Lost Angeles

di luxuryloser
(/viewuser.php?uid=94104)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: the Queen's vis-- no, okay. Prologo. ***
Capitolo 2: *** But things were kind of heavy ***
Capitolo 3: *** Mad world ***



Capitolo 1
*** Prologo: the Queen's vis-- no, okay. Prologo. ***


Lost Angeles

 

Prologo




"Dammi desiderio." Flash.

"Dammi passione." Flash.

Kurt aveva imparato a seguire i consigli -chiamarli ordini o minacce sarebbe stato più appropriato- di Clive alla lettera.

Aveva imparato a far scorrere le mani sulla pelle scura di Santana come se davvero la volesse, come se non si trovasse sul set del quarto servizio fotografico della giornata, come se i loro corpi seminudi fossero altro che uno strumento per vendere -cos'era, quella volta?- completi eleganti sparpagliati sul pavimento e miniabiti di pizzo che avrebbero facilmente potuto essere scambiati per la fodera di una pochette.

Funzionava così, nell'ambiente: o facevi quello che diceva lui, o eri fuori.

Anche quando significava perdere te stesso.

"Dammi pericolo." Flash.

"Dammi controllo." Flash.

Premere contro di lei con più possibile pele esposta era ormai come stare sdraiati sul divano di casa a bere vino bianco ipocalorico -ma chi aveva inventato quella roba?- e lamentarsi delle rispettive vite sentimentali. Avevano una chimica incredibile e tutti, dalle ragazzine ricche e viziate che sbavavano sul suo sedere alle sfilate, ai paparazzi che davvero avevano bisogno di farsi una vita fino all'adorabile signora che era la nonna di Santana, pensavano che stessero insieme.

Ding, risposta sbagliata.

"Dammi scintille." Flash.

Avevano iniziato quella carriera come tutti: per i soldi; si erano incontrati ad un improbabile, truccatissimo provino, arrivando ad ubriacarsi ad un karaoke bar dopo essere stati scartati per la solita bionda ossigenata e il classico palestrato in overdose da steroidi.

Erano bastati un'occhiata, un buon gay-radar da gay e un paio di disgustose Caipiroska, e lui e l'ispanica avevano trovato ciò di cui avevano bisogno: una persona su cui contare, e qualcuno con cui condividere un posto dove vivere che non fosse la camera di un Motel dalle pareti imbarazzantemente sottili.

"Dammi complicità." Flash.

Santana era una stronza. Un concentrato di sentenze dalle lamette nei capelli ai trampoli Manolo -un suo regalo, ovviamente-.

Kurt usava il sarcasmo come la sua lingua madre, rendendosi ancora più inavvicinabile.

Avevano fondato da subito la loro piccola associazione a delinquere, fino ad arrivare a svegliarsi la mattina solo con battutine deliziosamente acide su labbra da fata e trucco da panda. Incredibilmente e senza alcun senso logico, erano arrivati a non poter fare a meno l'uno dell'altra.

Nessuno dei due l'avrebbe mai ammesso, ma il loro rapporto era l'ancora di salvezza che impediva ad entrambi di naufragare, l'aria che riempiva il vuoto lasciato da qualcosa che non c'era mai stato.

"Dammi un fottuto orgasmo, Hummel, o do il posto a qualcun altro!"

Flash.

"Come se potessi trovare qualcuno che porti questi stracci meglio di me."

Spinse Santana contro il muro di cartapesta della scenografia, le mani sulle sue cosce a sollevarla da terra.

Quella sera davano Bridget Jones sulla ABC.

La ragazza gettò la testa all'indietro, mentre Kurt si lasciava cadere sul suo collo, le labbra aperte e gli occhi chiusi. Flash.

Avrebbero potuto ordinare giapponese, per cena. Aveva voglia di wasabi.

Più che una pubblicità era un porno. Flash.

Uno etero, poi. Entrambi rabbrividirono, scambiandosi un'occhiata di eloquente disapprovazione.

"Dammi sesso, dammi lussuria, dammi piacere."

Flash.

Flash.

Flash.



Ciao, sono Chiara e non faccio uso di alcolici da--
No, non ci tenete a saperlo.
Appena ritrovata la password di EFP (mi sento tanto Darren), questa è stata la prima boiata che ho scritto che ho voluto pubblicare. Non è molto, e con le cose che ho letto in questo fandom sto tipo sprofondando nell'autocommiserazione, ma ci tengo parecchio. Senza considerare quanto io sia morta nello scrivere questa scena because, ya kno', Colfer e la Rivera.
Rimane qui su un piatto d'argento, fino al prossimo capitolo: magari vi presenterò il mio Blaine.
Makeout sessions in a steamy car,
Kayley.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** But things were kind of heavy ***


-But things were kind of heavy-



 
È strano come si ricordino sempre le prime cose belle, e le ultime cose brutte.

Il primo bacio, la prima volta, l’ultimo litigio e il modo in cui finisce tutto, l’ultimo giorno di liceo, la prima pietra di una casa.

Blaine Anderson aveva un’ottima memoria per le cose sbagliate, la memoria masochisticamente selettiva dell’ultimo bacio ma non del nome, della prima porta in faccia in una casa discografica e della sua eco in ogni singolo “No, non è quello he stavamo cercando”. Lui non era triste, no. Era scoraggiato, però, quel tipo di coraggio che l’aveva sempre spronato momentaneamente non raggiungibile.

I feel like an artist
Who’s lost his touch
That likes himself in his art
But not his art too much

Sapeva di dover togliere qualche vecchio spartito dal pavimento, farsi la barba, capire un attimo in che direzione era girato e scrivere una nuova canzone, possibilmente non sulle pareti; ma stava naufragando e doveva essere in un locale che non ricordava in sì e no quindici minuti, e tutto il resto era solo un contorno di motivi per definirsi troppo umano.

Le scarpe, la porta, le scale; no. Le chiavi, la chitarra e di nuovo la porta, le scale e la moto, e il cellulare che suona hit di P!nk di qualche anno prima e è tardi e okay, l’ha capito ma non vuole capirlo.

But believe me I’ve got something
I just don’t know how to say
That I’m just fine with the way
With the way that I’m moving

“Sei in ritardo, Anderson.”

“Di una vita.”

Neanche si guardò allo specchio prima di salire sul piccolo palco; magari quella volta non si sarebbe rotta la cinghia della chitarra lasciandolo a suonare l’assolo per terra e a ubriacarsi di birra scadente a concerto finito e tornare a casa per trovare il suo coinquilino a letto con il primo aspirante attore con un bel culo e troppi sogni.

Molto probabilmente invece sì.



Kurt andava spesso a correre sulla spiaggia, per buttare giù gli inesistenti accumuli di grasso sui fianchi, la musica sparata nelle orecchie e, per quelle poche ore, niente mondo intorno.

Odiava correre.

Odiava perdere liquidi, rimanere senza fiato, sentire i capelli completamente fottuti dall'attrito e, soprattutto, vedere striscioni di se stesso guardarlo dalla coda di un aereo troppo basso.

Forse, in quei giorni, semplicemente odiava tutto.

"Dammi un momento.", chiedeva alla vita, ma non riusciva a scattare.

Era affamato da ventiquattr'ore, dal grande nonfat mocha della mattina precedente. Ormai ci aveva fatto l'abitudine ("Hummel, se superi il 2% di massa grassa sei fuori dal giro, te l'hanno detto?"), ma si sentiva sempre come sestesse per svenire, come se si stesse consumando dall'interno.

Quando aveva iniziato a sfilare, a fare foto e ad essere solo un bel corpo su una passerella aveva detto addio alla sua affollatissima vita privata, al giusto numero di ore di sonno e ai carboidrati. Kurt Hummel, gay richiuso nell'armadio dai manager assetati di denaro, robot della moda dal viso d'angelo e dal corpo da dio pagano.

Una ragazza un po' in carne sfogliava religiosamente una rivista con -oh, gioia- un primo piano dei suoi addominali in copertina.
Kurt accelerò la corsa, una cover al maschile di Teenage Dream a bombardargli le orecchie dalle casse di qualche beach club.
Correva con gli occhi chiusi dietro le lenti scure.

"Dammi privacy." Flash. No, è venuta sfocata.

Sembrava possibile staccare la spina, in quel momento. Ignorare gli sguardi, le parole, gli scatti, l'umanità, possibile evitare che ragazzine senza una vita sociale o donne dell'alta società invadessero il suo spazio personale -perché tutti dovevano toccarlo?

Per un attimo.

Fino al momento in cui un altro corpo, bagnato e stranamente solido, non gli si incollò addosso come una calamita, scatenando per qualche legge della fisica un flusso di insulti mentali pressoché ininterrotto.

"Scusami, non ti avevo proprio visto!"

Riaprì gli occhi, bloccando il "Sai che va ancora di moda guardare dove si va, idiota?" sulla punta della lingua.

Quel ragazzo aveva una voce morbida, calda: veniva voglia di abbracciarla.

Gli ci volle un attimo per riprendere a respirare e accorgersi di essere ancora appiccicato allo sconosciuto, un sottile strato di tessuto tecnico a separarli. Un passo indietro, una speranza infondata che non lo riconoscesse, un sorriso forse neanche tanto di circostanza.

Aveva all'incirca vent'anni, capelli adorabilmente, indomabilmente ricci e gocce d'acqua salata che gli scendevano sulla pelle, tracciando percorsi lungo i muscoli delineati. Sfoggiava un costume di Calvin Klein e un sorriso vero, spontaneo.

La cosa incredibile era che non sembrava averlo riconosciuto. Stava lì, a guardarlo con quei magnifici occhi (ma di che colore erano?) e l'espressione da adorabile, sovreccitato cucciolo, senza dare alcun cenno di sapere di aver appena incontrato, in quella maniera goffa, dolce, fuori programma e totalmente irresistibile, proprio quel Kurt Hummel.

"Mi chiamo Blaine. Scusami, di solito non finisco addosso alle persone."

Tese la mano, aspettando che lui la stringesse, sempre con quel sorriso che illuminava lo sguardo. Lui si tolse gli occhiali, ricambiando il sorriso.

"Kurt."  



Aveva i capelli castani, la pelle più bianca che Blaine avesse mai visto e qualcosa di speciale.

Kurt.

Non fece caso all'assenza delle minime informazioni, non fece caso se il mondo stesse ancora girando oppure no: sapere il suo nome gli bastava, come se gli desse una qualche certezza che fosse vero.

Era bello ai limiti del sopportabile, con quella pelle perfetta e i capelli  sfuggiti alla lacca biologica (perché pensava proprio alla lacca biologica, quando lui stesso non aveva idea della differenza tra gel e cemento?), con quelle labbra piene e gli occhi che, avrebbe potuto giurarlo, corrompevano.

Aveva un'aria persa, da angelo caduto.

"Ti va un caffè, così mi faccio perdonare per averti inzuppato?"

Lo vide controllare lo schermo di un immancabile iPhone, per poi annuire con un sorriso accennato. Era troppo semplice, un incontro da film, da chitarra suonata intorno a un falò sulla spiaggia e corsa in slow motion.

"Vieni, conosco un posto perfetto."

C'era qualcosa di diverso in Kurt, di unico, e non riusciva a decifrarlo.

C'era qualcosa di diverso in lui mentre gli prendeva la mano, senza pensarci, e continuava quella corsa interrotta verso un piccolo bar sulla spiaggia.

"Hey, Warbler!"

"Hey, come va?"

"Ma se ci siamo visti mezz'ora fa, cosa vuoi ci sia di diverso?"

Molte cose, forse troppe da contare, sicuramente da capire, pensò in risposta, e nemmeno lui sapeva quali.

"Non la mia ordinazione, direi. Un medium drip e una delle tue meravigliose ciambelle, e..."

Guardò Kurt interrogativo.

"Un grande nonfat mocha, per favore."

"Magari riesco a convincerlo a dividere la ciambella."

Veniva naturale parlare a cuor leggero, fare come se facesse colazione con Kurt ogni giorno, giocare ad una vita facile e non sua.
"Ti sei fatto tanto male, cadendo dal paradiso?"

Si diede mentalmente dell'idiota per essere riuscito ad usare la frase più deprimentemente banale mai scritta, perfetto modo per scongiurare ogni sviluppo successivo. Complimenti, Anderson, sei appena uscito da una commedia romantica scritta da uno sceneggiatore ubriaco.

"Non direi, no. Ma ho ancora un certo mal di testa da dopo la risalita dall'inferno."

E sarà stato masochismo, o una strana attività karmica esclusiva di quel giorno, perché se Blaine fosse stato in sé non avrebbe mai fatto l'enorme, incredibile, splendida follia di prendergli la mano mentre ridevano timidamente. Perché da quando l'aveva fatto, o forse anche da prima, tutto quello a cui poteva pensare era Kurt, tutto quello che poteva desiderare era rimanere a quel tavolo, ad aspettare che il caffè diventasse freddo e guardarlo sorridere.

Era sopravvalutato scrivere di angeli che arrivano nella vita incasinata del fantasma di se stesso, allora perché giocava con gli accordi di una canzone irriverente, aggrovigliata, spezzata e allo stesso tempo dolce? Nemmeno l’album più venduto della storia avrebbe potuto descrivere quello che si agitava nella sua mente.

Colpo di fulmine, dicevano. No, magari fosse stato così semplice.

Kurt era certezze, decisioni, compromessi e sfide, era gli ultimi cinque anni della sua vita. Tutti completamente sconvolti da quel fulmine a ciel sereno.

"Allora, di cosa ti occupi?"  



Davvero non lo sapeva. Esisteva qualcuno che aveva vissuto una vita intera senza conoscere Kurt Hummel ed era sopravvissuto; lo faceva sentire insignificante e, in qualche modo, sollevato.

Dal modo in cui lo guardava (doveva davvero mettersi un paio di occhiali da sole, perché quelle iridi dal colore a metà tra l'oro e il verde e il nocciola e il caramello erano illegali; magari anche una maglietta, o rispondere delle proprie azioni sarebbe stato imbarazzante) sembrava solo curioso, e adorabile, e sexy, e adorabile e, soprattutto ed inconsapevolmente, sexy da morire.

"Io... studio. Moda. Alla Parson's. Di New York."

Tralasciò il fatto che la cosa fosse durata due mesi scarsi, non era rilevante ai fini della trama.

Blaine di sera girava per locali con una chitarra in spalla, e tutto il resto del tempo girava per case discografiche sempre con la suddetta chitarra e lo stesso sogno.

"E l'università?"

"Poco rilevante. La mia famiglia voleva facessi legge, quindi ora passo le mattinate a riempire di testi e accordi il codice civile sui banchi della UCLA."

"Capisco."

Nemmeno il silenzio imbarazzante era imbarazzante.

"E ce ci fai su una spiaggia di Los Angeles alle sei del mattino, newyorkese?"

"Aspettavo di scontrarmi con il ragazzo più bello della California occidentale, che domande."

Se avesse pronunciato una frase del genere uh paio d'anni prima, avrebbe probabilmente finito per sotterrarsi dalla vergogna o per essere lanciato in un cassonetto. Ma le cose erano cambiate: ad arrossire fu Blaine.

Dammi lui, non voglio altro. Flash.

Stupendo, meraviglioso Blaine dalle guance rosse e i capelli arruffati.




Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Mad world ***


-Mad world-



“Potevi dirmi che avresti portato il tuo bel culo in spiaggia, sarei venuto volentieri  a godermi lo spettacolo.”

“E’ l’unica cosa che potresti goderti, Smythe, quindi non valeva la pena di svegliarti in pieno post sbronza.”

Non era inusuale vedere il suo migliore amico entrare in facoltà con gli occhiali scuri e un thermos di caffè quasi vuoto, almeno quanto non lo era sentirlo rincasare piuttosto rumorosamente alle quattro del mattino e trovare poi capi di biancheria intima nei luoghi meno probabili (“Sebastian, ti prego, non in cucina. Ho fatto colazione insieme a un paio di boxer con le bretelle l’altro giorno, è veramente triste.”), quindi Blaine non si stupì più di tanto, limitandosi a spostare la borsa dalla sedia accanto alla sua.
E se ci fosse stato Sebastian? Ci avrebbe provato con Kurt senza pensarci due volte, e lui se lo sarebbe trovato seminudo in corridoio la mattina dopo, certamente non nelle circostanze che avrebbe potuto desiderare.

E se avesse avuto le palle di chiedergli il numero, l’indirizzo, il gruppo sanguigno o la sua marca di gomme da masticare preferita, qualsiasi cosa che avrebbe potuto servirgli a rintracciarlo?

E se invece non si fossero nemmeno incontrati, e la sua mente non avesse iniziato a girare quel film in bianco e nero pronto per la candidatura all’Academy, quelle scene di pochi minuti che si ripetevano nella sua testa sottolineando ogni dettaglio? Magari avrebbe potuto, per una volta, seguire la lezione senza costruire castelli sulle nuvole, privi di fondamenta, fragili, ma così meravigliosamente belli da togliere il fiato.

Gli “e se” erano i fantasmi senza volto che tornavano a tormentare quelle persone che, inevitabilmente trattenute nel loro piccolo mondo idilliaco, non riuscivano a trovare il proprio posto in quello reale.

Il testo di diritto civile, sbattuto sul banco senza troppe cerimonie dopo aver salutato (con quell’euforia inquietante che il suo cinico coinquilino non mancava mai di fargli notare) l’insegnante del primo periodo e la ragazza probabilmente carina di cui non riusciva mai a ricordare il nome, era pieno di frasi scarabocchiate e incoerenti parole che lui stesso era sicuro di aver scritto in una fase di trance.

Say, wasn’t that a funny day?
Gee, you had a funny way, a way about you
Kind of glow of something new

 
 
La sua suoneria era Not the boy next door perché, non provava la minima vergogna a dirlo, Hugh Jackman in pantaloni dorati era sempre una bella immagine da figurarsi in mente quando Clive o una delle sue Barbie lo chiamava in preda a un attacco isterico perché il servizio era stato anticipato di quattro ore o perché doveva perdere altri tre kili per entrare nei pantaloni di pelle della successiva sfilata Marc Jacobs; al momento, però, tornando a casa sempre di corsa e un po’ su di giri senza volerne ammettere un motivo, sentiva di iniziare ad odiarla.

Dammi pace. Voglio pensare a Blaine.
Occhi chiusi. Due note più alte. Vibrazione.
Flash.
Ma perché non vengono mai bene? Cristo, Hummel, guarda in macchina!

“Dove sei?”

“Sto andando a casa.”

Non si fermò nemmeno per parlare dentro il microfono bianco dell’auricolare, perdita di tempo prima di un appuntamento che gli avrebbero obbligatoriamente combinato di lì a poco. Cosa sarebbe stato quella volta? Un photoshoot fuori programma per qualche collezione autunno-inverno di un altro stilista che esigeva la sua immagine stereotipata, oppure soltanto un rimprovero perché aveva scordato di dimenticarsi di mangiare?

“Portami belle tette allo studio tra cinque minuti, dev’essere sbronza o morta o non ha scuse per il ritardo, e neanche tu.”

Sospirò con il poco fiato che aveva, certamente con un’espressione sconsolata dipinta in faccia. Santana, avrebbe dovuto immaginarlo, come avrebbe dovuto immaginare il tono con cui Clive l’avrebbe ancora una volta definita come un oggetto.

Era probabile che l’avrebbe trovata ubriaca, con poco o niente addosso e la testa nel water, e che avrebbe dovuto ancora una volta sciacquarle i capelli prima di portarla di peso in sala trucco. Viveva per lei, e lei per lui: glielo doveva, in un certo senso, anche se significava dover scacciare dalla sua mente l’immagine di un paio di profondi, luminosi occhi nocciola.

No, non era quello il colore giusto.

Datemi un uragano.
Flash.
Questa finisce in copertina, la prossima sono i nostri sentimenti. Non che ci sia poi tanta differenza.
 
 

Sure, I’ll admit that I’m the same
Another sucker for a game kids like to play
And the rules they like to use
Don’t you want the way I feel?
Don’t you want the way I feel?
Don’t you want the way I feel for you?

 

«Ispirato? Sapevo di essere particolarmente figo stamattina.»

«Bas, mi stai davvero passando bigliettini a lezione?»

«Così pare, dolcezza. Vieni qui spesso?»

Scosse la testa, un sorriso malcelato ad illuminargli il volto.

«Sicuramente più di te, hai saltato metà delle ore per scopare in sala stampa.»

«Con la retta che paghiamo, dovrebbero mettere una stanza apposita. Ma finché non rispondono al mio suggerimento devo accontentarmi ;)»

Il foglietto di carta appallottolato si aggiunse agli altri che affollavano il fondo della sua borsa, insieme a scontrini e vecchi spartiti e una lettera di raccomandazione per un college di musica e recitazione a cui non sarebbe mai andato.

«Raccontami la tua mattinata, Blainers, hai la faccia di uno che ha vinto la causa, se capisci cosa intendo *evilgrin*»

«Hai veramente la mentalità di un diciassettenne arrapato. Ho conosciuto qualcuno.»

Forse avrebbe dovuto aspettarsi la reazione di Sebastian Smythe, l’uomo che gli aveva fatto consegnare una torta con su scritto Congrats on the sex dopo la sua ultima avventura di una notte, al suo annuncio di aver intrattenuto una relazione sociale con qualcuno che non fosse un Warbler o la sua chitarra, ma certamente non si sarebbe aspettato che facesse partire un Harlem Shake in mezzo all’aula del professor Miller, con l’urlo euforico di “Anderson ha scopato!” e il successivo striptease.

Mentre venivano gentilmente scortati oltre la porta d’ingresso, Blaine si ritrovò ad ammettere che, se fosse successo realmente, lui stesso avrebbe avuto una reazione anche più esagerata.


 
“Santana, perché Clive ha chiamato me in piena furia omicida quando tu avevi il servizio per GQ mezz’ora fa?”

Kurt aveva smesso di salutare entrando in casa quando Santana aveva iniziato a rispondere lanciandogli qualcosa addosso e scombinandogli i capelli; Santana aveva smesso di lanciare cose quando aveva scoperto che Kurt con i capelli fuori posto comportava conseguenze per nulla piacevoli su tutto ciò che lei aveva incautamente dimenticato di mettere sotto chiave.

“San?”

Non rispose, ancora. Tipico.

Si chiese se dormisse o stesse improvvisando un porno sotto la doccia (ugh), e non si curò di darsi una risposta prima di aprire la porta della sua stanza solo per trovarla vuota.

Dammi una bella situazione di merda e un capo fotografo sull’orlo dell’omicidio di massa.
Flash.
Questa, Hummel, è venuta da dio.

Cellulare in mano, intento a spogliarsi più velocemente di se stesso nell’ultimo servizio fotografico, si ritrovò stupidamente a pensare che avrebbe dovuto scrivere il suo numero di telefono sul collare da caffè di quel bar sulla spiaggia. A Blaine avrebbe risposto al primo squillo senza avere un attacco di panico che avrebbe inevitabilmente portato alla precoce formazione di rughe di espressione.

Dammi una vita meno complicata, o almeno una macchina del tempo per tornare indietro di un’ora e voltarmi a guardarlo.
Flash.
Certe macchine fotografiche fanno bruciare gli occhi.

Santana sembrava una tossica in crisi d’astinenza. Kurt la trovò sul tetto, con i vestiti della sera prima e i capelli sfatti, salita dalla scala antincendio dopo aver perso di nuovo le chiavi (non avrebbe più perso tempo a rifare la serratura, non fosse stato per proteggere i suoi capi in edizione limitata) e probabilmente la dignità.

“Sei fatta o stai solo mostrando la tua vera natura?”

“Sono ubriaca, Porcellana, e tu sei in tuta da ginnastica. Pronto per finire su Spotted.”

Non era lui che doveva preoccuparsi della sua reputazione: era la sua amica ad essere ingestibile e imprevedibile e in ritardo.

Dammi panico, dammi preoccupazione.
Flash.


“Se non sei da Clive a Soho tempo cinque minuti siamo fisicamente e professionalmente morti tutti e due. Quindi ora io e te saliamo su un taxi e tu mi spieghi per quale motivo ti ho trovata sul tetto di casa conciata peggio di Lindsay Lohan.”

“Fanculo, Hummel.” Le uniche parole che gli rivolse prima di rovesciare sulle sue Hogan bianche il contenuto del suo piattissimo ma a quanto pare molto capiente stomaco.

Ti prego non scattare.
Flash.

Il taxi era troppo lento, loro puzzavano come una distilleria di whiskey avariato, il telefono non faceva altro che suonare e Santana aveva probabilmente perso ogni capacità di movimento autonomo. Alzò gli occhi al cielo, ripensando a tutte le altre volte che era successo, e a tutte quelle che erano state ancora peggiori.

Lui e San avrebbero potuto avere tutto, solo per una scopata. Non l’avevano mai accettato, a costo di essere gli schiavi personali di Clive Stratford, a costo di rischiare la carriera per ogni passo falso, di ridursi a bere (e magari la ragazza avesse soltanto bevuto) al lunedì sera per odiarsi un po’ di meno.

“Dimmi che è successo.”

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1541853