeva che se si fosse
opposta al volere di James, avrebbe perso il marito.
Il taxi continuava inesorabile la sua corsa verso la zona
portuale, districandosi tra le vie trafficate.
Persa nei pensieri che si inseguivano velocemente come
fomentati da un’improvvisa tormenta, i suoi occhi si soffermarono su una
tranquilla scena familiare. Di fronte a lei sedavano un uomo sulla quarantina ed
una adolescente. Lei sorrideva alle sue battute e lo guardava in uno stato di
adorazione verso quella presenza evidentemente rassicurante e che rappresentava
un affetto molto importante. L’aveva chiamato papà!
Quasi fulmineamente, la sua mente cercò in qualche luogo
remoto un’immagine di suo padre. Nulla. Non ricordava niente di quella figura
che sicuramente aveva avuto un ruolo importante nella sua esistenza. Era morto.
Così le aveva detto sua madre, ma senza molte spiegazioni e senza alcuna
nostalgia aveva ricominciato ad amare qualcuno.
- Com’è possibile imparare ad amare un’altra persona
quando si è perduto il padre di tuo figlio? Come avrà fatto mia madre a
dimenticare mio padre così velocemente tanto da cancellarlo anche dai miei
ricordi? Eppure….lo sento…sì, sento di averlo amato molto e guardo
quell’uomo con sua figlia con immensa malinconia. E’ forse questo lo
stesso sentimento che ha spinto Oliver da me? Ha dimenticato la sua Patty?
No, è impossibile. Quando è giunto in ospedale, nel delirio e anche dopo,
ha continuato a cercarla. E poi…i suoi amici. Come posso scordare lo
sguardo di quella ragazza, di Amy Ross. Mi ha chiamata Patty con una tale
sicurezza che per un attimo mi ha fatta ricredere su me stessa. E suo
marito? Anche lui ha reagito nella stessa maniera. Non posso vivere così,
nell’ombra di qualcuno. E nella stessa maniera, lui non potrà mai
ricambiare i miei sentimenti perché vivrà per sempre nel ricordo di lei.
Si può amare così disperatamente? Potrò mai imparare ad amare così? Chi
sono io per essere entrata nelle loro vite rivangando vecchi ricordi e
aprendo ferite mai rimarginate? Perché proprio a me? Non ho forse sofferto
abbastanza? Perché il destino continua ad accanirsi contro di me? Perché
Patty è diventata una presenza ricorrente nella mia vita? Cosa significa
tutto questo? - si chiese cercando ostinatamente di far luce su tutta la
storia ma principalmente sulla sua esistenza.
Vedeva l’immagine di un corpo sinuoso, vacillante sull’orlo
di un dirupo, mentre il vento soffiava furioso tra i lunghi capelli scuri nel
drammatico tentativo di farla librare nel cielo oscuro. Le lacrime silenziose le
avevano annebbiato la vista e lentamente cominciarono a rigare un volto già
troppo provato da tutte quelle emozioni.
Accasciato sulla poltrona in vimini, Holly continuava
imperterrito a guardare il mare mentre il temporale infuriava sulla città. Dopo
l’incontro con Amy e Julian, era andato agli allenamenti ma era tornato a casa
da due ore. Julian e Amy erano nuovamente lì, nello studio di Holly, in attesa
che dal Giappone qualcuno inviasse loro per fax o per e-mail la copia della
cartella clinica di Patricia Gatsby che finalmente avrebbe fatto chiarezza sul
misterioso incidente in cui il padre aveva perso la vita e lei probabilmente
aveva perduto la memoria.
Per tutto il giorno non aveva smesso di pensare a Trish. In
un modo o nell’altro sapeva che inviando quelle lettere, non aveva scatenato
in lei dubbi e incertezze, ma l’aveva ferita. Probabilmente, avrebbe pensato
che lui l’aveva usata per raggiungere lo scopo di avere un’altra Patty. Le
aveva inviato delle rose per dimostrarle che la pensava, che ci teneva a lei, e
forse anche nella speranza che potessero addolcirla dopo la scoperta delle
lettere. Julian ed Amy gli avevan ripetuto che invece la sua sarebbe stata solo
una reazione di curiosità e che gli avrebbe chiesto spiegazioni in merito.
Holly invece sentiva che quello che stava per irrompere in
casa sua non era minimamente paragonabile al temporale che furoreggiava da ore
su Barcellona.
Si sentiva di impazzire nell’impotenza di poter fare
qualcosa per rimediare a quella situazione.
- Come ho potuto farmi trascinare in questa stupida
indagine? Perché ho permesso che qualcuno interferisse nel rapporto che
stava nascendo tra me e Trish? Potevamo mai essere felici, noi due? O il
pensiero di Patty avrebbe continuato a tormentarmi? Perché tutto questo? O
Trish, se solo tu sapessi quanto mi dispiace, io…maledizione…quanto sono
stato stupido! Perché ti ho buttata in questo baratro. Non bastava il mio
tormento! Tu non lo meriti. - si disse cercando una motivazione a quanto
aveva fatto con l’aiuto dei suoi amici.
Scese dalla metropolitana in preda allo sgomento e al
desiderio di giustizia. L’offesa che aveva subito era stata tale da scatenare
in lei l’ira e la rabbia repressa da tempo. L’atto commesso da Oliver l’aveva
fatta sentire controllata e frustrata, in balia di qualche strano complotto
ordito alle sue spalle. Corse sotto la pioggia incessante raggiungendo lo
stabile in cui abitava Oliver. Un uomo stava per richiudersi il portone alle
spalle quando lei lo fermò. La guardò allibito. I capelli scompigliati dal
vento e resi umidi dalla pioggia le incorniciavano il volto preoccupato e teso.
Ansimante si portò dinanzi l’ascensore cercando di riprendere fiato. Nella
fretta aveva lasciato il portone aperto e il vento gelido soffiava senza sosta.
Finalmente l’ascensore raggiunse il piano terra e lei poté entrarvi. Si
guardò allo specchio e si sciolse sulle spalle i capelli oramai scompigliati.
Si tolse gli occhiali da riposo completamente bagnati. Nonostante le condizioni
precarie del suo abbigliamento e della sua acconciatura, era bellissima. Aprì
la borsa e ne estrasse alcune lettere stringendole con fervore nel pugno
sinistro. Quando le porte dell’ascensore si aprirono al piano attico, fece un
respiro profondo alla ricerca di tutto il suo orgoglio e dell’amor proprio.
Sembrava essersi ricaricata. Il pensiero di vederlo ancora una volta e di
chiedere la verità, la fecero avvampare. Incedette con passo lento verso la
porta che la divideva da Oliver. Suonò ripetutamente sperando che quel trillo
potesse sfondargli i timpani e così cominciare ad impartirgli la giusta
punizione.
Senza guardare chi fosse dallo spioncino e preoccupata dal
continuo suonare, Amy andò ad aprire. Si guardarono per un lungo istante. Amy
si portò la mano alla bocca impressionata da quella strana creatura uscita da
chissà quale romanzo noir. Gli occhi erano freddi e glaciali, il suo sguardo
tagliente. Sul volto era dipinta la convinzione di chi pretendeva solo di fare
giustizia. Non l’aveva mai vista così. Si chiese se in fondo l’avesse mai
conosciuta realmente.
- Dov’è? - tuonò senza salutare la signora Ross. Amy
non parlò.
- Allora, dove maledizione si è cacciato quel codardo? -
urlò irosa. Sempre più intimorita e coprendosi la bocca per impedire che i
singhiozzi prendessero il sopravvento, le indicò la porta finestra della
terrazza, al di là della quale c’era Oliver.
Quella mattina, dopo un’intensa notte d’amore, anche lei
si era avvicinata per scorgere le luci dell’alba. Aveva ammirato il paesaggio
e desiderato di restare lì per condividere quel quadro così suggestivo con l’uomo
che aveva amato.
Non ci fu bisogno che lei lo raggiungesse. Attirato dal tono
alto della voce, Holly si era alzato e stava andando nel salone quando la vide.
L’uno di fronte all’altra. La trovò bellissima vestita nella sua più nuda
disperazione.
- Come hai potuto? - gridò additandolo.
- Trish…io posso spiegarti! -
- Cosa…maledetto bastardo…cosa? Cosa pensavi di fare?
Di dar vita a un manichino, di darmi il suo nome? Di farmi rivivere i suoi
ricordi, i vostri momenti, perché io potessi comprendere i sentimenti che
vi legavano? E’ per questo che mi hai inviato le lettere che le hai
scritto? Per questo motivo? - inveì lanciandogli addosso una manciata di
quelle lettere che aveva preso dalla sua borsa.
- Trish calmati! - le disse cercando di indurla ad un
atteggiamento più quieto.
- Non darmi ordini. Non dirmi cosa devo fare. Stammi
lontano, hai capito? Non bastava quanto già avessi sofferto in passato?
Occorreva che mi attirassi nella tua ragnatela e fare di me l’ennesimo
trofeo? Lei non c’è più! Lo vuoi capire? Io sono solo Trish e mi sono
stancata di fare l’ombra di Patty. Cosa vuoi da me? Cosa cerchi? Non ti
basta aver sofferto per lei? Vuoi ripetere gli stessi errori? Io non andavo
bene, vero? Cosa aveva lei di più di me….cosa…? - gridò ancora con le
lacrime che contigue scendevano in rapida successione. Holly era attonito.
Non sapeva cosa dire. Le parole parevan morirgli in gola. Aveva perso tutte
le forze. Lei era lì di fronte nel pieno della sua costernazione. Sempre
più sgomenta lo stava platealmente accusando di averla fatta soffrire. E
aveva ragione. Aveva sbagliato a comportarsi così con lei. Avrebbe dovuto
essere sincero e spiegarle tutto fin dall’inizio.
- Mi dispiace. -
- E’ qui tutto quello che mi sai dire? Mi dispiace?
Puoi andare a farti fottere con le tue scuse! Non so cosa farmene! Mi hai
trascinato a letto e poi mi hai pugnalata. Ed io che ti credevo diverso! -
- Devi lasciarmi spiegare…-
- Per dirmi cosa? Che sono una delle tante che volevi
liquidare in maniera tanto teatrale? E’ così che vi divertite voi giovani
rampolli viziati? -
- Smettila Trish! - tuonò Holly deciso e sonoro. Julian
venne attirato anche lui dalle urla e raggiunse la moglie impugnando un
foglio di carta ancora caldo dopo la ricezione fax. Lei tacque a quel
rimprovero. Finalmente Oliver si stava svegliando. Desiderava che reagisse
ai suoi rimproveri per poter scaricare ancora più tensione e metterlo di
fronte alla mera realtà.
- Non hai capito proprio niente. Non avevo intenzione di
portarti a letto perché tu fossi un trofeo ma perché volevo stare con te,
volevo fare l’amore con te, non sesso e basta. Di quello non so che
farmene. Da quando ti ho incontrata provo di nuovo dei sentimenti d’affetto
e d’amore e questo lo devo solo a te…e lo so che mi ricambi. Se ti ho
inviato quelle lettere è stato unicamente perché speravo che
risvegliassero in te dei ricordi, non perché volevo che tu capissi quanto
ho amato Patty! Ho sbagliato e ti chiedo scusa per questo. - disse con tono
imperioso scandendo ogni singola parola nella speranza che lei potesse
finalmente comprendere le ragioni di quel disperato sentimento.
- Ma fammi il favore…e quali ricordi pensavi che
potessero risvegliare in me le parole dette ad un’altra persona? Non
bastano i flashback e le immagini che mi tormentano da più di un anno?
Dovevi entrare anche tu in questo mio incubo che non finisce mai? -
- Cos’hai detto? Immagini? Flashback? -. Lei annuì non
sapendo il perché di quella domanda. Holly la guardò con occhi diversi,
speranzosi. Ripensò a quanto gli aveva detto il medico. Forse quelle
immagini non erano altri che i ricordi di un passato che stava finalmente
riaffiorando nella sua mente. Le si avvicinò e le afferrò una mano. Lei la
ritrasse subito con un gesto maldestro.
- Non toccarmi…non pensarci neppure! Non voglio avere
più niente a che fare con te….mi hai usata abbastanza! -
- Holly…il fax…- disse timidamente Julian sventolando
il pezzo di carta che tratteneva tra le sue mani. Era il momento più adatto
per darglielo.
- E questo cos’è? - chiese Trish strappandoglielo
dalle mani. - Referto clinico del paziente Patricia Gatsby nata a Fujisawa
il 12 ottobre 1976. Trauma cerebrale con consequenziale coma di ventiquattro
giorni, lussazione alla spalla destra, ferite sparse su tutto il corpo,
perdita della memoria constatata dopo il risveglio. -. Trish tremava come
una foglia al vento. Un’immagine prese forma dinanzi i suoi occhi.
Smosse le palpebre leggermente. Impiegò qualche secondo
prima che finalmente riuscissero ad alzarsi e a permettere alle sue pupille di
farsi strada nella nebbia che le aveva occultato la vista. Quando finalmente
ebbe una visione più chiara, cominciò a delineare i contorni di quella stanza
abbastanza impersonale e asettica per essere quella di una ragazza. Tentò di
muoversi ma i tubi le impedivano il benché minimo movimento. L’infermiera
entrò per controllare l’elettroencefalogramma e l’elettrocardiogramma e la
notò. In preda ad una strana evanescenza corse in corridoio e subito dopo fu
preceduta da un medico e da una donna. La visitarono subito e cominciarono a
farle domande.
- Tesoro, come stai? Sai dove ti trovi? - le chiese la
donna amorevolmente.
- Chi…chi sono…dove sono…- disse sconvolgendo i
presenti. Dopo qualche giorno di inutili tentativi, il primario di neurologia
affermò con dispiacere che Trish aveva perduto la memoria.
Quell’immagine di smarrimento, di perdizione, di malinconia
assoluta, l’assalirono. Lei e Patty accomunate dallo stesso incidente? Erano
forse legate da qualche strano legame? Nate lo stesso giorno ma in città
diverse? Non aveva mai chiesto a sua madre dove fosse nata. Si era ritrovata a
vivere a Chicago, ma nessuno le aveva mai spiegato come mai l’incidente fosse
avvenuto in Giappone. Un pensiero si stava facendo strada dentro di lei. Aveva
sempre più timore di quello che c’era scritto. Continuò a leggere il referto
con la professionalità di un medico oramai esperto, comprendendo benissimo ogni
termine tecnico. Dopo la firma del primario di neurologia del Centro
Traumatologico di Tokyo, che aveva stilato il referto, Trish notò una postilla
che la riportava al termine del foglio.
Impallidì scorgendo quella frase. Si sentì gelare il sangue
nelle vene e comprese che la pressione stava scendendo vertiginosamente.
Cominciò a respirare affannosamente senza staccare gli occhi da quel tremolante
pezzo di carta.
Il suono del campanello parve destarli tutti da quello strano
torpore che all’improvviso era sceso sul loro palcoscenico. Holly guardò le
due figure ferme sulla soglia del suo appartamento e le riconobbe quasi subito.
Il cuore gli batteva talmente forte che il petto gli doleva. Continuava a
guardare Trish persa in uno stato di tranche.
- Si voglia notare che ogni altro eventuale esame che si
dovrà fare sulla paziente, non dovrà essere più ricercato o registrato
sotto il nome di Patricia Gatsby ma come Patricia Hamilton! - lesse ansante
con tono sostenuto.
Quella tremenda verità echeggiò nella stanza in maniera
talmente roboante che l’avrebbe udita ovunque si trovasse. Un brivido la
percorse scotendola da quell’apparente stato di assenza. Si voltò lentamente
verso la coppia appena arrivata, attratta dal tono e dalla voce con cui avevano
salutato i presenti.
Trish guardò Mary Hamilton a pochi metri da lei. La donna
parve commuoversi a quell’incontro così casuale quanto crudele. Fece qualche
passo verso la ragazza che frappose tra loro il suo braccio teso come una
barriera. Fradicia per la corsa sotto la pioggia, spossata da quegli eventi, non
la riconosceva.
- Chi siete? - chiese Amy non comprendendo chi fossero.
- Il signor Hamilton e la madre…di Patty! - esclamò
Holly identificando i due.
Quell’ennesime parole fecero eco nella stanza e colpirono
Trish in pieno volto. Reggendosi al bracciolo del divano, si voltò verso la
donna. Avvertì una fitta al cuore oramai ferito e sanguinante.
- Chi sono io? - le chiese in tono imperturbabile e
distante. Mary aggrottò le sopraciglia e tentò di sorriderle, ma comprese
che Trish era fin troppo adirata, più di quel giorno in cui aveva deciso di
andar via da Chicago.
- Ti ripeto la domanda per un’ultima volta. Chi sono
io? Dov’è mio padre? Cosa è successo dieci anni fa? - domandò scandendo
con precisione le parole.
- Trish…calmati..-
- Perché non glielo dici Mary? - la incitò James
Hamilton.
- Tu taci vigliacco che non sei altro…è un disonore
per me portare il tuo cognome! - gli disse con scherno e repulsione.
- Io…io… Trish…tu hai avuto un incidente. -
- A causa del quale sei incapace di intendere e di
volere. Siamo venuti a riprenderti per portarti di nuovo a Chicago. Non puoi
vivere da sola. Devi essere controllata perché potresti commettere qualche
atto incoercibile dettato dall’istinto. -.
- Ma cosa diavolo stai blaterando? Sono tutte
stupidaggini! Io sto benissimo. Mi sembra di avertelo già detto altre
volte. Se c‘è un infermo mentale…quello sei tu. Mi fai schifo! Taci e
non intrometterti in cose che neppure lontanamente ti appartengono. - gli
urlò contro con ripugnanza. - Non hai risposto alle mie domande….mamma! -
le disse ricordandole il ruolo che aveva nella sua vita. Mary guardò la
figlia, bella, selvaggia e disperata. Dietro di lei c’era Oliver, il
ragazzo che aveva amato intensamente. E poi ancora, i loro amici.
Cosa stava facendo? Davvero voleva riportare a Chicago Trish
facendo sì che un tribunale la bollasse come un’inferma mentale? Cosa sarebbe
stato della sua carriera e dell’amore profondo che provava per Holly? Si
irrigidì e respirò cercando di riprendere il suo autocontrollo. Guardò James
Hamilton, suo marito, il patrigno di sua figlia. Voleva stroncarle la carriera e
la vita affettiva per divenire suo tutore e incassare i notevoli importi
maturati dalle polizze assicurative intestate a Trish. Non poteva
permetterglielo. Nonostante il loro pessimo rapporto, lei era sua figlia e quell’uomo
stava cercando di isolarla dal mondo per sottometterla al suo volere. Ma chi
aveva sposato? Come aveva potuto stare al fianco di un uomo tanto subdolo e
sadico?
- Dieci anni fa c’è stato un incidente. Ti trovavi con
tuo padre…è accaduto il giorno prima che Holly tornasse dal Brasile! -. L’inizio
di quel racconto aveva già alimentato quello che era un dubbio insinuatosi
nella mente di Trish. - Tuo padre morì subito dopo l’arrivo dei soccorsi,
tu invece, entrasti in coma e ti risvegliasti dopo ventiquattro giorni….un
risveglio oscuro..perché nell’incidente perdesti la memoria. -. Si sentì
assalire da un conato di vomito, disgustata dalle bugie e dalle menzogne
tramate alle sue spalle.
- Chi…chi sono io? - chiese con tono quasi sommesso,
oramai senza forze per poter emettere altri suoni. Mary la guardò
sconfortata con un’immane desiderio di abbracciarla e rassicurarla.
- Mi dispiace averti tenuta all’oscuro di tutto questo.
Non lo meritavi. Non ho mai capito quanto fossi straordinaria….
- Dimmi chi sono? - le urlò a gran voce oramai
sopraffatta dal dolore. Mary tacque. Mai come in quel momento avrebbe
desiderato fuggire via. Quello che stava per dire avrebbe cambiato non solo
lo scopo del loro viaggio, ma la vita di sua figlia e delle persone
presenti.
- Patricia…PATRICIA GATSBY! - ammise coprendosi il
volto con le mani. Non si sentiva alcun sibilo se non lo stormire del vento
e i tuoni squarciare il cielo rosso. La sincerità con la quale Mary
Hamilton aveva pronunciato quelle parole lasciava trasparire solo la
verità. Trish continuava a sentire quel nome sillabato nelle sue orecchie e
nella mente. Lei era Patricia Gatsby, la ragazza amata e tanto cercata dal
campione di calcio Oliver Hutton. E lui l’aveva sempre saputo, fin dal
giorno in cui accidentalmente si erano incontrati. L’aveva intuito
immediatamente, aveva cercato di scoprire la verità spinto dai dubbi e dall’amore
incontrastato che aveva sempre provato per la dolce Patty.
Le immagini e i flashback che più volte aveva veduto, che
lei pensava ritraessero Patty, altri non erano che frammenti della sua memoria
passata. Sgomenta si portò le mani al capo. Era incredula. Il dubbio era
diventato una certezza. Nessuno parlava o fiatava. La verità era stata troppo
sconvolgente perché Holly e i suoi amici potessero gioire nell’aver ritrovato
la loro cara amica scomparsa. Troppo truce per lei che non solo adesso doveva
fare i conti con la realtà, ma soprattutto con l’identità di una ragazza
amata e desiderata da tutti. Il confronto sarebbe stato duro e inevitabile.
Senza fiatare si incamminò lentamente verso la porta.
- Aspetta! - le disse Holly riprendendosi da quel mutismo
collettivo. Lei arrestò il passo senza voltarsi per non guardarlo. Cosa
doveva fare? Restare o andare via?
- Non andare via…ti prego! - continuò con tono
supplichevole.
- Non riesci neanche a dire il mio nome….non sai
neppure tu come chiamarmi! Non lo so neanche io! - rispose col capo chino. -
Vedi? Non mi rispondi neppure! Io non ricordo…non sarò mai più la vostra
Patty. - disse andando via e correndo giù per le scale. Julian e Mary
guardarono Holly.
- Cosa aspetti? Fermala. Se dentro di lei serba ancora il
grande amore che aveva per te, solo tu potrai risvegliare la nostra Patty! -
gli disse Mary sotto gli occhi increduli di James. Come smosso da una scossa
ad alto voltaggio, Holly corse verso la porta nel tentativo drammatico di
fermare la sua amata. Sapeva, che se non l’avesse fatto, non l’avrebbe
rivista più e questa volta perché lei aveva intenzione di andar via per
sempre dalle loro vite. Amy piangeva a dirotto tra le braccia del marito.
- E’ colpa nostra. Se non fossimo stati così
inopportuni…se avessimo lasciato che trovassero da soli la strada…
- No, la colpa è unicamente mia! - sentenziò Mary
guardando la giovane donna.
- Ma cosa stai dicendo Mary? -
- Tu stai zitto. L’errore più grande che ho fatto è
stato ascoltare te, fidarmi di una persona così infima…pensi che non
sappia qual è la vera ragione di questo viaggio? Volevi far apparire mia
figlia come un’incapace di intendere e di voler per poter intascare le
polizze assicurative in vece di suo tutore. -. James Hamilton taque. Sua
moglie aveva scoperto tutto. Aggrottò la fronte e storse le labbra. Si
sentiva in trappola.
- Ha ragione lei…fai schifo. L’hai sempre saputo,
vero? Che suo padre le aveva lasciato quelle polizze. Ed è per questo
motivo che hai voluto adottarla prima che andassimo via dal Giappone. Un
piano perfetto. Peccato che abbia visto la busta della compagnia di
assicurazione tra i rifiuti. Il timbro postale che riportava un indirizzo di
Tokyo mi ha insospettita. Ho contattato la compagnia e dicendo loro che
avevo smarrito il contenuto, mi hanno inviato una copia dei documenti via
e-mail. Vattene via, sparisci dalla mia vista e dalla nostra vita. L’unico
contatto che riceverai, sarà quello del mio avvocato che ti chiederà il
divorzio. -
- Sei proprio una stupida…dopo quello che ho fatto per
voi. Vi ho dato una nuova vita e questa è la ricompensa? -
- Se ne vada! - esclamò Julian glaciale. - Lei è di
troppo qui. Esca immediatamente da questa casa e non si faccia più
rivedere. - continuò indicandogli l’uscio. James guardò il calciatore e
poi Mary.
- Come vuoi. Ci rivedremo in tribunale e ti chiederò il
risarcimento. Vedrai se non lo farò! - la intimò prima di andar via.
Senza pensare a non sforzare la gamba incidentata, Holly
continuava nella sua corsa disperata nella speranza di fermare Trish. Non sapeva
esattamente cosa avrebbe potuto dirle per farla restare, ma doveva provarci.
L’androne era vuoto e il portone era spalancato. Venne
investito da una folata gelida che non gli impedì di uscire per strada
incurante del maltempo. Si guardò a destra e manca, poi diritto. Era lì, ferma
in mezzo alla strada con il capo alto verso il cielo e le braccia aperte. Le
nuvole compatte di un tetro rossore, continuavano imperterrite a piangere quasi
come un atto di solidarietà verso quella ragazza che la vita aveva messo a dura
prova.
- Trish! - urlò cercando di attirare la sua attenzione.
- Triiiiiiiish! Togliti dalla stradaaaa! - gridò ancora non ricevendo
alcuna risposta e non notando nessun movimento da parte sua. Sembrava
stordita. Guardava il cielo cercando forse una risposta al senso della sua
vita.
- Perché? Perchéeeeeeeeeeeeeee? - implorava al cielo
sperando forse che qualcuno potesse ascoltarla e risponderle.
Un rumore attirò l’attenzione di Holly. Si girò verso
sinistra e vide l’automobile sfrecciare per la strada nella direzione della
ragazza. Guardò Trish. Ancora immobile. Un pensiero prese forma nella sua
mente. Sentì il sangue fluire veloce nelle sue vene come un torrente in piena.
Il sudore freddo gli ricopriva la fronte.
- Maledizione Trish, togliti dalla stradaaaaaaaa! - urlò
con tutta la voce che aveva in corpo per cercare di risvegliarla dallo stato
di tranche nel quale era caduta. Lei abbassò il capo e lo girò verso di
lui. Era sconvolta, triste, malinconica, smarrita. Poi tornò a guardare in
direzione dell’automobile che inarrestabile continuava la sua corsa.
Una bambina di pochi anni giocava in un giardino in un’assolata
mattina, sotto gli occhi vigili del padre. Una ragazzina con una fascetta rossa
tra i capelli trascinava un coetaneo su per le scale di un tempio. Un’adolescente
in tenuta ginnica sorridente, guardava dei ragazzi rincorrere una palla su un
campo da calcio. La rivide nelle calde braccia di un giovane sullo sfondo di un
aeroporto. Vide un uomo, lo stesso che aveva veduto con la bambina, ma più
adulto, che le sorrideva gentilmente. Insieme nella stessa automobile. Pioveva a
dirotto. Poteva quasi toccare con mano la pioggia che batteva sul parabrezza
della macchina. Nonostante le avverse condizioni meteorologiche, erano contenti.
Lui la guardò, poi i suoi occhi si sbarrarono…sterzò a destra nel tentativo
drammatico di evitare l’impatto frontale con un autotreno. Udì le urla
disperate della ragazza…poi lo schianto e il buio. Velocemente le immagini
della sua vita erano passate dinanzi i suoi occhi come una pellicola
cinematografica. L’auto si avvide della presenza per strada.
- Noooooooooooooo Pattiiiiiiiiiiiiiiiiiiy! - gridò Holly
correndole incontro. Con un salto si buttò sul corpo della donna nel
disperato tentativo di evitarle l’impatto con l’automobile Avvertì lo
spostamento d’aria al passaggio dell’auto e il forte odore di bruciato
alla brusca frenata. Scivolarono sull’asfalto reso viscido dalla pioggia
per poi giacere abbracciati lungo il ciglio della strada completamente
fradici. L’automobile riprese la sua corsa, sfrecciando lungo la via non
prestando alcun soccorso ai due ragazzi.
Si mosse sentendo qualcosa di caldo sotto il suo volto. Quasi
intuendo cosa potesse essere, come scrollato da una scossa, spalancò gli occhi
e la vide. Un rivolo di sangue scivolava dalla tempia. La guardò, priva di
sensi stretta nelle sue braccia. Il volto niveo e innocente, i lunghi capelli
scuri sparsi come fili di seta bagnata sulla sua pelle. L’espressione di
amarezza e sfinimento sul suo volto. Il cuore gli batteva all’impazzata e un
tragico pensiero si concretizzò nella sua mente. Se gli avessero conficcato una
lama nel cuore, non sarebbe uscita neppure una stilla di sangue. Un nodo in gola
gli impediva di parlare. La paura stava velocemente prendendo forma dentro la
sua mente.
- Trish….Trish svegliati…Trish, non mi abbandonare…ti
prego Trish….maledizione! Trish non mi lasciare, non morire, non puoi
farmi questo! - urlò scotendola sperando di risvegliarla da quel sonno,
mentre le lacrime gli annebbiavano la vista e scendevano contigue. La
strinse a se nel timore di perdere ogni singolo respiro. Prese a baciarle il
volto e il collo in una frenesia convulsa.
- Amore mio…ti prego…non lasciarmi da solo…come
potrò fare senza di te…non andare via ancora una volta…ti prego,
rispondimi…se tu muori io mi ammazzo! Ti prego amore rispondimi! -
supplicò angustiato e prostrato da quella tragedia. - Perché? Perché il
destino si accanisce contro di noi! Perché non possiamo stare insieme? -
gridò profondamente affranto mentre le lacrime scendevano repentine lungo
le guance infreddolite.
- Holly! - sibilò timidamente ancora stretta tra quelle
possenti braccia che le avevan salvato la vita. Il calciatore la guardò con
gli occhi sbarrati e l’espressione incredula.
- Amore mio! - esclamò baciandola sul volto con fervore
e delirio. Lei lo fissò stordita dalla caduta e intirizzita dalla pioggia e
dal freddo. - Sei viva…sei viva…non ti lascio..te lo prometto…non ti
lascio più! Perdonami se ti ho fatta soffrire, perdonami! - le disse
stringendola ancora più a se per la gioia.
- Holly! - esclamò ancora lei. - Mi…dispiace. - gli
disse mentre lui cercava di rialzarsi prendendola tra le braccia.
- Dispiacere? Sono io a doverti chiedere scusa per quello
che ti ho fatto…ho tradito la tua fiducia mettendo in discussione i
sentimenti che nutrivo per te. -
- No…è colpa mia…il tuo è stato l’atto disperato
di un uomo innamorato. Ti ho fatto…soffrire tanto. -
- Trish…io…l’ho fatto perché ti amo. - le disse
guardandola dolcemente negli occhi.
Mentre un aereo atterrava, altri due rullavano sulla pista
pronti al decollo. Non aveva avuto il tempo di osservare il continuo andirivieni
degli aeromobili e dei passeggeri, presa dalla sua corsa incessante verso il
cancello di imbarco. Doveva incontrarlo. Un’ultima volta. Lo vide di spalle
mentre si accingeva a solcare il gate. Come se avesse sentito il suo passo
incalzante o il suo richiamo, si voltò e la vide arrivare. Un sorriso di gioia
e felicità si dipinse sul suo volto mentre lei lo raggiungeva affannata dalla
corsa. Gli mostrò una scatoletta azzurra. Un portafortuna per quell’avventura
che stava per cominciare.
Lo guardò ancora in quei profondi e dolci occhi neri resi
ancor più brillanti dalle lacrime. Con la mente disegnò i contorni di quel
volto bagnato dalla pioggia, i capelli arruffati, la sua espressione quieta che
celava la preoccupazione del momento. Schiuse le labbra accennando un timido ma
sincero sorriso. Stava piangendo per lei.
- Lo so amore mio…- gli disse accoccolandosi tra le sue
braccia. - adesso ho capito... -. Oliver la guardò stranito.
- Trish non poteva innamorarsi di qualcun altro. Non
poteva permetterselo perché nel suo cuore, da qualche parte, in un
cantuccio, conservava il grande amore che aveva sempre serbato per il suo
capitano! - gli disse piangendo. Lo baciò sulle labbra, un tocco dolce che
sfiorò prepotentemente i suoi sentimenti. La tirò contro il suo petto e la
avvinse timoroso che potesse scappare.
- Tu….-. Lei chinò il capo in segno di assenso.
- Non ti prometto di tornare quella che ero…Trish non
morirà mai…ma posso provare a restituire a te e a me stessa la Patty che
conoscevamo. -. Holly scosse il capo dissentendo.
- Non mi importa…desidero solo stare con te…Patty o
Trish: vi ho amate in maniera diversa, ma profonda o completa. No, amore…non
hai bisogno di tornare quella che eri. Devi rimanere quella che sei. Ho
amato Patty intensamente senza avere avuto mai la possibilità di dirglielo.
Il destino ha voluto che ci ritrovassimo e che imparassimo ad amarci ancora
una volta. E’ meraviglioso tutto questo. E’ il segno che la nostra
unione è predestinata, che nulla o nessuno potranno mai separarci perché
noi siamo nati per restare insieme. - le disse convinto baciandola con
passione. Si staccò un attimo da lei e si inginocchiò sull’asfalto
mentre la pioggia scendeva con minore intensità.
- Holly…ti senti male? - gli chiese impensierita.
Scrollò il capo e le sorrise.
- Patricia Gatsby Hamilton…vuoi sposarmi? - le chiese
serio prendendo la mano della ragazza tra le sue.
Lo guardò dritto negli occhi, scuri, intensi, profondi,
illuminati dalla luce del loro nuovo amore. In un attimo le sembrò di ricordare
il desiderio spasmodico di un’adolescente di sentir pronunciare quella frase
dal giovane di cui era innamorata. Rimembrò il suo imbarazzo che si manifestava
al solo parlare con il suo capitano. Il lungo abbraccio all’aeroporto il
giorno della sua partenza. Le lettere che gli aveva scritto dal Brasile. Già. L’ultima
lettera nella quale cominciava a manifestare seriamente quelli che erano i suoi
sentimenti. Il desiderio di rivederla. Ma vivida dinanzi i suoi occhi c’era l’immagine
di qualche settimana prima, quando era giunto in ospedale e nel delirio aveva
pronunciato il suo nome. In quel momento ebbe la certezza che Holly non aveva
mai smesso di amarla, che il legame con Trish era nato perché infondo sapeva
che si trattava di Patty. Ne era sicura. Il sentimento che nutriva nei suoi
confronti era talmente immenso, infinito che non avrebbe mai smesso di amarla.
Lei rise di cuore. Non ricordava di averla mai vista così divertita,
sicuramente non nelle spoglie di Trish.
- E’ una domanda così comica? - le chiese quasi
indispettito da quel suo comportamento. Scosse il capo dissentendo.
- Sì, sì e ancora sì…che lo voglio. - gli rispose
disorientata ma felice sotto gli sguardi attoniti di Julian, Amy e Mary
accorsi giù al portone impensieriti dalla loro assenza.
Ritemprato dalla gioia e dal suo consenso, Oliver prese in
braccio Patty e la fece volteggiare in aria in segno di felicità.
- Ci sposiamoooooooo! - gridò più volte sicuro che
qualcuno…adesso lo stesso finalmente ascoltando. - Ti amoooooooooooooo! -
le urlò baciandola ancora per sigillare quel momento tanto atteso e che
finalmente aveva fatto breccia nelle loro vite. Lei si strinse ancora di
più nel suo abbraccio sicura di aver realizzato finalmente il suo più
grande sogno: amare ed essere amata da Oliver Hutton.
“La felicità è amore, nient’altro. Felice è chi sa
amare: Amore è ogni moto della nostra anima in cui essa senta se stessa e
percepisca la propria vita. Felice è dunque chi è capace di amare molto.
Ma amare e desiderare non è la stessa cosa. L’amore è il desiderio
fattosi saggio; l’amore non vuole avere: vuole soltanto amare.
L’amore non bisogna implorarlo e nemmeno esigerlo. L’amore
deve avere la forza di attingere la certezza in se stesso. Allora non sarà
trascinato, ma trascinerà.”
La neve scendeva lentamente al dolce ritmare del Natale. Si
guardò intorno con circospezione cercando di ricordare quei luoghi che non
vedeva da tanto tempo, di rimembrare l’importanza che avevano avuto nel suo
passato. Stretta nel cappotto di cashmere fu percorsa da un brivido, poi da un
altro e da un altro ancora. Il freddo era pungente ma non voleva andar via. L’aria
frizzante sembrava risvegliarla da un dolce dormire. Si chinò per guardare
meglio una colonnina in pietra con incise delle parole. Giunse le mani coperte
dai guanti di pelle e chiuse gli occhi. I fiocchi continuavano a posarsi sul suo
cappello e sul cappotto. Con la mente cercò reminiscenze del suo passato in cui
c’era ancora lui. Un uomo che aveva amato intensamente ma che il destino le
aveva portato via in maniera cruenta. Sentì le lacrime salirle agli occhi per l’ennesima
volta e la vista annebbiarsi. Accese un bastoncino di incenso e cominciò a
pregare tra i gemiti di quella sofferenza che avrebbe portato sempre con se.
Con la mente gli parlò, raccontandogli gli ultimi eventi che
si erano succeduti nella sua vita, quasi a volerlo rendere partecipe di certi
cambiamenti che le avevano sconvolto il presente. Ridestata da passi lenti ma
continui che si avvicinavano, si rialzò. Guardò la figura che le stava andando
incontro nel suo incedere adagio, sicuro, dolcissimo. Adesso c’era lui nella
sua vita, non l’aveva più lasciata e lei ne era sicura: non l’avrebbe mai
fatto. Guardò ancora la colonnina in pietra con l’incenso ancora fumante e
sorrise. Poi alzò gli occhi verso un cielo bianco dalle sfumature argentate.
- Ti voglio bene papà! Ciao. -.
Oliver le si avvicinò, le cinse la spalla con un braccio e
insieme si allontanarono lasciando alle spalle una scia di orme calcate su un
candido manto eburneo.
Maggio - Barcellona, Spagna
Fissava il suo sguardo sognante, lei ferma dinanzi la
finestra del corridoio che guardava oltre quei vetri trasparenti. I capelli
scurissimi, lisci e lucidi come la seta più preziosa, cadevano morbidamente
sciolti sulle spalle regolari. La pelle nivea sembrava risplendere a quel
contrasto. Le labbra velate di un leggero scarlatto erano unite in un dolce
sorriso. Era cambiata in quegli ultimi sei mesi. Non era più la stessa ragazza
che conosceva, quella che aveva imparato non solo ad apprezzare ma ad amare. Se
ne era riscoperto innamorato proprio nel momento in cui lei aveva avuto la
certezza di amare un altro. Non era riuscito ancora ad abbandonare l’idea che
quella donna così altera, raffinata, affascinante, irraggiungibile non potesse
essere più sua. Lo sguardo cadde sulla mano sinistra dove un cerchietto di
metallo con incastonato un diamante brillava sul quarto dito. Ebbe una fitta al
cuore e corrucciò la fronte. Sospirò cercando di ricomporsi per darsi un
contegno.
L’ultima volta che l’aveva vista, era giunta in ospedale
in tarda serata per farsi controllare dopo una rovinosa caduta sull’asfalto.
Era completamente fradicia…lui la teneva per mano, ricoperto di acqua e fango,
incurante dell’aspetto e di quello che avrebbe potuto pensare la gente.
Non avrebbe mai potuto dimenticare il loro sguardo ricco di
parole non dette e sensazioni che avrebbe voluto provare lui, la magica intesa
che c’era tra loro. Non sapeva cos’era, ma evidentemente, il giorno in cui
lui aveva messo piede in ospedale, le aveva rapito il cuore e la mente. Era di
lui che era innamorata e per tale motivo lo aveva rifiutato.
Qualche giorno dopo, partì per uno stage a Londra. Adesso
era tornato e incurante di quello che poteva essere successo durante la sua
assenza, delle sue mancate risposte, era stata la prima persona che aveva
cercato.
- Ciao! - esclamò avvicinandosi alla sua figura. Lei si
girò dolcemente e lui non poté che rimanere catturato da quello sguardo
ammagliante e sereno. Non l’aveva mai veduta così prima di allora.
- Luis! - disse sorridente. - Quando sei tornato? - gli
chiese baciandolo dolcemente sulla guancia.
- Trish…o…Patty….o…non so come chiamarti! - disse
imbarazzato. Lei rise di scherno.
- Come vuoi tu. A te è concesso, lo sai! - gli rispose
prendendolo sottobraccio e passeggiando insieme per il corridoio diretti
verso il giardino dell’ospedale.
- Come stai? Quando sei tornato? Perché non hai mai
risposto alle mie e-mail? - gli domandò cercando di nascondere il suo
disappunto per le mancate risposte.
- Scusami..sono stato così impegnato…-
- Uhm…potevi trovare una scusa più plausibile! -
- Ti prego…non mettermi in imbarazzo! -
- Okay, non ti chiederò nulla….dimmi di te. - gli
disse poi guardandolo con estrema dolcezza. Era bellissima, nel fiore del
suo massimo splendore. Cosa aveva fatto per diventare così?
Rimasero in silenzio, passeggiando a braccetto sotto le verdi
fronde dei viali alberati. Era uno splendido pomeriggio di maggio e il cielo era
terso e limpido, vicino all’imbrunire.
- Scusami se non ti ho scritto…non ho avuto il tempo…no,
non ho potuto…no, non è vero nulla! - le disse arrestando il passo e
sciogliendosi dall’abbraccio. Era impacciato, dubbioso su quello che
doveva dirle. Lo guardò con espressione interrogativa. Lei non proferì
nulla, non protestò a quello che le stava dicendo.
- Trish…io…quando ti ho vista arrivare quella sera in
ospedale…fradicia, contusa, ma felice…beh ho capito che non c’era più
spazio per me nella tua vita! -
- Ma cosa dici? - ribatté lei a quella frase.
- Ti prego, lasciami finire! Tu lo sapevi e lo sai ancora
che per te nutro qualcosa di più di una semplice amicizia: quando vi ho
visti insieme, felici, innamorati…lui è riuscito a riportarti ad una
nuova vita, è riuscito in quel che ho mancato io…o forse qualcun altro.
Mi sono sentito sconfitto e ferito e per questo motivo sono andato via. Mi
sentivo mancare l’aria, soffocare dal pensiero che eri tra le sue braccia.
Mi sono riscoperto geloso. Ti avrei vista ogni giorno sempre più felice,
accanto a lui e per quanto avrei potuto gioire per te, egoisticamente avrei
continuato a soffrire e a sperare che tu potessi tornare da me. Quando mi
hai scritto confidandomi il dramma della tua vita, quello che è successo in
questi ultimi dieci anni, il sentimento sbocciato all’inizio dell’adolescenza…come
pensi che mi possa essere sentito? Avrei voluto averti lì, abbracciarti,
coccolarti, baciarti cercando di lenire le ferite che porti nel tuo cuore,
dirti che non eri sola, che accanto a te c’ero io. Ma adesso c’è lui ed
è sufficiente guardarti, così bella, raggiante, splendida per capire che
non hai bisogno d’altro. -
- Luis…io…mi dispiace averti fatto soffrire. -
rispose rammaricata.
- Non è colpa tua. Non mi hai mai illuso, tutt’altro…sei
sempre stata schietta e sincera e mi avevi anche detto di essere innamorata,
ma questo non mi ha impedito di continuare ad amarti in segreto. Speravo che
questi sei mesi trascorsi a Londra avrebbero potuto consolare questo cuore
triste, - le disse portandosi una mano al petto, - ma non ha funzionato e
adesso che ti ho rivista, ne sono ancor più consapevole. -
- Non so cosa dirti…vorrei poter fare qualcosa, non
sentirmi in colpa per averti causato dolore e sofferenza…
- No Trish…non devi, assolutamente! - le disse
prendendole il volto tra le mani. La brezza primaverile spirava con i suoi
profumi fioriti tra le fronde. Il canto melodioso dei passeri sui rami era
ritmato dal dolce soffiare del vento tra le foglie.
- Luis…ti voglio bene! - esclamò buttandosi tra le sue
braccia in un gesto spontaneo d’affetto.
- L’amore si può mendicare, comprare, regalare, si
può trovarlo sulla strada, ma non si può estorcere. Ti amo Trish…ti
porterò sempre nel mio cuore. Sarai il mio più bel ricordo. - le sussurrò
accarezzandole il capo. - Resto a Londra. - aggiunse poi.
- Tornerai? - gli chiese nostalgica guardando l’amico.
Il sole brillava tra i capelli biondi e sembrava rispecchiarsi nel verde
scuro dei suoi occhi. Alzò le spalle in segno di incertezza ma lei
conosceva la risposta.
- Forse….un giorno…ti auguro tanta felicità Trish, a
te e a Oliver. Spero che lui possa renderti felice come avrei voluto fare
io! - aggiunse sorridendole e sfiorandole le labbra con un dolce bacio d’addio.
Lo vide allontanarsi in fondo a quel viale che tante volte
avevano percorso insieme discutendo di casi clinici e di pazienti. Il suo amico
Luis andava via con il cuore ferito da un amore impossibile. Era dispiaciuta ma
serena. Non avrebbe potuto dargli di più perché amava intensamente Holly,
sempre più consapevole che solo lui le avrebbe potuto dare la felicità che
aveva sempre sognato.
Alzò gli occhi al cielo e rimase abbagliata dai raggi del
sole che intensi e prepotenti illuminavano la volta azzurra che si stava
preparando al tramonto. Il vento soffiò leggero tra i suoi capelli
scompigliandoli piacevolmente. Chiuse gli occhi e respirò l’aria frizzante
della primavera.
Era lì, alla fine del viale che le sorrideva. I capelli
ancora bagnati della doccia, sereno, innamorato. Alzò il braccio richiamandola.
Con un balzo corse verso di lui, verso quell’uomo che amava più di se stessa,
che accompagnato dalla solitudine aveva vissuto dieci anni della sua vita nella
speranza che tornasse, solo e unicamente per dirgli quanto l’amava. Il cuore
le si riempì di gioia e cominciò a palpitare velocemente. Era felice,
raggiante di un amore che avrebbe solo potuto continuare a crescere e a
splendere per loro.
“Amare il mondo e la vita, accogliere con gratitudine ogni
raggio di sole. Non dissipare mai completamente il sorriso. Questo insegnamento
di ogni autentica poesia non invecchierà mai. “
Desidero ringraziare tutti coloro che hanno letto questa mia
Fanfiction ispirata ad alcuni personaggi della serie Captain Tsubasa.
Ambivo che Gocce di Memoria fosse concepita come una fanfic diversa
dalle precedenti, un viaggio introspettivo, alla scoperta delle emozioni di un
uomo e di una donna tanto vicini quanto lontani, accomunati dal desiderio di
vivere il loro disperato sentimento.
Un particolare ringraziamento va al sito che mi ha ospitato e a
tutti coloro che con le loro recensioni mi hanno spinta a portare a termine
questo mio lavoro.
Grazie a tutti
Scandros
Questa storia è stata recensita
dal Comitato Consiglio di Fanfiction
Crederete che sia avvezza alle citazioni poetiche ogni qualvolta mi accingo a
recensire.
Se questo da un lato è vero, dall'altro in questo caso l'ispirazione appartiene
all'autrice stessa. "La felicità è amore, nient’altro.
Felice è chi sa amare:
Amore è ogni moto della nostra anima
in cui essa senta se stessa
e percepisca la propria vita.
Felice è dunque chi è capace di amare molto.
Ma amare e desiderare non è la stessa cosa.
L’amore è il desiderio fattosi saggio;
l’amore non vuole avere: vuole soltanto amare" (Hesse).
Scandros cita, in calce ad uno dei capitoli, questa poesia di Hesse che, a mio
avviso, coglie nel modo più pieno del termine il senso di tutta la ff.
Sapete, da ragazzina venivo spesso tacciata di essere una persona
intransigente, che poco sapeva cogliere nelle persone le sfumature e miope
verso le potenzialità rinchiuse nelle "non-definizioni".
Per me tutto era bianco o nero, giusto o sbagliato, vero o falso.
E anche nell'amore, usando il medesimo schema mentale, tutto era definibile e
certo.
Col tempo e, forse, con quel poco di maturità raggiunta, ho imparato ad
apprezzare le sfumature di colore.
Persino tra le riga di una storia ne colgo i dettagli.
Il perchè di questa mia piccola confessione?
La ff in questione è piena di dettagli, sfumature, sentimenti che si allargano
man mano che la storia si definisce.
E' una storia molto romantica,
dalla trama originale,
da due protagonisti Holly e Patty che si inseguono e si ricercano in moltissime
forme,
dallo stile diretto che non cerca di imporsi,
ma che lascia alla storia la possibilità di essere una fotografia di
sentimenti.
Fedele all'idea che ho del ruolo del recensore (un suggeritore) e del valore
della recensione (un convincimento soggettivo) non vi aggiungo null'altro sulla
trama.
Preferisco, appunto, semplicemente dirvi ciò che la storia mi ha trasmesso,
sperando di avervi incuriosito ed invitandovi a leggerla.
Sono una persona che ama leggere e che dalle storie trae (citando l'autrice)
ogni cosa che mi fa percepire la vita!