Be passionate. Always.

di Euachkatzl
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I don't wanna be another wave in the ocean ***
Capitolo 2: *** Who stand for the restless? ***
Capitolo 3: *** And I will love you, baby, always. ***
Capitolo 4: *** It's my life ***
Capitolo 5: *** Shot through the heart ***
Capitolo 6: *** We're half way there ***
Capitolo 7: *** She's a little runaway ***
Capitolo 8: *** Thank you for loving me ***
Capitolo 9: *** I'm a cowboy ***
Capitolo 10: *** Never say goodbye, never say goodbye ***
Capitolo 11: *** Every time I look at you, baby ***
Capitolo 12: *** Epilogo: When Hope is gone and all you want is the truth ***



Capitolo 1
*** I don't wanna be another wave in the ocean ***


 I don’t wanna be another wave in the ocean
I am a rock, not just another grain of sand
I wanna be the one you run to when you need a shoulder
I ain’t a soldier but I’m here to take a stand
Because we can

 
 
“Stasera abbiamo con noi una nuova signorina. Fatemi un bell’applauso per Jujuuuuuuuuu!”
“Meno male, sono tre sere che veniamo qui e tre sere che ascoltiamo sempre le stesse canzoni” commentò Jon, piuttosto allegro dopo un paio di birre. Appoggiò la schiena allo schienale della sedia, gustandosi compiaciuto le mie gambe, coperte solo da un paio di calze a rete e una minigonna. In effetti, stavo morendo di freddo.
“Ciao, sono Juju…” cominciai timidamente, guardando intimorita la folla disposta davanti al palco, che mi osservava. Mi piaceva quel locale, mi era piaciuto dalla prima volta che ci avevo messo piede, accompagnata dal mio ragazzo, che ormai era diventato soltanto un ex. Quel pub era diverso da quelli che frequentavamo di solito: appena entrata ero stata avvolta dall’odore del legno, invece che da quello dell’alcool. Era un’unica sala, con un lungo bancone bianco vicino all’entrata; una ringhiera dorata separava la pista da ballo da una serie di tavoli disposti più o meno ordinatamente di fronte ad un palco, dove un ragazzo stava cantando una canzone degli Aerosmith. Quel posto era così accogliente, dalla platea; ora, dal palco, sembrava invece molto ostile.
“Ciao Juju, io sono Richie” mi urlò di rimando un uomo dal pubblico, che fulminai con lo sguardo. Ero già abbastanza nervosa, non mi serviva un idiota a rovinare ulteriormente le cose. Decisi di ignorarlo e proseguire il mio discorso.
“Vengo dall’Italia, mi sono trasferita qui a Perth Amboy perché… Bè, perché mi piaceva la città. Ehm.. vabbè... sono qui per suonare una canzone, Black window of la porte… spero vi piaccia, è un genere di musica un po’ particolare.”
 
“Black window of la porte? Ma non è quella…”
“Sì, Tico, è quella che tu non riesci a suonare neppure su Guitar Hero” gli rispose Richie, un po’ pentito di avermi preso in giro, ora che stavo suonando perfettamente una delle canzoni più difficili che avesse mai sentito.
 
Terminata l’esibizione emisi un grande sospiro, dovuto al dolore alle dita dopo sette minuti di schitarramento forsennato e al sollievo per aver finalmente concluso quell’interminabile canzone. Dopo qualche secondo di silenzio, si levò un gigantesco applauso, con tanto di fischi e incitamenti. Qualcuno si alzò addirittura in piedi.
“Grazie, alla prossima” salutai quella folla urlante, dirigendomi dietro le quinte.
 
“Signori, avete appena visto all’opera la mia futura moglie” sentenziò Richie, scatenando l’ilarità dei suoi amici.
“Ti prego, avrà al massimo 20 anni” rise Jon, tirando un pugno scherzoso al braccio dell’amico. “I 50enni ormai sono fuori dai giochi”
“Ah, la mettiamo così? Stai attento, tu sarai uno dei miei testimoni” rispose Richie, alzandosi dalla sedia e dirigendosi verso il palco.
“Ehi, dove vuoi andare?” gli chiese David, che si era perso tutta la conversazione a causa di un’improvvisa telefonata di sua figlia.
“Va a conoscere la sua anima gemella” disse Tico, divertito.
“Prova con la chitarrista che si è appena esibita, sarebbe una bella conquista” scherzò il tastierista.
“Sì, in effetti l’obbiettivo è proprio lei. Tu sarai un altro testimone” gli urlò Richie, sempre più convinto che sarei stata la sua prossima preda.
 
Quando sentii bussare alla porta del mio camerino mi ero appena spogliata per farmi una doccia. Maledicendo il genio che aveva avuto la balzana idea di volermi incontrare, mi avvolsi in un asciugamano e andai ad aprire. Mi trovai di fronte ad un uomo alto, con dei lunghi capelli castani; ma la cosa che mi inquietava di più era la sua spaventosa somiglianza con Richie Sambora.
“Ciao” mi salutò, con un gran sorriso, come se salutare un estraneo mezzo nudo fosse la cosa più normale del mondo.
“Ciao, sono Juju” mi presentai, tendendogli la mano, mentre l’altra cercava disperatamente di non far cadere l’asciugamano che stava pericolosamente scivolando giù.
“Piacere, Richie” rispose lui, stringendomi la mano. Aveva una presa forte, salda, ma affettuosa. Mi innamorai delle sue mani.
Dopodichè ci fu un lungo momento di silenzio. Quel tizio continuava a sorridermi, mi stavo innervosendo. “Hai presente Richie Sambora, il chitarrista dei Bon Jovi? Gli assomigli tantissimo” dissi, per smorzare la tensione che si stava creando.
“Eh, sì, in effetti… sono io” mi rispose, facendomi sprofondare. Ero davanti al Re dello swing con addosso un misero asciugamano e, cosa peggiore di tutte, un sorriso ebete si stava sempre più allargando sulla mia faccia.
Viste le mie condizioni pietose, Richie si sforzò di improvvisare una conversazione “Sei davvero brava a suonare la chitarra. Dove hai imparato?”
Io, imbambolata a guardarlo, impiegai un po’ a capire che mi aveva fatto una domanda, e ancora di più a formulare una risposta coerente. “In Italia, quando avevo quindici anni… mi sarebbe piaciuto tantissimo imparare a suonare la chitarra, così un mio amico mi insegnò… ero brava, sì…”
Richie rise, forse a causa della mia risposta stupida o del mio sguardo ebete. “Stiamo cercando un chitarrista per alcuni concerti, ci serve una spalla. E tu saresti ottima. Vieni domani allo studio di registrazione, magari ci fai sentire qualcosa di più” mi disse, porgendomi un foglietto sul quale era scribacchiato un indirizzo e un orario.
“Ok, grazie, ci sarò” risposi prendendo il pezzo di carta, uno tra i più importanti pezzi di carta della mia vita. Per alcuni il foglio più importante della propria vita è la laurea, un contratto, il certificato di matrimonio. Il mio è stato un foglio strappato da un taccuino.
“A domani, allora” mi salutò Richie, sparendo lungo il corridoio ed evitando un gruppo di ragazzi ubriachi che si aggiravano chissà perché dietro le quinte del locale.     
 
Nota dell’autrice:
Ciaoooooooo <3 questa è la mia prima fanfiction, voglio sapere se piace o no. Se vedo che qualcuno la segue, che qualcuno recensisce, aggiorno, altrimenti mi deprimo e non faccio più niente T.T . Vabbè, spero vi piaccia. RECENSITE, I PLEASE YOU!
P.S. Forse quando riaggiornerò avrò cambiato nome, ma tranquilli, sono sempre io :)

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Capitolo 2
*** Who stand for the restless? ***


Who stand for the restless?
And the lonely? For the desperate? And the hungry?
Down for the count I’m hearing you now
For the faithful, the believer
For the faceless and the teacher
Stand up and be proud…
What about now?

Mi alzai con un mal di testa assurdo, uno di quelli che ti martellano le tempie e non se ne vogliono andare. Era una giornata importante, e ovviamente avevo mal di testa, ovviamente avevo il ciclo e ovviamente non avevo niente da mettermi. Svuotai il contenuto dell’armadio sopra al mio letto, passando in rassegna tutti i vestiti che avevo e scartandoli uno dopo l’altro. Troppo corto, troppo attillato, sembro una barbona, è osceno. Dopo aver lanciato sul pavimento i tre quarti del guardaroba, mi passai le mani sul viso e decisi di tranquillizzarmi e non pensare a quello che sarebbe successo quel pomeriggio al numero 2268 di Palm Spring road. Andai in cucina, presi la caffettiera e mi feci un caffè forte. Il caffè mi rilassò, permettendomi di concentrarmi. Tornai in camera e misi in ordine i vestiti dentro l’armadio, lasciando sopra il letto un paio di leggins neri e una canottiera dei Ramones. Forse presentarsi con un altro gruppo stampato sulla maglietta non era la cosa più intelligente del mondo, ma amavo quella canottiera.
 
“Salve, devo salire su questo per andare a Palm Spring road?” chiesi all’autista, che mi guardò storto.
“Stellina, hai idea di dove sia Palm Spring road? Nessun autobus arriva fin lì!”
Ci rimasi un po’ male: che diavolo di indirizzo mi aveva dato Richie? Sperando di non essere stata vittima di uno scherzo di pessimo gusto, salii su un taxi e dissi al conducente “2268, Palm Spring road”.
“Sai che ti costerà parecchio, vero?” mi chiese l’uomo, dopo avermi lanciato un’occhiata dallo specchietto retrovisore. Nel vedere la mia faccia interrogativa, si voltò e mi disse “Sei sicura di avere l’indirizzo giusto? In quel quartiere ci sono solo studi di registrazione”.
Mi si illuminarono gli occhi e risposi “Sì, sono sicura” con un sorriso a trentadue denti che fece ridere il guidatore. “Che bello essere giovani, eh?” commentò, poi ingranò la marcia e svoltò a sinistra, annunciandomi di mettermi comoda.
 
Non mi aspettavo un viaggio così lungo, quando arrivai a destinazione l’appuntamento era già passato da mezz’ora. Sperai con tutta me stessa che Richie non se ne fosse andato, pensando che gli avessi dato buca, e suonai al campanello. “Sì?” mi rispose una voce roca e profonda.
“Sono Juju, Richard mi aveva chiesto di venire qui… So che è tardi, ma va bene lo stesso… no?”
“Richie, è arrivato il tuo grande amore” urlò quella voce, seguita da un coro che intonava una marcia nuziale. Ok, forse quell’audizione sarebbe stata più divertente del previsto.
 
Lo studio di registrazione era piuttosto triste: sembrava una stanza costruita per caso, decretata poi ottima per inciderci canzoni. Il pavimento era un parquet chiaro, che scoprii essere incredibilmente freddo quando lo toccai per raccogliere il plettro che mi era caduto. I muri erano bianchi, senza alcun quadro né disegno. Le uniche cose che la facevano somigliare ad uno studio musicale vero e proprio erano gli strumenti: una batteria, un paio di aste con relativi microfoni, cinque o sei chitarre appoggiate al muro. Una parete era coperta per metà da uno specchio, probabilmente unidirezionale, oltre il quale doveva esserci la console.
“Juju! Pensavo non saresti più venuta!” mi accolse Richie, con un sorrisone. Mi abbracciò e mi accompagnò di fronte agli altri tre uomini nella stanza. “Questi sono David, Tico e Jon, i miei fratelli acquisiti. Ragazzi, voi sapete benissimo chi è lei”
“Ciao” mi salutarono in coro.  
“Sono così famosa?” chiesi, scherzando.
“Abituati all’idea, noi ti faremo diventare celebre!” mi disse il chitarrista, con un’espressione entusiasta degna di un bambino.
“Piano, dobbiamo ancora sentirla suonare. Poi magari si monta la testa prima del tempo” disse Jon, spegnendo tutto l’entusiasmo di Richie e facendo calare il gelo nella stanza.
“Bè, sapremo se se lo merita solo dopo che l’avremo sentita suonare. Da dove vogliamo cominciare?” propose Tico, rompendo quell’imbarazzante silenzio. “A giudicare dai vestiti di Juju proporrei Take it as it comes”
“D’accordo, la conosco” dissi io, tirando fuori la chitarra dalla custodia “Forse però devo accordarla” annunciai, dando un’occhiata alle chiavi.
“Lascia, faccio io” si offrì Richie, prendendo il mio gioiellino, una Gibson Les Paul che mi era costata la bellezza di due estati in uno squallido bar. Suonò un paio di note, girò una chiave e mi ridette la chitarra “Ecco, ora è a posto”.
 
Dopo un’ora e un quarto passate a suonare, David propose una pausa “Ragazzi, basta, mi si stanno staccando i polsi!”
“D’accordo, abbiamo suonato abbastanza, e credo che la nostra opinione su Juju sia unanime. Andiamo a bere qualcosa. Ti va di venire?” mi chiese Richie, anche lui stanco morto dopo quel concerto improvvisato.
“Certo, metto a posto la chitarra e arrivo” gli risposi, sorridendo.
“Ok, io intanto dovrei andare in bagno… sapete ho qualche commissione da svolgere” ci informò, molto gentilmente, David.
“Sì, anch’io mi sono ricordato di un impegno urgente” disse Richie, accodandosi.
“Meglio che vada pure io” sentenziò Tico, alzandosi dalla sua amata postazione alla batteria e seguendo chitarrista e tastierista.
“Aspettate, quando è stato decretato che Juju è nella band? A me non avete chiesto niente” disse Jon, alzandosi di scatto.
“Oh, avanti, non farci scherzi del genere adesso” lo rimproverò Richie, convinto che quella dell’amico fosse una burla. Invece il tono di Jon suonava serio e deciso. “Non sto scherzando, Richard. È una questione delicata e voglio parlarne seriamente” affermò, sedendosi nuovamente.
“Va bene, cambio di programma. Juju, ci dispiace che non potremo andare a bere qualcosa, ma il nostro amico non è in giornata” disse Richie, lanciando un’occhiataccia al cantante. “Ma io devo andare comunque in bagno” annunciò, sparendo dietro la porta antincendio, seguito dagli altri due componenti del gruppo.
 
“Ti stai chiedendo perché ho detto questo?” mi chiese Jon, mentre io mettevo in ordine gli spartiti che Richie mi aveva prestato.
“Sinceramente, non mi interessa. Siete tre contro uno” gli risposi, secca. Non potevo credere che Jon Bon Jovi, il mio idolo da quando ero quindicenne, fosse così… così stronzo.
“Il fatto è che Richard si è innamorato di te, dopo la tua esibizione di ieri sera” proseguì il biondo, ignorando la mia risposta. “Credevo fosse uno scherzo, fino a quando non vidi quanto fosse ansioso all’idea del tuo ritardo. Continuava a girare per la stanza con le mani dietro la schiena e la testa bassa, lanciando continuamente occhiate alla finestra”
“Non vedo come possa essersi innamorato di me, dato che mi ha vista solo suonare per cinque minuti”
“La musica può suscitare emozioni inspiegabili” mi rivelò Jon, sorprendendomi: non avrei immaginato una frase così profonda da un uomo così pessimo.
“Non credo nel colpo di fulmine. E comunque, anche se si fosse innamorato, dov’è il problema? L’amore è una cosa bellissima”
A quel punto il biondo si alzò e si avvicinò a me. Mi ritrovai faccia a faccia con quegli occhi blu, bellissimi, ipnotici. “Richie ha già sofferto abbastanza, a causa del divorzio e tutto quello che gli è venuto dietro. L’amore con lui non è stato clemente nemmeno una volta, e non credo che stavolta andrà meglio. Faresti meglio a sparire prima che la cosa tra voi diventi seria.”
“E secondo te se io sparissi Richie non soffrirebbe? Forse è meglio che io resti, magari sarei un’amica migliore di te.” Questa mia risposta lo lasciò un po’ basito.
Fortunatamente, in quel momento rientrò il resto della band. “EEEEEEECCOCIIIII!” tuonò la voce cavernosa di Tico, facendo ridere tutti. Tranne Jon, ovviamente.
“Bè, ragazzi, io devo andare, vi lascio alla vostra riunione” dissi, lanciando una frecciatina al biondo, seduto in un angolo della stanza.
“Aspetta Juju, ti lascio il mio numero. Magari ci possiamo rivedere, che ne dici? Suonare qualcos’altro…” mi fermò Richie.
“Dopodomani suono di nuovo in quel locale in centro, se mi volete sono lì” li informai, porgendo il cellulare a Richard, in modo che potesse segnare il suo numero.
“Grazie Juju, alla prossima” mi salutò David. Tico mosse esageratamente la mano a destra e sinistra, come se me ne stessi andando via per sempre.
“Ciao ragazzi, ci vediamo” dissi, andandomene soddisfatta. Jon 0 – Juju 1.
 
Nota dell’autrice:
aaaaaaaallora, come sta andando? Jon si è dimostrato piuttosto stronzo, ma anche dolce, dato che vuole proteggere l’amico. Per ora siamo 1 a 0 per Juju. Vedremo come si risolverà. Recensite, ho bisogno di consigli per migliorare.
Lot of love, Euachkatzl. :)

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Capitolo 3
*** And I will love you, baby, always. ***


And I will love you, baby, always
And I’ll be there forever and a day, always
I’ll be there till the stars don’t shine
Till the heavens burst
And the words don’t rhyme
I know when I die, you’ll be on my mind
And I’ll love you, always

 
Due giorni dopo, appena sveglia, scelsi la scaletta per la serata. Mi avevano promesso 15 minuti di esibizione. 3 canzoni. Tre canzoni che avrebbe ascoltato anche Richie. Volevo suonarle bene, ma non volevo scegliere canzoni troppo facili. Impazzii per trovare quei benedetti brani ma alla fine ricorsi al mio metodo supercollaudato: aprii la playlist del mio ipod, chiusi gli occhi e toccai tre canzoni a caso. Forever, Interstate love song e Always. Tre delle canzoni più romantiche di sempre. Decisi di fidarmi del mio subconscio e cominciai a provarle, ricevendo qualche maledizione dai vicini che, alle 7 di mattina, non si aspettavano un concerto come sveglia.
 
Alle 20, in gigantesco ritardo, presi l’autobus numero 7, che mi portò in centro fino al Depandance, il locale dove avrei dovuto suonare. Suonavo lì da un po’ di mesi, tre o quattro volte a settimana, da quando il mio ex ragazzo mi aveva lasciata. Sinceramente non conosco ancora il motivo della nostra rottura: dopo una serata piacevole, una notte d’amore, lui mi disse che doveva andarsene e non lo rividi più. Nonostante questa delusione, non abbandonai l’amore, l’idea di una persona capace di rendermi felice; fu piuttosto l’amore ad abbandonare me: nessun uomo mi si era più avvicinato, nessuno mi aveva mai offerto un drink o proposto di conoscersi meglio. Nessuno fino a Richie.
 
“Ciao Juju” mi salutò una ragazza al bancone, appena entrai.
“Ehi, ciao” le risposi, dirigendomi il più velocemente possibile al mio camerino, visto il mio ritardo. Mi cambiai il più velocemente possibile, infilandomi un vestitino rosso molto sexy e un paio di sandali con una zeppa infinita. Ero pronta per uscire, quando vidi la maniglia della porta abbassarsi.
“Juju, posso entrare?” mi chiese la voce del proprietario del locale. Senza attendere una risposta, l’uomo entrò e si sedette sulla sedia di fronte al tavolo da trucco. “Non hai niente da offrirmi?” chiese, guardandosi intorno.
“Ho un flacone di levasmalto, se proprio vuoi bere qualcosa” gli risposi ironica. Ma in realtà ero molto preoccupata da quella presenza nel mio camerino. Non è mai bello quando il tuo datore di lavoro ti deve parlare.
L’uomo sorrise nervosamente e mi comunicò tutto d’un fiato, senza guardarmi: “Mi dispiace, ma non posso più lasciarti suonare qui”. Mi crollò il pavimento sotto ai piedi: le mance che ottenevo strimpellando qualcosa al Depandance erano le mie uniche entrate. “Cosa?! Perché!?” chiesi confusa.
“Non è importante” mi rispose, non molto convinto.
“Come non è importante? Mi stai buttando fuori, voglio almeno sapere il perché” dissi, senza accorgermi di urlare.
“Va bene, è importante, ma non te lo posso dire. Raccogli la tua roba e esci di qui” dichiarò, alzandosi e andandosene. Lo seguii fino alla porta del suo ufficio, continuando a chiedergli il motivo del mio licenziamento, senza ottenere risposta. Una risposta che non poteva darmi.
 
Me ne andai, arrabbiata, senza curarmi del fatto che indossavo ancora gli abiti di scena. Attraversai velocemente il locale, spalancai la porta con poca, pochissima grazia e uscii. Stavo aspettando l’autobus per tornare a casa, quando sentii due mani coprirmi gli occhi. “Ciao, indovina chi sono?” mi chiese l’ultima voce che mi sarei aspettata di sentire. “Richie” risposi dolcemente, voltandomi e trovandomi davanti a lui.
“Che ci fai qui? Non dovevi suonare stasera?” mi domandò, perplesso. “Stavo andando al Depandance”
“Lascia perdere, non mi vedrai mai più su quel palco”. Vedendo la sua faccia ancora più perplessa, gli spiegai velocemente la storia, che effettivamente era piuttosto breve: il mio ex padrone mi aveva sbattuto fuori senza degnarmi di una spiegazione.
“Bè, vorrà dire che troveremo qualcos’altro da fare” disse lui, sorridendo un po’ maliziosamente. “Dimmi, hai mai fatto il bagno di mezzanotte?”
“Richie, sono le 8 e mezza” gli feci notare, spegnendo il suo sorrisetto.
“Ok, ricomincio… hai mai fatto il bagno delle 8 e mezza?” mi propose. Vista la mia faccia poco convinta, mi prese per mano e mi accompagnò fino alla spiaggia. Mi tolsi i sandali, che mi stavano uccidendo, e sentii la sabbia sotto i piedi, i granellini che si intrufolavano tra le dita. Camminammo lungo il bagnasciuga fino a un pontile, dove ci sedemmo a guardare l’oceano.
“Casa mia è per di qua, sempre dritto” dissi, un po’ nostalgica.
“Ti manca la tua famiglia, eh?” mi chiese lui, cingendomi la vita con il braccio.
“La mia famiglia, i miei amici… soprattutto mi manca la Fefè” risposi, dando per scontato che Richie conoscesse tutta la mia storia.
“Fefè?” mi fece eco lui.
“I mei genitori sono morti quando avevo più o meno diciannove anni…” cominciai a raccontare, osservando i bellissimi colori del tramonto “stavano venendo a un mio concerto, l’ultimo dell’anno, ma qualche idiota che aveva bevuto chissà cosa è andato loro addosso… sono stata malissimo per mesi, ma la Fefè mi è sempre stata vicina… sono andata a vivere con lei, finchè un giorno le proposi di venire qui, a Perth Amboy, di cambiare aria e provare qualcosa di nuovo. Lei si rifiutò categoricamente, dicendo che non se la sentiva di affrontare un passo così grande. Io insistetti e lei mi sbattè in faccia tutti i sacrifici che aveva fatto per starmi vicina, mentre io godevo della situazione. Godevo! I miei genitori erano morti e secondo lei io stavo sfruttando il momento. Mi arrabbiai talmente tanto che presi il primo volo disponibile e me ne andai”
“E una volta arrivata qui?” mi chiese Richie, incuriosito dal mio racconto.
“Avevo contattato un vecchio amico di mio fratello, chiedendogli se potevo stare da lui finchè non mi sarei trovata una casa, e lui accettò. Col tempo ci innamorammo, ma un giorno mi disse di doversene andare e non lo rividi mai più. Mi lasciò la casa, dove vivo ancora adesso. Ma lui non tornò mai. Così ho cominciato a suonare al Depandance, per tirare su qualche soldo. Funzionava, almeno fino a stasera”
“Magari ti troverai qualche altra entrata. Magari anche più fruttuosa” disse Richie, alzandosi. Dal suo tono di voce si intuiva che non me la stava raccontando giusta, che mancava un pezzo del discorso. Mi alzai anch’io e lo seguii lungo il pontile.
“Richie, che intendi…” iniziai, ma inciampai in un buco nel legno cadendo a terra. “Chi cazzo è il genio che ha fatto un buco qui?” urlai, mentre gli occhi mi si riempivano di lacrime per il dolore alla caviglia. Tentai di rialzarmi, ma dovetti fermarmi a causa di una fortissima fitta al piede.
“Aspetta, non muoverti” disse Richie, avvolgendo le sue braccia intorno ai miei fianchi e prendendomi in braccio, senza alcuno sforzo. “Sei una piuma” osservò, un po’ perché era vero e un po’ per smorzare la tensione. Camminò fino alla prima sdraio e mi appoggiò lì. “Forse è bene se andiamo al pronto soccorso” mi fece notare, guardando la mia caviglia che stava assumendo un colorito violaceo e una forma abbastanza insolita.
“Mannò, tranquillo, non è niente… vedo se stanotte mi passa e poi casomai domani vado da un medico” lo rassicurai, mentre invece stavo morendo dal dolore.
“…non lo so, Juju, mi sembra davvero messa male” insistette Richie. Dopo il mio secondo rifiuto, si arrese. “D’accordo, ti porto a casa” mi disse, riprendendomi in braccio.
“Spero che tu sia allenato, se proprio vuoi portarmi a casa in braccio. Abito circa a 2 chilometri e mezzo da qui” lo informai, ironica.
“Vabbè, allora ti porto a casa mia” rispose lui, senza scomporsi.
“Io intendevo che dovevi chiamare un taxi” obiettai, spiazzata. Richie rispose con una risata, che mi fece intuire che ormai aveva deciso lui.  
 
Casa sua era davvero grande. Non gigantesca, ma il mio piccolo appartamento di periferia non avrebbe potuto competere con una casa del genere. La cosa davvero bella erano le decorazioni: la musica era davvero tutta la vita di Richie. La porta d’entrata dava su un piccolo atrio, dal quale si poteva vedere il salotto, caldo e accogliente. Lo attraversammo e salimmo le scale fino al piano superiore, dove quattro o cinque porte si affacciavano su un corridoio.
“Ti farei volentieri vedere tutta la casa, ma forse non sei nelle condizioni migliori” rise Richie, aprendo l’ultima porta a sinistra.
“Magari domani” gli sorrisi. Ero felice, nonostante tutto. La serata era cominciata davvero male, era proseguita peggio, ma ero felice. Non so perché, ci sono momenti in cui hai tutto e sei triste e ci sono momenti in cui hai tanta voglia di ridere anche se hai una caviglia rotta. “Bella stanza” dissi ironica, osservando i muri rosa, così come il cassettone, le coperte sopra il letto, la scrivania.
“Sì, era la stanza di Ava” mi rispose Richie, con un tono di voce dolcissimo, che mi fece sciogliere. Mi lasciò sul letto e mi disse di riposare, dopo una serataccia del genere.
“Grazie” gli dissi, mentre stava chiudendo la porta per andarsene. Lui non si voltò, ma il sorriso sul suo volto mi fece capire che in fondo anche lui, come me, era davvero felice.
 
Tentai varie volte di addormentarmi, ma proprio non ci riuscivo, un po’ per il dolore alla caviglia ancora forte e un po’ perchè l’idea di essere nella casa di Richie Sambora mi intrigava assai. Decisi di andare in bagno per darmi una rinfrescata, magari mi sarei rilassata un po’. Mi alzai dal letto e, saltellando per il corridoio, raggiunsi la porta bianca che dava alla sala da bagno. La aprii e cercai a tentoni l’interruttore. Accesi la luce e trovai Richie seduto sul letto, che mi fissava stralunato. Forse quella non era la porta del bagno.
“Scusa, ho sbagliato” dissi velocemente, in preda all’agitazione. La situazione non era certo delle migliori: ero coperta semplicemente da reggiseno e mutandine, con i capelli arruffati e gli occhi da panda a causa del trucco sfatto. Richie, senza parlare, si alzò. Non indossava la maglietta a letto, il suo petto abbronzato era nudo davanti a me. Si avvicinò, mi cinse la vita stringendomi a sé e mi guardò intensamente; i miei occhi grigi erano incollati ai suoi color nocciola. Una mano accarezzava la mia schiena nuda, l’altra giocherellava con le punte nere dei miei boccoli. “Non hai sbagliato nulla” mi sussurrò, prima di baciare le mie labbra, che si schiusero volentieri a quella bella sorpresa.    
 
Nota dell’autrice:
Awwww, Richie <3 Forse la situazione sta andando un po’ sullo smielato, ma non durerà per molto. Juju scoprirà presto il perché del suo licenziamento, ma non ci resterà così male.
Voglio ringraziare quelli che hanno letto la mia storia e soprattutto quelli che l’hanno messa tra le preferite ossia: barbara83 e London_Calling. Qualcuno recensisca: la storia può solo migliorare con qualche consiglio.
Love, Euachkatzl <3

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Capitolo 4
*** It's my life ***


It’s my life
It’s now or never
I ain’t gonna live forever
I just wanna live while I’m alive
It’s my life
My heart is like an open highway
Like Frankie said I did it my way
I just wanna live while I’m alive
It’s my life
 

Quando mi svegliai erano ormai le 10 e mezza, il sole era alto e filtrava attraverso le tapparelle, disegnando delle righe sulla parete. Mi voltai e mi ritrovai davanti a Richie, che ancora dormiva beato. Mi misi a osservarlo, a osservare i suoi capelli arruffati e il sorriso sulle sue labbra. Mi è sempre piaciuta la gente che sorride mentre dorme, da un senso di felicità. Cominciai ad accarezzargli i capelli dolcemente, finche lui non aprì un occhio e sussurrò “Buongiorno bellezza”. “Buongiorno” gli risposi io, continuando a giocherellare con i ricci castani. Ci stavamo fissando dolcemente, quando il campanello rovinò tutto. “Vado io, tu intanto fatti una doccia” mi disse Richie alzandosi controvoglia e infilandosi una maglietta blu. “La porta del bagno è l’ultima a sinistra” mi ricordò scherzosamente, rimandandomi alla mente la serata precedente. Mentre ero sotto l’acqua calda, ripensai a quel bacio, a quanto fosse stato dolce Richie. Il suo sussurro mi rimbalzava in testa “Non hai sbagliato niente”. È vero, forse non avevo sbagliato niente. O forse avevo sbagliato tutto. Avevo sbagliato a scappare qui a Perth Amboy, avevo sbagliato ad accettare quell’audizione, avevo sbagliato a baciare Richie. Non aveva importanza: anche se fosse stato tutto un errore, quell’errore mi stava piacendo, e non poco. Tornai in camera, presi il mio vestitino rosso e me lo infilai. Non era l’abbigliamento più indicato per stare in casa, ma avevo solo quello. Mi stavo guardando allo specchio quando il mio cellulare vibrò, facendomi sobbalzare. Lo presi in mano e lessi il nome sul display: Fefè.
“Pronto?” risposi timidamente: l’ultima cosa che mi aspettavo era una chiamata da Fefè; doveva essere una cosa seria.
“Buongiorno, nuova chitarrista dei Bon Jovi” mi sentii dire, con un tono di voce abbastanza sprezzante.
“Cosa?” chiesi confusa. Sbaglio o mi aveva chiamato ‘nuova chitarrista dei Bon Jovi’?
“Dai, non fare la finta tonta, la notizia è già in Internet. Non sono arrabbiata, anzi mi fa piacere” continuò lei “Vedi solo di procurarmi un paio di biglietti per il tour europeo. Ora scusa ma devo staccare, sto spendendo un sacco di soldi a chiamarti” mi congedò, lasciandomi in mezzo a mille domande. Mi sedetti sul letto e tentai di mettere in ordine le idee ma, rendendomi conto che ero nel buio più totale, preferii scendere e chiedere direttamente a Richie.
 
“Sai, Richie, mi è arrivata una telefonata strana” dissi entrando in cucina, continuando a osservare il display del cellulare, come per essere sicura di non essermi sognata tutta la conversazione.
“Ciao Juju” mi salutò la voce di Jon.
“Jon?” gli rispose la mia, stupita. Alzai la testa e lo trovai seduto al bancone della cucina. “Dov’è Richie?” dissi subito, senza pormi troppe domande sul motivo per il quale il biondo si trovasse lì.
“È uscito un attimo, ora torna” mi informò “Sono qui perché volevo parlarti…” iniziò, alzandosi dalla sedia, ma lo interruppi prontamente “Senti, Jon, non me ne andrò da Richie. Lui sta bene con me e io sto bene con lui, se lo lasciassi gli farei solo del male”
“D’accordo.” mi rispose lui tranquillamente. Nel vedere la mia faccia perplessa, mi si avvicinò e mi mise le mani sulle spalle “Ormai sei la nostra chitarrista, lo sai. Abbiamo un tour europeo da fare e quindi non potrò impedirvi di stare insieme. Volevo solo avvertirti di un grande problema di Richie”
Allora era vero che ero la loro chitarrista: un piccolo gridolino eccitato stava per uscire dalla mia bocca, ma l’ultima frase di Jon lo strozzò. “Problema?” gli chiesi confusa.
“Sì, forse sarebbe meglio che te ne parlasse Richie, ma non credo che lo farà..” cominciò lui, timidamente. Quel suo tono di voce così insicuro mi fece preoccupare ancora di più. “Bè, forse lo saprai, ma dopo il divorzio Richie ha cominciato a bere, a drogarsi… insomma, ha preso alcuni brutti vizi”
“Ma non era tutto finito?” gli domandai.
“Richie ricade molto facilmente in questi capricci, bisogna stargli vicino. Adesso che è felice con te non dovrebbero esserci problemi, ma non si sa mai. Volevo solo che tu lo sapessi” mi rispose il biondo, dirigendosi verso la porta d’ingresso.
“D’accordo. Grazie” gli dissi, seguendolo fino al portone.
“A presto” mi salutò lui.
 
Tornai in cucina ripensando a questo problema di Richie: mi aveva lasciato piuttosto scossa; non me lo aspettavo. Pensai a lungo se parlargliene o meno e alla fine optai per il colloquio. Una bella conversazione poteva solo migliorare le cose.
“Ah, eccoti. Hai già incontrato Jon? Mi aveva detto che voleva parlarti” mi voltai di scatto e vidi Richie sulla soglia della cucina, che mi fissava sorridente. Ora che sapevo del suo problema il suo sorriso mi sembrava diverso, mi sembrava più triste, più spento.
“Sì, abbiamo parlato” gli risposi piano, cercando le parole giuste per affrontare l’argomento.
“E me lo dici così? Non sei felicissima?” disse lui, abbracciandomi. La mia faccia triste spense però tutto il suo entusiasmo. “Di cosa avete parlato?” mi chiese preoccupato, sedendosi su una sedia.
Mi sedetti di fronte a lui e lo guardai negli occhi, prima di cominciare il mio discorso. “Jon mi ha detto che sono nella band, e che faremo un tour europeo.” Vedendo il sorriso allargarsi nuovamente sul viso di Richie, ripensai se affrontare quella discussione. Decisi di continuare. “Mi ha anche parlato del tuo problema con l’alcol…”
“Ah. Te l’ha detto” disse lui, abbassando gli occhi. “Senti, Juju, ti prometto che non berrò mai più per…”
“Non voglio che mi prometti niente” lo interruppi io, prendendogli le mani “Mi fido di te, e so che farai la scelta giusta, che non ci ricadrai. Non tradire la mia fiducia, d’accordo?”
“D’accordo” mi rispose, quasi sussurrando. Alzò la testa e vidi che sul suo viso stava scendendo una lacrima.
“Ehi, tranquillo” mormorai io, baciandolo delicatamente sulla guancia. Questo lo tranquillizzò, permettendogli di intavolare una discussione normale.
“Comunque, sono stato io a farti licenziare” mi disse “Volevo farti una sorpresa comunicandoti poi la notizia che sei nella band, ma le cose non sono andate come speravo”
“Sei dolcissimo” gli dissi dopo una manciata di secondi passati a pensare a quanto sia innamorata di quell’uomo. Mi alzai dalla sedia e andai in salotto, volevo suonare qualcosa al pianoforte. Lui mi seguì e si sedette sul divano, assaporando le armoniose note di Hallelujah. Ad un certo punto si alzò, si avvicinò a me e mi baciò il collo, provocandomi una serie di brividi che mi impedirono di continuare a suonare. Mi voltai, trovandomi a faccia a faccia con lui. Sentivo il suo respiro caldo sul mio viso, il suo profumo riempirmi le narici. Mi prese per mano e mi accompagnò in camera da letto. La stanza era avvolta nella penombra, le tapparelle erano ancora abbassate. Le mani di Richie fecero scendere la zip del mio vestito, che cadde a terra senza problemi. Per tutta risposta, gli tolsi la maglietta. Ci baciammo a lungo, in piedi. Le nostre ombre sulla parete erano ormai una sola, non si distingueva la fine di una e l’inizio dell’altra. Richie si sbottonò i jeans mentre io mi accoccolavo nel letto caldo. Mi raggiunse e cominciò ad accarezzarmi la schiena, guardando i miei occhi grigi. Ad un tratto lo sentii armeggiare con il mio reggiseno, che si lasciò slacciare facilmente. I palmi di Richie si appoggiarono sui miei seni. Chiusi gli occhi, avevo i brividi. Poi sentii le sue labbra baciarmi l’ombelico e le sue mani sfilarmi le mutandine. Ebbi paura, ma la voglia di stare sempre più vicina a lui prese il sopravvento.
 
Nota dell’autrice:
lascio intuire il finale <3 Volevo ringraziare Angie Mars per la recensione e per aver inserito la mia storia tra le preferite. Prossimamente ci sarà un piccolo colpo di scena: il lupo perde il pelo ma non il vizio.
Lot of love, Euachkatzl.    

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Capitolo 5
*** Shot through the heart ***


Shot through the heart
And you’re too blame
You give love a bad name
I play my part and you play your game
You give love a bad name
 

“Dobbiamo pensare alla scaletta” annunciò Jon il primo giorno di prove. “Juju, a lei l’onore della prima canzone”
Imbarazzata da quelle quattro paia di occhi che mi fissavano, proposi il primo brano che mi venne in mente “You give love a bad name?”
“Sì, mi piace. Un inizio potente ci sta” decretò Jon, scribacchiando velocemente il titolo su un foglio.
“La seconda la scelgo io” urlò Richie, al quale era venuto un lampo di genio.
“Niente da fare, la seconda è sempre toccata a me e quindi la trovo io” obiettò la voce cavernosa di Tico. Eravamo solo alla seconda canzone e già cominciavamo a non trovarci d’accordo, benissimo. “Mettiamo qualcos’altro di abbastanza casinista: Raise your hands. Scrivi, Jon, scrivi”
“D’accordo, d’accordo, vada per Raise your hands” disse Jon, placando gli animi di Tico e Richie.
“Preparati, Juju, alla decima canzone cominciano a volare le parolacce” mi sussurrò David, ormai abituato a quella scena.
“Posso scegliere almeno la terza?” chiese cortesemente Richie.
“Ma certo, mio signore. Ci riferisca la sua proposta” lo prese in giro il cantante, abbassando la testa a mo’ di inchino.
Bed of roses!” disse soddisfatto il chitarrista.
Bed of roses? Dopo Raise your hands metti Bed of roses?” lo interrogò Dave.
“Che c’è di male?” si stupì Richie.
“È lenta. Dopo Raise your hands è uno salto davvero grande” disse Jon, dando sostegno al tastierista.
“Jon e Dave hanno ragione. Personalmente metterei qualcosa di non troppo lento, e poi Bed of roses” confermò Tico. “Tu che dici, Juju?”
Avevo di nuovo tutti e otto gli occhi puntati addosso. La situazione si stava facendo difficile. “Anch’io preferirei delle canzoni più potenti all’inizio, poi verso la metà mettiamo qualcosa di più dolce” proposi.
“Juju! Mi molli anche tu?” scherzò Richie, facendo una faccia sconvolta.
“Richie Richie, stai perdendo colpi” lo schernì Jon, per poi scrivere sul foglio, al numero 3, Runaway.
Alla fine riuscimmo a estrapolare 21 canzoni, per un totale di un paio d’ore di concerto. “Non male” dichiarò Dave, rileggendo la scaletta.
“Non male? È un’opera d’arte, ne verrà fuori un concerto incredibile” decretò Richie, modesto come sempre.
“Allora, abbiamo due mesi per provare, poi partiamo per Lisbona. Proveremo tutti i giorni, a partire dalla prossima settimana. Vediamo di fare le cose per bene” disse Jon, improvvisamente serio. Nonostante questo suo avvertimento l’entusiasmo generale non si spense, anzi continuammo a ridere e scherzare per un’oretta, finchè Dave urlò: “Oddio, devo portare mia figlia al saggio di danza!”
“Sì, è meglio se ce ne andiamo tutti” decise Jon. Mi alzai dal pavimento, raccolsi gli spartiti delle canzoni che avrei dovuto imparare e mi avviai con i ragazzi verso l’uscita. Ci salutammo ma, mentre mettevo la chitarra in auto, qualcuno mi chiamò. Ero convinta che fosse Richie, ma dopo essermi voltata mi trovai di fronte a Jon. “Senti, Juju… visto che non conosci tutte le canzoni potresti venire a casa mia, così le impari più velocemente, ti va?”
“Adesso?” gli chiesi, confusa.
“No, no, magari anche domani o dopodomani. Hai impegni?” mi rispose lui.
“Ma se proviamo tutti i giorni!” obiettai, sempre più confusa.
“Ah, sì, bè… ma le canzoni più difficili magari non riesci a suonarle bene…” cominciò lui, arrampicandosi sugli specchi. Stavo per dirgli che il più indicato a insegnarmi le canzoni era Richie, ma visto il suo stato penoso preferii tacere questo particolare e dirgli: “Dopodomani mattina sono da te”.
“Perfetto. Ci vediamo” mi salutò Jon.
“Ciao” gli risposi io, chiedendomi il motivo per il quale proprio lui volesse insegnarmi le canzoni.
 
Tornata a casa, mi lanciai sul letto e feci un pisolino di un paio d’ore, interrotto dallo squillo del cellulare. Decisi di dare una lezione a chiunque avesse interrotto la mia dormita, ma vedendo il nome di Richie sul display mi addolcii e premetti il tasto verde.
“Ciao” mi disse la sua voce roca.
“Buonasera. Hai interrotto il mio pisolino, sono molto arrabbiata” scherzai io.
Richie fece una risatina prima di continuare il suo discorso “Mi chiedevo se avevi bisogno di una mano per imparare le canzoni”
“Grazie, ma me l’ha già chiesto Jon” gli dissi.
“Jon?” mi chiese lui, perplesso.
“Sì, Jon. Hai presente quello alto più o meno come me, capelli biondi…” lo presi in giro.
“Dai, non scherzare. Perché te l’ha chiesto?” mi domandò Richie, ancora pensoso.
“Non lo so, ma ho accettato” gli risposi.
“Ah. D’accordo” mi disse lui, un po’ deluso.
“Se vuoi posso venire anche da te” lo rassicurai, visto il suo tono di voce.
“No, no, tranquilla, casomai se non capisci qualcosa te lo spiego alla prove. È che Jon ha la tendenza a rubarmi le donne…” mi spiegò.
“Dai, ma che dici?” lo interruppi “Jon è il tuo migliore amico e sa quanto ci tieni a me. Stai tranquillo”
“Mi fido, eh?” si raccomandò Richie. “Ora scusami ma devo andare a prendere Ava, ciao”
“Ci sentiamo” lo salutai, riattaccando.
 
Due mattine dopo, prima di andare a casa di Jon, ripensai a quella conversazione con Richie, soprattutto all’ultima parte: “Jon ha la tendenza a rubarmi le donne…” No, non era possibile che volesse provarci con me. Mi aveva detto chiaro e tondo che dovevo stare vicina a Richie, non poteva farlo. Mi tranquillizzai, presi la macchina e accesi la radio, che stava trasmettendo In these arms. Sorrisi per quello scherzo del destino e mi avviai verso la casa del cantante.
Bussai un paio di volte al portone di legno dorato, senza ottenere risposta. Restai impalata lì sull’uscio per un paio di minuti, chiedendomi se bussare ancora o andarmene. “Arrivooooooooo” urlò voce di Jon da dentro la casa. Sentii un rumore pesante di passi e un gran frastuono, doveva essere caduto qualcosa. Jon aprì la porta e, involontariamente, lo squadrai da capo a piedi. Indossava un pigiama a righe rosse e bianche e un paio di pantofole blu piuttosto ridicole.
“Scusami, dormivo. Non ti aspettavo così presto” spiegò.
“Si vede” lo schernii io, alludendo al suo abbigliamento piuttosto casual.
“Eh, sì. Entra pure” mi disse Jon, facendosi da parte. Credevo che la casa di Richie fosse bellissima, ma quella di Jon la superava di almeno mille punti. Il portone d’ingresso dava sul salotto, illuminato da una parete formata unicamente da finestre, attraverso le quali si vedeva il grande giardino perfettamente curato.
“Andiamo in sala prove, ti va?” propose Jon, accompagnandomi lungo i corridoi infiniti di quella casa. Nel mio appartamento non avevo nemmeno un salotto, lui aveva addirittura una sala prove. La mia autostima scese di un paio di gradi. “Eccoci” annunciò, spalancando una porta rossa. “Senti, io vado un attimo a cambiarmi, tu fai come se fossi a casa tua, ok?”
“D’accordo” gli risposi, entrando. Ero incredibilmente affascinata da quella stanza. Le pareti erano rosso intenso, e insieme al parquet scuro davano un senso di calore. Al centro del pavimento faceva bella mostra di sé un pianoforte bianco, con accanto un paio di sedie dello stesso colore. Vicino al muro si trovava un divano di pelle nera, con accanto uno stereo e una pila di dischi altissima. Due o tre chitarre erano appoggiate alla parete opposta, insieme ai microfoni. Ero talmente rapita da quella stanza che non sentii Jon avvicinarsi.
“Ti piace?” mi sussurrò all’orecchio, facendomi sobbalzare.
“È bellissima” gli risposi sincera.
“D’accordo, cominciamo a suonare” propose, dirigendosi verso le chitarre. “Quale preferisci?” mi chiese, indicandole.
“Non so, la Stratocaster?” dissi timidamente.
“Hai gusto” decretò lui, facendo schioccare la lingua. Accordò la chitarra e me la porse, prendendone una a sua volta. “Hai già dato un’occhiata alle canzoni?” mi chiese mentre strimpellava qualche nota.
“Sì, c’è un passaggio in Wild is the wind che non riesco a fare” risposi, cercando gli spartiti nella mia borsa. “È nell’assolo, qui..” Indicai il punto esatto e Jon lo studiò per un momento, prima di dirmi “Non è così difficile”. Imbracciò la chitarra e lo suonò perfettamente.
“Come diavolo fai?” gli domandai stupita.
“È una specie di Hammer on, solo che lo suoni così….” cominciò a spiegarmi, mettendosi dietro di me e guidando la mia mano lungo la tastiera delle chitarra. “Hai un profumo buonissimo” disse ad un tratto.
“Sì, piace anche a Richie” risposi distrattamente, continuando a provare quel passaggio che proprio non riuscivo a fare.
“Siete tanto innamorati, vero?” mi chiese, poco interessato alla mia pessima esecuzione. Si allontanò da me e si sedette sul divanetto.
“Senti Jon, non sono qui per parlare della mia vita privata” dissi, smettendo di suonare e rivolgendogli uno sguardo di rimprovero “Stai tranquillo, Richie è felice e anch’io lo sono. Basta. Il resto non ti riguarda.”
“Sei davvero felice?” insistette lui, facendomi venire i nervi.
“Sì, tantissimo. E ora scusa, ma devo imparare anche un pezzo di Because we can” chiusi la conversazione, cercando lo spartito giusto. Jon si alzò controvoglia e tornò da me. Mi spiegò un altro paio di canzoni, quindi mi chiese: “Con Always come te la cavi?”
Sorrisi. Always era la mia canzone preferita, la prima che avevo imparato a suonare con la chitarra elettrica. La sapevo a memoria da anni. Lo dissi a Jon, provocandogli una risatina. “Perfetto, allora suoniamo quella. Un momento di pausa può solo farci bene” decise.
Strimpellai le prime note, emozionata. Mi aveva sempre dato i brividi quella canzone, e ora la stavo suonando con il mio idolo. Jon cominciò a cantarla, con quell’enfasi che solo lui sapeva conferire a quella canzone: avevo sentito molte voci che la intonavano, ma nessuna poteva competere con la sua. Arrivati a metà canzone, mi fermai. “Che hai?” mi chiese.
Sorrisi nervosamente. “Niente, è che questa canzone mi emoziona sempre”
“Ah, sì? Allora ho fatto un buon lavoro” disse malizioso, avvicinandosi a me.
“Direi di sì” risposi, alzando gli occhi. Jon era vicinissimo a me, i suoi occhi blu mare mi guardavano. Sentii le sue mani carezzarmi la guance, lo spazio tra le nostre labbra accorciarsi sempre di più. “Jon…” dissi, facendo appello a tutto il mio autocontrollo “Non posso”
“Scusami. Ho fatto una cavolata” rispose lui imbarazzato, allontanandosi da me.
Sentivo le mie guance scaldarsi sempre di più. “…adesso vado” lo salutai, dirigendomi verso l’uscita.
“Aspetta” mi fermò, prendendomi per mano. “Volevo solo dirti che credo di essermi innamorato di te. Non è perché voglio allontanarti da Richie, è vero. Speravo che fosse così anche per te, ma vedo che ormai tu appartieni a qualcun altro…”
Mi avvicinai a lui e appoggiai le mie labbra alle sue. Fu una cosa bellissima, forse il bacio più bello di tutta la mia vita. Appassionato, perché entrambi eravamo consapevoli che probabilmente sarebbe stato l’unico. “Sono innamorata di te da quando avevo 15 anni” gli dissi, poi mi voltai e me ne andai, mentre i sensi di colpa cominciavano già a farsi sentire.           
 
Nota dell’autrice:
non odiate Juju, non so quanta gente avrebbe resistito a quegli occhioni blu :3 Ma intanto che stava facendo Richie, tutto solo a ripensare a quante donne gli aveva rubato Jon? Prossimo capitolo :)
Forse vi sembro una pazza a aggiornare ogni giorno, ma voglio sfruttare questo “momento creativo”.
Love, Euachkatzl.
P.S.: mi sono accorta solo dopo di aver scritto le stesse canzoni del Because we can tour. Sorry, giuro che non l’ho fatto apposta :)

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Capitolo 6
*** We're half way there ***


We’re half way there,
Yeah, we’re livin’ on a prayer
Take my hand, we’ll make it, I swear
Livin’ on a prayer

 
I sensi di colpa si erano già fatti sentire subito dopo aver baciato Jon, ma arrivata a casa si fecero insopportabili. Mi chiesi a lungo se raccontare tutto a Richie o tenere il segreto, sotterrare quella mattinata per non farla venire mai più alla luce. Mi sbilanciai verso la seconda opzione, imbracciai la chitarra e cominciai a studiare le canzoni del tour. Arrivata a Bed of roses mi fermai, con gli occhi lucidi: vicino al titolo c’era scritto, in piccolo ‘Ciao Juju, ti amo’. Non potevo tacere tutto a Richie, sarei stata male per sempre. Scesi in garage e presi l’auto.
 
La porta della casa di Richie era aperta. Entrai lentamente, senza far rumore, e mi diressi in cucina, dalla quale sentivo la sua voce. “Richie?” lo chiamai piano, socchiudendo la porta. Lo vidi seduto per terra, contro il bancone di marmo bianco, con una bottiglia di vodka in una mano e una sigaretta nell’altra. “Che diavolo stai facendo?” gli urlai, spaventata. Non poteva essere ricaduto nell’alcol, no, mi aveva detto che non l’avrebbe più fatto.
“Che hai fatto tu con Jon, piuttosto?” mi urlò lui di rimando, lasciandomi muta. Non poteva sapere quello che era successo quella mattina, stava parlando a vanvera.
“Richie, sei ubriaco” dissi, tentando di riprendere in mano la situazione. “Dammi quella bottiglia e cerca di calmarti”
“No, io non mi calmo” rispose lui, sempre urlando. Si alzò da terra e mi prese i polsi, bloccandomi. “Sono stanco di Jon che mi ruba le donne, di Jon che è migliore di me, che canta meglio, che è più bello o più simpatico. Credevo che tu fossi diversa, invece sei una troia come tutte le altre”
“Richie, smettila” lo pregai, spaventata. Stavo cominciando ad avere davvero paura. Fortunatamente, lui si allontanò da me, si appoggiò al frigorifero e bevve un altro lungo sorso di vodka. Poi si lasciò scivolare a terra, quasi inerme. Mi inginocchiai di fronte a lui. “Non è successo nulla tra me e Jon” gli mentii per tranquillizzarlo “Mi ha insegnato alcune canzoni e poi me ne sono andata. Tutto qui. Non potrei mai tradirti, con nessuno” Mi sentivo davvero male, dicendogli questo, ma la paura della sua reazione alla verità era troppo grande.
“Io invece ho tradito te” mi disse Richie, e scoppiò in lacrime.
“Come?” gli chiesi confusa.
“Ti avevo promesso che non avrei mai più bevuto, e invece eccomi qua, ubriaco, che piango davanti a te” spiegò, tra i singhiozzi. Lo abbracciai forte e gli diedi un bacio sulla fronte. “Stai tranquillo, le seconde chance esistono per tutti” mormorai. Restammo abbracciati a lungo, finchè Richie non finì tutte le lacrime che aveva. Piansi anch’io, ma le mie lacrime erano ben diverse da quelle dell’uomo che avevo affianco: erano amare, salate, false. Non potevo stare abbracciata a lui, non lo meritavo. Mi alzai, raccolsi la borsa che avevo lasciato a terra e, dopo averlo salutato, me ne andai con una pessima scusa.
 
Il lunedì successivo cominciarono le prove, al numero 2268 di Palm Spring road. Visto il grandissimo ritardo con cui ero arrivata la prima volta, decisi di partire presto, ma mi ritrovai a destinazione con tre quarti d’ora d’anticipo. Magari un giorno sarei riuscita ad arrivare lì in orario. Rovistai nella borsa alla ricerca delle chiavi; tutti nella band ne avevamo una copia. Aprii il cancello ed entrai.
La sala di registrazione era identica a come me la ricordavo: spoglia, chiara, con qualche strumento musicale appoggiato al muro. Avevo tre quarti d’ora, dovevo trovare qualcosa da fare. Presi l’Ipod e mi stesi a terra, perdendomi tra le note di Sweet child o’mine.
Per una mezz’oretta la voce di Axl Rose mi cullò. Tenevo gli occhi chiusi, per godere al massimo di qualsiasi nota, di qualsiasi vibrazione di voce. Ad un tratto qualcuno mi tolse una cuffietta e mi urlò: “Sveglia, Juju, è ora di cominciare!” Mai interrompere il mio momento Guns, mai; soprattutto in un modo così brusco. Scocciata, spensi l’Ipod, pensando a come fargliela pagare a chiunque mi avesse riportato alla realtà. “Buongiorno, Jon” salutai, con il tono più aspro che riuscivo a fare. È incredibile la mia capacità di incazzarmi con niente.
“Buongiorno” mi rispose, sfoggiando un sorriso sornione. “Vogliamo cominciare?”
“Siamo in due, non vedo cosa possiamo combinare” dissi, convinta di zittirlo.
“L’altra mattina in due abbiamo combinato molto, mi sembra” insinuò il biondo, avvicinandosi a me.
“Sinceramente, ti ho baciato solo per capriccio, non ho sentito niente” risposi. Uscii dalla stanza e respirai il profumo che la pioggia aveva lasciato. L’America è strana, di colpo comincia a piovere e dopo mezz’ora è tutto finito.
“Juju!” mi urlò una voce cavernosa, sicuramente quella di Tico. Mi guardai intorno e lo vidi appoggiato al cancello, mentre fumava. Mi avvicinai a lui, salutandolo a mia volta. Tico mi porse la sigaretta. Respirai una lunga boccata di fumo, che mi distese i nervi. In quel momento arrivarono Richie e David, insieme.
“Ci siamo tutti?” chiese il tastierista, allegro come sempre.
“Sì, Jon è dentro” risposi. Tico gettò a terra la sigaretta e ci avviammo verso l’edificio bianco. Richie mi raggiunse e mi prese per mano; quell’uomo era maledettamente dolce.
“Ciao, Jon” lo salutarono tutti, appena entrati.
“Ciao” rispose il cantante che, nel vedere me e Richie mano nella mano, mi rivolse un sorrisetto malizioso.
Suonammo un paio di canzoni, ma la buona volontà scarseggiava, complice l’afa che era arrivata dopo il breve acquazzone. “Facciamo qualcosa di semplice” propose Tico, ottenendo un assenso generale. “Hallelujah” decise Richie.
“Secondo te Hallelujah è semplice?” gli chiese Jon, anche lui con poca voglia di fare.
“Sì, perché solo tu e Dave fate qualcosa, io sto a guardarvi” rispose il chitarrista, con un sorriso innocente.
“Grazie” commentò la voce del tastierista, che si stava sventolando con uno spartito.
“Ormai è deciso” tagliò corto Tico, anche lui contento della proposta di Richie, dato che la batteria in Hallelujah  è piuttosto inutile. Si sedette per terra di fronte a Jon. “Prego, comincia” lo schernì.
Io appoggiai la chitarra alla parete e andai a sedermi vicino a Tico: non avevo ancora perdonato il biondo per aver interrotto Axl, dovevo fargliela pagare. Prima che Richie potesse unirsi a noi, il cantante se ne andò scocciato, borbottando qualcosa. Il suo migliore amico lo seguì, fermandolo appena prima del cancelletto. Io, Tico e Dave ci affacciamo alla finestra, a guardarli. Non era una cosa molto matura da fare, ma la curiosità era troppo forte. Non riuscimmo a udire nulla per tutto il loro colloquio, a parte l’ultima frase di Jon, urlata a pieni polmoni: “E comunque, Juju bacia molto bene”. Sentii gli occhi di David e Tico puntati addosso, ma non mi  importava: ero troppo preoccupata dalla reazione di Richie, che arrivò subito dopo che Jon finì di parlare: un destro ben assestato, che fece barcollare il biondo. Mi voltai e mi lasciai scivolare lungo il muro fino a sedermi a terra, con il viso tra le mani, mentre Dave e Tico raggiungevano i due amici: la loro conversazione era durata abbastanza.
 
Sentii le voci dei ragazzi litigare per qualche minuto, poi tutto si spense e vidi la porta della sala aprirsi. Riconobbi Richie e mi alzai, avvicinandomi a lui, che però mi respinse. Volevo dirgli qualcosa, qualsiasi cosa, ma le uniche cose che mi venivano in mente erano bugie, quindi preferii il silenzio. Lui mi osservava, zitto. Aveva la bocca socchiusa, come se anche lui volesse dirmi qualcosa, senza però riuscirci. Abbassai gli occhi e tornai a sedermi per terra, sotto la finestra. Richie continuava a fissarmi, seguendo ogni mio movimento. Appoggiai i gomiti alle ginocchia e mi presi la testa tra le mani. “Dimmi che non è vero” lo sentii sussurrare. Non alzai la testa, mi mancava il coraggio. Mi limitai a scuoterla, lasciando scendere le lacrime mentre i passi di Richie si allontanavano.
 
Non so per quanto tempo piansi, le lacrime non volevano finire. Non sapevo cosa pensare, se dovevo prendermela con qualcuno o solo con me stessa. Tornai a casa e mi lasciai cadere sul letto, stanca, senza forze. Tentai di prendere sonno, invano: niente riusciva a rilassarmi. Avevo provato con la musica, con il cioccolato, con un buon libro. Alla fine ricorsi ad un metodo tanto infallibile quanto proibito: aprii l’armadio, spostai una pila di magliette e presi la scatolina della siringa, già piena di eroina. Tornai a distendermi sul letto e mi iniettai tutta la roba. Poche volte ero ricorsa a questo metodo per rilassarmi, sia perché era sbagliato sia perché avevo paura. Edo era morto, per questo. Ripensai a lui, ai suoi assoli micidiali, alla nostra prima lezione di chitarra e al suo sorriso, che quella maledetta roba che mi ero appena fatta aveva spento. Poi la mia mente si annebbiò, e tutto diventò buio e silenzioso.
 
Nota dell’autrice:
eggià, le bugie hanno le gambe corte, Juju. Nonostante fosse solo un bacio, per Richie è stata come una bomba. E ora, il tour? E questo Edo? Prossimi capitoliiiiii :)
Kisses, Euachkatzl <3
    

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Capitolo 7
*** She's a little runaway ***


She’s a little runaway,
Daddys girl learned fast,
All those things he couldn’t say,
Yeah, she’s a little runaway.

 
Mi ritrovai in una stanza bianca. Sapevo benissimo che sarei arrivata lì: ogni volta che ti droghi arrivi sempre nello stesso posto, e sia io che i Seventh lo conoscevamo bene. Ricorreva spesso nelle nostre canzoni. Noi lo chiamavamo ‘Heaven’, ci sembrava il nome più appropriato: un luogo completamente bianco, dove potevi stare bene per un paio d’ore. È quando te ne andavi, che cominciavano i problemi, soprattutto per me. Quando sono drogata cammino incosciente, facendo stupidaggini a nastro. E fu così che quando mi risvegliai, nuda, trovai Jon nel mio letto. “Jon?” lo chiamai piano, per svegliarlo. Lui aprì gli occhi lentamente e, dopo avermi messo a fuoco, biascicò qualche parola contorta. “Eh?” gli chiesi confusa.
“Buongiorno” ripetè lui, alzandosi un po’ e appoggiando la schiena contro la testiera del letto.
“Buongiorno” risposi io. “Per caso tu ricordi qualcosa di stanotte?” Domanda stupida, ma avevo davvero bisogno di sapere che cosa avevo combinato mentre ero convinta di trovarmi nel famoso Heaven.
“Allora… Ho ricevuto una telefonata da te in cui mi chiedevi di venire a casa tua, che avevi bisogno di qualcuno… Io sono arrivato e tu mi sei saltata addosso… e poi vabbè, credo che dal nostro abbigliamento riesci a intuire il resto” raccontò lui, piuttosto divertito.
“Jon, perché mi hai lasciato fare? Ero… strafatta” A questa frase, il suo viso si fece piuttosto serio. “Da quanto tempo ti droghi? Sinceramente”
Mi passai una mano sul viso, tentando di rilassarmi e scacciare i pensieri che cominciavano ad affollarsi nella mia mente. La mia prima canna, la paura quando Edo mi porse la prima siringa, la canzone che avevamo composto quando eravamo completamente fatti. Bellissima, la canzone. Le note cominciarono a girarmi in testa, impedendomi di ragionare normalmente. Heaven is where you can go, everytime you want, where you can feel okay, where you can go on. It’s not a long time, but it’s enough; you are a superstar, you are everyone you are.
“Non lo faccio spesso. Ma ieri ne avevo davvero bisogno” risposi a Jon dopo qualche secondo, mentre quel motivetto continuava a rimbalzarmi nella mente.
“Perché hai cominciato?” insistette il biondo, che mi fissava interessato.
“Non è importante” mentii, mentre mi vestivo.
“La verità è che non me ne vuoi parlare” disse Jon. Era incredibile come lui riuscisse a leggerti nella mente. Sapeva sempre quello che intendevi dire, anche quando facevi di tutto per impedirglielo. “Dai, sfogati”
“No, davvero, è una storia troppo lunga. Se cominciassi a raccontartela probabilmente stasera saremmo ancora qui” Lo fissai. Maledetti occhi. Jon sapeva benissimo che erano bellissimi, che convincevano sempre le persone. Aveva imparato ad usarli molto bene. “Diciamo solo che i sogni a volte è meglio che non si avverino”. Detto questo, andai in cucina per farmi un caffè forte, lasciando Jon sul letto, sconvolto da quella frase.
“È meglio che non si avverino? Juju, stai scherzando per caso? I sogni sono la cosa più bella che puoi avere, soprattutto alla tua età”. Il biondo entrò in cucina e si sedette su una sedia, prendendo un biscotto dal cesto sopra al tavolo.
“Sì, tu lo puoi dire. Tu hai avuto successo, tu ce l’hai fatta. Ma non tutti quelli che formano una band raggiungono i propri sogni. Certa gente si perde per strada. Certa gente muore per strada. E certa gente soffre”
“Però mi pare che tu non abbia abbandonato la musica” disse Jon, alzandosi e avvicinandosi a me. Mi cinse la vita e mi strinse forte a sé; di sicuro aveva capito che la mia vita in Italia non era stata poi così facile. Mi appoggiai al suo petto, lasciandomi stringere. “Abbiamo prove anche oggi?” chiesi a un tratto, rovinando quel momento che, nonostante la dolcezza, mi stava facendo soffrire sempre di più. “Sì, fra un paio d’ore andiamo” rispose Jon, dando un’occhiata al piccolo orologio appeso al muro. Mi districai da quell’abbraccio e tornai in camera, seguita dal biondo. Ci lanciammo entrambi sul letto e fissammo il soffitto per un paio di minuti, fino a quando chiesi: “Abbiamo intenzione di guardare il soffitto fino alle tre?”
“Se non hai idee migliori…” Ripiombò il silenzio, che io interruppi di nuovo.
“A quindici anni comprai la mia prima chitarra. Cercai qualcuno che potesse insegnarmi a suonarla e così conobbi Edo. Gli serviva qualche soldo e accettò volentier di diventare il mio maestro. Non solo era bravissimo a suonare, ma aveva anche una voce meravigliosa. Roca, bassa, perfetta. Col tempo mi scoprii davvero brava con la chitarra, ‘un talento’ mi definiva il migliore amico di Edo, che intanto era diventato il mio ragazzo. Decidemmo di formare una band, così, per provare. La musica era la nostra vita. Non so se vivevamo per suonare o suonavamo per vivere. Un po’ tutte e due le cose. Così nacquero i Seventh: io, Edo, Santi, la Fefè e Dam. Nomi d’arte un po’ stupidi”
“No, fanno effetto” commentò Jon, che continuava a guardare il soffitto. Fissai dolcemente il suo profilo per poi continuare.
“Suonavamo in un locale vicino a casa, si chiamava Giselle. La gente ormai si era affezionata a noi, ogni volta che salivamo sul palco era un boato. Una sera un tipo ci informò che nel locale c’era un produttore discografico, così sfruttammo l’occasione e gli chiedemmo di incidere. Lui acconsentì; ci costò parecchio, ma quel disco ci diede una certa notorietà in Italia. Ci stavamo facendo un nome. Ci affibbiarono addirittura un manager, non so perché. Fatto sta che quello non ci mollò mai, ci diceva cosa fare per migliorare e faceva sempre centro. A parte l’ultima proposta. Ci propose di essere più trasgressivi. Secondo lui eravamo troppo bravi, dovevamo sembrare cattivi. Ci citava sempre come esempio i Guns. I Guns di qua, i Guns di là, i Guns hanno fatto questo, i Guns hanno fatto quello. ‘I Guns si drogavano’ disse un giorno ‘È così che si diventa davvero cattivi’. Ci fidammo ciecamente di quel manager, e quello fu un grande passo falso. Per i primi tempi funzionò, le canzoni erano belle. Parlavamo spesso dell’Heaven, il posto che raggiungevamo quando eravamo fatti. Poi, però, la situazione andò a puttane. I miei genitori morirono in un incidente a causa di un ubriaco, seguiti qualche mese dopo da Edo, ucciso dalla droga, quella droga che doveva farci diventare tanto famosi. I Seventh si sciolsero, forse per paura, forse perché la colonna portante del gruppo se n’era andata. Solo io e Fefè restammo unite, ma non prendemmo più in mano la chitarra. Dopo circa un anno le proposi di ricominciare tutto da capo e venire qui in America, suonare di nuovo, anche solo per divertimento. Lei non ne volle sapere. Chiesi agli altri Seventh, ma ormai quel gruppo non c’era più. Così partii da sola, amareggiata, delusa. Ero l’unica che viveva ancora per la musica”
“E poi hai incontrato Richie” concluse Jon, che intanto si era girato prono e mi ascoltava interessato.    
“Richie mi ha salvata, in un certo senso. Visto che erano passati mesi e non succedeva niente qui a Perth Amboy, avevo ricominciato a drogarmi, giusto per movimentare un po’ la mia vita, giusto per rivedere l’Heaven. Richie mi tirò fuori da tutto quel casino in cui mi stavo mettendo, probabilmente senza accorgersene. E adesso in quel casino l’ho messo io”
“Tranquilla, gli parlo io. Non succederà niente” mi rassicurò Jon, dandomi un bacio sulla guancia. Gli sorrisi timidamente. Era dannatamente bello. “Ci piacevano anche i Bon Jovi, sai?” dissi, smorzando la tristezza che si stava accumulando dentro di me e portando la mia mente verso i ricordi più belli.
“Ah, sì?”
“…te l’ho detto, Always è stata la prima canzone che ho strimpellato con la chitarra elettrica. Ogni tanto la cantavo, ma solo quando ero sola, meglio non sconvolgere troppe persone” risi, ripensando ai miei acuti assurdi e inascoltabili.
“Mi piacerebbe sentirti cantare” disse Jon, alzandosi: ormai era ora di andare.
“Le cover degli Aerosmith sono le migliori, fidati” scherzai: la voce di Steven Tyler è una cosa che non si può imitare.
 
Arrivammo in sala di registrazione in ritardo: Jon partì solo dopo avermi sentita cantare. Maltrattai What could have been love finchè neppure il biondo non ne potè più e girò la chiave, dirigendosi verso Palm Spring road.
I ragazzi erano già dentro all’edificio bianco, strimpellando qualcosa in attesa del nostro arrivo. Nel vederci entrare insieme, Richie fece una faccia perplessa; Jon lo rassicurò con un gesto della mano. Le prove filarono lisce, a parte quando David disse: “Non ho mai sentito Juju cantare”. Io e Jon ci guardammo e ridemmo. “Meglio che continui a cantare io” disse il cantante, chiudendo lì il discorso. Dopo un’ora e mezza passata a suonare, a cercare spartiti e a provare quella benedetta parte di Wild is the wind che ancora non riuscivo a fare, decidemmo di smetterla e tornare a casa. Fermai Richie poco prima che uscisse dalla stanza, chiedendogli se potevamo parlare. Un po’ sorpreso, accettò e si sedette comodo su una sedia. Io restai in piedi, pensando a come strutturare bene il discorso. “Senti, Richie…” cominciai timidamente “So che non è stata una bella cosa nei tuoi confronti baciare Jon, e ancora di più mentirti… ma magari possiamo dimenticare tutto, ricominciare da capo. Possiamo ancora essere amici, no?”
“La prima volta che ti ho sentita suonare ho detto che ti avrei sposata” rispose lui, lasciandomi basita “Vabbè, era un’esagerazione, ma il concetto era quello. Io non voglio essere tuo amico, io ogni volta che ti vedo mi faccio pensieri assurdi. Jon mi ha detto quello che è successo stanotte tra di voi. Lo accetto. Se ami più lui che me lo accetto. Però mi dispiacerà sempre” Non so se queste parole ferirono più me o lui.
“D’accordo” fu l’unica cosa che riuscii a mormorare, per poi dirigermi verso la porta antincendio. Mi fermai sull’uscio, indecisa se dire o no quello che avevo in mente. Alla fine lo dissi, tutto d’un fiato, senza neppure voltarmi. “Non sono sicura di amare più Jon che te comunque, è solo che nella rubrica la J viene prima della R” Poi me ne andai, lasciando Richie ai suoi pensieri, probabilmente incasinati quanto i miei.
 
Nota dell’autrice:
sciaooooooo, sono tornata. Stavate troppo bene senza di me, dovevo rompervi un po’. La situazione si sta incasinando sempre di più tra Juju e Richie, ma il tempo sbroglia tutte le matasse.
Credo che ci metterò un po’ ad aggiornare di nuovo, fa caldissimo e il mio piccolo cervellino riesce a lavorare solo in situazioni ottimali.
Bacioni, Euachkatzl <3
P.S.: so che la strofa di quella canzoncina dei Seventh fa pena, ma l’ho detto, il mio cervello non gira molto bene ultimamente ;)

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Capitolo 8
*** Thank you for loving me ***


Thank you for loving me,
For being my eyes
When I couldn’t see,
For parting my lips
When I couldn’t breathe,
Thank you for loving me

 
Dopo lunghe riflessioni, lunghi interrogatori, qualche bevuta e, lo ammetto, un paio di canne, decisi che sarei stata la chitarrista di supporto dei Bon Jovi e nient’altro. Non la nuova fiamma di Richie, di Jon, di chiunque fosse. Io sarei stata la chitarrista di supporto dei Bon Jovi che collaborò nell’ Old Glory Tour 2013. Tutto qui.
Con questa idea in testa passai il primo mese di prove, ignorando gli sguardi ammiccanti di Jon e quelli tristi di Richie. Ma la costanza è sempre stata una mia pecca. Le diete, i buoni propositi di inizio anno, tutto va a quel paese con me. Difatti, dopo quel mesetto passato con solo una metà del letto disfatta, bussai al pesante portone di casa Sambora. Richie venne ad aprire subito, facendomi poi entrare cortesemente, senza chiedermi il motivo per il quale fossi lì o per il quale non lo avessi minimamente degnato d’attenzione per un mese. Attraversammo l’atrio e ci fermammo in salotto, dove mi sedetti sul divano. Rabbrividii rivedendo il pianoforte nero all’angolo della stanza, il coperchio alzato che mi faceva venir voglia di risuonare Hallelujah, di tornare tra le braccia di Richie e restarci per sempre. Ma le seghe mentali non hanno mai fatto bene a nessuno, quindi scacciai quella assurda nuvola di pensieri e mi concentrai sul perché mi fossi presentata a casa di Richie alle 11 del sabato sera. Già, perché? Non riuscivo a trovare un motivo neppure io, semplicemente avevo sentito il bisogno di andarci. Perché quando ascoltando la tua musica preferita non riesci a svuotare la mente, devi mettere a posto un paio di cosette nella tua vita.
Misi a fuoco Richie, seduto in silenzio davanti a me, intento a guardarmi negli occhi. I miei docili occhi grigi, in netto contrasto coi capelli rossi tinti di fresco. Jon mi aveva fatto una bella ramanzina per quel cambiamento improvviso di colore: mi aveva spiegato che dovevo creare un’immagine, che non potevo cedere al primo schizzo che avevo, roba così. Francamente, non me ne è fregato niente. Volevo cambiare e l’ho fatto, un rosso fuoco decisamente audace spiccava adesso attorno al mio viso pallido. “Volevo ringraziarti” dissi, rompendo il silenzio che l’aveva fatta da padrone per troppo tempo. Per un dannato mese durante il quale avevo vissuto con la testa bassa e gli occhi chiusi, evitando di vivere, concentrandomi sull’unica cosa che credevo fosse la cura, ma che invece era la malattia: la musica.
“Ringraziarmi?” chiese Richie, confuso. Il suo sguardo duro si era distorto, lasciando spazio a una faccia sorpresa, di cui lui avrebbe volentieri fatto a meno. Era pronto a una battaglia, e nel vedermi così debole la sua reazione era più che giustificata.
“Sì. Non ti ho mai ringraziato davvero” proseguii “Mi hai fatto amare di nuovo la musica, mi hai dato l’occasione di suonare con i Bon Jovi, ti sei fidato incondizionatamente di me. Come sono andate le cose dopo è un altro discorso, io volevo ringraziarti per questo”
“E sei arrivata fin qui solo per rinfacciarmi quanto io sia stato stupido?” rispose Richie, con un tono amaro. Si alzò dalla poltrona per poi sedersi nuovamente, vicino a me. Avvicinò il suo viso al mio, le mie guance cominciarono ad assumere lo stesso colore dei capelli. Non sono mai arrossita, ma in quel momento lasciai il mio viso scaldarsi, pensando unicamente al ricordo delle labbra morbide di Richie, che si mossero lentamente, senza produrre alcun suono, ma scandendo un’unica, semplice parola che per me fu come un urlo in una chiesa. Affilato, improvviso, gelido. ‘Vattene’. Obbedii a quella parola, a una parola che non era neppure stata pronunciata, solo mimata. Mi alzai con gli occhi carichi di odio. Mi aveva detto di andarmene. Dopo che avevo abbandonato definitivamente il mio orgoglio, tutte le barriere che ci separavano. Barriere che lui era riuscito a ricostruire piuttosto velocemente. Ammirevole. Mi venne voglia di urlargli tutti i pensieri che si erano affollati nella mia mente in un mese, ma mi resi conto che le uniche cose che avevo pensato di Richie erano solo dolcezze. Niente insulti, niente difetti. Solo cose belle, che tre sillabe erano riuscite a sgretolare, forse senza via di ritorno.
 
Sprofondai nel mio cuscino e inspirai forte il mio profumo. Il mio. Perché non c’era quello di nessun altro a mescolarvisi. Sentivo una pura fragranza di mimosa, che non avevo permesso a nessuno di sporcare. L’orgoglio è una brutta cosa, ti rende cieco e ti convince di essere sulla buona strada, anche se in realtà stai andando verso il fondo. Mandai a fanculo tutto e accesi lo stereo a tutto volume. Sentii i battiti dei vicini sulla mia porta: era pur sempre l’una di notte. Senza curarmene molto, entrai in doccia e accesi l’acqua fredda, tentando di lavare via dagli occhi le labbra di Richie che si muovevano dicendomi ‘Vattene’. Neppure l’acqua gelida riuscì però a togliere il sapore amaro che ormai si era impresso sulla mia pelle, sul mio cuore. Avevo bisogno di qualcosina di dolce, di una coccola sincera. Presi in mano il telefono e scrissi un messaggio semplice semplice, di quelli che però ti lasciano a bocca aperta. “Domani sera sono da te”. Destinatario: Fefè.
 
Arrivai all’aeroporto di Milano verso le 8 di sera, presi il primo treno per Treviso e in un paio d’ore mi ritrovai a destinazione. Uscii e rividi Treviso, uno dei miei più grandi amori. Non è che sia sta figata di città, ma le esperienze più belle le ho avute qui. Qui ho conosciuto la Fefè, qui ho dato il mio primo bacio, qui ho fatto il mio primo concerto. Tutto qui, in una città di neanche 90mila abitanti. Presi il bus numero 55, che mi portò davanti al palazzo dove c’era la mia vecchia casa. Cominciai a salire le scale, notando che in più di un anno non era cambiato nulla: l’intonaco alle pareti era ancora scrostato, le scale di marmo erano scivolose come sempre; prima o poi qualcuno si sarebbe ucciso lì. In sostanza, era rimasto un buco di posto. Appartamento numero 549: sulla porta c’era ancora inciso ‘The seventh house’, la settima casa. Mi spuntò un sorriso malinconico sulle labbra: eravamo davvero pessimi. Aprii la porta, mai chiusa a chiave, e salutai forte, non vedendo nessuno nel piccolo salotto color bianco panna. Una ragazza dai capelli blu spuntò da dietro una porta e mi guardò di sbieco. “Ma sei deficiente?!” mi urlò appena appoggiai le borse per terra avvicinandomi a lei. La guardai, basita. Aprii la bocca per controbattere ma non ne ebbi il tempo. “Hai un tour coi Bon Jovi tra un mese e tu torni qui, in questo buco di posto? Ma sei diventata scema? Mi rompi le palle con Jon e tutto il resto da quando avevi quindici anni e adesso te ne torni qua? Vedi di prendere il primo aereo e tornare in America, tu in questa casa non ci rimani”
“Cazzo, calmati. Che è, sei isterica?” le urlai, irritata. Un anno che non ci vediamo e appena entro in casa mi sbatte fuori. “Sono tornata perché cercavo qualcuno che mi potesse ascoltare, ma vedo che non è qui” Uscii sbattendo la porta, lasciando le borse sul pavimento esattamente dove la avevo appoggiate. Sapevo benissimo da chi dovevo andare. Le valigie non mi sarebbero servite.
 
“Ciao, Edo” salutai stupidamente, senza aspettarmi una risposta. Mi sedetti per terra, sulla pietra fredda del cimitero. “Ho una scaga assurda a stare qui a quest’ora, ma volevo qualcuno che mi ascoltasse. Senza parlare, senza contraddirmi. Ho fatto una cazzata dietro l’altra per troppo tempo, devo fermarmi a pensare. Me l’hai insegnato tu: togli le mani dalla chitarra, prendi un respiro… Ricomincia. La situazione adesso è un po’ più grossa di un assolo fatto male, ma credo che fermarsi possa far bene lo stesso” Sospirai, rendendomi conto che stavo parlando con una tomba bianca, con un sasso con su scritto Edoardo Prada. La sua foto era contornata da una cornice dorata, il suo viso era sorridente. Era uno scatto bellissimo, me lo ricordavo perfettamente. Viaggio in Inghilterra, davanti all’O2 Arena. “Un giorno suoneremo qui” aveva detto Edo, con un sorriso che andava da un orecchio all’altro. Foto immancabile davanti all’edificio, foto che ora era attaccata alla sua lapide. ‘Be passionate. Always.’ era la frase che gli avevo dedicato, scritta in un delicato corsivo appena sotto la foto. Mi alzai e feci per andarmene, ma non ci riuscii: era troppo tempo che non andavo a trovarlo. Era troppo tempo che desideravo parlargli e, visto che questo era l’unico modo, non mi restava altro da fare. Tornai a sedermi davanti a lui e presi una boccata dell’aria fresca della notte. “Mi sono trasferita a Perth Amboy, sai? Dopo anni e anni che ti rompevo con questa storia, l’ho fatto davvero. Ho anche conosciuto i Bon Jovi. Sono diventata la loro chitarrista. Mi sono innamorata di Richie. Ho baciato Jon. Ho fatto un mese di prove col gruppo per fare un tour. Strano come i sogni di una vita si avverino tutti in una volta, mettendoti in un casino assurdo. Tra un mese dovrei essere a Lisbona, su un palco a coronare l’ultimo desiderio ancora non avverato: il concerto coi Bon Jovi. Ma a questo punto mi chiedo se farlo o no. Se è meglio avere rimorsi o rimpianti” Dopo questa frase mi bloccai: tempo fa a una domanda del genere avrei risposto subito ‘rimorsi’, senza pensarci due volte. Ora però non ne ero più così sicura. Rimasi in silenzio, fissando il bellissimo sorriso di Edo, i suoi capelli biondi sparsi al vento. Poi mi alzai e uscii dal cimitero, tornando all’appartamento numero 549.
Trovai Fefè seduta a tavola, mentre picchiettava nervosamente le dita sul legno chiaro, sul quale era appoggiata una bottiglia di birra mezza vuota. “Scusami” mi disse, senza girarsi, quando sentì i miei passi avvicinarsi. Si voltò e mi osservò. “Bei capelli” disse infine, con un sorriso timido “Non ti ho mai sopportata bionda”
Le andai incontro e la abbracciai forte, lasciando scorrere le lacrime lungo le guance. “Torna in America” mi sussurrò, come se sapesse perfettamente tutto quello che era successo lì. “Hai risolto casini ben più grandi di quello in cui sei ora. Hai passato momenti per cui chiunque sarebbe andato fuori di testa. Hai suonato con le unghie che sanguinavano, hai cantato quando ormai avevi perso la voce. Non credo ci sia qualcosa che tu e la tua testa di cazzo non possiate superare”
“Mi sei mancata” dissi, tra i singhiozzi che si facevano sempre più insistenti.
“Anche tu” rispose lei, nascondendo il suo viso tra i miei capelli. Non ne sono sicura, ma una lacrima deve averla versata pure lei, anche se sapevo che non lo avrebbe mai ammesso.
 
La mattina dopo, ripartii per l’America. Fefè era riuscita a convincermi un’altra volta. Era una delle poche persone che ascoltavo quando mi davano un consiglio, e ogni volta mi accorgevo di aver fatto bene. Fefè, prima o poi ti farò santa.
Rividi il cartello con scritto Palm Spring Road e sorrisi: mi sentivo un po’ stupida, ero tornata in Italia convinta di non rivedere più Perth Amboy e il giorno dopo ero di nuovo lì. Entrai e fui accolta con un urlo di Jon: “Juju! Dove cazzo eri finita?”
“Niente, non ha importanza” risposi, confusa. La mia mente era intenta a ripetere il discorso di Fefè, come se fosse stato un mantra. ‘Non c’è nulla che io e la mia testa di cazzo non possiamo superare’. Presi la chitarra dalla custodia e cominciai le prove, sotto lo sguardo di rimprovero di Jon, che non si era certo accontentato della mia risposta.
 
Infatti, dopo quell’oretta e mezza durante la quale ero riuscita a suonare completamente Wild is the wind (sì, mi sentivo un fottuto mito), il biondo mi fermò e mi chiese di parlare. Rimanemmo soli in quella stanza, triste come sempre, con le pareti di un bianco così immacolato da star male. “Dove sei stata ieri? Sinceramente. Ti ho chiamata miliardi di volte e non mi hai risposto, non eri da nessuna parte”
“Sono tornata a casa” risposi tranquilla, come se attraversare due volte l’oceano per fare solo una chiacchierata fosse la cosa più normale del mondo. Jon  non mi chiese altro del giorno prima, forse a causa della mia faccia che si era improvvisamente intristita o forse perché l’argomento che stava per affrontare lo interessava di più.
“Non ci ho provato con te solo per portarti via da Richie. Te l’ho già detto, ma te lo ripeto, io sono innamorato di te. Mi piace cantare sapendo che sei vicino a me, anche se tu non mi vorresti nemmeno vedere. Mi piace sentire la tua presenza e basta. Mi piace sentire il tuo profumo, anche da lontano. Mi piaci da morire”
Rimasi immobile davanti a quella dichiarazione. Mi tremavano le gambe, le ginocchia sembravano incapaci di reggere il mio peso.
“Un ultimo bacio?” propose Jon, che aveva capito perfettamente che i miei sentimenti non combaciavano con i suoi. Avvicinai semplicemente le mie labbra alle sue, posandole delicatamente. Gli accarezzai i capelli, iniziando a mordicchiargli il labbro inferiore: mi sentivo una troia, ma era pur sempre Jon Bon Jovi l’uomo che avevo tra le mie braccia. Le nostre lingue si incrociarono, le nostre mani esplorarono il corpo dell’altro, curiose ma delicate, a tratti con una presa forte e a tratti con delle carezze quasi impercettibili. Le mie labbra carnose scesero verso il suo collo, strappandogli un sussulto di sorpresa. Tutto era cominciato come l’ultimo bacio, ma diventò qualcosa di più grande. Fu comunque l’ultimo, ma ne posso sentire ancora i brividi.
 
Nota dell’autrice:
ciaoooooo, sono tornata :33 Tutto il casino sembra essersi risolto: Richie ha detto chiaro e tondo a Juju che non la vuole più vedere, Juju ha chiuso tutto con Jon. (Bel modo per chiudere) ;)
Vabbè, credo che il prossimo capitolo arriverà abbastanza presto, ho un’ideuzza che mi gira in testa ;)
Baci baci, Euachkatzl <3    

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Capitolo 9
*** I'm a cowboy ***


I’m a cowboy,
On a steal horse I ride,
I’m wanted dead or alive.
I’m a cowboy,
I got the night on my side,
I’m wanted dead or alive.

 
 
29 maggio 2013. Partenza per Lisbona.
“Il passaportooooooooo” urlai, appena arrivata in aeroporto. Corsi alla mia auto e tornai a casa, mentre gli altri erano intenti a fissarmi impietriti, un po’ stralunati: mi avevano semplicemente vista arrivare, voltarmi ed andarmene. Cercai ovunque quel maledetto pezzo di carta che non si decideva a venire fuori. Finalmente lo trovai, sotto al tappeto della mia camera. Non mi chiesi come mai fosse lì, ormai ero abituata al fatto che tutti i miei oggetti fossero muniti di piedini che permettevano loro di scappare proprio nel momento del bisogno. Ficcai in borsa il passaporto e tornai in aeroporto, dove il resto della band stava aspettando. “Alleluia” disse Jon, guardando verso l’alto, come per ringraziare un qualche Dio che mi aveva fatta finalmente arrivare.
“Io mi chiedo come mai dobbiamo portare passaporto e altre diecimila carte se tanto ci conoscono tutti” commentò Dave mentre ci dirigevamo al check-in. “E poi abbiamo pure il nostro aereo”
“Secondo me servono solo a vedere lo stupido che le dimentica” rispose Tico, allegro.
“Grazie” dissi, scatenando le risate degli altri. Porsi il passaporto alla hostess al check-in che guardò attentamente la foto, per poi squadrarmi. “Giulia Valente?”
“Sì” risposi io, consapevole che la foto che campeggiava sul documento era di una decina d’anni prima.
“Giulia Valente?” ripetè Richie, sconvolto.
“Sì, anch’io ho un nome normale” gli risposi ridendo, mentre la hostess mi restituiva il passaporto.
Dopo aver passato tutti i controlli, uscimmo e andammo verso l’aereo dei Bon Jovi. Mi fermai ad ammirarlo da lontano. Era l’aereo dei Bon Jovi. L’unica volta che l’avevo visto era nel video di Bed of Roses, ma non avrei mai pensato di salirci, un giorno. “Prego, prima le signorine” mi invitò Tico, facendomi passare avanti. Entrai e presi posto il più lontano possibile dal finestrino, facendo sorgere un po’ di dubbi al resto del gruppo.
“Potrò raccontare di aver incontrato l’unica persona che non vuole stare vicino al finestrino” disse Richie, aspettandosi una spiegazione, che venne fornita però da Dave: “Paura di volare?”
“Paura di cadere” corressi io, e mi allacciai la cintura di sicurezza, come ci aveva appena consigliato il pilota. Essì, avrò fatto un milione di voli nella mia vita, ma la paura resta. Appena sentii il rumore dei motori chiusi gli occhi, che non avrei riaperto fino a che non sarei stata di nuovo per terra.
 
Il volo fu tranquillo, neanche troppo lungo. Almeno credo, dato che dormii per tutto il tragitto, con la musica a palla nelle orecchie. Risultato: qualche miliardo di fotografie di me immersa nei miei dolci sogni.
Appena scesi, andammo subito all’Estàdio da Luz, dove avremmo dovuto suonare il giorno dopo. “Boas-vindas” ci salutò un uomo calvo sulla quarantina, doveva essere l’organizzatore. “Vi stavamo aspettando. Provate ora?”
“Sì, un po’, giusto per ambientaci. Domani pomeriggio facciamo le prove serie” spiegò Jon, più a noi che al signore.
“Perché in due mesi non abbiamo provato abbastanza” borbottò Tico, al quale tirai un pugno scherzoso su un braccio. Dentro ai camerini trovammo gli strumenti; due chitarre scordate, una addirittura senza il mi cantino, una batteria con un tamburo sfondato e un microfono che, non appena dicevi qualcosa, emetteva fischi molto poco piacevoli. Richie esaminò la chitarra senza una corda. “Il brutto è che non puoi usarla né come chitarra né come basso”. Mandammo tutto a quel paese e prendemmo un taxi verso l’albergo, dove mi attendeva la mia amata Les Paul. La receptionist ci spiegò in un inglese abbastanza maccheronico che i nostri bagagli erano già nelle nostre camere e ci consegnò le rispettive chiavi. Abbozzai un mezzo sorriso notando che la mia stanza era la numero 549: gli scheletri che nascondi nell’armadio riescono sempre a far capolino nel presente. Andammo tutti insieme al quinto piano, dove si trovavano le camere, e cercammo ognuno la porta con lo stesso numero della chiave. Ovviamente, nessuno di noi riuscì a trovarla: la ricerca della camera d’albergo è una tra le cose più difficili del mondo. Sei convinto che sarà semplice, basta guardare le porte e contare i numeri sulle belle targhette dorate. Invece no! Perché manca sempre un numero e, guarda caso, è proprio quello della tua camera. Dopo aver calpestato la moquette del corridoio un numero infinito di volte, Dave gridò, da un angolino “Trovate!”
“Trovate?” ripetemmo tutti, confusi. Cos’era questa storia che parlava al plurale? Ci avvicinammo a Dave e notammo che, in quella porta sapientemente incastrata proprio alla fine del corridoio, c’erano cinque numeri, i nostri. Cinque numeri?
“Magari è una di quelle suite con tante stanze” azzardò Tico, ma Richie bocciò l’idea: “Mannò, quelle hanno un solo numero”
Coraggiosamente, David girò la chiave nella toppa e ci trovammo davanti a uno stretto corridoio, sul quale spuntavano, sia a destra che a sinistra, cinque porte. “Ah, ho capito” disse Tico, dandosi una pacca sulla fronte. Ognuno trovò la propria camera e in men che non si dica vi si fiondò dentro. Fui felicissima di trovare le mie due valigie e la custodia della mia amata chitarra: mi era capitato già una volta di perdere i bagagli, e non era stato affatto divertente. Stavo per lanciarmi sul letto, quando un pensiero mi sfiorò la mente. Uscii dalla mia camera e bussai alla porta esattamente davanti alla mia, che teoricamente era quella di Jon. Invece ad aprirmi fu Tico. Vabbè, fa lo stesso. “Non è che abbiamo bisogno di un bassista?”. Domanda retorica, che celava la domandina ‘Dove cazzo è il bassista?’. Tico rimase piuttosto dubbioso di fronte al mio quesito, sforzandosi di ricordare. “Allora… Doc ci aveva detto che ci avrebbe raggiunti con lui in aeroporto…” Doc era il manager dei Bon Jovi, una tra le persone più simpatiche e disponibili di questo mondo. Mi aveva spiegato tutto per filo e per segno, aveva risolto tutti i miei dubbi riguardo contratti, viaggi, robe varie e ci aveva pianificato tutto il tour, permettendoci di concentrarci solo e unicamente sulla musica. Tuttavia, non ci aveva detto nulla di questo bassista. “E quindi li abbiamo lasciati in aeroporto?” chiesi. Tico si grattò il mento, continuando a riflettere. “No, Doc ha chiamato Jon e ha detto che ci avrebbero aspettati… allo stadio!”
“Ragazzi, Doc ci sta aspettando allo stadio!” urlò Jon, che era appena schizzato fuori dalla sua camera. Bussò a tutte le porte, mentre rassicurava Doc al telefono. “Svegliaaaaaaaaa…” gli risposi io, passandogli una mano davanti al viso. Mollammo i bagagli mezzi disfatti nelle nostre camere e tornammo allo stadio, dove un manager piuttosto incazzato stava seduto sul palco, con accanto un ragazzo che si guardava intorno spaesato. Non aveva una faccia molto intelligente.
“Ciao” salutò Richie, tranquillo; in fondo la colpa non era certo sua. Infatti, l’unico colpevole fece un cenno con la mano, tenendo la testa abbassata.
“Ma dove cavolo eravate? Eravamo qua ad aspettarvi e voi che non arrivate… Avete cinquant’anni, un po’ di professionalità”
“Professionalità. È una parola grossa per una rockstar” si giustificò Jon, buttandola sul ridere.
“È una parola grossa solo per te” lo corresse Doc, che nel vedermi si addolcì. “Lei” disse, mettendomi un braccio attorno alle spalle “Lei è l’unica che può arrivare in ritardo. D’accordo?”
“No, perché?” chiese Richie. Domanda più che lecita, avrei voluto farla anch’io.
“Perché lei è una donna, perché ha vent’anni, perché è bella come il sole e perché il suo contratto non la obbliga a restare, quindi dobbiamo trattarla bene” Ridemmo tutti, tranne il povero bassista, che era rimasto indietro, isolato dal resto del gruppo. Doc lo squadrò. “Vieni” lo invitò. Il diretto interessato si avvicinò timidamente, con un sorriso falsissimo. Era imbarazzato al massimo. Viste le condizioni in cui versava, fu Doc a presentarcelo: “Lui è Logan, ha venticinque anni, viene da Miami ed è il vostro bassista” Presentazione breve, ma d’effetto.
“Perché non Hugh?” chiese Richie, molto poco educatamente. Hugh era diventato il bassista dei Bon Jovi dopo che Alec se n’era andato. Aveva suonato insieme a loro per anni, avevamo addirittura fatto un paio di settimane di prove insieme, dando per scontato che sarebbe venuto con noi in Europa, e invece ci eravamo trovati questo Logan. “Perché, Logan non vi va?” fu la rispostaccia di Doc, che zittì immediatamente Richie. Intanto, il bassista continuava a squadrarci tutti, con quel sorrisone stampato in faccia.
“Quindi adesso prove?” chiese Jon. Sapevamo tutti la risposta, e nessuno di noi avrebbe voluto sentirla. Invece arrivò, puntuale, dalle labbra di Doc. “Esattamente. Mi hanno detto che hanno un paio di strumenti qui” Ci guardammo e ridemmo. “Senti, facciamo un salto in hotel a prendere i nostri e torniamo, ok?” propose Dave mettendogli una mano sulla spalla. “Basta che facciate in fretta. E portate anche Logan con voi, intanto vi conoscete”
 
Fummo costretti a prendere due taxi diversi, montare in sei in uno solo sarebbe stata un’impresa troppo ardua. Io mi trovai insieme a Dave e a Logan. Ci accomodammo tutti sui sedili posteriori e cominciammo a parlare, facendo qualche domanda al ragazzo, più imbarazzato che mai. Alla fine del viaggio, entrò in hotel rosso fino alle orecchie, tanto che gli altri ci chiesero se l’avessimo picchiato. “Io lo voglio vedere domani sera” dichiarai, facendo ridere tutti. Andammo in camera e raccogliemmo gli strumenti, per poi prendere altri due taxi e tornare in quel benedetto stadio, dove suonammo per un’oretta. Lo ammetto, il nuovo bassista era davvero bravo e, dopo un paio di canzoni, si sciolse, gettò via l’imbarazzo e cominciò a fare cazzate, come tutti noi. Gente che saltava per il palco mentre suonava, Dave che faceva i suoi balletti stupidi alla tastiera e Jon che azzardò uno spogliarello in piedi su un amplificatore. Lo fermammo subito e decidemmo che per quel giorno avevamo provato abbastanza. Il cantante ci restò un po’ male, ma se la fece passare in fretta.
 
Tornammo in hotel in tempo per la cena, composta da pasta scotta e qualche tipo di pesce non molto ben specificato. Non vedevo l’ora di fare tappa a Milano, volevo a tutti i costi un piatto di spaghetti alla carbonara.
“E così suoni da quasi vent’anni?” chiese Richie a Logan, che azzardò una battutina: “Sì, a sei anni cominciai le lezioni di chitarra, ma poi provai col basso, e me ne innamorai. Forse è perché io sono molto alto, sapete, gli opposti si attraggono”. Dopo quella scellerata frase, calò un silenzio di tomba. Tutti ci concentrammo sul nostro piatto di pasta, non parlando per un po’. Dovevamo metabolizzare quella battutaccia. Dopodichè la conversazione tornò normale, ma Logan non fece più scherzi del genere. Ci pensarono Jon e gli altri a farci ridere, raccontando aneddoti assurdi dei loro tour in giro per il mondo. Alle nove e mezza, quando ormai la sala era completamente vuota e i camerieri stavano cominciando a sparecchiare, decidemmo che era arrivato il momento di tornare in camera. Salimmo e ci dirigemmo verso quella benedetta porta che avevamo cercato così a lungo quel pomeriggio. La camera di Logan era esattamente all’altro capo del corridoio, quindi ci salutò all’ascensore e prese una direzione diversa dalla nostra.
 Appena chiusa la porta della mia stanza, lanciai i vestiti sopra il letto e mi feci una doccia fredda, per lavare via tutta la stanchezza che si era accumulata quel giorno. Senza accorgermene, cominciai a cantare. È un riflesso automatico, vado sotto la doccia e comincio a cantare. Maltrattai Always per cinque minuti buoni, poi passai agli Aerosmith, urlando come una matta in corrispondenza dei vocalizzi che a Steven Tyler uscivano così bene, mentre a me uscivano… appena appena sgraziati, diciamo. Ad un certo punto sentii bussare alla mia porta, mi avvolsi in un asciugamano bianco e andai ad aprire, trovandomi di fronte a Richie. “Se non la smetti di torturare le canzoni degli Aerosmith arriva Steven Tyler a prenderti a schiaffi” mi informò, con una sonora risata alla fine della frase. Risi anch’io, immaginandomi la scena di Steven piuttosto incazzato che mi schiaffeggiava, rimproverandomi di aver rovinato le sue canzoni. “Noi tra un po’ ci facciamo un giro in centro, che dici, ti va?” propose. “Certo. Mi vesto e arrivo” gli risposi, facendo per richiudere la porta, ma lui mi fermò.
“Mi sembra di averla già vissuta questa scena…” rise, lasciandomi scorrere un attimo i ricordi, fino ad arrivare al momento del nostro primo incontro.
“Hai presente Richie Sambora, il chitarrista dei Bon Jovi? Gli assomigli tantissimo” scherzai, per poi voltarmi e chiudere la porta. Lasciai cadere l’asciugamano sul parquet scuro e cercai nelle valigie qualcosa da mettermi. Alla fine optai per jeans e maglietta, l’eleganza poteva andare a quel paese per quella sera.
 
Passai una serata davvero piacevole, scattammo un centinaio di foto assurde in giro per Lisbona. La migliore resterà sempre quella di me e Richie che fingiamo di cadere in una fontana. Nella foto fingiamo di cadere nella fontana. Nella realtà ci siamo fatti una seconda doccia. Risero tutti, ma la loro espressione cambiò quando li tirammo dentro con noi. Urlammo e ridemmo per un bel po’, attirando inevitabilmente l’attenzione di un vigile lì nelle vicinanze, che ci fece favorire i documenti, bagnati fradici come tutti noi. Fortunatamente, la figlia di questo vigile era una fan accanita dei Bon Jovi, così ce la cavammo con un paio di biglietti e qualche foto.
Quella serata fu la prova di come il buongiorno NON si veda dal mattino.
 
Nota dell’autrice:
ok, non ho aggiornato subito; l’ideuzza che avevo la tengo per il prossimo capitolo J
Aw, che beeeeeella l’amicizia, le cazzate fatte con delle persone a cui vuoi davvero bene. Il tour è iniziato decisamente bene, e la sera seguente c’è il primo concerto! :D
Ooooooook, prossimo capitolo J
Bacioni, Euachkatzl <3 

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Capitolo 10
*** Never say goodbye, never say goodbye ***


Never say goodbye, never say goodbye,
You and me and my old friends,
Hoping it would never end,
Say goodbye, never say goodbye,
Holdin’ on, we got to try,
Holdin’ on to never say goodbye

 
Sentii un braccio cingermi le spalle e qualcuno darmi un bacio dolce su una tempia. “Paura?” mi chiese Jon. “No” mentii, provocandogli una risatina, che fortunatamente soffocò. Mancava solo che venisse a ridermi in faccia. Stavo seduta su un divanetto del nostro camerino, tremando e recitando mentalmente qualsiasi preghiera mi venisse in mente. Qualcuna forse la inventai, a qualcuna cambiai le parole, era passato tantissimo dall’ultima volta che ero entrata in una chiesa. Tico mi porse una bottiglia di birra, tutti ne avevano in mano una. “Ti prego, dopo non mi ricordo neanche come si fa un accordo” rifiutai.
“No, seriamente, sciogliti un po’, che sennò schizzi male” insistè Tico. Presi la bottiglia e bevvi un sorso di birra. Accidenti, faceva davvero schifo. Feci una faccia strana e posai quella specie di veleno sul tavolino di fronte a me. Ma che cazzo bevevano i portoghesi?
“Aiuto, non ce la posso fare” mormorai, gettando la testa all’indietro.
“Dai, tutti abbiamo passato il primo concerto e siamo ancora vivi” mi incoraggiò Dave, dall’alto della sua esperienza di tipo trent’anni di live. Per carità, anch’io ne avevo fatti di concerti, ma mai di fronte a 20mila persone. Persone che, tra l’altro, non volevano me, volevano i Bon Jovi. Che cazzo ci facevo io là in mezzo? Tentai di scacciare quei pensieri e intrapresi un’altra conversazione con Dio, magari gli avrei fatto tanta pena da fargli decidere di darmi una mano. “Ragazzi, il gruppo di apertura inizia adesso, è meglio se venite” ci avvisò un tecnico. Ci alzammo e ci dirigemmo verso il palco. Dopo che la band finì di suonare, si spensero tutte le luci. ‘Oddio, è saltato tutto e non si fa il concerto. Grazie Dio, mi hai ascoltato’. E invece ricordai che era tutto normale, anche le prove generali quel pomeriggio erano cominciate così. Le prime parole di You give love a bad name  andavano cantate al buio, lasciando poi spazio a un disastro di luci e suoni. Presi il mio posto sul palco, vicino a Logan, e chiusi gli occhi. “Me la sto facendo sotto quanto te, sai?” mi confessò lui, tentando di smorzare la tensione. Accennai un mezzo sorriso e posai le dita sul manico della chitarra, le feci scorrere su e giù, giusto per accertarmi di ricordarmi almeno il do, e il concerto iniziò. Shot through the heart, and you’re too blame… Darlin’ you give love a bad name. Dopodichè, il disastro di luci e suoni che avevo previsto. Un disastro che però, tutto sommato, mi piaceva. Era ordinato nel suo disordine. Era familiare nei suoi continui cambi di programma. Era il sogno della mia vita. Era il concerto con i Bon Jovi.
 
Il tipo che ha detto che quando ci si diverte il tempo passa in fretta non sa di aver detto una grandissima stronzata. Il tempo passa in fretta se non te lo sai gustare. Io, quelle due ore di concerto, le assaporai lentamente, senza correre. Suonai ogni singola nota percependo le vibrazioni che la mia chitarra provocava, ascoltai tutte le parole che Jon cantò, quelle parole che lui e gli altri, in trent’anni di musica, erano riusciti a unire in modo perfetto. Fu maledettamente bello. Avrei potuto morire da un momento all’altro. Dalla felicità, dal rumore assordante che si sentiva sul palco, dall’emozione quando Jon mi prese per mano e facemmo quel famoso inchino a fine concerto. E, sinceramente, mi pareva il modo migliore per morire.
 
Seconda tappa, Madrid. Terza, Parigi. Quarta, Londra. O2 Arena.
“Siamo tornaaaaaaaaaati” urlò Richie di fronte all’edificio.
“Siamo tornati” mormorai. Mi fermai a guardare lo stadio da lontano, ripensando ai Seventh, a quello che aveva detto Edo: ‘Un giorno suoneremo qui’. Sì, io la sera seguente avrei suonato lì, su quel palco, su quello stadio pieno. Gli altri erano già andati avanti e Richie, accortosi che ero rimasta in piedi in mezzo al marciapiede, a fissare imbambolata l’edificio, si avvicinò a me.
“Dai, non avrai paura anche stavolta”
“No, è solo che Londra mi fa tornare tanti ricordi in testa…”
“Facciamo una cosa stupida” lo guardai confusa. Le cose stupide proposte da Richie la maggior parte delle volte sono vere e proprie cazzate “Adesso prendiamo la metro e andiamo in centro a farci un giro” Lo guardai ancora più strano. “Stai dando i numeri?”
“Dai, Juju, lo so benissimo che non hai voglia di provare” Detto questo, mi cinse la vita e mi prese alla ‘sacco di patate’, allontanandosi dallo stadio, dove gli altri erano già entrati. Scalciai per un po’ ordinandogli di mettermi a terra, ma senza successo. Alla fine mi arresi e lui mi lasciò scendere.
Trovare la metropolitana fu semplice, trovare il metrò giusto fu appena appena più difficile, anche perché non avevamo idea di dove andare.
“Prendiamo questo” mi urlò Richie dalla banchina, mentre io cercavo di capirci qualcosa nell’immenso tabellone degli orari. Mi fidai di Richie e salii. Ci ritrovammo stipati in un vagone strapieno di gente, quasi non si respirava.
“L’hai scelto a caso, questo tram?” chiesi. Lui annuì. “Sì, ma mi sono pentito. Alla prossima fermata scendiamo” E così fu. Uscimmo da quella camera a gas e respirammo a pieni polmoni. Non è che nel sottosuolo di Londra ci sia un’aria così pulita, ma tutto sarebbe stato meglio di quel metrò. Sulla parete di fronte a noi campeggiava un cartello con scritto ‘South Kensington’.
“Hai una minima idea di dove siamo?” mi domandò Richie, mentre salivamo le scale.
“A Londra” risposi, ironica. Uscimmo e girammo a destra, così, a caso. Camminammo per un po’, in silenzio. Era un silenzio piacevole, dopotutto. Non era uno di quei silenzi imbarazzanti, in cui non fai altro che cercare un argomento di conversazione decente, era uno di quei silenzi leggeri, uno di quelli che riesci a goderti. Avevamo passato un brutto periodo, io e Richie, e sentire che potevamo camminare vicini, in silenzio, era una cosa bellissima. Ad un certo punto la sua mano afferrò la mia, le sue dita si intrecciarono alle mie, che si schiusero senza che me ne accorgessi. Arrossii, sperando che Richie non mi vedesse. E invece, a giudicare dal sorrisetto che gli spuntò in faccia, mi aveva vista eccome. Entrammo in un parco pubblico e ci sedemmo su una panchina, un enorme gelato in mano come i bambini.
“Che ricordi ti porta, Londra?” mi chiese Richie, interrompendo quel magnifico silenzio nel modo peggiore possibile. Non avevo certo voglia di raccontare tutta la mia vita in quel pomeriggio perfetto.
“È stato l’ultimo viaggio che ho fatto con Edo e gli altri” riassunsi brevemente, lasciando che il mio sguardo si perdesse nel vuoto.
“Jon mi ha raccontato tutta la storia tempo fa. Mi dispiace davvero di come sia andata” mi disse Richie, e i suoi occhi si posarono su di me, sui miei capelli rossi. Non sentendo una mia risposta, decise di continuare il suo discorso. “Sai, l’inizio non è stato semplice neppure per me. Ne ho passati di gruppi, ho litigato con una marea di gente, ma poi è arrivato Jon, che è stato un po’ una benedizione. Dio mi aveva visto e aveva deciso di darmi una mano, probabilmente”
“Non ci credo a Dio” mormorai. Sperai di non dover spiegare quella frase, invece non ebbi scampo. “Se Dio c’è, perché io sono senza genitori, perché ho dovuto soffrire così tanto per realizzare i miei sogni? Perché sono qui, su questa cazzo di panchina, quando l’unico posto in cui vorrei essere è vicino a Edo?” A quel punto la tristezza diventò troppo grande per essere soffocata, le lacrime cominciarono a scendere sulle mie guance pallide. Richie mi abbracciò forte. “Perché hai incontrato proprio me, quella sera al Depandance?”
 
Tornammo all’arena dopo un paio d’ore, trovando tutti in preda al panico, con Doc che continuava a gridare cose al telefono. “Dove cazzo eravate?” ci urlò il manager, avvicinandosi a noi arrabbiato come non mai.
“A fare un giro” rispose Richie, come se fosse stata la cosa più normale del mondo.
“A fare un giro” ripetè Doc. Non immagino neppure quanta fatica fece per non prenderci a schiaffi. Ce la cavammo con una lavata di testa di un quarto d’ora. “E adesso tutti in hotel, e non uscite da lì finchè non arrivo io”
 
La vista dalla mia camera d’albergo era una cosa incredibile. Londra era illuminata di mille colori e, dal decimo piano, era uno spettacolo. Luci a perdita d’occhio. Mi sedetti sul letto a guardare quel panorama bellissimo, ripensando alla chiacchierata che mi ero fatta con Richie quel pomeriggio. Mi lasciai cadere sul materasso morbido e chiusi gli occhi, ma fui costretta a riaprirli di colpo quando sentii la voce di Doc urlare: “E questa che cazzo è?” Uscii in corridoio e trovai il resto del gruppo in pigiama, a piedi scalzi o coperti da pantofole piuttosto oscene, davanti alla porta della camera di Richie. “Che succede?” chiesi, avvicinandomi a loro. Non ottenni risposta, sentii solo la voce di Doc urlare di nuovo, da oltre la porta. “È l’ultima cazzata che sopporto. Fanne un’altra e il tuo tour finisce qui. E insieme al tuo tour la tua carriera. Sono stato abbastanza chiaro?” Sentimmo i passi pesanti del manager avvicinarsi alla porta e ci scansammo tutti. Appena uscito, si trovò addosso cinque paia di occhi che chiedevano il perchè di quella sgridata. Doc ci ignorò completamente e ci ordinò di andare a dormire. Ci avviammo tutti verso le nostre camere, ma a metà strada mi bloccai. Dovevo assolutamente sapere che diavolo era successo. Silenziosamente, scivolai verso la porta di Richie e bussai piano. Lui mi venne ad aprire subito, con una faccia piuttosto stralunata. “Che è successo?” domandai preoccupata. Lui si spostò dalla soglia, facendomi cenno di entrare. Mi accomodai a gambe incrociate sul letto, mentre lui si sedette su una poltroncina di fronte a me. Aveva il viso teso, preoccupato, gli occhi arrossati. Si passò una mano sul viso e gettò la testa all’indietro. Restò in quella posizione per un paio di minuti, mentre io lo fissavo, inerme. Non avevo la minima idea di che fare. Poi lui si alzò, si avvicinò a me e le sue labbra si appoggiarono leggere sulle mie. Presa completamente alla sprovvista, girai la testa e mi allontanai da lui, che per tutta risposta si avvicinò, riaccorciando la distanza tra i nostri corpi. Le sue mani mi accarezzarono le guance, con un gesto delicato e affettuoso. Mi scostò i capelli dal viso, per poi baciarmi di nuovo. Lo fermai anche questa volta. “Che stai facendo?” gli chiesi. “Faccio l’ultima cazzata che Doc mi ha concesso” mi sussurrò all’orecchio.
“Richie…” lo pregai. Lui si bloccò. “Che c’è?”
“Sei fatto” dissi, quasi disgustata. “Mi avevi giurato che non sarebbe successo mai più”
“Anche tu mi avevi giurato che non avevi baciato Jon” Mi ritrovai completamente spiazzata di fronte a quella frase, detta con una lucidità devastante. Mi alzai e me ne andai, sbattendo la porta più forte che potevo.
 
Ci trovammo tutti la mattina dopo nella sala da pranzo dell’albergo, per fare colazione. Tutti tranne Richie. “Qualcuno ha saputo qualcosa di ieri sera?” chiese Dave. La domanda era più rivolta a me che a tutta la band, dato che il tastierista mi aveva vista perfettamente sgusciare nella camera di Richie. Abbassai la testa senza rispondere fissando il cappuccino, che di colpo si fece interessantissimo. Il silenzio regnò per tutta la colazione, della durata di appena un quarto d’ora. Dopodichè, tornammo nelle nostre camere. Alle quattro del pomeriggio Doc bussò a tutte le porte, urlandoci di uscire, che era arrivato il momento delle prove. Controvoglia, mi alzai dal letto e mi trascinai verso l’ascensore, dove il resto del gruppo mi aspettava bello pimpante. “Juju, sembri un po’… assonnata” mi fece notare Jon, con un sorrisone. “Rincoglionita” lo corressi, sbadigliando. I sonnellini pomeridiani sono un suicidio, ti fanno svegliare più stanco di prima. “Richie?” chiesi, guardandomi intorno. Vedemmo quest’ultimo uscire dalla sua stanza. Aveva più o meno la mia stessa faccia. “Ed ecco un altro reduce del sonnellino pomeridiano” rise Tico, tirando una pacca sulla spalla al suo chitarrista.
 
Le prove generali sono una di quelle cose che non vorresti mai fare ma che alla fine finiscono per farti divertire tantissimo. Sono tre ore di salti, risate e cazzeggi vari, prese per il culo e scherzi a manetta. In più, quel giorno c’erano dei tizi che dovevano filmarci per i videoclip delle ultime canzoni. “Dovete fare più cazzate del solito” ci spiegò Doc, ancora arrabbiato con Richie per quello che era successo la sera prima. Fu dura far più cazzate del solito, visto il gigantesco numero che eravamo soliti raggiungere, ma bene o male riuscimmo nell’intento. Alla fine delle prove eravamo abbastanza devastati. Andammo nel camerino e ci lanciammo chi sui divanetti, chi sotto la doccia, intenzionati a non fare assolutamente nulle per le prossime due ore. Il trambusto che fecero le 20mila persone appena aprirono i cancelli ci fece capire che era arrivato il momento di svegliarsi, che stavamo per fare un altro concerto. Mi lavai il viso con l’acqua fredda, mi misi l’eyeliner sulle palpebre e un po’ di mascara. Tornai in camerino e trovai Doc che stava facendo un discorso al gruppo, al quale mancava però Richie. Sentendo i miei passi Doc si voltò e mi chiese in malo modo dove mi ero cacciata. “Ero… a truccarmi” risposi timidamente, chiedendomi il motivo per il quale il manager fosse nuovamente incazzato. Mi sedetti di fianco a Jon.
“Stasera Richie non suona” ci spiegò brevemente Doc, facendoci restare più o meno… di merda, diciamo. “Juju, le canzoni le conosci, farai un ottimo lavoro” Si voltò e fece per andarsene, ma lo fermai. “No, aspetta, perché Richie non si fa il concerto?”
“Credo che tu lo sappia perfettamente, Juju” mi rispose, per poi attraversare la soglia del camerino e sparire dalla mia vista. Tutti mi guardavano con una faccia interrogativa, curiosi di sapere tutta la storia.
“Richie è tornato ai vecchi vizi” dissi, facendo scoppiare un borbottio generale. In quel momento, un tecnico ci chiamò per salire sul palco, era arrivata l’ora di togliere dal cervello le preoccupazioni e concentrarsi sulla musica.
 
Nota dell’autrice:
…oddio, no! Che casino che ho creato D: Mi dispiace tanto per tutti quelli che erano convinti che la storia fosse finita, ma invece continua un altro po’.  :)
Volevo ringraziare tutti quelli che recensiscono sempre, tutti quelli che hanno messo la storia tra le preferite/seguite e tutti quelli che non l’hanno messa in lista ma se la sono letta dall’inizio alla fine (lo so che ci siete anche voi ;))
 
Bacioni, Euachkatzl <3

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Capitolo 11
*** Every time I look at you, baby ***


Every time I look at you, baby,
I see something new
That takes me higher than before
And makes me want you more,
I don’t wanna sleep tonight,
Dreamin’s just a waste of time,
When I look at what my life’s been coming to,
I’m all about lovin’ you.

 
Essere la chitarra solista di un concerto è sempre una responsabilità piuttosto grande. Se sei la chitarra solista in un concerto dei Bon Jovi, sostituendo il 28esimo miglior chitarrista di sempre, la cosa si complica ancora di più. Però, tutto sommato, il concerto andò bene. Era vero, le canzoni le conoscevo, la chitarra la sapevo suonare, l’unica cosa che mi bloccava era la paura. Ma quando sei sul palco, quando vedi 20mila persone che urlano sentendoti fare un assolo, la paura se ne va. Piuttosto, ti senti un dio, in grado di abbattere qualsiasi ostacolo. Ti senti il migliore di tutti. Anche se hai vent’anni e ti sei ritrovato quasi per caso sul palco dei Bon Jovi.
Dopo il classico inchino, dopo che le luci si spensero, dopo che ormai avevo finito tutta l’energia nel mio corpo, le preoccupazioni che avevo scacciato tornarono prepotenti nella mia testa. Gli altri si fermarono a firmare autografi e fare foto, mentre io preferii tornare subito in camerino: avevo qualche domandina da fare al signor Sambora.
 
Tentai di aprire la porta, ma la maniglia non si decideva ad abbassarsi. Qualcuno doveva aver chiuso a chiave. Provai a bussare e ribussare, ma dentro al camerino sembrava non esserci nessuno. Cercai un tecnico e gli chiesi le chiavi, spiegandogli brevemente la situazione. Lui mi accompagnò fino alla porta ed estrasse dalla borsa che portava a tracolla un grosso mazzo di chiavi. Ne esaminò un paio, finchè non trovo quella giusta. Tentò di infilarla nella toppa, ma entrava solo a metà. “C’è già un’altra chiave dentro. Qualcuno ha chiuso la porta dall’interno”. Come qualcuno ha chiuso la porta dall’interno? Avevo bussato per un dieci minuti e nessuno mi era venuto ad aprire. Ringraziai velocemente il tecnico e ripresi a battere sulla porta. “Richie, sono io” chiamai, ma dall’interno non si sentiva niente. Cominciò a montarmi il panico. “Richie!” chiamai più forte, ma sempre zero assoluto. Mi voltai e appoggiai la schiena alla porta, cercando di calmarmi. Non era successo niente. Non poteva essere successo niente. Doc aveva trovato la droga nella borsa di Richie e gliel’aveva portata via. Tutta. Ripresi a bussare. Dio santo, Richie, apri questa cazzo di porta. Alla fine mi arresi e corsi dagli altri nel backstage, ancora presi a farsi foto con ragazzine che urlavano come galline. Tutta quella confusione, sommata a quella che avevo nella mia testa, mi fece quasi mancare il fiato. Scalciando, mi feci strada fino a Jon che, nel vedermi così preoccupata, si incupì subito. “È successo qualcosa?” mi chiese. Come risposta gli presi un braccio e lo trascinai via, tra le proteste di tutte le fan che avevano aspettato chissà quanto per incontrare il loro idolo. Si fottano, io ero terrorizzata. Non degnai Jon di una spiegazione finchè non fummo di fronte alla porta del camerino, ancora chiusa a chiave. “Richie è  dentro e non mi risponde. E ieri sera era fatto, e forse anche prima del concerto si era drogato, e adesso non mi risponde, è mezz’ora che busso e niente, neanche un suono, e io mi sto preoccupando, e cazzo, ho paura” Jon, investito da quella marea di parole, si irrigidì, cercando di far ordine nei suoi pensieri. Quando ci riuscì, si irrigidì ancora di più. “Ok, ascolta” disse, in un goffo tentativo di prendere in mano la situazione “Adesso chiamo qualcuno e… bo, forse dobbiamo buttare giù la porta, vediamo che fare. Tu sta qua e tranquillizzati, d’accordo?” Il biondo corse lungo il corridoio, alla ricerca di qualsiasi persona che avrebbe potuto dargli un consiglio. Anche Babbo Natale in quel momento sarebbe stato adatto. Mi appoggiai contro il muro e mi lasciai scivolare a terra. Era tutto così assurdo. Non poteva essere vero. Mi ero creata una storia nella mia testa che non poteva stare in piedi. Richie doveva essere nella sua camera d’albergo, a dormire, a leggere, a fare qualsiasi cosa. Non poteva essere in quel camerino, no no. Jon tornò dopo un po’ con il tecnico che mi aveva dato le chiavi. “Scusami, piccola, ma dobbiamo buttare giù la porta” mi spiegò con un inglese perfetto, da londinese doc. Mi alzai e mi allontanai di qualche passo, chiudendo gli occhi. Quando sentii il rumore della pota che finalmente cedeva, scivolai velocemente dentro il camerino, precedendo Jon e quel tizio dall’accento perfetto. Mi fermai al centro della stanza e mi guardai intorno. Nessuno. Mi ero inventata tutto, per fortuna. Non mi sentivo stupida, mi sentivo sollevata. Mossi qualche passo intorno alla stanza, per poi bloccarmi sull’uscio del bagno, pietrificata. Ebbi un giramento di testa talmente forte che fui costretta ad appoggiarmi al muro per non cadere. Era lì, di fronte a me. Era seduto per terra, appoggiato al muro, con la testa all’indietro e gli occhi chiusi, la bocca semiaperta e la pelle lattea. Bianchissima. Cadaverica. L’incavo del gomito aveva dei puntini rossi, ai suoi piedi una bottiglia di vodka mezza vuota.
Jon si avvicinò lentamente a me e rimase immobile anche lui di fronte al suo migliore amico in quelle condizioni. Mi posò una mano sulla spalla, incapace di fare altro. Alzai la testa, distogliendo lo sguardo da Richie, e lo guardai negli occhi. Erano di ghiaccio, inespressivi, lucidi. Era un miscuglio di emozioni diverse. Il tecnico capì la situazione e corse a chiamare un infermiere, che arrivò subito. Ce ne andammo, un po’ per farlo lavorare in pace e un po’ perché non ce la facevamo più a restare in quel camerino.
 
Tico, David e Logan erano già stati avvertiti dell’accaduto ed erano tornati in hotel, come aveva ordinato loro Doc. Erano tutti ad aspettarci nell’atrio dell’albergo, manager compreso, e appena ci videro arrivare si avvicinarono a noi, evitando però di fare domande, viste le nostre facce ancora sconvolte. Tico mi abbracciò forte, mentre Dave andò da Jon. Piansi. Solo in quel momento, i pensieri cominciarono a riordinarsi, facendomi vedere la situazione per quello che era. Richie era… Cos’era? Era morto, era vivo, stava bene, non stava bene… “Vado in camera mia” mormorai, districandomi da quell’abbraccio che, invece di farmi sentire sicura, mi faceva solo star peggio.
 
Fu una brutta nottata. Bruttissima. Quell’immagine di Richie, appoggiato alle piastrelle bianche, non se ne voleva andare dalla mia testa. Camminai su e giù per la stanza finchè non fui talmente stanca da potermi solo buttare sul letto, il letto di una camera d’albergo di Londra. Fanculo, Londra, non tornerò mai più in questa merda di città. Mi girai sulla schiena e rimasi a fissare il soffitto beige, canticchiando una filastrocca che mi avevano insegnato all’asilo. Perché mi venne in mente quella canzoncina, proprio in quel momento, non lo so ancora. So solo che il suo ritmo lento e regolare riappacificò un po’ il mio cervello, permettendomi di rilassarmi. I miei occhi si chiusero, i pensieri diventarono una nuvola informe in un angolino della mia testa e finalmente mi addormentai.
Mi svegliai di soprassalto quando una mano mi toccò la schiena. Avevo la bocca impastata dal sonno, la vista offuscata. Mi misi seduta e mi stropicciai gli occhi, scoprendo poi di aver di fronte un uomo. “Jon?” chiesi, timidamente; non ero così sicura che si trattasse di lui. Mi sentii accarezzare i capelli.
“Sì, Juju, sono io…”
“Come hai fatto a entrare?”
“Non avevi chiuso bene la porta” Jon si accomodò di fronte a me, a gambe incrociate. Mi strofinai nuovamente gli occhi, ritrovandomi con le dita macchiate di nero. Il trucco non doveva essere perfettamente a posto. Rimanemmo in silenzio per un paio di minuti, poi Jon decise di cominciare la conversazione.
“Dobbiamo parlare”. Bell’inizio. ‘Dobbiamo parlare’ è una di quelle frasi che sarebbe meglio non pronunciare mai, perché scatena nell’altra persona una preoccupazione assurda. Mi feci un rapido esame di coscienza. Avevo sbagliato qualcosa? Avevo conti in sospeso con qualcuno? Dopo aver risposto ‘no’ a tutte le domande, posai il mio sguardo sugli occhi blu di Jon. “Sono… preoccupato. Per Richie, ma anche per te. Come ti senti?” Già, come mi sentivo? Nelle ultime ore il mio pensiero principale era stato come si sentiva Richie, ma come mi sentivo io? Mi sentivo… male. Colpevole, in un certo senso. Impotente. Male. Fu quella la risposta che diedi a Jon. Male.
“Sì, so quanto tu ci tenga a Richie” Ma cosa vuoi saperne? “Doc ha detto che poco fa hanno chiamato dall’ospedale. Possiamo andare a trovarlo quando vogliamo” Non ero sicura di aver voglia di andare a trovarlo. Quella maledetta immagine non se ne andava via dalla mia testa, e rivederlo me l’avrebbe fatta ricordare ancora più vividamente. “D’accordo” mormorai, alzandomi e dirigendomi in bagno.
Aprii l’acqua calda e rimasi sotto la doccia per un’infinità di tempo, canticchiando quella filastrocca che mi aveva tanto rassicurata quella notte. Non avevo idea di che ore fossero, ma dalla luce che entrava dalle tapparelle appena mi ero svegliata doveva essere mattina inoltrata. Una bella mattina di sole. Mi infilai l’accappatoio beige dell’hotel e mi guardai allo specchio. Ero pallida, con i capelli bagnati appiccicati alle tempie. Avevo gli occhi gonfi e arrossati, lo smalto delle unghie che cominciava a screpolarsi. Non ero un gran bello spettacolo. Uscii dal bagno, Jon era ancora seduto sul mio letto, esattamente nella posizione nella quale l’avevo lasciato, con gli occhi fissi nel vuoto. Certo, era una rockstar, era perennemente circondato da donne adoranti, ma prima di tutto era un uomo. Un uomo normale, che si spezza facilmente. Un uomo che voleva un bene dell’anima al suo migliore amico, che adesso era in un letto d’ospedale. Da solo. Mi asciugai i capelli, mi vestii velocemente e presi Jon per mano. “Andiamo” sussurrai, e insieme prendemmo un taxi diretto all’ospedale.
 
“Buongiorno” salutai un’infermiera che stava masticando una chewing gum piuttosto sonoramente. Questa alzò gli occhi scocciata, squadrandomi da capo a piedi. “Può dirmi dov’è il signor Sambora?”
“Se ha qualcosa da lasciargli, la lasci qui” rispose sgarbata lei, indicando una pila di oggetti ammucchiati più o meno ordinatamente sopra una poltrona.
“No, devo parlargli, sono una sua amica”
“Senti, rossa, sono venuti quindici ‘amici’ stamattina. Non posso far entrare chiunque”
“Fanculo” mormorai, neanche troppo a bassa voce, e mi avviai con Jon verso la porta a vetri, intenzionata a trovare la camera di Richie.
 
“Secondo te in che reparto potrebbe essere?” chiesi a Jon, leggendo a uno a uno i nomi assurdi che campeggiavano sulla mappa dell’ospedale.
“Juju!” mi sentii chiamare da una voce dietro di me. Mi voltai e vidi Doc alla fine del corridoio, seguito da Logan, Tico e Dave. “Che ci fate qui? Richie è dall’altra parte dell’edificio” Detto questo, ripartì di gran carriera, facendoci cenno di seguirlo.
Quell’ospedale era davvero grande. Raggiungemmo il reparto giusto dopo dieci minuti, ma finalmente trovammo quella benedetta camera. Era una camera singola, con un armadio in un angolo e una porta all’angolo opposto, che probabilmente portava ad un bagno. La parete di fronte al letto era interamente in vetro, e il panorama era diecimila volte meglio di quello della mia camera d’albergo. Chissà come doveva essere bello, la notte. Richie dormiva della grossa, disteso su un letto che non dava certo l’aria di essere comodo. Eravamo ancora fermi fuori dalla porta, quando un’infermiera ci notò e ci venne incontro. “Non è orario di visite, questo. Dormono ancora tutti” bisbigliò. Era un elegante invito a toglierci dalle palle.
“Eravamo preoccupati per il nostro amico” spiegò Tico. L’infermiera sbuffò. “Non può stare così tanta gente qui, adesso. Una persona al massimo” Guardammo tutti Jon, che però si voltò e mi disse: “Resta tu”. Non avrebbe potuto dire cosa più bella.
“Potete tornare tra tre ore” informò l’infermiera, mentre tutti si dirigevano verso l’uscita del reparto. Una ricerca disperata della camera e, sul più bello che l’avevano trovata, dovevano andarsene. Entrai e mi sedetti su una sedia accanto al letto. Per ammazzare il tempo, presi una rivista dal comodino e cominciai a sfogliarla.
Ero arrivata a metà di un articolo dal titolo ‘Is rock n’ roll dead?’, quando un “Buongiorno, stellina” mormorato piano mi fece tornare al mondo reale. Abbassai il giornale e vidi Richie che tentava goffamente di mettersi seduto. Quando finalmente ci riuscì, mi chiese: “Ci sei solo tu?” Gli sorrisi, lo vedevo… bene. Lui mi sorrise a sua volta, e a quel punto mi ricordai della domanda che mi aveva appena posto. “Sì, non è orario di visite e poteva rimanere solo una persona”
“Tanto meglio. Volevo parlarti” Sentirmi dire quella frase un’altra volta mi costrinse ad un nuovo esame di coscienza, ma in quel momento dovetti ammettere di averne fatti, di errori. “Parlarmi?”
“Parlarti” mi confermò Richie. “Ti ho fatta preoccupare parecchio, no?” Abbassai gli occhi, ripensando al panico che mi aveva fatto compagnia per tutta la notte. “Già. Direi di sì” Lo guardai. “Perché l’hai fatto?” chiesi, senza mezzi termini.
“Quella chiacchierata con te, l’altro ieri… Mi ha fatto ricordare cose che avevo considerato cancellate. Ha riaperto vecchie ferite. E anche ferite piuttosto recenti”
“Mi dispiace” fu l’unica cosa che riuscii a dire. Era colpa mia.
“Non fartene una colpa” mi consolò lui, come se mi avesse letto nel pensiero “Tutto quello che è successo tra noi… Certo, è stato anche a causa tua, ma tu eri disposta a ricominciare. Sono io che ho voluto chiudere tutto”
“Non avevi tutti i torti. Sentirsi traditi non è una gran bella cosa”
“Ti ricordi quando ti ho raccontato che avevo scommesso con i ragazzi che ti avrei sposata?”
“Certo”
“Non la voglio perdere, quella scommessa”
 
Nota dell’autrice:
nsogbveuogwneutho anch’io voglio un Richie T.T
 
Comunque non è finita, ho una mezza idea di scrivere un epilogo ma… sorpresa!! Sarà un attimo traumatico, lo ammetto ù.ù
Oooooook, spero che la storia vi sia piaciuta, e dalle recensioni che mi avete lasciato credo proprio di sì.
Tanto amore, Euachkatzl <33  
 

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Capitolo 12
*** Epilogo: When Hope is gone and all you want is the truth ***


When hope is gone and all you want is the truth,
You carry on when they say "It's no use",
If I got one thing, I got something to prove,
We all got nothing if there's nothing to lose,
I'm with you.
 
"Allora, Juju, l'hai sentita l'infermiera. Vuoi farlo uscire questo bambino o no?"
Sono su un maledetto letto d'ospedale, a morire di dolore mentre Fefè mi tiene la mano e un'infermiera alquanto stronza non vuole darmi l'epidurale. 'Mi dispiace signorina, ma lo usiamo solo in casi di emergenza' Perchè, la mia non è un'emergenza? Non posso certo morire ancora prima di vedere mio figlio. O figlia. O rinoceronte, visto che fa talmente tanto male che un bambino non può certo essere. Un altra contrazione, un altro urlo. "Datemi questo cazzo di epidurale!"
"Signorina, gliel'ho detto, solo emergenze"
"Però alla Canalis glielo fareste senza problemi" Come mai mi venga in mente la Canalis, poi, è un mistero. Il mio cervello sta tirando gli ultimi, temo.
"Bè, la Canalis non è una persona comune" mi risponde questa infermiera, bella, fresca e riposata, i capelli piastrati perfettamente e il trucco a posto. Per quanto riguarda me, non voglio neppure immaginare lo stato della mia faccia. Ero andata fuori con Fefè, quella sera. Una sera d'estate, fresca e senza afa, un bel giretto ci stava. Pizzeria e poi cinema. E poi, a metà film, mi si rompono le acque. Così. Non ho neppure potuto vedere il finale. Non saprò mai se quei due si sposano o no. E subito a correre all'ospedale. Forse avrei patito meno partorendo nel cinema, almeno mi distraevo con il film.
"Perchè, io sono una persona comune?" Aiuto, altra contrazione "Io mi sono scopata Jon Bon Jovi, cazzo. E due volte" Praticamente ho urlato questa frase, mi avranno sentito fino in New Jersy. Mi avrà sentita persino Richie. Richie. Chissà che arrivi presto, RIchie.
"Ah sì? E io per vendicarmi non le faccio l'epidurale" Fottiti, infermiera perfettamente piastrata. Mi giro verso Fefè, seduta sul letto di fianco a me. Ha un colorito alquanto verdognolo. "Hai chiamato Richie?"
"Sì sì, l'ho chiamato appena siamo arrivate in ospedale"
Richie è stato il primo a sapere che ero incinta. Quando mi sono trovata il test positivo in mano, ho fatto il suo numero e sono stata al telefono con lui per un po'.
"Pronto?"
"Ciao Richie, sono io"
"Juju". La sua voce era serena, allegra. "E' Juju?" sentii qualcuno chiedere.
"Tico?" domandai.
"Sì, sono qui con i ragazzi. E' il compleanno di Tico" Oddio, mi ero completamente dimenticata del compleanno di Tico.
"Ah sì, l'avrei chiamato più tardi. Fagli tanti auguri da parte mia"
"Ti fa tanti auguri"
"Grazie Juju"
"Comunque, perchè mi hai chiamato?" riprese Richie. Non è che mi andasse tanto di dirglielo, in quel momento. Magari gli rovinavo la festa.
"E' meglio se ti richiamo più tardi, sei con gli altri e non voglio romperti..."
"Perchè, è successo qualcosa di brutto?" Le voci degli altri scomparvero. Silenzio.
"No no, scherzi? E' una cosa bellissima"
"E allora non vedo momento migliore, siamo qua a festeggiare. Festeggiamo anche per te, se vuoi"
"Sono incinta, Richie" Ricadde il silenzio. "Allora, che è successo?" sentii chiedere Tico.
"Incinta" ripetè Richie, zittendo sia me che l'amico.
"Incinta" confermai. "Che è, non sei felice?"
"Sì, certo..." rispose lui. Ma si capiva che intendeva perfettamente il contrario. 
"Non sembra"
"No, sono felice davvero... è che per me tu sarai sempre una bambina... cioè, è strano... tra un po' avrai un figlio... Quando nasce?"
"E' presto per dirlo, se tutto va bene giugno o luglio"
"Luglio. Come me" la voce di Richie tornava a farsi allegra.
"Come suo padre"
"Giusto"
"Senti, adesso devo andare. Ci risentiamo, ok?"
"Ci risentiamo"
E chiusi la chiamata. Perchè avevo chiamato Richie, poi. E' solo che è stata la prima persona che mi era venuta in mente. Era la prima persona che doveva saperlo.
 
"Oooooooook bellezza, vedo la testa". Un dottore che osserva interessato in mezzo alle mie gambe mi riporta bruscamente alla realtà. Anche lui bello, profumato e pimpante. Ma c'è qualcuno in questo cazzo di ospedale che mi capisca minimamente? Mi volto verso Fefè e, a giudicare dalla sua espressione, sì, qualcuno mi capisce.
"Se vuoi puoi uscire" le propongo, visto il pessimo stato in cui si trova. "No, resto" mormora coraggiosamente lei. Dio, quanto la amo.
"Allora Giulia, devi lavorare con il dolore. Hai presente, tutta quella roba della respirazione? E' il momento di metterla in pratica"
'Hai presente, tutta quella roba dell'epidurale? Sarebbe ora di metterla in pratica da un pezzo'
Altra contrazione. Urlo. "Spingi Giulia, spingi. Lo facciamo uscire, questo bambino?" Ma che cazzo di domanda è? L'unica cosa che voglio è farlo uscire, sto benedetto bambino. E pure in fretta.
Andiamo avanti così per non so quanto. Non so se passano ore o minuti, fisicamente mi pare stiano passando anni. E poi basta. E poi, dopo l'ennesimo dolore assurdo, il medico mi dice: "Bravissima Giulia. E' tutto finito" E' tutto finito. Cazzo, sì, è tutto finito. Sento il mio bambino che piange e l'infermiera che me lo appoggia sul petto. E' bellissimo. E' il mio bambino. Il mio. E' un pezzettino di me. Vabbè, non solo di me, ma accidenti, sono io che ho patito per ore, è mio.
"E' una femminuccia" mi comunica il dottore, accarezzandomi la fronte. "Il nome?"
Già, il nome? Nove mesi e passa per pensarci e non ho pronto un nome. Ero convinta fosse un maschio. Ripasso mentalmente tutti i nomi da bambina che conosco, ma nessuno mi sembra adatto a quel piccolo miracolo che ho in braccio. Oddio, vado in panico. "Tranquilla, se non hai un nome ci scriviamo il tuo, sul braccialetto, intanto ci pensi"
"D'accordo. Grazie" mormoro. Dio, sono stanchissima. 
"Adesso ti riportiamo in camera tua, la bambina resta nella nursery. E' davvero bella". Sì, infermiera stronza, ed è mia.
 
Esco dalla sala parto e trovo Dam. "Allora?" mi chiede, tutto teso. 
"E' una femmina. Il nome non l'ho ancora deciso"
Si china su di me e mi stampa un bacio sulla fronte. "Sei stata bravissima. Mi dispiace di non essere stato dentro"
"Tranquillo che non ti sei perso niente" commenta Fefè. Ho paura di averla scioccata a vita. "Dai Juju, torniamo in camera" dice, spingendo il lettino.
Tornate in camera, tento una conversazione con lei, ma sono maledettamente stanca. Le palpebre si fanno sempre più pesanti, finchè tutto si fa nero. Buonanotte.
 
Mi sveglio che il sole è già alto. Guardo il grande orologio appeso alla parete di fronte a me. Mezzogiorno e un quarto. Ho assolutamente bisogno di una doccia. Tiro su la schiena e tento di mettermi seduta, ma mi accorgo che è stata una pessima idea: un senso di nausea mi prende e mi costringe a distendermi nuovamente per non vomitare quel poco che mi è rimasto dentro.
"Alleluia, ti sei svegliata" vedo entrare un Richie piuttosto allegro, che tiene a braccetto Fefè, che sta ridendo come una pazza. Entrano in camera, seguiti a ruota da Jon, David, Tico e Dam. Aiuto, quanta gente è arrivata?
"Allora, come stai?" chiede Richie, avvicinandosi a me e scoccandomi un grosso bacio sulla guancia. Appena apro bocca per rispondere entra un'infermiera. Ma che è, una camera d'ospedale o un bar, questo? La ragazza si blocca di colpo e ci squadra tutti. O meglio, il suo sguardo passa da me a Jon. Me, Jon. Me, Jon. "Ma allora è vero che ti sei scopata Jon Bon Jovi". Momento di silenzio. Io, la Fefè e Dam stiamo in silezio per quello che ha appena detto l'infermiera, gli altri perchè non hanno capito un'acca.
"Buongiorno" saluta Jon, sorridendo alla ragazza. 'Buongiorno' è l'unica parola che conosce in italiano, insieme a 'Vaffanculo'. Fortuna che ha scelto 'Buongiorno'.
"Buongiorno" risponde lei, quasi sul punto di svenire. Si gira e se ne va, svoltando a sinistra. Dopo qualche sencondo torna nella stanza. "Dimenticavo, se volete potete andare a prendere la bambina. Avete scelto un nome?"
Mi giro verso gli altri. "Un nome?"
"Richard" propone Richie.
"E' una femmina" gli faccio notare.
"Richard" ripete lui. Sospiro e guardo la Fefè, che capisce al volo cosa intendo dirle. "Ok, adesso andiamo a prendere la bambina e decidiamo un nome" ordina lei. Esce dalla stanza, seguita da tutti. Tutti a parte Richie. Anche lui ha capito perfettamente quell'occhiata che ho rivolto a Fefè.
"L'ho vista prima." dice lui "E' bellissima"
"Bella quanto vuoi, ma mi odierà se la chiamo Richard." Ridiamo.
"Ti somiglia. Per fortuna. Non avrei sopportato che somigliasse al padre"
"Perchè, ti sta antipatico?" insinuo. Altra risata.
"No, semplicemente non è bello quanto te. Anche al matrimonio. Tu eri bellissima, lui... meno"
"Che è, adesso mi dici che non so scegliermi gli uomini?" lo prendo in giro, anche se ho capito dove vuole andare a parare con quel discorso.
"Sei matta? Non dimenticarti che tempo fa hai scelto me. Hai un gusto fantastico" si pavoneggia lui. "E comunque il matrimonio è stato bellissimo"
"Bè, in pochi possono dire di aver avuto i Bon Jovi al completo al proprio matrimonio" Mi sorride mentre si avvicina a me, e quel sorriso si fa sempre più nervoso. Mi bacia. Le nostre dita s'intrecciano. Quanto belle sono le mani di Richie.
"Ti avrei baciata così"
"Fammelo risentire" gli chiedo, rapita da quel bacio bellissimo. Lui si china nuovamente su di me, per ridarmi quei brividi.
"Non è per fartelo pesare, ma ogni tanto ci penso, se ci fossi stato io su quell'altare"
"A volte ci penso anch'io" Mi guarda, gli occhi sorpresi. "Certo, sono felice con Dam. Ma sarei stata felice anche con te. Quello passato insieme a te è stato l'anno più bello della mia vita"
"Non credo sarà l'ultimo" dice lui, facendo cenno con il capo a Dam, che sta entrando con in braccio la bambina. 
"Vuoi essere lo zio Richie?" gli chiedo, prima che tutti i reduci dalla nursery rompano quel momento maledettamente dolce.
"Perchè no? Zio Richie, suona bene" 
 
Nota dell'autrice:
e fu così che una povera autrice finì la propria storia, tra gli insulti di tutti quelli che si aspettavano Richie e Juju belli e sposati. Mi dispiace ma gli anni di differenza erano troppi, non uccidetemi. E comunque, è la mia storia ;) No, scherzo.
 
Volevo ringraziare ancora una volta tutti quelli che hanno recensito, ossia:
Angie Mars
Nimuecal
What about now
Alexichains
Blakiee
 
Bacioni a tutti, Euachkatzl <33
 
P.S: ho una nuova storia in programma, ma stavolta i protagonisti saranno i Guns. Vabbè, ve lo dicevo solo così, se vi interessava. Mi dileguo. Bacio. 

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