Alone...Together di moonwhisper (/viewuser.php?uid=36486)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Nuova pagina 2
Il suo respiro si condensò in una nuvoletta opaca.
Faceva freddo. Faceva freddo e si sarebbe beccata una polmonite se fosse rimasta
lassù ancora un po’.
Guardò ancora una volta quel cellulare.
Cosa doveva fare? Chiamarla, non chiamarla…?
No, non ci riusciva. Bloccò per la dodicesima volta la tastiera e infilò per la
dodicesima volta quel maledetto coso nella tasca destra dei jeans.
Chissà cosa stava facendo sua madre in quel momento…forse era meglio non
pensarci. Altrimenti la voglia di tornare a casa l’avrebbe di nuovo assalita. E
lei non poteva tornare, non ancora.
Fissò lo sguardo sulla città illuminata.
Le luci notturne creavano un magico alone aranciato su Monaco. Da quel terrazzo
vedeva la vita notturna, colorata, scorrere sotto di lei.
Ma Laura era persa in altri pensieri.
Si appoggiò piano al cornicione.
Quell’ultima settimana era passata troppo in fretta, e troppe cose erano
successe.
Aveva organizzato quel viaggio con la sua migliore ed unica amica, Monica, da
tanto tempo. Tutto era pronto, definito nei minimi particolari. Ma pochi giorni
prima della partenza si era capovolto tutto, tutto. Sgretolato.
Chiuse gli occhi. Ripercorse per l’ennesima volta tutto quello che l’aveva
portata fin li, per cercare di trovare una risposta, una soluzione.
*Flashback*
E’ mercoledì sera.
Lei e Monica stanno tornando da un pomeriggio a casa dell’amica, dove hanno
passato il tempo a controllare tutto il programma del viaggio e a fantasticare.
Camminano sul marciapiede, sotto i lampioni accesi, chiacchierando, interrotte
solo dallo sfrecciare di qualche macchina nel vialetto.
-Cacchio Laura ma ci pensi? La prossima settimana, a quest’ora, saremo a Monaco,
nel nostro Hotel da straricchi…-
-Pagato e spesato dal tuo amorevole papi- aggiunge lei sorridendo.
Moni fa finta di arrabbiarsi.
-Che faccia qualcosa anche lui una volta tanto! Sono 18 anni che non mi caga di
striscio, adesso che gli è tornata la voglia di fare il padre lasciamo che si
sbizzarrisca!- risponde infilando il mento nella sciarpa.
Laura le sorride. Ha ragione, eccome. Sa cosa vuol dire avere un padre che se ne
frega di te.
-Sarà fichissimo Moni- dice trasognante. Un po’ perché non riesce ancora a
crederci, un po’ perché era sempre meglio cambiare discorso quando spuntavano
fuori i padri.
-Già, saranno due settimane unicamente per noi, Monaco, e i negozi. Non vedo
l’ora di dilapidareee!!!-
La guarda, le treccine bionde che le escono dal cappello di lana, il naso
all’insù e quei suoi due occhi azzurri sgranati sul mondo. La sua vera ed unica
amica. Ride, e Moni la segue, euforica.
Arrivano davanti al cancello di casa sua, le dita gelate nascoste nelle tasche.
-Ci vediamo domani mattina allora- dice la Moni.
-Si ok, prima di passare fammi uno squillo per avvisare che stai arrivando-
risponde lei.
I soliti tre baci sulle guance.
-va bene tesorooo- esclama Monica –a domani, e salutami tua mamma!!! Dalle la
buonanotte da parte mia!- dice allontanandosi.
-va bene- risponde Laura cercando la chiave del cancelletto.
Sente da lontano la sua amica intonare London Calling dei Clash e ride.
Moni è folle.
Finalmente quella porca chiave decide di farsi pescare. Non le piace trovarsi
fuori di casa da sola, la sera. È un terrore che le ha instillato sua madre.
Attraversa il cortiletto e si pulisce le scarpe nel tappetino di fronte alla
porta.
Sono le nove ormai, e sua madre è sicuramente già a casa.
Sospira. Sa che scoprirà come le è andata la giornata appena entrerà. Con sua
madre non è difficile capirlo. Se è seduta sul divano con il solito bicchiere di
troppo in mano, è andata male, se invece è in cucina ad apparecchiare è un buon
segno.
Infila la chiave nella porta ed entra.
-Mamma sono tornata!- urla. Vede la luce del salotto accesa e il morale le
scende a livello suole. È un’altra giornata no a quanto pare.
-Mamma…- ripete. Si sfila la sciarpa e abbandona le sneackers sul tappeto
dell’ingresso.
-Mamma allor…- sbuffa entrando nel salotto. Ma non riesce a finire la frase.
Davanti a quello spettacolo il sangue nelle vene le si gela, il cervello si
scollega. Il vuoto. Non esiste più nulla, solo sua madre, sua madre abbandonata
sul divano. La mano penzolante, la maglietta sporca di vomito, e una bottiglia
in frantumi a terra.
Nella stanza c’è puzza di bile e alcool.
E tante, troppe pastiglie bianche sparse sul tavolo da mani di chi cerca
spasmodicamente la fine.
Un’altra volta.
“no, no mamma, non me lo fare” pensa correndo verso il telefono.
La prima volta l’aveva colta impreparata, la seconda anche. Ma ormai alla terza
il suo cervello è perfettamente in grado di ragionare con freddezza.
Sente una voce distante dire qualcosa. Vede se stessa pulire la bocca di sua
madre, pulire il viso e cambiarle la maglietta. Non devono trovarla in quello
stato.
Conserva le pastiglie sparse sul tavolo in un tovagliolo e se lo mette in tasca.
Ai medici sarebbe servito sapere cosa aveva ingoiato quella volta. Non deve
fermarsi, non deve fermarsi o impazzirà.
Quando sente le sirene in fondo alla strada tira un sospiro di sollievo.
Ce l’avrebbe fatta anche quella volta. Sua madre era forte.
Spalanca la porta e corre in strada.
Tutto il resto è un copione già interpretato.
Sua madre in barella, lei che prende in fretta le chiavi di casa ed entra
nell’ambulanza sotto gli sguardi spaventati e curiosi dei vicini.
È la terza volta che succede, e preferirebbe che loro facessero finta di nulla.
Semplicemente.
Il viaggio è penoso.
Deve sopportare le mille domande che le si accumulano nella testa, sforzarsi di
non interpretare gli atteggiamenti degli infermieri come segnali d’allarme.
Una volta in ospedale è ancora peggio.
Deve sorbire gli sguardi compassionevoli dei medici.
Tutti pensano di capire, sempre.
Si stacca da sua madre solo quando gli infermieri le dicono chiaramente che non
può andare oltre.
Resta li, immobile, di fronte a quella porta chiusa.
Si siede su un seggiolino blu dai contorni sbucciati, in sala d’attesa. Non c’è
quasi nessuno. Giusto un’infermiera intenta a firmare delle carte dietro la
scrivania.
Neon bianchi e riviste strappate.
E tutto così squallido.
Quel pronto soccorso, casa sua, sua madre, la sua vita. Tutto è stato sempre
così.
A diciotto anni da poco compiuti, seduta ad aspettare di sapere se anche quella
volta sua madre se la caverà, da sola, si rende conto dello schifo che è stata
la sua vita fino a quel momento, e dello schifo che farà.
Perché la vita di certe persone deve andare così e basta.
Perché ha scoperto troppo presto che i sogni e le speranze non sono sufficienti.
Perché ora sa, e sapere vuol dire accettare, capendo che semplicemente un’altra
via d’uscita non c’è.
Si stringe nel giubbotto, ma non riesce lo stesso a scacciare quel freddo che ha
dentro.
Appoggia la testa al muro, lo sguardo fisso sull’orologio.
Le 22.00…le 22.40…23.00…mezzanotte…l’una…
Questa volta perdonare non sarà così facile.
Qualcuno ripete fastidiosamente una parola nel suo orecchio.
Deve dirgli di smettere. BASTA! BASTA CAZZO!
-Signorina, signorina? Si svegli signorina! Oh!-
Trasale spalancando gli occhi. L’infermiera che pochi secondi prima le stava
picchiettando un dito sulla spalla si raddrizza.
Riacquista subito completa conoscenza della realtà. Il suo sguardo corre di
nuovo all’orologio.
Le 5.00.
-Il dottore mi ha mandata ad avvisarla che sua madre sta bene, deve solo dormire
un po’.-
La notizia le arriva al rallentatore.
Sta bene, è viva.
E lei? Lei è contenta?
Cos’è lei adesso?
Solo confusione.
-Vuole che la porti da lei?-le chiede l’infermiera. Di nuovo quell’espressione
compassionevole. Posa lo sguardo altrove e si alza. Le gambe sono indolenzite e
la testa le scoppia.
-Si, grazie- risponde. La sua voce suona roca, impastata dal sonno. Un’altra
notte in pronto soccorso che lasciava le sue tracce.
Raccoglie le forze e segue la donna oltre quella porta che poche ore prima le è
stata sbattuta in faccia.
Attraversano un corridoio ampio, dalle pareti perfettamente candide, il
pavimento brillante. Tutto quel bianco le da’ fastidio agli occhi.
Girano un angolo e si fermano davanti ad una porta grigia.
L’infermiera le fa un cenno.
-Può restare quanto desidera. Nella camera c’è il bagno se ha bisogno e se mi
vuole chiamare sono nella stanza accanto.-
Le sorride. Laura pensa che è un sorriso buono. La capisce, chi non proverebbe
compassione per la figlia di una madre tossica e suicida?
Ricambia a fatica il sorriso, ma l’infermiera sembra soddisfatta e la lascia,
scomparendo con un fruscio oltre la porta successiva.
Una volta sola poggia la mano sulla maniglia di plastica.
Non ce la fa dannazione. Non ce la fa.
Ricaccia indietro il nodo che le è salito in gola e abbassa la maniglia.
Eccola li.
Sua madre.
Chiude la porta dietro di se con un click.
Per un minuto rimane immobile. La osserva da lontano, aggrappata a quella porta.
Cercando la forza necessaria per avvicinarsi e non crollare.
Ce la fa.
Si siede su uno sgabello che deve essere stato messo li apposta per lei.
Sua madre è bellissima. Quel pensiero la prende in un momento poco opportuno, ma
è vero. Anche così, provata, esausta, è bellissima. I lunghi capelli castani
sono sparsi sul cuscino, e la luce della lampada vicino al comodino li illumina,
risvegliando i riflessi dorati. Ha le labbra dischiuse, di quella forma
stupenda. Gli zigomi alti.
Spesso quando passeggiano insieme Laura sorprende gli uomini a guardarla. E
quando nello specchio riesce a riconoscere in lei gli stessi lineamenti, gli
stessi occhi scuri, non riesce a soffocare quel moto di vanità improvvisa.
Ma sua madre non sarà mai raggiungibile, è il suo essere che la rende così unica
ed affascinante. E lei non riuscirà mai ad eguagliarla.
D’istinto le afferra la mano. Le sfiora le dita lunghe e affusolate.
Improvvisamente si rende conto di quant’è pallida e lo stomaco si stringe. Di
nuovo quel qualcosa che le sale in gola.
“Perché? Perché mamma? Perché non ti basto io per amare la vita?”
Si chiede la stessa cosa da quando è diventata abbastanza grande da capire
quando una persona è felice, e quando no.
E sua madre non è mai stata felice. Sua madre piangeva, sua madre rompeva gli
specchi. Poi la cercava nella sua stanza e l’abbracciava per notti intere,
singhiozzando.
Succedeva che insieme ridessero, ma erano pochi e rari attimi, che non le
bastavano mai.
Laura le lascia la mano e si alza di scatto.
Non ce la fa.
Non ce la fa più. Sente che la sua volontà di resistere sta crollando e si
catapulta nel bagno chiudendo la porta dietro di se.
Appena in tempo.
Comincia a piangere, e scivola lungo quella superficie ruvida.
Infila una manica in bocca per soffocare i gemiti.
Non è abbastanza forte per quello che succede e per quello che verrà. Come
potrebbe mai esserlo?
Ha solo diciotto anni.
Ha solo diciotto anni cazzo.
Si rannicchia contro la porta e appoggia la testa sulle ginocchia.
I singhiozzi sono talmente forti che la scuotono tutta.
Il suo è un pianto disperato.
E non c’è nessuno.
Non c’è stato mai nessuno per lei, e non ci sarà mai nessuno.
L’unica persona che potrebbe aiutarla si trova oltre quella porta, imbottita di
farmaci e antidepressivi.
Ha sempre e solo dovuto contare su se stessa.
Cosa deve fare…che cazzo deve fare. Le risposte non ci sono mai.
Perde la cognizione del tempo in quel bagno d’ospedale.
Sa solo che ad un certo punto si accorge di aver smesso di piangere e si alza.
Si specchia.
Fa paura. Ha le occhiaie, gli occhi arrossati, e la pelle diafana chiazzata di
rosso dove ha cercato inutilmente di fermare le lacrime, senza nessun risultato.
No, non può, non adesso.
Ancora una volta farà il suo dovere.
Apre il rubinetto e si bagna il viso, fin quando l’acqua gelata non le provoca
quel pizzicore sulla pelle.
È stanca, distrutta. Ma il tempo per riposare dovrà trovarselo in un secondo
momento.
Si asciuga il viso con quella carta ruvida ed esce dalla stanza.
Resta seduta accanto al letto fin quando sua madre non si sveglia.
Fin quando non la guarda con gli occhi gonfi, iniettati di sangue. Lei cerca di
parlare, di spiegare, e Laura ascolta. Laura ascolta e non dice nulla.
Sua madre le chiede un abbraccio, e lei un abbraccio le da. Ma sa benissimo che
ora qualcosa tra di loro si è spezzato definitivamente. Vorrebbe urlare che è
stanca di essere prigioniera in un ruolo che non le spetta in quella famiglia
disastrata, che ha bisogno di costruirsi una vita, di non dovere preoccuparsi
ogni volta che esce di casa perché non sa cosa troverà al ritorno. Vorrebbe
ferirla. Vorrebbe farle capire cosa si prova.
Ma non può farcela. Riesce solo ad abbracciarla.
Ed inspiegabilmente, per pochi minuti le basta.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Quando arriva la mattina nella stanza entra
un dottore.
Fa un rapido controllo e dice che sua madre può tornare a casa. Laura la guarda
sorridere.
Poi il dottore fa chiamare l’infermiera che l’aiuta a raccogliere la roba e a
vestirla.
Mentre sua madre sta dicendo all’infermiera che è perfettamente in grado di
camminare da sola, il dottore le fa un cenno ed esce.
Laura lo segue.
Quando sono fuori, nel corridoio, il dottore chiude la porta.
È un uomo sulla quarantina, ma è già brizzolato. Ha un volto stanco.
La guarda e sospira.
-Signorina, sua madre non sta bene.- dice con tono grave.
-Questo è evidente.-ribatte lei fredda. Non ha bisogno di un dottore per
capirlo.
-Forse il problema non le è completamente chiaro. Ho letto le cartelle delle
ultime volte che sua madre è stata ricoverata. Già due tentativi di suicidio, e
con questo siamo arrivati a tre. La situazione è fuori dalla sua portata.- si
interrompe un attimo –Sua madre stanotte ha rischiato di morire. Cosa sta
aspettando a farla curare?-.
Farla curare? Come? Lo psicologo non bastava, le medicine non bastavano.
Cos’altro doveva inventarsi?
-Magari, può provare a ricoverarla in un centro specialistico…ce ne sono
diversi…-
Ricoverare sua madre?!
-No, no non se ne parla.- ribatte nervosa.
Il dottore fa una faccia rassegnata.
-Sei troppo giovane per assumerti un responsabilità del genere.- le dice
appoggiandole una mano sulla spalla.
Laura abbassa lo sguardo.
-Lei non capisce…mi lasci portare mia madre a casa per favore.-dice incerta.
Sa di non essere per niente convincente, ma l’uomo annuisce ugualmente. Poi
estrae dalla tasca un pezzo di carta e ci scrive sopra un numero e un indirizzo.
-Per qualsiasi cosa puoi rivolgerti qui, non farti nessun problema.-dice
porgendole il foglio.
Laura lo accetta, ringrazia e lo piega per poi infilarlo nella tasca dei jeans.
Sa benissimo che non lo userà mai e poi mai, ma non vuole essere scortese
proprio con una delle poche persone gentili che le ha rivolto la parola. Non se
la sente.
Proprio in quel momento dalla stanza esce l’infermiera con sua madre
sottobraccio.
Laura sostituisce prontamente la donna e sua madre le restituisce un sorriso.
Le accompagnano fino all’uscita.
Una volta fuori Laura riesce a rintracciare un taxi e si fanno portare a casa.
paga con i soldi che ha in tasca dalla sera prima.
Sua madre non parla molto. È intontita dalle medicine, e si vede. E lei stessa
non sta meglio. Sente le gambe pesantissime.
Entrano in casa e Laura aiuta sua madre a sfilarsi le scarpe, poi lentamente la
porta nella sua camera.
La spoglia e le fa indossare il pigiama. La mette a letto e la copre.
Sua madre non dice nulla. Solo un roco sussurro, prima che lei se ne vada, che
le fa ancora più male.
-Mi dispiace…-
Poi le si chiudono gli occhi. Si è addormentata.
Laura lascia la stanza chiudendo la porta dietro di se.
Sta per crollare di nuovo e ha ancora il salotto da pulire.
Raccoglie secchio e spazzolone nello stanzino, e pulisce la vodka che si è
appiccicata al pavimento. Butta i cocci di vetro e poi crolla sul divano.
Fuori dalla finestra il sole comincia a salire. Saranno le dieci.
Deve avvisare Moni che quella mattina non potrà venire…deve avvi…deve avvisarla…
Si sveglia parecchie ore dopo. Il sole entra nel salotto attraverso la finestra
e le accarezza piacevolmente il viso. Ci mette un po’ a ricollegare tutto quello
che è successo questa volta, e quando finalmente ci riesce vorrebbe rimanere
stesa su quel divano, a dormire e basta.
Ma è fuori discussione.
Lentamente si solleva. I suoi pensieri vanno a Monica.
Torna nell’ingresso dove quella mattina ha abbandonato il giubbotto prima di
mettersi a pulire. Individua non senza difficoltà il guscio di plastica nella
tasca.
Avrebbe bisogno di dormire ancora, ma quando vede il numero di chiamate senza
risposta sul suo cellulare le passa la fantasia.
Tredici. Tredici chiamate, tutte di Monica.
Richiama subito l’amica, e ritorna a sedersi sul divano.
Tre, quattro squilli, poi sente una voce dall’altro capo della linea.
È Monica, ma ha un tono che Laura non le ha mai sentito.
-Pronto, Moni? Scusa se non ti ho avvisata questa mattina- dice subito.
L’amica ci mette un po’ a rispondere.
-Fa niente, non ti preoccupare-
Laura ha un brutto presentimento. Più che altro una sensazione, per niente
bella.
-Moni? C’è qualcosa che non va?- chiede con tatto.
Silenzio dall’altra parte.
Poi un singhiozzo.
La sua migliore amica piange.
Laura scatta in piedi, il cellulare stretto in mano.
-Moni? Che succede?- chiede ansiosa. L’amica continua a piangere.
-Mia nonna. Ha avuto…ha avuto un attacco stanotte. E adesso…i medici dicono
che…-
Moni scoppia a piangere, ancora più forte.
Laura sente il suo cuore sprofondare.
Ha conosciuto la nonna di Monica. È una donna speciale, e ha fatto da madre alla
sua amica per i suoi primi otto anni di vita.
Monica la ama, molto più di quanto ami sua madre e suo padre.
-Vieni a casa mia? Te la senti?- chiede soltanto.
Un “mi dispiace” per telefono non le può bastare. Non in quella occasione.
Monica sussurra un “si”, poi chiude il telefono.
Laura rimane con il cellulare in mano.
Sua madre che dorme in camera, cercando di riprendersi dall’ultimo tentativo di
suicidio, la nonna della sua migliore amica in fin di vita.
Crolla sul divano.
Quella sarà una giornata da dimenticare.
Dopo una decina di minuti decide di andare ad aspettare Monica.
Apre il cancello dal citofono e si apposta dietro la finestra. Non riesce a fare
a meno di mangiarsi ticchiosamente le unghie.
Alla fine la vede. I capelli biondissimi sparsi sulle spalle, avvolta in un
maglione nero, troppo grande per lei.
Laura spalanca la porta mentre l’amica imbocca il vialetto.
Le corre incontro e l’abbraccia.
Monica scoppia di nuovo a piangere.
La stringe più forte.
Ora sente anche lei le lacrime rigarle il volto.
L’amica ricambia l’abbraccio. Si aggrappa a lei. e lo stesso fa Laura.
L’una cerca l’altra per non affondare, per riuscire a riemergere. Insieme.
Restano li, abbracciate, per un tempo indefinito. Fin quando i loro singhiozzi
non si placano e riescono a respirare.
Quando si staccano sanno di esserci riuscite, sanno che non esiste nessun altro
che potrà mai aiutarle, che possono solo aiutarsi a vicenda.
-Entriamo- dice Laura.
Non servono altre parole.
Dieci minuti dopo sono sedute al tavolo della cucina, una tazza di the fumante
tra le mani.
-Domani parto per raggiungerla- dice Moni con lo sguardo perso.
-Ok-risponde lei. Monica la guarda per un attimo.
-Sai cosa vuol dire vero? Non potrò venire più a Monaco.-aggiunge.
Solo in quel momento Laura si ricorda di Monaco.
Aveva eliminato tutto la sera prima, di fronte a sua madre agonizzante sul
divano.
Non risponde. Poi trova il coraggio.
-Ieri sera mia madre ci ha provato di nuovo- dice soltanto. Guarda l’amica.
Inghiotte un sorso bollente di the e tiene gli occhi bassi.
-Cazzo- dice soltanto Monica. Solo questo. “cazzo”. e in quel momento le sembra
l’affermazione più adatta.
Scoppia.
Le racconta tutto. Sensazioni, pensieri, dolori, paure.
E lei l’ascolta, l’ascolta e basta.
Quando finisce la guarda per parecchi interminabili secondi.
-Io parto domani, quindi mi sarà impossibile essere a Monaco. Voglio stare
vicina a mia nonna prima che…sai…-ingoia velocemente e fa un bel respiro. Poi
continua –Beh insomma credo sia meglio che tu ci vada comunque-
Laura per un attimo non riesce a mettere in moto il cervello. Poi capisce.
-No, non se ne parla!!!- esclama sconcertata.
-Ma non puoi restare qui! Impazzirai Laura!!! Pensaci! Io non ci sarò, non ci
sarà nessuno a cui appoggiarti, e non so quanto tempo starò via! Potrebbe essere
una settimana come potrebbero essere tre mesi!- insiste Monica.
Ma Laura scuote la testa.
-No Moni, non me lo dire nemmeno. O insieme o niente. E poi mi sentirei un verme
a sfruttare i soldi di tuo padre.- ribatte decisa. Ma il vero motivo lo conosce,
e lo conosce anche Monica. Si vede da come la guarda.
Scuote la testa.
-Non mettere in mezzo mio padre. Lo sai che non è un problema quello, almeno
quello. Non puoi continuare a sacrificarti per lei, non puoi rinunciare a
vivere. Preferisco saperti fuori da questa casa mentre sono via. Non voglio
stare in pensiero per te. Ti prego.- Monica la trapassa con gli occhi. Ha lo
sguardo deciso di quando si mette qualcosa in testa.
-No- dice Laura seria. Si guardano per un attimo, poi Monica cede. Non ha
abbastanza forza per tenere testa all’amica quella mattina.
-Almeno promettimi che ci penserai-
Laura si tormenta le mani. La osserva. Gli occhi azzurri così spenti, arrossati,
lo sguardo supplichevole.
Decide di mentire. Solo per quella volta.
-Va bene. Te lo prometto, ci penserò.-
Quando finiscono il the Moni l’abbraccia e la saluta. Poi torna a casa, deve
sistemare le ultime cose prima della partenza.
Laura resta di nuovo sola, con sua madre che dorme ancora dietro quella porta.
All’ora di pranzo cucina qualcosa, e poi vaga come un’anima in pena per la casa.
Cerca di rimettere in ordine le idee ma le è impossibile.
Nel primo pomeriggio torna sul divano e osserva il soffitto. Riesce a rimanere
sveglia per i primi dieci minuti, poi crolla.
È ormai buio quando riapre gli occhi.
Si accorge quasi subito che qualcuno le ha messo una coperta addosso, e quando
sente dei rumori di stoviglie venire dalla cucina capisce che è stata sua madre.
Si avvolge stretta nella coperta e la raggiunge.
La trova alle prese con una frittata. Sembra piena di vita. Appena la vede le
sorride e le va incontro, la abbraccia. Per un istante le fa una tenerezza
immensa, vorrebbe restituire l’abbraccio con lo stesso identico amore e
dimenticare tutto, ma non ci riesce.
-Finalmente ti sei svegliata! Giusto in tempo per la cena- dice raggiante.
Si è truccata. Ha nascosto abilmente le occhiaie con il fondotinta.
Laura si siede a tavola e cenano insieme, con di sottofondo la radio.
Sua madre cerca di intavolare una conversazione e lei non si tira indietro. Le
manca il coraggio di fare la sostenuta.
Sembra che non sia successo niente.
Sembra sia stato solo un brutto sogno.
Laura quella sera va a letto con un peso in più sul cuore. E più volte durante
la notte nei suoi sogni compare sua madre: esanime, pallida…morta.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
I giorni successivi trascorrono tranquilli.
Sua madre cerca di sorridere tutto il tempo che lei passa in casa, che è il meno
possibile.
Trascorre giornate intere da Monica, che non torna più sull’argomento viaggio
tanto è presa dai preparativi per la partenza verso la casa della nonna.
Il martedì sera successivo a quella che ormai Laura aveva ribattezzato “la terza
volta”, sta tornando a casa.
Monica non ha potuto accompagnarla perché non si sentiva tanto bene, e non può
rischiare di ammalarsi dato che la sua partenza è prevista per quel giovedì.
Mentre infila la chiave nella porta di casa pensa che l’indomani mattina
sarebbero dovute partire, insieme.
Scaccia via i pensieri scuotendo la testa. Non vale la pena pensarci ancora.
Sono successe troppe cose in poco tempo, troppe. Troveranno un altro momento,
prima o poi.
-Sono tornata!-urla nell’ingresso. Sua madre non risponde, ma Laura sente la tv
accesa in salotto. Come al solito starà guardando uno dei suoi programmi
insulsi.
Si toglie giubbotto e sciarpa e raggiunge sua madre.
Appena si affaccia sulla soglia il tempo torna indietro ad una settimana prima.
sua madre in fin di vita, il panico.
È di nuovo tutto uguale.
Poi capisce. No, non è tutto uguale, ma è peggio.
Sua madre dorme soltanto. Non è riuscita a nascondere il bicchiere e la
bottiglia prima che lei tornasse. Il sonno l’ha presa prima evidentemente.
Laura sa benissimo di aver buttato tutto l’alcool conservato e occultato in
casa, sa di aver cercato dappertutto mentre sua madre dormiva. E quindi sa anche
che lei doveva essere uscita apposta per comprare da bere. Di nuovo.
Un’altra bottiglia di vodka, quasi vuota, il bicchiere abbandonato a terra. La
luce azzurrina della tv.
Tutto le sembra insopportabile. Definitivamente rovinato.
Decide di rifugiarsi in camera sua. Ma sa che non basterà. Ormai non le basta
più niente.
Cosa prova?
Delusione?
Rabbia?
Dolore?
No…niente di tutto questo.
È stanca, infinitamente stanca.
Scivola sul letto nella stanza immersa nell’oscurità e piange. Piange lacrime
stanche di una vita che l’ha vista solo come osservatrice, solo come “la persona
di passaggio”.
Si addormenta con troppa amarezza nel cuore.
Dopo poche ore è ancora stesa a letto, ma gli occhi sono spalancati.
Non riesce più a dormire. Aver trovato sua madre ancora li, a distruggersi, dopo
aver rischiato di morire…un’altra volta…
Non riesce a concepire perché mai sua madre ha così poca considerazione per la
vita, così poca considerazione per lei.
La rabbia comincia a farsi strada, e il suo cuore sembra troppo piccolo per
riuscire a contenerla.
Improvvisamente capisce.
Capisce che non è più possibile per lei rimanere li.
Capisce che cosa voleva dirle Monica.
E scopre di sapere cosa deve fare.
Prima o poi quel momento sarebbe arrivato. Avrebbe dovuto prevederlo lei stessa,
e soprattutto sua madre.
Si alza e tira fuori la valigia e lo zaino da campeggio conservati sotto il
letto. Li aveva comprati due mesi prima per il viaggio.
Li mette sopra il materasso e silenziosamente apre l’armadio.
La sveglia dice che sono le 4.00 e fuori dalla finestra comincia a schiarire.
Nella semioscurità raccoglie mucchi di vestiti e infila tutto nella valigia.
Afferra magliette, jeans, biancheria, tutto a caso.
Quando ha quasi svuotato l’armadio passa al resto della camera.
Rovescia tutti i suoi cd nello zaino, assieme ad un paio di libri.
Tira fuori la sua tascapane dall’armadio e si siede sul letto. Apre il comodino.
Li dentro sono conservate le cose più importanti del suo mondo.
I suoi diari, semplici agende dai toni grigi e verdi, così tristi. Infila nella
tascapane l’ultima che ha iniziato ad usare, in pelle sintetica nera. Ci ha
scritto solo il nome.
Poi ci sono le foto. Le sue due foto.
In una c’è sua madre. Gliel’ha fatta lei un anno prima, durante un pomeriggio al
parco. È bellissima. Con il sole che le illumina ciocche di capelli, e quel
sorriso dolce.
Sente gli occhi pizzicare e si affretta a nasconderla nell’agenda conservata
nella borsa.
Nell’altra foto ci sono lei e Moni, che sorridono abbracciate. Sono più piccole
di un paio d’anni. Anche quella foto deve partire con lei.
L’ultimo ricordo che conserva nella tascapane è un cd.
Velvet Underground.
L’unica traccia che è rimasta di suo padre in quella casa. nessun volto, nessun
racconto, nessun ricordo sbiadito. Solo quel cd.
Laura l’ha trovato a dieci anni, in cima alla sua libreria, coperto da uno
spesso strato di polvere grigia. Sua madre non sa che esiste e lei si è curata
di non farglielo sapere. Ha capito troppo presto che suo padre in quella casa ha
portato solo dolore.
Sfila il coperchio al doppiofondo del comodino. Li ci sono ancora i biglietti
per il viaggio, e tutti i soldi che ha messo da parte lavorando in bar e
ristoranti qua e la.
Ripone tutto con cura in una tasca interna della borsa. Poi è la volta di
conservare la macchina fotografica e l’mp3. Il beauty case con dentro dentifrici
e spazzolini che sbattono uno contro l’altro.
È pronta.
La sveglia segna le 5.13. l’aereo partirà alle 8.00. deve muoversi.
Prende a caso un paio di jeans e una maglietta dalla valigia. Si veste e lancia
nello zaino due paia di all star consumate. Ne infila un altro paio ai piedi e
si mette in spalla il carico, prende in mano il manico della valigia e il più
silenziosamente possibile esce dalla sua stanza.
Non ha paura che sua madre si svegli e le impedisca di partire…ha paura che sua
madre si svegli e che lei non avrà il coraggio di lasciarla.
Ma sua madre continua a dormire nel salotto. Li tutto è rimasto come la sera
prima.
Si ferma nell’ingresso, infila il giubbotto e la sciarpa ed apre la porta.
Ha già un piede fuori quando sente il bisogno di voltarsi.
Sta per andarsene, e non sa quando tornerà.
Sa solo che non si tratterà solo di due settimane. Due settimane non le
basteranno.
Davanti a lei ci sono solo forse, ma sa che ha bisogno di scappare, di guarire.
Fa un bel respiro e poi è fuori, la porta si è già chiusa dietro di lei.
Magari è un nuovo capitolo della sua vita, e prima di iniziarlo deve incontrare
una persona.
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
TUUU…TUUU…TUUU…
-Pronto?- risponde una voce assonnata.
Laura sorride sollevata. Moni aveva il cellulare sempre acceso, anche di notte.
-Moni, sono sotto casa tua, mi fai entrare?- chiede semplicemente. Sente un
silenzio attonito dall’altra parte poi…
-Arrivo-
Laura rimette il cellulare in tasca.
Due minuti dopo sente una serratura scattare e davanti a lei compare l’amica. I
lunghi capelli spettinati, avvolta in un pigiama bianco.
Appena vede lo zaino e la valigia sorride. Ha già capito.
Le fa cenno di entrare piano.
Una volta dentro Laura lascia i bagagli sul tappeto e segue in punta di piedi
Moni, su per le scale e poi nella sua stanza.
Appena chiusa la porta l’amica l’abbraccia. Laura ricambia e si stringono forte.
Quando la lascia Moni le appoggia le mani sulle spalle.
-Allora, hai deciso?- chiede sottovoce.
Laura sorride. –Si-.
Si siedono sul letto.
-Fai bene Laura, è l’unico modo. Se non vai ora, non andrai più, e finirai per
odiare tua madre- le sussurra Moni.
Per l’ennesima volta ha ragione.
Si guardano per un po’ e sorridono entrambe.
-Hai tutto? Biglietti? Soldi?- chiede Monica.
-Si si, ho tutto- risponde –tranquilla—
-Perfetto. Ti do’ le carte per la prenotazione dell’Hotel- Moni si alza e va
alla sua scrivania. Prende una carteletta grigia e gliela porge.
-Sapevo che avresti cambiato idea-
Laura la guarda. Semplicemente non ci sono parole.
La sua migliore amica guarda l’orologio appeso al muro.
-E’ tardi, ti chiamo il taxi- dice.
Laura la guarda mentre va avanti e indietro per la stanza. Quando finisce la
chiamata sospira.
-Sei sicura di avere tutto? Quanto ti sei portata?- le domanda.
-Mmm…circa 900 euro- risponde. Ha gonfiato volutamente la cifra.
Monica apre un cassetto della scrivania e tira fuori una busta.
-Sono i soldi che mi ero fatta dare da mio padre per il viaggio. Non mi servono
più purtroppo, quindi vorrei che li prendessi tu- dice seria.
-No Moni non posso. C’è già l’albergo…no non se ne parla.- mormora.
Monica le mette a forza la busta tra le mani e gliele stringe.
-Non posso farti andare via senza essere sicura. Metti che succeda un
imprevisto? Che ti ritrovi in qualche guaio? Per favore accettali…ti prego- dice
supplicante.
Laura si arrende a malincuore. Piega la busta e la conserva nella cartella.
-Quando torno ti restituisco tutto- dice.
-Va bene- Moni annuisce.
Si siede di nuovo accanto a lei e restano in silenzio.
-La nostra vita sta per cambiare…ma non sappiamo ancora come…- bisbiglia
l’amica.
-E non saremo insieme questa volta…- Laura la guarda.
-Penso che siamo tutti soli in queste circostanze-
Da fuori, attutito dal vetro della finestra, arriva alle loro orecchie il suono
di un clacson.
Saltano in piedi entrambe.
-E’ arrivato- esclama Moni.
Escono dalla stanza e scendono il più silenziosamente possibile al piano di
sotto.
Una volta nell’ingresso Moni l’aiuta a caricare di nuovo i bagagli in spalla. Le
infila la cartella nella tascapane e apre la porta.
Fuori c’è una macchina bianca. E loro sono li, l’una di fronte all’altra.
-Sei pronta?- chiede Moni.
Laura prende il respiro. La voce le trema nonostante cerchi di fermarla.
-Si, e tu?- chiede all’amica.
-Si-
Si abbracciano. Ridono per tutte le barriere che lo zaino e la valigia
impongono.
-Tornerai?- le chiede Moni in un orecchio.
-Si-
-Penserai a me?-
-Sempre-
-Allora puoi andare-
Laura prende in mano la valigia. Fa finta di nulla, ma piangono entrambe, in
silenzio.
Il taxi suona di nuovo.
-Ti chiamo appena arrivo- dice. Monica annuisce.
L’immagine della sua amica immobile, sulla porta, che la saluta sorridendo tra
le lacrime, le rimarrà impressa nella mente per un anno intero, ma lei ancora
non lo sa.
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
*Ritorno al presente*
Quando si convinse definitivamente che non
avrebbe chiamato sua madre decise che era il caso di tornare in camera.
Era passato solo un giorno e già aveva paura di quello che poteva essere
successo in poche ore. Scosse la testa. No, non sarebbe tornata. Non poteva e
non doveva cedere.
Quel pomeriggio aveva chiamato Monica, e a quanto pareva solo il suo arrivo
aveva influito sulle condizioni di salute della nonna.
Non doveva preoccuparsi di nulla…più facile dirlo che farlo.
Una volta dentro chiamò l’ascensore.
Quell’albergo era di un lusso esagerato. Era tutto coperto di legni intarsiati,
arazzi e tappeti, e le stanze erano enormi. La doppia in cui alloggiava avrebbe
potuto contenere cinque volte la sua camera, tranquillamente.
All’inizio si era sentita un po’ sola, ma poi aveva cominciato ad abituarsi, e
non le dispiaceva per nulla.
Quella stessa mattina si era fatta portare in centro da una delle macchine messe
a disposizione dall’albergo, e aveva speso parte dei suoi risparmi in vestiti.
Doveva darsi una regolata, considerando che non aveva ancora idea di dove
sarebbe andata scadute quelle due settimane.
Ringraziò mentalmente Monica per l’ennesima volta.
Il palazzo dove si trovava l’albergo era alto sedici piani, lei scese al quinto,
dove si trovava la sua camera.
Appena le porte si aprirono sul suo piano Laura capì che c’era qualcosa che non
andava.
Il corridoio era intasato da decine di omoni in giacca e cravatta neri, e non
facevano altro che guardare avanti e indietro nel corridoio, per poi premersi un
dito sull’orecchio destro e bisbigliare. Ogni tanto dal mucchio usciva una donna
bionda in tailleur e tacchi alti, con in mano una cartelletta e un cellulare.
Il posto era talmente affollato che non riusciva a vedere la porta in fondo,
cioè quella della sua stanza.
Si diresse verso gli omoni leggermente irritata.
Stava per farsi strada quando le si parò davanti uno di quelli, che la guardò
dall’alto del suo metro e novanta passato e alzò un sopracciglio.
-Per favore, torni indietro e se ne vada. E’ vietato l’accesso alle stanze-
disse con tono scortese. Laura .
-Non mi interessa. Io devo raggiungere la mia stanza, proprio la in fondo
guardi- disse indicando la sua porta con un dito.
L’uomo sorrise freddamente.
-Si certo, dicono tutte così. senti ragazzina non ho tempo da perdere- la
afferrò per il polso e la spinse verso l’ascensore.
-Ma come si permette?!- esclamò Laura cercando di divincolarsi. Quell’energumeno
le stava facendo male. Ma l’uomo fece finta di non sentirla, la fece entrare a
forza nell’ascensore e schiacciò il pulsante per lei.
Prima che potesse fare qualcosa le porte si chiusero di fronte al suo naso, e
lei si ritrovò immobile, a bocca aperta, scioccata.
Dopo dieci secondi di pensieri si infuriò.
L’ascensore si aprì sulla Hall dell’albergo e lei si diresse inferocita verso la
Reception.
Ovviamente non c’era nessuno, solo facchini che portavano su e giù i bagagli.
Ogni tanto compariva anche uno degli armadi in tuta nera.
Suonò il campanello e attese.
Dopo nemmeno un minuto arrivò la stessa signorina che l’aveva ricevuta quella
mattina.
-Buonasera- disse con tono gentile.
-Buonasera. Potrei parlare con il direttore gentilmente?- chiese.
La signorina annuì garbatamente e scomparve dietro la stessa porta dalla quale
era uscita.
Laura rimase li ad aspettare, immersa nei suoi pensieri bellicosi. Si guardò il
polso: le era rimasto il segno rosso sulla pelle.
Ad un certo punto sentì di nuovo il trillo acuto del campanello.
Tanto era presa che non si era accorta fosse arrivato qualcuno.
Spostò lo sguardo sulla persona accanto a lei e quello che si rivelò essere un
ragazzo le sorrise.
Era abbastanza più alto di lei, ed assolutamente fuori posto in quel luogo.
Aveva lunghe dreadlocks bionde, raccolte in una coda che gli usciva dal
cappellino da baseball. Appena sotto il cappellino portava una fascia calata
sulla fronte. Aveva un viso dai tratti sottili, delicati, da adolescente, e quel
piercing sul labbro inferiore faceva un effetto strano.
Addosso aveva dei vestiti larghissimi, sui toni del nero e bianco, ma non fece
in tempo a distinguerli bene perché in quel momento arrivò il direttore.
-Posso esserle utile in qualche modo?- chiese subito al ragazzo.
Lui fece per rispondere ma Laura lo interruppe.
-Mi scusi, c’ero prima io-disse. Il direttore le lanciò uno sguardo seccato. Il
ragazzo sorrise di nuovo e alzò le mani.
-Prego- disse divertito.
-Grazie. Allora…- disse rivolgendosi al direttore – stavo tornando nella mia
camera quando ho trovato il corridoio intasato da decine di armadi vestiti di
nero. Quando ho cercato di raggiungere la mia stanza sono stata scortesemente
allontanata, e non solo. Dopo aver detto che ero una cliente dell’Hotel sono
stata derisa e strattonata. – mostrò il polso al direttore – e costretta con la
forza a lasciare il piano. È il trattamento che ricevono solitamente i clienti
di questo Hotel?-
Si fermò.
Il direttore lanciava sguardi nervosi prima a lei e poi al ragazzo.
-ehm…veramente…-cominciò. Si vedeva che era in difficoltà, ma Laura non riusciva
a capire perché.
-Scusami- intervenne il ragazzo. Laura incrociò il suo sguardo. Aveva due occhi
marroni fin troppo vispi. Però questa volta non stava sorridendo.
-Penso che non sia colpa del direttore. Risolviamo il problema insieme. Arrivo
subito.- le disse gentilmente.
Laura non capì. Ma annuì ugualmente. Si allontanò un poco. Guardò il ragazzo
confabulare un po’ con i direttore, poi l’uomo sorrise e assentì. Dopodiché se
ne andò.
Il ragazzo la raggiunse. Camminava in modo curioso.
-Vieni, saliamo- le disse. Si diressero assieme verso l’ascensore.
Ogni tanto il ragazzo faceva un gesto del tipo “tutto ok” agli omoni che
incontravano. Evidentemente li conosceva.
Una volta che le porte dell’ascensore si richiusero Laura prese la parola.
-Come mai c’è tutto questo traffico?- chiese al ragazzo.
Lui fece una smorfia divertita di cui lei non afferrò il significato. Poi le
porse la mano.
-Innanzitutto sono Tom- si presentò.
-Laura, piacere-
-Bel nome- disse lui sorridendo. Sorrideva spesso in effetti. – comunque, tutto
questo “traffico” è colpa mia e dei miei amici. Le guardie del corpo sono qui
per noi.- rispose.
Allora era qualcuno famoso…
-Conosci i Tokio Hotel?- chiese lui. Laura si sentì improvvisamente in
imbarazzo.
-Ehm…no…dovrei?- disse. Il ragazzo rise.
-No no, va bene anche così. ad ogni modo…niente, i Tokio Hotel sono la band in
cui suono con mio fratello, e siccome alloggiamo in questo Hotel per i prossimi
giorni ecco spiegato il codazzo.-
L’ascensore si aprì sul quinto piano.
Il “codazzo”, come lo chiamava “Tom”, era ancora li.
Laura riconobbe subito il bodyguard che l’aveva spedita giù. Tom si fermò e le
mise una mano sul braccio.
-Chi era?- le chiese.
Laura lo indicò. –Quello li-.
Tom annuì. –Ok, aspetta qui eh…- disse. Laura annuì. Si guardarono.
Forse fu li che iniziò tutto.
Forse con quel brivido che entrambi avvertirono lungo la schiena.
Forse con quel sorriso.
Laura vide il ragazzo raggiungere il bodyguard e cominciare a parlarci assieme.
Entrambi erano accigliati. L’uomo le lanciò un’occhiata e Laura abbassò lo
sguardo.
Dopo poco li raggiunse la signora bionda con la cartelletta che Laura aveva
visto poco prima, che si unì alla conversazione.
L’uomo li lasciò dopo un minuto o due, poi Tom si fece dare qualcosa dalla donna
e tornò verso di lei.
-Ok, sistemato tutto. Adesso potrai scorrazzare liberamente nel corridoio-
disse, quel sorriso sempre sulle labbra.
-Grazie.- rispose lei –e scusa il disturbo.-
-figurati, nessun disturbo. Però, visto che non conosci ancora la mia band e
visto che ti ho difesa da quegli “armadi” come li chiami tu…- le porse due
rettangoli di carta dorata – devi venire a vederci stasera.-
Laura prese quelli che evidentemente erano biglietti e li osservò. Non sapeva
esattamente cosa dire.
-Sono in platea VIP. Puoi venire con un’amica, o con il tuo ragazzo. Facciamo un
paio di canzoni.- aggiunse indicando i biglietti.
-Perfetto! Grazie!- esclamò con un sorriso. –Però uno te lo ridò, sono sola-
-Ah…ok…- disse lui riprendendo un biglietto.- Beh quando arrivi mostra questo
biglietto all’ingresso e ti porteranno al tuo posto. Poi…- e si infilò una mano
in una delle tasche degli immensi jeans. Le porse un cartellino plastificato
attaccato ad un cordoncino rosso. Laura lo afferrò confusa. Tom le si mise
accanto e indicò il cartellino.
-Questo è un pass per il backstage. Quando finisce tutto puoi venire a trovarmi
per farmi i complimenti- disse. Laura rise.
-Va bene, ci sarò.- rispose. –Quando inizia tutto?-
-Alle 21.30 circa, ma si fa sempre un po’ di ritardo-
-Ok! Grazie ancora e…a dopo…- disse allontanandosi.
Tom le sorrise ancora.
-Ciao-
-Ciao-
Laura si immerse nel mucchio di omoni e ne uscì illesa dall’altra parte.
Quando chiuse la porta dietro le sue spalle si stava ancora chiedendo chi
fossero i Tokio Hotel.
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
-E quindi ci stai andando?-
-Si ho finito ora di prepararmi…-
-Ma dai! Ma ci pensi?! Bellissimo, è solo il secondo giorno e ti dai alla vita
mondana!-
-Ahah…si è pazzesco…vorrei ci fossi tu qui con me però. Ma non li conosci per
niente questi Tokio Hotel? Non puoi fare…non lo so…una ricerca in internet??-
-Tesoro ti stai dimenticando che sono da mia nonna…qui il massimo della
tecnologia sono gli accendini. Mmm…non lo so... comunque non mi è un nome del
tutto nuovo…però non mi ricordo quando e dove l’ho sentito. Dovremmo smetterla
di vivere fuori dal mondo io e te…-
-Forse è il caso effettivamente-
-Beh? Cos’hai messo?-
-mmm…niente di particolare…gli skinny neri, le mie ballerine nere e un bustino
nero…poi sopra metterò il cappotto…quello lungo…sulla coscia. Fa proprio
freddo...-
-Ottime scelte. Se è un posto chiuso dentro farà caldo. Sicuramente sarai
bellissima tesoro.-
-Ma smettila…-
-E lui com’è?-
Laura si guardò allo specchio vicino alla porta.
Aveva lasciato i capelli sciolti, e le cadevano lungo le spalle proprio come
quelli di sua madre.
-Lui...lui è carino…-
-Allora se dici che è carino…vuol dire che è bello!-
Laura rise e prese la borsa che aveva preparato con dentro biglietto, pass e
soldi per il taxi che aveva fatto chiamare dall’albergo.
-No, è solo carino. Tesoro ora vado, ti faccio sapere com’è andata con la band
misteriosa ok?-
-Va bene, ciao bacione.-
-Salutami tua nonna-
-ok! Ciao amo-
-ciao-
Laura conservò il cellulare in tasca ed uscì dalla camera.
La security era sparita dal corridoio.
Erano le 21.00…chissà quanto ci avrebbe messo ad arrivare.
Sulla guida che c’era in camera aveva scoperto che lo spettacolo si sarebbe
tenuto in un teatro…non riusciva ad immaginare che tipo di band suonasse in un
teatro.
Fuori faceva freddo, parecchio.
Salì nella macchina bianca parcheggiata all’uscita dell’Hotel. Erano le 21.13.
A quell’ora sua madre doveva essere a casa…
Continuavano a tornarle in mente le immagini del suo tentato suicidio…sempre.
Quella notte stessa le aveva sognate e durante tutto il giorno restavano li,
acquattate, nascoste dietro qualche angolo dei suoi pensieri, pronte ad uscire
alla prima occasione.
Si chiese quando quella tortura sarebbe finita, quando avrebbe smesso di
pensarci.
Forse mai era la conclusione più probabile.
Il tragitto in macchina fu breve, e solo quando il taxi si fermò dall’altro lato
della strada, rispetto all’entrata di quello che doveva essere il teatro, Laura
si accorse che l’edificio era cominciato parecchi metri prima.
Dall’altra parte c’era parecchia gente. Ogni tanto arrivavano limousine, si
fermavano, e la folla si spostava in una massa compatta. Solo al brillare dei
flash finalmente capì che doveva trattarsi di giornalisti.
-La lascio qui perché se mi avvicino mi mandano via- spiegò il tassista.
Laura annuì e pagò la corsa.
-Ma cos’è esattamente?- chiese prima di scendere.
-Una specie di galà della musica o qualcosa del genere…- rispose lui alzando le
spalle.
-Grazie, buonasera.-
-Buonasera-
Il taxi sfrecciò via e lei attraversò la strada. Da vicino capì che la folla non
era formata solo da giornalisti, ma c’erano anche parecchie persone ammassate
che le impedivano di vedere l’entrata.
La superò un uomo distinto, con un lungo cappotto nero e dei guanti di pelle.
Laura lo vide dirigersi verso la folla e fermarsi davanti ad un altro uomo in
smoking nero. Gli porse un biglietto e qualcuno lo venne a prendere, poi
scomparve risucchiato dalla folla.
La stessa cosa fece una coppia subito dopo di lui.
Laura li imitò.
L’uomo le chiese il biglietto in francese e a malapena la guardò in faccia.
Controllò che il biglietto fosse autentico e poi fece cenno ad un ragazzo li
vicino. Laura riprese il biglietto e lo seguì attraverso un passaggio nella
folla.
Si sentiva fuori posto, e le urla la mettevano a disagio, anche se ovviamente
non erano rivolte a lei.
Il ragazzo la guidò nel teatro. Era tutto più calmo li dentro, c’era lo spazio
sufficiente per camminare e niente flash, anche se le urla arrivavano ancora
alle loro orecchie.
Il ragazzo scostò le tende di velluto rosso dell’entrata e si fece da parte per
farla passare.
Il posto era davvero enorme. E bellissimo. Pieno di luci e drappi scarlatti. Si
rese conto di non aver mai visto un vero e proprio teatro in vita sua.
-La sua poltrona è nella fascia centrale, nelle prime file. Controlli il numero
del sedile prima di prendere posto cortesemente-
Laura ringraziò in francese e si diresse frastornata alla ricerca del posto. La
prima fila era così distante. Ovunque c’erano spettatori e tutti guardavano
impazientemente verso il gigantesco palco, illuminato a giorno e decorato da
archi bianchi.
Quando riuscì ad arrivare in platea VIP o quello che era, si rese davvero conto
di quanto fosse grande quel posto, e di quanto fosse vicina al palco. Forse Tom
l’avrebbe vista…
C’era già parecchia gente seduta e molti fissarono lo sguardo su di lei,
curiosi, mentre si dirigeva alla poltrona n.216, sul lato sinistro della platea.
Ma lei a malapena se ne accorse.
Prese posto e continuò ad ammirare il teatro. Dopo poco anche i posti accanto a
lei vennero occupati.
Quando le luci si abbassarono sulla platea scese il silenzio. Laura fissò lo
sguardo sul palco. Uscirono due presentatori, un uomo dai denti bianchissimi e
una donna bionda. Cominciarono a parlare velocemente in francese e qualche
parola le sfuggì, anche se riuscì ugualmente ad afferrare il concetto generale.
Era una sorta di festival della musica, come le aveva detto il tassista, con
ospiti importanti da quel che diceva la presentatrice. Laura vide le telecamere
sul palco solo dopo 10 minuti. Evidentemente l’avvenimento era trasmesso anche
in tv.
Dopo un’introduzione un po’ prolissa il presentatore annunciò il primo gruppo.
Sul palco salirono gli “Arctic Monkeys”. Era un gruppo che ascoltava Monica.
Laura sorrise pensando a cosa avrebbe detto l’amica quando gliel’avrebbe
raccontato.
Dopo il primo gruppo si susseguirono sul palco una serie di artisti. Ci furono
un paio di cantanti più tranquilli e altri gruppi sul pop-rock. Si vedeva che
era uno spettacolo dedicato a “gente perbene”.
Fu verso la fine che la band di Tom fece la sua comparsa sul palco.
La presentatrice li annunciò come il pezzo forte della serata. I Tokio Hotel.
Qualcuno dietro urlò. Erano voci di ragazze.
Poi calarono le luci, diventò quasi buio. Nella sala si accese un brusio
educato. Dal suo posto riusciva a vedere delle sagome muoversi sul palco.
Poi sentì il primo riff di chitarra. Le luci si accesero, bianche e blu, e sul
palco apparvero quattro ragazzi.
Riconobbe subito Tom, era vicinissimo a lei, concentrato sulla sua chitarra e
vestito esattamente come l’aveva visto poche ore prima.
Al centro del palco c’era una strana figura. Un ragazzo, magro, vestito di nero,
jeans stretti e bassi, stivali a punta. Aveva il viso pallido, dai tratti
delicati e regolari. I capelli erano lunghi fino alle spalle, lisci, neri. Era
truccato, molto truccato, ma in qualche modo tutto quell’ombretto nero che aveva
sugli occhi non sembrava “strano”. Non su di lui.
Portò le mani sottili al microfono, le unghie smaltate di nero, e cominciò a
cantare.
Ipnosi.
Come altro definire quello che provò?
La musica si confuse con i pensieri. Si mescolò al sangue. Le penetrò dentro,
nella carne, nelle ossa.
Per pochi minuti non pensò a nulla. Sollievo, immenso, agognato sollievo.
Poi la canzone finì. Ci fu un applauso abbastanza lungo e degli urletti,
probabilmente sempre da parte delle stesse ragazze di prima.
Il cantante sorrise e lei capì che somigliava troppo a Tom. Erano…uguali.
Anche Tom sorrideva.
Il cantante disse qualcosa in francese stentato e Laura notò gli altri due
componenti del gruppo. Uno si trovava sul lato destro, aveva capelli lunghi e
lisci, e teneva tra le mani un basso a scacchi bianchi e neri. Il batterista
aveva un viso da bambino e corti capelli biondi.
Quando il cantante si interruppe attaccarono con un’altra canzone. Una ballad,
dolce, triste.
Bellissima.
Di nuovo quella sensazione di piacevole smarrimento misto a tristezza.
Laura ascoltava tanta musica, forse troppa, e c’erano pochi artisti che
riuscivano a risvegliare in lei strane e piacevoli emozioni.
Ma quella volta era diverso. C’era un qualcosa in più che non riusciva ad
identificare, a spiegare. E forse non le interessava.
Le piaceva, e poteva bastare.
Quando l’esibizione finì ci fu un applauso.
Poi i Tokio Hotel scomparirono.
I presentatori risalirono sul palco, ci furono dieci minuti buoni di
ringraziamenti e convenevoli, poi lo spettacolo finì in un applauso.
Le persone cominciarono ad alzarsi lentamente e a dirigersi verso le uscite.
Laura adocchiò le entrate per i dietro le quinte e vi si diresse.
C’era n piccolo capannello di gente che pian piano smaltì. Anche lei come gli
altri dovette esibire il pass agli addetti alla security per poter accedere.
Dietro le quinte si sentì un po’ sperduta. C’era un gran via vai di giornalisti
e artisti, cameraman, vari staff. E sembrava tutto troppo grande.
Poi finalmente vide Tom assieme agli altri. Stavano firmando degli autografi.
Si fermò ad una certa distanza da loro, ad aspettare che finissero. Si sentiva
tremendamente in imbarazzo e non riusciva a capire perché.
Osservò il cantante. Sorrideva e diceva qualcosa ad ogni autografo o foto. Anche
il bassista sorrideva e parlava con Tom. L’unico a restare impassibile era il
biondino dai capelli corti.
Fu Tom ad accorgersi della sua presenza.
Firmò l’ultimo autografo e poi le andò incontro sorridendo.
-Ah! Sei venuta- disse.
-Avevo detto di si e si è stato- rispose lei.
-Giusto. Beh che ne pensi? Come abbiamo suonato?- le chiese.
-Siete bravissimi- disse sincera.
Tom sorrise.
-Bene sono contento. Vieni, ti presento agli altri- le appoggiò un braccio sulla
schiena e la guidò verso i tre ragazzi, che ormai li guardavano incuriositi.
-Questo è Gustav, la salma del gruppo-. Il biondino impassibile le diede la mano
con un sorriso indecifrabile.
-Piacere Laura-
-Lui è Georg, non guardargli troppo i capelli, potrebbero spettinarsi.- Gustav
rise, Georg le strinse la mano con un’espressione del tipo “lascialo perdere”.
-E lui è Bill, mio fratello, logorroico fino alla morte.-
Bill la guardò un po’ perplesso e le strinse la mano. Non sembrava molto
socievole.
-Ha detto che siamo “bravissimi”.- disse Tom.
Gustav sorrise, anche Georg, Bill a malapena.
-Non ci conoscevi?- chiese Georg.
-No veramente no…- rispose lei.
Perché si aspettavano per forza un si?
-Ah questo è un male- disse Gustav. Quindi parlava. Sembrava anche simpatico.
-Beh mi sembra di aver posto rimedio oggi- gli sorrise, Gustav annuì.
-Laura alloggia nel nostro stesso Hotel- disse Tom – l’ho conosciuta grazie Tobi.
Ha cercato di cacciarla dall’Hotel perché pensava fosse una fan.-
Cominciarono a parlare del più e del meno. Lei, Gustav, Georg e Tom. L’unico a
non dire quasi nulla fu Bill, per tutto il tempo.
Bill incrociò le braccia e osservò la scena.
Era quasi assurdo il modo con cui suo fratello rimorchiava. Gli bastava partire
da una sciocchezza, attaccare bottone innocentemente, per finire in un letto
qualsiasi con una ragazza qualsiasi.
Tom sapeva che a lui dava fastidio, ma non per questo aveva mai smesso di farlo.
E anche quella sera ne aveva raccolta un’altra. Almeno era circa una settimana
che non succedeva…ma era solo perché erano stati continuamente in viaggio. Il
guasto al tourbus li avrebbe costretti a rimanere li per almeno quattro giorni,
e il suo fratellino si stava già dando da fare al primo.
La ragazza di quella volta era bella, oggettivamente.
Aveva un viso dolce, tratti regolari, una pelle diafana su cui spiccavano le
labbra rosa intenso, carnose, e gli occhi erano particolari. Di un colore che
non riusciva ad identificare.
Ma Bill non la poteva soffrire, a prescindere.
Non poteva odiare suo fratello, ma poteva odiare tutte le poco di buono che ci
andavano a letto solo perché rappresentava un’idea, un simbolo.
Gli altri stavano parlando. La ragazza era loquace, parlava con Gustav e Georg
in modo spontaneo, e Tom la guardava, intervenendo ogni tanto. Aveva una faccia
strana.
Bill alzò gli occhi al cielo.
-Ragazzi andiamo.- la voce di Saki per una volta gli arrivò gradita alle
orecchie.
I ragazzi interruppero la conversazione.
Gustav e Georg salutarono la ragazza. suo fratello invece si fermò ancora un
attimo a parlottare con lei. Bill vide che si scambiavano i numeri di cellulare.
Tom era un coglione. Almeno in quello specifico frangente.
Poi la ragazza salutò tutti e se ne andò. Suo fratello sorrideva. Probabilmente
stava già pensando a quello che sarebbe successo di li a un’ora.
Lo staff era pronto. Presero le uscite del retro e salirono nei van senza venire
disturbati da nessuno.
Bill sospirò. Voleva riposare. Era stanco, giorni e giorni di seguito a cantare
e a dover saltare sul palco. Voleva silenzio. Ma i suoi compagni non sembravano
essere d’accordo.
-Cazzo Tom, le trovi tutte tu!- sbuffò Georg appoggiando la testa al sedile.
Tom non rispose. Guardava fuori dal finestrino. Gustav batteva il tempo sulle
ginocchia.
-Non ha un’amica? Una sorella?...oppure potresti condividerla con me, dopo che
hai fat…-
Bill si schiarì la voce rumorosamente.
-Si può sapere che ti prende?- chiese Tom ignorando Georg.
Bill alzò il sopracciglio. Sapeva che suo fratello non sopportava quando lo
faceva.
-Niente- mentì. Voleva infastidirlo, deliberatamente.
Tom lo guardò.
-Allora potevi essere un po’ più gentile con quella ragazza stasera.- disse.
Bill guardò fuori dal finestrino oscurato. Monaco scorreva illuminata, elegante.
-Penso che sarai abbastanza gentile tu per tutti e due.- rispose laconicamente.
Georg rise. Gustav fece finta di non aver sentito, sapeva che mettere becco in
un litigio tra i gemelli era poco intelligente.
-Simpatico. Perché non la finisci di fare lo stronzo per un po’? Non sapeva
nemmeno chi eravamo. Le avrai fatto proprio una bella impressione…pomposo
coglione. Fermo lì, con l’aria da snob…-
-Senti ma che ti frega? Quella non la conosci nemmeno e dopo stasera la
saluterai. Fine. Non penso che si preoccuperà del fatto che io sia stato
simpatico o meno nella vostra “intimità”.-
Tom tacque.
Aveva vinto lui, ma chissà perché ogni volta che ci riusciva non provava nessuna
soddisfazione.
Il resto del tragitto lo passarono in silenzio.
Quando arrivarono in Hotel Bill si pentì di essere stato così scontroso con il
fratello. Ma sentiva di avere tutte le sue buone ragioni, e non aveva nessuna
intenzione di andare a chiedergli scusa. Così lo lasciò entrare nella sua camera
senza dire una parola. Tom fece lo stesso.
|
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
TOC TOC
Laura si voltò. Stava per infilarsi nelle coperte.
Era stanca, ma stranamente di buon umore. Non aveva pensato a sua madre per
tutta la sera, almeno durante lo spettacolo.
Si diresse alla porta.
Aprì appena e i suoi occhi incontrarono quelli di Tom.
-Ciao…-sussurrò.
-Ciao…-rispose lei presa alla sprovvista. Che ci faceva li?
-Posso entrare? Se Saki mi becca qua’ fuori sono casini- disse sorridendo.
-Ma…sono in pigiama…stavo andando a…- cercò di spiegare. Ma Tom si intrufolò
dentro e chiuse la porta.
-Fa niente! Non ti preoccupare!- disse.
Calò il silenzio.
Laura restò gelata, nel suo pigiama bianco che doveva avere qualche orsacchiotto
sparso qua e la. Tom si dondolava avanti e indietro. Sembrava indeciso.
-Ehm…- si schiarì la voce – ti va di andare a fare una passeggiata?- chiese
alzando le spalle. Poi si mise a ridere. Laura lo seguì a ruota. Tutta la
situazione era assurda, tanto che non poté rifiutare.
-Va bene, mi metto qualcosa addosso e andiamo…- rispose.
Poi si spostò nella camera accanto e sentì Tom seguirla.
-ehm…tu devi aspettare di la però…- gli disse. Lui fece una faccia buffa.
-Giusto!- si voltò e tornò indietro.
Laura chiuse la porta. Sorrise tra se e se. Senza motivo. Sentiva qualcosa in
fondo allo stomaco.
Afferrò i jeans, una maglietta e una felpa qualsiasi e ci entrò dentro. Tornata
nell’altra camera trovò Tom che spiava nel corridoio del loro piano.
Raccolse il cappotto e se lo infilò.
-Ok, possiamo andare- disse. Il ragazzo tirò dentro la testa con un sorriso.
Uscirono nel corridoio in punta di piedi. Laura fece per chiamare l’ascensore ma
Tom la fermò.
-No!- sibilò –preferisco non farmi vedere…non c’è un altro modo?- le chiese.
Laura si guardò intorno. Poi vide l’uscita d’emergenza.
-Passiamo di la-
Tom la seguì attraverso la porta e poi giù per le scale.
Laura non sapeva dove stavano andando, ma prima o poi un’uscita doveva pur
esserci.
E infatti nemmeno due minuti dopo sbucarono nella strada sul retro.
Tom le sorrise.
-Grazie- le disse parlando in tono normale.
Cominciarono a camminare senza una meta.
-Come mai non vuoi che ti veda…Saki, giusto?- gli chiese.
Tom infilò le mani nelle tasche del cappotto bianco. La sua migliore amica lo
avrebbe definito “tamarro”, ma addosso a lui stava bene.
-Perché Saki è la nostra guardia del corpo personale…e mi sta addosso come una
carogna. Non vuole che io vada in giro senza di lui- rispose.
-E perché?!- chiese confusa.
-Beh ha paura che le fan possano aggredirmi- disse Tom come se fosse una cosa
ovvia.
-Stai scherzando?-
-Oh no, in effetti non ha tutti i torti…Però ci sono le eccezioni. Ad esempio
adesso è mezzanotte passata, quindi non credo di correre rischi…-
Ne parlava con tono calmo, come se fosse una cosa normale.
-Siete così famosi?-
Tom rise.
-Si abbastanza, ci conoscono un po’ tutti ormai…a parte te-
-Ma io non faccio testo, non seguo praticamente nulla…non guardo nemmeno la
tv…quindi direi che sono l’unico caso umano che hai incontrato.- disse Laura.
-Mmm..non so se questa è una cosa positiva o no…-. Tom la guardò.
-Secondo me si. Vedila in questo modo: potrai dirmi tutte le idiozie che vorrai,
e io mi dovrò limitare a crederci!-
Risero e imboccarono un’altra strada.
-Beh raccontami qualcosa…di te, dei tuoi amici...dei Tokio Hotel- disse Laura
soffiando nelle mani. Faceva un freddo cane.
-Intervista o interrogatorio?-
-Intervista-
Tom le raccontò tutto. Dall’inizio alla fine, mentre camminavano per le strade
di una Monaco pulita, addormentata, fiocamente illuminata.
Laura lo ascoltava, lo guardava.
Dalle sue parole trasparivano tante cose. La passione per la musica, il
desiderio di esibirsi e impressionare, di piacere, l’attaccamento per il suo
gruppo. Ma soprattutto l’affezione profonda che nutriva per suo fratello, Bill,
che Laura scoprì anche essere suo gemello identico.
Era una persona sincera, ma anche parecchio impulsiva.
Parlarono per ore. E quando finirono gli argomenti continuarono a parlare di
niente, vagando, perdendosi in percorsi sconosciuti.
Poi a Laura venne il malaugurato istinto di guardare il cellulare.
Si bloccò.
-Ehi! Sono le 3.37!- esclamò.
Tom si fermò. Si guardarono per un attimo.
-Che facciamo?- chiese Laura.
-Torniamo indietro!- rispose lui ridendo.
-Si ma non so nemmeno dove siamo adesso!- disse lei a metà fra il preoccupato e
il divertito.
-Nemmeno io! che problema c’è?! Basta rifare la strada che abbiamo fatto per
arrivare qui…solo…al contrario…- ma a metà frase anche lui sembrava aver intuito
che non sarebbe stato così facile come pensava.
Si avviarono pieni di buona volontà, ma ogni due per tre si trovavano in una
strada nuova e dovevano improvvisare il tragitto.
Passarono la metà del tempo ad incolparsi a vicenda e l’altra metà a ridere
senza motivo.
Riuscirono a ritrovare la strada per l’Hotel che ormai erano le quattro e un
quarto passate.
Risalirono le scale d’emergenza e sbagliarono piano. Fu solo al terzo tentativo
che trovarono quello giusto.
Tom la accompagnò alla sua porta, stavano ancora ridacchiando.
Si fermarono entrambi li davanti.
-Grazie per la bella serata- disse Laura.
-Grazie a te, ne avevo bisogno- disse Tom.
-Anche io-
Laura infilò la mano in tasca per cercare la chiave.
Poi sentì la punta di un naso freddo che si appoggiava sulla sua guancia e
labbra incerte.
Alzò lo sguardo.
Tom le sorrise.
Un bacio a tradimento. In quel momento non le sembrò strano, dopotutto era solo
un bacio sulla guancia. Ma l’aveva percepito come qualcosa di più. Aveva sentito
lo stesso una morsa che le chiudeva lo stomaco.
Sorrise.
Non sapeva che quel sorriso avrebbe fatto innamorare Tom Kaulitz. Il diciottenne
che si portava addosso l’etichetta di donnaiolo incallito, il chitarrista dei
Tokio Hotel, la band del momento, il ragazzo per cui migliaia di adolescenti e
non impazzivano quasi letteralmente.
Non sapeva che stava confondendo Tom Kaulitz, che per la prima volta aveva solo
desiderato parlare con una ragazza. Solo parlare e non fermarsi mai. Gli metteva
addosso una strana soggezione, la stessa soggezione che aveva trasformato un
bacio vero in uno stupido bacio sulla guancia, all’ultimo secondo…una cosa da
bambini. In quel momento Tom si chiese se tutti l’avessero visto cosa avrebbero
pensato. Ma allo stesso tempo sapeva che la risposta non gli interessava. Scoprì
che non gli interessava più nulla. E non era preoccupato, non era teso…era
leggero. Piacevolmente perso in quelle strane cose che suo fratello Bill
chiamava “emozioni”, e che lo avevano sempre fatto ridere scettico.
-Dannazione- esclamò Laura frugando nelle tasche.
-Cosa succede?- le chiese Tom preoccupato.
-Ho lasciato la chiave della camera dentro la stanza, quando siamo usciti-
rispose lei appoggiandosi pesantemente alla porta.
-Non ne hanno un duplicato da qualche parte?- disse Tom.
-Si…ma la reception non apre prima delle sei.-. Laura chiuse gli occhi. Solo in
quel momento realizzò di morire dal sonno.
-Non c’è problema! Vieni in camera da me. Poi domani mattina recuperi le tue
chiavi.- disse Tom con fare spontaneo.
Laura lo guardò. E Tom sembrò capire perché.
-No, non ci sto provando con te, e non ci proverò, credimi. Voglio solo
ricambiare il favore che mi hai fatto accompagnandomi a fare due passi.-
specificò.
Laura si fidò. Forse se non fosse stata così stanca avrebbe rifiutato, ma
sentiva le gambe troppo pesanti.
-Ok- sbadigliò.
Si fece guidare da Tom alla camera. Era identica alla sua, solo con un letto
singolo.
Laura si sfilò il cappotto e le scarpe e si buttò sul materasso, dimentica di
ogni bon ton.
Tom rimase piacevolmente sorpreso davanti a quella scena. Doveva essere davvero
stanca.
-Svegliami quando è ora Tom- mormorò Laura con gli occhi semiaperti.
-Va bene- rispose lui.
Quasi non osava respirare. Ma perché? Cosa c’era di diverso in lei? cosa?
Dopo un minuti Laura si addormentò su un fianco. I capelli color miele sparsi
sul cuscino, le mani affusolate abbandonate sul lenzuolo.
Tom restò li, immobile, a guardarla dormire.
Perse la cognizione del tempo, e anche quando la stanchezza lo sopraffece non
osò andarle accanto. Si accasciò su una poltrona e continuò a guardarla
respirare piano, le labbra socchiuse, fin quando le palpebre si serrarono. |
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
-TOM-
Bill bussò ancora alla porta.
-TOOOM- urlò per l’ennesima volta.
Erano le 10:45 e suo fratello non aveva ancora dato segni di vita. Stava
bussando alla sua camera da almeno cinque minuti.
In preda al nervosismo diede un colpo più forte alla porta...
…e quella si aprì.
Bill rimase con il braccio bloccato a mezz’aria. O suo fratello aveva
dimenticato di chiudere la porta, o peggio qualcuno poteva essere entrato. Bill
propendeva fortemente per la prima ipotesi, e quindi sospettava anche cosa
avrebbe trovato dentro. Ma era meglio essere disgustato dalle abitudini di suo
fratello che rischiare l’intervento di Saki.
Non aveva voglia di sentire altri sermoni sulla mitomania, che erano
giustificati, ma anche tanto pesanti.
Si intrufolò nella camera silenziosa.
Aspettava di vedere chissà che cosa, invece la scena che trovò davanti ai suoi
occhi lo colse…impreparato? Confuso?
Sul letto di Tom era rannicchiata la stessa ragazza della sera prima, dormiva,
completamente vestita. Suo fratello russava sulla poltrona di fronte ai piedi
del letto, la bocca semiaperta.
Cosa significava?
Restò un po’ impalato li, senza sapere esattamente cosa fare.
Svegliare lui? Svegliare lei?
A toglierlo dall’impiccio fu la ragazza.
Bill la vide aprire piano gli occhi e guardarsi intorno spaesata. Poi si accorse
di lui. Doveva sembrare un deficiente in piedi in mezzo alla stanza.
Lo osservò per parecchio istanti, come cercando di ricollegare i pensieri.
Poi inarcò le labbra in un sorriso stanco.
-Ciao- sussurrò.
-Ehm…ciao- rispose lui.
Silenzio. La ragazza si sollevò piano e si mise a sedere. Si accorse di Tom che
dormiva sulla poltrona e arrossì lievemente. Poi rise tra se e se.
Riportò l’attenzione su di lui.
-Sono…sono venuto per svegliare mio fratello. È tardi e nessuno lo vedeva da
ieri sera…ho trovato la porta aperta…- cercò di spiegare. La ragazza annuì e si
alzò.
-Si immagino. Siamo tornati tardi ieri sera e io ho dimenticato le chiavi nella
mia stanza…così tuo fratello è stato così gentile da prestarmi il suo letto.- la
ragazza infilò le scarpe – doveva essere davvero stanco anche lui se ha
dimenticato di chiudere la porta.- disse avvicinandosi. Aveva i capelli
arruffati.
-Puoi ringraziarlo da parte mia quando si sveglia?- gli chiese.
-Si…ok…- rispose.
La ragazza gli restituì un sorriso e strizzò gli occhi.
-Grazie Bill…bei capelli- disse soltanto. Poi se ne andò.
-A che ora siete tornati?-
-Alle quattro passate…-
-E avete fatto solo una passeggiata?!-
-Cazzo Bill è la quarta volta che me lo chiedi. Si! Abbiamo fatto solo una
passeggiata! Dio ha dato le gambe anche a me.-
Tom ingoiò l’ultimo sorso di coca che c’era nel bicchiere.
Le persone normali la mattina, per svegliarsi, bevevano il caffè. Ma suo
fratello no. No, lui beveva la coca cola.
Bill cercò di indagare oltre i grossi occhiali scuri che portava Tom se era
sincero o no, ma era un’impresa impossibile. Si arrese, decise di crederci.
Si appoggiò allo schienale del divano. Si trovavano in una delle stanza private
dell’Hotel, da soli. Gustav e Georg erano andati a fare un giro per Monaco.
Dopotutto per loro era molto più facile camuffarsi e non potevano esserci troppe
fan in giro. Al massimo qualche fotografo.
Lui era rimasto a fare compagnia a Tom, a cui a quanto pareva era bastata la
passeggiata di quella mattina.
-Che cosa avere fatto?-. Bill ripartì alla carica.
-mmm…vediamo…di solito tu durante le passeggiate cosa fai? Oh! Aspetta!
Cammini!!!- esclamò suo fratello con sarcasmo. Bill alzò il sopracciglio destro.
-Spiritoso. Intendo otre a camminare- specificò stizzito.
-Te l’ho già detto. Abbiamo parlato tanto.- disse suo fratello con tono stanco.
Bill incrociò le gambe. Suo fratello che passava una notte intera con una
ragazza così e ci parlava soltanto?
Doveva avere una faccia perplessa perché Tom sbuffò.
-Che c’è che non ti convince? Me lo spieghi?—si sfilò gli occhiali da sole.
Aveva ancora gli occhi pieni di sonno, nonostante fosse già mezzogiorno passato.
-Nulla…solo mi sembra un po’ strano..- rispose.
-Perché strano? Avevo voglia di parlare con questa ragazza, capisci?
Semplicemente parlare, senza nessun secondo fine. Perché quando le faccio io
queste cose dovete rimanere tutti scioccati?- chiese irritato il fratello.
-Beh dai ammettilo..all’inizio un secondo fine dovevi pur averlo…e poi tu hai
sempre…- cominciò.
Tom si alzò.
-Mi hai rotto Bill. Credi di essere l’unico qui con dei sentimenti? delle
emozioni? Perché? Perché io non posso? Perché pensi che mi sia avvicinato a
quella ragazza solo per portarmela a letto?- suo fratello scosse la testa e si
diresse verso la porta. Sulla soglia si voltò.
-Per la prima volta nella mia vita ho guardato una ragazza senza desiderare
altro che parlarle Bill. Mi è bastato vederla accanto a me, sentire la sua
voce…è stato…strano…bello. E vorrei che mio fratello mi credesse. Almeno lui.-
Tom se ne andò sbattendo la porta.
Bill rimase gelato, afflosciato sul divano. Fissò lo sguardo nel vuoto.
Era davvero il Tom che conosceva lui ad aver detto quelle parole pochi istanti
prima?
Il Tom che era finito sulle prime pagine di tutti i giornali scandalistici
mentre, ubriaco, palpava una bella francesina?
Che cosa gli era successo in quelle ultime 24h?
Laura sorseggiò il cappuccino. Guardò fuori
dall’ampia finestrata che dava sulla città. le sembrava di essere in un altro
mondo, un mondo di cui non faceva parte, ma in cui era piacevole veder passare
il tempo e trascorrerlo. Poco più di una settimana prima era in ospedale a
chiedersi se sua madre sarebbe morta o no. Ora si trovava in un albergo di
lusso, aveva assistito ad uno spettacolo da vip e stava facendo la sua
colazione, tranquilla.
Ma quegli attimi sapevano di amaro, un sapore che lei non voleva sentire. Scosse
la testa, soffocò i lembi di pensieri contorti che già cominciavano a scivolarle
davanti agli occhi.
Non le interessava sapere cosa avrebbe fatto quando quelle due settimane
sarebbero finite. In quel momento non voleva concentrarsi su nulla.
Posò lo sguardo sulla sala. Non c’era nessuno, ma non si meravigliò. Dopotutto
erano le 11:30 passate.
Quella mattina aveva parlato con il fratello di Tom, Bill. Le era sembrato
confuso. Ma in effetti aveva tutte le sue buone ragioni per esserlo. A Laura
avevano fatto sorridere i suoi capelli che, al contrario della sera prima, erano
diventati una sorta di cresta di leone. Che tipo strano.
Sorseggiò ancora un altro po’ di cappuccino. Attraverso gli occhiali da sole
vide la sagoma di Tom passare davanti all’entrata che dava sul corridoio del
piano. Si voltò in fretta, lo stomaco di nuovo stretto in una morsa
adolescenziale. Con la coda dell’occhio lo vide spiare di nuovo nella sala ed
entrare. Fece finta di non essersi accorta di nulla, fin quando Tom non arrivò
al suo tavolo.
-Buongiorno- disse sedendosi di fronte a lei. Il solito sorriso stampato sul
viso.
-Buongiorno!- ricambiò lei fingendo di vederlo solo in quel momento.
-Come ti senti? Riposata?- le chiese.
-Ehm…veramente…-
-…Stai ancora morendo dal sonno vero?- finì Tom. Laura rise. –Non ti
preoccupare, anch’io-.
-Ah, a proposito, scusami per stanotte. Ti ho occupato il letto e ti ho
costretto a dormire su quella poltrona striminzita. Sono stata una gran
maleducata. Cioè…solitamente non sono così ma ieri sera…-
-Nessun problema, figurati! Sono io che ti ho costretta ad uscire! Davvero, non
ti devi preoccupare! Se mi avesse dato fastidio ti avrei buttata giù dal letto.-
la interruppe Tom.
Laura fece per rispondere quando…
Il cellulare sul tavolo si illuminò e vibrò, facendo tintinnare il cucchiaino
poggiato dentro la tazza del cappuccino. Laura lo prese subito in mano.
Appena sentita la suoneria metallica aveva capito chi era. Ma ora continuava
ugualmente a guardare lo schermo, cercando di dare tutt’altro significato a
quelle lettere in pixel che vi comparivano. Eppure era quel nome che continuava
ad apparire ad intermittenza.
Mamma
Spense velocemente il cellulare e lo mise in tasca. Tom la guardava perplesso.
-C’è qualche problema?- le chiese preoccupato. Doveva essere sbiancata.
-No, no. Non è niente- rispose lei piano.
Cosa voleva dire quella chiamata?
Sua madre si era accorta solo ora che mancava da casa?
O era successo qualcosa?
-Sicura? Perché non sembra…- insistette Tom.
A trarla in salvo dal suo interrogatorio fu una voce.
-Ciao-
Laura e Tom alzarono lo sguardo su Bill, che si stava sedendo al tavolo con
loro. Laura fece in tempo ad intercettare l’occhiata strana che Tom lanciò al
fratello. Bill o non se ne accorse, o fece finta di nulla. Prese pane e burro
dalla coppa al centro del tavolo e cominciò a prepararsi lo spuntino.
Laura lo guardò. Non fosse stato per la marea di angosce che le erano tornate in
testa avrebbe trovato la cosa divertente. Non sembrava il tipo da pane e burro
alle dodici di mattina, o almeno non con quel girovita.
-Beh cosa farai questa mattina?- chiese Tom ignorando il fratello. Anche con
tutto il subbuglio che aveva dentro, Laura capì che tra i due era successo
qualcosa.
-Non lo so, penso che tra poco tornerò a dormire…- bugiarda. Dillo, dillo che
la chiamerai appena sarai dietro quella porta. Dillo che non ce la fai.
Ammettilo.- Poi magari uscirò per trovare un ristorante dove mangiare-
No, non la chiamerò. Non lo farò. Ho deciso che non l’avrei fatto e così sarà.-…e
voi?- disse.
Fu Bill a rispondere.
-Chiusi in Hotel per il resto della giornata…perché non vieni a trovarci
stasera? Ci riuniamo tutti in camera di Tom…Saki permettendo-
Laura guardò Tom. No, non voleva. Non aveva voglia di stare con nessuno. Ma
sapeva che da sola avrebbe fatto quello che si era ripromessa di non fare.
-Già, è una bella idea…- disse lui. Sorrideva di nuovo. Poteva dire di no,
poteva lasciare stare tutto. E forse la storia non sarebbe mai cominciata
davvero. Ma ancora una volta, fu sua madre ad influenzarle la vita.
-Ok!- rispose. I ragazzi sorrisero.
Quel giorno, dopo un po’ di chiacchiere inutili, Laura se ne andò.
La sera stessa rispettò l’impegno e tornò nella loro camera.
E così fu per il giorno dopo, e per il giorno dopo ancora. Laura scoprì che
erano bloccati li per un guasto al tourbus. Fece loro compagnia per quei quattro
giorni che passarono in Hotel.
Era uno strano rapporto casuale quello che era nato. I ragazzi l’avevano
accettata. Con loro giocava a carte, guardava la tv, parlava. Georg e Gustav
erano simpatici. Bill per la maggior parte del tempo restava seduto da qualche
parte ad osservarli. Laura se n’era accorta perfettamente, ma non le
interessava. Era riuscita anche a superare la perquisizione di Saki.
Lei e Tom passavano più tempo insieme, scherzavano più degli altri, ma non erano
rimasti soli da quella passeggiata.
Per Laura era tutto così strano…così surreale. Ma aveva bisogno di loro, di
quella distrazione dai contorni fittizi. Ne era dipendente. O con loro, o in
camera, davanti alla finestra, a piangere e a tormentarsi per ore, con in mano
il guscio rigido del suo cellulare.
Era riuscito a spegnerlo davvero, e non l’aveva acceso più.
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
Il quinto giorno, la mattina, qualcuno bussò
deciso alla sua porta.
Laura si alzò. Non stava dormendo, era sveglia da un bel po’. Ma era comunque a
letto, ed erano le 8:30.
Fuori dalla porta c’era Tom. Non aveva una faccia felice. Il suo solito sorriso
era scomparso.
Laura capì, ancora prima che parlasse.
-Il tourbus è pronto. Ripartiamo stasera- disse.
Si guardarono.
Laura annuì e sorrise. aveva trascorso quattro bei giorni, aveva pensato il più
possibile a svagarsi e a dimenticare. Forse era tanto, tanto anche così.
Ma Tom era strano.
-Tu cosa farai?- le chiese.
-Io aspetterò che finiscano le due settimane. Poi…non lo so…starò via finché
finiranno i soldi.- rispose alzando le spalle.
Tom annuì a scatti.
-Ok allora..magari dopo vieni a salutare gli altri…- disse.
-Ok…-
-Ci vediamo dopo allora…-
-Si…-
-Ciao…-
-Ciao-
Laura chiuse la porta. Sentiva le prime avvisaglie di un’acerba malinconia.
Le era piaciuta quella nuova presenza nella sua vita. Seppure per poco. Seppure
assurda.
Bill, Gustav e Georg spalancarono la bocca. Probabilmente sarebbero cascati per
terra se non fossero stati già seduti sul comodo divano della suite.
-Ti sei fatto una canna?- chiese Georg scioccato.
-Dici sul serio Tom?- domandò Gustav pacatamente, come il suo solito.
-Tu dai di matto- affermò Bill bruscamente.
Tom li guardò tutti e tre.
-Ma perché?! Cosa c’è di così sbagliato?!- chiese.
-Tom…la conosci da DUE giorni. Anzi saremmo più precisi dicendo che non la
conosci affatto. Per niente! E adesso te ne esci fuori dicendo: “Oh si, perché
non portiamo Laura in tour con noi?”. Ti aspettavi davvero che ti saltassimo
intorno felici?- chiese Bill alzando il sopracciglio.
Tom ammutolì. Bill era sempre più sconcertato. Non era da suo fratello
ammutolire. Non era da suo fratello fare una richiesta del genere. Ma vederlo
così, inerme, gli fece tenerezza.
-Vieni con me dai- disse dirigendosi verso la porta della camera. Tom lo seguì
in silenzio. La sua solita camminata. Georg e Gustav non dissero nulla. Era
frequente che i fratelli parlassero a quattr’occhi. Spesso bastava quello per
risolvere i problemi.
Salirono in terrazza.
-Ci hai pensato prima di chiederci quello che hai chiesto? Ci hai pensato sul
serio?- disse Bill a Tom. Suo fratello socchiuse gli occhi per il sole.
-Non lo so…-
-Tom che cazzo significa non lo so? Non lo so non è una risposta.- Bill non era
pronto ad accettare quello che sospettava fosse successo. –Perché vuoi che venga
con noi?- chiese.
Tom lo guardò. La risposta c’era già. Era li, nei suoi occhi.
-Non lo so…Non voglio non rivederla più. Lo sai che è così. Abbiamo troppo poco
tempo…è impossibile riuscire a…e a me è sempre andato bene così…ma…- suo
fratello guardò altrove.
-Ma…?- lo spronò Bill. Era evidente che stava facendo uno sforzo immenso a
parlarne.
-Ma stavolta no. Non voglio salutarla. Non voglio darle il mio numero e
continuare a sentirci per le solite tre o quattro settimane, e poi passare ad
un’altra…stavolta è diverso…-
Si guardarono per parecchio. In silenzio. Si erano già capiti. Spesso e
volentieri le parole tra loro erano pura formalità. Bill sospirò.
-Sei sicuro? Tom non stiamo parlando di una notte. Non sai se ha una famiglia,
non sai se ha un ragazzo. Lei non sa niente di te e tu le chiederai di seguirti.
Non sembra una cattiva ragazza…non farle del male-
Silenzio.
-Lo sai che potrebbe mandarti a quel paese vero? Lo sai che al 90% ti manderà a
quel paese…?- gli disse. Non era il momento di essere delicati.
Tom annuì.
-Lo sai che convincere David e Saki sarà impossibile?-
Tom annuì.
-Mi aiuterai?- gli chiese.
Bill abbozzò un sorriso.
-Certo che si-
I fratelli attaccarono assieme Saki. Bill non
era per nulla convinto di quello che stavano facendo, ma Tom ci teneva troppo
perché lo lasciasse solo, e poi era lui quello più bravo con le parole.
Convincere Saki fu difficile e snervante. Il bodyguard prima rise, poi si fece
torvo. La parte più fastidiosa fu quando si mise ad urlare. Li trattava come due
bambini, sempre.
Tom e Bill reagirono insieme e nacque un vero e proprio alterco. Bill costrinse
Saki a chiamare David.
La reazione di David fu la stessa. Prima si mise a ridere, poi quando capì che
non era uno scherzo la sua voce si fece seria.
Chiese chi era la ragazza, se era maggiorenne, come l’avevano incontrata. Li
seppellì di domande strane, entrambi, sotto lo sguardo furente di Saki. Poi
volle parlare prima solo con Tom e dopo solo con Saki.
Discussero a lungo.
Quando Saki chiuse il telefono aveva un’aria scettica. Bill e Tom aspettavano la
risposta.
-Va bene, possiamo portarla con noi. Ma dobbiamo inventarci qualche ruolo per
lei nello staff…truccatrice, parrucchiera…mi farò venire in mente qualcosa-
Bill sorrise. Tom fece a malapena si con la testa.
Lasciarono Saki a smaltire e scesero al loro piano.
Tom sembrava aver dimenticato l’uso della parola. Quando arrivarono a metà
corridoio Bill si fermò di fronte alla porta della sua camera, dove erano
rimasti Georg e Gustav. Lui e il gemello si guardarono.
-Questa devi farla da solo Tom. Non ti posso aiutare- disse Bill.
Il fratello deglutì e annuì.
-Qualche consiglio?- gli chiese.
Bill strabuzzò gli occhi. Tom che gli chiedeva consigli sulle ragazze.
Sconcertante. Ne aveva viste di più in quei cinque giorni che in diciotto anni
della sua vita.
-ehm…non lo so…sii te stesso. Basterà credo- rispose incerto.
Tom annuì di nuovo.
Si avviò. Bill restò a guardarlo finché non arrivò alla porta di Laura. Poi
rientrò in camera.
Tom strinse le mani attorno al bordo della maglietta.
Sentì Bill chiudere la porta, pochi metri dietro di lui.
Si rese conto di essere rimasto solo.
Si rese conto di quanto potesse sembrare stupida e infantile la cosa.
Che cazzo gli stava succedendo?
Era una ragazza…una ragazza come le altre…
Bussò.
Sperò follemente che non fosse in camera. Forse poteva chiederglielo per
telefono…no…pessima idea.
L’istinto di scappare gli sorse spontaneo.
“Tom, non fare il coglione”
Si costrinse a restare fermo lì.
Sentì i passi dietro la porta.
Fece un bel respiro.
La porta si aprì. Laura spuntò sulla soglia, i capelli raccolti sulla nuca,
lunghe ciocche morbide che le cadevano sul collo. Sorrise.
Ca**o se era bella.
Tom deglutì.
“Parla! Parla idiota!”
-Posso entrare?- chiese.
-Certo!- rispose lei spostandosi. Chiuse la porta dietro di lui. Tom si schiarì
la voce. Sentiva qualcosa di indefinito alla bocca dello stomaco, ma non
riusciva a collegare i pensieri. Aveva solo vaghe frasi sparse per la testa.
Si guardarono, uno di fronte all’altra.
-Devo chiederti una cosa…- riuscì a riacquistare un minimo di autocontrollo.
Doveva calmarsi.
“o va, o no, è inutile che ti tormenti”
-Dimmi…- disse lei perplessa.
Silenzio. Tom fece un passo avanti. Erano vicini.
-Vuoi partire con noi?-
Bom. Sganciata.
Laura non rispose.
Tom si avvicinò ancora. Forse si era calmato troppo.
Aveva degli occhi stupendi. Erano viola…si, viola. Intensi. Non si scostò.
Tom si avvicinò ancora un po’.
Sentì il suo respiro flebile sul viso. Il cuore cominciò a battere. Forte.
Troppo forte perché lei non riuscisse a sentirlo in quel silenzio.
Era normale? No…non gli era mai capitato. Non poteva essere normale.
Un po’ più vicino.
Le loro labbra si sfioravano. Sentiva il suo calore, il suo profumo. Il cuore
sarebbe scoppiato, non poteva resistere ancora.
Le labbra si incontrarono. Laura aprì la bocca, lentamente. Tom capì che era il
suo primo bacio.
Fu diverso. Diverso da tutto quello che aveva provato fino ad allora.
Tom Kaulitz aveva baciato parecchie ragazze.
Ma mai così.
Mai come lei.
Tutto diventò piacevolmente destabilizzante.
Il cuore batteva ancora, fortissimo.
Sentì il suo sapore. Unico.
Sembrava non sarebbe finito mai. Invece le loro labbra si allontanarono,
cercando respiro, quasi contro la loro volontà.
Gli sguardi si incrociarono di nuovo. Laura aveva le guance colorate di rosso.
-Si- sussurrò solo quelle due lettere.
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
Nuova pagina 1
Un altro bacio, più intenso.
Laura sentì un fremito lungo la schiena quando Tom le appoggiò le mani sui
fianchi e la avvicinò a sé.
Che cosa stavano facendo?
Sentiva il calore salirle al viso, mentre si lasciava guidare ad occhi chiusi in
quei baci.
Si stava rendendo conto di aver perso il controllo, ma non riusciva a fare nulla
per interrompersi. O forse, semplicemente, non voleva.
Le piaceva, in quel momento non desiderava nient’altro.
Si lasciò trascinare da Tom verso il letto.
Lui si tolse il cappello e la adagiò piano tra le lenzuola disfatte. Laura sentì
un altro fremito, questa volta di paura, mentre Tom continuava a baciarla e
nello stesso tempo le sfilava i laccetti che le chiudevano la camicetta.
Era pronta?
Era la cosa giusta?
No…non era pronta..per niente. E alla seconda domanda non aveva risposta.
Ma tutto era più veloce di lei. Pochi gesti e la camicetta finì da qualche parte
a terra.
Tom le baciò il collo. Le venne le pelle d’oca. C’era qualcosa dentro di lei che
ormai si era messo in moto. Qualcosa che le impediva di fermarlo, di fermarsi.
Si spostarono più su, Laura appoggiò la testa al cuscino.
Tom sollevò il viso e la guardò negli occhi. Potevano durare così tanto pochi
attimi?
-E’ la prima volta?- le chiese, la voce dolce, ridotta a poco più di un
sussurro.
-Si- rispose lei. sentì le guance infiammarsi. Tom le accarezzò il volto.
-Non preoccuparti- disse. Le sorrise. Un sorriso dei suoi, sincero, aperto. Poi
le sciolse i capelli e le passò il nastro nero che li legava dietro la nuca.
Glielo appoggiò sugli occhi e tutto diventò buio.
Laura non ebbe il coraggio di muoversi.
Sentì le labbra di Tom lungo il collo, sentì le sue mani slacciarle il
reggiseno. Lo sentì indugiare con un bacio sotto l’ombelico e staccarsi da lei,
sbottonarle i jeans e sfilarglieli piano.
Fin quando non capì che non c’era più nulla, niente che la coprisse. Ne lei, ne
i suoi pensieri.
Capì che Tom si stava spogliando e il cuore cominciò a batterle come un tamburo.
Poi avvertì la sensazione si un’altra pelle che scivolava sulla sua. Il lenzuolo
frusciò sulla sua testa. Un respiro a pochi millimetri dalle sue labbra. Un
altro bacio. Tom che con le mani la guidava, dolcemente.
Le sfilò il nastro e Laura lo vide, li, su di lei, così vicino che quasi faceva
fatica a mettere a fuoco il suo sguardo.
Aveva un viso da bambino, i lunghi capelli biondi che gli cadevano sulle spalle
magre e toccavano lei, il suo collo, il suo seno.
-Se ti faccio male fermami- le disse. Laura annuì con gli occhi. Altri baci. Li
chiuse.
Non era pronta, ma lo stava facendo lo stesso.
Furono pochi attimi confusi. O almeno li avrebbe ricordati sempre così.
Prima il dolore, lei che stringeva la mano di Tom, lui che la accarezzava e le
sussurrava qualcosa nell’orecchio.
Poi la consapevolezza di essere diventati un corpo solo, un’unica entità. Il
mescolarsi del loro piacere, dei loro gemiti. I gesti, l’odore dei baci, dei
capelli, del desiderio. La mente stravolta, una piacevole confusione che aveva
il sapore rosso.
E i loro occhi, che si incontravano, con la stessa luce che ci tremava dentro.
Laura non seppe capire quando tutto era finito. Riaprì gli occhi quando Tom le
appoggiò il viso sul collo, passandole un braccio attorno alla vita. Steso,
accanto a lei.
Solo allora si rese conto. Appoggiò la testa sul cuscino, piano, e chiuse gli
occhi.
Erano rimasti li, per un tempo incalcolabile. Vicini, a riprendere il respiro.
Laura che cercava ancora di spiegarsi quello che era successo.
Poi Tom l’aveva accarezzata, l’aveva fatta sorridere.
Dopo diversi minuti di sussurri era uscito dal letto. Aveva riso quando Laura
era arrossita. L’aveva baciata di nuovo. Si era vestito, le aveva spiegato che
doveva raggiungerli in camera prima delle otto.
Aveva lo sguardo pulito, il suo onnipresente sorriso. Per lei tutto sembrava
tanto diverso.
Lo aveva visto uscire dalla stanza, voltarsi a guardarla per l’ultima volta.
Quando si era trovata sola, nella stanza silenziosa e vuota, aveva cercato di
rimettere insieme tutto.
Più ci pensava, più ricordi e particolari diventavano vividi. Aveva in bocca il
sapore di Tom e le sembrava impossibile.
Sgusciò fuori dalle lenzuola e andò in bagno. Aprì il rubinetto della doccia e
rimase li a guardare finché non vide il vapore alzarsi in sottili volute verso
l’alto.
Sentiva il bisogno di avvertire di nuovo la sua pelle pulita. Sentiva il bisogno
di staccarsi da quell’odore nuovo che la violava.
Abbassò lo sguardo, l’acqua bollente che le cadeva sulla nuca. Poi lo vide.
Un rivolo di sangue che le scivolava via, colando dalla caviglia. Che si
mischiava con l’acqua colorandola di quel rosso candido, e scompariva nei buchi
neri dello scarico.
Si sedette lentamente a terra, il getto d’acqua che le picchiettava la schiena.
Non seppe spiegarsi perché piangeva. Forse era la mancanza di Monica in un
momento come quello. O forse era la mancanza di sua madre, quella vera, quella
che le avrebbe dato uno schiaffo e si sarebbe commossa di nascosto. Forse era la
consapevolezza di aver reciso i legami con tutto quello che si era lasciata alle
spalle, a casa. la consapevolezza di averli recisi li, in quel letto, in quella
stanza d’albergo.
Forse fu la decisione di lanciarsi in qualcosa di irresponsabile e senza senso.
Rimase sotto l’acqua per ore, sperando che il calore la lavasse, la
disinfettasse, la rendesse “nuova”.
Ma avrebbe dovuto capire che non poteva bastare. Diciotto anni erano abbastanza
per arrivarci. Diciotto anni andavano più che bene per quello che aveva fatto,
come dicevano le sue coetanee.
Ma in quel momento lei si sentiva ancora una bambina. Una bambina sbagliata.
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Capitolo 11 *** Capitolo 11 ***
Laura li raggiunse in camera che erano le 19:30. Solo quando
comparve, uno zaino in spalla e una valigia al fianco, Tom la finì di fare su e
giù per la stanza.
Bill la guardò. Aveva lo sguardo perso e il sorriso un po’ più spento dei giorni
prima. Gli fece tristezza. Il suo timore era che Tom si sarebbe stancato di lei,
come si stancava di tutto a parte la musica, e allora avrebbero dovuto assistere
tutti a qualcosa di penoso.
Tom non era come lui in amore. Tom si faceva trasportare dagli istinti, Tom non
pensava. Era solo un ragazzo di diciotto anni dopotutto, faceva quello che tutti
facevano a diciotto anni. Tutti a parte lui, Bill.
Bill non aveva una concezione particolare e ben definita dell’amore, ma di certo
sapeva di non aver mai provato un’emozione di quel genere, e non riusciva a
concepire l’idea di scegliere una ragazza dal mucchio e portarsela in albergo.
Gustav salutò normalmente Laura, con il suo solito modo di fare misurato, Georg
fece un sorriso da idiota. Lui e suo fratello su parecchi argomenti si trovavano
d’accordo.
Bill osservava. Erano giorni che si limitava a fare quello e basta. Aveva capito
che, anche soltanto guardando una persona, si poteva capire tanto. Ma Laura per
lui era un soggetto strano. Non riusciva ad afferrare i suoi pensieri, il suo
carattere. C’era qualcosa di complicato e malinconico in lei. Era come un
disegno abbozzato, a cui lentamente andavano ad aggiungersi linee. Ma quello che
assolutamente non riusciva a capire era come Tom si fosse innamorato in quel
modo di lei. Fosse stato solo desiderio fisico se la sarebbe portata a letto e
ci avrebbe messo un punto, ma addirittura pretendere di portarla con loro…
C’era forse qualcosa che lui non riusciva a vedere?
Laura incrociò lo sguardo di Bill: la guardava impassibile. Non sembrava molto
contento della sua presenza.
Tom le sfiorò la mano. Incrociarono gli sguardi. Sorrideva. Quel tocco non era
stato casuale.
Laura sentiva una sorta di ansia che la faceva agitare. Forse non stava facendo
la cosa giusta…senza il forse. Ma non riusciva ad opporsi a quel processo che
era iniziato.
Dove altro poteva andare? Vagare senza meta, si…ma per quanto? Una, due
settimane al massimo, e poi sarebbe dovuta tornare. Tornare a quella vita troppo
pesante, che la soffocava ogni giorno un po’ di più. Dover sopportare la
presenza di sua madre che si autodistruggeva, solo uno spettro della donna che
doveva essere stata, uno spettro che aveva cominciato a consumare anche lei.
No…no. Doveva restare lontano da casa il più possibile. Diventare abbastanza
forte per reggere quel peso. Capire cosa voleva dire vivere.
Poteva darsi che Tom fosse arrivato al momento giusto. C’era un filo che li
legava ormai. Lui si era preso qualcosa di suo, suo e basta.
A trarla in salvo da quei quesiti esistenziali arrivò Saki, seguito dalla donna
bionda che aveva dato i biglietti a Tom pochi giorni prima. Fuori dalla porta
facevano la guardia due bodyguard dagli sguardi truci.
Saki le si avvicinò, e per un attimo lei ebbe timore che la cacciasse. Invece le
disse che i suoi bagagli sarebbero stati portati al tourbus su un altro van. Poi
l’uomo controllò che fossero tutti pronti e uscì dalla stanza parlando in un
walkie talkie.
La donna bionda la squadrò. Aveva il viso molto truccato, troppo truccato.
-Seguimi- disse secca.
Laura guardò Tom in cerca di spiegazioni e lui alzò le spalle.
Ubbidì e la seguì nel corridoio.
-Vediamo di fare in fretta- aveva una voce tagliente. Tirò fuori un mazzetto di
fogli dalla cartella e stappò una penna dalla punta affilata.
-Nome-
-Ehm…Laura-
-Cognome-
-Klein-
-Sei maggiorenne vero? Non vogliamo tirarci dietro genitori isterici- disse la
donna.
-Si, sono maggiorenne…ho anche la carta d’identità se le serve. E non c’è nessun
problema per mia…per i miei- rispose. La donna sospirò.
-Lo spero. Metti una firma qui- disse porgendole la cartelletta. C’erano quattro
o cinque fogli stampati in carattere minuscolo.
-Cos’è?- chiese.
-Firmando qui ti impegni a non rilasciare interviste, non pubblicare pezzi su
giornali di qualsivoglia Stato, non fare spionaggio, o tutto ciò che di nocivo
ti potrebbe venire in mente. Nel caso in cui violerai una delle clausole, che
firmando ti impegni a rispettare, ti denunceremo-
Laura rimase spiazzata. Nessuna delle cose che la donna le aveva sputato addosso
le erano mai passate per la mente. Firmò dove doveva. Poi la donna conservò i
fogli nella sua cartelletta rigida.
-Allora. D’ora in poi, secondo il volere di Tom, ci seguirai. Però mettiamo bene
in chiaro le cose. Nessuno deve sapere della tua esistenza e di tutta la
faccenda, motivo per cui tu nello staff sarai identificata come truccatrice.
Quando ci saranno party, comparse in tv, spettacoli, o comunque sarà richiesta
la nostra presenza in luoghi pubblici, tu camminerai lontana dai ragazzi,
assieme al resto dello staff. I nostri fan sono molto sensibili alle presenze
femminili, e questo potrebbe influire sul mercato…oh…ma tu non sai nemmeno di
cosa sto parlando- la donna interruppe il fiume di parole per conservare la
penna nel taschino del tailleur nero. – In genere dovrai fare quello che ti
diremo io e Saki. Chiaro?-
-Si…- disse Laura incerta. Tutto quello che le aveva detto la donna era
difficile da assimilare in una volta.
Tornarono nella camera. I ragazzi si stavano preparando. Tutti portavano grandi
occhiali sa sole, eccetto Gustav. Laura inforcò i suoi.
“Sei sicura? Sei ancora in tempo…”
L’impossibilità di opporsi divenne la sua scelta.
Uscirono dall’albergo passando per l’entrata principale. Dalle vetrate della
Hall si vedevano già i fotografi appostati. Bill, Tom, Gustav e Georg
camminavano tranquilli, circondati da una decina di bodyguard. Saki teneva tutto
sotto controllo, muovendo la testa da una parte all’altra. La donna bionda la
prese rudemente per un braccio e la trascinò accanto a se poco prima che
varcassero l’uscita.
Quando furono fuori i fotografi li assalirono come cavallette. Laura ne fu
intimorita, sembrava di essere allo zoo. La sua accompagnatrice era del tutto
tranquilla, per niente disturbata dalla ressa. I ragazzi non si vedevano dietro
tutto quel via vai di fotografi e bodyguard.
Dopo un paio di minuti buoni finalmente riuscirono a raggiungere le macchine.
Saki si preoccupò di far salire i ragazzi uno per uno nel primo van, poi salì
nel posto passeggero. Laura seguì la donna bionda ed assieme a lei salì nel
secondo van.
-Dovrai farci l’abitudine se hai intenzione di rimanere con noi- disse la donna
fredda. Evidentemente doveva essersi fatta sfuggire un’espressione sofferente.
–comunque per i primi tempi, prima di fare qualsiasi cosa, chiedi a Saki o a
me…ah, io sono Angela- aggiunse porgendole la mano. Anche quel gesto era pura e
semplice formalità, impostata. Laura se ne rese conto e Angela le divenne
definitivamente antipatica. La sua stretta era ghiacciata e dura. La
rispecchiava perfettamente.
Attraverso i vetri oscurati vide Monaco, la Monaco che non aveva visitato per
niente. Una città che aveva assistito alla nascita di quell’incontrarsi di
situazioni fortuite e inaspettate. La Monaco che non la conosceva e la salutava
per sempre.
Bill scaraventò la borsa che portava a tracolla sul letto.
Ricominciava tutto, di nuovo. Era contento. Dopotutto lui e gli altri erano
“animali da palcoscenico”, come diceva sempre sua madre. Ma a guastare
sottilmente quella contentezza c’era la “nuova presenza”.
Bill si sedette sul letto mentre il tourbus partiva. In fondo al corridoio vide
Laura. Era seduta ad uno dei tavoli vicini ai finestrini. La ragazza estrasse
un’agenda nera dalla sua borsa e cominciò a scrivere, lo sguardo che si perdeva
oltre il vetro. La sua presenza aveva un che di confuso.
Poi arrivò Tom. Si sorrisero, lui la baciò. Bill scosse la testa. Ecco dov’era
finito per tutto quel tempo nel pomeriggio.
Si alzò e chiuse la porta.
La cosa sarebbe durata poco, e comunque non era affar suo.
Prese il suo blocco dalla borsa e tirò fuori una penna dal tappo mangiucchiato.
Meglio concentrarsi su qualcosa di più edificante dell’immaturità di suo
fratello.
[Soundtrack: Special Needs - Placebo]
Laura spinse la pesante porta a vetri ed uscì fuori. L’autogrill era deserto, si
sentiva solo lo sfrecciare delle macchine in autostrada. Il freddo si era fatto
ancora più intenso e le si infilava dappertutto. Saltellò sui piedi e si
allontanò un po’ dall’entrata.
Estrasse il cellulare dalla tasca. Lo accese con il timore di ricevere un’altra
chiamata da sua madre.
“Muoviti…muoviti stupido coso inutile”
Il display ci mise un tempo sconsideratamente lungo per illuminarsi. Minuti che
i suoi sensi di colpa ingigantirono.
Appena vide la luce azzurrina spiccare nel buio compose il numero a memoria,
facendo sfrecciare le dita sui tasti.
Il solito, impietoso, rumore degli squilli. Poi, finalmente, una voce.
-Pronto?-
-Monica…-
-Lauraaa!!!- la ragazza allontanò il cellulare dall’orecchio. Aspettò che i
fischi sinistri provocati dall’urlo terminassero, poi lo riaccostò al viso.
-Ehi…-
-Ma dove eri finita?! Ti ho cercata in questi giorni! Ti avrò chiamata come
minimo un centinaio di volte!- esclamò l’amica dall’altra parte. Sua nonna
doveva star bene, aveva la voce allegra.
-Devi scusarmi…sono successe parecchie cose-
Come dirglielo? Come riassumere tutto ciò che aveva provato in quei giorni in
semplici parole?
-Non ti preoccupare…Mi hai solo fatta preoccupare un po’…non giustificarti-
Monica non era mai indiscreta. Era delicata, lasciava che fosse lei a
confessarle quello che sentiva di dire.
-Grazie…-
Per un attimo calò il silenzio.
-Dove sei?- chiese Monica. Sicuramente l’aveva chiesto per riempire quel vuoto
improvviso, ma non poteva sapere che era la domanda sbagliata.
-Ehm…veramente, non lo so- rispose mordendosi il labbro. Prendere il respiro le
risultò difficile.
-Sono partita Monica- disse. Silenzio.
-Per dove? Con chi?- Monica manteneva il controllo, ma c’era già qualcosa che le
tremava nella voce.
-Non lo so, adesso sono da qualche parte in Francia…sono partita con Tom e i
suoi amici…vado in tour con loro- Laura si ascoltò mentre diceva quelle parole.
Sembravano impossibili da capire anche a lei.
-E poi?- chiese Moni.
“Non lo so Monica…non lo so nemmeno io…”
-Poi tornerò…quando arriverà il momento-
“O forse non tornerai? È questo che stai cercando di dirle?”
-Quindi basta? Ci dividiamo?-
“Non dire così Monica, ti prego”
-No, io non ti lascio. Tornerò, te lo prometto- Laura ingoiò. Sentì un sapore
amaro di mezza verità in bocca.
“Tu non c’entri nulla…sono io…sono io che ho bisogno di staccarmi dalla mia
realtà”
-Avrei voluto abbracciarti…almeno questo…forse riesco a capire quello che stai
facendo e perché…solo che…non lo so Laura- Monica sospirò dall’altra parte del
telefono. Sospiro che lei avrebbe potuto vedere condensarsi nell’aria gelida e
scomparire assieme al suo. Anche se a dividerle ormai c’erano tanti chilometri e
tanti pensieri, Laura sentiva Monica vicina, presente. Forse era quello il
segreto della loro amicizia.
-Continuerò a farmi sentire…magari meno frequentemente, ma non mi dimentico di
te. Ti penserò sempre, te l’ho detto, te l’ho promesso. E se tua nonna sta male,
se succede qualcosa, o se semplicemente hai bisogno di parlare, io sono qui, per
te. Ci sono sempre stata e sempre ci sarò-
Silenzio.
A volte le parole non dette pesano. Pesano perché interpretiamo i silenzi, e
nella maggior parte dei casi, quando ascoltiamo il silenzio di qualcuno che
amiamo, l’interpretazione è quella giusta. Ma questo non vuol dire che ci
piaccia, che ci rassicuri, che ci rincuori il semplice capire. Perché a volte i
silenzi ci lasciano dentro laghi ghiacciati, che bruciano nel petto come lame,
che ci bloccano il respiro e inghiottono pensieri e parole.
-Va bene Laura…ora mia nonna mi sta chiamando…ci sentiamo- sussurrò Monica.
-Ci sentiamo Moni. Ti voglio b..-
Tuuu. Tuuu. Tuuu.
Laura guardò il cellulare infuriata e impotente. Niente più credito.
“No! No! Non è possibile!”
Imprecò dentro di se stringendo i denti. Quella telefonata non doveva finire
così.
Si appoggiò al muro grigio e ruvido del bar. Guardò il cielo.
Si vedevano le stelle. Le stelle erano sempre li.
Era tutto il resto che cambiava senza aspettarla.
*Flashback*
-Come ti immagini da grande?- Monica si mette a pancia in giù nel prato e
morde un filo d’erba.
È un sabato pomeriggio di primavera. Fa già caldo. Il giardino brilla,
tempestato di fiori dai colori sgargianti. Fiori rossi, gialli, blu, che si
mescolano insieme sorridendo, baciati dal sole. C’è odore di nuova stagione e
aria pulita.
Laura copre il sole con una mano e pensa per un attimo.
-Non lo so…voglio fare qualcosa che mi piaccia…forse scrivere, magari
insegnare…- risponde – tu?-
Monica aggrotta la fronte in quel suo modo buffo, da bambina.
-Nemmeno io lo so…solo una cosa ho ben chiara in mente…un progetto- dice aprendo
il viso in un sorriso.
-Cosa?-
L’amica si toglie il filo d’erba dalla bocca e lo osserva, persa altrove.
-Vorrei vivere vicina a te…magari in due case affiancate. Condividere lo stesso
giardino, le stesse altalene per i bambini. Cucinare insieme…qualcosa del
genere- Monica posa lo sguardo su di lei. E’ così trasparente, priva di lati
oscuri. E’ quello che si vede e basta. Come uno specchio d’acqua.
Laura guarda il giardino. Non sembra esistere nient’altro oltre quei cespugli
profumati.
-E’ una stupidata vero?- dice Monica scuotendo la testa. Sottili ciuffi di
capelli biondi le cadono sulle guance pallide.
Laura le prende una mano. Si stendono entrambe e chiudono gli occhi ai raggi
caldi.
-No, non è una stupidata. È uno dei momenti più belli che la vita ci riserverà-
Bill uscì dall’autogrill. Controllò che suo
fratello non fosse nei paraggi e tirò fuori una Marlboro Light dal pacchetto che
teneva ben conservato nella borsa.
Sentiva il bisogno incalzante di nicotina. Spesso gli succedeva, soprattutto se
era nervoso. E in quel momento Bill Kaulitz era nervoso, si. Aveva appena finito
di litigare con Tom nel bagno degli uomini. Motivazione: Laura. Quella ragazza
stava già diventando un problema. Adesso Tom pretendeva che lui fosse anche
loquace e simpatico.
Bill accese la sigaretta e fece un tiro. Guardò il fumo galleggiare nell’aria
davanti al suo naso, e quando si dissolse un viso pallido prese il suo posto.
-Fumi?- Laura lo guardò con un sorriso strano. Aveva gli occhi arrossati. Bill
annuì perplesso.
La ragazza gli sfilò la sigaretta dalle dita e fece un tiro senza guardarlo. La
vide soffiare fuori il fumo con tranquillità, come se fosse stata una cosa
normale quella che aveva appena fatto.
-Sbagli. La voce che hai dovresti tenertela stretta. Non si rimane giovani per
sempre- Laura fece cadere la sigaretta a terra e la spense con il piede. Poi lo
lasciò li, impalato.
Nemmeno Tom si era mai preso una libertà del genere con lui.
Laura si immerse nel calore artificiale dell’autogrill.
Non stava bene, no, per niente.
Raggiunse Gustav, Tom e Georg al bar. Stavano ridendo tra loro.
-Ehi…dov’eri sparita?- chiese Tom quando la vide. Era avvolto in una felpa
rossa, enorme.
-Sono andata a prendere una boccata d’aria- rispose lei –dov’è che avete domani
il concerto?- chiese per portare l’attenzione altrove.
Georg si guardò intorno, Tom aggrottò la fronte. Gustav era impegnato a bere una
coca.
-Non lo sapete?!-
Georg sorrise imbarazzato, Tom fece lo stesso.
-Non è che non lo sappiamo…facciamo fatica a ricordare. L’unico che deve sapere
bene dove siamo è Bill, perché tocca a lui fare i saluti sul palco- disse.
-Poi abbiamo fatto parecchie date qui in Francia…riuscire a ricordare tutte le
città che tocchiamo con il tour è un’impresa- aggiunse Georg.
-Saremo a Nizza- disse Gustav sorridendo.
-Ok, grazie Gustav, ci hai fatto fare la figura dei coglioni!- sorrise Tom.
-Perché invece?- ribatté il biondino. Georg gli diede una spinta. Risero.
Sembravano dei ragazzi qualunque, Laura non se li vedeva da rockstar.
-E tu? Come mai hai deciso di venire con noi?- chiese Gustav dopo aver
riacquistato l’equilibrio.
-Ho ricevuto una proposta che non potevo rifiutare- rispose Laura. Sentì Tom
ridere sommessamente accanto a lei.
Georg e Gustav si guardarono.
-Ragazzi, ripartiamo- Saki li interruppe, una busta di plastica in mano.
Laura finì di scrivere la sua seconda pagina di diario e chiuse l’agenda. Si
stiracchiò e sbadigliò. Scrivere le era sempre servito. Era uno sfogo libero,
poteva dire ciò che voleva e poi rileggere le pagine due giorni dopo, ridendo
delle assurdità che produceva la sua mente.
Si alzò e attraversò lo stretto corridoio che portava alla camera. Rifletté che
quel tourbus aveva più mobili di casa sua.
All’improvviso una porta si spalancò di fronte a lei. Non fece in tempo a
spostarsi, e la superficie liscia la colpì in pieno viso.
Cadde a terra.
Per un minuto non capì nulla. Poi comprese di essere stesa sulla moquette scura
del corridoio. Il naso le faceva tanto male che le lacrimavano gli occhi.
-Cha ca…- da dietro la porta spuntò prima la faccia di Bill, poi quella di Tom.
Appena capirono quello che era successo si catapultarono su di lei.
-Bill sei un coglione- fu la prima cosa che disse Tom.
Bill si inginocchiò e si portò una mano alla bocca.
-Oddio…scusami…oddio…ce la fai ad alzarti?- chiese senza prestare attenzione al
fratello. Tom la guardava preoccupato dall’alto, non c’era abbastanza posto a
terra. Lei annuì appena. Si sentiva parecchio intontita.
I gemelli la sollevarono e la portarono al tavolo. Quando si sedette Laura sentì
qualcosa di caldo colarle dal naso. Bill e Tom sgranarono gli occhi nello stesso
modo.
-Ehm…Bill, sei un coglione- ripeté Tom. Bill si voltò e corse nel corridoio,
rispuntando un secondo dopo con un rotolo di carta igienica in mano.
Le sue mani e quelle di Tom si affannarono a strappare fasce di carta. Poi Tom
le portò la testa all’indietro e le appoggiò un pezzo di carta appallottolata
sotto il naso.
-Ahi- gemette Laura. Le aveva toccato troppo forte il naso.
-Scusami!- esclamò Tom. Bill le asciugò la bocca. Laura vide il sangue rosso
sulla carta.
-Non devi metterle la testa all’indietro!- disse poi il ragazzo
raddrizzandogliela e tamponandole il sangue che colava con un altro pezzo di
carta.
-Si che devo! È così che si fa!- ribatté Tom portandole la testa all’indietro.
-No! Così il sangue le cola in gola idiota!- Bill le raddrizzò la testa.
-Ma che cazzo dici?! Come fa a fermarsi il sangue così?!- Tom gliela portò di
nuovo indietro.
Laura li afferrò entrambi per i polsi.
-RAGAZZI PER FAVORE!- urlò per sovrastare i loro schiamazzi.
I gemelli si interruppero.
Fu Tom a cominciare a ridere, poi lo seguì Bill. Era buffo, ridevano e
sembravano la stessa identica persona. Laura si unì a loro, la mano premuta
sotto il naso.
-Ora che avete finito di giocare con la mia testa potete aiutarmi sul serio?-
disse quando il fazzoletto si inzuppò. I due annuirono.
Fece bagnare un asciugamano sotto l’acqua fredda da Bill, mentre Tom buttava via
i pezzi di carta sporchi di sangue sparsi per la stanza.
Dopo uno o due minuti di tamponamenti, mentre i ragazzi la guardavano come se
dovesse morire da un momento all’altro, il sangue si fermò.
Laura si avviò verso il bagno, seguita da Tom e Bill. Si avvicinarono tutti e
tre allo specchio quadrato.
-E’ rotto?- chiese Tom.
Laura guardò il naso. Era rosso, ma non sembrava storto. Come doveva essere un
naso rotto?
Bill allungò la mano intenzionato evidentemente a toccarlo, ma Tom lo bloccò con
uno schiaffo dietro il collo.
-Deficiente non le hai nemmeno chiesto se puoi. Se le fai male?- disse. Bill lo
guardò torvo.
-Deficiente io ho già toccato un naso rotto, o hai dimenticato Tommy Haiden in
quarta?- disse scocciato. Poi allungò di nuovo la mano dalle unghie smaltate e
appoggiò le dita affusolate sul suo naso, premendo leggermente.
A Laura veniva da ridere, non fosse stato per la paura di essersi spaccata il
naso.
-Sembra a posto- decretò Bill dopo un po’ –prova a fare così- mise il viso
accanto al suo ed arricciò il naso. Era assolutamente ridicolo. Tom le strinse
il braccio, evidentemente per cercare di non scoppiare a ridere. Laura arricciò
il naso come le aveva detto Bill. Lo fece più volte, incoraggiata da lui, di
fronte allo specchio, Tom che sussultava per le risate soffocate.
-Che cosa state facendo?-
I tre si voltarono presi alla sprovvista.
Georg e Gustav li stavano guardando, appoggiati alla porta del bagno.
Tom scoppiò a ridere e Bill e Laura lo seguirono, sotto gli sguardi perplessi
degli altri due.
Laura spense la luce e si stese nel letto. Era comodo, molto più che a casa.
Casa. Dov’era la sua casa adesso?
Chiuse gli occhi. Sentiva il rumore del tourbus che procedeva a velocità
regolare. Il vento e il freddo li fuori.
Click.
La porta della sua camera si aprì, a terra comparve un fascio di luce. Solo
pochi attimi e la stanza ritornò nel buio. Passi. Qualcuno che sollevò il
lenzuolo. Fruscio di cotone pulito.
Laura aveva già capito chi era, quando un braccio la cinse, e labbra le si
posarono sul collo. Avvertì il metallo di un piercing contro la pelle.
Tom le sussurrò delle parole all’orecchio, che la fecero arrossire
nell’oscurità.
Un bacio
Poi un altro
Un altro ancora…
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Capitolo 12 *** Capitolo 12 ***
-STOP!
NON VA BENE COSI’!-
La voce di David echeggiò nel palazzetto vuoto. Bill alzò gli occhi al cielo.
Tom sbuffò vicino a lui. Era la quarta volta che riprovavano lo stesso pezzo.
-Cosa c’è adesso?!- chiese esasperato Georg. David stava controllando ancora una
volta l’impianto del suono assieme ai tecnici, nascosto dal solito via vai della
crew.
Bill lasciò che lo sguardo vagasse tra le gradinate. Ogni volta sentiva la
stessa morsa allo stomaco pensando che poche ore dopo quei posti sarebbero stati
occupati da migliaia di fan urlanti, migliaia di occhi, di braccia tese verso di
loro. A volte gli mancava il respiro.
I suoi pensieri deviarono dalle fantasticherie su quella sera alla figura nera
sedute nelle prime file delle gradinate di fronte al palco. Laura era
rannicchiata sul sedile bianco, le ginocchia strette contro il petto, cinte
dalle braccia. Li guardava con espressione vivace.
Bill ripensò a quello che era successo la sera prima e sorrise. Laura ricambiò.
Forse stavano pensando alla stessa cosa.
-Non mi piace, il suono non è pulito. Provate ora- rispose David parlando nel
megafono.
Laura guardò Tom ricominciare a pizzicare la chitarra. La canzone che stavano
suonando le piaceva, non fosse stato per il fatto che veniva interrotta ogni due
minuti dall’attacco da un uomo con un megafono in mano.
Proprio in quel momento calò di nuovo il silenzio. Tom sbuffò e Bill alzò gli
occhi al cielo. Doveva essere una cosa stancante.
Laura osservò Bill. Con la mente ritornò alla sera prima, mentre davanti allo
specchio arricciava il naso. Sorrise e Bill ricambiò. Forse non era così
scontroso come le era sembrato.
-Come va?-
Tom si sedette accanto a lei. Gli altri erano scomparsi dietro le quinte. Sul
palco erano rimasti solo i tecnici, che trafficavano con cavi, amplificatori e
luci.
-Tutto ok- rispose. –Mi piaceva quest’ultima canzone, come si chiama?-
-Ich Bin Da- disse Tom sorridendo.
-E’ molto bella-
-La cantiamo alla fine dei concerti sai…è un po’…un saluto diciamo-
-E’ il saluto giusto allora-
Laura gli sorrise. Aveva capito che a Tom piaceva. Dopotutto non era proprio una
sprovveduta. Restarono in silenzio per un po’, a guardare il palazzetto pulito,
bianco.
-Perché proprio la rockstar Tom?- la domanda le uscì spontanea mentre appoggiava
la testa sulla spalla del ragazzo seduto accanto a lei. Lo stesso che di li a
poche ore sarebbe stato su quel palco.
-Che domanda è?- disse Tom ridendo.
-Non lo so…una domanda come un’altra credo- rispose lei alzando lo sguardo. Tom
la guardò. Sospirò. Ci furono diversi attimi di silenzio.
-Non potrei fare nient’altro…Io non sono come Bill, non ho mille doti, mille
interessi. A me basta una chitarra, basta un palco e migliaia di occhi che mi
guardano. Basta solo questo. Basta l’adrenalina, le gambe che tremano per un
attimo quando le luci illuminano la folla, e ti rendi conto che sei solo,
davvero solo, davanti a loro, che ti amano senza conoscerti. Sapere che ogni tuo
gesto, ogni tuo movimento o sorriso sarà ricordato per anni. Sapere che per loro
quella è una notte speciale…Forse è questo. Forse è scoprire di avere controllo
su una parte della vita di centinaia e centinaia di persone…-
Laura lo ascoltò.
-Dovete sentirvi come dei in terra allora- disse poi.
Tom restò in silenzio. Insieme videro Bill ricomparire sul palco e guardarsi
intorno.
-Non tutti. A me piace…Bill invece lo trova pericoloso, spesso blatera riguardo
a questo, soprattutto se è uno dei suoi giorni depressi. Ti consiglio di stargli
lontano quando la luna gli gira così, perché è contagioso, e palloso- rispose
Tom sorridendole. La strinse a se con un braccio. Laura rise.
-Quindi lo fai per sentirti un Dio Tom?-
-Dio è una parola grossa-
Le urla
li travolsero. Succedeva ogni volta, ma ogni volta Bill non era pronto. Sorrise
all’immenso mare di occhi fissi su di lui. Non riusciva a distinguere i visi, ma
sorrideva per loro, loro avrebbero visto.
Le mani gli sudavano attorno al microfono, le gambe formicolavano e avvertiva un
immenso calore, che sembrava sollevarsi dalla massa e investirlo.
Come al solito, dopo l’attacco di Tom, sentì un brivido lungo la schiena.
Tocca a te, tocca a te
Cercò
lo sguardo del fratello. Lo faceva sempre, su ogni palco, in ogni città, ad ogni
concerto. E gli occhi di Tom erano pronti a rassicurarlo, anche quella volta. Il
gemello annuì impercettibilmente con il capo.
La sua voce sembrò non esistere fino alla prima nota. Poi la sentì riempire il
palazzetto, quasi non fosse sua, e le urla aumentare.
C’era sempre quella paura. Paura adrenalinica e il cuore che scoppiava dalla
gioia.
Tom guardò il fratello sorridere dietro il microfono, gli occhi che brillavano.
Continua così Bill. Anche stanotte c’è qualcuno che vive per te.
Laura spiò dai buchi delle grate che proteggevano l’ingresso alle quinte. Il
rumore delle urla selvagge che provenivano dal pubblico l’avevano intimorita, ma
vedere tutta quella gente che piangeva, che sudava, che tendeva le ani e le dita
fino allo spasimo, che saltava, le fece capire improvvisamente e concretamente
con chi aveva parlato tranquilla in autogrill la sera prima, con chi aveva
diviso la stanza, passato ore in compagnia, dormito…
Laura si ritrasse e si appoggiò con la testa alla grata, nella semioscurità
fumosa delle quinte.
Tra i tecnici che correvano avanti e indietro, i bodyguard, Saki onnipresente,
si rese conto dov’era, e con chi. Si rese conto che molto probabilmente in
quella folla c’era qualcuno che avrebbe ucciso pur di prendere il suo posto.
Comprese tutto quello che le aveva detto Angela.
Dopo Nizza ci furono altri concerti, altre città. La maggior parte del loro
tempo lo passavano nel tourbus, era raro che riuscissero a vedere qualcosa oltre
ai palazzetti dei concerti e l’asfalto delle autostrade.
In quelle settimane Laura imparò ad amare la musica dei “Tokio Hotel”, che per
lei era solo un nome. In realtà amava la musica di Bill, Tom, Gustav e Georg. Le
piaceva cosa suonavano e come lo suonavano, con quell’entusiasmo e la voglia da
ragazzi, voglia che non sapeva ancora di soldi. Non lo facevano per vivere, lo
facevano per il piacere di farlo.
Con il tempo Bill, Gustav e Georg si abituarono alla sua presenza. Era diventata
come una di loro.
Spesso le capitava di rimanere sveglia la sera, la colpa era delle spiacevoli
reminiscenze di notti intere passate ad ascoltare il silenzio, con il terrore di
sentire i passi di sua madre che cercava le bottiglie. A volte, se non era
troppo stanco, Bill la raggiungeva. Parlavano parecchio, fin quando laura non
vedeva Tom comparire in fondo al corridoio, invitandola con gli occhi a
raggiungerlo in camera. Laura non poteva più fare a meno dei suoi baci. Erano
una delle tante distrazioni che si era costruita e aveva ben incasellato per
coprire strati di pentimenti e paure.
Aveva riacceso il cellulare, ma nessuna chiamata era più arrivata, ne da Monica,
ne da sua madre. Forse era meglio così.
Passò Novembre, arrivò Dicembre con la sua neve bianca che copriva i vetri dei
finestrini mentre erano in viaggio. Fu il suo primo Natale passato lontano da
casa. Nemmeno i ragazzi fecero in tempo a festeggiarlo: troppi impegni e troppa
stanchezza.
Il Capodanno lo festeggiarono sul tourbus, in viaggio.
Bill, Tom e Georg bevvero troppo. Laura non toccò bicchiere, e fu con un gusto
amaro di ricordi sbagliati che, aiutata da Gustav, li trascinò tutti e tre a
letto. Georg e Tom russavano in un modo indecente, Bill oppose resistenza
affermando di essere perfettamente in grado di dormire in piedi sul tavolo della
cucina.
Fu durante la seconda metà di Gennaio che finalmente i ragazzi presero una pausa
e ritornarono in Germania, nello studio di registrazione che Laura scoprì essere
praticamente la loro casa.
-Ti piace?-
Tom l’abbracciò da dietro, appoggiandole il viso sulla spalla.
-E’ bellissimo- rispose lei.
Si trovavano nella stanza dove erano conservati gli strumenti. C’erano diverse
chitarre, che riflettevano la luce calda delle plafoniere illuminate. In fondo
erano montate due batterie, e nell’angolo estremo della stanza, vicino alla
porta, c’era un pianoforte nero. Quando Laura lo vide il cuore ebbe un sussulto.
*Flashback*
-Riprova! Riprova Laura, stai andando bene- la nonna di Monica le sorride da
dietro il pianoforte. Ha i capelli già candidi, ma è ancora una donna alta,
imponente, elegante. Monica la guarda e anche lei le sorride.
Era stata una sua idea quella di farle prendere lezioni di piano assieme a lei,
due anni prima. Tra loro però c’era un differenza fondamentale: Monica lo faceva
per divertirsi, prendendo alla leggera le lezioni. Laura si era appassionata a
tal punto da amare ogni singolo tasto di quel pianoforte.
Ricomincia il pezzo, lo sguardo concentrato. Non lo solleva fin quando non ha
finito, i polsi che le tremano.
-Eccellente- decreta la nonna della sua migliore amica, regalandole uno dei suoi
azzurrissimi sguardi vispi –Direi che per oggi può bastare-.
Monica le saltella al fianco e si siede sullo sgabello assieme a lei.
-Suonatemi il vostro pezzo a quattro mani, ho bisogno di rilassarmi- dice la
donna lasciandosi cadere in una poltrona di velluto scuro.
Monica sorride e scambia uno sguardo con Laura. Un attimo per acquistare
l’intesa e le loro mani si mettono all’opera.
-Vieni, devo ancora farti vedere la parte migliore-
Tom la fece riemergere dai suoi ricordi prendendola per mano. La portò due piani
più su. Attraversarono un corridoio con un’ampia vetrata dietro la quale c’era
una stanza insonorizzata, occupata solo da un microfono che pendeva dall’alto.
Poi fu la volta di una rampa di scale e di un corridoio più stretto. Tom si
portò un dito alle labbra facendole capire che oltre quelle porta gli altri
stavano dormendo.
Entrarono nell’ultima stanza, e Tom chiuse la porta dietro di loro, facendo
scattare la serratura.
-La mia camera- disse.
Era un ambiente grande. C’era un letto matrimoniale in fondo, uno schermo piatto
appeso al muro, uno stereo e diverse consolle conservate qua e la. Una finestra
sulla sinistra si affacciava sulla strada illuminata.
La vista della stanza fu sostituita da quella del viso di Tom che si avvicinava
al suo.
Aveva ormai perso il conto dei baci, ognuno si sostituiva al primo.
Tom la spinse contro il muro delicatamente e la sollevò.
-Baciami-
Poco più di un sussurro.
Labbra contro labbra.
Carne dentro carne.
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Capitolo 13 *** Capitolo 13 ***
Soundtrack: Bella Notte - Ludovico Einaudi. (E' il
pezzo che Laura suona in questo capitolo)
***
Laura scivolò piano fuori dal letto. Tom dormiva, il viso rilassato. C’era
qualcosa che la attraeva in lui, qualcosa di magnetico e non propriamente
innocente. Aveva smesso di arrossire quando lui si aggirava per la stanza senza
sentire il bisogno di coprirsi, parecchie settimane prima, e forse quella
reazione da bambina le mancava.
Rindossò la biancheria e i vestiti, ripescandoli qua e la per la stanza,
cercando di fare il minor rumore possibile.
Fuori era notte, l’orologio proiettato sul soffitto diceva che era l’una e
tredici minuti.
Laura uscì in punta di piedi dalla stanza e scese le scale. Sperava di
ricordarsi dove fosse la cucina, ma quando la sua mano abbassò un interruttore,
e la stanza dove si trovava si illuminò, capì che evidentemente doveva ancora
ambientarsi: era tornata nella sala degli strumenti.
Già che c’era vagò un po’ tra le chitarre, cercando di indovinare quanto
potevano costare. Tuttavia tutto quel vagare aveva in fondo una meta, e questo
le fu chiaro quando si ritrovò, quasi senza rendersene conto, seduta sullo
sgabello del pianoforte.
Ascoltò per un minuto il silenzio, poi sollevò il coperchio. Era un bel
pianoforte, sicuramente poco usato.
Appoggiò lentamente i polpastrelli sui tasti bianchi.
*Flashback*
“Concentrati Laura, concentrati. Un, due, tre…vai“
La melodia era rimasta li, nella sua memoria, nonostante fossero trascorsi più
di due anni.
Dopo un paio di tentativi il pentagramma le si dipinse davanti agli occhi.
Quel componimento le era sempre piaciuto, perché sentiva che era fatto con il
cuore, che c’erano sentimenti nascosti tra quelle note.
*Flashback*
-Come fai ad essere così brava? Ti invidio- Monica le appoggia le mani sulle
spalle e la osserva da dietro. Laura sorride.
-La suono per te stavolta-
Bill continuava a girarsi e rigirarsi nel letto. I gemiti provenienti dalla
stanza accanto erano finiti da un bel po’, ma per un qualche scherzo
d’immaginazione non faceva che sentirli nelle orecchie.
Si alzò. Non ce la faceva più a restare li.
Uscì dalla stanza e scese in cucina. Forse gli sarebbe bastato un bicchiere
d’acqua per riacquistare un po’ di tranquillità.
Mentre sorseggiava, però, un rumore insolito arrivò alle sue orecchie.
Dapprima pensò fosse di nuovo frutto della sua immaginazione turbata, poi si
rese conto che non era possibile. Era il suono di un pianoforte. E pianoforte
voleva dire sala strumenti.
Posò il bicchiere sul tavolo e scese al primo piano, silenziosamente, agevolato
dal fatto che i calzini sulla moquette non producevano nessun rumore.
La porta della sala strumenti era aperta, e la luce accesa. Bill si avvicinò
piano, con l’intenzione di non farsi vedere.
Appoggiò il viso al profilo della porta e spiò dentro.
Ciò che vide lo colse a dir poco impreparato.
Seduta allo sgabello c’era Laura, i capelli che le cadevano sulla schiena,
spettinati, una maglietta bianca e sottile che le scopriva la spalla, candida.
Le sue mani affusolate volavano sui tasti, il viso era concentrato. La musica:
stupenda. Gli bloccò il respiro. Gli gelò il sangue nelle vene.
Bill riprese fiato solo quando Laura finì.
Una forza a lui estranea gli impose di entrare nella stanza.
Quando Laura si accorse della sua presenza sussultò e scattò in piedi.
Bill alzò la mano.
-No, ti prego…suonala di nuovo…- disse.
Laura lo guardò con un’espressione indecifrabile.
-Ti prego- Bill non poté fare a meno di insistere.
La ragazza riprese posto, lentamente, e Bill girò dietro il piano, mettendosi di
fronte a lei.
La melodia ricominciò dal principio.
Di nuovo quell’ipnosi.
Le dita della ragazza si spostavano di tasto in tasto, i polsi sottili che
tremavano per imprimere forza nel movimento.
Il suono era unico, ma la cosa che più catturò l’attenzione di Bill fu la
passione e l’intensità che il corpo di Laura e il suo viso emanavano. La ragazza
aveva le guance colorate di rosa e le labbra erano diventate rosse. Ad ogni nota
la sua espressione cambiava. Si emozionava. Era una cosa così evidente. Bill
conosceva bene quella reazione, era quella che anche lui aveva ogni volta che
cantava.
L’ultima parte del componimento fu triste. Di una tristezza remota e attraente.
Era come se la musica parlasse attraverso il corpo sottile di quella ragazza
seduta di fronte a lui.
Fu li che qualcosa accadde.
Vide una lacrima scendere sulla guancia di Laura e gli occhi della ragazza
incatenarsi ai suoi.
Per un attimo fu come se riuscisse a sentire il dolore, la malinconia, il mare
di emozioni che vorticava in quegli occhi.
E la prima goccia di tante altre gli cadde dentro, decidendo per lui,
cominciando a corrodere il suo equilibrio.
Fu Laura ad abbassare lo sguardo per prima. Lo fece quasi con pudore.
Bill si pentì. Anche se non riusciva a capire esattamente di cosa si sentisse
colpevole.
Cercare di interrompere il silenzio fu una dura
impresa.
-Come mai in piedi a quest’ora?- disse Bill.
Laura sembrò riacquistare il controllo.
-Non riuscivo a dormire, come al solito- rispose alzandosi –tu?-
-Nemmeno io…- disse Bill –posso offrirti un bicchiere d’acqua? O torni subito a
letto?-
Laura tentennò. Perché?
-Ok…in effetti stavo cercando la cucina quando sono finita qui- rispose.
Bill sorrise.
Insieme risalirono le scale.
Diversamente dalle altre volte la presenza di Laura al suo fianco lo agitava.
Notò per la prima volta che la ragazza aveva un profumo fresco addosso.
Una volta in cucina si sedettero alla penisola. Bill versò altra acqua nel suo
bicchiere e ne riempì uno per Laura.
-Da quant’è che sai suonare?- chiese il ragazzo.
Laura sorseggiò l’acqua.
-Ho preso lezioni per tre anni, poi ho lasciato, due anni fa- rispose. Abbassò
gli occhi.
-Sei bravissima. Perché non l’hai mai detto?-
-Grazie…beh non ce n’è mai stata l’occasione-
Ha ragione deficiente. Vuoi dire qualcosa di sensato?
-Giusto. Scusa, vorrei poter dire che è l’orario, la realtà è che sono
scoppiato, è sempre così i primi giorni di pausa-
-Ti capisco. Non ho idea di come facciate tu e gli altri. Io sono stanca e non
ho praticamente fatto nulla per tutto il tour-
Si sorrisero.
-Ah non è vero! Hai fatto parecchio, solo che non te ne rendi conto…-
-Cioè?-
-Ci hai concesso un po’ di attimi di pausa. Sai, è bello parlare con qualcuno
che non scoppia a piangere e non urla quando gli stai davanti. E poi, ormai sei
la musa ispiratrice di Tom-
Laura arrossì. Bill non si ricordava l’ultima ragazza che aveva visto arrossire
così.
-In realtà avete fatto molto di più voi per me…- disse. Era una frase lasciata a
metà. Poteva dire o tutto o niente.
-Torno a letto…- disse Laura.
-Si anche io, mi è tornato il sonno-
Si avviarono insieme verso le camere. Una volta in corridoio si divisero.
-Notte Bill-
-Buonanotte Laura-
-Ah…Bill- Laura lo guardò.
Altro fremito giù per la schiena.
Bill? Che ti prende?
-…si?-
-Grazie-
Laura scomparve nella stanza di suo fratello, senza nemmeno dargli il tempo di
pensare a cosa rispondere. |
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Capitolo 14 *** Capitolo 14 ***
-Cosa mangiamo stasera?-
Laura chiuse sconsolata l’ennesimo stipetto vuoto. Guardò i ragazzi, e si chiese
cosa era uscito dalla sua bocca.
Che avesse sbagliato ad esprimersi?
Bill aveva lo sguardo smarrito e aveva smesso di giocherellare con il tovagliolo
che stringeva in mano. Georg si era fermato a metà del gesto di scuotere i
capelli. Tom aveva fatto cadere la pallina di stagnola che stava lanciando in
aria da dieci minuti.
Calò il silenzio. Eppure fino a poco prima stavano tutti chiacchierando
allegramente.
L’unico a non scomporsi più di tanto fu Gustav.
-Di solito ordiniamo qualcosa…una pizza…o ristorante cinese insomma…- rispose.
Gli altri annuirono riacquistando le facoltà motorie.
-Cioè non avete mai cucinato niente in vita vostra?!- chiese Laura sconcertata.
I quattro scossero la testa quasi con terrore –ma dai! È assurdo!- esclamò.
Si guardò intorno.
-Allora, stasera vi insegnerò a cucinare- decretò.
Bill spalancò gli occhi, Georg la guardò impaurito, Tom sbatté le palpebre. Solo
Gustav sorrise –Basta fare un po’ di spesa…anzi quasi quasi ci vado ora! Chi mi
accompagna?-
Silenzio.
-Io e Tom non possiamo venire…- disse Bill.
-Perché?- chiese Laura.
-Ci vuoi interi stasera o vuoi cucinare un minestrone con i nostri pezzetti
residui dentro?- disse Tom sorridendole.
Laura sbuffò. Per lei era difficile ricordare che senza guardie del corpo non si
andava da nessuna parte. Era una cosa così antipatica.
A soccorrerla arrivò Gustav.
-Ti ci accompagno io- dise.
Laura sorrise.
-Ah ma quindi non era uno scherzo?- chiese Georg sarcasticamente.
Un secondo dopo una pallina di carta stagnola lo colpì al naso.
Lei e Gustav raggiunsero il supermarket a piedi.
Saki aveva preteso che lei indossasse un orrendo cappellino e gli occhiali da
sole di Bill. Si sentiva un’idiota ad andare in giro bardata in quel modo.
Gustav la seguiva con un cestino in mano e Laura ci lanciava dentro tutto quello
che pensava potesse servire per quella sera.
-Gustav…posso farti una domanda?- chiese ad un certo punto al biondino. Lui
annuì.
Gustav le piaceva: era tranquillo, posato e, soprattutto, era intelligente.
-Come fai a sopportarli senza menarli tutti e tre?-
Gustav rise.
-Non sono poi così male- rispose riordinando i pacchi di spaghetti nel cestino.
Laura sorrise.
-Non ti da fastidi che siano tutti concentrati su Tom e Bill? Cioè…io lo
troverei snervante.- aggiunse infilando dei pomodori in una busta di plastica
trasparente.
-Mmm…no. Sai è tutta una questione di equilibrio in realtà- disse Gustav.
-In che senso? Spiegati- Laura pesò i pomodori e appiccò sopra la busta lo
scontrino che la bilancia aveva stampato.
-Vedi, tutto si gioca sui ruoli. Io sono il calmo del gruppo, quello a cui piace
stare più in disparte. Loro due sono quelli che amano di più l’attenzione del
pubblico e delle ragazze-
-Perché tu non ami l’attenzione delle ragazze?- lo interruppe Laura.
-Certo che si, però trovo giusto che Tom e Bill ricevano più attenzioni da parte
del pubblico. A loro piace. Dal canto mio mi basta una batteria, e fare un po’
di casino alla fine dei concerti. Mi va bene così! non amo molto avere troppa
attenzione su di me-
Laura lo guardò.
-Sei saggio Gustav- disse sorridendo. Lui rise.
-E tu sei troppo furba per essere una ragazza- disse mettendo due confezioni di
birra nel cestino.
-Ma no!- esclamò Laura.
Finirono chiacchierando di fare la spesa.
Soltanto alla cassa una ragazzina parve riconoscere Gustav, ma prima che dicesse
qualsiasi cosa, loro due si dileguarono.
-Bill, aiuta Gustav a tagliare i pomodorini-
Il ragazzo la guardò e le sorrise. Poi si tirò su le maniche della tuta nera che
indossava e prese un coltello dal cassetto, raggiungendo Gustav alla penisola.
-Tom, metti su l’acqua…usa questa pentola- Laura passò a Tom una pentola
pesante, che lui si affrettò a riempire nel lavandino.
-Georg, quando l’acqua si è scaldata un po’ aggiungici due belle manciate di
sale. Ah…e legati quei capelli- Laura si sfilò un elastico dal polso e lo lanciò
al ragazzo, che si stava prendendo a spallate con Tom.
La cucina sembrava un campo di battaglia. Tutto era illuminato a giorno. Sul
tavolo erano accatastati i piatti, i bicchieri e le posate che avrebbero dovuto
usare per la cena. Laura li aveva spolverati tutti.
Bill e Gustav stavano cercando di schizzarsi il liquido dei pomodori negli
occhi.
-Ragazzi guardate che brucia- li avvertì Laura. Poi prese una padella e la mise
sui fornelli. Prese a tagliare un pezzo di cipolla e le salirono le lacrime agli
occhi. Lanciò in fretta i pezzettin nella padella e ci aggiunse dell’olio.
Stava accendendo il fuoco quando sent’ qualcuno appoggiarsi a lei e cingerla con
le braccia. Tom le baciò il collo.
-Con i capelli tirati su così sei sexy- le sussurrò nell’orecchio. Laura
sorrise.
-Tieni, mangia questo- disse, infilandogli in bocca un pezzetto di cipolla. Lui
ubbidì.
Dopo nemmeno un minuto sputò nel lavandino.
-Tom stai attento! Per poco non centravi la pentola!- disse Georg schifato. Tom
ingoiò dell’acqua dal rubinetto.
-Potevi dirmelo che era cipolla- disse facendo schioccare la lingua.
-E che gusto c’era? Mi dispiace caro ma per stasera dovrai placare i bollenti
spiriti. Non ci penso proprio a baciarti con quel saporaccio che avrai in bocca-
Bill, Georg e Gustav risero.
-Ti ha fottuto collega- disse Georg. Tom sorrise furbescamente.
-Ah questo è quello che crede lei- disse dirigendosi a grandi passi verso Laura.
Lei cercò di scappare rifugiandosi dietro il tavolo, ma i tentativi furono
inutili. Tom la bloccò e la costrinse a baciarlo.
-Bleah…disgustoso- disse Laura staccandosi.
-Così impari a imboccarmi a tradimento- disse Tom tornando alla sua padella con
un sorriso di vittoria. Gli altri scossero la testa divertiti.
La cena fu piacevole.
Guardare i ragazzi alle prese con gli spaghetti per lei fu uno spasso unico.
Tom si sporcò la maglietta di sugo, Bill il naso. A metà della cena Georg
catapultò per sbaglio un pomodoro addosso a Gustav e Tom vendicò il compagno
infilando uno spaghetto nella maglietta del bassista.
Restarono in piedi fino a tardi a lavare i piatti.
Ad un certo punto Tom, Bill e Gustav andarono a dormire, e a finire il lavoro
restarono lei e Georg.
Georg tirava fuori i piatti dal lavandino e lei li asciugava e li conservava.
-E’ tua la ricetta che ci hai fatto preparare stasera?- chiese il ragazzo
passandole un piatto.
-No…è di mia madre. Lei è italiana- rispose. La sua voce aveva un tono
affettuoso. Si stupì nell’ascoltarsi.
-Ah…hai capito- Georg traballò passandole un bicchiere. Laura lo afferrò per non
farlo cadere. Che fosse brillo era evidente, e dopotutto non se ne stupì, aveva
bevuto più di tutti durante la cena.
Quando vide che aveva recuperato l’equilibrio fece per lasciarlo, ma lui le
afferrò un polso.
Laura lo guardò.
-Georg ma che…-
Prima che potesse finire il ragazzo la spinse contro il muro e la baciò, le mani
che la toccavano dappertutto. Laura si divincolò cercando di spingerlo via.
-Ma che fai?!- esclamò alzando la voce. Georg provò a baciarla di nuovo,
spingendo la bocca dentro la sua. Laura provò di nuovo a toglierselo di dosso.
Aveva paura. Terrore. Non sapeva cosa fare.
-Su Laura non fare così- disse il ragazzo vicino al suo viso. Aveva l’alito che
sapeva di birra.
-Lasciami andare- disse. La voce voleva tremare, ma riuscì a tenerla ferma.
-Dai Laura, non fare la difficile. Solo una volta. Tom non lo saprà mai- insisté
lui.
Laura raccolse tutte le sue forze e lo spinse lontano da se.
-Ho detto no-
Georg la guardò con odio.
Laura si risistemò la maglietta e raccolse lo strofinaccio che era caduto a
terra.
Se ne andò, cercando di non camminare troppo in fretta.
-Stronza. Sei una groupie, e le groupie vanno a letto con tutti quelli della
band. Prima o poi lo imparerai-
Quelle parole la inseguirono su per le scale e lungo il corridoio.
Non la lasciarono nemmeno quando chiuse la porta della stanza di Tom dietro di
se e si stese sotto le coperte accanto a lui, che dormiva beato.
Rimase immobile tutta la notte, gli occhi spalancati nel buio, quelle parole che
le riecheggiavano nella testa. Di nuovo…di nuovo.
La mattina seguente non si alzò.
Sentì Tom vestirsi e baciarla sulla guancia prima di uscire dalla stanza, ma
continuò a far finta di dormire. Ascoltò le voci degli altri nel corridoio e con
un sussulto riconobbe la risata di Georg.
Dopo un’ora cadde il silenzio.
Solo quando si ricordò che quella mattina i ragazzi avevano un appuntamento in
produzione decise di uscire da quella stanza.
Si sentiva uno straccio e non sapeva se a provarla di più erano i postumi della
notte insonne o i particolari della sera prima, che continuavano a riaffiorare
violentemente davanti ai suoi occhi, implacabili.
Scese in cucina. Li tutto era uguale, come a voler sottolineare che non era
successo niente di così grave.
Prese un bicchiere dalla credenza e ci versò dell’acqua dentro.
Quando si rese conto che era lo stesso che aveva riposto prima che il fatto
accadesse, scoppiò a piangere.
Ricomparve Georg, ricomparvero la sua voce e quelle parole.
Bill si tolse le cuffie e uscì dalla stanza insonorizzata. Aveva sete.
Quella mattina Tom, Georg e Gustav dovevano discutere con David di alcune
migliorie da fare sul suono e la sua presenza non era necessaria, perciò aveva
preferito rimanere in studio a provare qualcosa.
Salì le scale controvoglia. Ogni maledettissima volta si dimenticava la
bottiglia d’acqua sul tavolo. Imprecò sottovoce.
Solo quando entrò in cucina e vide quello che vide interruppe la serie di
improperi che gli uscivano dalla bocca.
Seduta a terra, la schiena contro la credenza e un bicchiere in mano, c’era
Laura in lacrime. Continuò a piangere silenziosamente anche quando lo vide.
Aveva il viso pallido e le occhiaie.
“Fai qualcosa! Muoviti!”
Bill le si avvicinò cautamente. Si accovacciò di fronte a lei che abbassò gli
occhi, gocce salate che le scivolavano lungo le guance.
-Che succede?- chiese a bassa voce.
Lei non rispose.
-Ok dai…- Bill le sfilò il bicchiere di mano e lo posò sul tavolo, poi si
sedette accanto a lei.
Restarono in silenzio per un po’. Al suo fianco Laura continuava a tremare. Si
sentiva stupido e impotente.
-Vuoi abbracciarmi?- chiese sussurrando.
Laura lo guardò. Aveva gli occhi arrossati. Annuì piano.
Bill la strinse a se con dolcezza.
La ragazza appoggiò il viso sulla sua spalla e lo abbracciò.
Sentirla sussultare sotto le sue mani, scossa dai singhiozzi, avvertire le sue
lacrime che gli bagnavano il collo, lo fece stare ancora peggio.
Che cosa l’aveva sconvolta in quel modo?
Forse voleva tornare a casa sua? Forse le mancava qualcuno?
Bill fece tante supposizioni in quei dieci minuti che rimasero abbracciati, ma
nessuna lo soddisfò o lo convinse. C’era qualcosa di più, lo intuiva, ma cosa
fosse gli era impossibile capirlo.
Il respiro di Laura si fece più regolare con il passare dei minuti.
-Vuoi scendere giù con me?- le chiese nell’orecchio.
La ragazza sciolse l’abbraccio, gli occhi gonfi e la pelle chiazzata di rosso.
-Si- rispose con voce roca.
Bill l’aiutò ad alzarsi. Gli sembrava di avere tra le braccia qualcosa di troppo
fragile per essere toccato.
Scesero insieme in sala registrazione.
-Siediti qui- disse facendola accomodare alla poltrona di fronte ai controlli.
Laura ubbidì in silenzio.
-Ok, metti queste- Bill le fece indossare un paio di cuffie –Oa io passo di la,
quando ti faccio un segno tu schiaccia questo pulsante rosso- aggiunse
indicandole un grosso bottone di plastica –Puoi alzare o abbassare il volume con
questa levetta. Il resto dei pulsanti non ho la più pallida idea di come
funzionino…quindi ignorali-
Laura annuì impercettibilmente.
-Io passo di la. Stamattina dovrai sopportarmi, mi dispiace- disse alla ragazza.
Lei si aprì in un sorriso umido.
Era carina e terribilmente tenera così stravolta.
“Smettila! Smettila Bill!”Bill passò nella stanza insonorizzata e si
sedette sull’alto sgabello, sporgendosi verso il microfono. Alzò il pollice e
vide Laura premere il bottone oltre lo spesso vetro.
“Zum ersten Mal alleine
In unserem Versteck…”
Quella canzone era una delle sue preferite, nonostante l’avesse sentita ben
poche volte dal vivo.
Cantata a cappella da Bill, in una mattina come quella, fu una cosa
completamente nuova.
Con le cuffie le sembrava che il ragazzo le sussurrasse nelle orecchie le parole
della canzone. Laura alzò il volume e guardò Bill. Aveva chiuso gli occhi. Lo
osservò bene. Aveva i capelli lisci come la prima volta che l’aveva visto, sul
quel palco a Monaco, che sembrava così lontano.
Era affascinante, era diverso. Forse era proprio quella diversità a renderlo
interessante. Indugiò con gli occhi sul suo viso, sulle sue labbra, le mani
appoggiate sulle cuffie. Pensò che cinque minuti prima erano stretti, vicini.
Brivido.
Laura abbassò subito gli occhi, come se qualcuno l’avesse colta in flagrante a
rubare o peggio.
Che cosa stava pensando?! Era impazzita?!
Chiuse gli occhi e rilassò la mente. La voce le entrò dentro, lasciandola
galleggiare in un luogo non ben precisato lontano dal suo corpo e dal suo
dolore.
Quando la canzone finì lei non se ne accorse immediatamente. Aprì gli occhi e
incrociò quelli di Bill.
Si sorrisero.
Bill continuò a cantare fin quando lei non si riprese del tutto, poi
l’accompagnò al terzo piano e le impose di riposarsi.
Laura cercò debolmente di opporsi. Ma in fondo non le dispiaceva per niente
l’idea di dormire un po’.
-Dormi quanto ti pare- disse Bill coprendola –Ne hai bisogno-
Laura fece un sorriso stanco.
-Grazie Bill- sussurrò.
Il ragazzo si sporse su di lei e le diede un bacio sulla guancia.
Laura non riuscì ad ignorare la capriola inquietante che fece il suo cuore. Bill
aveva un buon profumo.
Quando il ragazzo lasciò la stanza lei si appoggiò sul fianco.
Decise di soffocare i sensi di colpa. Non stava facendo nulla di male in fondo.
Chiuse gli occhi e si addormentò, cullata dalle parole di quella canzone che
sentiva ancora, sussurrata nelle sue orecchie.
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Capitolo 15 *** Capitolo 15 ***
TOC TOC
Laura aprì gli occhi. La luce del sole che entrava dalla finestra le diede
fastidio.
Si era svegliata da un po’, ma aveva deciso di aspettare ad alzarsi. Dopotutto
non aveva tutta questa fretta.
Alzò la testa.
-Avanti- disse. Sicuramente era Tom. Cercò di ignorare la sua testa che la
rimandava a Bill.
Per distrarsi guardò l’orologio appoggiato sul comodino: le 15.16. Aveva dormito
parecchio.
Quando riportò lo sguardo sull’uscio sobbalzò. Era Georg.
Per un attimo restò gelata sotto le coperte.
-Vattene- disse fredda.
Lui abbassò gli occhi.
-Per favore…devo parlarti- disse. Laura sentì la voce di Gustav nel corridoio,
stava parlando con Bill. Si calmò un po’. C’era qualcuno.
-Entra…ma lascia aperta la porta- era diffidente. Chi non lo sarebbe stato? Dopo
quello che era successo poteva fidarsi?
Georg ubbidì ed entrò nella stanza, andandosi a sedere su una poltrona bianca
alla destra del letto.
Era evidente che si sentisse a disagio, ma a lei non dispiaceva per nulla.
-Senti Laura…ieri sera ho fatto una cazzata…non volevo. Non lo so, ho bevuto
troppo…si, ho bevuto troppo e non mi sono controllato. Non so cosa mi è
preso…non so perché l’ho fatto…cazzo- Georg si interruppe e scosse la testa.
Laura non disse nulla.
-Mi puoi perdonare?- chiese il ragazzo. Laura spostò lo sguardo altrove.
-Ci vorrà un po’ di tempo…non lo dirò a Tom…però non puoi chiedermi di
perdonarti subito- rispose.
Georg annuì debolmente.
-Grazie- mormorò. Poi si alzò ed uscì dalla stanza.
Laura sospirò. Si sentiva immensamente pesante.
Bill spostò per l’ennesima volta lo sguardo su Laura, giocherellando
distrattamente con i capelli. La ragazza era accovacciata sul divano di pelle
del salone e, mentre Georg, Tom e Gustav guardavano un qualche film che a lui
non interessava, scriveva sulla sua solito agenda nera.
La ragazza sollevò lo sguardo all’improvviso e lo beccò. Sorrise e poi ritornò
alla sua agenda. Bill spostò prontamente lo sguardo maledicendosi in lingue a
lui sconosciute. Era un deficiente, un deficiente completo. Cosa cazzo pensava
di fare?!
Fece finta di guardare la tv per un paio di minuti. Gli altri ridevano come
degli imbecilli. Il film doveva chiamarsi American qualcosa…ma a lui non
interessava, trovava stupido quel genere di umorismo.
Non ce la fece, il suo sguardo tornò si Laura. Scriveva ancora.
Erano mesi che Bill la vedeva scrivere su quell’agenda, dappertutto, in
autogrill, sul tourbus, prima e dopo i concerti, appoggiata sugli amplificatori.
Ormai la curiosità lo divorava. Non era abituato a desiderare di spiare le
persone, ma con Laura gli succedeva.
Perché scriveva? Cosa scriveva?
Era diventato morboso.
Laura mosse appena il capo e lui si voltò di scatto verso la tv. Il collo lanciò
una fitta di ammonimento.
-Ahi- si lasciò sfuggire.
Tom si voltò verso di lui.
-Ehi, che combini?- chiese perplesso.
-Niente, niente- sbuffò Bill.
In tv c’era una bionda dalle labbra gonfie e le tette che debordavano dalla
camicetta.
Quando il film finì Georg e Gustav andarono a riposarsi. Tom e Laura rimasero
ancora per un po’ con lui, poi li raggiunsero. Bill dubitava che andassero anche
loro a riposare. Li guardò allontanarsi e sentì lo stomaco stringersi.
Quando la porta si chiuse lui spense la tv e si guardò intorno.
Lo sguardo gli cadde automaticamente sull’agenda. Laura l’aveva lasciata li, sul
divano, a pochi passi da lui.
Si immobilizzò per un secondo.
La tentazione era grande, ma sapeva che era una cosa fondamentalmente sbagliata.
A lui capitava di scrivere i suoi pensieri e le bozze dei loro testi su fogli
sparsi, e nessuno poteva leggere nulla finché non era lui stesso a deciderlo.
Conosceva bene il desiderio di far rimanere ciò che scriveva tra lui e la carta,
e quello che scriveva Laura era, molto probabilmente, un diario. Un diario era
una cosa personale, molto personale, e delicata. Leggere un diario era come
violare i pensieri di una persona.
Fissò lo sguardo sulla superficie di pelle nera.
Ma Laura non avrebbe mai saputo. Lui avrebbe custodito bene i suoi pensieri.
Bill era consapevole di non essere come “gli altri”. Era più sensibile, più
propenso ad immedesimarsi nei sentimenti di una persona. E forse scoprendo cosa
affliggeva Laura, sarebbe riuscito ad aiutarla, a non farla soffrire.
L’agenda era troppo vicina per resistere.
Si alzò silenziosamente e si spostò sul divano dove Laura era accovacciata poco
prima.
Prese l’agenda in mano, le orecchie tese. Nessun rumore.
Si alzò e andò al tavolo, appoggiò l’agenda sul legno scuro.
Conosceva suo fratello, non sarebbero usciti da quella camera per un po’.
Aprì la finestra. L’aria era stranamente mite per essere fine gennaio.
Un fiotto di luce solare lo investì, riscaldandolo. Si sedette al tavolo e aprì
l’agenda.
Sfogliò le pagine. Erano scritte in una calligrafia minuta e stretta, ma facile
da capire.
Tornò alla prima pagina. Lesse la data. Il giorno della partenza da Monaco.
Ascoltò ancora una volta il silenzio…e poi cominciò.
“Il mio diario comincia con una fuga.
Sono qui, su questa casa a quattro ruote, e guardo l’asfalto sfrecciare fuori
dal finestrino da due ore.
Non riesco ancora a capire cosa ci faccio in questo posto, ne perché ho preso
questa decisione.
L’unico fatto reale e inconfutabile è che ci sono.
Ho conosciuto Tom…Tom con cui ho fatto l’amore…
E’ passata “la prima volta”, e non ho nessuno con cui condividere le emozioni
agrodolci che ho provato.
Ora mia madre c’è più, ma non c’è più nemmeno Monica. Le uniche due persone
importanti nella mia vita, nel bene o nel male…
Sono qui per fuggire da lei…lei di cui stamattina, mentre indossavo una
maglietta pulita, ho sentito l’odore. E’ stato quando mi sono fatta scivolare il
cotone addosso. C’era il suo profumo di pelle, di mamma, intriso in quel cotone.
Ed eccola che è riapparsa di nuovo li, davanti ai miei occhi, sobria. Sapevo che
l’avevo immaginata, perché non l’ho mai vista davvero sobria, a parte in
ospedale. Ma quando è comparsa li, creazione della mia mente, mi ha spinta a
rendere certa una scelta ancora in forse.
Devo scappare da lei.
Ci devo riuscire.”
Bill sollevò lo sguardo.
Il rumore di una porta che si apriva in fondo al corridoio.
Si alzò di scatto e riappoggiò l’agenda sul divano, poi si gettò sulla poltrona
e accese la tv.
Tre secondi dopo sull’uscio apparve Laura.
Ringraziò mentalmente che il corridoio da li alle camere fosse così lungo.
La ragazza gli sorrise e raccolse l’agenda dal divano, poi scomparve di nuovo in
corridoio.
Bill tirò un respiro di sollievo.
Per un pelo.
Aveva letto solo una pagina e aveva già rischiato di farsi beccare.
Promemoria: accertarsi che la prossima volta Tom facesse davvero finta di essere
stanco.
***
I primi di febbraio i ragazzi
ricominciarono a lavorare. Tutti si trasferirono di nuovo sul tourbus per la
seconda parte del tour.
Per Laura fu un cambiamento abbastanza traumatico. Si era appena abituata a
ricordare dove fossero le stanze e gli interruttori nello studio di
registrazione, e già aveva dovuto rifare le valige e ritornare agli spazi
stretti del tourbus.
Lei e Georg non si ignoravano totalmente quando erano assieme agli altri, ma
facevano finta di non vedersi quando si incontravano da soli nel corridoio.
Laura non aveva ovviamente detto nulla a Tom, non era così stupida da non capire
che una cosa del genere avrebbe creato tensioni all’interno della band, e prima
di un tour era una cosa a dir poco sconsigliabile.
Ricominciò la trafila di folle urlanti, via vai di giornalisti e manager. In
pubblico e alle feste lei si metteva in un angolo e faceva finta di non avere
niente a che fare con loro. Tom era meno prudente, le faceva gli occhiolini a
distanza e sillabava frasi oscene con le labbra.
Sempre più spesso si sorprendeva ad osservare Bill. Era come un riflesso
incondizionato, non se ne accorgeva e anche quando se ne rendeva conto non
distoglieva lo sguardo. Era magnetico, come Tom, ma il suo era un magnetismo
diverso, forse più intenso.
Quando, però, i suoi occhi si spostavano nuovamente su Tom si sentiva in colpa,
pur cercando di convincersi di non aver fatto nulla di male.
Ma non riusciva a far finta di non riconoscere che le sere in cui lei e Bill
rimanevano fino a tardi a parlare, erano notevolmente aumentate.
Bill era piacevole e sotto molti aspetti simile a lei. Riuscivano a capirsi.
Tom era diventato ancora più dolce. Dopo che facevano l’amore era capace di
rimanere a guardarla per ore, fin quando non si addormentava sotto i suoi occhi.
La accarezzava, la abbracciava. E quelle attenzioni erano tutte nuove per lei.
Si ritrovava accanto a tre persone speciali, che avevano a cuore la sua
felicità, che si preoccupavano quando stava male. E le sere, quando erano tutti
in una stanza, seduti attorno al tavolo, a parlare di cose senza senso…una sorta
di calore interno la pervadeva. Era un calore che da qualche settimana a quella
parte aveva cominciato a profumare di famiglia, di casa.
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Capitolo 16 *** Capitolo 16 ***
“Questa mattina pensavo a Monica…
Chissà cosa penserà di me e di quello che le ho detto.
Chissà se davvero mi chiamerà se dovesse succedere qualcosa.
Solo ultimamente mi sono resa conto di quanto fosse Monica per me. La nostra non
è solo amicizia…no…è molto di più. Siamo sorelle.
Chi mai abbandonerebbe una sorella?
Che amica sono?
…
Forse è meglio concentrare i miei pensieri su altro.”
Bill alzò lo sguardo e rizzò le orecchie.
Nulla.
Girò pagina, sussultando al gracchiare della carta.
Erano giorni che rimaneva sveglio fino a tardi per riuscire a leggere il diario
di Laura. Ormai non poteva più farne a meno.
Aspettava che tutti gli altri andassero a dormire, e poi apriva l’agenda, che la
ragazza lasciava spesso e volentieri sul tavolo la sera.
Abbassò lo sguardo ritornando alla lettura.
“Perché? Perché è successo?
Lui è appena uscito dalla stanza e io sono di nuovo qui, a tremare e piangere.
Non riesco a sanare questo malessere.
Vorrei tornare indietro di ventiquattro ore e cambiare tutto. Invece sono
bloccata, costretta dalla mia mente a dover sentire di nuovo quelle labbra e
quelle mani su di me…a dover vedere i suoi occhi.
Mi ha presa così alla sprovvista che non sapevo cosa fare. Urlare? Colpire? Ma
con quale forza se ne ero stata privata?
È stato orribile. Mi sento sporca e colpevole…pur cercando di ripetermi che non
ho fatto nulla.
E stamattina eccolo li, su quella porta. Non so perché l’ho fatto entrare…avrei
voluto…non lo so.
Si è scusato, sembrava pentito. Ha detto di aver bevuto troppo…ma io non ci
credo. Conosco fin troppo bene gli occhi di qualcuno che ha bevuto troppo, e i
suoi occhi erano alterati, si, ma non incoscienti.
Dovrò soffocare le parole dentro…eppure l’unica cosa che vorrei è poter parlare
con qualcuno…sfogarmi…forse mi farebbe bene.
Ma non posso!
Non posso…
Oggi Bill ha cercato di confortarmi e, per poche, allevianti ore, ci è riuscito…
Ma lui non conosce il motivo della mia sofferenza, non può aiutarmi.
Ho pensato di interrompere tutto qui e scappare. Ma dove andrei?
Ritornerei a casa…ritornare…no. Non posso. Non posso fare nemmeno questo.
Grido in silenzio, piango in silenzio, soffro in silenzio.
Non mi sono mai sentita così sola come ora.”
Bill accarezzò la pagina.
Le lacrime di Laura erano cadute sull’inchiostro, sbavandolo in strane sfumature
azzurrine.
Era sconvolto.
Laura non aveva fatto nessun nome, ma di chi si parlasse in quelle righe era
facilmente deducibile. Bill si ricordava benissimo chi era rimasto solo con
Laura la sera della loro cena.
Richiuse l’agenda e l’allontanò da se.
Forse la cosa migliore sarebbe stata non cominciare a leggere quel diario.
Erano dieci giorni che lo aveva tra le mani, che si era immerso in quel fiume di
pensieri, e ora aveva paura.
Aveva ricavato un’istantanea dell’anima di Laura, un’immagine che era
pericolosa.
Quella ragazza portava dentro di se un dolore ben radicato, avvinghiato a lei,
che non la voleva lasciare. Ma nello stesso tempo era diversa da qualsiasi altra
persona gli fosse capitato di incontrare.
Aveva letto pagine dove si commuoveva per la bellezza di un cielo stellato, dove
riusciva a dire cose, con semplici parole, che lo travolgevano e lo
confondevano. Aveva una sensibilità immensa, nascosta dietro quella fragilità da
farfalla.
Portò le ginocchia al petto e le circondò con le braccia.
Stava male. Malissimo.
Cosa doveva fare? Non poteva dirlo a lei, o avrebbe scoperto che leggeva il suo
diario. Non poteva dirlo a Tom, l’unica persona con cui aveva sempre potuto
sfogarsi. Ora si ritrovava a dover nascondere troppe cose al fratello.
Gli nascondeva quello che sapeva di Laura, quello che l’avrebbe aiutato a capire
perché a volte era come se scomparisse, lo sguardo altrove.
Gli nascondeva quello che sapeva esserle successo.
Gli nascondeva i suoi sentimenti per la ragazza…sentimenti che ora erano
diventati troppo forti.
Perché proprio lei Bill? Perché vuoi rovinare tutto?
No..non avrebbe rovinato nulla.
Avrebbe fatto come Laura, sarebbe rimasto in silenzio.
Ma solo a pensare di dover vedere altri giorni che si susseguivano uno dietro
l’altro, giorni in cui poteva solo guardarla da lontano, solo parlarci, giorni
in cui solo suo fratello poteva toccarla e farla sua, il cuore gli si
infiammava.
Appoggiò la testa sulle ginocchia e chiuse gli occhi.
Fece finta di non sentire la lacrima nera che gli cadeva lungo la guancia,
cercando un posto migliore dove nascondersi.
***
Quei mesi furono un supplizio.
Bill cominciò ad agognare la stanchezza.
Era sollevato all’idea di avere un concerto al giorno, al pensiero di stancarsi
e sfibrarsi al punto da non riuscire più a pensare. Sui palchi di mezza Europa
cercò con tutte le sue forze di seppellire i suoi sentimenti, di nasconderli
sotto ore di salti, urla, sorrisi. Temeva più che mai i momenti di pausa.
Sul tourbus ormai evitava Laura e passava sempre più tempo rintanato nella sua
cabina, a scrivere fiumi e fiumi di parole senza senso. Aveva smesso di leggere
il suo diario, non era il caso di infierire ancora. Il suo sguardo verso Georg
comunque non era potuto non mutare, non riusciva a vederlo come prima. Adesso
c’era qualcosa di sbagliato nel loro gruppo, una crepa, un’incrinatura. Capì che
Laura aveva ragione, che lui non era davvero ubriaco, quando si accorse che
spesso e volentieri il ragazzo indugiava con gli occhi su di lei, mentre gli
altri erano distratti. Era in quei momenti che desiderava non aver mai scoperto
niente, semplicemente ignorare tutto. Scappava nella sua camera ed esplodeva
una, due, cento volte, dentro di se.
E per quanto cercasse di sfinirsi, non riusciva a togliere la presenza costante
di Laura dalla sua mente. Ogni volta, i secondi prima di salire sul palco,
fermo, sotto una delle tante scale di metallo, si voltava e riusciva a trovarla.
Spesso era dietro la grata che proteggeva il fondo del palco, i quadratini di
luce che le si riflettevano negli occhi. Laura lo guardava, gli sorrideva
rassicurante, in quel suo modo malinconico. E ormai non poteva più fare a meno
di quel sorriso, gli serviva, prima di ogni concerto, gli occorreva tanto quanto
il sorriso che suo fratello gli faceva pochi minuti dopo sul palco,
inconsapevole del tumulto che lui aveva dentro.
Erano mesi che Tom non si portava più a letto nemmeno una groupie…e Bill, con
una punta d’amarezza e cattiveria, desiderava ricominciasse. Almeno avrebbe
avuto un motivo per pensare che suo fratello non meritava Laura.
Marzo e Aprile volarono via come niente. Maggio arrivò, e ormai ovunque si
spostassero cominciava a far caldo.
L’ultimo concerto fu in Germania.
Migliaia e migliaia di fan in delirio, un degno saluto.
Era solo sul palco che riusciva a trovare la pace.
Tom si lasciò cadere sul letto.
Laura sorrise e cominciò a sfilarsi i fermacapelli davanti allo specchio.
Era diversa. Ma non sapeva ancora in che modo. Forse era come si muoveva, o come
si guardava. Aveva perso innocenza e purezza, ma acquistato volti da donna.
-Abbiamo finito…ci pensi?- disse Tom, i jeans che spuntavano nell’angolo in
basso dello specchio.
-Si- rispose Laura facendo cadere un fermaglio a terra. Si chinò a raccoglierlo
e quando si sollevò vide Tom dietro di lei. Le appoggiò il viso tra il collo e
la spalla, come faceva sempre, e incrociò il suo sguardo nello specchio.
-Adesso andiamo a casa- disse. Laura si fermò.
Casa…
-Dove?- chiese nascondendo il fremito che aveva sentito lungo la schiena. Che
fosse il suo sesto senso ad avvertirla?
-Ti porto casa mia e di Bill, ti voglio far conoscere una persona- rispose lui
sorridendo. Poi alzò una mano e le sfilò l’ultimo fermaglio che aveva nei
capelli, vicino al suo orecchio.
-Sei sicuro Tom?- Laura lo osservò. Non c’era traccia di indecisione sul suo
volto. Era sempre sicuro Tom. Sempre.
-Si- disse. Con una mano spense la luce. La stanza cadde nell’oscurità, rimasero
loro due, di fronte a quello specchio, i volti vicini, illuminati dalla luna che
brillava nel cielo, nonostante il paesaggio continuasse a scorrere oltre quel
vetro.
-Sei bellissima- sussurrò Tom. Laura non rispose.
Il ragazzo la baciò sui capelli, respirando il suo profumo. Poi fissò di nuovo
gli occhi su di lei, dentro di lei.
-Ti amo-
Il suo cuore saltò un battito. Non erano le parole che si aspettava.
Tom le baciò il collo e cominciò a sfilarle le spalline della maglietta che
portava.
Non pretese un “ti amo” di risposta, non le chiese nulla. La amò un’altra volta.
Senza voler niente in cambio.
Laura vide i loro corpi intrecciarsi di fronte a quello specchio.
Pelli candide e fragilità.
Fu all’improvviso che riflesso in quello specchio scorse Bill. Li guardava,
imperturbabile, frutto della sua immaginazione. La stava mettendo di fronte alla
verità nel modo più crudele che poteva esserci.
Come dirti che non ti amo Tom? Come dirti che ti voglio troppo bene per
raccontarti la verità?
Laura lo guardò addormentarsi, il viso appoggiato sul suo addome. Gli accarezzò
i capelli, nel silenzio impietoso di quella stanza, su quel tourbus, che li
portava verso una casa che non era sua, ma che Tom voleva condividere con lei,
in cui voleva accoglierla senza farle nessuna domanda.
Come l’avrebbe ripagato di quell’amore incondizionato?
Si morse le labbra, soffocando i gemiti e i sussulti…
Ancora lacrime silenziose.
Io non voglio farti del male…
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Capitolo 17 *** Capitolo 17 ***
Quando arrivarono in Germania i quattro si
divisero. Ognuno ritornò dalla propria famiglia.
Saki li accompagnò a casa Kaulitz e poi si dileguò anche lui.
La casa si trovava fuori dal centro abitato. Era una bella villetta, grande,
circondata da un ampio giardino cinto da un muro.
I bodyguard li accompagnarono oltre il cancello, trasportando le valige.
Percorsero un vialetto lastricato, bianco. Quando arrivarono a metà la porta
d’ingresso si aprì e comparve una donna bionda che li accolse con un caldo
sorriso.
Era bella. Aveva un viso dai tratti marcati ma dolci, e somigliava molto ai
gemelli.
Andò loro incontro e strinse a se i figli in un unico abbraccio, ridendo. I due
ragazzi restituirono quel gesto affettuoso con lo stesso trasporto.
I bodyguard lasciarono le valige nell’ingresso e si dileguarono.
Laura si sentiva tremendamente a disagio.
Cosa c’entrava lei? Perché era li?
Quando i tre si staccarono la donna posò lo sguardo su di lei. Era evidentemente
perplessa.
Tom arrivò in suo soccorso, saltandole al fianco.
-Mamma questa è Laura, la mia ragazza- disse sorridendo.
Laura trasalì. Era la prima volta che glielo sentiva dire, e faceva un effetto
strano. Inquietante.
Lo sguardo della donna mutò. Prima si fece incredulo, visibilmente incredulo,
poi probabilmente si rese conto di non essere molto incoraggiante e fece un
sorriso affabile. Le strinse la mano. Era una stretta decisa.
-Piacere Laura, io sono Simone- si presentò.
-Piacere mio- rispose Laura. Si sentiva terribilmente impacciata.
Ma cose era venuto in mente a Tom? E lei aveva anche acconsentito!!!
-Su entriamo, così potrete mettervi comodi- disse la donna facendo strada. Bill
si separò da lei e Tom e si affiancò alla madre, abbracciandola.
-Bill è sempre stato il suo preferito, ma non lo ammetterà mai- le sussurrò Tom
all’orecchio. Sorrideva. Non sembrava serbare rancore.
Laura guardò i capelli di Bill ondeggiare davanti a lei.
Erano tre mesi che non parlavano più insieme.
Lei si era perfettamente accorta che Bill faceva di tutto per evitarla, ma non
aveva chiesto spiegazioni. Inizialmente la cosa l’aveva rattristata, ora le
faceva male. Da sola non riusciva a capire il perché di quei silenzi, di
quell’allontanamento, ma nemmeno aveva fatto nulla per trovarlo. Forse era
davvero meglio così…più stavano lontani, più facile sarebbe stato per lei non
indugiare su pensieri impossibili e sbagliati. E se avesse chiesto spiegazioni
Bill si sarebbe potuto insospettire.
Entrarono in casa. Era un ambiente caldo. C’era molto legno e parecchi mobili,
su cui erano appoggiati diversi portafoto. Di fronte all’ingresso c’era una
scala che doveva portare al piano superiore.
Laura rimase un attimo a guardarsi intorno. Quella casa le piaceva. Aveva un
rassicurante odore di pulito e di amore.
Sentì Tom sussurrare qualcosa a sua madre. Bill era già sparito da qualche
parte.
-Vieni Laura, seguimi. Ehi tu, aiutala con i bagagli giovanotto- disse Simone
cominciando a salire le scale. Tom si caricò in spalla il suo zaino e la
valigia.
Il piano superiore era grande e c’erano diverse porte. Evidentemente le camere
da letto erano tutte li.
Superarono la prima porta, da dentro proveniva della musica. Doveva essere la
stanza di Bill.
Simone entrò nella stanza successiva. Era piccola. Sotto la finestra della
parete di fondo c’era un letto dalle lenzuola azzurre. Attaccata alla parete
destra c’erano una scrivania e diverse mensole. L’armadio era a sinistra.
Si vedeva che in quella stanza non c’era stato nessuno per diverso tempo.
-Tu puoi metterti qui. Tom dormirà con Bill nella stanza accanto, è più grande-
Tom abbandonò con un sospiro le valige a terra.
-Grazie. È gentilissima- disse lei.
-Oh tesoro, ti prego non darmi del lei. Mi sento estremamente vecchia!- rise la
donna. Lei avrebbe voluto sprofondare. Si limitò a sorridere.
-Va bene…- mormorò. La donna le sorrise ed uscì dalla stanza.
-Vi aspetto per la cena ragazzi. Tom, avvisa Bill per favore- disse a voce alta,
ormai arrivata alle scale.
Laura e Tom si guardarono. Era come se lui si aspettasse una specie di verdetto.
Aveva gli occhi sgranati.
Laura si avvicinò alla finestra. Da li si vedeva il retro del giardino. Era
bellissimo, con un che di trascuratezza che lo rendeva magico al punto giusto.
-Ti piace?- chiese Tom.
-Tantissimo- rispose lei voltandosi. Tom era radioso. Era felice, felice
davvero. Glielo si leggeva in faccia.
Laura si avvicinò e lo abbracciò. Si baciarono.
Perché i loro occhi si trovavano sempre così vicini e il suo cuore non batteva
più?
Da mesi i suoi fremiti non avevano più lo stesso significato.
I giorni successivi furono strani. Molto più che sul tourbus.
Prima Laura era abituata alla presenza costante di Gustav e Georg, ora passava
quasi tutto il suo tempo con i gemelli e basta.
Aveva sperato di poter conoscere meglio la madre di Tom e Bill, ma Simone era
impegnata con il suo lavoro, e molte volte restava intere giornate fuori casa.
Passò il suo tempo ad osservare i due fratelli che vivevano come persone
normali, affascinata dalla loro simbiosi. Erano così uguali, ma anche così
diversi. L’uno l’opposto dell’altro.
Bill continuava ad evitare il suo sguardo, a sfuggire ai suoi occhi. La maggior
parte delle ore in casa Kaulitz le trascorse con Tom.
Un sabato sera, alla fine della prima settimana di Giugno, rimasero da soli a
casa. Simone aveva una cena di lavoro, e non sapeva quando sarebbe tornata. Di
comune accordo i tre decisero di ordinare una pizza.
Quando finalmente la cena arrivò a Laura venne l’idea di spostarsi in giardino a
mangiare. Faceva davvero troppo caldo per restare in casa.
Si fece aiutare dai due fratelli e portarono le cibarie in veranda, assieme ad
una buona scorta di birre che Tom si rifiutò di abbandonare in cucina.
Cenarono ridendo e scherzando, forse complici le diverse bottiglie di birra che
Tom si era scolato. Laura si sentiva più leggera. Li guardò sorridere e
prendersi in giro. Vederli così, affiatati, uniti, la metteva di buon umore e le
riscaldava il cuore.
Verso la mezzanotte fu fin troppo evidente che Tom aveva alzato di parecchio il
gomito. Quando cercò di arrampicarsi sulla sedia Bill lo fermò e lo trascinò su,
in camera, mentre il fratello continuava a ridere istericamente.
Laura rimase a sparecchiare, poi, quando finì, spense la luce della veranda e
osservò il giardino, illuminato solo dalla luce delle stelle. Fece una cosa che
desiderava fare da tanto tempo.
Si sfilò i sandali ed entrò nel giardino, passeggiando a piedi nudi sull’erba
morbida.
Arrivata al centro del prato si distese.
Il cielo era stupendo.
Pur essendo stesa li, si sentiva in capo al mondo.
Soundtrack: Relapse - Antimatter
Bill tornò giù a tastoni nell’oscurità.
Quando vide che la luce della veranda era spenta pensò che Laura fosse andata a
dormire mentre lui era su, a mettere suo fratello a letto. Poi vide una figura
bianca che incedeva lentamente nel prato, fuori.
Uscì e vide Laura distesa nell’erba, il viso rivolto verso l’alto.
Doveva andare a dormire.
Vai a dormire Bill! Vai! Adesso!
Invece fece tutt’altro.
Sorprendente come la sua testa volesse fare una cosa e il corpo esattamente
quella opposta.
Raggiunse Laura e si distese accanto a lei. La vide guardarlo, con la coda
dell’occhio.
-Ciao- sussurrò.
-Ciao- rispose Bill.
-Tom?- chiese lei.
Bill deglutì.
-Tutto ok, dorme beato nel suo letto- rispose.
Calò il silenzio. Erano li, tutti e due, immobili, ad ammirare le centinaia di
stelle che brillavano nel cielo, come mille occhi di diamante.
-E’ bello vero?- disse Laura dopo un po’.
-Stupendo-
La ragazza gli prese una mano fra le sue e gli sollevò il braccio.
Bill avvertì uno strano attorcigliamento alla bocca dello stomaco.
-La vedi quella stella?- chiese guidando la sua mano verso un astro più grande
degli altri, e più luminoso.
-Si- rispose Bill. La vedeva. Era vero. Ma in quel momento pensava a tutt’altro,
come il contatto della loro pelle. Laura era calda.
La ragazza lo lasciò andare.
-In realtà è un pianeta, Venere- disse Laura –conosci il mito di Adone?-
Bill scosse la testa.
-No. Raccontamelo-
-La leggenda racconta che nell’Antica Grecia vivesse un ragazzo, di nome Adone.
Era bellissimo. Tanto bello da far innamorare due dee. Afrodite, Venere appunto,
e Persefone. Per porre fine alla loro disputa Zeus concesse ad Adone di vivere
quattro mesi con Venere, quattro con Persefone e quattro con chi lui
desiderasse.
Ma Venere convinse Adone, con l’inganno, a trascorrere otto mesi con lei,
scatenando l’ira e la gelosia di Persefone, che spinse Apollo ad uccidere Adone.
Durante una battuta di caccia il ragazzo morì, trafitto da un cinghiale. Appena
Venere lo seppe corse nella foresta, senza fermarsi, sperando di riuscire a
soccorrerlo.
Ma quando la dea raggiunse il suo amato, lui era ormai morto. Venere, travolta
dal dolore, pianse lacrime di sangue, che caddero al suolo, tante quante quelle
che aveva perduto il giovane. Le sue lacrime bagnarono le rose, che divennero
rosse.-
Laura si fermò. Bill sentì istantaneamente la mancanza della sua voce.
-Che morte stupida- disse tra se e se la ragazza –Scusami…ogni tanto parlo a
vanvera. Non so esattamente cosa c’entrasse ora il mito di Adone in effetti-
Laura cominciò a ridere.
Bill la seguì. Si rese conto di non averla mai sentita ridere davvero. Aveva una
bella risata, viva, fresca.
-No, è interessante. Mi piacciono le leggende, lo sanno tutti che c’è qualcosa
di vero in fondo- disse Bill.
-E’ vero…mmm…l’unica cosa plausibile di tutta la leggenda è che quel poveretto
sia stato trafitto da un cinghiale…magari era orribile e sua madre ha inventato
tutta questa storia per farlo ricordare- disse Laura. Bill rise. Era un’idea
totalmente da fuori di testa. Laura lo imitò.
Risero per un po’, fin quando non calò di nuovo il silenzio.
-Bill…le vedi le stelle?-
-Si-
-Ci pensi mai che noi per loro non esistiamo? Che siamo così piccoli e
insignificanti. Che basterebbe un centimetro di quella stella per distruggerci…-
Laura si interruppe per un attimo –possiamo scomparire in qualsiasi momento…ed è
finito tutto li. Anni vissuti senza scopo. Nessuno si ricorderà di noi e di
quello che siamo stati. Pochi ci piangeranno sinceramente. Non saremo più niente
su questa terra…e le stelle non ci avranno mai conosciuti. Sono sempre li e ci
osservano scomparire…e non fanno nulla per impedirlo-
Bill si voltò verso Laura. Brillava pallida al buio. Sembrava quasi irreale.
-Ti senti mai così insignificante che ti prende il panico?- chiese la ragazza.
Non spostò lo sguardo su di lui. Era ancora persa in quel mare luminoso.
-Si. A volte le persone credono che soltanto essendo una star puoi risparmiarti
certe domande. Ma non è vero. Spesso credo di non meritare tutto questo. Penso
che c’è gente migliore di me che invece non riesce a vivere…e mi sento
insignificante. E forse qualcosa in più- rispose. Improvvisamente si sentiva
triste. Immensamente triste.
Laura incrociò il suo sguardo.
Senza fiato.
Minuti privi di consistenza e importanza. Sapeva solo che c’erano loro due, i
loro occhi, e le stelle. Stelle che avrebbero visto e sarebbero rimaste in
silenzio. Anche Laura. Anche lei lo voleva. Lo intuiva. Nessuno avrebbe saputo.
Nessuno avrebbe scoperto. Bill si avvicinò, spinto da una forza sconosciuta, e
crudele. Stava sbagliando. Stava per fare uno sbaglio gigantesco, e una parte di
lui lo sapeva. Ma non gli importava.
Poi all’improvviso Laura scattò in piedi e scomparve dal suo campo visivo. Bill
si sollevò e la vide sparire in casa. Nemmeno una parola.
Rimase li, fermo.
Non sapeva cosa gli bruciava di più dentro.
Forse era la consapevolezza di aver tentato di fare qualcosa contro suo
fratello.
O forse il fatto che Laura non gli avesse dato quel bacio. Era li, così vicina,
così bella. Ma era scappata.
Bill si distese di nuovo a terra, nello stesso posto dove poco prima c’era
Laura. C’era ancora un po’ del suo calore li.
Poteva provare due sentimenti tanto diversi e discordanti nello stesso momento?
Da una parte sapeva di aver quasi tradito suo fratello. Dall’altra rimpiangeva
di non averlo fatto.
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Capitolo 18 *** Capitolo 18 ***
Volevo
davvero ringraziarvi per i bellissimi commenti che mi lasciate, e scusarmi per
il fatto che spesso mi mangio delle lettere ""^^. Non faccio apposta!!! Nelle
recensioni ho scritto la motivazione.
Ah
poi, un'altra cosa, ogni tanto avrete trovato delle scritte del genere:
Soundtrack: Nishe - Muse (esempio)
Bene,
vuol dire che la scena che ho scritto nella mia testa si svolge su quella musica
""^^. Lo so, è una cosa strana e contorta, però mi piaceva l'idea che i lettori
sapessero come mi immaginavo, cinematograficamente se vogliamo, lo svolgimento
della scena. Anche perché per me la musica ha un ruolo molto importante, in
genere.
Vi
lascio a questo capitolo, un po' lunghetto...sperando di non deludervi, e con
un'ultima raccomandazione: io parlo di persone reali, normali, e non sempre le
persone normali fanno la cosa giusta. Gli dei non esistono.
Detto
ciò (oddio somiglia tanto ad un delirio) buona lettura *_^
=Phantastica=
alias moonwhisper
************************************************************************************************************************
Laura strofinò la guancia contro il cuscino e
aprì gli occhi.
La prima cosa che vide fu un angolo di cielo grigio. Pessimo inizio per una
giornata come quella.
Sentì il familiare rumore dei passi di Tom nel corridoio. Il suo strano modo di
camminare l’aveva sempre fatta sorridere…ma quella mattina no…quella mattina il
sorriso non aveva nessuna intenzione di comparire.
Era il 7 giugno. E il 7 giugno non era mai un buon giorno.
Tom spalancò la porta ed entrò nella stanza. Laura chiuse gli occhi. Sentì il
ragazzo chinarsi su di lei.
-Laura- sussurrò. Aprì gli occhi.
Tom sorrise.
-Buongiorno- disse scostandole i capelli dalla fronte.
-Buongiorno- rispose lei strizzando gli occhi.
-Oggi sto da Andreas, ti va di venire con me?- le chiese speranzoso.
La ragazza esitò.
-Veramente…non me la sento tanto di uscire…- rispose. Per un attimo Tom parve
deluso, poi annuì tranquillo.
-Non ti preoccupare- disse baciandola.
-Vacci con Bill no?- disse Laura sollevandosi il lenzuolo fin sopra il naso. Tom
scosse la testa.
-Dovevo andarci con lui, ma ha la febbre- rispose alzando le spalle. Laura fece
finta di nulla.
-Ci vediamo stasera. Ciao- disse il ragazzo facendole l’occhiolino. Poi la baciò
di nuovo ed uscì dalla stanza.
-Ciao-
Sentì Tom salutare anche Bill e scendere al piano di sotto.
Dopo un paio di minuti la porta di casa si chiuse e una macchina ingranò nel
vialetto.
Poi niente.
Li erano rimasti solo lei e Bill.
Soundtrack: Con-Science - Muse
Laura rimase a letto per due ore buone.
Il 7 giugno.
Non avrebbe mai e poi mai dimenticato quel giorno.
Alcuni riescono a prepararsi all’impatto con un ricordo…altri ne vengono
travolti e non hanno la forza di reagire.
Il 7 giugno di due anni prima erano successe molte cose…o forse in realtà erano
poche, ma tanto grandi e pesanti da riuscire a moltiplicarsi.
La nonna di Monica era stata ricoverata. L’attacco di cuore era arrivato così,
all’improvviso. Laura aveva passato il pomeriggio in ospedale con Monica.
L’amica non aveva fatto avvicinare nessuno, nessuno tranne lei.
Quando si era fatta sera Monica l’aveva costretta ad andarsene. Avevano quasi
litigato, ma alla fine l’amica l’aveva convinta.
Laura era tornata a casa con l’anima sottosopra.
Mai, mai e poi mai avrebbe potuto immaginare ciò che l’aspettava.
Sapeva che sua madre stava male, che soffriva di depressione e beveva, anche se
ancora non capiva quanto. Ma alla sua età, pensare che qualcuno potesse
deliberatamente cercare di togliersi la vita…era una cosa inconcepibile.
La trovò in bagno, accasciata sul tappetino di fronte al lavandino.
Era un tappeto rosa. Un rosa stupido, che con il pallore della pelle di sua
madre faceva un contrasto sbagliato, grottesco.
Lei non respirava…rantolava. Un rantolo che sapeva fin troppo di morte per le
sue orecchie.
Era riuscita a rendersi conto di quello che stava succedendo dopo almeno un
minuto.
Le sembrava che il cuore le fosse scoppiato. Era impazzito. Batteva tanto forte
che le sue orecchie non percepivano nessun altro rumore.
Era corsa al telefono, le dita sudate che scivolavano sulla tastiera.
Poi era tornata in quel bagno, aveva cercato di sollevare sua madre, ma era
troppo pesante per lei…troppo pesante…
E c’erano quei respiri rotti, che le facevano paura.
Quel giorno era iniziato l’incubo, l’incubo vero, quello più brutto.
In poco tempo sua madre era passata dalle bottiglie ai tentativi di suicidio. E
lei ebbe davvero chiare le condizioni in cui giaceva.
Laura guardò di nuovo fuori dalla finestra. Cielo grigio e triste.
Si alzò. Il vestitino bianco le scivolò morbido sotto le ginocchia.
Scese in cucina. La porta della stanza di Bill era chiusa. Simone era al lavoro.
Meglio così.
Si guardò un po’ intorno. Non aveva fame, per niente. Decise di virare verso la
veranda.
Si sedette al tavolo di legno.
Le nuvole erano perlacee, coprivano il cielo come un morbido mantello.
Si sentiva oppressa.
Dov’era Monica in quel momento? E sua madre?
Nessuna chiamata. Nessuna notizia.
Ma era quello che aveva chiesto lei…era lei che aveva tagliato i ponti con
tutto, lei che aveva costretto Monica a non farsi più sentire. Lei che tentava
di porre rimedio a qualcosa e distruggeva gli altri. Egoista. Squallida.
Lo sapeva. Sapeva che stava sbagliando tutto, ma non voleva prendere un’altra
strada. Non voleva fare quello che era giusto.
Si sollevò e camminò nel prato.
Cominciò a piovere. Una, due, tre gocce…
Cominciò a piangere. Una, due, tre lacrime…
Tu non esisti…tu non esisti
Bill aprì gli occhi. Non che stesse
dormendo…semplicemente sentiva il bisogno di rilassare la mente.
Quella mattina aveva usato di nuovo il trucco della lampadina. Lo faceva spesso
quando andava a scuola.
*Flashback*
-BILL!...BIIILL!-
Bill sente sua madre salire le scale. si porta il lenzuolo sopra gli occhi e si
strofina forte le guance.
“Questa è l’ultima volta…questa è l’ultima volta” ripete dentro di se. Sa
benissimo che non lo sarà. Doveva essere quella precedente l’ultima volta…o
forse quella prima ancora?
Bill li odia. Li odia tutti perché tutti lo odiano. Perché lo evitano, perché lo
additano, perché lo seviziano.
Ogni giorno doversi alzare e costringere il suo corpo a prendere quello zaino.
Quello zaino pieno di libri inutili. Non gli hanno mai insegnato nulla i libri,
e nemmeno i professori. Anche loro si fanno sfuggire velati commenti di
disprezzo per lui. Per quello che è, per quello che rappresenta. Lo “strano”, il
“disadattato”.
-Niente borchie oggi Bill?-
E i suoi compagni ridono, e ovviamente il professore di turno fa finta di non
accorgersene.
Ma lui non vuole cambiare. Perché? Perché cambiare quello che sente di essere?
Perché gli altri non possono accettarlo? Fa forse del male a qualcuno?
È ancora troppo piccolo per capire davvero il motivo.
Sua madre entra nella stanza, i tacchi che producono quel fastidioso ma
confortante rumore sul parquet. La sente sbuffare esasperata.
-Cavolo Bill, ancora a letto?! Il bus passa tra cinque minuti!!! Non posso
giustificarti ancora!!!-
Bill prepara la sua faccia sofferente migliore ed esce dalle coperte, fingendo
di svegliarsi in quel momento.
-Mamma…non mi sento per niente bene- dice.
Sua madre lo guarda.
Non sa resistergli, ha sempre avuto un occhio particolare per lui e Bill lo sa.
Si pente di prenderla in giro in quel modo.
-Cosa ti senti piccolo?- chiede sua madre avvicinandosi al letto.
-Non lo so…forse ho la febbre-
Sua madre si china su di lui e gli tocca la fronte con la mano.
-mmm…non sei particolarmente caldo…però sei arrossato. Scendo già a prendere il
termometro- dice uscendo dalla stanza.
Bill accende la lampada appoggiata sul suo comodino appena sente sua madre
scendere le scale.
Sulla porta compare all’improvviso Tom.
Lo guarda.
-Bill…perché non la smetti?- chiede incrociando le braccia.
Bill decide di far finta di nulla, o almeno di provarci. L’unico con cui non
riesce a mentire davvero è suo fratello.
-Eh? Di fare cosa? Ti senti bene Tom?- dice tossendo. Tom scuote la testa.
-Quando capirai che non serve Bill? Che devi reagire?- sospira.
Bill arrossisce lievemente.
-Tu non capisci…non sei al mio posto…non sai cosa vuol dire subire quello che
subisco io ogni santo giorno- risponde voltandosi dall’altra parte.
Un attimo di silenzio.
-Se lo farai ancora lo dirò alla mamma- dice Tom.
-E io le dirò che l’altra sera ho visto te e Andreas che fumavate dietro la
scuola. Lo so benissimo che lo fate tutte le volte che uscite- Bill è irritato.
Non perché suo fratello abbia detto delle bugie…no, è perché ha detto la verità.
E la verità brucia.
Tom non replica. Se ne va.
Dopo pochi attimi in camera torna sua madre. Gli da il termometro e scende al
piano di sotto per sistemare le ultime cose prima di uscire.
Bill tende la mano verso il comodino e appoggia la punta di mercurio sulla
lampadina.
“Questa è l’ultima volta…questa è l’ultima volta”
Quella era stata davvero l’ultima volta, e gli dispiaceva di aver messo in piedi
tutto quel sotterfugio per non andare da Andreas con Tom.
Il suo gemello ci era cascato. Doveva avere la faccia davvero stravolta. Ma
dopotutto non si era stupito più di tanto, in quegli ultimi tempi Tom si era
rilassato oltre ogni limite, viveva in una dimensione parallela che conteneva
solo positività e felicità. Beato lui…Non lo aveva mai visto conciato in quel
modo, e non aveva ancora deciso se esserne contento o meno.
Bill scostò le coperte e appoggiò i piedi a terra.
Rabbrividì. Faceva freddo.
Recuperò la maglietta che era finita da qualche parte sotto il letto e si alzò.
Si stiracchiò pigramente. Forse avrebbe fatto meglio a rimanere a letto ancora
un po’.
Guardò la finestra. Per un attimo vide solo il suo riflesso dai capelli
spettinati oltre l’umanamente possibile…poi…vide lei.
Sembrava riuscire a mantenersi in piedi per puro miracolo. Stava li, sotto la
pioggia, le palme delle mani e il viso rivolti verso l’altro.
Fu dalle spalle che sussultavano che Bill capì. Stava piangendo.
Corse giù, i piedi nudi che toccavano il legno freddo.
Aveva quasi paura che lei scomparisse. Gli sembrava come se da un momento
all’altro dovesse dissolversi nella pioggia e scorrere via.
Ma quando uscì in giardino lei era ancora li.
Soundtrack: Tears In The Rain – Joe Satriani
Gocce di pioggia cominciarono ad inzuppargli i vestiti e i capelli. Era una
pioggia malinconia…fine e fitta.
-Laura-
Lei si voltò. Tremava come una foglia. Il suo sguardo perso mutò quando lo vide.
-Mi dispiace…- disse. Bill non capì. L’abbracciò soltanto. Dapprima Laura restò
immobile, poi restituì l’abbraccio. Lo strinse a se, afferrando le pieghe della
sua maglietta.
Rimasero abbracciati per un tempo inesistente, che si mescolava con la pioggia.
Fu lei che alzò la testa dalla sua spalla per prima.
Conoscete l’elettricità di uno sguardo? L’avete mai provata?
In un momento ti senti in grado di poter fare tutto. Niente è troppo grande.
Niente impossibile. Il mondo si annulla. Come potrebbe mai importarti del mondo
se davanti a te hai quello sguardo?
Il mondo non esiste. Li ci sono solo i tuoi occhi e i suoi. Il resto? È niente.
Le loro labbra si cercarono da sole.
Opporvisi? Ragionare? Impossibile. I cuori ancora troppo giovani non sono stati
creati per questo.
Fu un bacio lungo, che sapeva di pioggia, che sapeva di candido. E in quel
momento ci credevano davvero anche loro.
Quando Laura riaprì gli occhi vide il sole. Si era aperto uno squarcio in quelle
nuvole opprimenti, e adesso raggi dorati li investivano, scoprendoli nel loro
errore.
Pioggia d’estate.
Tornò su Bill con gli occhi. La pioggia lo aveva reso più bello, più umano.
Senza tutto quel trucco, senza che fosse il risultato di ore ed ore passate
sotto ad uno staff di stylist.
In quell’esatto istante, per un terribile momento, la sua figura e quella di Tom
si fusero insieme.
Laura staccò le mani dalle spalle di Bill.
Cosa aveva fatto?
Bill inseguì la ragazza dentro casa.
Calpestò le sue impronte bagnate su per le scale, scivolando.
-Laura aspetta!- saltò l’ultimo scalino perdendo l’equilibrio, ma riuscì a
bloccare la porta della camera di Tom un attimo prima che Laura la chiudesse.
Lottarono uno contro l’altro. Fino a che Bill diede una spinta più forte e sentì
la porta cedere davanti a lui. La spalla gli faceva davvero male, ma non vi
prestò attenzione.
Laura era in piedi di fronte al letto di Tom, paralizzata, con gli occhi
sgranati.
Non le lasciò il tempo di scappare ancora.
La prese per le spalle e la baciò di nuovo.
Ne aveva bisogno. Aveva bisogno di quel tocco, di quel contatto. Ora che
conosceva il suo sapore non poteva nemmeno immaginare di doverne fare a meno.
Laura provò prima a spingerlo via…poi si arrese.
La loro sanità mentale sembrava essere scomparsa definitivamente.
Soundtrack: Nishe - Muse
Bill le toccò i capelli bagnati, le mani, il viso. Voleva ricordarsi tutto di
lei, ogni centimetro della sua pelle.
Con una sorta di pudore malcelato le abbassò una spallina del vestito bianco che
indossava.
La guardò negli occhi.
Se lei non avesse voluto, se lei l’avesse respinto, Bill si sarebbe fermato. Ma
Laura gli prese delicatamente l’altra mano e gli fece sfilare l’altra spallina.
Bill perse il conto dei fremiti mentre i loro vestiti umidi cadevano a terra,
inesorabilmente, uno dopo l’altro.
Caddero sul letto in un istante infinito.
I pensieri si annullarono. Esistevano solo loro due, loro due e basta.
Bill sembrò esitare per un momento solo. Nei suoi occhi passò qualcosa di
familiare a Laura. Ma fu solo un attimo.
Si baciarono ancora, e ancora.
Lo sentì tremare sotto le sue braccia al suo primo gemito.
Era pulito. Era innocente. Era qualcosa che mai più avrebbe incontrato.
Lo strinse. Non voleva lasciarlo andare…mai. Era tutto.
L’ultimo gemito arrivò di nascosto, e Bill scivolò al suo fianco.
Respirava come respirano i bambini. Con discrezione e dolcezza.
Suggellarono il loro patto silenzioso con un bacio. Un bacio diverso da tutti
quelli dati a Tom. Un bacio vero.
Recuperarono i battiti perduti insieme. Laura stesa su un fianco, Bill che
seguiva la forma del suo corpo, dietro di lei, le labbra morbide appoggiate sul
suo collo.
Non era stato sesso…
Era stato amore.
-Komm und rette mich, Ich verbrenne innerlich. Komm und rette mich…Ich
schaff’s nicht ohne dich. Komm und rette mich…Rette mich…Rette mich…-
Laura sorrise. Era bello scoprire che lui sapeva. Che le aveva sussurrato
nell’orecchio quella canzone perché a lei piaceva.
Bill rise e l’avvicinò a se un’altra volta. Ancora un po’ e Laura aveva la
sensazione che si sarebbero confusi uno nell’altra.
La sua pelle era fresca. Il cuscino sotto di loro bagnato dai loro capelli
intrisi di pioggia.
Laura si voltò e lo baciò piano. Poi si sollevò.
-Dove vai?- chiese Bill alzando la testa dal cuscino. Sembrava quasi
preoccupato.
-Faccio solo una doccia, non scappo mica- rispose lei sorridendo.
-Dai resta qui ancora un po’…-
-Non ci vorrà molto. Torno subito-
Laura restò poco sotto il getto bollente dell’acqua. Quando uscì dalla doccia
vide Bill appoggiato alla porta, un asciugamano legato in vita.
La guardò e sorrise dolcemente.
Quanto erano diversi i suoi sguardi da quelli di Tom? Quante emozioni c’erano in
quegli occhi?
Bill posò lo sguardo sui suoi piedi. Appena Laura se ne accorse sobbalzò.
-No ti prego non guardarmi i piedi- disse cercando di nasconderli sotto il
tappetino azzurro del bagno. Arrossì.
Bill rise.
-Perché?- chiese avvicinandosi divertito. Poi le prese il viso tra le mani e le
diede un bacio sulla fronte.
-Perché sono orrendi- rispose lei con voce sottile.
-Niente di te può essere orrendo-
Laura chiuse gli occhi in un altro bacio.
Ci faremo solo del male…solo del male Bill.
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Capitolo 19 *** Capitolo 19 ***
Nuova pagina 1
Tom rientrò a casa verso le sei del pomeriggio,
era raggiante. Lui e Andreas avevano comprato i biglietti aerei per tutti e sei,
meta: un’isola greca sperduta nel Peloponneso.
Durante la cena Tom non fece altro che ridere e scherzare. Pensava sicuramente a
tutto il divertimento che li aspettava…non sembrava preoccuparsi di altro in
effetti.
I sensi di colpa non li colpirono immediatamente. I loro occhi si incontrarono
più volte, cercando una giustificazione plausibile nell’altro.
Le settimana seguente fu…confusa, pericolosa, eccitante.
Ogni volta che Laura e Bill si trovavano da soli facevano l’amore. Erano i loro
cuori a cercarsi e i loro corpi a trovarsi.
Tom era occupato con l’organizzazione del viaggio, Simone con il lavoro.
Ore di battiti…respiri e battiti.
In cuor loro avevano già deciso di rimandare, rimandare quello che avrebbero
dovuto fare. Non se l’erano mai detto ad alta voce. Bastava guardarsi per
capire.
Partirono nel weekend.
Simone li accompagnò personalmente all’aeroporto dopo aver litigato mezz’ora
buona al telefono con Saki e Angela. Al Check-in incontrarono Gustav, Georg e
Andreas. Laura fece conoscenza con quest’ultimo. Sembrava un ragazzo a posto, il
genere di persona che poteva essere amica di Tom e Bill senza farsi troppi
complessi.
Il viaggio in aereo fu stancante. Bill e Andreas erano seduti dietro di lei e
Tom, e Gustav e Georg davanti a loro.
Tom era su di giri.
Atterrarono in un aeroporto sgangherato di una piccola città greca, e da li
presero il traghetto per l’isola di cui Laura non riusciva a ricordare il nome.
Ad ogni modo nome o no, appena arrivarono, fu certo che fosse stupenda.
Era circondata da spiagge dorate e mare cristallino per chilometri e chilometri.
Sembrava disabitata, ma fu evidente che non era così quando una guida li accolse
nel porto. Li accompagnò a “casa” loro. Era una costruzione ad un piano solo,
dai muri dipinti di un bianco abbagliante e le imposte delle finestre di un
azzurro intenso quasi quanto quello del cielo. Si trovava su una sorta di
collinetta arida.
Mentre si aggiravano per la casa lussuosa, piena di tendaggi candidi, cuscini di
lino e divani bianchi, non potevano sapere che il conto alla rovescia era ormai
cominciato.
-Noi andiamo!- esclamò Tom dall’altra stanza, un angolo della sua tavola da surf
che spuntava da dietro il muro.
-Ciao!- rispose Laura ingoiando l’ultimo sorso di latte freddo.
Attese che tutto fosse silenzioso, poi riempì un altro bicchiere di latte e
raggiunse Bill nella sua camera.
Appena entrò nella stanza lui aprì gli occhi. Ogni volta riusciva a
sorprenderla, era come se non facesse altro che aspettarla.
-Buongiorno- disse Laura sedendosi sul letto. Bill sorrise. Era bello, di quella
bellezza delicata, sottile.
-Tieni, ti ho portato un po’ di latte- disse porgendogli il bicchiere.
-Grazie – rispose lui. Bevve, e quando scostò la bocca dal bicchiere gli
rimasero due sbaffature bianche sulle labbra.
Laura rise.
-Che c’è?!- chiese Bill appoggiando il bicchiere sul comodino. Laura non
rispose, continuò a ridere.
-Ah si? Mi prendi in giro?- Bill cominciò a farle il solletico. Laura si
accasciò accanto a lui.
Era felice, davvero, per la prima volta nella sua vita. Ed era lui a regalargli
la sua felicità, solo perchè esisteva, solo perchè l'amava.
Gustav rientrò a casa soddisfatto. Era riuscito a fare tantissimi scatti, e
parecchi dovevano essere usciti molto bene.
Appoggiò il marsupio che conteneva la macchina fotografica sul tavolo e fece per
andare in camera quando…
No. Non era possibile.
Si immobilizzò sul posto, nell’atto si sollevare una gamba.
Era a pochi passi dalla stanza di Bill. La stanza dalla quale provenivano le
risate soffocate di Laura.
In pochi minuti quelle risate divennero respiri, e i respiri gemiti. Gustav
riprese istantaneamente il controllo di se stesso.
Afferrò il marsupio ed uscì.
Dannazione. Dannazione!
Ma come potevano essere stati così deficienti?
Faticava ancora a credere a quello che aveva scoperto.
Laura e Bill…proprio loro.
Si passò una mano sul viso.
Si…proprio loro…forse c’era da aspettarselo. In fondo erano i più simili. Ma no
ma cosa stava dicendo?! Lo aveva appena scoperto e li stava già giustificando!!!
Assurdo.
Ed ora? Cosa farai adesso?
Fu quando vide quelle tre sagome in lontananza che decise.
Tom, Georg e Andreas stavano tornando a casa.
Prese in fretta il cellulare e digitò il numero di Tom. Vide i tre fermarsi.
-Ehi Gustav…dimmi!- rispose Tom a voce alta.
Gustav imprecò dentro di se.
Stava per sbagliare. Ed il bello era che lo sapeva, ne era pienamente cosciente.
-State già tornando Tom?- chiese.
-Si perché?-
-No…perché…avevo pensato di venire a farmi due onde anche io…-
-Ma stamattina non avevi detto che preferivi andare a fotografare la natura o
quelle cazzate li?-
-Si ma ora ho finito…non mi va di andarci da solo. Mi ci accompagnate?-
-Si, si, ok dai…raggiungici in spiaggia. Sai dov’è-
Non seppe perché aveva tratto quel respiro di sollievo.
Vide i tre ragazzi voltarsi e tornare indietro.
Il più silenziosamente possibile raccolse il suo costume e la sua tavola da
surf, cercando di convincere le sue orecchie a tapparsi da sole visto che aveva
troppa roba in mano.
Si avviò verso la spiaggia con lo stomaco sottosopra.
Guai…grossi, grossissimi guai.
-Si! Poi non contento Georg ha sbattuto la
faccia contro la mia tavola da surf mentre sollevava la sua…-
Tutti risero.
Era almeno mezzanotte. Si trovavano sul terrazzo, attorno ad un lungo tavolo che
fino a mezz’ora prima era stato pieno di strane cose da mangiare dal sapore
squisito.
Laura non ricordava di aver mai mangiato tanto. Si guardò intorno. Erano tutti
abbronzati tranne Bill. Le aveva detto che non le piaceva molto prendere il
sole. Lei, Andreas, Gustav, Georg e Tom invece avevano le guance rosse tipiche
dei primi giorni di vacanza al mare.
Il buonumore regnava sovrano sui commensali: Tom aveva appena finito di fare
l’imitazione di Georg che si riprendeva dalla botta contro la tavola da surf.
Dopo una decina di minuti Andreas andò a letto, dichiarando di essere troppo
brillo per continuare la conversazione. Lo salutarono.
Tom si spostò sulla panca e prese Laura, che era seduta di fronte a Bill, in
braccio.
-Ti è piaciuta la cena?- le chiese a bassa voce. Laura vide con la coda
dell’occhio Bill che si voltava verso Georg e Gustav.
-Molto- rispose sorridendo. Sapeva che Bill stava ascoltando. Lo capiva.
-Sono contento- disse Tom. Poi la baciò nel suo solito modo, troppo passionale,
troppo poco dolce. Prima credeva di conoscere la dolcezza dei baci, delle
carezze, ma in realtà conosceva solo quelle di Tom. Dopo Bill, dopo le loro ore
nascoste e rubate al tempo, dopo i suoi abbracci, dopo i suoi sguardi, tutto ciò
che credeva di aver visto in Tom era scomparso. I baci erano ancora più vuoti.
Il sesso in realtà dolce non lo era mai stato.
Sorrise ancora, quel groppo in gola che quasi la soffocava, facendola impazzire,
da un mese, tutte le volte che lui la toccava e l’”amava”, credendola ancora
sua.
-Ehi Tom senti questa- Georg richiamò l’attenzione di Tom sulla conversazione
che lui e Gustav stavano intrattenendo.
Laura sollevò piano gli occhi dalla mano di Tom che gli cingeva la vita. Bill
era già li, già la guardava.
Forse era quella la loro debolezza, la cosa che li distruggeva. Il riuscire a
capirsi in quel modo così repentino e pulito, riuscire a vedere come attraverso
uno specchio d’acqua i pensieri dell’altro.
Lui accennò un sorriso triste. E Laura sentì il suo cuore dilaniato dai rimorsi
e dall’amore. Dall’impossibilità di alzarsi e poterlo baciare, davanti a tutti.
Dalla finzione, dal dover nascondere quel sentimento.
Bill la guardò. Ogni giorno era più bella senza volerlo, ogni giorno il loro
amore cresceva, e ogni giorno lui moriva un po’ di più. Vedeva suo fratello
toccarla, baciarla, sollevarle appena il vestito sotto il tavolo. Passava notti
insonni fuori dalla sua camera, il più lontano possibile dalla stanza di Tom.
Non voleva sentirli, non voleva sentirli o sarebbe impazzito.
Quando non stava con lei sopravviveva e basta. Passava ore ed ore a rimuginare,
a pensare a cosa stavano facendo, dove, perché. A volte gli nasceva l’idea di
troncare tutto, di mettere un punto a quella situazione assurda. Un minuto dopo
si malediceva. Non ce la faceva, non ce la poteva fare. Perché ormai Laura era
entrata nel suo sangue. Anche per poco, ma DOVEVA averla. Doveva avere lei, la
sua risata, i suoi capelli tra le mani. Doveva ascoltare i suoi pensieri sul
cielo e sulle stelle, le sue paure.
Forse era il principio della pazzia.
Gli unici attimi in cui DAVVERO viveva, era quando la stringeva tra le sue
braccia e sentiva il suo profumo, sfiorava la sua pelle che sembrava così
sottile…
Rimasero a guardarsi. Non volevano lasciarsi, anche l’abbandono di uno sguardo
era diventata una cosa sempre più difficile.
Bill scorse Tom ridere dietro la spalla di Laura. Lei si accorse che lo stava
guardando.
Fu quando i loro occhi si incrociarono di nuovo che capì cosa voleva dirgli.
Lo stiamo uccidendo Bill. Ogni nuova ora del nostro amore è una pugnalata
nella sua schiena…Lo sai? E lui…lui lo merita davvero?
Le lacrime le salirono agli occhi in un istante. Laura abbassò lo sguardo e una
goccia d'acqua cadde sulla tovaglia bianca.
Era stata una lacrima a far nascere il loro amore…forse era stato un presagio.
Bill spostò lo sguardo nel vuoto. Sentiva il bisogno di urlare. Avrebbe voluto
piangere anche lui. Ma non era ne il luogo, ne il momento.
-Ehi Gustav, perché non prendi la tua macchina fotografica e ci fai uno scatto?-
chiese ad un tratto Tom. Georg sorrise e annuì.
-Già! Bell’idea! Non sei del tutto coglione eh Tom?- disse. Tom gli lanciò un
tappo di vino bianco in testa.
-Stai un po’ zitto tu va’…stronzo- rispose con nonchalance –tu che ne pensi?-
chiese con tutt’altro tono a Laura.
-Oh, mi sembra un’ottima idea- rispose. Quanti sorrisi sarebbe ancora riuscita a
fare quella sera? Sentiva che tutta la sua volontà di fingere stava svanendo.
Si alzarono e si spostarono sulla panca vuota dall’altra parte del tavolo. Lei
si sedette, poi al suo lato sinistro si mise Tom, e al suo lato destro Georg.
Dietro di loro Bill si appoggiò allo schienale della panca, sfiorandole appena
le spalle con le dita.
Gustav caricò l’autoscatto e appoggiò la macchina fotografica sul tavolo.
-Georg passa dietro in piedi, fai sedere Bill, è troppo alto- disse mettendosi
dietro Tom. Bill e Georg effettuarono lo scambio.
Nel secondo esatto dello scatto tutti sorrisero, e una mano bianca, delicata, si
poggiò su quella di Laura.
Tom dormiva. Finalmente.
Laura scivolò silenziosa fuori dal letto e si rivestì. Si sentiva sporca. Sporca
in un modo insopportabile. Anche quella volta era stato un supplizio. Sembrava
non finire mai. Aveva cominciato ad odiare il contatto con la sua pelle.
Uscì dalla stanza.
Aveva sentito Bill uscire dalla camera accanto almeno mezz’ora prima, eppure non
aveva osato alzarsi: Tom aveva chiuso gli occhi da appena dieci minuti. In
quell’ultimo periodo gli era sembrato più ansioso. Ma a suo parere non
sospettava ancora nulla…forse aveva solo paura di ciò che non capiva di lei.
Non trovò Bill da nessuna parte. Aveva cominciato a preoccuparsi, quando ad un
tratto capì.
Uscì dalla porta e si avviò verso la spiaggia.
La luce lunare era talmente forte da illuminare come un lampione ogni cosa. E in
ogni caso non aveva mai avuto paura della notte. Spesso e volentieri per lei era
stata fonte di protezione e riposo.
Raggiunse la piccola spiaggia dove andavano a farsi il bagno ogni giorno. Si
trovava in un’insenatura stupenda, dal fondo basso e l’acqua di quell’azzurro
pallido, dove la mattina nuotavano banchi di pesciolini argentati.
Lo vide immediatamente. Era seduto sul bagnasciuga, le ginocchia strette al
petto e una mano che giocava distrattamente con la sabbia umida.
Lui la sentì quasi subito. Ma non le regalò uno dei suoi sorrisi.
Laura avvertì lo stomaco stringersi, il cuore saltare un battito e poi cercare
di recuperare il controllo da solo. Ma non ce l’avrebbe fatta. Solo con Bill ci
riusciva…solo con lui...e basta.
-Cosa succede?- chiese flebilmente. Aveva paura
della risposta. Tanta quanta non ne aveva mai avuta.
Lui non rispose subito. Ci mise un po’.
-Non resisto più Laura. Non ce la faccio, sto troppo male…- Bill circondò le
gambe con le braccia e la guardò. Il riflesso della luna sull’acqua gli
illuminava il viso.
Laura affondò le dita nella sabbia. La stava lasciando? Era così che cominciava
quel tipo di discorso? Non lo sapeva…non poteva saperlo in effetti. Aveva paura
di toccarlo…se non avesse sentito più quel suo calore?
-Per cosa?- chiese. Sentì la sua voce tremare. Si odiò.
-Non lo so dannazione…non lo so- rispose Bill esasperato –io non sopporto di
vederti con lui. Prima sembrava accettabile…ma adesso no. Quando ti tocca,
quando ti bacia io…io…mi sembra di impazzire…- Bill guardò l’orizzonte stellato
– sento che vorrei odiarlo…ma non posso. È mio fratello. Mio fratello capisci?
L’unico che c’è sempre stato, il mio unico amico. Non posso odiare mio fratello.
Ma non so più se non lo faccio perché la mia coscienza me lo impone o perché gli
voglio ancora bene sul serio…- Bill sospirò.
Laura abbassò lo sguardo.
Non piangere. Non piangere cretina inutile.
-Vuoi che…- avrebbe voluto dire “ci lasciamo”. Ma loro non erano mai nemmeno
stati veramente insieme. –vuoi che chiudiamo tutto qui?- era la domanda più
semplice del mondo, ma la risposta la faceva già tremare.
Sulla spiaggia cadde improvvisamente il freddo. Un freddo orribile.
Poi di nuovo il suo buon profumo addosso, il suo viso appoggiato contro il
collo, braccia che la cingevano.
Era quella l’unica risposta in cui aveva sperato.
Si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. Bill la dondolò in quell’abbraccio.
-Non posso. Non posso più fare a meno di te…morirei- Bill l’allontanò da se per
guardarla negli occhi –Ti amo-
Un bacio. Tenero.
-Ti amo anch’io-
Fu una cosa naturale da dire. Le parole le scivolarono dalle labbra sincere,
sentite. Laura sapeva che era vero. Non riusciva ad immaginare nessun altro da
amare. Poteva esserci solo lui, solo Bill…per sempre.
Si baciarono ancora e caddero sulla sabbia.
Laura si rifugiò fra le braccia di Bill, l’unico posto dove si era mai sentita
protetta. Era quella, quella la sua vera casa.
Bill la tenne stretta a se, come se stesse custodendo qualcosa di prezioso.
Sentiva il suo respiro caldo e dolce contro il collo, il suo corpo che si alzava
e si abbassava a ritmo regolare.
Solo quello, solo quello gli bastava per amarla: che vivesse.
Perché? Perché era dovuto nascere tutto in quel modo?
Come poteva esserci qualcosa di così sbagliato in quel sentimento che li univa?
La vacanza trascorse in fretta fra bagni, notti in bianco e foto.
Senza che se ne accorgessero agosto arrivò e con lui l’orizzonte di numerosi
impegni che già cominciavano ad accavallarsi uno sull’altro, in previsione
dell’arrivo di settembre.
Laura e Bill rimandarono ancora quel momento di cui avevano cieco terrore.
Rimandare a volte ci sembra la scelta più
giusta, e di solito è sempre troppo tardi quando capiamo che non lo era affatto.
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Capitolo 20 *** Capitolo 20 ***
Eccomi
di nuovo ^^, allora, oggi pubblicherò due capitoli.
La fine
di Alone Together comincia ad avvicinarsi, quindi fareste meglio ad entrare
nell'idea temo X( .
Ringrazio tutte le stupende personcine che mi lasciano quei commenti bellissimi
*.* grazie, grazie, grazie. Non avete idea di quanto mi faccia piacere!
Se
volete contattarmi vi lascio il mio indirizzo email:
claudiaspirit@hotmail.it (si lo
so, indirizzo email più demenziale di questo effettivamente era difficile
produrlo..."""^^, diciamo che "mi mancava l'ispirazione"), sono una msn
dipendente +__+ ^^.
Spero
di non deludervi con gli ultimi due capitoli di questa mattina, e vi lascio nel
mio mondo di disperazione XD
Buona
lettura
=Phantastica=
**********************************************************************************************************************
L’incubo arrivò una settimana prima del
compleanno dei gemelli.
Erano tornati a Lipsia, a casa dei ragazzi, per organizzare la festa con la
madre.
Un pomeriggio lei e Bill erano a casa da soli. Simone era andata a prenotare il
locale dove la festa si sarebbe tenuta, e poi sarebbe passata a dare gli ultimi
inviti ai pochi parenti che ci sarebbero stati. Tom era da Andreas con Gustav e
Georg, a decidere il suo “auto-regalo di compleanno”, come lo aveva
ribattezzato.
Erano nella stanza di Bill, seduti sul letto con la schiena appoggiata al muro.
-Quindi hai deciso?- chiese Laura stringendosi delle ciocche di capelli in una
treccia.
-Si. Me lo farò fare proprio qui- Bill le mostrò l’interno dell’avambraccio
sinistro.
Laura guardò ancora una volta lo schizzo che aveva appoggiato sulle ginocchia.
-Sei sicuro di volerlo così grande? Insomma…non è un po’…-
-Io voglio che si veda bene cosa c’è scritto!- esclamò lui.
-Ah beh allora!- Laura sorrise –Quando lo farai?-
-Domani- rispose Bill raggiante.
-Cavolo non pensavo così presto!- disse Laura stupita.
-E quando altrimenti? La festa è la prossima settimana!- Bill dondolò la testa
soddisfatto.
-Ahah sembri un pupazzo- disse Laura.
-Perché ti sei vista con quelle trecce?-
-Non ti piacciono?- Laura fece finta di mettere il broncio.
Bill rise.
-Ma smettila! Lo sai che sei sempre bella-
Lei arrossì. Arrossiva sempre quando lui le faceva un complimento.
Bill si avvicinò e la baciò.
-Ti amo-
Georg entrò dalla porta che dava
sul giardino.
Solo quando erano arrivati da Andreas si era accorto di aver dimenticato le
chiavi della sua macchina da Tom. Ed era un bel problema, perché, dopo averli
portati a casa sua, Andreas aveva restituito la macchina al padre, e quindi
quella sera sarebbe toccato a lui riportare tutti a casa.
Sbuffò. Tom doveva darsi una mossa a prendersi una dannata macchina.
La casa era immersa nel silenzio. Guardò un po’ dappertutto in salone e in
cucina, ma niente. Doveva averle lasciate in camera di Tom.
Salì le scale.
Di sua natura non era uno che faceva molto rumore, ma nemmeno si preoccupò più
di tanto.
Fu quando arrivò al piano superiore che capì che qualcosa non quadrava.
Si ricordò improvvisamente di Bill e Laura. Dove erano finiti?
La risposta gli arrivò prima alle orecchie che agli occhi.
No! Non era possibile!
Si sporse piano oltre la porta della stanza di Bill. Tirò subito la testa
indietro, appoggiandosi al muro.
Bill e Laura. In quel letto. Insieme. Uno sopra l’altra.
Fu l’immagine del collo teso all’indietro di Laura a rimanergli impressa nella
mente, a fuoco. Quel collo bianco, che tante volte aveva guardato, quando gli
occhi di Tom indugiavano altrove. Gli tornarono in mente i modi in cui Laura
compariva nei suoi sogni, ogni notte. Poi arrivarono i ricordi di quella sera
nello studio di registrazione, la sensazione bruciante del rifiuto.
Ora che sapeva? Cosa avrebbe fatto?
Scese con passo felpato le scale.
Stupito vide le chiavi appoggiate su un mobile accanto alla porta d’ingresso.
Se solo le avesse viste prima non avrebbe mai scoperto nulla.
Se avesse creduto al destino avrebbe dato la colpa a lui di quello scherzo. Ma
Georg Listing non era un tipo da destino.
Imboccò il viale che riportava dentro Lipsia, stringendo nella mano le chiavi.
***
-Ok puoi entrare-
Laura guardò intimorita l’omone che uscì dalla saletta attigua a quella dove
loro due stavano aspettando da circa mezz’ora.
Era un armadio alto almeno un metro e novanta, con le spalle larghe piene di
tatuaggi dalle linee spesse. Aveva un viso poco amichevole, e diversi piercing
che gli trafiggevano il labbro inferiore.
Guardò ancora una volta Bill, cercando di dissuaderlo con lo sguardo, ma lui non
batté ciglio. Si limitò ad alzarsi e lei lo seguì immediatamente.
Entrarono nella saletta. Era angusta e piena di disegni di tattoo appesi alle
pareti. Su un vassoio, appoggiato sul tavolo di metallo in mezzo alla stanza,
c’erano diversi aghi e strani strumenti appuntiti.
Laura li osservò intimorita.
Quella mattina Bill se l’era trascinata dietro, prendendo al volo la scusa che
Tom fosse troppo stanco. All’inizio lei nutriva un po’ di timore, poi si era
tranquillizzata. Sapeva che non era il primo tatuaggio di Bill, quindi almeno
non si sarebbe dovuta preoccupare per lui, anche se era la prima volta che ne
faceva uno così grande.
L’omone li fece sedere su due sgabelli e si accomodò dall’altro del tavolo, di
fronte a loro.
Quando si sedette Laura non riuscì a non tremare.
Bill se ne accorse.
-Ehi sono io che devo farmi incidere, non tu!- disse ridendo.
Laura gli restituì un sorriso e cercò di rilassarsi.
-Hai ragione, scusami-
-Non ti preoccupare-
-Solleva la manica e appoggia il braccio sul tavolo- disse l’uomo con voce
cavernosa. Bill obbedì, era tranquillo.
Quando l’omone prese in mano l’ago Laura strinse automaticamente le dita sottili
di Bill. Lui si voltò e le sorrise. Stava cercando di rassicurarla.
Laura sentì il cuore scoppiare di quella gioia che sapeva darle solo lui. Gioia
di esistere, di respirare, di guardarlo e scoprire l’amore nei suoi occhi. A
volte la gioia era tanta che il suo piccolo corpo faticava a contenerla.
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Capitolo 21 *** Capitolo 21 ***
Ragazziiii
importantissimo!!!
Ho
dovuto correggere il Capitolo 11 a cui mancava un pezzo considerevole!!!!! X(
Scusatemi ancora per la mia sbadataggine... aaaah che nerviiii!!!! Scusatemi!!!
Comunque ora l'ho pubblicato, troverete il Capitolo 11 COMPLETO
Grazie
tantissimo ad Anna per avermi avvisata!!!
Baci
=Phantastica=
********************************************************************************************************************
Tom
chiuse la porta di casa, sbattendola. Sentì per un attimo Georg indugiare
dall’altra parte. Poi il rumore dei passi sulla ghiaia del vialetto, la sua
macchina che metteva in moto e il ronzare del motore che si allontanava.
Silenzio. Fottutissimo silenzio. In un momento in cui davvero non ne sentiva il
bisogno.
Gli sembrava di aver perso la cognizione del tempo e dello spazio.
Dove si trovava? Perché?
Lentamente si diresse in cucina, dove riuscì a trovare la lucidità necessaria
per spostare una sedia dal tavolo e accasciarvisi sopra.
Sentiva la gola bruciare. Aveva urlato dietro a Georg un minuto dopo che le sue
parole erano state assimilate dal cervello, e rielaborate.
Georg doveva essersi reso conto che era parecchio alterato, perché aveva preso
di corsa la sua roba ed era uscito.
E adesso?
Tom guardò il vuoto. Ripercorse con la mente l’arrivo dell’amico.
*Flashback*
-Ehi coglione, che ci fai qui?- Tom sorride a Georg e lo fa accomodare nel
suo solito modo. Ma si accorge da subito che qualcosa non va. In circostanze
normali Georg avrebbe risposto a tono, quella mattina si limita a fare un
sorriso tirato. È pallido.
-Ehi- risponde poco convinto. Tom lo guarda stranito.
-Cosa c’è amico? Non hai una bella cera- dice perplesso.
Lo sguardo di Georg non è per niente rassicurante.
-Senti…ti devo parlare- sospira. Tom cerca di mantenere un po’ del suo buon
umore. Quella mattina si è svegliato rilassato, tranquillo. Sono sei mesi che
vive in quel piacevole stato di semi-incoscienza.
Fa strada a Georg nel salone e lo fa accomodare sul divano.
-Vuoi qualcosa da bere?-
Georg dice di no con la testa. Tom alza le spalle e si siede di fronte a lui,
sprofondando nel cuscino morbido del divano.
-Laura e Bill sono in casa?- chiede l’amico torcendosi le mani.
-No. Laura ha accompagnato Bill a farsi il tatuaggio…io stavo dormendo- sorride
–dovrebbero tornare fra un po’-. Non capisce la domanda.
-Allora…Tom…cerca di stare calmo ok, intendo…ora che ti dirò questa cosa…-
comincia Georg. Sembra che cerchi di prendere coraggio.
Tom inizia a preoccuparsi, Georg non è mai così serio. Aspetta che l’amico
prenda il respiro, con pazienza. Non è abituato a forzare le persone.
-Ieri, lo sai, sono tornato qui da voi per prendere le chiavi della mia
macchina…sono passato dalla veranda come al solito, e ho guardato un po’ in
giro, ma non c’erano…così sono salito al piano di sopra…-
Tom rizza le orecchie. Non lo fa volontariamente, è una reazione automatica del
suo corpo.
-…e…stavo per entrare nella tua camera perché credevo di aver lasciato le chiavi
li…quando…beh ho visto Laura e Bill, nella camera di tuo fratello…insieme…nel
suo letto…che stavano…- la voce di Georg muore in un sussurro.
Tom lo guarda. Non capisce…non capisce cosa ha appena sentito. Cerca di
liberarsi da quell’intorpidimento che gli rallenta il cervello.
Laura e Bill.
Nel letto di suo fratello.
Insieme.
Che “stavano”…
No. Non è possibile. Deve aver capito male, per forza.
-Stavano cosa?- chiede confuso. Georg sembra implorarlo con gli occhi. Non vuole
dargli quella risposta, e questo non è un buon segno, per niente.
Tom scuote la testa.
Ha capito, ha capito benissimo. In fondo, chi meglio di lui può capire?
-No, non ti credo- dice alzandosi. Georg fa lo stesso, è sconcertato.
-Tom…come…come non mi credi? Li ho visti!- dice balbettando.
Tom sente le orecchie cominciare a fischiargli.
-Vattene- dice. Georg si zittisce, ma resta immobile. Tom stringe le mani fin
quando le nocche sbiancano.
-VATTENE CAZZO! VATTENE!- urla all’improvviso.
Il suo amico sobbalza. Gira i tacchi e sparisce dietro l’angolo.
Tom lo segue. Lui si volta solo quando è sull’uscio.
-Mi dispiace- dice flebilmente.
Tom gli sbatte la porta in faccia.
Bill e Laura.
Bill e Laura.
Quei due nomi vicini, nella sua testa.
Ogni nome nella sua mente era da sempre associato ad un sentimento, a dei
ricordi.
Gustav e Georg erano i “compagni”, gli amici, quelli con cui condivideva momenti
demenziali a parlare di niente sul tourbus e durante le ore dimenticate di
noiosissimi soundcheck. Quelli con cui si prendeva in giro, con cui amava la
musica nello stesso modo.
Andreas era il suo amico d’infanzia. La sua prima bigiata era stata con lui, la
sua prima sigaretta anche, e così per la prima sbronza.
Sua madre…sua madre. Sua madre era una figura complicata. Poco presente, sempre
poco presente da come la ricordava. Ma le voleva bene. Un bene infinito.
E poi c’erano Laura e Bill.
Bill. Come parlare di Bill?
Bill era il prolungamento della sua anima. Era il suo opposto, e in quanto tale
la metà perfetta. Immaginare una vita senza di lui? Impossibile. Bill era tutto
quello che a lui mancava. Aveva BISOGNO di lui.
Laura. Laura era un’altra cosa…ma ugualmente indispensabile. Incredibile come lo
fosse diventata in pochi mesi. Non riusciva a fare a meno di lei. Solo sapere
che, appena sceso dal palco, l’avrebbe trovata li, ad aspettarlo, faceva
scendere su di lui quella pace di cui aveva bisogno, placava quell’inquietudine
che si portava dentro, e che lo spingeva a cercare riposo tra braccia sempre
diverse. Ora quelle braccia erano di Laura, e non riusciva a contemplarne altre.
Lei bastava. Lei era “quella giusta”.
Bill e Laura.
Quei due nomi, impressi nella sua testa, in cima alla lista delle persone a cui
teneva. Fino a quel momento erano stati quelli di cui non poteva fare a meno. I
più “importanti”.
Ora?
In meno di venti minuti tutti i significati erano scomparsi. Sostituiti…ma da
cosa?
Appoggiò la fronte sul palmo della mano. I pensieri correvano. Mille immagini.
Non voleva crederci.
Laura e Bill che parlavano fino a notte tarda.
No…no, Bill non l’avrebbe mai fatto.
Laura e Bill che si scambiavano tutti quegli sguardi a cui lui non aveva dato
importanza.
Laura. Laura lo amava…
E chi ti da questa certezza? Credi davvero di essere così speciale?
Non bastarono cinque minuti. Tutto ciò che lui aveva archiviato come normale,
come innocente, divenne nero, crudele. Ora ogni cosa dava credito a quello che
Georg gli aveva detto.
La sensazione di disfacimento, l’amaro che sentì in bocca subito dopo aver
capito che era quella la verità, fu una delle sensazioni più distruttive della
sua breve vita.
Senza quasi accorgersene si ritrovò nella camera di Bill, ad osservare il suo
letto disfatto.
Raccolse un angolo bianco e trasse a se il lenzuolo.
Appoggiò il naso sul cotone morbido.
Non avrebbe mai dovuto farlo.
Il lenzuolo gli sfuggì dalle dita in un fruscio pulito. Strano che lo fosse,
perché li sopra, intriso, quasi ad inzupparli, nei fili sottili, c’era odore di
sesso. C’era odore di Bill. C’era odore di Laura.
Tom cadde a sedere sul materasso.
Fu quasi una sorpresa per lui vedere quella lacrima che gli era caduta sul dorso
della mano.
Ecco com’era.
Erano anni che non piangeva, e all’improvviso si ricordò perché. Poche cose
nella sua vita l’avevano fatto soffrire in quel modo.
Loro erano stati su quel letto, l’avevano fatto li.
L’odore divenne insopportabile, tanto da fargli quasi scoppiare le meningi.
Abbandonò la stanza, la rabbia che cominciava a consumarlo dentro come un fuoco.
Bill
rise e infilò la chiave nella porta.
-Ma no, ti dico! Non ho sentito niente! Mi ha fatto un po’ male solo quando è
arrivato a metà, ora sto bene-
Laura annuì poco convinta. Nonostante tutto quello che si ostinava a dirle, Bill
le aveva stretto la mano tutto il tempo.
Sorrise tra se e se.
Entrarono in casa tranquilli. Dopotutto non potevano sapere quello che sarebbe
successo. O meglio, sapevano che prima o poi sarebbe accaduto, ma ogni giorno
sembrava troppo presto.
Laura andò a sbattere contro la schiena magra di Bill quando lui si inchiodò
all’entrata del salone.
-Ma che…-
-Ah…ciao ragazzi-
Laura vide Tom solo quando si mise affianco a Bill.
Capì che sapeva, ancora prima che lo dicesse con le parole, e capì che anche
Bill aveva capito, perché si avvicinò a lei.
Tom era stravolto. Aveva la faccia bianca e lo sguardo acceso in un modo che non
gli aveva mai visto.
-Ciao- rispose Bill. Laura non poté fare a meno di rivolgere lo sguardo verso di
lui. Era sulla difensiva.
Tom sorrise. Un sorriso orribile. Vuoto.
Lo sa. Lo sa.
-Com’è andato il tatuaggio Bill?- chiese rimanendo seduto sul divano. Laura
avvertì la tensione salire istantaneamente, quasi avesse provocato uno
spostamento d’aria.
-Bene- rispose Bill facendo un passo avanti.
Tentava di coprirla.
Tom sorrise di nuovo in quel modo.
-Sono contento. Sai…stamattina, mentre tu e quella eravate fuori- Tom fece un
cenno nervoso verso di lei. Laura non riuscì a far finta di non sentire come
l’aveva “chiamata” –…da me è venuto Georg. Mi ha raccontato una storiella molto
interessante. Vorrei che l’ascoltaste anche voi- aggiunse.
Bill non si mosse, Laura era gelata sul posto.
Lo sguardo di Tom per un attimo si fece freddo, poi tornò il sorriso. Si alzò,
lentamente, cominciando a parlare. Non attese la loro risposta.
-Mi ha raccontato che, mentre io ero troppo occupato a non accorgermi di nulla,
mio fratello e la mia fidanzata- disse accennando verso di loro con il capo
–…scopavano…- Laura e Bill sobbalzarono a quella parola –felicemente sotto i
miei occhi- Tom si interruppe. Era ad una decina di passi da loro.
-Che ne pensi Bill? È una storia esilarante non trovi?- il sorriso freddo di Tom
scomparve. I suoi occhi si infiammarono. Un altro passo avanti.
-Da quanto?- chiese.
Silenzio.
Nessuno di loro due rispondeva.
-DA QUANTO?- sbraitò Tom, lacrime di rabbia che gli affioravano agli occhi.
-Tre mesi- rispose Laura.
Tom la guardò negli occhi per la prima volta da quando erano entrati. Il suo
cuore smise definitivamente di battere. La cosa migliore che poteva immaginare
era morire, li, subito.
Nello sguardo di Tom c’era odio, odio puro. Come era diverso da tutti quegli
sguardi che le aveva regalato. Sguardi e sorrisi che l’avevano salvata dal suo
inferno, che l’avevano accolta, protetta, e che lei aveva ripagato in quel modo.
Si sentì orribile. Ebbe repulsione di se stessa, di quello che era, di quello
che aveva fatto. Aveva rovinato tutto. Per essere felice aveva distrutto il
mondo di troppe persone.
Si, forse morire era la conclusione più idonea.
-Zitta troia- disse Tom. La voce era tagliente. Sferzò il silenzio come una
lama.
Il suo corpo si rifiutò di muoversi. Semplicemente non reagì.
Tom aveva ragione, aveva detto la verità.
Bill si mise in mezzo.
-Non ti azzardare a chiamarla in quel modo-
Avrebbe voluto fermarlo con il pensiero. Lo sguardo di Tom si posò furioso sul
fratello.
-Non ti azzardare a chiamarla in quel modo? E perché? L’ho chiamata con il suo
nome. Lei è la troia e tu sei lo stronzo. Forse mi fai ancora più schifo- Tom
ansimava, scosso dai tremiti di rabbia.
Bill si avvicinò al suo viso.
Laura avrebbe voluto chiudere gli occhi e scomparire. Sentiva la testa girare.
-No Tom, lo stronzo sei tu. Sei tu che invece di preoccuparti per lei, invece di
chiederle perché piangeva in continuazione, perché soffriva, te la portavi a
letto e basta. Tu e il tuo modo superficiale e infantile di trattare e capire le
persone. Lei non aveva bisogno di sesso Tom, non aveva bisogno di te, aveva
bisogno di ME-
La voce di Bill era ferma. Aveva soffiato in faccia a Tom tutto ciò che la
frustrazione accumulata in quei mesi gli aveva scritto nella testa. Solo le sue
mani tremavano appena. Che fosse la prima reazione del suo corpo, che capiva più
velocemente di lui la gravità di ciò che aveva detto?
Tom non rispose. Rimase come svuotato da quelle parole. Lo guardò incredulo,
quasi facesse fatica a riconoscere Bill in quel ragazzo davanti a lui.
Laura si appoggiò allo stipite della porta. La stanza aveva cominciato a
vorticarle intorno. Tutto le scivolava via.
Vide la figura distorta di Tom che colpiva Bill al viso, con un pugno.
Fu la goccia.
Si accasciò a terra priva di forze.
Tutto diventò buio.
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Capitolo 22 *** Capitolo 22 ***
Allora...dunque. Grazie tantissimo per tutte le stupende recensioni che lasciate
*.* Oddiooo ogni volta che le leggo mi lascio annegare in un brodo di giuggiole
che non credo sia propriamente salutare per il mio ego XD. Questo per dire che,
ovviamente, mi rendete felicissima con le vostre recensioni. Ringrazio
pervancablue per i suoi regolari commenti, curatissimi q_q. Grazie a dark_irina
che ha lasciato la recensione più lunga che io abbia mai visto XD però, davvero,
è stato bellissimo leggerla, grasshie *.*, e comunque non ti preoccupare, in
quanto a follia sono ben combinata anche io (e lo vedrete in questo capitolo
temo). Grazie a Giuly alias GodFather (il tuo nick è...come dire...beh troverò
la parola!) per le sue recensioni notturne assolutamente lucide e fin troppo
buone! *me arrossisce*.
Insomma, grazie grazie grazie. Spero che non mi tirerete qualche scarpone alla
fine di questa FF, perché sinceramente è quello che mi aspetto "^^.
Ora,
dopo aver cianciato un po', vi lascio alla lettura del capitolo, scusatemiii
quanto sono logorroicaaa.
Baci
=Phantastica=
**********************************************************************************************************************
Aprì gli occhi lentamente. Appena la luce della
lampada che doveva essere appesa sul soffitto la accecò li richiuse prontamente.
La sua testa si lamentò.
Ritentò, e riuscì ad aprirli del tutto. Le bruciarono per un paio di fastidiosi
minuti, fin quando non riuscì ad abituarsi.
Vedeva solo un soffitto bianco, e una plafoniera grigia.
Il cervello ci mise un po’ a rimettersi in moto.
La violenza con la quale la realtà la colpì le mozzò il fiato.
Eccoli li, Bill e Tom, nella sua mente.
Richiuse gli occhi.
Troppo, troppo dolore.
Sentì la gola pizzicarle. Cercò di concentrare la sua mente su qualcos’altro per
almeno un paio di secondi.
Dov’era? Perché? Cosa era successo esattamente?
Si ricordava di aver perso conoscenza…ma…come era successo?
-Apri gli occhi-
La voce le arrivò gelida alle orecchie.
Era l’ultima voce che avrebbe voluto sentire…
Non li. Non in quel momento.
Ubbidì.
Le bastò abbassare appena lo sguardo per vedere Angela seduta di fronte a lei,
le gambe accavallate, il viso pesantemente truccato dall’espressione di granito.
-Vedo che finalmente ti sei degnata di riprendere conoscenza- disse la donna.
Era ancora più fredda e tagliente del solito. Laura strinse le dita attorno al
lenzuolo sotto la sua mano. Non rispose. Non sapeva dove le era finita la voce.
Ma sapeva che stava per scoprire cosa era successo dopo che tutto era diventato
buio.
La donna la guardò per un lunghissimo ed interminabile minuto. Laura non capì
perché. Che la detestasse era evidente da un bel po’ di tempo, non credeva
potesse farglielo capire in altri modi.
-Sai, devo ammettere di averti sottovalutata- disse alla fine Angela. –In meno
di un anno sei riuscita a distruggere quello che tutti noi abbiamo costruito.
Progetti, programmi, decisioni ponderate. Tutto disegnato, tracciato, nei minimi
particolari. Niente affidato al caso. Ero abituata a questo io…- la donna si
alzò andò alla finestra alla sua sinistra. Fuori pioveva. Era una mattina
grigia. Laura sentì il rumore dei tacchi sul pavimento rimbombarle nella testa.
Angela si perse con lo sguardo oltre il vetro.
–Non ho mai avuto grossi problemi a tenere sotto controllo la situazione. Erano
solo ragazzini…Ma i ragazzini crescono. Ultimamente era diventato sempre più
difficile controllarli, disciplinarli. Eppure io ci sono sempre riuscita. È
questo quello che si aspettano da me, questo per cui sono pagata. Non ho mai
commesso un errore…fin quando non sei arrivata tu- si interruppe. Sospirò. Non
era un sospiro dolce, era un sospiro corto, segato a metà. –Avrei dovuto
impedire a David di lasciarli fare. Avrei dovuto comportarmi come sempre. Invece
ero troppo stanca per preoccuparmi anche di te. Ti ho permesso di entrare nella
loro vita. Ho accontentato uno dei loro desideri stupidi…- Angela si voltò verso
di lei. Un altro sguardo d’odio. Anche se diverso da quello di Tom. –Come hai
fatto? Li ho ascoltati. Ho capito cosa è successo…ma non riesco ancora a
concepire come una insignificante ragazzina sia riuscita a sbriciolare cinque
anni del mio sudato lavoro…-
Laura si costrinse a mantenere lo sguardo. Sapeva di non aver nulla con cui
ribattere. Nessun argomento, nessuna giustificazione. Non aveva più niente. E
quel niente non le era mai sembrato così vuoto.
-Devo farti i miei complimenti. Hai preso me alla sprovvista, hai rovinato un
gruppo intero. Sei riuscita a fare tutto ciò che noi abbiamo sempre cercato di
impedire-
Ecco perché era li. Era li per farla soffrire. Piano, lentamente, affondandogli
tutta l’evidenza delle sue colpe nel cuore, ancora e ancora.
Ma in fondo…poteva forse biasimarla? Non lo faceva per le giuste ragioni…ma lei
non meritava altro. Si meritava la sofferenza, si meritava il dolore. Non
avrebbe mai pagato abbastanza.
Il suo cuore batteva lento, cercava di arrendersi, ma il suo corpo si rifiutava.
La gola le bruciava. Sentiva le lacrime salirle agli occhi.
-Credo tu ti stia chiedendo dove ti trovi e perché.- disse Angela con un sorriso
sadico. Le fece paura. Davvero. Sembrava essere arrivata al nocciolo della
questione, a quello che più le premeva di dire. –A quanto pare durante il
litigio tra Tom e Bill sei svenuta. Ci hanno pensato loro a chiamare
l’ambulanza. Una volta che ho saputo quello che era successo sono corsa qui. Ti
hanno imbottita di sonniferi per il mio volere. Sono riuscita a far credere ai
ragazzi che non volevi vedere nessuno. Non è stato difficile…se c’è una cosa che
so far bene è mentire. E in questo caso è stato un piacere-
Chissà cosa aveva detto. Se la immaginava, il finto sorriso stampato su quelle
labbra sottili. Ebbe un moto di repulsione verso quella donna.
-Ed ora arriviamo alla parte migliore. Ti hanno fatto degli esami per capire le
cause del tuo svenimento e, a quanto pare…- la donna distolse lo sguardo,
sembrava fosse quasi disgustata –…sei incinta. Di tre settimane-
Il contraccolpo fu troppo forte. La testa cominciò a girarle di nuovo.
No…aveva capito male.
Non poteva esserci altra spiegazione.
No…oddio…no.
Un bambino.
Abbassò istintivamente lo sguardo sul suo addome, come per scongiurare la
possibilità.
Una cosa del genere doveva per forza essere evidente.
Non sapeva cosa si aspettava di vedere esattamente, ma di certo non il lenzuolo
bianco appoggiato placidamente sopra di lei.
Li sotto poteva davvero esserci un bambino?
Il trillo di un cercapersone riempì il silenzio denso come cera della stanza.
Angela lo spense e si avviò verso la porta.
-Quando ti riprenderai del tutto ci accorderemo con i dottori che ti faranno
abortire. E poi te ne andrai. Non ci interessa dove. Dovrai sparire.- sibilò.
Poi scomparve, chiudendosi la porta alle spalle.
Di nuovo sola.
No…non era sola. Non più. Adesso c’era qualcun altro.
Tenne gli occhi fissi sul muro di fronte a lei.
Fuori era come un altro mondo, in cui il giorno passò, ed arrivò il pomeriggio,
immerso nello stesso grigio ambiguo.
Muoversi le era impossibile. Ogni singolo muscolo del suo corpo si rifiutava.
Un bambino.
Tre settimane.
Quelle parole continuavano a rimbombarle nella testa.
Erano tre settimane che qualcosa stava crescendo dentro di lei come un germoglio
e non se n’era accorta.
Ripensò agli strani giramenti di testa, alla nausea che aveva avuto nell’ultimo
periodo. Aveva attribuito tutto allo stress, alla tensione. Ne aveva parlato con
Bill, e anche lui era d’accordo.
Non aveva nemmeno lontanamente pensato di essere incinta…perché era una cosa…
Assurda? Bella? Orribile? Straordinaria?
Quasi inconsapevolmente cominciò a chiedersi di chi fosse quella creaturina che
ora sapeva vivere in lei. Bill? Tom?
Un’ombra le passò davanti agli occhi. Non riuscì a soffocare l’angoscia.
Non aveva importanza. Quel bambino non sarebbe mai nato.
Angela era stata lapidaria. Aveva già deciso. Avevano già deciso tutti. E forse
lei aveva dato il suo contributo…
E Tom e Bill? Se avessero saputo?
Chiuse gli occhi.
No…loro non dovevano sapere niente. Niente. Le cose sarebbero precipitate ancora
di più.
Non poteva più salvare nulla di quello che l’aveva legata ai due fratelli, ma
forse poteva sperare che il loro affetto fosse talmente grande da guarirli con
il tempo, da cancellare lei e il suo ricordo, e tutto il male che aveva fatto.
Angela aveva ragione. Doveva fare quello che era giusto. Doveva pagare.
Si addormentò cercando di trattenere le lacrime.
Diverse ore dopo si svegliò di soprassalto nell’oscurità della stanza. Portò una
mano alla fronte. Una patina di sudore freddo le copriva il viso. Doveva aver
fatto un incubo, ma non lo ricordava.
Si alzò lentamente, anche se ormai il dolore alle tempie si era calmato.
Una volta in bagno aprì il rubinetto del piccolo lavandino bianco.
Gli ospedali le ricordavano sempre sua madre.
Si bagnò il viso.
Tornata nell’altra stanza si affacciò alla finestra dove poche ore prima c’era
Angela.
La città era ormai addormentata. Tutto era illuminato da una perfetta luce
aranciata.
All’improvviso vide il suo riflesso pallido nel vetro. Sembrava più magra, più
“tirata”.
Posò lo sguardo sull’addome.
Sollevò lentamente la maglietta bianca.
Appoggiò una mano sulla pelle candida.
C’era qualcuno li che non sapeva ancora dove si trovava e perché. Qualcuno che
si stava preparando per entrare nella sua vita. O forse c’era già. Si, faceva
già parte della sua vita.
Quell’esserino cosa ne sapeva dei suoi errori? Del dolore che aveva seminato?
Le lacrime le scesero lungo le guance in grosse gocce.
Tu non hai nessuna colpa. Forse sei l’unica cosa buona di tutto questo.
No, non poteva. Non poteva permettere che a pagare per lei e per il suo egoismo
fosse una creatura innocente, pulita, che non poteva difendersi. Si sarebbe
sentita ignobile.
No. Angela non aveva ragione del tutto.
Sarebbe sparita, si, ma quel bambino sarebbe andato via con lei, vivo, proprio
li, sotto le sue dita.
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Capitolo 23 *** Capitolo 23 ***
Nuova pagina 1
Eccomi
qua...
rileggevo questo ultimo capitolo...e...mi è venuta una tristezza addosso che non
so dirvi. Forse perché so che la storia sta per finire...non mi viene in mente
nessun'altra spiegazione.
Grazie
delle vostre recensioni. Spiegate molto meglio di me sentimenti e pensieri dei
personaggi. Riuscite ad interpretarli nel giusto modo senza che io debba fare
specificazioni o dare delucidazioni. Siete fantastiche. Pervancablue il P.S. "mi
sento una fan" mi ha definitivamente dato il colpo di grazia ieri. Credo di
essermi rotolata nel mio brodo di giuggiole più del necessario, altrimenti non
sarei qui a scrivere un'altra introduzione XD. Grazie *.*. Un bacio. E
dark_irina, mi fai sorridere un sacco con le tue recensioni! Trasudano simpatia!
Devi essere una ragazza solare. Un bacio anche a te.
hEiLig FuR ImMeR grazie
anche a te, e guarda che ti ho mandato una mail...ma mi sa che non l'hai
ricevuta! Nel caso fammi sapere se non l'hai ricevuta e ti scrivo qui quello che
ti avevo chiesto. Bacio. GodFather ecco, il tuo nick mi sa di...onnipotente! XD
Oddio sto delirando. Comunque, preferisco chiamarti Giuly, il tuo nick in un
certo qual modo mi intimorisce (deve essere la coda di paglia). Bellissima
recensione come al solito. Bacio.
Vi
informo che siete terapeutiche! Quindi vi ringrazio, e, come al solito, mi sono
dilungata troppo in quisquilie >.< .
Vi
lascio alla lettura. Bacio.
=Phantastica=
************************************************************************************************************************
La
mattina dopo Angela non si fece vedere.
Laura ne approfittò per pensare lucidamente a cosa fare e come. Le serviva solo
una cornetta.
Chiese di poter fare una telefonata alla prima infermiera che entrò nella sua
stanza. Era una ragazza poco più grande di lei, e non sembrava avere molta
esperienza. Acconsentì quasi subito, dopo averle chiesto scusa per aver
rovesciato a terra l’acqua del bicchiere appoggiato sul suo comodino.
Le fece indossare una vestaglia bianca e la accompagnò nel corridoio. Laura si
guardò bene intorno.
Era un ospedale privato, sicuramente. C’erano pochi infermieri in giro.
Individuò due uscite di sicurezza. Una era abbastanza vicina alla porta della
sua camera.
In fondo al corridoio, in una stanzetta piena di tavolini e sedie bianche, c’era
un telefono appeso alla parete.
La ragazza la accompagnò all’apparecchio e poi uscì dalla stanza ad aspettarla.
Laura prese la cornetta in mano ed indugiò un po’ di fronte ai tasti.
Era abituata a fare a memoria per Tom i numeri sul suo cellulare, ma quello non
riusciva mai a ricordarlo.
*Flashback*
Tom affonda la faccia nel cuscino e sbadiglia. Poi solleva il viso e la
guarda. Lei è appoggiata allo schienale del letto, con in mano il suo cellulare,
intenta a comporre un numero.
-Non te lo ricordi, di nuovo…- dice il ragazzo.
Laura alza gli occhi. Tom le sorride.
Un sorriso a labbra chiuse. Le sembra un bambino dallo sguardo malizioso. Le
sopracciglia alzate come per dire “non è colpa mia se sono fatto così”, gli
occhi che ti spiegano senza mezzi termini che sa benissimo di piacere proprio
per quello.
La lascia un attimo interdetta. Dimentica del tutto il numero che stava
digitando.
-Ah accidenti! Lo fai apposta!- dice fingendosi infastidita. Come al solito non
riesce a non sorridere. Tom è così. La fa ridere anche quando non vuole.
Il ragazzo allunga un braccio verso di lei e la stringe a se.
-Devi impararlo! Potrebbe servirti prima o poi. Prendi quel cellulare- dice
ridendo.
Laura raccoglie di nuovo il cellulare che aveva abbandonato tra le lenzuola,
senza nascondere uno sbuffo.
-Zero zero…-
Tom le bacia i capelli.
-Cinque sette…-
Le morde piano un orecchio. Ride.
-Nove uno…-
Il bacio sul collo la fa rabbrividire.
…
Fu come sentire la voce di Tom, sussurrata ad un soffio da lei.
…4…6…3…8…
La mano tremò, mentre accostava la cornetta all’orecchio. Era come avvertire la
sua presenza di nuovo li, accanto a lei.
Il telefono dall’altra parte squillò.
-Pronto?-
Immersione di un’altra spanna nella realtà.
Se quella voce era li, dall’altra parte di quel filo, voleva dire che tutto era
successo davvero. E la vita continuava, li fuori, a due passi da lei. Tutto così
vicino, ma irrimediabilmente e definitivamente lontano.
-Chi è?-
Si riscosse dai suoi pensieri.
-Gustav…- lui doveva aver già capito chi era -…sono Laura- specificare
significava tuttavia prendersi la completa responsabilità della conversazione
che sarebbe seguita, e farlo ad alta voce.
Ci fu il silenzio. Silenzio che riecheggiava di decisione.
Dopotutto non lo poteva certo biasimare per l’incertezza, fosse stata in lui
avrebbe chiuso la cornetta senza pensarci due volte.
-…come stai?-
Le venne da piangere.
Aveva appena distrutto anni di sogni, speranze, emozioni. Diviso l’indivisibile.
E Gustav si preoccupava di chiederle come stava.
Avrebbe voluto farsi del male.
Ci doveva pur essere qualcuno nel raggio di tre metri disposto a colpirla.
-Ho bisogno di un favore-
La frase pesava. Pesava da dire e da ascoltare.
Dove aveva trovato il coraggio di chiedere quello che stava per chiedere?
Con che faccia esigeva aiuto?
Per un attimo sperò che Gustav le rispondesse con un no, secco. E invece…
-Dimmi tutto-
Laura si accasciò su una sedia vicina.
L’ultima cosa che prendeva.
Era per un buon motivo.
Avrebbe chiesto a Gustav l’aiuto che le serviva per sparire, per non tornare mai
più nella loro vita.
***
Il soffitto avrebbe dovuto ormai essersi dissolto.
Sarebbe stato bello poter vedere il cielo.
Era un giorno intero che era chiuso in quella stanza. Non era stata ne una
soluzione ottima, ne pessima. Semplicemente non era una soluzione, era una
sospensione, sospensione che gli era servita a punirsi…almeno un po’.
Ma non era servito comunque.
Il ricordo di quello che era successo non sarebbe mai scomparso del tutto, ormai
era abbastanza grande per capire che certe cose si pagano per tutta la vita.
Si portò una mano dalle unghie smaltate alla guancia sinistra. Lo zigomo era
ancora gonfio. Suo fratello aveva sempre avuto un buon destro.
Solo nominare la parola “fratello” nella sua mente, gli provocò una fitta al
petto.
Quel nome non riusciva ancora a pronunciarlo.
Non si sentiva autorizzato a pronunciarlo.
*Flashback*
Il secondo colpo è più forte. Bill sente distintamente il suo labbro
spaccarsi. Cade a terra. Il labbro brucia e avverte il sangue colargli caldo sul
mento, scivolargli sul collo.
Attorno a lui qualcuno ride, altri urlano incitando il suo carnefice, qualche
ragazzina impaurita scalpiccia allontanandosi.
Apre gli occhi.
Davanti a lui, a sovrastarlo, c’è un ragazzone biondo, dalle guance
lentigginose.
Sorride sadico.
Bill ha già chiaro nella sua mente quello che succederà dopo.
Due mani lo afferrano per la maglietta e lo sollevano strattonandolo.
-Ti sei fatto male piccolina?-
Gli amici del ragazzo, in piedi dietro di lui a godersi lo spettacolo in prima
fila, ridono.
-Vaffanculo- il suo tono doveva essere strafottente, ma il labbro gli impedisce
di muovere la bocca come vorrebbe, e ne esce solo un biascichio ridicolo.
Il ragazzo lo sbatte di nuovo a terra. Bill cerca di pararsi con le mani e la
pelle dei palmi si apre sull’asfalto del cortile. Ma trattiene i gemiti di
dolore. Guarda il suo sangue cadere in un rivolo denso tra le pietruzze grigie.
-Quando imparerai a rispettare quelli più forti di te, finocchio?-
Quando finirà? Quando si sveglierà da quell’incubo? Da quel carcere fatto di
persone e cose?
Sente Tommy avvicinarsi a lui da dietro. Non ha il coraggio di voltarsi, la
paura di ricevere un calcio sul viso è troppo forte.
Si sente un verme. Ma ha provato a parlare, ha provato a reagire, niente è mai
servito. Semplicemente lui è la vittima. Quando qualcuno ha bisogno di una bella
iniezione di autostima basta che lo guardi aggirarsi da solo per i corridoi
della scuola, vestito nel solito modo strano e fuori moda, isolato da tutti,
taciturno. Ma la regola vale per lo studente medio. Purtroppo quelli come Tommy
sentono sempre il bisogno di pestarlo e basta.
Bill non riesce a capire il perché, e mai ci riuscirà. O forse è meglio dire che
il perché lo comprende, ma gli è impossibile accettarlo.
Vorrebbe coprirsi la testa con le mani, ma l’orgoglio è più forte.
Stringe i denti. Ancora un paio di colpi e finirà tutto.
Tommy si china su di lui.
Poi succede.
Lo riconosce dal passo. Arriva di corsa.
E all’istante lui sospira di sollievo.
Non è più solo.
Si volta.
Tom è diverso da lui. Riesce a farsi rispettare, a non farsi perseguitare
almeno. Ha amici che lo circondano e parecchie ragazze. A volte Bill pensa che
forse dovrebbe imitarlo. Ma non gli riesce.
In una frazione di secondo lo vede sganciare un pugno contro la faccia di Tommy,
che è rimasto chino su di lui, preso alla sprovvista. Fosse stato in piedi
probabilmente Tom le avrebbe prese, dopotutto lui e Bill hanno la stessa
costituzione.
Dopo il colpo il ragazzone si sbilancia e cade a terra, il viso tra le mani. Gli
altri lo guardano impietriti per un paio di istanti, il tempo necessario per
consentire a Tom di aiutarlo ad alzarsi.
-Scappa- gli soffia nell’orecchio.
Bill non se lo fa ripetere due volte. Prende per un istante il respiro e si
lancia nella fuga, Tom al suo fianco.
Attraversano il cortile, urtando gli studenti che finiscono placidamente, tra
chiacchiere e insulti, la loro giornata scolastica.
Non si guardano dietro le spalle. Sanno già che gli amici di Tommy li stanno
inseguendo: è a quello che servono.
Usciti dal cancello rischiano di scivolare in strada, il vigile gli urla dietro
qualcosa.
Svoltano a sinistra e corrono sul marciapiede alberato a perdifiato.
Corrono fin quando le gambe non urlano di dolore.
Poi scavalcano il solito cancelletto dalla vernice scrostata e si rifugiano
dietro il muro di una vecchia casa abbandonata.
Bill scivola lungo la superficie ruvida e giallina, cadendo seduto a terra. Tom
lo imita. Ansimano entrambi. Per almeno due minuti non parlano, il fiato non
basta.
Poi Bill fissa lo sguardo su Tom.
-Grazie-
Tom lo guarda.
-Ma smettila, paraculo-
Ride e lo aiuta ad alzarsi.
Bill, asciugandosi il sangue dal mento, pensa che è bello sapere di avere sempre
qualcuno accanto a se.
Si allontanano.
Le prime foglie d’autunno cadono pigramente al suolo.
I ricordi fanno male, perché non si possono fermare.
La mente nello stesso tempo li rifiuta e li accoglie, impotente.
E tu resti li, a guardare. Non puoi muoverti, o forse non vuoi, ma non lo
capisci in tempo.
Poi il ricordo se ne va, dopo essere riuscito a riaprirti ferite che ti
sforzerai di ricucire…almeno fino alla prossima volta.
Bill si alzò, tremante.
Appoggiò una mano sul muro confinante con la camera di Tom.
Pensare di aver perso definitivamente suo fratello era troppo. Troppo per lui,
per il suo corpo, per la sua stanza, per il suo mondo.
Semplicemente…troppo.
La realizzazione crudele della sua paura più grande.
Appoggiò l’orecchio alla superficie fredda e inanimata.
Dall’altra parte c’era solo il silenzio.
Silenzio.
Era del silenzio che ora aveva paura.
Di quello che avrebbe potuto voler dire, dei significati che avrebbe assunto nei
giorni, nei mesi, negli anni che lo aspettavano.
Senza di lui…senza suo fratello. Mai più.
E le lacrime ricominciarono a scorrere.
Mi senti?
Mi perdonerai?
***
I
secondi continuavano a passare.
La sua mente ancora non gli dava tregua.
Prima o poi sarebbe svenuto dalla fatica di pensare.
Si stese completamente nel letto.
Dovevano essere circa 23 ore che era steso li, in silenzio. Era passata la
notte. Sua madre aveva bussato, aveva parlato dietro quella porta. Ma lui non
l’aveva ascoltata.
La fame non esisteva. Il tempo era solo un intervallo. Le ore scivolavano come
acqua.
E una risposta a quel perché non l’aveva ancora trovata.
Gli avvenimenti scorrevano davanti ai suoi occhi, come un film. Arrivavano alla
fine e ricominciavano di nuovo, in un moto perpetuo insopportabile. Ma in fondo
desiderava vedere ciò che era successo di nuovo. Forse sarebbe servito ad
esorcizzare il tutto.
Cazzate.
Laura era svenuta, così, all’improvviso. Era stato lui ad accorgersene, dopo
aver colpito Bill.
Dio…mai avrebbe pensato di provare il desiderio di fare del male a suo fratello.
Mai. Per un terribile, assurdo minuto, l’aveva odiato. Un odio cieco. Le parole
che gli aveva detto gli bruciavano ancora da qualche parte vicino allo sterno.
Ma il dolore che aveva provato dopo aver dato quel pugno, spinto dal desiderio
di fare del male, di far soffrire Bill, era stato mille volte peggio dell’odio.
Bill aveva preso il colpo. Non aveva reagito. L’aveva solo guardato. E sebbene
Tom fosse convinto di odiarlo, odiarlo davvero, non era riuscito a non pentirsi.
Era fuggito da quello sguardo e aveva visto Laura accasciata a terra, ancora più
pallida. Nemmeno a quella vista era riuscito a trattenersi. In quel momento li
odiava, tutti e due, ma qualcosa dentro di lui aveva agito autonomamente.
Era corso da lei, seguito da Bill.
Sembrava non fosse successo nulla. Tutti e due li, presi dal panico. Era stato
suo fratello a chiamare l’ambulanza.
Gli ospedali facevano schifo. C’era stato solo una volta nella sua vita, e
continuava a conservarne un ricordo pessimo. Pareti bianche. Luci abbacinanti.
Infermieri apatici. Dottori altezzosi.
*Flashback*
Le ore non passano mai. Dopo un po’ li raggiungono anche Gustav e Georg. Lo
zigomo di Bill comincia a gonfiarsi e diventa viola, ma nessuno chiede niente.
Tom incrocia lo sguardo di Georg. Sa già tutto. Poi è la volta di Gustav. Sa
tutto anche lui. Che gliel’avesse detto Georg? Non gliene frega niente in ogni
caso.
Nel pomeriggio arriva anche Angela. Ha capito tutto. Da sola. Quella donna l’ha
sempre trovata agghiacciante. Non la può soffrire, e la cosa è reciproca.
Sparisce da qualche parte per tutto il resto della giornata, anche se ogni tanto
sentono ancora il ticchettare delle sue scarpe mentre attraversa i corridoi
asettici.
Quando lui e Bill rimangono di nuovo soli, ecco, lì raggiunge l’apice della
sofferenza.
Laura chiusa in una qualche stanza. Chissà cosa le è successo.
Bill seduto dall’altra parte della sala d’attesa.
Lui che non ha il coraggio di guardarlo.
Paura di vedere di nuovo la traccia tangibile di quell’odio. Può continuare a
ripetersi quanto vuole che Bill se l’è meritato, ma resta convinto del
contrario. Non avrebbe mai dovuto. E’ suo fratello. La sua parte mancante.
Odiare lui è come odiare se stesso. Colpirlo è come colpire se stesso.
Silenzio fin quando cala la sera.
Continua a pensare a Laura.
È preoccupato per lei?
Sono ore che vorrebbe mettersi ad urlare, chiedere dov’è, chiedere di vederla.
Ma di fronte a quella porta avrebbe il coraggio di entrare? No…inutile prendersi
in giro.
Ancora non riesce a credere che sia vero.
Capisce solo adesso che era “amore”, quello di cui parlava Bill nei loro testi.
Amore…e gli era scivolato via dalle dita senza che lui potesse vedere o fare
nulla.
Dove aveva sbagliato? Forse Bill aveva ragione? Era sul serio un bambino? Era
sul serio tanto egoista da non essere riuscito a capire la sofferenza di Laura?
Le lacrime gli risalgono agli occhi. Non ha mai pianto così tanto in vita sua.
Non lo sopporta.
Ingoia ancora e si morde le guance.
Eccoli li, lui e Bill, vicini, ma lontanissimi. A soffrire per le stesse cose,
per la stessa persona, ma incapaci di consolarsi come hanno sempre fatto. Non
sono più due metà combacianti, e proprio per questo…non sono più niente. Anime
dalle ali tarpate. Distrutti dalle loro stesse mani. Perché Tom non riesce a non
sentirsi colpevole. Nemmeno lui sa il perché, ma proprio non ci riesce.
Quando Angela torna tutti e due alzano la testa nello stesso momento.
E’ orrenda. Le labbra contratte, gli occhi appesantiti dal trucco.
-Laura mi manda a dirvi delle cose…- dice. Con la coda dell’occhio lui vede Bill
scivolare sulla punta della sedia. Ha capito che suo fratello ama Laura quando
ha visto lo sguardo che aveva mentre gli infermieri la portavano via, stesa
nella barella. Ma quello sguardo doveva averlo anche lui.
Si volta verso Angela. Una volta tanto la ascolta per davvero.
-Si è ripresa. Ora sta bene, è stata solo una perdita di conoscenza causata da
un calo di zuccheri o qualcosa del genere. Le ho chiesto se voleva vedervi e ha
risposto…di no…E…beh, ha detto di andarvene. Non vuole vedere nessuno dei due.
Mi è sembrata davvero arrabbiata…ha quasi urlato quando vi ho nominati. Mi
dispiace- Angela li guarda per un attimo. –Chiamo Saki- dice. Ma alle sue
orecchie la voce della donna si fa lontana.
Altro colpo, dritto.
Rabbia, sollievo, dolore.
Tre cose che normalmente non si potrebbero provare insieme.
Rabbia…Laura ha quasi urlato. E lui cosa dovrebbe fare?
Sollievo…Non ha voluto lui…ma nemmeno Bill. Non ha voluto nessuno dei due.
Dolore…Non la potrà vedere. Lo ha allontanato definitivamente. E lui soffre come
un cane.
Dall’altra parte Bill rimane immobile. Ha un’espressione confusa sul volto. Come
se non riesca a capire dove si trovi e perché. Per un attimo la tentazione di
abbracciarlo si fa quasi troppo forte. Spinge la schiena contro la sedia e si
impone di restare fermo.
Dopo nemmeno cinque minuti Angela torna. Saki è arrivato.
Se ne vanno. Camminano il più lontano possibile l’uno dall’altro.
Il tragitto in macchina è annegato nel silenzio.
Loro madre li aspetta a casa, ansiosa.
Fa un paio di domande ma non ottiene risposta.
Scompaiono come fantasmi dietro due porte diverse.
E poi è di nuovo buio.
Sono di nuovo fitte al petto come coltelli, che lo annientano.
Sono di nuovo lacrime calde.
Cambiò di nuovo posizione.
Seduto sul letto, la testa tra le mani. Come se quello bastasse a sostenere il
peso dei suoi pensieri.
Voler abbracciare Bill e voler sfogarsi con lui. Allo stesso tempo volerlo
allontanare da se per sempre, volerlo punire per il male che gli stava facendo.
Voler stringere Laura, accarezzarla. Sentire il suo respiro regolare, lento.
Allo stesso tempo volerla odiare e disprezzare, senza riuscirci.
Ferite che continuavano a sanguinare senza alcuna pietà.
Più di tutti odiava se stesso. Per non aver capito, per avere amato davvero. Era
stata una debolezza che mai più si sarebbe concesso.
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Capitolo 24 *** Capitolo 24 ***
Non
voglio rovinarvi la fine della mia FF con troppe parole...vi lascio alla
lettura. Scriverò tutto nei ringraziamenti. Baci.
=Pantastica=
***********************************************************************************************************************
Guardò fuori dalla finestra ancora una volta.
Nulla.
Riprese a torcersi le mani, impaziente. I suoi occhi continuavano a soffermarsi
sull’orologio appoggiato sul comodino.
Le 5:00. Mancava un’ora. Solo un’ora e sarebbe arrivata l’infermiera.
Cosa stava aspettando Gustav? Che non avesse capito il punto dell’incontro?
Il suo sguardo percorse la stanza. Era quello il posto in cui avrebbe consumato
il suo addio. Non c’era niente di lei li. Niente di coloro che avrebbe voluto
salutare prima di scomparire.
Era un addio freddo, che avrebbe lasciato un ricordo vuoto e bianco dentro di
lei. Sapeva che era più giusto così, ma ciò non le impediva di soffrire per
quella solitudine meritata.
Un clacson. Lo aveva sentito attraverso il vetro della finestra.
Era arrivato.
Il suo cuore accelerò prendendola alla sprovvista.
Aveva smesso di sperare di svegliarsi, di ritrovarsi nella sua camera d’albergo
a Monaco, prima che tutto iniziasse. Ma ormai era quella la realtà che si era
costruita e in quella realtà ora ci doveva vivere.
Si strinse nella vestaglia e raccolse le due buste bianche abbandonate sul
letto. Aprì cautamente la porta della stanza e si accertò che non ci fossero
infermieri nel corridoio. Quando fu certa di avere via libera corse di fretta
all’uscita di emergenza e spalancò la porta pesante, scendendo le scale il più
velocemente possibile.
Quando fu fuori tremò dentro la vestaglia sottile. Era una mattinata fresca, il
cielo brillava ancora di quell’azzurrino indeciso che sa di notte.
Aprì la portiera e si infilò in fretta nell’utilitaria grigia.
-Ciao- disse Gustav. La sua voce era così tremendamente familiare. Avrebbe
desiderato chiunque al suo posto in quel momento. Sentiva che anche Angela le
sarebbe andata a genio.
Alzò gli occhi ed incrociò quelli del ragazzo.
Sorrideva, un sorriso pieno di tristezza e compassione.
-Ciao- mormorò. Ingoiò le lacrime e decise che evitare di piangere sarebbe stata
un’impresa più facile se avesse guardato altrove.
Lui parve capire e non disse altro. Mise in moto e si allontanò dal parcheggio
dell’ospedale, in silenzio.
Quando raggiunsero l’autostrada parlò di nuovo.
-La tua valigia è sul sedile di dietro. Puoi vestirti se vuoi- disse, lo sguardo
fisso davanti a se. Laura annuì e scivolò dietro.
Sfilò fuori dalla valigia una maglietta, i jeans e un paio di scarpe. Li indossò
in fretta, asciugandosi di tanto in tanto qualche lacrima disobbediente.
Una volta vestita tornò davanti. Raccolse i capelli in una coda scialba ed evitò
di incontrare il suo riflesso nello specchietto.
-Nel cruscotto c’è il biglietto aereo. La tua borsa è nel bagagliaio. Ho dovuto
fare più di un viaggio per recuperare la tua roba- disse Gustav.
Laura aprì con mano tremante il cruscotto e ne estrasse un lungo rettangolo di
carta bianca stampata.
Era tutto pronto. Sarebbe partita quella mattina stessa.
Le due buste che teneva poste in grembo pesavano come cemento.
-Il volo parte alle sei. Per arrivare all’aeroporto manca solo un quarto d’ora.
Faremo in tempo- disse Gustav rispondendo ad una sua domanda inesistente.
Lei non proferì parola.
Non aspettava altro che la fine di quella tortura. La fine di tutto…per tutti.
Guardò di nuovo il suo addome. Sfiorò inconsciamente il cotone ruvido della
maglietta.
L’aeroporto non era molto affollato. Dopotutto Lipsia era solo una città. Ma
probabilmente la tranquillità del posto doveva essere dovuta all’ora.
Laura portava a tracolla la sua tascapane, e teneva stretto in mano il
biglietto.
Gustav era accanto a lei. aveva insistito per portare il trolley.
Mancavano cinque minuti all’imbarco quando ebbero finito con il check-in.
Prima di imbarcarsi Laura si voltò verso Gustav e prese la valigia.
Restarono uno di fronte all’altra, imbarazzati, mentre la voce metallica di una
hostess annunciava l’ultima chiamata per l’imbarco.
-Allora…ehm…cerca di cavartela ok?- disse Gustav, come rendendosi
improvvisamente conto che di li a un paio di minuti lei se ne sarebbe andata,
per non ritornare più.
Laura gli si gettò al collo.
-Mi dispiace- sussurrò nel suo orecchio. Poi gli mise in mano le due lettere che
le bruciavano tra le dita da quando aveva finito di scriverle, il giorno prima.
-Ci sono i loro nomi scritti sopra…- spiegò, le guance rigate dalle lacrime, ma
la voce finalmente ferma.
Gustav annuì senza obbiettare nulla.
Laura si chinò per riacchiappare il trolley e lo guardò l’ultima volta.
Gustav le era sempre piaciuto. Era tranquillo, posato e, soprattutto, era
intelligente. Era strano che proprio a lui, l’unico che in quella storia davvero
non c’entrava nulla, fosse toccato aiutarla nella sua fuga. Comprare il
biglietto, recuperare i suoi vestiti e i suoi bagagli…
-Addio-
La sussurrò, quella parola. Quasi dirla così le impedisse di crederci davvero.
Non aspettò la risposta.
Si voltò…e poi scomparve.
Non per sempre…
Sempre è un concetto molto labile.
***
Bill spalancò gli occhi.
Capì che qualcosa doveva averlo svegliato, aveva provato già altre volte quella
sensazione. Questa volta però la sensazione era accompagnata da qualcos’altro.
Presentimento. Era cambiato qualcosa, all’improvviso. Come uno spostamento
d’aria. Sentiva una fastidiosa inquietudine crescergli dentro.
Fuori era ancora presto. Le cinque o al massimo le sei di mattina. Richiuse gli
occhi e si riaddormentò, cullato da immagini confuse e sfocate che si
susseguivano nella sua mente.
*Sogno*
Riaprì gli occhi in una stanza familiare. C’era la solita luce calda che
illuminava le chitarre e una batteria, nella angolo a sinistra.
All’improvviso qualcosa attirò la sua attenzione. Fu la musica.
Si voltò di scatto e la vide.
Laura era seduta al pianoforte e suonava di nuovo quella melodia. La ricordava
tutta…ogni singola nota. Come ricordava in ogni particolare lei.
Si avvicinò lentamente, fin quando riuscì a guardarla in volto. Era sempre
bellissima.
La osservò per un po’, ma lei non alzò lo sguardo.
Bill cominciò a prendere coscienza del fatto che non era altro che un ricordo. I
contorni della stanza si erano fatti troppo sfocati e lontani.
La melodia finì nello stesso punto in cui si era fermata pochi mesi prima.
Laura sollevò lo sguardo, una lacrima pulita che le scivolava lungo la guancia.
-Addio- sussurrò. E Bill tremò. Perché quell’addio era stato troppo reale. Non
aveva i contorni sfocati e lontani.
Non faceva parte del suo ricordo! Non doveva starci li! Era il posto sbagliato!
Bill si svegliò di soprassalto.
Respirava a singhiozzo, i polmoni stretti in una morsa di ferro.
Fissò a lungo la parete davanti a se per calmarsi, ma ci riuscì solo dopo
diversi lunghi, estenuanti minuti.
Non gli importava che ora era. Si alzò, preso dalla smania di uscire da quella
stanza. Non voleva riaddormentarsi. Non voleva rivisitare altri ricordi.
Fu quando vide quella busta che il suo corpo si rifiutò di muoversi.
Era tranquillamente appoggiata sul comodino, anonima, nel suo colore spento. Lo
osservava come ti osserva un essere umano.
Presentimento.
Odiava i presentimenti.
Allungò le dita sottili e chiuse la mano sul rettangolo bianco. Indugiò un poco
prima di aprirla. Poi strappò la carta e due fogli gli caddero in grembo.
Il suo cuore inchiodò bruscamente. I resti della busta gli scivolarono dalle
mani, inerti.
In un'altra occasione probabilmente rivedere quella scrittura lo avrebbe fatto
sussultare, nella memoria di notti passate a leggere quel diario, cercando di
decifrare un’anima dai frantumi sparsi qua e la tra le pagine.
Ora no.
Posò di nuovo lo sguardo sulle lettere, cercando di non interpretarne il
significato, almeno fin quando gli sarebbe stato possibile. Voleva godersi gli
ultimi minuti della piacevole familiarità che aveva con quelle linee indecise,
morbide, fragili. A vederle così sembrava impossibile potessero significare
altro dolore. Erano…indifese…come lei…
Scosse la testa con stizza. Basta.
Era il momento di cominciare a leggere.
[Soundtrack: Silent Lady – All My Faith Lost]
Ciao Bill…
L’ultima cosa che avrei pensato, mentre sentivo la tua mano stringere la mia e i
tuoi occhi attraversarmi, è che un giorno mi sarei ritrovata a dover scrivere
questa lettera.
Solo due giorni fa, due giorni fa…ci pensi Bill…sembra passata una vita intera,
quello che vivevamo era felicità. Unica…insostituibile felicità, perché era
stata costruita da noi due, insieme. E adesso che sono in questa stanza
d’ospedale, che tutto tenta di ricordarmi tranne te, mi sforzo di rivedere di
nuovo i tuoi occhi, mi sforzo di respirare. Ma tutto è diventato troppo
difficile. Al tuo viso si sovrappone quello bianco di Tom, deformato dalla
rabbia, e respirare trafigge il mio cuore sfinito.
Forse solo adesso riesco a capire quanto forte era l’attaccamento che avevo per
te…solo adesso che l’ho perso completamente riesco a tracciarne gli infiniti
contorni, e a comprendere che dovrò abbandonarti per sempre.
Vorrei riuscire a spiegarti con le parole la sofferenza che provo nel doverti
scrivere quanto stai per leggere…ma temo che otterrei solo una grottesca
storpiatura di quanto vorrei trasmetterti. Cerco di arrivare al punto, alla
“soluzione” del problema di cui io sono la causa principale, e non posso farlo
senza farti soffrire.
Ero felice Bill, lo eravamo insieme, più di quanto avessi mai potuto sperare e
immaginare. Ma la nostra felicità veniva consumata alle spese di qualcun altro.
Qualcun altro che io e te amavamo e amiamo. Qualcuno che non meritava nulla di
quello che gli abbiamo fatto.
Ripenso in continuazione a quelle parole, alle parole che hai soffiato in faccia
a Tom, prima che io svenissi. E più ci penso, più il dolore che abbiamo
destinato a lui diventa chiaro, più quel dolore diventa mio.
Lui non aveva nessuna responsabilità verso di me.
Ci siamo vendicati di lui per una colpa inesistente.
Gli abbiamo imputato peccati mai commessi.
È un bene forse che io ti dica queste cose per lettera. Se ti trovassi davanti a
me non ne avrei mai il coraggio, ne la volontà. Perché…ti amo.
Ma entrambi abbiamo bisogno di tornare bruscamente alla realtà, di capire e
prenderci le nostre responsabilità pienamente, senza più tacere o rimandare.
Siamo stati crudeli Bill. Egoisti e crudeli. Perché abbiamo pensato solo alla
nostra felicità e al nostro amore, distruggendo e annientando la felicità e
l’amore degli altri. Sapevamo di commettere uno sbaglio dopo l’altro, sapevamo
esattamente cosa stavamo facendo a Tom…ma non ci importava. Ci siamo posti al di
sopra di tutti e tutto, sacrificando le persone a cui volevamo bene senza
rimorsi. E il momento poi è arrivato. Perché DOVEVA arrivare. Sapevamo anche
questo.
Ora Tom…
Tom…
Mi riesce difficile pensare a quanto starà soffrendo. Probabilmente non riuscirò
mai a comprendere quanto, e mi dispiace, perché vorrei poter soffrire quanto
lui. Vorrei dover patire la stessa angoscia e lo stesso vuoto. Lo abbiamo
abbandonato…e lui…lui era perfetto. Di questo me ne rendo conto solo ora.
Mi amava Bill…mi amava davvero.
È per questo che ti scrivo questa lettera. Perché lui mi amava e ti voleva bene
oltre ogni immaginazione, e ora si troverà a dover affrontare l’odio verso due
persone di cui doveva fidarsi, verso due membri della sua “famiglia”.
Se credessi che non ci fosse una soluzione non ti avrei scritto nulla. Ma una
soluzione c’è, la conosci anche tu, e la metto per iscritto giusto si trattasse
di una formalità…
Quanto mi costerà attenermi anch’io a quello che ti chiederò potrò scoprirlo
solo con il passare degli anni…
Dimenticami Bill.
Dimentica tutto quello che puoi di me, e ciò che non riesci a dimenticare
nascondilo per sempre.
Il nostro amore c’era, pulsava, era VIVO, ma non avrebbe mai dovuto
esistere…almeno…non qui, non adesso…è per questo motivo che dovremo imparare
entrambi a soffocarlo fino a farlo morire. Forse occorreranno anni…ma io sono
pronta ad affrontare la prova.
Ho deciso, deciso che finalmente mi preoccuperò di quelli che mi circondano.
Ma per riuscirci ho bisogno di te. Ho bisogno di essere certa che non mi
cercherai, che non ti domanderai dove vivo e come. Ma soprattutto ho bisogno di
sapere che ti occuperai di lui, di Tom, perché io non posso. Ho bisogno di
sentirvi di nuovo vicini, di nuovo fratelli. Solo questo.
Aiutalo Bill. Fatti perdonare. Attaccati di nuovo a lui. E anche se all’inizio
continuerà a tenerti lontano da se, tu persevera. Fin quando tutto tornerà come
prima. Fin quando lui sarà di nuovo FELICE.
È giunto il momento per noi due di aggiustare davvero le cose, e per farlo
dovremo annullarci, negarci, soffrire, più di quanto tu possa immaginare Bill.
Ma è questo il punto. DOBBIAMO farlo. Perché se non lo faremo non avremo più
rispetto di noi stessi per tutta la vita. Perché finiremmo per odiarci a
vicenda. Ora è il nostro turno. Dobbiamo riscattarci, o prima o poi il rimorso
ci annienterà.
Dimentica Bill. Dimentica i baci, dimentica i sapori e profumi di noi due, che
si mescolavano, dimentica quelle ore passate a parlare di noi…a fantasticare su
un futuro inesistente.
Dimentica Bill, e fa che lui sia felice. Fa che anche lui possa dimenticarsi di
me.
Andate avanti insieme ed escludetemi da tutto, perché non merito di rovinare
ulteriormente le vostre vite, le NOSTRE vite.
…è l’ultima volta che te lo dirò…e vorrei dirtelo ad un centimetro dal tuo viso,
come sempre, con il cuore che batte tanto da mozzarmi il respiro…
Ti amo…
Ed è in nome di questo amore che ti chiedo di dimenticare.
Addio.
Laura
E gli attimi si persero.
Sentì le sue forze abbandonarlo.
L’essenza vitale del suo cuore urlare e venir spazzata via in un solo soffio.
Non sarebbe esistita più…non sarebbe esistito più nulla.
Il mondo perse consistenza e colore.
Se n’era andata…per sempre…
Tengo la lettera
Nella mia mano fredda
L’ultima frase era lunga…
Così lunga che brucia ancora
Io la guardo…
Con ogni riga
Muore un sentimento
Ciò che rimane è oscurità
Un tuo brivido
Non aiuta più molto
Mi uccide
Ci siamo amati a morte
Mi uccide
Perché il nostro sogno giace in macerie
Il mondo deve tacere
E stare per sempre solo
Anche se le forze si uniscono…
È passato…
Totgeliebt - Tokio Hotel
***
Era curioso davvero che tutto finisse in quel modo.
Da qualche parte nella sua testa doveva essersi convinto che c’era qualcosa di
giusto in tutto quello che era successo…ma forse era solo la pazzia che
cominciava a prendere il sopravvento.
Guardò fuori dalla finestra della sua camera.
Devastante come il mondo rimanesse impassibile di fronte a ciò che sconvolgeva
la vita degli esseri umani.
In quel momento tutto si aspettava di vedere tranne il giardino baciato dal sole
mattutino. Tutto era al suo posto…la cosa era quasi ironica.
Ripensò a lui e Bill che giocavano a scaricarsi addosso il getto della pompa
dell’acqua, quasi ogni pomeriggio d’estate, da piccoli. Ogni volta loro madre
gli propinava il solito sermone, e ogni volta loro se ne fregavamo puntualmente.
Dopotutto era il loro dovere.
Sorrise pensando a quanto si incazzava Bill quando lui riusciva a coglierlo di
sorpresa.
Si…era davvero il principio della pazzia se riusciva a sorridere in un momento
come quello.
Lanciò uno sguardo al foglio bianco abbandonato sul letto. Sotto alle poche
righe c’era un ampio spazio pieno di sottintesi e significati che solo lui
poteva leggere.
Sospirò e guardò il suo riflesso nello specchio.
Aveva le occhiaie e una brutta faccia tormentata. Ma dentro cominciava a
rinascere qualcosa. non riusciva a capre da dove gli arrivasse la forza, e
soprattutto perché. Al 90% dei casi doveva essere il suo organismo che cercava
di appigliarsi allo spirito di sopravvivenza.
Non avrebbe mai dimenticato.
Certe cose rimangono e intaccano una parte di noi, cambiandola.
Ma avrebbe provato a ricominciare da capo.
Sentì qualcuno indugiare dietro la sua porta. poi due colpi incerti, misurati,
interruppero il silenzio.
Sapeva chi era. Avrebbe riconosciuto quel tocco tra mille. Era assurdo come
conoscesse tutto di Bill, anche il modo di bussare alle porte.
-Avanti-
A lei non avrebbe mai concesso una seconda possibilità.
Ma Bill?
Bill era l’altra metà.
Bill era la parte mancante.
Non ti scrivo questa lettera per chiederti di perdonarmi.
Sono ben consapevole di ciò che ho fatto, e so bene che avanzare una richiesta
del genere sarebbe patetico. Certe cose non si possono perdonare.
Non ti scrivo questa lettera per chiederti di scusarmi.
So che sarebbe impossibile per quello che ho commesso…e non troverei le parole
adatte. Per gesti di questo genere le parole non occorrono.
Ti scrivo per ringraziarti.
Ti ringrazio per l’amore che mi hai dato. Per la tua sincerità. Per le tue
parole.
Sei una persona straordinaria.
Sei migliore di me, e di questo mio squallido tentativo di rivolgerti un ultimo
saluto senza risvegliare in te altro dolore e sofferenza.
Volevo solo rassicurarti Tom.
Quando leggerai questa lettera sarò lontana dalla tua vita, e da quella di tuo
fratello. Me ne sono andata…per sempre.
Dimentica tutto ciò che puoi di me. O ricordami con indifferenza per quanto ti
sarà possibile. Non sono una persona speciale, per questo confido che non ti
riuscirà molto difficile.
Non meritavo nulla di ciò che mi hai dato. Ma questo non vuol dire che al mondo
non ci sia qualcuno a cui donare il tuo amore, qualcuno che non ti farà del
male. Non sono tutti come me. Tuo fratello per primo.
Sono stata io…è stata colpa mia. Lui è stato credo ingannato dalla mia
fragilità…e non ho fatto nulla per scoraggiarlo.
Lui ti ama Tom. Molto più di quanto pensasse di amare me. Ha BISOGNO di te.
Perdonalo…ti supplico.
Con questa mia ultima perdita di dignità ti lascio.
Ti sembrerà inutile e stupido che io lo dica ma…mi dispiace.
La verità è che io non sono ne più ne meno di tanti altri…
Addio
Laura
***
Guardò fuori dal vetro.
Il sole illuminava le curve soffici e candide delle nuvole.
Così vicini al tetto del mondo era facile cercare il coraggio per intraprendere
un nuovo inizio.
Infilò una mano nella tascapane e ne estrasse il diario.
Automaticamente ripensò al momento in cui aveva capito che Bill lo leggeva.
Sorrise tra se e se, tristemente.
Sfogliò le pagine che raccontavano quei mesi, fin quando un rettangolo bianco
non le cadde tra le mani.
Voltò con un fremito la carta spessa.
Gustav non avrebbe dovuto.
Eccoli lì. Le facce abbronzate e i sorrisi raggianti. Tre paia di occhi
spensierati e due adombrati da un velo di inquietudine. Le loro mani che si
intrecciavano di nascosto, sotto alla felicità inconsapevole di Tom.
C’erano cose che avrebbe conservato per sempre. Tra quelle poche cose c’era
anche quella foto.
Posò lo sguardo di nuovo fuori dal finestrino.
Ricordò quelle parole senza volerlo…
Da qualche parte la fuori, hai perso te stessa
Sogni la fine, per ricominciare…
La fine l’aveva trovata.
Ora toccava a lei ricominciare, costruirsi un futuro in salita, dove avrebbe
pagato tutto i suoi errori.
Ma avrebbe cercato di costruirsi un futuro di cui andare finalmente fiera.
Non l’avrebbe fatto per se stessa.
L’avrebbe fatto per Bill.
L’avrebbe fatto per Tom.
Ma soprattutto l’avrebbe fatto per quella vita che aveva trovato rifugio nel suo
grembo.
***
EPILOGO
Ciao
piccolo mio,
ti guardo dormire, nel letto, accanto a me.
Ascolto il tuo respiro regolare e tranquillo, mi sorprendo ancora quando
vedo il tuo corpicino alzarsi ed abbassarsi. La notte la passerei ad
ascoltarti vivere.
Sei il mio miracolo.
Hai delle manine così piccole…a volte ho paura di romperti toccandoti.
Amo tutto di te. Mangerei di baci le tue guanciotte morbide e le tue
orecchie dalle cartilagini ancora sottili.
Stamattina mi hai sorriso per la prima volta e ho sentito dentro di me
un tipo di gioia che mai avevo provato nella mia vita.
Sento che sei e sarai la mia ancora di salvezza. Il mio scopo. Il mio
tesoro da difendere. Sei parte di me, del mio corpo. Ti proteggerò a
costo della mia stessa vita se sarà necessario.
Un giorno, quando sarai più grande, ti farò leggere queste parole, così
capirai che davvero, DAVVERO, sei la cosa più bella che mi sia mai
capitata.
Un giorno ti spiegherò tutto.
Ti racconterò della mia vita, dei miei sbagli, così potrai capire cosa
vuol dire sbagliare: vuol dire ROVINARSI la vita e ROVINARLA agli altri.
Ma questo purtroppo avrai tempo per scoprirlo.
Ti racconterò di quello che mi è successo. Di quando sono tornata a
casa, e ho trovato mia madre ad aspettarmi. Vederla con le guance rosee
e lo sguardo acceso dopo tanti anni mi ha fatto scoppiare il cuore di
gioia incredula. È tornata alla vita piccolo mio. E finalmente ho potuto
conoscere la persona che era. il merito è anche di Monica. Deve essere
successo qualcosa tra loro mentre io ero via…ma nonostante siano passati
nove mesi non sono riuscita a scoprire esattamente cosa.
Monica ora passa quasi tutto il suo tempo qui con noi. Adesso è di la
che sparecchia la tavola. Sua nonna finalmente sta bene, è riuscita a
trasferirsi qui, e uno di questi giorni spero di poterti portare a
trovarla. Le piacerai un sacco.
Monica mi ha perdonata. A lei mi lega questo amore fraterno che avevo
soffocato senza riguardi, ma ora è rinato, e scoppietta come un fuoco.
Il nostro sogno non sembra così lontano.
Ti guardo e penso che la salita per noi due deve ancora cominciare.
Dovrò crescerti con le mie sole forze e con l’aiuto di quelli che mi
vogliono bene.
Dovrò risponderti quando mi chiederai perché gli altri bambini hanno il
papà e tu no.
Dovrò spiegarti come si nasce…e già tremo al pensiero.
Dovrò impedirti di fumare e dovrò starti dietro per tutta l’adolescenza.
Dovrò raccontarti il perché di tante cose un giorno.
Dovrò confessarti lo sbaglio più grande della mia vita. Dovrò, se voglio
che tu non commetta gli stessi errori.
Farò del mio meglio piccolo mio.
Mi sacrificherò per te, pagherò quello che ci sarà da pagare. Non sarai
tu a dover subire le conseguenze dei miei sbagli. Questo non lo
permetterò MAI.
C’è una vita davanti a noi, piena di prove. Ma le affronteremo insieme.
E quando avrai bisogno io ti sosterrò sempre.
Ti racconterò tutto…si…di tuo padre, di quello che sono stata. Se mi
disprezzerai lo accetterò, perché sarà giusto. Ma spero di riacquistare
la tua fiducia con l’impegno che metterò nel crescerti bene in questi
anni.
Adesso ci sei tu a darmi la forza e la volontà per essere migliore.
Grazie piccolo mio.
Ed ora dormi. Sei bellissimo…innocente, inconsapevole di tutte le
brutture di questo mondo. Sei PERFETTO.
Dormi…il tempo di crescere ci sarà, per entrambi.
Ti amo piccolo mio.
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