Il tempo della nostra vita

di Cheche
(/viewuser.php?uid=34354)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Origine. Ritratti di famiglie ***
Capitolo 2: *** Prima infanzia. Parte prima o dell'Incontro. ***



Capitolo 1
*** Origine. Ritratti di famiglie ***



View Full Size ImageQuesta fanfiction è nata come sperimentazione. La struttura è quella di piccole storie autoconclusive legate tra loro, dalla lunghezza variabile, divise in capitoli a seconda dell'argomento e della collocazione sulla linea temporale. Se verranno citate date, partite dal presupposto che la saga R/G/B abbia avuto inizio nell'anno 1996, anno in cui in Giappone sono entrati in commercio i primi giochi dedicati ai Mostri Tascabili. Toccherà diversi argomenti e sarà aggiornata quando gira all'autrice. Tuttavia, le storie dovrebbero rimanere leggibili anche partendo da un capitolo prossimo, senza bisogno di leggere obbligatoriamente tutto dall'inizio. Spero di riuscire nell'intento. Mi piacerebbe avere il vostro sostegno, anche se mi sento un po' sfacciata a chiederlo. *ride* Tuttavia, apprezzerei davvero moltissimo qualche opinione su queste storielle. Grazie dell'attenzione!
 

A Pao. Pao che puzza, Pao che rompe le scatole, Pao che si fa volere bene. E' il minimo che io possa fare per lei.

 





1. Origini. Ritratti di famiglie



I.
“Credevamo che Biancavilla fosse un posto sicuro…”
I genitori di Blue avevano deciso di stabilirsi in quel luogo a sud est di Kanto proprio per la sua nomea di paesino tranquillo, quasi noioso.
Quando la signora aveva scoperto di essere incinta, i due giovani coniugi avevano deciso che quello era il momento migliore per il trasferimento, affinché la loro figlioletta potesse crescere nella semplicità di un paesaggio bucolico.
Era una donna umile, la madre di Blue. Ciò non le impediva tuttavia di sognare la campagna, viaggiando con la mente come fanno le fanciulle. Fuggire i rumori molesti di un centro urbano come Smeraldopoli, garantire alla propria figlia una vita serena. La sua piccola avrebbe studiato, giocato con i coetanei, guardato il sole tramontare dietro alle vette lontane. Crescendo, avrebbe sposato un amico di infanzia, e nulla al mondo avrebbe oscurato il sorriso sul suo volto.
Il padre di Blue era un uomo con i piedi ben piantati sulla terra. Che camminasse sull’asfalto o su un prato, il suo sguardo era sempre ben puntato in avanti e aveva il volto serio di chi desidera lavorare al costo di frantumarsi le ossa, pur di assicurare stabilità economica ai propri cari. Il sogno della moglie era fiabesco, quasi utopistico. Eppure era una possibilità realizzabile, tanto da esaltare un lato che il marito celava accuratamente dietro la sua maschera da ‘uomo tutto d’un pezzo’. Si era concesso di fantasticare per una volta su colli verdi e ridenti distese erbose, di ambire ad una vita frugale e senza troppi lussi.
La semplicità di un’esistenza contadina rappresentava per loro la ricetta della felicità. Fu così che optarono per un luogo vicino a Smeraldopoli – affinché il marito non perdesse il lavoro - in cui trascorrere il resto della loro vita e crescere la figlia tanto desiderata.
La scelta ricadde inevitabilmente su Biancavilla. I due coniugi non erano dissimili da tante altre giovani coppie in attesa di figli. Molti sceglievano di vivere in quel tranquillo paese; e, grazie alle ambizioni semplici dei novelli sposi, quel piccolo centro abitato si riempiva tutti i giorni delle festose risate di tanti bambini.
Nessuno poteva immaginare che da due genitori tanto umili e frugali sarebbe nata una bambina abbastanza particolare da suscitare l’interesse di oscure forze che si muovevano nella vicina regione di Johto.
Blue era così. Ambiva ad una vita semplice proprio come i suoi genitori le auspicavano. Ma il destino è terribile: può prenderti e sbatterti contro ostacoli insormontabili, rendere ostile l’ambiente in cui ti ritrovi a crescere, portarti a dimenticare i tuoi sogni più innocenti, stravolgerti al punto di farti diventare più forte o più vulnerabile. E Blue si faceva notare, pur senza volerlo. Sorrideva sempre, era capace di tutto e benvoluta da tanti. Questi pregi furono la sua rovina.
Quando scomparve, la notizia si diffuse veloce come uno schiocco di dita. In poco tempo, i desideri dei genitori della piccola si erano infranti contro il muro della realtà.
“Credevamo che Biancavilla fosse un posto sicuro…” La giovane donna ripeteva tale frase fino allo sfinimento, tentando di strapparsi i capelli nella furia di un pianto che non conosceva consolazione. Le ciocche rimaste intrappolate tra le sue dita erano troppo simili a quelli della sua bambina perduta. La mano del marito, un tempo così calda, sembrava posarsi sulla sua spalla per errore.
Anche lui era distante, immerso in un dolore che li aveva improvvisamente divisi. Il volto era pallido e lo sguardo sempre ostinatamente puntato in avanti. Ma i suoi occhi erano troppo scoraggiati per posarsi sulla moglie. Guardavano un punto imprecisato, con fissità, senza più sicurezza, tradendo un’immensa fragilità che mai si era palesata nei suoi atteggiamenti.
 
“Troppo speciale per una vita contadina.”
Green osservava la foto della bambina smarrita. Era sua coetanea e la conosceva di fama. Nella scuola che entrambi frequentavano, lei era popolare tra compagni e maestri per la sua intelligenza. Aveva cominciato a frequentare l’asilo possedendo già capacità fuori dalla norma, che non le avrebbero consentito di passare inosservata: leggeva speditamente qualunque testo e sapeva scrivere con una grafia eccezionale per una fanciulla della sua età.
La scomparsa di Blue aveva lasciato un grande vuoto. La scuola intera piangeva la mancanza di quella ragazzina che sapeva farsi amare da chiunque per la propria mente brillante e per il dolce sorriso.
Il bambino gettò all’immagine un ultimo sguardo amaro. Erano tanto diversi, loro due.
Lui era stimato perché nipote del famoso Samuel Oak, Ricercatore di Pokémon, noto tra tutti gli Allenatori. Green si reputava un bambino intelligente, ma nessuno cercava di conoscere le sue qualità. ‘Considerate le sue origini, è sicuramente in gamba.’ Lo liquidavano con queste poche parole. I bambini non osavano sfidarlo, lo evitavano accuratamente per il timore reverenziale che suscitava in loro. Mio nonno è l’illustre Samuel Oak, ed io non posso fare nulla per cambiarlo. Come posso fare per dimostrare di che pasta sono fatto senza che il mio ingombrante cognome susciti pregiudizi negli altri? Tutte domande che si portava dentro da quando era piccolissimo. Aveva appena iniziato a prendere coscienza di se stesso, quand’ecco i dubbi esistenziali tendergli un’imboscata.
Quella Blue era ciò che lui aveva sempre desiderato essere. Forte di una fama meritata, essendo discendente da una famiglia umile, si faceva notare puramente per quello che era. Ecco perché non l’aveva mai sopportata. In un istinto di infantile crudeltà, una parte di lui aveva quasi gioito della sua scomparsa, perché non era giusto che esistesse una bambina tanto perfetta. In seguito si era ovviamente pentito di aver pensato simili cattiverie, sebbene lo stress della propria condizione giustificasse il suo atteggiamento cinico.
Si ripromise quindi di non prestare troppa attenzione agli altri, di badare unicamente ai propri affari per non cedere ad inutili invidie.
Col tempo se ne dimenticò, ma Green aveva deciso di partire per un allenamento in un luogo lontano soprattutto per l’influenza che la storia di Blue aveva avuto sul suo percorso.
 
II.
Negli anni Ottanta il Team Rocket raccoglieva proseliti nell’ombra. Come questi venissero a conoscenza dell’organizzazione era un mistero. Si suppone che fossero amici del Capo, radunati grazie al suo carisma in grado di muovere masse.
Masse di gente fin troppo umile, che desiderava diventare qualcuno e prendersi la propria rivincita verso le classi più agiate e prepotenti. Giovanni era ricco di famiglia, ma aveva sposato la causa di coloro che erano più umili di lui.
Il progetto era semplice: avrebbe esteso il proprio dominio sul mondo, poi avrebbe generosamente affidato appezzamenti e titoli nobiliari ai Generali e alle Reclute che avevano dato il loro contributo per portare a compimento il suo scopo.
Il lato avido e quello altruista di Giovanni convivevano nella sua idea. Ed anche quello spietato; perché, nell’ambizione di una ricchezza senza confini e di una vita migliore per tutti i suoi seguaci, non avrebbe badato ai metodi utilizzati.
Ciò che più attirava le nuove Reclute era la dichiarata umanità del progetto. Cosa c’era infatti di più umano del genuino desiderio della felicità per sé e per i propri cari e dell’avere tanti soldi al punto di non sapere cosa farsene? Le Reclute non provavano rimorsi per gli atti empi che eseguivano, proprio perché usufruivano di questa scusa come giustificazione.
“Inculcherò in mio figlio queste idee.” Diceva Giovanni ai suoi Generali. Parlava spesso con loro del suo erede che stava per venire al mondo.
Uno dei suoi più grandi desideri era quello di avere un figlio del quale poter essere orgoglioso, che potesse costituire un suo valido alleato nella conquista della supremazia.
“Sarà il mio braccio destro, per meritarsi la fortuna che accumulerò attraverso queste operazioni.”
Il suo progetto non prevedeva troppi sentimentalismi verso il proprio figlio. Ma Giovanni era umano e, quando nacque Silver sul finire dell’anno 1988, smise con lui di essere l’impassibile Capo del Team Rocket per calarsi appieno nel suo nuovo ruolo di padre amorevole.
In molte foto di quell’epoca appariva insieme al suo figlioletto, gli aveva regalato un Pokémon raro proveniente da un’altra regione e si dimostrava piuttosto apprensivo nei suoi confronti. Furono i due anni più felici della vita di Giovanni, ma anche i più brevi e fuggevoli.
All’inizio degli anni Novanta, il Team Rocket contava circa tremila membri e Silver era scomparso.
I metodi dell’organizzazione criminale si erano fatti ancora più spietati, le loro soluzioni fin troppo estreme. La disperazione di Giovanni era drammaticamente profonda, al punto di portarlo a dimenticare qualunque scrupolo nei confronti del prossimo. Il Team Rocket non aveva più un erede e, cosa ancora più importante, il loro Capo non aveva più suo figlio.
Non si mostrava mai triste di fronte alle Reclute che conoscevano perfettamente l’accaduto. Tuttavia si innervosiva facilmente, infliggeva numerose punizioni; ma nessuno voltò le spalle al progetto dello stimatissimo Giovanni.
Quando era solo, l’uomo amava passare delle ore nel buio e nel silenzio. L’infantile voce di Silver riecheggiava unicamente nei suoi ricordi. “Papà. Sempre.” Il suo bambino sapeva pronunciare poche parole e non sapeva costruire frasi, piccolo ed indifeso com’era. Ma Giovanni capiva sempre tutto ciò che lui intendeva. Lo ripeteva tra sé, spezzando l’opprimente silenzio della sua situazione attuale.
“Sì, piccolo monello. Staremo insieme per sempre.”
E poi scendeva il silenzio di nuovo, mentre Giovanni alzava il mignolo sorridendo teneramente, suggellando una promessa con se stesso e col figlio che non poteva udirlo. Qualunque cosa fosse successa, l’avrebbe riabbracciato. Nutriva fiducia.
 
Un fragoroso pianto spezzò la tranquillità che aleggiava in quella casa al limitare del Bosco Smeraldo. Un uomo sulla quarantina entrò in una stanzetta, terrorizzato da ciò che poteva essere successo.
Si aspettava di vedere la propria nipotina di appena tre anni a terra, con la faccia schiacciata sul pavimento, intenta a piangere per il dolore che si era inferta. Succedeva spesso, visto che la bimba aveva l’abitudine di addormentarsi nelle posizioni e nei momenti meno appropriati.
Invece la piccola Yellow lo sorprese, precipitandosi in lacrime tra le braccia dello zio, urlando in una maniera che presto l’avrebbe lasciata senza energie.
“Zio! E’ successa una cosa brutta brutta!” Piangeva, premendo il viso contro il petto del parente che l’aveva presa in braccio e tentava di consolarla.
“Cosa?” Chiese, accarezzandole la testolina bionda.
“Non lo so!” Urlò la piccola.
Spesso Yellow aveva rivelato di possedere un sesto senso fuori dal comune, ma quella era la prima volta che reagiva con tanta energia.
Proprio quel giorno un bambino di Smeraldopoli di soli due anni era stato rapito, imprigionato tra i possenti artigli di un enorme volatile. L’evento era stato taciuto dalle stampe locali e la notizia non si era ampiamente diffusa. Eppure Yellow l’aveva sentita, aveva udito nella propria testa gli acuti di una tenera voce infantile ed il battito di enormi ali capaci di muovere il vento.
Col tempo avrebbe dimenticato le prime manifestazioni dei suoi poteri, non avrebbe più ricordato il turpe rapimento e il dolore di un genitore che aveva percepito, portato dalla brezza. Da questo piccolo trauma sarebbe però derivata la sua sensibilità e la preoccupazione che era solita provare nei confronti del prossimo.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Prima infanzia. Parte prima o dell'Incontro. ***


Prima infanzia. Parte prima o dell’Incontro

 

 
I.
Attraverso le fessure della maschera, la piccola Blue tentava di scrutare le espressioni degli altri presenti. Erano forse spaventati come lei? Qualcuno avrebbe mai potuto abbracciarla e starle accanto, dicendo che sarebbe andato tutto per il meglio? Tentava di cogliere in loro tracce del suo stesso smarrimento, ma quei bianchi oggetti coprivano i loro volti, rendendo impossibile tra loro lo scambio e la condivisione delle emozioni.
Erano solo piccole pedine senza un’individualità, senza un’identità. Blue era la più piccola di tutte, era l’unica che, nella breve fila dei ‘prescelti’, non riusciva a smettere di tremare vistosamente di freddo e di terrore.
Aveva soltanto cinque anni e già la situazione la costringeva a prendere coscienza della sua posizione. Per quanto ottimista di natura, dovette capire che era una bambina più sfortunata degli altri, che forse la sua mamma e il suo papà adorati non sarebbero tornati a prenderla. Ne assunse la consapevolezza e sentì il suo mondo di fiabe spensierate accartocciarsi, crollarle addosso e ferirla. Se le fosse rimasta in corpo un po’ di voce, se non avesse urlato già così tanto, avrebbe continuato a gridare, ad erigere un maledetto muro di suono attorno alla sua presenza. Una parete assordante che avrebbe tenuto lontani quegli estranei, che non avrebbe permesso a nessuno di toccarla e percuoterla.
Ricordava benissimo le mani di Maschera di Ghiaccio – così aveva detto di chiamarsi il suo rapitore e il loro capo. Erano così fredde, così rudi, avevano stretto le sue membra senza alcun riguardo, incitandola con veemenza a muoversi, mentre quella voce severa e gelida d’adulto tuonava: ‘Vedi di non deludere le mie aspettative!’.
Le sue erano mani capaci di colpire, la personalità era quella di qualcuno in grado di uccidere. Se ciò fosse servito ad ottenere l’oggetto del suo desiderio, Maschera di Ghiaccio non si sarebbe fatto scrupoli. Aveva già iniziato ad usare persone innocenti, isolandole nell’oscura prigione che aveva predisposto.
Blue capì, dal modo in cui gli altri se ne stavano spavaldamente immobili, che avrebbe dimenticato cosa fosse l’affetto. Nessuno le avrebbe regalato un abbraccio.
Si sarebbe ammalata per il freddo, magari sarebbe anche morta e quel pensiero la fece sorridere. Come avrebbe reagito Maschera di Ghiaccio accorgendosi del decesso di uno dei suoi bambini prodigio? Magari avrebbe percepito un acuto senso di colpa, avrebbe risvegliato qualche sentimento umano lasciando fuggire tutti?
Se fosse deceduta, però, non avrebbe potuto andare con gli altri verso la libertà. Voleva rivedere i suoi genitori, lo desiderava con tutto il proprio tenero cuore di bambina.
La sua vista fu offuscata dalle lacrime e lei singhiozzò in silenzio, tremando ancora più visibilmente. Nessuno se ne accorse, continuando a guardare in avanti. Quando piangeva, una volta, erano sempre pronti a zittirla, magari consolandola con un regalo oppure insegnandole l’educazione con una sgridata. Adesso tutti erano sordi al suo grido d’aiuto.
Guardatemi, almeno!
Blue piangeva, tutto il viso era cosparso di lacrime che nessuno avrebbe potuto vedere, neanche se lo sguardo degli altri si fosse posato per sbaglio sulla sua piccola e fragile figura.
Guardatemi! Ho bisogno di essere guardata… di essere… abbracciata.
Tremava ancora, avrebbe forse continuato finché non fosse caduta senza energie in un sonno profondo. Dischiuse gli occhi e si accorse che Maschera di Ghiaccio era tornato. Altre gocce fuoriuscirono copiose dai suoi occhi gonfi, più rossi della pelle che si era fatta improvvisamente pallida.
Quando però si accorse di un dettaglio importante, sentì il pianto fermarsi. Tra le mani dell'uomo un bambino mascherato si dimenava, incapace di urlare, privo di voce. Era l’ultimo prigioniero, il Numero Sei.
 
II.
Era piccolo, più giovane di lei senza alcun dubbio. Aveva un’aria tanto fragile da suscitare in Blue un acuto senso di fastidio. Probabilmente era più bisognoso di lei delle cure a cui la bambina anelava fino a pochi istanti prima. Cosa ci faceva lì? Avrebbe retto le pressioni e la crudeltà di quell’uomo?
Un infante così piccolo da non reggersi neppure in piedi; così appariva ai suoi occhi bagnati di lacrime. E ora Maschera di Ghiaccio, dopo averlo spinto rudemente a terra, lo stava rimettendo in piedi afferrandolo dalla testa, tirando e strappando alcuni dei lunghi capelli rossi del bimbo.
Questi si sollevò forzatamente, tacendo rassegnato, tremando sulle piccole gambe poco sviluppate. Tentennò qualche volta, ciondolò malfermo sui propri piedi.
“Piccolo smidollato, raggiungi ora la tua compagna.” Ordinò spietato il rapitore, indicando Blue.
Prima che il bambino potesse voltarsi verso di lei, sussultò e collassò a terra con un tonfo, sbattendo la maschera sulla fredda pietra del pavimento. La piccola non poteva vedere il suo viso, ma forse stava piangendo. Non ne era sicura, perché lui pareva completamente muto, piuttosto che privo di voce.
“Questo Numero Sei è un incapace.” Lamentò Maschera di Ghiaccio in tono sprezzante. “Un addestramento mirato saprà porre rimedio ai suoi evidenti handicap motori.”
Handicap motori? Blue rabbrividì, tendendosi e sentendo una cieca rabbia percorrere il proprio corpicino. Ma avrà due anni! Cosa pretende da lui? Che si muova come un ninja di un film in tivù?
La bimba però già prevedeva che quei pensieri bambineschi e fantasiosi sarebbero corrisposti alla realtà.
 
III.
Il bambino si era attaccato al suo vestitino nero e lei sentì che tremava anche lui. Possibile che l’unico a condividere i suoi stessi sentimenti era una creatura così piccola, ancora più indifesa di lei?
Quasi senza rendersene conto, strinse a sé il corpo dello sconosciuto, immaginando le sue lacrime e la sua espressione trasfigurata dalla paura aldilà della maschera. Fu difficile, non conoscendone i lineamenti, ma lei aveva la sensazione di poterli immaginare, a partire da quel guizzo argentato che aveva intravisto nelle fessure di quell’odiata copertura identica alla sua.
“Se dovete scambiarvi tenerezze, la stanza è da quella parte. Se lo farete ancora davanti a me, sappiate che vi dividerò.” Affermò duramente Maschera di Ghiaccio, indicando un corridoio buio nel quale Blue si addentrò senza indugi, trascinando con sé il corpo stanco del compagno.
Sulla porta scheggiata vi era una piastrella di ferro con sopra incisi due numeri, ‘5-6’. La piccola intuì che quella era la loro stanza, quindi aprì la porta. Non aveva una chiave a sigillare la serratura, in modo che Maschera di Ghiaccio e i loro compagni potessero entrare a controllarli in qualunque momento.
Nel cubicolo scuro e umido non c’era nulla oltre ad un piccolo letto a castello che pareva fatto su misura per dei bambini. Si accorse che il materasso in alto era pericoloso, in quanto non aveva nulla a bloccare una possibile caduta.
“Dormirò di sopra.” Sospirò Blue, guardando il bambino. “Mettiti pure qui.” Disse, sospingendo delicatamente colui che il Capo aveva chiamato 'Numero Sei' verso il letto più basso.
Normalmente la bambina avrebbe protestato. Soffriva di vertigini, aveva una quantità immensa di fobie, ma si rendeva conto che il suo compagno era ancor più delicato e bisognoso rispetto a lei. Non sarebbe stata lei ad essere protetta; avrebbe dovuto crescere subito, diventare adulta in un’orrenda giornata dei suoi cinque anni.
Blue era pronta a dimenticare il proprio egoismo di bambina viziata, perché doveva proteggere quella creatura che aveva davanti, che magari le avrebbe un giorno donato abbracci con l’affetto che disperatamente rimpiangeva.
Per ora, tuttavia, la sua presenza le dava fastidio. Come si permetteva di essere più piccolo di lei, così tanto più fragile?
Come osava, sdraiato sul letto, tirarle il vestito con quel suo braccio corto e paffuto, cercando di attirarla a sé?
Lo stava davvero facendo, le aveva afferrato con presa debole un lembo dell’abitino nero e le chiedeva silenziosamente di avvicinarsi, per fargli compagnia sul letto e per dormire con lui. Blue si sentì stringere il cuore e quell’egoistico risentimento cominciò a scemare. Se non avesse già pianto tutte le sue lacrime, avrebbe ricominciato a frignare senza ritegno.
“Come ti chiami?” Chiese con un filo di voce, improvvisamente interessata a quel compagno.
Il bimbo scosse la testa, senza dire nulla. Lo vide confusamente cercare una tasca della felpa che indossava, ma da quella posizione riusciva solo a trovare stoffa piana. La fanciulla intercettò la mano del compagno, sentendola fredda e lievemente sudata. Doveva essere ancora spaventatissimo, magari diffidente nei confronti di quella ragazzina che neanche conosceva, ma così bisognoso di tenerezza da non badare all’identità di chi aveva di fronte.
Blue cercò da sé la tasca, estraendo un fazzoletto di stoffa con sopra ricamata una parola. ‘Silver’.
Con ansia puntò i suoi occhi in quelli del bambino, riuscendo a distinguerli al di là della maschera.
“Tu ti chiami Silver.” Disse, tremando un poco. “Perché i tuoi occhi sono color argento.”
Erano grandi, metallici e avevano pianto. Avevano versato ancora più lacrime di quante ne avesse versate lei.
Il bambino oscillò debolmente la testa, accennando un assenso. Blue lo abbracciò disperatamente e riuscì a spingere fuori quelle ultime gocce che ancora prudevano nei suoi occhi, rimanendo sospese.
Finché non si trovarono entrambi senza energie, continuarono a scambiarsi calore; infine si addormentarono su quel materasso privo di lenzuola e coperte.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1578033