This must be an empty dream.

di Selfdestruction
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Early sunsets over monroeville. ***
Capitolo 2: *** You can write it on your arm. ***
Capitolo 3: *** Save me from my self destruction. ***
Capitolo 4: *** Taking every piece as you walk. ***
Capitolo 5: *** You will always burn as bright. ***
Capitolo 6: *** Never coming home. ***
Capitolo 7: *** I held you close as we both shook. ***



Capitolo 1
*** Early sunsets over monroeville. ***


Capitolo 1.

Early sunsets over monroeville.

BUT DOES ANYONE NOTICE?
BUT DOES ANYONE CARES?
And if I had the guts to put this to your head...
But would anything matter if you're already dead?


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Il cielo mi pioveva sugli occhi, quando mi sono svegliato. Ero seduto sul marciapiede di chissà quale città, avevo dormito in piedi. Avevo dormito? 
Stanco, sconfitto, morto. Come un fantasma rimanevo nei miei rimpianti, intrappolato, forse per sempre, nelle mie catene. Intrappolato in tutte quelle cose che avevo rimandato a domani e mai fatto, in paure mai superate e in tutti quei libri che mi ero ripromesso di leggere ma che, alla fine, non avevo mai finito. Ero morto, non sapevo di esserlo, la pioggia mi bagnava. Proprio la pioggia, che non cade sui morti e nemmeno su quelli che fanno finta di esserlo. Ero morto, vestito da fantasma, il giorno di Halloween, forse se avessi controllato nelle tasche del vestito avrei potuto ancora trovarci i cioccolatini. Il mio piccolo bottino dopo una serata passata porta a porta. Mendicanti di dolci, li chiamano bambini. Ma io bambino non sono, o forse dovrei dire non ero. Avevo vent’anni ed ero seduto su un marciapiede qualunque di un quartiere qualunque di una città qualunque di un mondo qualunque in una vita qualunque. Ero morto, mi sentivo morto, morto con ancora le caramelle nelle tasche. Quale razza di morto avrebbe voluto essere morto la notte di Halloween vestito da fantasma senza ancora aver mangiato i suoi cioccolatini? Quale razza di vent’enne andrebbe ancora in giro a fare dolcetto o scherzetto la notte di Halloween? Ma soprattutto, quale cazzo era il nome di questo morto vestito da fantasma seduto su un qualunque marciapiede e ad aspettare di morire una seconda volta sotto la pioggia? 
Era buio, buio e pioveva.
Ero morto oppure no?
I morti lo sentono il dolore?
Quando uno muore c’è una parte che rimane viva o si diventa soltanto cibo per vermi?
Non ricordo il mio nome, doveva essere un nome come… Jake, o Jason. Mi piace il nome Jason, si addice ai miei capelli neri. 
L’unica cosa che so di me è che sono basso, morto e pure basso! Prendetela una persona viva più sfigata di me. Di me so che ho i capelli scuri e lunghi, tanto lunghi da coprirmi gli occhi e di me so che nella mia vita passata (se mai ne abbia avuta una) devo essere stato innamorato, perché adesso che sono morto, seppur morto, ho lo stomaco dolorante, vuoto, come se qualcuno l’avesse calpestato, e credetemi non può essere fame, i morti fame non ne hanno. Deve essere questa la sensazione che provoca l’amore. L’amore calpesta, butta a terra e non tira su, l’amore non fa resuscitare, neppure un morto come me, un morto senza nome e ragione.
L’amore ti fa avere fame anche se hai appena smesso di mangiare.
Il vuoto, la voragine, i rimpianti, sento lo stesso anche se sono morto? Che rimpianti avrei dovuto avere poi? Ricordavo poco e niente. 
Mi sono alzato dal mio marciapiede, se fossi andato a spaventare qualche vecchietta? Nah, questo era troppo da fantasmi. Ero vestito da fantasma, ma magari ancora non lo ero. 
Ho messo le mani in tasca, i cioccolatini erano ancora lì, nemmeno uno sciolto, dovevano essere morti con me. Ho trovato un bigliettino nella tasca destra e l’ho tirato fuori. Le mie mani erano calme, non avevo freddo, ero solo freddo. Dovevo proprio essere morto morto. Il bigliettino era stropicciato, bagnato, ma sono riuscito ad aprirlo. C‘era scritto qualcosa, forse per me, forse l‘avevo avuta una vita prima di morire. 
 
Non devi andarci Frankie, non ti riguarda.
A discapito degli altri… ti amo, non te l’ho mai detto, te lo scrivo. 
G. 
 
E qualcuno doveva avermi amato. G. mi aveva amato. Qualcuno, davvero, aveva potuto amare uno come me? Uno che come me doveva essere sembrato morto pure da vivo. La mia G. mi aveva amato. Gianna? Dio, speravo di no. Gertrude? Giulie? Odiavo i nomi femminili, di questo ne ero sicuro. Odiavo il loro sembrare sempre estremamente vanitosi anche quando magari il soggetto in questione non lo era. 
E se il biglietto fosse stato per qualcun altro? Per un qualsiasi altro Frankie dell’universo? No, solo un morto come me poteva avere un nome del genere. ‘Frankie’, Dio, ero sul serio una checca da primi anni del liceo? 
Non smetteva di piovere, non un attimo, nemmeno per lasciare ai miei pensieri di prendere aria e intanto guardavo le mie scarpe che erano piene di pioggia esattamente nello stesso modo in cui la mia testa era piena di domande, dubbi che sbocciavano come fiorellini in primavera senza una primavera. Primavera. Ricordo di aver amato la primavera, in qualche modo. Al ricordo di una qualsiasi primavera mi sono sentito a casa, dovevo essere stato felice, da vivo. Ma adesso ero morto, morto e completamente solo, ignorato anche dagli altri morti. In primavera dovevo aver amato anche io, come la mia G. Forse anche io ho amato la mia G in silenzio, come aveva fatto lei. ‘Ti amo, non te l’ho mai detto, te lo scrivo‘. Doveva essere stato un amore strano quello tra questo ‘Frankie e la sua G’. E dovrei smetterlo di ripeterlo, suona davvero male… e strano
Ero morto, ma sveglio e non avevo un impiego al momento, solo tanto tempo da perdere. È strano aver tempo da perdere se non sei più vivo. Di solito, se si pensa alla morte, si cerca di non sprecarli i momenti che si hanno a disposizione, ma adesso che sono morto, morto sul serio, non so che farmene di tutti i momenti che avrò di fronte, di tutto quel tempo eterno da passare solo, tutti i giorni che saranno soltanto come infiniti pomeriggi di domenica.
Ma ve la immaginate una vita fatta solo di domeniche pomeriggio? Altro che morte.
Mi sono alzato dal marciapiede, strizzando con entrambe le mani un lembo del mio vestito da fantasma. ‘La vita è una merda sia da vivi che da morti'. 
'Ma qualcuno se ne accorgerebbe mai? A qualcuno importerebbe? A nessuno importa che io sia già morto, morto a vent’anni, un paio di cioccolatini nelle tasche e un bigliettino d’amore?’, la mia testa parlava da sola. 
Era tutto vuoto attorno a me, le case spente, buie, nessuna luce accesa, il mondo di notte dormiva e mentre dormiva, il male là fuori si muoveva. Doveva essere ancora la notte di Halloween, perché le case erano ancora addobbate come Natale e nell’aria c’era ancora odore di zucchero e bruciato. Dov’ero finito? Sarei mai riuscito ad uscire da questo piccolo inferno privato dove ero destinato a vagare in eterno, senza amore e senza un vero fine? Se vi capiterà di pensare che la vostra vita non ha senso, gente, pensate al vostro Frankie, ‘il fantasma di quartiere’ il quale ha addirittura una morte che non ha senso e non credo ci sia qualcosa di peggio. 
Con la pioggia che lavava via la mia vecchia vita e mi inumidiva le ossa con questa nuova morte, mi trascinavo, come il più classico dei fantasmi che si porta ancora dietro le catene dei rancori e dei rimpianti. Ero morto, ma dovevo avere ancora un cuore, perché avevo iniziato a seguirlo. O forse seguivo soltanto l’unica luce accesa che veniva dalla casa infondo alla strada, altro che cuore. Magari un cuore neppure ce l’avevo più. 
Mi trascinavo pian piano, magari stavo levitando senza accorgermene e il pensiero mi ha fatto rabbrividire. Era una di quelle ‘cose da fantasmi’ ancora troppo lontane per me. Se avessi mai dovuto fare ‘qualcosa da fantasma’ sarei rimasto per il resto dell’eternità nell’angolino di una cantina buia, aspettando che qualche umano fuori dal comune si fosse accorto di me. Nessuna catena trascinata per le scale, niente urli alle tre di notte, niente apparizioni da infarto. Sarei rimasto solo, a farmi marcire le ossa da morto al buio. Ecco cosa avrei fatto da bravo fantasma. 
Mi sono avvicinato alla casa, l’ho osservata a lungo, tenendo gli occhi socchiusi a causa della pioggia che continuava a cadermi addosso, senza pietà o tregua, come in un fottutissimo film in cui la pioggia cade sempre nei momenti più drammatici. Ho guardato verso la finestra con la luce accesa, chi poteva restare sveglio a quell’ora della notte, ancora? Forse qualche vivo che si sentiva morto tanto quanto me. 
Ero morto, non un vampiro e non potevo semplicemente saltare per arrivare alla finestra. Il mio cervello da fantasma era ancora più lento di quanto doveva essere stato da vivo ed era uno schifo. Mi sentivo uno zombie ai primi stadi. O forse soltanto un’idiota un po’ sballato all’ultimo degli stadi. 
Mi sono tolto il vestito da fantasma e l’ho lasciato a terra, rimanendo soltanto in jeans e t-shirt. Di notte ogni azione prende un senso diverso. Scalare una casa per entrare nella stanza dove avrei potuto trovare anche una tredicenne in procinto di infilarsi il pigiama… beh, di giorno sarebbe stato molto più tragico. La notte copre, copre anche un morto come me. Ma la curiosità vinceva su qualunque regola di civiltà, così come la pioggia aveva vinto sulla mia morte. 
Ho iniziato ad arrampicarmi, cercando di infilare bene i piedi nei vuoti che i mattoni lasciavano. Ero piccolino, agile, ma senza un briciolo di forza nella braccia, dannazione. Perché, Dio? Basso, magro, morto e terribilmente fragile. Magari guardandomi allo specchio avrei scoperto anche di essere brutto, sai che sorpresa. 
Sono scivolato più di un paio di volte e… un morto sanguina? Sente il dolore? Mi sono sbucciato le braccia e strappato i pantaloni già fradici, ma stavo riuscendo a salire. E non erano neanche tre metri. ‘Fanculo, sono morto, non posso morire di nuovo’, mi sono detto mentre guardavo in basso e sentivo le vertigini. 
Ho fatto un ultimo sforzo e con le braccia mi sono appoggiato sul davanzale della finestra aperta, cercando di tirarmi su. Sospeso per aria, con una gamba appoggiata a malapena su un mattone che sporgeva e l’altra penzoloni ho guardato dentro l’unica stanza illuminata che avevo visto lungo tutta la strada. Non era di una tredicenne quella stanza disordinata, quelle mura su cui dominava una scritta. 

I’m not dead, I only dress that way
 
Ho sentito il cuore sbattere in modo incontrollabile contro il petto, per qualche attimo, per poi sentirlo smettere d’un colpo, arrestarsi d’improvviso. Che morto del cazzo che ero. Morto con ancora un cuore che si agitava per un paio di capelli neri, scompigliati come matite scure messe in disordine su un tavolino da disegno. Era di spalle e i capelli lisci e scuri come le piume di un corvo le ricadevano su quel volto che ancora non riuscivo a vedere. Doveva avere un volto delicato. Ho osservato a lungo il suo cappuccio nero, il modo in cui la felpa le copriva le piccole spalle e in cui piano le stava per scivolare giù dalla spalla sinistra. Ho indugiato su quel collo scoperto come un vampiro e mi sono soffermato sulle sue converse scure e rovinate da tutti quegli anni passati a correre che tamburellavano sul pavimento, tenendo il tempo di chissà quale canzone stesse cantando nella mente. Le spalle andavano su e giù, non avevo notato che stesse piangendo. L’ho vista lasciarsi abbandonare sulla sedia lentamente e poi lasciar cadere il braccio fuori dal bracciolo. Qualcosa di rosso colava sul pavimento mentre l’altra mano lasciava scivolarsi dalle dita qualcosa di appuntito. Il suono della lama che cadeva sul pavimento mi è sbattuto contro le tempie, facendo un rumore tre volte più forte nella mia mente.
Sentivo il mio corpo cedere, ero morto, fragile e dall’energia esauribile. Ero la feccia dei morti, quelli morti morti, quelli con la M maiuscola. 
Sono rimasto a guardare mentre raccoglieva le forze e si asciugava le lacrime e il sangue dal polso. Si è tirata su, piano, sorridendo. - Cosa diavolo non va in me? - ha mormorato tra sé, sicuramente con un sorriso sulle labbra. Ma… mi sono accigliato, pronto a sconvolgermi ulteriormente. Cercavo di tenermi su mentre guardavo quella figura magra e debole alzarsi e voltarsi verso di me. Quando ho incrociato i suoi occhi verdi, appesantiti dalle occhiaie e dal rossore provocato dal pianto, le mie braccia non mi hanno retto più e in meno di un secondo mi sono ritrovato con la faccia per terra, ad assaggiare il buonissimo sapore dell’erba bagnata e piena di fango. - Merda! - ho urlato, sputacchiando l‘erba che mi era finita in bocca. - È un ragazzo - e mi sono ritrovato a ridere, non so se fosse sintomo di pazzia o rassegnazione. Mi sono soltanto sentito un gran coglione per essere rimasto imbambolato guardando qualcuno che pensavo fosse una ragazza. La cosa più strana, la cosa tanto più strana, era che nell’attimo un cui ho guardato i suoi occhi, così terribilmente da ragazzo e così terribilmente distrutti, non ho avuto più nessuna forza nel corpo. Quegli occhi avevano tagliato il filo che mi reggeva, mi avevano svuotato la mente e sono sicuro che anche se avessi avuto ricordi, quegli occhi, li avrebbero annullati tutti per farsi spazio nella mia testa.
E ho creduto, in quell’attimo, quel piccolissimo attimo in cui il suo sguardo è quasi sembrato posarsi su di me, di non aver mai più potuto vedere qualcosa di più bello e più doloroso. Occhi che andavano dritti nello stomaco, altro che cuore. Occhi da cui non c’era nessun davanzale che dava sul mare, ma solo un enorme burrone da cui vedevo tanto nero, così tanto nero da sentirmi schiacciato, come immerso in una piscina di petrolio. I suoi occhi erano verdi, come la primavera, come le mie sensazioni quando sentivo di esser stato vivo sul serio, una volta. Erano verdi, ma neri come la notte, oscuri come le cose in cui ero immerso, neri come la mia morte. 
Cosa c’era che non andava in lui?
I lineamenti del viso erano davvero delicati come li avevo immaginati, anche se non avrei mai immaginato di trovarmi di fronte ad un ragazzo quando avevo visto la sua schiena. Dio, avevo un nome da checca e un comportamento da checca. 
Cosa c’era che non andava in me?
Quando mi sono girato di schiena per lanciare un’altra occhiata a quella finestra da dove sembrava spuntare il sole in mezzo ad una notte così scura, ho alzato lo sguardo e il suo viso sospettoso guardava in basso, senza vedermi. La mia caduta aveva spezzato un ramo e fatto un gran casino. Perché avevo l’impressione che ogni cosa che avevo fatto in vita fosse sempre stata un gran casino? Si è passato una mano tra i suoi lunghi capelli neri e si è seduto sul davanzale, accendendosi una sigaretta, con lo sguardo dello stesso colore de petrolio che fissava un punto lontano, nella notte. Osservavo come le nuvole di fumo che uscivano dalla sua bocca rimanevano nell’aria, per poi dissolversi come ricordi, lentamente. 
Le sue gambe penzolavano fuori dalla finestra, dondolando. Non mi ero accorto di essere rimasto sdraiato sulla schiena a guardarlo quando d’improvviso con gli occhi della mente, senza riuscire a controllarli, ho visto il suo viso delicato urlarmi contro, in una stanza vuota, bianca, senza finestra né porte. Urlava, la scena era offuscata e le immagini ruotavano, ma i suoi occhi incazzati e delusi li vedevo bene. Mi urlava contro, con la voce disperata di chi tenta tutto per salvare qualcun altro. ’Non devi farlo, non m’importa!’. Mi scuoteva. ’Non farlo, non me ne frega niente, ti prego, Fran…!’, l’immagine si era dissolta. Quel flash durato nemmeno un minuto era un ricordo appartenuto ad una vita, la mia e quel ragazzo ne aveva fatto parte.
Ero stato vivo. Ma perché ero morto? 
Basso, magro, fragile. Avevo vent’anni ed era la notte di Halloween.
Avevo vent’anni ed ero morto, con ancora i cioccolatini e un bigliettino d’amore nelle tasche.
Ero morto che ero vuoto, come l’ultimo degli innamorati. La morte mi aveva portato via non solo i ricordi, ma anche l’amore.     

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Capitolo 2
*** You can write it on your arm. ***


2.
 
You can write it on your arm



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When the lights go out will you take me with you?
And carry all this broken bone, through six years down in crowded rooms
and highways I call home
is something I can’t know till now, till you picked me off the ground
with brick in hand, your lip gloss smile, your scraped up knees and..
 
If you stay I would even wait all night or until my heart explodes
How long? Until we find our way, in the dark and out of harm
you can run away with me anytime you want.
 
Terrified of what I’d be as a kid from what I’d see, 
every single day, when people try and put the pieces back together
just to smash them down.
Turn up my headphones real loud, I don’t think I need them now, 
cuz you stop the noise and..
 
If you stay I would even wait all night or until my heart explodes
How long? Until we find our way, in the dark and out of harm
you can run away with me anytime you want.
 
Don’t walk away,  cause if you stay I would even wait all night,
well or until my heart explodes, 
How long? Until we find our way, in the dark and out of harm
you can run away with me,
you can write it on your arm,
you can run away with me... anytime you want.
 
Ho visto di nuovo quel ragazzo, oggi, mentre ero ancora seduto sul mio marciapiede, la mia casa senza pareti. Non aveva dormito, glieli potevo ancora leggere nello sguardo i pensieri che non l’avevano lasciato respirare un attimo. L’ho guardato in quei suoi occhi incorniciati da solchi profondi e rossi, ancora, e qualcosa nello stomaco è salito e poi è sceso, devo essere stato proprio una checca isterica nella mia vita passata. 
Non riesco a smettere di osservarlo, solo che non mi vede. Forse è morto anche lui, in fondo. 
Ho la sensazione che se mai io sia stato realmente vivo, i ragazzi, le ragazze o quello che era, non mi guardassero lo stesso. Forse invisibile lo sono sempre stato. 
Passeggiava, sembrava non sapere nemmeno il perché fosse uscito di casa, quella mattina, come tutte le altre. Vagava, cercava qualcosa, forse sull’asfalto, dato che il suo sguardo non si schiodava un attimo da lì. Con le mani nelle tasche, il cappuccio della felpa sulla testa a coprire quei suoi capelli neri come la grafite e con quei suoi passi stanchi, andava non so dove alla ricerca di non so cosa. Quando mi è passato di fronte, mi sono sentito in imbarazzo, dovevo ancora abituarmi alla questione ‘sei morto, nessuno ti considera’.
Quando mi è passato accanto si è fermato, voltando dolcemente la testa verso il marciapiede, senza vedermi. 
Ho provato un senso di nostalgia indescrivibile guardando il suo viso pallido e senza alcuna speranza. Avrei voluto avvicinarmi e sfiorarlo con la punta delle dita, senza fare alcun rumore, per sentire se quella pelle era davvero fragile come sembrava, avrei voluto portargli via quella tristezza, strappargliela dagli occhi e dagli quella felicità che ancora non avevo, iniettargliela nel sangue con una siringa che non gli avesse potuto far male. Avrei voluto portarlo via, via da lì, via da quel mondo dove c’era tanta altra gente che ogni giorno faceva male agli altri e che meritava quella sofferenza. Ma lui no, lui non la meritava. E tutto ciò solo perché sembrava morto e solo al mondo come me, eravamo due anime sole che non potevano incontrarsi, non guardate da nessuno, invisibili agli occhi di chiunque.  
Ha tirato fuori una mano dalla tasca e se l’è passata tra i capelli in disordine, sorridendo. Poi ha alzato gli occhi al cielo, in cerca del sole e quel gesto ha fatto diventare la mia mente di nuovo bianca.
Era primavera, la scena era di nuovo offuscata e di nuovo vedevo bene solo i suoi occhi verdi, verdi come il paesaggio che ci circondava. Occhi che non avevano nessuna tristezza, non più, solo tanta dolcezza, solo tanti progetti per un futuro che sarebbe divenuto presto nero. Mi stava sorridendo, mi accarezzava con lo sguardo, poi ha alzato gli occhi verso il sole. - Potremo fare chissà quante cose io e te, Frankie. Ci pensi? Abbiamo l’eternità davanti. L’eternità
Ho visto le mie mani strappare qualche filo d’erba, per poi esaminarlo. - L’eternità? - la scena ruotava ancora e i suoni sembravano lontani nella mia testa. - Avrai l’eternità un giorno, Gee… ma senza di me. - Ho visto i miei occhi diventare grigi, come le nuvole prima di un temporale e ho sentito la mia voce diventare un sussurro, rompersi sulle ultime parole. - Sai che ci sono dentro fino al collo, ormai, e una volta dentro non ne puoi più uscire, perché fingere che io abbia ancora un futuro? Avrai il tuo di futuro e la tua felicità, te lo giuro, dovessi dare la mia anima, lo avrai. 
Ho visto il suo viso staccarsi dal sole per posarsi su di me, adagio, come foglie che si staccano con malinconia dai rami degli alberi, in autunno, per poi posarsi al suolo, lasciandosi portare non dal vento, ma dal tempo. E i suoi occhi, cieli imprigionati in sfere dello stesso colore delle foglie, sembravano essere stati portati sui miei, distanti e soli come asfalto bagnato, da mille piume. 
- Vorrei che tu ti ficcassi questa cosa che sto per dirti ben in testa, una volta per tutte, Frank - con gli occhi della mente ho visto il suo corpo mettersi seduto per guardarmi bene in viso. - Nemmeno Dio potrà impedirci di essere felici, ora. Né a te e né a me. Ci siamo raccolti a vicenda dai marciapiedi di questa città, ci siamo tirati fuori insieme dalla merda in cui eravamo immersi. Ce la faremo ad avere la vita che ci spetta, arriveremo anche a questo traguardo, ma non soli. Le persone sole si fanno del male, di continuo e io non voglio tornare a farmene. - Il suo tono era deciso e terribilmente lacerante. - Ti ricordi quando due anni fa ti ho chiesto se le tue gambe erano pronte a correre, Frank? Quando mi hai risposto di sì, nel momento in cui io ti ho insegnato a correre, Frankie, tu hai insegnato a me a volare e se le tue gambe si fermeranno, lo faranno anche le mie braccia.
- Forse le mie gambe non sono abbastanza forti.
- Forse non lo erano, ma lo sono diventate e lo saranno sicuramente più delle mie braccia.
- Puoi sempre smettere di volare e correre con me, Gee. Puoi correre via con me tutte le volte che vuoi. 
In quel piccolo flash che la mia mente mi stava concedendo, quel ragazzo mi aveva sorriso, nel modo più delicato che io possa ricordare. E in quell’attimo, sia nell’attimo passato che in quello presente, avevo capito cosa quel ragazzo dagli occhi tristi intendesse per eternità.   
- Frankie, io credo di…
La scena era diventata di nuovo bianca e in pochi secondi era sparita, lasciando bianchi anche i miei occhi. Non c’era più alcun dubbio, conoscevo quel ragazzo e se avevo deciso di correre via insieme a lui era perché lui era l‘unico in grado di poter stare al mio passo lento e a non correre lontano, lasciandomi indietro, ancora su un marciapiede a riprendere fiato. 
Quando sono tornato alla realtà il ragazzo dagli occhi tristi non c’era più, quel ragazzo che nei miei ricordi chiamavo Gee.
Un senso di vuoto ha riempito quegli attimi in cui, se possibile, mi sono sentito ancora più solo e morto che mai, abbandonato di nuovo sul bordo di un marciapiede insieme a una manciata di ricordi che ancora non riuscivo a mettere insieme. Solo, senza nessuno ad aspettarmi mentre cercavo di riprendere fiato. Ed io di fiato non ne avevo più. E chiunque, forse, doveva essermi stato accanto una volta in quella corsa, sentivo che era andato già troppo lontano, ormai, e che se si fosse fermato ad aspettarmi, non mi avrebbe visto comunque se lo avessi raggiunto, ansimando e stringendomi una mano sul petto, quasi a tenermi il cuore per non farlo rovesciare a terra. 
Gee, chiunque tu sia o sia stato, vorrei solo dirti che la morte, come la vita, è questa. È un continuo tenersi il cuore per paura di perderlo o lasciarlo indietro, nei propri ricordi. È continuare a cercare la propria anima per riprendersi la propria vita, è correre, ansimare, rincorrere qualcuno che nemmeno ricordiamo, volerlo raggiungere, ma ritrovarlo sulla sponda opposta di un fiume in piena. Caro Gee, devo averti voluto bene, una volta, e da quello che ricordo devi essere stato tu a tenermi in vita, tenendomi stretto tra le tue mani e nascosto sul fondo dei tuoi occhi, verdi come infinite primavere. Caro Gee, tu hai la vita, io la morte, e in mezzo c’è un confine che né tu né io possiamo superare. Solo i ricordi possono segnare quel confine e lasciarci un punto, un punto in comune per farci ritrovare ancora, perché se è vero che ci siamo persi, ci cercheremo di nuovo prima o poi e allora quel confine non ci dividerà più, ma ci permetterà di ritrovarci. 
Mi sono alzato dal marciapiede, sconfitto ancora una volta, cercando il suo volto triste in mezzo a tutte quelle tristi case vuote. Ho camminato fino alla fine del giorno, non avevo bisogno di mangiare, di bere, di dormire, eppure ero stanco. I morti si stancano? Hanno un cervello con cui torturarsi per secoli? 
- A quanto pare io sì - mi sono detto. - La morte è una merda. 
- Allora non te la stai spassando poi così bene come credevamo eh, piccolo Frank?
Mi sono voltato, con occhi sconvolti. Stava in piedi, di fronte a me, una figura alta dall’aria non proprio delicata come quella del ragazzo dagli occhi tristi. Gente, ve l’ho già detto di pensare a me quando crederete che la vostra vita è uno schifo e che non potrebbe andarvi peggio? Sì? Ve lo ridico lo stesso, pensate a me, il vostro ‘Frankie, il fantasma di quartiere’ che di casini ne combina anche da morto e la cui morte fa ancora più schifo della sua vecchia vita. 
Era alto e da come mi stava di fronte, doveva essere piuttosto sicuro di sé. Il suo viso era pallido e dai tratti rigidi e severi, incorniciato da lunghi e lisci capelli biondi che gli ricadevano spalle. Una lingua velenosa come quella di un serpente era sigillata in quelle sue labbra sanguigne. 
- Sul serio tu mi vedi? - ho detto, accigliandomi. Stavo morendo di paura, morendo un’altra volta e l’unica cosa che ero riuscito a chiedergli era stata se mi vedesse sul serio, come se fossi stato sollevato dal fatto che almeno per qualcuno non ero del tutto invisibile. Che fottutissimo morto idiota e imbecille che ero.
La sua risata stridula ha riempito l’aria. - Dici sul serio, Frank? Non mi riconosci? - e con un gesto teatrale ha aperto le braccia, attirando l’attenzione su se stesso, sorpreso dalla mia assenza di ricordi. 
- Sei un morto pure tu? -  gli ho chiesto, con ancora un'espressione perplessa stampata sul volto.  
Sospirando mi è venuto incontro e avvolgendomi le spalle con il suo braccio grande quanto una mia gamba, ha iniziato a portarmi indietro da dove ero venuto. - Andiamo a sederci, piccolo Frankie - ha detto, evidenziando le ultime due parole con un terribile pizzicotto sulla guancia e una voce così odiosa da ricordarmi zii che probabilmente non avevo nemmeno mai avuto. 
Abbiamo camminando a lungo e ho odiato così tanto la falsità con cui mi teneva stretto che avrei potuto morire una terza, una quarta e una quinta volta. 
- Non dovevamo sederci?
- Oh, sei morto, Frank! È questo il bello dell’essere fantasmi senz’anima. Tu non puoi stancarti, piccoletto. 
Ho alzato il suo braccio pesante dalla mia spalla con due mani e ho fatto qualche passo avanti, per evitare il contatto. - Vorrei chiarire un paio di cose, mio carissimo ‘Guardatequantosonofigo’ - ho detto, voltandomi per guardarlo. - Primo, sarai anche enorme - e l’ho squadrato per un attimo, ottenendo una triste conferma - ma non ti do il diritto di chiamarmi piccoletto. Secondo, sarò anche morto, ma io mi sento stanco morto lo stesso e terzo… chi ti dice che io non abbia un’anima? Il mio cuore batte e le mie ginocchia sanguinano - ho indicato lo strappo dei pantaloni sul ginocchio ancora macchiato di sangue per la vergognosa ’scalata’ della notte scorsa. - Devo avere un’anima, da qualche parte. 
- Sei sempre il solito sbruffone eh, piccolo Frank? Anche da morto! - e ha riso di nuovo, facendo sbattere quell’eco contro le mie tempie più volte. Appoggiando di nuovo il suo braccio sulle miei spalle, come se non avessi detto nulla. Poi, mi ha portato a sedere sul mio caro vecchio marciapiede. I vampiri avevano le loro bare in cui ritirarsi al tramonto, io avevo il mio fottuto marciapiede. 
- Primo, io resto un tuo superiore anche se sei morto. - il suo tono non sembrava più cordiale. - Secondo,  - ha continuato strattonandomi la spalle - sei stanco solo perché sei un cazzo di sfaticato anche ora che sei schiattato e terzo… tu una cazzo di anima non ce l’hai perché - e si è avvicinato al mio collo, mostrandomi la sua lingua aguzza - io quell’anima te l’ho fottutamente succhiata via.  

 

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Capitolo 3
*** Save me from my self destruction. ***


Buongiorno! Premetto che non sono molto soddisfatta
di ciò che scrivo ultimamente e non riguarda solo
Asleep or Dead, ma un po' tutto.
Spero comunque che questo capitolo vi piaccia e che vi faccia capire
qualcosa in più su ciò che è stato Frank in passato,
e forse anche qualcosa in più sul passato del nostro timidissimo Gee.
Troverete notizie in più al fondo! Buona lettura,
SD. 

3.
 
SAVE ME FROM MY SELF DESTRUCTION. 
 
I’ll be waiting.
I’m not laughing.
You’re not joking.
I’m not dead I only dress that way.
I know it, take me out there far away 
and 
save me from my self destruction, 
hopeless for ya,
sing a song for California.
Wherever you are, wherever you are, whoever you are.
 



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'You'll get better'. 

 



‘Ehi ehi, piccolo Frank, ti sei davvero dimenticato tutto? Ti abbiamo portato via anche i ricordi? - i suoi denti aguzzi spuntavano dalle sue labbra rosso sangue. - Ah, mi son dimenticato di dirti che… la tua anima era deliziosa. - Si è passato una lingua sui suoi denti appuntiti. - Non pensavo fossi così sentimentale! - Ha aggiunto, scoppiando in una risata maligna. 
- Hai… hai mangiato la mia anima? - gli ho chiesto, con occhi pallidi inchiodati al suolo. - Chi diavolo sei? - ero quasi senza voce e la poca che avevo era tremolante e senza vita. 
- Ti sei dimenticato dei tuoi cari fratellini, Frankie? Oh, lascia che ti rinfreschi la memoria allora, giusto per lasciare che la tua punizione sia ancora più… piacevole. - Ha detto guardandomi negli occhi. - Giusto per lasciare che la tua catena di rimpianti si allunghi ancora un po’. Così potrai attirare l’attenzione del tuo carissimo amichetto, svegliandolo alle tre di notte con i tuoi rumori da fantasma. Ci pensi? Magari per lo spavento ti viene a fare compagnia, così sì che potrete stare insieme… per l’eternità. -  Un’altra risata invisibile aveva riempito il mio silenzio, divorandomi lo stomaco con una sola fiammata. 
- Smettila, quel ragazzo… non ti riguarda - ho detto a mezza voce, scrollandomi il suo braccio pesante tre volte il mio corpo dalla mia piccola spalla da fantasma. 
Ha sorriso, giungendo le mani e spostando lo sguardo sulla casa che avevamo di fronte. - Questo è stato sempre il tuo marciapiede preferito, eh? Anche da morto non ti alzi mai da qui. 
- Cosa vuoi dire?
- La tua vita da vivo, mio caro Frankie, diciamo che… non era esattamente una favola. 
- Pff, come se questo già non lo immaginassi, grazie. 
- E non è per via della tua altezza o della tua eterna aria da sfigato, anzi! - ha detto dandomi una pacca sulla spalla che avrebbe potuto uccidermi un’altra volta.  
- Sei davvero confortante, ‘Chiunquetusia’, sai?
Un’altra risata massiccia e crudele ha riempito l’aria per qualche istante. 
- Diciamo che per quasi tutto il giorno rimanevi steso su questo marciapiede ubriaco fradicio, con qualche siringa ancora infilata nel braccio. 
Alla visione di quel me stesso, mezzo morto e terribilmente autodistruttivo mi sono sentivo rabbrividire. La mia vita faceva schifo sul serio, e forse faceva ancora più schifo di questa mia morte. 
- E io cosa cazzo centro con te, eh?
- Vuoi davvero che ti racconti della vita che hai dimenticato, Frank? Non si sta forse meglio senza ricordi? 
Senza ricordi. Li volevo davvero indietro? Volevo davvero ricordare di quei giorni passati sul bordo di questo marciapiede ad implorare quella siringa di andare un po’ più a fondo, per farla andare un po’ più a fondo nel dolore e anestetizzarlo? Farmi dimenticare di essere lì, di respirare, farmi dimenticare la poca vita che avevo o che non avevo mai avuto. 
- , li rivoglio. 
- Non spetta a me raccontarti ogni cosa, Frank, il resto spetterà soltanto a te.  
- Dimmi tutto quello che puoi. 
- La morte non ti ha portato via il coraggio, a quanto vedo - ha detto quasi a se stesso, prendendo una sigaretta dal pacchetto che aveva nelle tasche e accendendola lentamente, lasciando a me il tempo di osservare i suoi lineamenti duri e freddi come quelli di un vampiro. 
- …Cosa sei? - gli ho chiesto, con parole che mi erano sfuggite di bocca e che non ero riuscito a controllare. 
Ha espirato, lasciato che una nuvoletta di fumo restasse sospesa per aria. - Esattamente ciò che eri tu una volta. - Con lo sguardo ha osservato la nuvola dissolversi, come ricordi dopo una sbronza. - Un maledetto, uno scarto di Dio, qualcosa che né i cieli e né l’inferno hanno voluto. Siamo quelli nati nel momento sbagliato, nati nel giorno in cui è la morte a regnare sovrana. Frank, che giorno era quando sei nato?
- Se me lo ricordassi farebbe la differenza?
- Dannazione, sì! Sei nato il giorno di Halloween, piccolo Frankie, esattamente come me e come il resto dei tuoi fratelli, chiamati 'Evil’s children' da tutte quelle leggende popolari che ci raccontano come mostri senz’anima che il giorno di Halloween si aggirano per le strade succhiando via le anime dei passanti. 
- E invece cosa siete?
Ha riso a lungo, con noncuranza. - Devi sapere, mio caro morto che la gran parte delle leggende… sono vere. - Ho visto la sua lingua appuntita passare sui suoi denti aguzzi. - Peccato per quel dettaglio importante però. Credono che solo perché siamo mostri senz’anima non abbiamo buon gusto. Non mangiamo mica l’anima del primo che passa! 
- Ah, no? - ho detto, cercando di sembrare ironico. 
- Soltanto le anime interessanti - ha detto, passandomi sotto il mento le sue dita dalle unghia lunghe e taglienti. 
- E la mia cosa centrava? Non ero uno di voi? -  a quel punto, mi sono alzato in piedi, in preda all’ira. Mi avevano portato via la vita, una vita di merda, certo, ma quel ragazzo, in qualche modo doveva avermela resa migliore e loro me l’avevano strappato. 
- Tu sei soltanto uno che ha disubbidito, li hai traditi i tuoi fratelli, piccolo Frankie e, anche se non sei mai stato un nostro simpatizzante, devo ammetterlo, ora ne paghi comunque le conseguenze.
Ho sorriso, per non esplodere in urla che avrebbero fatto tremare tutto il mio corpo morto. - Io non ero un mostro come voi! E per ripagarmi mi avete ridotto… così?! Cos’ho fatto di così grave da meritarmi quest’agonia senza ricordi? Perché non mi avete fatto semplicemente morire? - ho urlato così forte che ho sentito il fiato mancarmi. Tanto, chi mi avrebbe mai sentito? Chi mi avrebbe mai soccorso?
- Perché sei un dannato, Frank! E i dannati non muoiono, cosa ci può essere di meglio? - si è alzato, allargando di nuovo le braccia in gesto teatrale. - Cosa c’è di meglio di non ricordare quello schifo di vita umana che hanno tutti? Gente la darebbe di sua volontà la propria anima per smettere di avere le immagini del passato a tormentargli il cervello - e alla parola cervello si è indicato la testa, buttandomi quella scena e quelle parole dritte nello stomaco. A un millimetro dal mio viso, mi ha soffiato il fumo della sigaretta negli occhi. - Alcuni la darebbero la loro anima per non ricordare il loro passato. Guarda il lato positivo, pulce. Ora non sentirai più il bisogno di ubriacarti o di farti fino a crepare per dimenticarti di quei tuoi cazzo di genitori che ti hanno buttando in un fottutissimo cassonetto quando avevi soltanto pochi giorni perché eri nato in un fottutissimo giorno sbagliato! - mi ha urlato in faccia, puntandomi un dito contro. I miei passi andavano indietro, la mente, quella forse, nemmeno ce l’avevo più. 
I miei genitori. Anche loro mi avevano buttato via, come probabilmente lo aveva fatto anche il resto del mondo. Buttato in un cassonetto, come l’ultimo dei rifiuti, come gli avanzi di una cena, come un pupazzo con le batterie scariche, come un paio di calzini  vecchi e strappati da un cane.
Mamma, papà, non mi avete mai amato, ma non ve ne faccio una colpa. Chi avrebbe mai potuto amarmi, d’altronde? Chi sarebbe mai stato così stupido da prendersi cura di me, anche solo per dare il tempo al mio carattere di prendere forma, ai lineamenti del mio viso di diventare meno morbidi, ai miei occhi di cambiare colore insieme al tempo fuori dalla finestra.
Mamma, papà, io vi avrei potuto amare, come avrei potuto amare un sacco di cose se solo poi me lo aveste permesso. E invece sono nato e cresciuto tra questi rifiuti, tra i rifiuti di una società che non accetta tutto ciò che è diverso. Sono un rifiuto, anche adesso che sono morto. E non sapevo cosa significasse amare, né prima né ora.
Grazie mamma, papà, per avermi tolto la seccatura di sentire la mancanza di qualcosa, se non l’hai mai conosciuta non ne sentirai la mancanza, no? Non ho mai conosciuto l’amore, ma ne sento la mancanza come un sub sente la mancanza d’ossigeno. Sento la mancanza di una vita. La vita che devo aver avuto da qualche parte, ad un certo punto. Se ne sento la mancanza, vuol dire che l’ho avuta. E se sento la mancanza di quel ragazzo dagli occhi tristi, vuol dire che in qualche modo, a modo suo o a modo mio, ha fatto parte della mia vecchia vita ed ora della mia nuova morte. 
Sconvolto ho cercato di nuovo di sedermi, ma sono inciampato e sono finito a gattoni per terra. L’asfalto sapeva ancora di pioggia, e del mio vestito da fantasma finito chissà dove. Le caramelle ancora nelle tasche e quel biglietto… quel biglietto che non avevo più il coraggio di aprire, ancora sul fondo di quelle tasche in cui non mettevo più mani. 
La mente mi era tornata di nuovo bianca. ‘No, ti prego, non ora’, ho pensato, ma era già troppo tardi, perché i pensieri non erano più miei. Le immagini erano tornate a ruotare e ad essere come al solito sbiadite e prive di contorni. 
- Ehi, ehi, tutto bene? - ho sentito una mano prendermi a schiaffi per svegliarmi. - Sei vivo? - ho visto i miei occhi aprirsi e quegli occhi tristi erano di nuovo di fronte a me. Occhi tristi e scuri questa volta, come se anche gli occhi potessero avere i loro temporali e loro giornate buie. 
Mi sono visto mentre scuotevo la testa e lo guardavo come se non fosse lì. - I-io? - mi son sentito dire. - Lasciami stare - ho cercato di liberarmi dalla sua presa che mi teneva seduto, ma le sue mani mi tenevano stretto ed io ero troppo debole. 
- No, non ti lascio stare. Stai perdendo sangue e il tuo braccio è messo male. Forza, tirati su. - Ho sentito le sue piccole braccia alzarmi da quel marciapiede su cui ero marcito per anni, su cui mi ero gettato, come spazzatura non riciclata. Teneva il mio piccolo corpo tra le sue braccia, mi portava via, in salvo, lontano da me stesso e dalla mia autodistruzione. Mi stava salvando, come mai nessuno aveva voluto fare. Chi voleva prendersi cura di uno come me? Lui, il ragazzo dagli occhi tristi aveva voluto farlo.
Ho visto i miei occhi cercare i suoi, in quella scena sfocata. E ho visto i suoi piccoli denti sorridermi, cercando di tenermi sveglio. I suoi capelli neri erano scompigliati anche quella volta e avrei voluto aggrapparmici come se fossero stati corde che avrebbero potuto tirarmi fuori dal pozzo nero in cui ero finito.
Salvami da questa mia orribile autodistruzione, blocca il meccanismo con cui continuo a farmi del male, portami via lontano da qui, corri via insieme a me, curami le ferite, fammi curare le tue, andiamo via, mettiamo le ali, impariamo a correre, stringiamoci il cuore al petto, teniamocelo con le mani per non farlo rotolare a terra, risolleviamoci da questi marciapiedi e buttiamo via lamette e ansiolitici. Questi erano i pensieri miei, presenti e non passati, non appartenevano a quella visione e mi son sentito lo stomaco stringersi piano. Mentre le braccia di Gee mi portavano via, ho visto il mio braccio perdere sangue dalla scritta ‘tanti auguri a me’. Non era una scritta, ma tanti tagli che messi uno dietro l’altro formavano parole. Parole dalle quali veniva fuori sangue e dolore, e tutta la vita che mi era stata rubata e poi bruciata. Ho visto la mia testa ciondolare e poi abbandonarsi sulla sua spalla. - Grazie - ho sussurrato, non volevo neppure che lo sentisse, volevo solo che fosse sincero e volevo soprattutto sentirlo io, volevo sentirmelo dire per la prima volta.
- Starai meglio - mi ha risposto, guardandomi con occhi di chi capisce davvero cosa stai provando. Con occhi che avevano mani e che mi stavano tirando su. Occhi pieni di dolore, di battaglie perse, ma anche pieni di battaglie vinte, a stento, ma vinte
Ho visto ancora il verde cupo del suo sguardo e i suoi piccoli denti e poi ho sentito i miei occhi chiudersi e la scena diventare di nuovo bianca. Piano ritornavo alla realtà. Vi prego, fatemi ritornare lì. Vi do un’altra anima, se proprio ci tenete. 
I miei occhi non si erano mai chiusi e quando la mia mente era tornata alla realtà ero steso sull’asfalto ancora umido della strada con le mani in grembo e lo sguardo fisso nel cielo, come se mi fossi appena fatto un’altra volta. - Merda - ho sussurrato, trasognante. 
- Bentornato. - Le mani ossute di quel mostro mi sbattevano un pugno leggero contro la fronte. - Toc toc, siamo tornati in casa? C’è nessuno?
- Simpatico - ho detto a mezza voce, cercando di tirarmi su. 
- Sono flash quelli che ti mandano in trans all’improvviso o semplicemente sei uno schizofrenico senza speranze?
- Schizofrenico senza speranze.
- Dai, tirati su - ha detto, offrendomi una mano. 
- No, grazie. Sai, in genero non accetto aiuto da chi mi ha ucciso. 
- Oh, suvvia, non vorrai portare rancori. 
- Non so il tuo nome, ma vaffanculo lo stesso. 
- Michael, piacere. Tu, però, piccolo Frankie, puoi chiamarmi Mikey, siamo amici, ormai, no? - e senza chiedere il mio permesso, mi ha preso per una spalla e mi ha tirato su. - Tanto un’altra anima non te la posso portare via, stai tranquillo. - Ha aggiunto, accompagnandosi con una risata malefica. 
 
  
Buondì! E' la prima volta che scrivo in prima persona. dietro Selfdestruction c'è qualcuno di reale, udite udite! Non so a chi mi sto rivolgendo, forse a quelle pochissime (e amatissssime dalla sottroscritta, vi assicuro) personcine carine che hanno deciso di seguire questa storia un po' strana, una storia che sinceramente stento a capire anche io. 
Credo l'abbiate capito, ormai. Son riuscita a infilare anche un Mikey nella storia! Ed è un Mikey un po' diverso da come lo ricordate. E' più robusto del normale e ha capelli molto lunghi, spero non mi lincìate per questo, Ho stravolto un po' le cose, e stavolta è Gerard a tirare su da quel marciapiede Frank, non il contrario.  abbiate pietà di me. *si nasconde* 
Spero di non deludere le aspettative di chi sta continuando a leggere questi capitoli, spero stiate già capendo qualcosa, anche perché come ho detto prima, io ho paura di non riuscire a capirci tutto fino in fondo. L'ho pensata complicata! 
Comunque, detto questo, sparisco e vi prometto a breve (anche se nessuno me l'ha chiesto lol) un altro capitolo. 

Grazie, proprio a te che stai leggendo, in qualunque parte tu sia.
Alla prossima,
baci,
SD. 

 
 
 
 
 
    
 
 
 

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Capitolo 4
*** Taking every piece as you walk. ***


Buondì! Mi piace dire buondì anche se sono le due e mezza di notte.
Mette... di buon umore!
Questa stramba autrice ha deciso di cambiare il titolo alla sua stramba
storia, già. 
Ho detto addio ad Asleep or Dead e ho dato il benvenuto a 
This Must Be An Empty Dream, *applausi*. Asleep or Dead non mi
suonava un granché bene come titolo di una storia e poi mi faceva ritornare
alle orecchie Famous Last Words ogni volta, ed è una cosa tragica
se ogni volta poi scoppio a piangere. *va un attimo a piangere in bagno*
Detto questo, spero di essere riuscita a schiarirvi un po' le idee con 
questo capitolo. Recensite se volete, così capisco cosa ne pensate.
Ora, a te che stai leggendo devo dire che: TI VOGLIO UN GRAN BENE E 
TI PORTERO' A BREVE UNA VASCHETTA DI GELATO! 
Spero di aggiornare presto, 
un bacio, 
SD.
 

4.

TAKING EVERY PIECE AS YOU WALK.



 You don’t know a thing about this life

And we are up for everything it takes
To prove we’re not the same as them
And we will wear our masks
Again out after dark
‘Cause we are up for everything it takes
 
And we are not the same
‘Cause we are not afraid
And we are not ashamed
 
And if you save my life
I’ll be the one who drives you home tonight
And if they ever let you down
I’ll be the one who drives you home tonight

And you don’t know a thing about this life
And you don’t know a thing about this life
And you don’t know a thing about this life
‘Cause you don’t know a thing about me
You don’t know a thing



 

- Tu dovresti lasciarmi stare! - mi sono divincolato dalla sua stretta e per poco non cadevo di nuovo a terra. La mia mente era ubriaca, stentava a reagire, a ragionare, a unire quei pensieri che non seguivano un filo logico. Stavo cercando di capire cos’era successo, ma davanti a me soltanto gli occhi di quel ragazzo triste continuavano a lampeggiare come fanali. 
Starai meglio. Doveva esserci riuscito a tirarmi su dal fondo di quel pozzo. Ricordavo il mio secondo flash, quello in cui la primavera mi riempiva gli occhi di amore e non più di amarezza. Stavo meglio, lì. E lui con me. Ci siamo raccolti a vicenda dai marciapiedi di questa città, ci siamo tirati fuori insieme dalla merda in cui eravamo immersi. Da quel mio ultimo flash fino a quella primavera erano passati due anni, quei flash non erano neppure in ordine cronologico. 
In pratica, mettendo insieme le poche cose di cui ero certo, io ero morto a causa di quel Michael che mi aveva strappato l’anima perché avevo disubbidito alla loro strana setta di maledetti di cui facevo parte perché ero nato la notte di Halloween. Ero stato un figlio del male. Ma, avevo fatto male? Anche io andavo in giro la notte di Halloween a succhiare via l’anima dei passanti che erano un po’ più interessanti? 
Tu sei soltanto uno che ha disubbidito, li hai traditi i tuoi fratelli, piccolo Frankie, anche se non sei mai stato un nostro simpatizzante, devo ammetterlo, ora ne paghi comunque le conseguenze.
Non ero stato un loro ‘simpatizzante’, dunque non amavo la loro compagnia e di certo devo aver odiato fare del male alla gente. Rabbrividivo al pensiero di far male a qualcuno da morto, figuriamoci da vivo. Chi ha sofferto conosce il peso del dolore e non cerca vendetta, ma solo di riparare al male causato da tutti gli altri ed io dovevo aver sofferto molto durante i miei piccoli vent‘anni.
Ho guardato Michael con aria indignata e con uno sguardo che aveva scritto sopra a caratteri cubitali VA’ VIA. Lo volevo lontano da me, volevo restare di nuovo solo, di nuovo e ancora di nuovo. I miei genitori mi avevano abbandonato in un cassonetto la notte di Halloween perché ero un maledetto e la mia vita era stata un contino passare dall’alcool alla droga, dalla siringa alla canna della bottiglia, dal marciapiede, all’asfalto. La mia era stata una vita di merda, gente. Ed è questo il destino delle persone buone d’altronde. Non si può pretendere di fare del bene e riceverne in cambio. Fare del bene e pretendere che tutti gli altri seguano il tuo esempio. Fare del bene e avere una vita serena. Fai il buono della situazione e la tua vita sarà una bellissima e completa… merda. È il principio dello scambio equivalente. Devo averlo sentito da qualche parte nella mia vita passata. Quella vita che volevo dannatamente riprendermi. 
Ho voltato le spalle al mostro dai capelli da vampiro e me ne sono andato, dove ancora non lo sapevo. Volevo solo andar via. Ho sentito le mie gambe accelerare mentre nuovi tuoni annunciavano un altro temporale, come quello della notte scorsa. Mi sono sentito quasi correre, lontano dalla mia vita di cui non ricordavo nulla. 
- Non puoi correre per sempre, Frank! - la sua voce era ormai lontana, ma la sentivo bene. Mi sbatteva contro le tempie nello stesso modo in cui lo stava iniziando a fare la pioggia. 
- Lui non si ricorda di te! - non doveva essersi mosso dal posto in cui era e non doveva nemmeno aver provato a rincorrermi, perché più mi allontanavo e più la sua voce era distante. Quelle parole però erano state lame che mi avevano infilzato lo stomaco, lo avevano afferrato e tirato fuori dal mio corpo, con violenza. Lui non si ricorda di te. Sapeva dove stavo andando prima ancora che me ne rendessi conto io stesso. Lui non si ricordava di me, lui non poteva vedere il mio volto, i miei occhi che lo imploravano di voltarsi un attimo, un solo attimo. Perché in quell’attimo avremmo potuto, entrambi, ricordare poi ogni cosa. Ero stanco di vedere la mia vita come spezzoni di un film, la mia vita a flash contorti, distorti e sfocati e se solo lui non fosse stato cieco, se solo Dio gli avesse permesso di vedere per un istante soltanto, avrei riavuto i miei ricordi, ne ero sicuro, avrei riavuto almeno il ricordo della mia vita e lui avrebbe riavuto la sua. 
A quel punto ho iniziato a correre, sotto la pioggia insistente, e sono andato a ripararmi in un vicolo stretto e buio, lontano dalle luci del lampi e lontano dalla casa del ragazzo degli occhi tristi. Non so perché non sono più andato da lui, quella sera. Forse perché lo credevo inutile. Rimanere a fissarlo per ore senza che lui potesse guardarmi. La trovavo una cosa invadente, non era giusto. Pensavo quanto vigliacco dovesse essere osservare qualcuno senza che lo sapesse mentre già meditavo di saltare in camera sua dalla sua finestra il giorno dopo. Davvero bravo Frank, i tuoi sensi di colpa da morto durano davvero molto. 
Mi sono rannicchiato a terra, stringendomi le gambe al petto e abbandonando la testa sulle ginocchia. La pioggia mi pioveva di nuovo sugli occhi. Almeno a lei piacevo, almeno lei non mi escludeva soltanto perché ero nato sbagliato. 
Sono stato lì, raggomitolato come un gatto, avvolto su me stesso come un riccio, ascoltando soltanto le gocce di pioggia sbattere sui cassonetti dell’immondizia e sull’asfalto. Quei cassonetti dove devo esserci stato anche io vent’anni fa. Chissà per quanto tempo dovevo essere stato lì dentro, a piangere istericamente come solo un bimbo appena messo al mondo può fare. Urlare fino a farmi mancare fiato e lacrime, senza ossigeno e senza luce. Quella era una cosa da morti, era da persone morte buttare un figlio nell’immondizia come spazzatura, come avanzi di una cena. Era una cosa da persone morte dentro. Non da persone vive. Chissà chi doveva avermi tirato fuori da lì, chi mi aveva cresciuto per tutta la mia infanzia e la mia adolescenza, come mi ero ritrovato a fare del marciapiede la mia casa e di una siringa nel braccio il mio sollievo.
La notte era passata lentamente ed io non avevo bisogno di dormire, sebbene mi sentissi stanco morto. Forse aveva ragione Michael, ero soltanto un fottutissimo sfaticato anche ora. 
I primi raggi di sole spuntavano dalle nuvole tornate bianche e ho sollevato piano la testa, socchiudendo gli occhi a causa della luce. Stavo diventando un vampiro, certo. Un dannato lo ero, mi mancavano solo i denti aguzzi e la sete di sangue. Del resto, l’eternità ce l’avevo. 
Non ricordo nemmeno per quanto tempo sono rimasto in quella posizione, immobile come soltanto un morto poteva stare. Il tempo mi passava attorno e quel piccolo vicolo buio era lontano da tutto il resto del mondo. Io ero lontano da tutto il resto del mondo. Appollottolato come un gomitolo, rimanevo a terra, mentre il sole si alzava in alto nel cielo, a mezzogiorno, mentre scaldava l’asfalto con il suo calore delle tre del pomeriggio e poi mentre spariva di nuovo dietro le montagne, ad ovest. Non so quanti giorni sono passati in questo modo, in agonia. Ad osservare continuamente gli stessi movimenti del sole. Basso all’alba, nel punto più alto a mezzogiorno, nel punto più caldo al pomeriggio e poi di nuovo basso al tramonto. Ed io mi sentivo come quel sole dell’alba e del tramonto. Basso. Aspettate, non credete sia autoironia. Non che io mi sentissi basso d’altezza, sebbene lo fossi. Ero basso perché non riuscivo ad alzarmi, al contrario di quel sole che il coraggio di tirarsi su lo trovava, ogni mattina. Era come se volessi morire un’altra volta, non trovavo motivazioni per continuare a vagare da bravo fantasma per le strade. Io e quel ragazzo dagli occhi tristi sapevamo cosa fare dell’eternità che sognavamo, insieme, ma di questa eternità, in cui ero solo e distrutto, cosa potevo farci?
Ho osservato il sole fare il suo solito giro giornaliero per non so quante volte. Due, tre, quattro, poi cinque, dieci. Ero morto e pure depresso. Morto, depresso e bagnato fradicio. 
Dai, conta le pecorelle, piccolo Frankie. Ho immaginato la voce di quel Michael accanto a me e sono rabbrividito al solo pensiero. Dovevano essere passate due o tre settimane, forse e nessuno si era fatto vedere. Ma chi avrebbe dovuto? Erano settimane intere che ero immobilizzato a terra, a stringermi le ginocchia come per proteggermi, perché sentivo che non c’era più nessuno a farlo, esattamente come nessuno c’era stato durante la mia vita, fino a quando quel ragazzo non mi aveva tirato su con le sue braccia esili, deboli, ma forti come gru. Ho stiracchiato le gambe, anche se non ne sentivo realmente bisogno e ho strizzato il lembo della maglietta. Ho messo le mani in tasca distrattamente, come un gesto automatico, dimenticandomi dei cioccolatini che erano ancora lì, come quella notte di Halloween in cui ero morto da maledetto e traditore. Li ho tirati fuori, tenendoli stretti nel pugno per non farli cadere a terra e poi li ho buttati a terra uno per uno, fino a quando in mano non mi è rimasto soltanto un bigliettino. Quel bigliettino che non avevo il coraggio di aprire. G. L’avevo trovata la mia G. solo che aveva lineamenti maschili e occhi belli da far star male. Di un colore così particolare, a momenti con sfumature olivastre e altri gialle. E capelli che sembrano essere disegnati apposta attorno al suo viso, in disordine, come i miei pensieri. La mia G. un po’ uomo mi amava ed io, dannazione, non lo ricordavo. Avevo soltanto poche sensazioni rimaste a farmi compagnia. 
Ho stretto il bigliettino nel pugno e mi sono alzato da quel fottuto angolino in cui avrei potuto morire ancora e ho ripreso in mano il coraggio. Volevo i miei ricordi? Volevo sapere dov’era finita la mia anima? Che cazzo stai a fare ancora immobile, allora? Riprenditelo quel tutto che ti hanno portato via. 
Il sole era alto nel cielo e asciugava i miei vestiti, mentre io iniziavo a camminare di nuovo verso la casa in fondo alla strada. Mi sono stropicciato gli occhi e mi sono sentito sorridere. Cosa ridi a fare, piccolo Frank? Li avrei fottuti di nuovo, quei bastardi. L’avrei ritrovata la mia anima e me la sarei ripresa e mi sarei ripreso quegli occhi tristi di quel ragazzo che, lo sapevo, lo sentivo, erano i miei. 
La casa sembrava vuota e di giorno sembrava essere ancora più alta. Con goffaggine ho iniziato ad arrampicarmici di nuovo, stando attendo ad infilare bene i piedi nelle fessure lasciate dai mattoni. Con la mano ho stretto il bordo del davanzale e mi sono tirato su con la forza delle braccia. Per mia fortuna la finestra la lasciava sempre aperta. Con i gomiti mi sono appoggiato sulla lastra di pietra e con le gambe mi sono aiutato a scavalcare il davanzale e ad entrare dentro la stanza. Solo che l’atterraggio non era andato come previsto e sono ruzzolato a terra, facendo non ricordo quante capriole su me stesso. Almeno non ero caduto centinaia di volte come la notte di chissà quante settimane fa. 
- Sono un idiota - mi sono detto, stirandomi i vestiti con le mani e passandomele poi tra i capelli, per sistemarli. 
Poi, mi sono guardato attorno. In qualche settimana quante cose possono cambiare nella vita di una persona? Quella stanza non era più la stessa e per un momento ho pensato di aver sbagliato casa. La scritta nera e grande era ancora lì, ma accanto ad essa se ne erano aggiunte altre, tante, troppe, forse. Migliaia di scritte tappezzavano le pareti e chiunque, morto o vivo, sarebbe rabbrividito vedendo quella disperazione scritta su solo quattro mura. 
Con mani tremanti e insicure aveva scarabocchiato ogni spazio libero con parole scritte male e di fretta. Mi sono avvicinato alle pareti, cercando di distinguere qualche frase. 
Un ‘Dov’è?’ era scritto in grande e in grassetto, seguito da mille altri ‘Dov’è?’ e da centinaia di ‘L’hai visto?’ ‘Cos’è l’eternità?’ ‘Lo sai che sono morto?’ ‘L’ho perso?’ ‘Cos’ho perso?’ ‘Chi sei?’ ‘Perché?’. E poi scarabocchi ovunque, come se si fosse divertito a consumare l’intero inchiostro del pennarello per sfogare la sua rabbia, oppure il suo vuoto, che a quanto vedevo, doveva essere immenso. 
Mi sono guardato attorno, non credendo ai miei occhi, a metà tra lo shock e l’incredulità. Cos’era successo nel tempo in cui ero restato a marcire in quel piccolo vicolo? I vestiti erano tutti a terra. Tazze di caffè rovesciante erano sulla scrivania, tappezzata di bigliettini su cui le stesse scritte comparivano ancora. Ho mosso alcuni passi nella stanza, quasi a non fare rumore, con cautela, avvicinandomi alla scrivania. Ho scostato quella miriade di fogli carichi di pazzia, li ho spostati, macchiandoli del caffè che era caduto non troppo tempo fa. C’erano anche disegni, lì. Persone ritratte soltanto di schiena, mai frontalmente, crepuscoli e alberi alti quanto palazzi. Cos’era successo a quel ragazzo dagli occhi tristi? E dov’era, ora? 
Un disegno aveva catturato la mia attenzione. Gee aveva disegnato un uomo rannicchiato su se stesso di cui ovviamente non si vedeva il volto. Le sue ali spezzate gli spuntavano dalla schiena curva e cosparsa di sangue. Quell’angelo era senza braccia e senza gambe e giaceva in un pozza di sangue. Ho lasciato cadere il foglio sulla scrivania, ancora shoccato. 
Ho continuato ancora a rovistare tra le sue cose, non per curiosità, ma soltanto con l’unico scopo di trovare un motivo per salvarlo, trovare qualcosa che mi aiutasse a salvarlo. 
Sotto la sedia della sua scrivania, c’era un diario nero, chiuso bene dall’elastico che lo stringeva. L’ho afferrato e prima di aprirlo ho sentito qualche senso di colpa farsi spazio nello stomaco. Questo non era giusto. Andava forse bene guardare i suoi disegni, guardare la sua pazzia in quelle frasi scritte frettolosamente, su post-it e pareti, ma un diario... Ho stretto tra le mani il diario nero e sono andato a sedermi sul pavimento, vicino la finestra, ancora combattuto. Aprirlo o non aprirlo? Questo era il dilemma. 
Al diavolo, voglio solo aiutarlo. E forse me l’ero detto soltanto per giustificarmi un po’. 
Ho tolto l’elastico che lo teneva chiuso e ho aperto la prima pagina. 
Bianca. 
Le seguenti erano state strappate, con violenza. Non erano rimasti soltanto i bordi, come quando chiunque strappa un foglio da un quaderno, ma mezze pagine. Come se la rabbia avesse reso ciechi i suoi occhi anche quella volta. 
Dopo metà diario fatto di pagine strappate, una scrittura piccola e familiare mi ha riempito gli occhi. La riconoscevo, conoscevo quella scrittura. Ho sfiorato la pagina con la punta delle dita e qualcosa, lo giuro, si è mosso dentro di me, insieme ai battiti di un cuore che doveva essere morto, ma che invece viveva e continuava a pulsare soltanto quando incontravo lo sguardo di quel ragazzo triste o soltanto quando qualcosa di familiare mi si ripresentava davanti agli occhi. Erano questi i pezzi della mia anima che stavo ritrovando?
 
- - - - 
 
Diario di Gerard. 
 
 
-  10 novembre. 
 
Pff, perché dovrei tenere un diario? Scrivere non serve a un cazzo, non quando hai questo cazzo di vuoto dentro. 
 
 
 
- 11 novembre.
 
Ciao, si inizia con un ciao quando si scrive su un diario? Ancora non ci credo di averlo ripreso in mano. E non so perché io stia scrivendo. Fanculo, magari la pagina la stacco, ciao. 
 
 
 
- 12 novembre.
 
…ho bisogno di sfogarmi, e non con la mia psichiatra che mi dice di scrivere un diario, non con un dannatissimo pezzo di carta. Ho bisogno di qualcuno, qualcuno che non so se possa esistere, se è esistito o esisterà mai. Qualcuno che sento di avere vicino ma che non trovo. E avere qualcuno vicino e non poterlo toccare è massacrante, diario. Ciao. 
 
 
 
- 12 novembre, sera.
 
Quella strizza cervelli mi ha ripetuto di nuovo quanto importante sia scrivere su un diario e bla bla bla. Lei e le sue fottutissime stronzate. Dottoressa, guarda come ti scrivo bene la parola VAFFANCULO. Hai ragione, scrivere aiuta. Ora che ti ho mandato a fanculo mi sento meglio.
 
 
 
- 13 novembre. 
 
VAFFANCULO, VUOTO.
 
 
 
- 14 novembre.
 
VAFFANCULO, RABBIA. 
 
 
 
- 15 novembre.
 
Vaffanculo, Gerard. 
 
 
 
- 16 novembre. 
 
Sì, ho una psichiatra, una di quelle con gli occhiali rossi che finiscono a punta e che continua a scrivere su quel suo stramaledettissimo taccuino stupido. Sono incazzato, incazzassimo. Non sono pazzo, ho solo qualcosa che mi manca. Non sono pazzo, tendo solo al suicidio. Grazie, rabbia, grazie per avermi dato la forza di scrivere.  
 
 
 
- 17 novembre.
 
Magari qualcosa di serio lo scrivo, magari. Magari domani. Magari mai. 
 
 
 
- 18 novembre.
 
Mi hanno mandato da una psichiatra perché quando mi svegliavo rimanevo quasi un’ora a fissare il vuoto, con lo sguardo di chi non esiste o non è mai esistito. Restavo fuori dal mondo per ore intere, agli occhi degli altri interminabili, per me inesistenti. Credono sia pazzo perché continuo a ripetere a chiunque se ha visto una persona che non conosco. Sì, vado dalla gente a dire ’scusa tu lo conosci, hai visto quello che… si chiama… non lo so, non mi ricordo com’è fatto… no non so di che colore ha i capelli… no, non lo conosco in verità…’. 
L’ho scritto su ogni angolo libero dei muri di camera mia, ho le pareti tappezzate da scritte come ‘Hai visto…?’ ‘Dov’è…?’. A quel punto i miei genitori hanno chiamato una psichiatra, nemmeno una psicologa e lei mi ha detto di scrivere su un diario quello che mi passa per la testa. Vuoi sapere che cazzo mi passa per la testa fottutissimo diario? Penso che qualcuno mi abbia strappato via la pelle, ecco cosa sento. Mi sento come se mi avessero strappato le gambe, come se mi avessero portato via qualcosa, una parte d’anima. Mi sento come se nemmeno io avessi un senso. Niente ha senso. Restituitemelo… Dov’è? Tu, diario, tu l’hai visto? E io… di cosa sto parlando? Forse pazzo lo sono davvero, o tendo solo al suicidio? 
 
- - - - 
 
Ho alzato gli occhi all’improvviso. Il suo nome era Gerard. Il mio cuore, dallo stato catatonico in cui era, stava iniziando di nuovo a battere veloce, dal nulla, quando urla esasperate sono venute dal piano di sotto. Ho sentito porte sbattersi e poi, senza che me ne accorgessi, passi leggeri e cauti si sono mossi nella stanza.
- Cazzo.

 
 
 



 

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Capitolo 5
*** You will always burn as bright. ***


Buondì! Ho promesso di aggiornare presto ed eccomi qui.
Volevo da sempre scrivere un capitolo così, non so perché.
Amo le situazioni che fanno male allo stomaco, quelle malinconiche
che ti fanno torturare le dita. Magari non sono all’altezza
di descrivere scene del genere, ma mi piace immaginarle bene nella mia testa. 
Come capirete da questo capitolo, Gerard soffre d’ansia,
attacchi di panico che lo portano all’autolesionismo, ma questo va un po’
al di là delle Frerard in cui sia Frank che Gee sono due disadattati, asociali e che
alla fine vivranno insieme per sempre una volta ritrovatisi.
Ho pianto un po’ a causa di questo capitolo, a certe tematiche sono molto
sensibile e poi scrivendolo ho sentito a ripetizione The Light Behind Your Eyes,
il che non ha aiutato, no, PER NIENTE. Vi consiglio però anche l’ascolto di una
delle colonne sonore di Inception, Time. Meravigliosa. 
http://www.youtube.com/watch?v=RxabLA7UQ9k
E soprattutto devo un particolare grazie a 
ha aiutato a tradurre il ritornello di TLBYE senza fare errori. 
Detto questo, a voi, piccole quattordici personcine bellissime (ve lo assicuro) che mi state
seguendo, sappiate sempre che vi voglio un gran bene e che prima o
poi quelle vaschette di gelato arriveranno!
Se volete lasciatemi scritto qualcosa in una recensione, giusto per farmi
capire che l’avete letto, se vi ha fatto schifo o se dovrei (sicuramente) migliorare qualcosa. 
Spero di aggiornare presto come questa volta, un bacio grande,
SD. 

 
5
 
YOU WILL ALWAYS BURN AS BRIGHT.



 
So long to all of my friends, 
Everyone of them met tragic ends, 
With every passing day, 
I’d be lying if I didn’t say, 
That I miss them all tonight 
And if they only knew, 
What I would say, 
 
If I could be with you tonight 
I would sing you to sleep, 
Never let them take the light behind your eyes 
One day, I’ll lose this fight 
As we fade in the dark, 
Just remember you will always burn as bright 
 
Be strong, and hold my hand
Time becomes for us, you’ll understand. 
We’ll say goodbye today, 
And we’re sorry how it ends this way 
If you promise not to cry, 
Then I'll tell you just what I would say. 
 
If I could be with you tonight, 
I would sing you to sleep, 
Never let them take the light behind your eyes. 
I’ll fail and lose this fight, 
Never fade in the dark 
Just remember that you will always burn as bright. 
 
The light behind your eyes… 
The light behind your 
 
Sometimes we must grow stronger 
And, you can’t be stronger in the dark. 
When I’m here, no longer, 
You must be stronger and 
 
If I could be with you tonight, 
I would sing you to sleep, 
Never let them take the light behind your eyes. 
I failed and lost this fight, 
Never fade in the dark, 
Just remember you will always burn as bright. 
 
The light behind your eyes… 
The light behind your eyes… 
The light behind your eyes… 
The light behind your eyes… 
 
The light behind your eyes… 
The light behind your eyes… 
The light behind your eyes… 
The light behind your eyes… 
The light behind your eyes… 
The light behind your eyes… 

 
La porta si era chiusa violentemente e il suono della chiave che girava nella serratura ha riempito il mio cervello privo di pensieri per un attimo. I miei occhi strabuzzati osservavano ogni movimento di quella disperata figura. 
Gerard aveva lanciato la tracolla nera sul letto, stanco. Aveva appoggiato le spalle alla porta della sua stanza serrata e si era lasciato cadere sul pavimento, strisciando la schiena contro la porta. Con una gamba distesa e l’altra accoccolata al petto, ho notato le lacrime bagnargli i suoi occhi tristi, ma nemmeno una era caduta a sfiorargli la guancia. Le teneva tutte li dentro, le lacrime. Chissà come faceva a soffocarle e a non lasciare che nemmeno una scivolasse via dal suo controllo. 
Mentre gli occhi di Gerard fissavano le sue ginocchia, le urla si facevano sempre più alte fuori dalla stanza. 
- Sta diventando pazzo!  - Una voce massiccia e dura proveniva dal piano di sotto. - Chissà cosa combina tutto il giorno, chissà dove va! E la gente che lo vede vagare come un malato mentale? A questo non pensi, Gracelle? Non pensi a cosa possa pensare la gente che lo vede delirare su qualcuno che non ha nemmeno mai visto?! 
Ho sentito passi svelti salire le scale. - È tuo figlio, smettila di parlare in questo modo, Steve!
Le parole dei due coniugi si accavallavano mentre il volto di Gerard si deformava a causa della sofferenza. Vedevo come le sue labbra morbide richiamavano le lacrime, come i suoi occhi volevano allagare quella stanza e non trattenere più nulla. La rabbia di Gerard nel non riuscire a controllare il suo stesso corpo lo spingeva a passarsi le mani per tutto il viso, nervoso, e poi tra i capelli. 
I suoi occhi erano troppo pieni, o sarebbe scoppiato e straripato come un fiume dopo un’alluvione o sarebbe annegato in se stesso con tutte quelle fottutissime lacrime. 
Qualcuno ha bussato piano alla porta, con dolcezza. - Gerard? Sono io - Ho visto la maniglia abbassarsi, ma la porta era chiusa a chiave. - Gerard, ti prego. Voglio solo parlarti - la sua voce era delicata, delicata come potrebbe esserlo solo quella di una madre amorevole verso suo figlio. Dall’altra parte della porta aveva sbuffato. - Non ascoltare tuo padre, è… frustrato. Solo frustrato perché non parli più con noi, perché non mangi mai a casa, perché non sappiamo neppure se mangi! Stai via tutto il giorno senza dirci dove vai o se esci con qualcuno. - Alle parole disperate della mamma, Gerard era scoppiato a piangere, singhiozzava silenziosamente, cercando di ingoiare le lacrime, ma erano troppe per trattenerle e uscivano sole, come acqua fuori dai margini di un fiume. Le sue spalle seguivano i suoi singhiozzi sommessi e ci avrei scommesso, dall’altra parte la madre doveva aver appoggiato la fronte sulla porta e doveva aver scelto di stare in silenzio, per ascoltare il pianto di quel suo figlio distrutto, a pezzi, rovesciato a terra come quelle tazze di caffè sulla sua scrivania colma di esasperazione. 
In quel momento ero inchiodato al suolo, con le spalle attaccate paurosamente alla parete, sotto la finestra. Non riuscivo a muovere neppure un muscolo, volevo arretrare, sparire, non guardare più quel ragazzo dagli occhi così tristi. Ero un intruso, non era giusto guardare la sua debolezza, vedere come cercava di fare di tutto pur di non far sentire e vedere le sue lacrime, mentre io le stavo contando una per una mentre uscivano dai suoi occhi e le osservavo mentre poi andavano a rigargli le guance, come graffi. Lo stavo guardando dentro, senza alcun diritto, senza che lui lo sapesse. Ma volevo così tanto fargli sapere che quei suoi occhi così pieni non meritavano tutte quelle lacrime dolorose. 
L’ho guardato mentre si chiudeva come un riccio, abbracciandosi le gambe in modo così stretto che avrebbe potuto spezzarsi. - Lasciami solo - ha detto a mezza voce, inghiottendo gran parte delle lacrime. 
- Gerard, io… Gerard, ti prego, lasciami entrare. Lasciami… voglio abbracciarti, Gerard, ti prego. Se solo ti potessi aprire con me, se solo parlassi con me, potremo risolvere insieme qualunque problema, potremo evitare tutte quelle sedute da quella psichiatra…
- Va’ via! - ha urlato all’improvviso, facendomi sobbalzare. Mi sono inginocchiato, accorciando leggermente l’infinita distanza che c’era tra me e lui. 
- Gerard… - sua madre si era lasciata andare un ultimo sussurro, per poi (sicuramente, lo sentivo, era una cosa da morti) sfiorare la porta con la punta delle dita, come se con quel gesto stesse scostando i capelli dal viso di suo figlio, e infine andarsene. Ho sentito i suoi passi svelti allontanarsi, doveva essere in lacrime. 
- Non lasciarmi solo - scuoteva forte la testa, come per scacciare via il dolore - Le persone sole si fanno del male, mamma. - Ha sussurrato tra le lacrime, lasciando scivolare la schiena sul pavimento e rannicchiandosi su se stesso in una posizione fetale. Non credevo di stare davvero assistendo ad una scena del genere. Non credevo di poter reggere una scena del genere. Il mio stomaco si stava spezzando, la mia mente era andata chissà dove. Riuscivo soltanto a vedere un’anima a pezzi, devastata, lacerata dentro, di fronte ai miei occhi. Avrei voluto tenerlo stretto tra le mie mani, anestetizzare i suoi dolori, curare le sue paranoie, combattere i suoi mostri, ma lui era lì disteso a terra, di nuovo solo come due anni prima, senza nessuno a dirgli che non era pazzo, che colui che stava cercando esisteva davvero, che ce l’aveva davanti agli occhi… ma che non poteva vederlo. Lui non poteva vedermi. Mi sentivo così impotente, così stupido e inutile! A che cazzo servivo, io se non a causare dolore? 
Le sue lacrime non si fermavano più e il mio cuore morto, sembrava più morto che mai. 
Dopo qualche attimo, ha raccolto la poca forza che aveva nelle braccia e si è trascinato fino al letto, per trafficare velocemente nella sua tracolla. Quando mi è passato vicino ho sentito il suo odore. La sua pelle odorava di fragilità e biancheria pulita, odorava di stanchezza e di mandorle. Sono stato a lungo a fissarlo, impotente, incapace di qualunque cosa. Ho visto le sue mani trovare e sfilare vari oggetti dalla tracolla e ho sentito i suoi singhiozzi farsi ancora più forti mentre si tirava su la manica della felpa e si apriva una ferita lungo tutto il braccio con la lametta appena tirata fuori. Ho sentito lo stomaco abbandonarmi, qualcosa nelle articolazioni mi spingeva a scattare dal posto in cui ero e fermare quelle sue mani frettolose, stanche, esasperate e abbracciarlo, spegnere il suo meccanismo di autodistruzione. La lama stava tagliando la sua pelle e i suoi singhiozzi mi risuonavano nel cervello, mi sbattevano contro le tempie con una tale ferocia che sarei potuto impazzire. 
Ma non ho detto nulla, sebbene sapevo non mi avrebbe sentito. Sono stato in silenzio, mentre lui si apriva una ferita sul braccio da cui far uscire tutto il suo dolore. Era seduto per terra, appoggiato al letto, quasi accanto a me. Lo strazio di quella scena non potrei descriverlo con nessuna parola, perché il non riuscire ad agire è qualcosa che uccide. Uccide osservare qualcuno farsi del male e non poter far nulla, non poterlo fermare. 
I minuti passavano, ma cosa contava il tempo in quel momento? Il suo braccio si era abbandonato sul pavimento, mentre il sangue scorreva e lasciava macchie ovunque. Speravo non si fosse fatto un taglio troppo profondo o l’avrei visto uccidersi sotto i miei occhi disperati. 
Con la testa guardava in alto e le lacrime gli sporcavano ancora il viso. Gattonando, piano, come se non volessi far rumore, ho lasciato per terra il suo diario e sono scivolato di fronte a lui, per guardare dritto in quei suoi occhi così tristi. - Smettila di piangere, Gerard, ti prego - ho sussurrato. I morti possono piangere? Possono non riuscire a dire le parole perché il respiro è soffocato dai tentativi di reprimere le lacrime? Ho allungato una mano verso il suo viso, istintivamente. Le mie dita volevano sfiorare le sue guance, raccogliere le sue lacrime, cucire il suo taglio sul braccio. - Ti prego - ma lui non poteva sentirmi, vedermi, toccarmi. Eravamo divisi dalla morte, oppure dalla vita. Avevamo un muro di fronte che non ci permetteva di ricordarci l’uno dell’altro. 
- Dove sei? - la sua voce era strozzata dai continui singhiozzi. Parlava al soffitto, cercava me, pur non ricordandosi che forma avesse la mia faccia o che suono avesse la mia voce. Non riusciva a ricordarsi di ricordarmi. La mia maledizione prevedeva che lui mi dimenticasse? Perché i Figli del Male avevano deciso di punirmi? Cosa avevo fatto? E Gerard perché non si ricordava di me? - Dove sei? - ha ripetuto, appoggiando il suo profilo sul lenzuolo.
Mentre le lacrime mi bagnavano gli occhi, ho sfiorato la sua guancia e ho asciugato le sue lacrime con i palmi delle dita. - Sono qui, Gerard. Guardami, sono qui, ti prego. Ritrovami nei tuoi ricordi. Non sono mai andato via - ho accorciato ancora di più la poca distanza che c’era tra noi e sono andato a mettermi accanto a lui, ma nella posizione opposta. Ho appoggiato la testa sulla sua spalla e ho potuto di nuovo sentire i suoi vestiti, il suo odore di mandorla e bucato. - Sono qui
Ho sentito ancora piccoli battiti provenire dal mio cuore. Due, tre battiti per poi fermarsi. Cosa mi stava succedendo? Ho sentito una nuova vita scorrermi sotto la pelle, ma rimanevo il morto di sempre. La presenza di Gerard mi faceva bene anche se non ero vivo. 
Ho voltato la testa, dando un’occhiata al suo braccio, prima non ero riuscito a vedere la profondità della sua ferita. Appena i miei occhi si sono focalizzati sul sangue che stava pian piano seccandosi sulla sua pelle fragile, la mia mente è tornata di nuovo bianca. Mi sono staccato dalla spalla di Gerard e sono arretrato, cadendo sui gomiti. Oh, ti prego, di nuovo! 
La scena davanti ai miei occhi era totalmente bianca e piano le prime figure stavano prendendo forma in quelle mie immagini sfocate. 
Il posto non era cambiato. La stanza era la stessa, solo che non c’erano le scritte sulle pareti e la porta era aperta. Gerard misurava la stanza a grandi passi, andava avanti e indietro irrequieto, muovendo gli occhi in tutte le direzioni. 
- Gerard, per favore, calmati. 
- Non ce la faccio - sussurrava, in modo debole. 
- Siediti, vicino a me. 
- Non capisci. Io odio sentirmi così! Non devo sentirmi così! Pensavo di non essere più… così. Credevo di averla superata, ma… non ce la faccio, Frankie - a quel punto ho visto i suoi occhi imploranti guardare i miei. - Perdonami
Ho sentito le mie gambe muoversi verso di lui e le mie mani posarsi sulle sue spalle e strattonarle piano. - Non ricordi la nostra promessa? Ce la faremo insieme
Per un attimo ho visto la luce nei suoi occhi tristi. La speranza in quello sguardo vuoto. E posso dire di aver visto il vero Gerard dietro un paio di pupille umide di lacrime. Ma come era comparsa quella luce, così era sparita, con la stessa velocità. 
A grandi passi ha lasciato la stanza mormorando tra sé, più volte - Non dovevi vedermi così. 
Ho sentito la mia mente elaborare qualcosa e mentre Gerard si dirigeva verso il bagno, ho afferrato un pennarello, l’ho infilato in tasca e l’ho seguito nel corridoio. 
L’ho trovato che aveva la schiena curva sul cassetto sotto il lavandino del bagno in me in mezzo alle sue lacrime, alla ricerca di una lametta con cui aprirsi un varco nella pelle da cui far passare tutte le sue preoccupazioni e i suoi dolori, tutte le sue sconfitte. 
- Gerard, Gerard! - mi sono visto mentre lo prendevo per un braccio e lo facevo voltare verso di me. - Guardami - ho sentito un sorriso flebile aprirsi sul mio viso. - Va tutto bene, non hai bisogno di questo per stare meglio, il dolore facciamolo venire su insieme, dagli occhi, dalle lacrime, dalle parole, non facciamolo passare attraverso la pelle, non così… - l’ho guardato con la speranza negli occhi, mentre notavo il suo sguardo diventare implorante come quello di un bambino. 
- Voglio solo stare bene, Frankie - ho visto la sua testa piegarsi di lato, dal dolore. 
Ho sfilato il pennarello dalla tasca e ho tirato su la manica della maglietta che indossava. Con il volto carico di speranza ho iniziato a scrivere lungo tutto il suo braccio, su cui potevo vedere le sue vecchie ferite cicatrizzate. Con lettere un po’ indecifrabili avevo scritto qualcosa che sapevo lui avrebbe capito. 
- Ci sono io - lesse ad alta voce.
- Adesso ci sono io - mi son sentito ripetere, con occhi seri e decisi. Ho guardato il suo viso mentre quella luce veniva di nuovo in superficie dai suoi occhi. Non gli avrei più permesso di farsi del male, non dopo che lui aveva curato tutti i miei di dolori, rendendoli anche un po’ suoi. - Non lascerò che ti portino via la luce che c’è dietro i tuoi occhi, Gerard. Se un giorno perderemo questa battaglia, allora la perderemo insieme. - L’ho accarezzato, con dolcezza, mentre le lacrime gli rigavano di nuovo il suo viso candido e incorniciato dai suoi capelli perennemente in disordine. 
- Io… Frank, io d-devo… - ha balbettato tra le lacrime, mentre ci inginocchiavamo sul pavimento. 
- Non devi, lo so - la mia voce era ridotta ad un sussurro, mentre osservavo le sue labbra farsi sempre più vicine. Le nostre labbra si erano incontrate a metà strada in una danza magnifica, lasciandosi esplodere in qualcosa di meraviglioso. Ho baciato le sue labbra morbide, mentre sentivo il suo dolore che si abbandonava in quel bacio. Ho continuato a baciarlo più volte su quello stesso punto in cui le sue labbra erano ancora più morbide e mi sono sentito a casa. Gerard era casa mia, il suo corpo era la mia colonna e le sue braccia le mie mura. Gerard era ciò che continuava il mio corpo spezzato. Facevamo parte entrambi della stessa tazza di ceramica rotta, eravamo due frantumi finiti chissà dove che erano riusciti a ritrovarsi e ad unirsi. Eravamo riusciti a ricomporre la tazza, la nostra tazza. Combaciavamo e non avevamo bisogno di colla per fissare i nostri corpi insieme come quei due pezzettini di ceramica. Noi avevamo l’amore, che, fidatevi, tiene unito più di come la gravità tiene unito l’uomo alla terra. L’amore era la gravità che ci teneva inchiodati allo stesso suolo. Insieme eravamo primavera
Mi sono staccato dalle sue labbra per baciare ogni lacrima presente sul suo viso, e ingoiandole non sentivo soltanto il sale di quel dolore che stava sanandosi, ma sentivo ciò che Gerard era dentro. Baciare le sue lacrime era come esplorargli i pensieri e il cuore. 
Ho baciato piano un angolo del suo occhio per poi ripercorrere con le labbra tutta la sua guancia e infine ritornare di nuovo sulle sue labbra in cui mi sono fatto spazio con dolcezza per sentire il sapore della sua bocca. 
Ho sentito poi il petto di Gerard premere contro il mio, spingendomi delicatamente verso il basso, fino a toccare il pavimento. Disteso per terra, sentivo il peso del suo corpo, leggero come una piuma, lasciarsi andare su di me. Tutto il dolore che gli stringeva le caviglie stava esplodendo e sentivo ogni nota della sua amarezza ogni volta che si faceva spazio con insistenza e passionalità nella mia bocca. Ho stretto una mano attorno ai suoi capelli e ho sussurrato il suo nome, stringendolo ancora di più al mio corpo. 
Si è staccato dalle mie labbra, per baciarmi l’angolo della bocca e guardarmi dall’alto negli occhi. - Frank - ha detto piano, passandomi una mano sul volto. 
Ho messo un dito nel colletto della sua maglietta e l’ho spinto di nuovo su di me. Le nostre labbra esplodevano di nuovo nei loro dolori più segreti, mentre le mani di Gerard passavano delicatamente sotto la mia camicia e analizzavano ogni centimetro della mia schiena con dita inesperte. Ho visto i miei occhi guardare ancora in quelli di Gerard, prima che tutto diventasse di nuovo maledettamente bianco. Maledettamente bianco! Tra tanti flash che la mia mente poteva rimandarmi aveva scelto proprio quello. Chissà dopo cos’era successo. Piccolo ragazzino pervertito che non sei altro, mi sono rimproverato ritornando piano alla realtà. Ero come sempre disteso sulla schiena e per un paio di secondi ho immaginato di nuovo il suo corpo sul mio, ma ho scostato subito l’immagine, ricordando cos’era successo poco prima del mio flash. Non era giusto pensare a lui in quel modo, non ora
Ho spostato il mio sguardo dal soffitto e mi sono voltato. 
Non era più seduto sul pavimento, ma dormiva piano nel suo letto, sopra le coperte e a pancia in giù, con la testa sul materasso. Il braccio ricadeva fuori e la sua mano sfiorava quasi il pavimento, proprio lì, dove in mezzo a quelle macchie di sangue c’era un flaconcino di gocce senza tappo, rovesciato a terra. Doveva essersi preso chissà quante gocce per riuscire ad addormentarsi. Ho sentito una stretta forte allo stomaco e ho creduto per un attimo di poter riavere indietro la mia anima soltanto guardandolo mentre dormiva. 
Mi sono trascinato fino al bordo del suo letto, mentre le immagini del mio ultimo flash continuavano a lampeggiarmi nella mente. Seduto sul pavimento, con la testa appoggiata al suo braccio che cadeva fuori dal letto, ho appoggiato una mano per terra, mentre con l’altra gli sfioravo le dita. La mia mano intanto si era appoggiata su qualcosa di solido e voltandomi ho visto un pennarello nero spuntare da sotto il letto di Gerard. Sono rimasto pietrificato per alcuni minuti, ricordandomi il flash. Poi senza pensarci ho raccolto il pennarello e, tolto il tappo, ho scritto una frase sul suo braccio sporco di sangue seccato. Non avrebbe sentito il mio tocco, ma la scritta l’avrebbe vista. Non mi avrebbe visto passare, ma avrebbe visto le mie impronte. 
Finita la mia opera ho rimesso il tappo sul pennarello. Un ‘ci sono io’ nero era di nuovo scritto sul suo braccio e in quel momento il mio cuore ha fatto quattro, poi cinque, sei battiti, tutti troppo frettolosi, per poi fermarsi di nuovo. Il mio cuore riprendeva i suoi battiti a singhiozzi, mi faceva tornare a vivere a puntate, così come a puntate riacquistavo la mia anima con i ricordi che mi donavano i miei continui flash. 
Seduto sul pavimento, ho appoggiato la schiena sul lato del materasso e ho fatto sfiorare le sue dita con le mie. 
- Mentirei se non ti dicessi che mi manchi tutte le notti, tutti i giorni all’alba. Se solo sapessi, se solo potessi sapere quello che vorrei dirti, Gerard.  Se solo potessi stare davvero al tuo fianco stanotte, canterei fino a farti addormentare. - Ho detto, fissando a lungo la parete piena di frasi di fronte a me. - Non lascerò mai che prendano la luce che c’è in fondo ai tuoi occhi. So che un giorno perderò questa battaglia, lo so. Ma quando scompariremo nell'oscurità, entrambi, ricordati che brillerai sempre così luminoso. Per quanto tu possa ora sentirmi, Gerard, sii forte, e stringi la mia mano. Stringila, Gerard, tienila stretta - dicendolo ho stretto le sue dita intorno alle mie - sii forte in questa oscurità, sii il più forte, sii forte perché io non posso più esserlo al tuo posto. E promettimi di non piangere, Gerard, promettimelo, perché farò di tutto per non lasciare che questa merda di vita prenda la tua luce così luminosa sul fondo dei tuoi occhi - una lacrima mi ha rigato la guancia, bruciando.  - Adesso ci sono io - ho sussurrato, guardando il muro di fronte a me, mentre sentivo le sue labbra lasciarsi sfuggire il mio nome in modo confuso, nel sonno. 
Quella è stata la prima di tutte le seguenti notti in cui sarei rimasto lì, accanto a lui, a proteggerlo mentre dormiva, a proteggere la luce che giaceva sul fondo di quei suoi occhi tristi. 

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Capitolo 6
*** Never coming home. ***


Buondì. E questa volta il buondì è perfetto
dato che sono passate le quattro e mezza. 
Ci ho messo un'eternità ad aggiornare questa volta,
perdonatemi. Spero di non aver perso nessuno nel frattempo.
E' solo che queste vacanze sono terribili, mi hanno
portato una voglia di dormire e di non fare niente che
sto per diventare parte integrante del divano. 
Cooomunque! Spero di non spaventarvi con questo capitolo
e spero che tutto si stia facendo un po' più chiaro.
Buona lettura, fatemi sapere cosa ne pensate se volete, 
mi basta anche una sola frase o una parola, magari una recensione
con scritto 'schifo', no vabé così ci rimarrei male :c
Adoro ognuno di voi, sappiatelo. Gelato per tutti in arrivo!
Buona lettura, 

SD. 
 

6
 
NEVER COMING HOME.



 
At the end of the world 
or the last thing I see 
you are 
Never coming home 
Never coming home 
Could I? 
Should I? 
And all the things that you never ever told me 
and all the smiles that are ever ever 
Ever... 
 
Get the feeling that you're never 
all alone and I remember now 
at the top of my lungs in my arms she dies, 
she dies 
 
At the end of the world 
or the last thing I see 
you are 
Never coming home 
Never coming home 
Could I? 
Should I? 
And all the things that you never ever told me 
and all the smiles that are ever gonna haunt me 
Never coming home 
Never coming home 
Could I? 
Should I? 
And all the wounds that are ever gonna scar me, 
for all the ghosts that are never gonna catch me!
 
If I fall 
If I fall 
(down
 
Buongiorno Gerard, tu stai ancora dormendo, ma fuori dalla tua finestra il sole è già alto, nessuno te l’ha detto che dormi un sacco? Forse è perché il sonno è terapeutico e dormendo non si pensa al male che si sente dentro. Ho paura di osservarti, vedere come apri gli occhi e vedere che sguardo hai appena sveglio. Ho paura di vedere i tuoi occhi dopo una notte passata a piangere nel sonno. Ho paura di vedere la tua reazione mentre alzerai il braccio e noterai la scritta. Ne ho paura perché nella tua mente non ci sono più e non so ancora per quale motivo. Non c’è il mio viso, non ci sono i miei occhi, le mie mani tatuate, il mio corpo tatuato, le mie parole che sanavano quelle tue orrende cicatrici… Ma posso vedermi nel fondo della tua anima. Se mentre dormi sussurri il mio nome, significa che sono ancora in qualche parte piccola di te, nascosto, chissà dove. Trovami, Gerard. Trovami, non sono mai andato via. Non andrei mai via. Perché sono andato via? Perché mi hanno portato via quell’anima che era così tanto legata alla tua? Perché, Gerard? Che cosa avevo fatto di sbagliato? Cosa ho fatto di così sbagliato da vedere te cercarmi tra la gente senza che tu possa ricordarti il mio nome? Io ti darò la pala, ma tu, Gerard dovrai scavare giù nel tuo cuore.  
Ho pensato a lungo mentre lui ancora dormiva. Tanti pensieri si accalcavano nella mia testa e nessun semaforo era lì per tenere l’ordine. Pensavo perché non potevo far nulla. Immaginate passare giornate intere sentendo il peso del tempo che passa, ma senza poter dormire, mangiare, suonare, fare qualcosa di umano. Essere intrappolato in un mondo umano, circondati da cose da umano, ma non poter far nulla da umano! È massacrante, gente, sul serio. Mi sento tanto come E.T, solo che io non ho una navicella per tornare a casa, per tornare in vita, e soprattutto non ho due genitori pronti a salvarmi. Già, i miei genitori erano di quelli affettuosi che lasciano i propri figli nei cassonetti dell’immondizia. Benvenuta umanità. 
Ho appoggiato la nuca sul materasso, mentre inconsciamente facevo su è giù sul palmo e sul braccio di Gerard, sfiorandolo appena. Non si sarebbe mai accorto di me. Eppure mentre lo sfioravo potevo sentire il suo corpo diventare irrequieto, nel sonno. Come se in quei momenti di incoscienza avesse potuto sentirmi. 
- Oh, svegliati, Gerard. Ho bisogno di qualcuno da guardare mentre continua la sua cazzo di vita. Non ho una vita mia, almeno voglio vedere cosa te ne fai della tua… senza di me.
Parlavo da solo, la mia voce si disperdeva nel buio della stanza, ma nessuno mi avrebbe sentito. Nemmeno Gerard, nemmeno lui. E a momenti nemmeno io. 
Mi sono voltato appena, mentre il viso di Gerard si spingeva sempre più al limite del letto, vicino al mio. I suoi occhi erano tristi anche con due palpebre a richiuderli e a impedire al mio sguardo di affondarci. Da quegli occhi avrei potuto leggere tutti i suoi pensieri, anche se erano chiusi. Potevo vedere e contare tutti i suoi sogni sulle sue palpebre. Il suo sonno non era tranquillo, per tutta la notte aveva continuato a mormorare qualcosa di indecifrabile e le sue mani continuavano ancora a stringersi in un pugno. Avrei voluto svegliarlo, curare i suoi mali, i suoi tormenti, ma sapete cosa significa urlare aiuto e scoprire di non avere più la voce, come in quei vostri terribili incubi? Ecco, era questa l’esatta sensazione. 
Mi sono alzato in piedi e sono andato a sedermi sul davanzale che aveva ancora la finestra aperta. Fuori anche l’alba non era la solita, sembrava essere cambiato anche il colore del cielo al mattino. Ma io, lo ricordavo il colore del cielo? Con le gambe penzoloni nel vuoto mi sono sporto fuori. La tentazione di buttarmi era forte, tanto ero morto, quest’ebbrezza avrei potuto anche provarla, ma non avrei mai rischiato di perdermi Gerard mentre apriva gli occhi e notava la scritta. Mi sarei buttato da una finestra un altro giorno. 
Dovevano essere le sette o le otto del mattino e io ero morto, avevo vent’anni ed ero stato innamorato di qualcuno che adesso a stento tornavo a ricordare e soprattutto di qualcuno che non mi conosceva ma che doveva avermi amato. Peggio dell’amore non corrisposto, eh?
Irrequieto, sono scivolato giù dal davanzale e ho fatto qualche passo nella sua stanza. Quella stanza profumava di Gerard, di primavera e di distruzione. La sua distruzione. Contavo i secondi, il ticchettio fastidioso del suo orologio appeso al muro mi dava sui nervi, il passare del tempo è qualcosa di orribile per qualcuno che è morto. 
A piccoli passi mi sono mosso, ho fatto ancora qualche passo nella stanza e poi mi sono arreso, abbandonandomi di nuovo a terra, accanto a lui. 
- Che palle, io non posso entrare!
Sono scattato di nuovo in piedi, allarmato, ma al primo passo sono scivolato sul pennarello con la quale avevo scritto sul braccio di Gerard il giorno prima e sono caduto a terra, sbattendoci il sedere. Lo ammetto, un mezzo urletto da brava checca è uscito dalle mie corde vocali. 
- Com'è che quando mi vedi cadi sempre a terra, piccolo Frankie? Non è che ti sei innamorato anche di me?
- Chiudi il becco, mostro - ho raccolto il pennarello e gliel’ho lanciato contro. - Va’ subito via da qui, non lo toccherai. 
- Beh -  ha iniziato, con uno sguardo piuttosto serio. - Ce l’hai impedito già una volta, potresti impedircelo di nuovo. Solo che non hai più anime da regalarci, eh? Finita la scorta, nanerottolo? - ha concluso la frase con una smorfia, seguita poi da un ghigno. 
Cosa voleva dire con quel ‘ce l’hai impedito già una volta’?
- Cosa sei, un vampiro, che non puoi entrare senza permesso?
Si è sporto leggermente verso l’interno della stanza. Era appollaiato sul davanzale esterno della finestra. 
- Mmh, no, ma le regole sono uguali per tutti. 
- Sparisci. 
- Nah, mi piace guardarti mentre ti disperi accanto a qualcuno più disperato di te. 
- Sparisci. 
- Non posso entrare nella stanza, non mi caccerai via anche da questo fottuto davanzale. 
- Sicuro? L’aglio e le croci non hanno effetto su voi mostri?
- Perché non provi vedendo se hanno effetto su di te allora?
Odiavo il modo in cui mi metteva con le spalle al muro soltanto con le parole. Parole che mi spingevano, mi stritolavano, mi facevano cadere a terra. Ero un mostro anche io, era soltanto questo il messaggio sottile nelle sue parole. Ero un mostro. Non ero così diverso da lui in fondo. 
Ha sorriso, sprezzante, capendo l’effetto che mi avevano causato le sue parole. 
- Cosa intendi quando dici che ve l’ho già impedito una volta?
Michael aveva preso lentamente una sigaretta dal pacchetto che aveva nella tasca destra dei suoi pantaloni e lentamente stava accendendosela, socchiudendo gli occhi e aspirando il fumo. 
Ha soffiato via una nuvola grigia, senza guardarmi. Fissava un punto di fronte a sé, pensieroso. 
- Hai ragione a dire che sono un mostro. Se ti raccontassi la verità, se lo facessi, Frank, penseresti che non ci sia mostro peggiore di me, nemmeno nella fantasia degli scrittori più cruenti. Nessun cattivo potrebbe superare la perfidia delle mie azioni. La mia mostruosità va ben oltre il succhiare via le anime delle persone la notte di Halloween. Sono un mostro per ben altro. E forse umano non lo sono mai stato. 
L’ho osservato a lungo, mentre con le unghie torturava il filtro della sigaretta che si stava consumando. Era nervoso, era un mostro. Lo stava ammettendo. Come puoi accusare qualcuno di essere quel qualcosa che sta ammettendo di essere?
- Cosa hai fatto di così mostruoso da superare la mostruosità che c’è già nel prendersi le anime della gente soltanto perché si è nati sbagliati?
- Chi dice che siamo noi maledetti quelli sbagliati, Frank? - ha allargato le braccia, con la sigaretta stretta tra le labbra. - Chi ti dice che - si è portato una mano alla bocca ed ha fatto un altro tiro dalla sigaretta. - che non siano loro quelli nati nel dannato giorno sbagliato? Perché non dovrebbero essere loro quelli difettosi? La gente, le persone là fuori non sono così diverse da noi, in fondo. Nascono persone che si sentono sbagliate tutti i giorni. Persone che si sentono tagliate fuori, gente che non riesce a stare bene con gli altri, ragazzi che vengono chiusi negli armadietti perché sono più deboli, donne che non riescono a sentirsi belle, uomini che non riescono a sentirsi all’altezza, bambini che non sanno pronunciare le parole giuste, studenti che vorrebbero far saltare in aria la scuola perché sentono che quel posto è sbagliato… Frank, apri gli occhi, di gente che si sente sbagliata ce n’è a migliaia, gente così nasce ogni giorno. Ma sentirsi sbagliati non significa essere sbagliati. 
- Io sono sbagliato. Io sono nato nel giorno sbagliato. Sono sempre stato sbagliato da qualunque parte. Sbagliato da vivo, sbagliato da morto. Fidati, sono io quello difettoso, almeno gli altri un’anima ce l’hanno ancora, giusta o sbagliata che sia. 
- Non sei sbagliato tu, Frank. Sono le persone con i pregiudizi ad esserlo, le persone che non sanno essere umane come i tuoi genitori, sono sbagliate. Le persone sbagliate sono quelle che scelgono di esserlo, quelle che scelgono di essere dei mostri. Tu non sei sbagliato, Frank. Io lo sono. Se i nostri genitori ci avessero cresciuto con il giusto amore che si dovrebbe dare ai propri figli, le nostre storie sarebbero andate in modo diverso. 
Ho sbuffato, lasciandomi andare i palmi delle mani sulle cosce, in un gesto così… umano, così mio. 
- Aspetta, aspetta. - Una mezza risata si è fatta spazio tra le mie parole. - Tu dici che io vi ho tradito, tu mi succhi via l’anima, mi fai credere di essere un mostro, poi, poi vieni qui, ti rendi conto di non meritare neppure la dannazione, dici che non sono io quello sbagliato, che in verità il mostro sei tu, poi dici che ti dispiace, che non avresti dovuto succhiarmi via l’anima e privarmi della mia vita, poi scendi da quel fottuto davanzale e tutti felici e contenti? La vita o la morte che sia non è una fottuta storia, non è un fottuto libro, non è la fottuta sceneggiatura di un film! Uccidi prima il mostro che è in te, poi vieni a cercare quelli che hai intorno, Michael. 
Ha sorriso, nascosto dalla sua nuvola di fumo. - Non mi sono pentito di aver succhiato via la tua anima, Frank. Mi pento soltanto di aver cercato di succhiare via quella di Gerard. 
Gerard. Gerard. Gerard… 
La mia testa stava diventando bianca, ancora e il nome del ragazzo dagli occhi tristi stava facendo da gomma. Gerard. Gerard. Il suo nome in quel momento era come un cancellino su una lavagna nera. Un’eco nella mia testa. 
Il suo nome mi sbatteva contro le tempie e poi tornava di nuovo indietro. 
Gerard. 
Gerard.
Gerard.
- Gerard, io…! - ho visto le mie mani fare gesti confusi, intento a spiegare le miriadi di frasi che si affollavano nella mia testa. 
- Io cosa, Frank? Non te lo lascerò fare, ne abbiamo già parlato ieri. 
- Io… devo, Gerard. La mia vita è questa, è già segnata! Niente, nemmeno quello che provo per te potrà cambiare il futuro che ho di fronte a me, niente e lo sai. La tua vita sarà così lunga invece - il mio sguardo scuro si è scontrato con il suo, verde come la mia vecchia primavera. Ho allungato una mano verso il suo viso devastato, con le dita ho sfiorato la sua pelle morbida e lui si è abbandonato alla mia carezza, accoccolandosi contro il palmo della mia mano. Guardando l’amore dei suo gesti ho sorriso e, giuro, avrei voluto piangere in quel momento. Vedere i suoi occhi, quei suoi occhi sempre pieni di luce, pieni di sorprese, annegare in un mare di tormenti, faceva così male. - Sarà così lunga che potrai raccontare di me ai figli dei figli dei tuoi figli, magari per farli spaventare la notte di Halloween - ho sorriso, tenendo stretto il mio palmo sulla sua guancia. La mano di Gerard era arrivata con dolcezza a rinforzare la carezza, stringendomi le dita. 
- Non ti lascerò andare via - sussurrava piano, Gerard. Con quella sua voce delicata che appena trapelava dalle sue morbide labbra sottili. - Non continuerò a correre, non ti lascerò indietro, non te lo permetterò - le prime lacrime gli illuminavano lo sguardo e avrei voluto morire nel momento in cui quello sguardo si è appoggiato piano sul mio. 
- Devi. Continua a correre per entrambi, Gerard. Io troverò il modo di raggiungerti, prima o poi - ho fatto scorrere le mie dita sul profilo della sua guancia per poi andare a sistemargli dietro l’orecchio la ciocca nera che gli ricadeva sul volto. 
- Io ti voglio accanto a me. 
- Non tutto va sempre nel modo giusto, lo sai. Tu hai salvato la mia vita, è giunta l’ora che io salvi la tua. 
Un sorriso amaro gli ha riempito il volto, insieme ad una smorfia di dolore. - Non sai quante volte me l’hai già salvata, Frank - con un passo si è avvicinato al mio viso, così tanto che i nostri nasi potevano toccarsi. - Quando ti ho alzato da quel marciapiede, nel momento in cui io ho iniziato a curare le ferite sul tuo braccio, ho sentito che tu stavi già curando le mie. Quando ti ho salvato da quella overdose, tu hai salvato me dalla mia vita. Ci siamo salvati insieme, non mi devi niente, Frank. 
Le mie mani frettolose si sono avvicinate al suo viso. Con entrambe le mani memorizzavo ogni parte del suo volto. Con i polpastrelli andavo a fotografare ogni piccolo dettaglio, stavo ricalcando i suoi tratti morbidi per tenerli sempre con me, anche dopo la morte. Solo quando anche le sue mani hanno iniziato a scivolarmi su e giù per le guancie mi sono accorto che stavo piangendo. Piangevo, piangevo tra le sue mani, piangevo tra le sue dita. Come se la sua pelle fosse da sempre stata il contenitore dei miei dolori, delle mie ansie, dei miei attacchi di panico. Quando il suo petto si è stretto al mio, quando con la punta delle dita mi ha stretto il viso accarezzandomi le orecchie, quando ha appoggiato la sua fronte sulla mia per scartare l’intero mondo fuori e concentrarsi sui miei occhi, lì, proprio in quel momento quando i nostri corpi erano così vicini che i nostri sogni e i nostri più intimi segreti avrebbero potuto fondersi, lì, ho capito che soltanto il suo corpo avrebbe potuto avvolgermi, per sempre. Soltanto la sua pelle avrebbe potuto sfiorarmi, sanarmi, riempire ogni vuoto, anche quelli che avevo nella testa. E soprattutto che in tutta la mia vita o in tutta la mia morte non sarei più riuscito ad amare nessun altro se non Gerard. L’orma che aveva lasciato nella mia anima era troppo profonda per essere coperta da chiunque altro. Nemmeno Dio avrebbe potuto cancellarla. 
- Ti proteggerò. Anche da me stesso - ho sussurrato, sfiorando il suo orecchio con le labbra - Ti terrò al sicuro, dentro di me. 
Ho affondato la testa nell’incavo che c’era tra il suo collo e la sua spalla. La sua pelle profumava di pulito, i suoi vestiti odoravano ancora di quell’ammorbidente alla mandorla che era solita usare sua madre. La sua pelle odorava di cicatrici guarite finalmente, e non più di distruzione. Lo guardavo negli occhi e non vedevo più tristezza, ma esperienza. I suoi occhi erano occhi che avevano vissuto ed avevano vissuto abbastanza da essere profondi come oceani. 
Piano, con le labbra, ho sfiorato il suo collo, baciandolo lentamente, come se quel tempo, quel tempo nostro, potesse essere eterno. Ad occhi chiusi segnavo un cammino, un cammino che non avrebbe dovuto dimenticare. Le sue dita si intrecciavano nei miei capelli, piano le sue ginocchia cedevano e il suo corpo si abbandonava al mio. 
I miei baci si stavano facendo sempre più veloci, più passionali, sempre più pieni di richieste. Dal collo, le mie labbra, si sono spostate sul profilo della sua mascella, sulla sua guancia e poi, lentamente verso l'angolo della sua bocca. L’ho guardato negli occhi per cercare uno sguardo che fosse simile al mio, uno sguardo pieno di amore concesso. E l’avevo trovato. Anche i nostri occhi, seppur così diversi, infondo, erano fatti degli stessi sogni. 
A quel punto, come se avesse appena realizzato cosa avesse nel cuore, si era avventato sulla mia bocca, riempiendola con la sua in maniera veloce e infantile. Con i nostri baci noi ci curavamo a vicenda, ci faceva male il cuore, ma quando i nostri corpi si univano il dolore passava. E a volte dopo ritornava, altre invece no. 
Quando le sue mani si sono fiondate sul mio corpo la mia mente del presente si è accorta che stessi indossando un vestito da fantasma per la notte di Halloween che consisteva soltanto in una specie di poncho bianco con tanto di cappuccio su cui, forse io, avevo disegnato due paia di occhi neri dall’orbita ovale. Mentre Gerard aveva soltanto un paio di pantaloni neri e una maglietta dello stesso colore, più uno splendido viso truccato di nero che prendeva le sembianze di uno scheletro. 
Le mani di Gerard si sono infilate sotto il mio travestimento, hanno trovato i miei fianchi da ragazzino e hanno trovato Frank, un Frank senza più maschere, fatto solo di pelle ed un mucchietto d’ossa, un Frank che era rimasto per anni sdraiato sul bordo di un marciapiede e proprio ora che aveva trovato il modo di restare in piedi, camminare e poi infine correre, doveva andarsene.
Ha stretto il suo bacino contro il mio, e in quel momento, non ridete, potevo sentire tutta la sua felicità che strusciava contro la mia. Concedetemi di dirlo, la sua era anche una grande felicità.
Le mie mani hanno cercato l’apertura dei suoi pantaloni frettolosamente, ho trovato prima la sua zip e poi ho trafficato con il suo bottone che non voleva mollare la presa. Gli ho slacciato i pantaloni ridendo e lasciandogli un bacio leggero sulla bocca. - Ce l’ho fatta - ho riso ancora e con le sue mani che mi stringevano i fianchi l’ho trascinato fino alla parete, continuando a baciarlo. 
Ho sentito la sua lingua tracciare il contorno del mio orecchio. - Resta con me per sempre. 
Mentre con le mani mi infiltravo per niente cautamente nei suoi pantaloni gli ho lasciato un bacio sulle labbra e poi ho di nuovo affondato la testa nel suo collo di mandorle. - Stanno arrivando ed io dovrei lasciarti andare - ho strusciato il naso contro la sua pelle, tracciando linee invisibili - ma non ce la faccio. 
Le mie mani hanno cercato e trovato i suoi boxer. Ho sfiorato il tessuto con le dita per poi avvicinarmi al suo membro, mentre lui gemeva nel mio orecchio. I suoi capelli neri che ricadevano sui miei occhi. L’ho stretto adagio attraverso il tessuto e ho fatto piccoli movimenti, andando su e giù, la sua testa che si inclinava e la sua bocca che sussurrava il mio nome piano, cercando di dire qualcosa. 
- F-Frank a-aspetta - cercava di prendermi per le spalle, ma il piacere lo tratteneva. - Frank...
Improvvisamente mi sono fermato. Ho tolto la mia mano dai suoi pantaloni e il viso dall’incavo del suo collo per appoggiare la fronte sul suo petto e le mani sulla parte bassa della sua schiena. 
- Io… non volevo fermarti, sul serio - l’ho sentito dire da sopra la mia testa. - E’ solo che… Frank, sento qualcosa di strano. 
Lui non poteva vederli, erano spiriti. 
Ho alzato la testa per guardarlo negli occhi e prendere il suo viso tra le mani. - Qualunque cosa succeda d'ora in poi, fa’ quello che ti dico, Gerard. Non voglio obiezioni. Farai ogni cosa che ti dirò. Promettimelo. 
- Non lo farò - le parole lui non le pronunciava con la bocca, ma con gli occhi. Con quei suoi occhi verdi pieni di lacrime non ancora piante. Con il volto tra le mie mani e lo sguardo fisso nel mio, sicuro per la prima volta in vita mia. 
- Smettila, ti prego - ho sussurrato sulle sue labbra, per poi baciarle. 
Una risata macabra e cupa veniva dall’esterno. Conoscevo quella risata. Erano arrivati, erano fuori dalle nostre finestre e dal mondo che ci eravamo costruiti insieme in quei due anni e non avrei permesso loro di distruggerlo. Avrei piuttosto permesso loro di distruggere me, ma non noi, non Gerard
Ho preso le sue mani e l’ho trascinato via, correndo per i corridoi di quel vecchio magazzino. 
- Cosa succede?
- Devi nasconderti. 
Gerard mi ha strattonato la mano per fermarmi, mentre io cercavo di condurlo avanti. - Cosa significa, ‘devi’? Frankie, dobbiamo. Noi dobbiamo nasconderci. Corriamo insieme, ricordi?
Ho sorriso, tra le smorfie di dolore che si stavano stampando sul mio volto. - Sì, Gerard. Scusa… dobbiamo - ho sfiorato la sua guancia con una carezza. - Ora, ti prego, corri. 
Insieme abbiamo percorso tutto il magazzino, mano nella mano. 
- Qui dentro - ho detto a Gerard mostrandogli la stanza che avevamo di fronte. 
- Cosa c’è dietro la porta?
- È una stanza vuota con una botola nel centro. Quella botola nasconde un passaggio sotterraneo che porta vicino casa tua. 
- Non ci troveranno?
Ho stretto il suo viso in una carezza. - Nessuno ti farà del male, te lo prometto. - Le mie labbra hanno trovato le sue per quella che sentivo era l’ultima volta. Tutto il mio dolore risiedeva nella mia bocca e Gerard doveva essersene accorto, perché aveva iniziato a piangere come una ragazzina. Ho asciugato le lacrime dai suoi occhi. - Nessuno ti porterà via quella luce nello sguardo, nessuno.
Ho preso di nuovo la sua mano e l’ho spinto dentro la stanza per poi chiudergli la porta alle spalle con una chiave presa frettolosamente dalle mie tasche piene di cioccolatini per via della nostra notte passata casa per casa a chiedere dolcetto o scherzetto. Avevamo vent’anni, ma non ci importava, ci travestivamo ancora come bambini e amavamo fare scherzi alle vecchiette che non volevano darci nemmeno una caramella. 
Gerard urlava e sbatteva i pugni contro la porta ed io piangevo, come mai avevo fatto in vita mia. 
- Frank! Che cazzo stai facendo? Frank! Apri questa cazzo di porta! Frank, porca puttana! - la maniglia si muoveva frenetica sotto la sua stretta. 
I suoi pugni sbattevano contro le mie tempie, facevano così fottutamente male. Tra le lacrime ho sfiorato la porta, senza dire alcuna parola. Avevo già preparato tutto e una lettera un po’ sbiadita l’avrebbe aspettato sull’apertura della botola insieme a tutte le parole che non ero riuscito a dirgli. Ci stavamo lasciando e che lo amavo non glielo avevo ancora detto. 
Ho rimesso le chiavi in tasca, toccando per caso il bigliettino che Gerard mi aveva dato il giorno prima, dopo la nostra discussione e che non avevo ancora aperto. 
A passi lenti ho ripercorso il magazzino, con un’anima che aveva trovato finalmente la sua pace. Stavo bene. Stavo facendo la cosa giusta. Stavo salvando Gerard, ero felice
Ed io non sarei mai più tornato a casa, mai più. Avrei forse potuto…? Avrei forse dovuto…? Non lo so. Sapevo solo che la mia testa era piena di quelle parole che Gerard non mi aveva mai detto e di tutti quei sorrisi che mi ero lasciato alle spalle. Nessuna ferita d’ora in poi avrebbe potuto farmi male, nessun fantasma avrebbe potuto più catturarmi. Sarei caduto e l’ultima cosa che avrei visto sarei stato io. Io che non potevo più tornare a casa. 
Ho spalancato le porta plastificate del magazzino, sicuro di me stesso. Mi stavano aspettando, appoggiati sul muretto, nei loro vestiti attillati e di pura pelle. Tutti rigorosamente con capelli lunghi come vampiri e occhi da far tremare anche un morto. 
Ho fatto qualche passo verso di loro, scalciando qualche pietra, come se nulla mi importasse, con noncuranza. 
Il più alto, quello magro e dai capelli biondi è venuto verso di me con aria strafottente, facendo uscire una risata sprezzante dalla sua bocca. 
- Ci hai portato qualche verginella al posto di quel frocetto di mio fratello, piccolo Frank?
Ho tirato fuori il pacchetto di sigarette e ne ho sfilata una, portandomela alle labbra. Con gesti lenti l’ho accesa e ho aspirato a lungo il primo tiro, da sempre il migliore. Avrei fatto solo quell’unico tiro quella sera. 
Ho lasciato il fumo uscire dalle mie labbra appena dischiuse e ho sorriso anche io, lasciandomi cadere la sigaretta dalle dita. 
- Beh, una femminuccia ve l’ho portata, solo che, mi dispiace, non è più tanto verginella. - Ho calpestato la sigaretta, spegnendola. - Allora, dove mi volete? Qui, o sul letto di camera vostra?
 
Di colpo, sono tornato alla realtà. 
Come sempre, ero disteso sul pavimento, con gli occhi sbarrati a fissare il soffitto. Una mano sulla fronte e l’altra sul cuore, come a trattenerlo, per non farlo andare via. 
- Com’è che questi flash durano sempre di più?
Ho sbattuto più volte le palpebre, mettendomi seduto. - Tu non hai niente di meglio da fare che restare a fissarmi?
- Mh, al momento no. Non ho nessun’anima da tormentare fino alla pazzia. - Si è sporto verso di me, dal davanzale. - Cosa hai visto di bello? Dev’essere qualcosa di bello, perché ad un certo punto qualcosa nei tuoi pantaloni è sembrato… - e ha mimato un gesto con le mani - sai... - di nuovo quel gesto. 
- Fai anche schifo oltre ad essere un idiota.
- Il pervertito sei tu, non io.
Mi sono alzato in piedi, stirandomi la maglietta arricciata. - Avevi ragione. Sei un mostro. 
- Oh, dai, per così poco. Ti ho solo detto quello che ho visto. Sei diventato molto felice durante quello stato di trance, è un dato di fatto, non volevo offen…
- Il tuo vero obiettivo era Gerard. 
Le sue mani, intente a fare gesti frenetici si sono bloccate di colpo. - Già. Avrai visto altro oltre al tuo bellissimo sogno erotico. 
- Era tuo fratello
- Volevo solo vendetta. 
- Vendetta?
- Ero io quello nato sbagliato! L’insulso insettino di famiglia nato nel giorno maledetto. Quello che da piccolo diceva cose strane, quello che faceva disegni strani, quello che guardava tutti con quello sguardo strano… ero solo sbagliato. Gerard invece era l’orgoglio di famiglia, quello che voleva iscriversi all’accademia di Belle Arti, quello che ‘un giorno sarebbe diventato qualcuno’. Io invece ero quello che sarebbe diventato nessuno. E così ho scelto davvero. Sono diventato nessuno. 
- Gerard ti voleva bene.
Ha sputato giù dalla finestra. - L’hai visto in quella tua strana visione, per caso?
- No, lo so e basta.
- Io gli volevo bene. Odiavo i miei genitori per averlo messo su un piedistallo con me ai piedi a pulirlo, odiavo loro, non Gerard. In questi anni ho fatto di tutto per tenere i miei nuovi fratelli lontani da lui, che ai loro occhi era così fottutamente interessante. Ho fatto di tutto per proteggerlo, soprattutto quando ha iniziato ad entrare in depressione. Beveva, fumava chissà cosa, si tagliava spesso e si imbottiva di ansiolitici. L’ho protetto. Poi sei arrivato tu. Eri così a pezzi. Gerard ha voluto prendersi cura di te, salvarti. Ha voluto salvarti quella notte e ci è riuscito, salvando contemporaneamente anche se stesso. In quei due anni in cui gli sei stato accanto vi eravate innamorati l'uno dell'altra ed entrambi avevate trovato qualcosa simile alla felicità. Tutta quella felicità… qualcuno era di nuovo felice senza di me. A Gerard sembrava non importare della mia assenza. La mia assenza sembrava non importare a nessuno. Erano di nuovo tutti felici… senza di me. Col passare del tempo non sono più riuscito a controllarmi, volevo solo la mia vendetta, anche solo per un cazzo di minuto. 
Avrei voluto prenderlo a schiaffi. Avrei dovuto capirlo, era stato un rifiuto, esattamente come me e invece volevo solo prenderlo a schiaffi. 
- Ma che cazzo! Altro che vampiri, lupi mannari e streghe. Un ragazzo che medita vendetta contro il proprio fratello, questo è essere mostri.
- Lo so. 
- Ci ho rimesso anche la mia vita nel frattempo che tu te ne rendessi conto!
- Lo so. 
- E hai distrutto comunque quella di tuo fratello!
- Lo so. 
- Sai dire altre cose oltre a ‘lo so’, porca puttana?!
Si è voltato dalla parte opposta per non guardarmi negli occhi. 
- Forse no. Forse sono pieno di consapevolezze - si è sporto giù dal davanzale. - Ne parliamo un altro giorno, si sta svegliando, E forse è meglio che io vada via. 

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Capitolo 7
*** I held you close as we both shook. ***


   
Voglio davvero scusarmi per aver aggiornato dopo secoli, 
ma l'ultimo anno di scuola mi sta facendo diventare più
pazza di Gerard.
Spero non sia così orribile questo capitolo e che compatiate
una povera cerebrolesa come me. 
peace, love, empathy, 
SD. 

7

I held you close as we both shook

You said you read me like a book,
but the pages are all torn and frayed


I'm okay.
I'm okay!
I'm okay, now
(I'm okay, now)

But you really need to listen to me,
because I'm telling you the truth
I mean this, I'm okay!
(Trust Me)

I'm not okay
I'm not okay
Well, I'm not okay
I'm not o-fucking-kay
I'm not okay
I'm not okay
(Okay)


Michael mi aveva lasciato solo, era sparito nello stesso modo in cui era apparso e non sapevo più se esserne felice o triste. 
Un minuto prima avrei voluto prenderlo a schiaffi, buttarlo a terra e fargli capire cosa si prova ad avere male ad un anima che non esiste, ad avere male allo stomaco pur non essendo vivi. Poi però, qualche strano tipo di malinconia, quella stessa che porta milioni di visi a fissare le finestre o punti vuoti con occhi pallidi e bianchi, mi ha riempito e ha scosso i miei nervi, sebbene fossi morto, morto stecchito, non erano più tesi. Ero solo triste. Era solo che…
In quel momento, avrei voluto morire. 
Qualcosa nel petto mi si era mosso di nuovo, uno strano calore lasciava formicolii sulle mie dita. 
Cosa mi stava succedendo?
Cos’ero realmente io? Chi era Frank? 
Ho ascoltato i piccoli lamenti che uscivano dalle labbra di Gerard mentre passava dal sonno alla realtà e volevo solo sprofondare di più. Come potevo aiutarlo a vivere se ero il primo ad essere morto? Come ci si può far sentire dalla persona che si ama se si è invisibili? Come potevo urlare e riuscire a farmi sentire? 
Gerard aveva aperto gli occhi. 
Io li avevo chiusi. 
Mi spiegate come cazzo fate a guardare la persona che amate negli occhi, voialtri? È così… fottutamente doloroso! Davvero, guardare in quegli occhi era lacerante. Quegli occhi dello stesso colore delle foglie che perdono colore in autunno facevano più male delle lame con cui facevo salire su il mio dolore attraverso la pelle. Gli occhi di Gerard riaffioravano il dolore. Mi sanavano e formavano nuove ferite. Ed io sarei dovuto andare via, ma sentivo di dover rimanere. Perché non appartenevo a nessun altro posto al mondo se non a quella piccola stanza fatta di sofferenze. Sapevo di appartenere ad un paio di occhi verdi. Questo corpo senz’anima apparteneva ad un’anima in fiamme. 
Gerard si è svegliato con il mio nome sulle labbra. 
Un ’Fran..’ sottile è rimasto fermo tra la lingua e il palato. La kappa era rimasta intrappolata tra i denti, aveva cercato di uscire, ma non ce l’aveva fatta ed era tornata indietro. E Gerard non l’aveva ingoiata. Aveva lasciato che il mio nome gli rimanesse in bocca, così da non dimenticarlo al risveglio. 
Sono rimasto inchiodato vicino alla finestra, cosa avrei dovuto fare? La verità fa così paura, gente. 
Il mio ragazzo dagli occhi tristi è rimasto dieci lunghi minuti a fissare il soffitto, con ancora il braccio penzoloni fuori dal materasso e l’altro abbandonato sullo stomaco. Avrei dato un’altra anima per sentire almeno uno dei suoi pensieri se solo l’avessi avuta. 
Con i minuti che passavano sono riuscito a prendere il mio coraggio e ho fatto qualche passo nella stanza, avvicinandomi al letto. 
Mi sono inginocchiato accanto a lui e ho iniziato a sfiorargli il braccio, di nuovo, con la punta delle dita. Tracciavo disegni, ghirigori invisibili sulla sua pelle, sulla scritta che avevo lasciato quella notte. 
Gerard stava sorridendo. Non chiedetemi il perché lo stesse facendo. Si dice che i vivi possano sentire i morti in qualche modo, ma non sapevo se valeva lo stesso per me, ‘Frankie, lo sfigato morto di quartiere’. 
All’improvviso, preso dalla consapevolezza che lui non si sarebbe mai accorto di me mi sono alzato in piedi. Il mio sguardo ha percorso tutto il suo corpo e si è soffermato a lungo sulla sua bocca, dove dormiva serenamente ancora il mio nome. 
Mi sono sentito sorridere e mi sono sdraiato sul letto, accanto a lui, dalla parte del muro. Con delicatezza, come se, se avessi fatto qualche piccolo rumore avrebbe potuto scoprirmi, mi sono accoccolato vicino al suo piccolo corpo stanco, appoggiando lentamente la testa sul suo braccio e stringendomi sempre di più accanto alla sua pelle. Ero morto, ero freddo, ma sentivo il calore di Gerard, potevo sentirlo uscire dal suo corpo e posizionarsi sul mio, potevo sentirlo entrare attraverso i pori della mia pelle e mi faceva sentire bene. Potevo sentirmi umano. Per quegli attimi vicino a lui, mi sono sentivo umano. Ero vivo anche io. 
Mentre lui era immobile, a malapena respirava.
- Buongiorno, Gerard - ho sussurrato sul suo braccio, chiudendo gli occhi. 
Ho creduto per un attimo di essere in grado di sognare, quando un altro flashback mi ha sbiancato la mente e mi ha portato di nuovo indietro nel tempo. 
La scena era la stessa. Ero accoccolato sul corpo di Gerard, solo che le mie mani gli stringevano i fianchi, la mia gamba sinistra lo abbracciava e la mia testa era serenamente appoggiata sul suo petto. Il suo braccio che stringeva le mie piccole spalle. 
- Credo di aver paura - la mia voce era bassa e usciva lenta, mentre i miei occhi fissavano il vuoto dritto di fronte a me. 
- Credo di averne anche io. 
Era buffo. Era quasi buffo. Mi sarei aspettato, da qualunque altra persona del mondo una domanda in risposta alla mia affermazione. La domanda che fanno sempre tutti: ‘paura di cosa?’
Gerard non aveva bisogno di chiedermi di cosa avessi paura, perché le nostre, di paure, erano esattamente le stesse e lui le conosceva come se fossero suoi vecchi compagni di liceo. Le paure ci rendevano ancora più simili, ci sentivamo spaventati insieme ed era magnifico. Non sentirsi spaventati. Era magnifico essere insieme anche in una situazione del genere. Ci stringevamo mentre entrambi tramavamo e non avevamo bisogno di nessun altro. Ci bastavamo a vicenda. Ci saremmo bastati. Ce l’avremmo fatta da soli, con i nostri tremori, con le nostre paure. Tremavamo l’uno nelle braccia dell’altro ed avevamo paura insieme. E ci guarivamo insieme. 
Le sue mani hanno iniziato a sfiorarmi i capelli, Gerard stava cercando di contarmi i pensieri con le mie ciocche che sistemava dove voleva. I miei pensieri erano tutti suoi.
Con le dita sono andato ad accarezzare il suo braccio, tempestato da profonde cicatrici. 
 - Forse quel giorno non avresti dovuto salvarmi. - la mia voce era distante, lenta, carica di tormenti. - Sai… credo sia più facile dire addio ad una persona che non hai mai conosciuto, no? So che dovremo salutarci un giorno e io non sono pronto per quel giorno, non lo sarò oggi, non lo ero ieri e non lo sarò né domani né mai. Non sarò mai pronto a dirti addio, Gerard. E più passano i giorni e più sento che sarà peggio. A volte è come se sentissi già la tua mancanza. 
Gerard ha abbassato la testa, voleva guardarmi negli occhi, ma io non volevo guardare nei suoi. Lo sentivo sorridere, come se le mie parole invece di fargli del male, lo avessero confortato. 
- Ma lo sai che sei un metro e sessanta di paranoie? E problemi. E ansia. Tanta ansia. 
- Sessantadue. 
- Che?
- Sono alto un metro e sessantadue, Mr. Altezza. 
- Ah, scusa. Hai due centimetri in più di paranoie, allora. 
- Ero serio. 
- Lo so - si è girato sul fianco, mettendo un braccio sulla mia vita, per guardarmi negli occhi. Delicatamente ha appoggiato la fronte sulla mia, iniziato a fare su e giù con le dita sulla mia pelle chiara. La mia testa appoggiata sul suo braccio libero. - Non possiamo stringere qualcosa tra le braccia per sempre. Nessuna cosa dura davvero per l’eternità, lo sai. Anche questo momento giungerà al termine, non potrò restare qui a stringerti, entrambi ne siamo consapevoli, ma entrambi non ci fermiamo. La consapevolezza di morire non ci impedisce di vivere, Frank. Se un giorno dovremo dirci addio, beh, quel giorno saremo pronti, ma per adesso, - la sua carezza era diventata una vera e propria stretta sul mio fianco e con un gesto soltanto ha avvicinato i nostri corpi ancora di più. - per adesso vieni qui, gigante. 
Ma la mia mente del presente sapeva che non saremmo mai stati pronti per quel momento che in realtà si era concluso con Gerard chiuso in una stanza a sbattere i pugni contro una porta chiusa a chiave, lasciato solo, con una lettera a dirgli che la sua vita era più importante di quella di un maledetto come me. Una lettera che lo supplicava di lasciarmi andare, lasciarmi sprofondare in un angolo della sua mente. Che lo supplicava di dimenticarmi, mentre ora supplicavo il contrario. Avrei dato un’altra vita pur di fargli ricordare il mio volto. 
- Perché devo essere sempre io quello preso in giro? - ho sussurrato in un sorriso sulle sue labbra. 
- Perché sei il più bello. - E poi mi sono ritrovato a baciare l’impulsività di Gerard, le sue labbra pesanti e la sua lingua veloce, all’improvviso. Come se nell’amore lui avesse trovato un modo per scaricare le sue paure e la sua rabbia. Il suo carattere era così dolce al contrario, era docile, le sue parole erano sempre dette con voce sottile, quasi come se avesse continuamente avuto accanto qualcuno da non svegliare. Come se parlare a voce alta significasse risvegliare qualche mostro che lui era riuscito a nascondere. 
Mentre mi baciava e spostava il suo corpo sul mio, invece, il Gerard pieno di paure sembrava sparire, nascondersi. Le sue mani erano rapide, accarezzavano la pelle fredda sotto la mia camicia nera, le sue dita calde correvano, si spostavano da una parte all’altra. 
Il suo corpo, coinvolto nella sua fretta, andava su e giù sul mio, in maniera frenetica, ma al tempo stesso leggera e non solo il me di allora, ma anche il me del presente, amava le sue mani tra i miei capelli. 
I nostri respiri, sempre più pesanti andavano pian piano fondendosi, perché è questo che fa di te l’amore. Una metà pronta ad accoglierne un’altra e noi eravamo due metà distrutte, pronte ad accoglierci a vicenda. A curarci e, non lo sapevamo ancora, ma pronte anche a ferirci. 
Continuando a baciarmi, si è tolto la maglietta, con gli occhi ben chiusi sembrava avere la mente altrove. 
- Tua mamma. Non. Dovrebbe… tornare? - ho sussurrato tra un bacio e l’altro. Gerard era il tipo di amante che non ti permetteva di respirare un attimo, non che mi dispiacesse. 
Appoggiando la fronte sulla mia, mi ha sfiorato i capelli, ancora ad occhi chiusi. - Ha detto che faceva tardi. Abbiamo tutto il tempo del mondo… se vuoi. 
- Che domande - ho preso il suo volto con entrambe le mani e ho spinto le nostre labbra ad unirsi ancora. Gerard sorrideva contro le mie. 
- Non era una domanda. Ti dispiace togliermi i pantaloni? 
- Togli prima i miei. 
Con mani lente, questa volta, Gerard ha sfiorato l’apertura dei miei jeans, giocherellando con la cerniera e soffermandosi sulla mia pelle. - Stai dimangrendo. 
Ho stretto i suoi capelli tra le dita con dolcezza. - Sto bene. 
- Voglio che tu stia davvero bene. 
Affondando la testa nell’incavo del suo collo, ho fatto mio il suo profumo fresco. Era delicato, distante. Gerard odorava di cose passate, di foto scattate da polaroid comprate al mercato dell’usato. Odorava di ricordi e di mandorle. Sigarette spente a metà. Ho baciato la sua pelle, mentre lui si sfilava i pantaloni e subito dopo i boxer, lasciando me ancora in mutande e maglietta. 
- È con te che sto davvero bene. Pensare di perderti, questo non mi fa stare bene. - Ho preso il suo mento con una mano, per fare in modo che mi guardasse negli occhi. - Non ho mai avuto niente nella mia vita, non ho mai vissuto, ho sempre cercato di sopravvivere e ora che il destino mi ha portato te…non permetterò a nessuno di portarti via da me. 
Però hai permesso che portassero via te, davvero bravo, Frankie.  
- Nessuno mi porterà via. Io… sono nato per incontrarti. 
E per l’ennesima volta sentivo la rabbia in un suo bacio, la sua lingua cercava frenetica la mia, le sue mani sui miei fianchi bassi, sotto i miei boxer. Piano le sue dita si sono mosse verso il centro e ho morso le sue labbra. Mi ha stretto con una mano e ho sentito la mia mente del presente quasi svanire. Era come se stessi sempre di più immergendomi nella scena, fondendomi con il me del passato. Piano, vedevo i suoi ricordi, mi riprendevo i miei ricordi. Sentivo la vita, sentivo di aver avuto una vita vera. E in un solo momento quel flash è andato avanti veloce, sapevo quello che sarebbe successo dopo, lo ricordavo, avevo ricordato tutta quella giornata. Avevamo fatto l’amore. Aveva stretto le mie gambe sulla sua vita ed era entrato in me con delicatezza, soltanto dopo tutte le accortezze che il mio corpo richiedeva. Non mi avrebbe mai fatto del male, neanche in un momento del genere. Avevamo respirato insieme, ci eravamo consumati quella sera e i nostri corpi credevo non avrebbero più potuto scindersi. Lo amavo, mi amava, ma nessuno di noi due aveva il coraggio di dirlo all’altro, di dirlo ad alta voce, di dirlo a qualcun altro al di fuori di se stesso. 
Avevamo finito a baciarci e a strusciarci sul tappetto della sua stanza, avvolti dalle lenzuola calde che avevano accolto i nostri affanni. La scena andava sempre più veloce, ricordavo tutto, anche quando in un sorriso Gerard aveva detto sulle mie labbra “Sai? Credo di essere addirittura felice Non credevo di poterlo meritare” e io avevo risposto, scostandogli il ciuffo scuro dagli occhi “Io non credevo di poter meritare te.”
Eravamo rimasti abbracciati a lungo, per ore, fino a quando la madre di Gerard non aveva bussato alla porta, con dolcezza. - Gerard, tesoro? Dormi? 
- Merda! - avevamo esclamato in un sussurro, nel medesimo momento, cercando di alzarci, ma inciampando tra le lenzuola e cadendo uno addosso all’altro. 
- Merdamerdamerda - mi ero infilato in fretta i pantaloni, dimenticando i boxer, mentre afferravo la camicia, finita sulla scrivania. - Proprio ora che stavo per assicurarmi la simpatia di tua madre! - ho sussurato, mettendo la camicia. 
- Hai la camicia al contrario, idiota! 
- Gerard, tutto bene? - bussava ancora. - Posso? Ti ho portato la pizza. 
- Mamma! S-sì, tutto bene, è che… mi sono appena svegliato. Scusa, devo vestirmi. 
- Non c’è Frank con te, vero? 
Gerard si infilava in fretta i vestiti, mentre mi lasciava altri baci veloci sulle labbra. 
- Pff, perché dovrebbe? 
- Non lo so, ultimamente è sempre con te quel ragazzino. Ti lascio la pizza qui o vieni giù dopo?
- Vengo giù dopo! 
- Va bene. 
- E frank ha la mia stessa età, mamma. 
- Sembra più piccolo! Fa’ in fretta che si raffredda tutto!
Ricordavo anche le nostre risate soffocate, i nostri corpi si erano di nuovo avvicinati e tra un sorriso e l’altro continuavamo a baciarci. 
Mi ero rivestito, avevo raccolto le mie cose e stavo per andare via, scappando dalla finestra come un ladro. Poi, mi sono fermato a guardare Gerard. Non un capello era in ordine, i suoi occhi erano grandi, accesi, pieni di vita, più di quanta avessi creduto di poter vedere. I suoi pantaloni erano ancora sbottonati e per la fretta avevamo confuso i calzini. Lui ne aveva infilato uno mio, io uno suo. Il suo petto era ancora nudo e scorgevo i primi brividi sulla sua pelle causati dall’aria gelida che entrava dalla finestra aperta. 
- Sei bellissimo dopo aver fatto l’amore - ho detto con un sorriso sghembo sul volto e poi sono sgattaiolato via, come un vecchio amante quasi scoperto a nascondersi in un armadio. 
Mentre scivolavo giù dalle mura di casa sua, la scena è diventata scura e lentamente è svanita, facendomi tornare per l’ennesima volta alla realtà. 
Mi sono ritrovato a fissare il soffitto, sdraiato sul letto della camera di Gerard e faceva freddo, la finestra era aperta. 
- Ho appena guardato un porno - mi sono detto, accigliandomi. - Gerard…? - mi sono seduto, ispezionando la stanza, alla ricerca della figura scura del ragazzo dagli occhi tristi. Gerard era di spalle, appoggiava una mano aperta sulla sua scrivania, nell’altra stringeva una tazza di caffè e guardava in basso. Doveva stare fissando un punto, con occhi vuoti, assenti, perché nulla nel suo corpo dava segno di vita. Questo Gerard era così diverso dal Gerard che vedevo nei miei sogni, nelle miei ricordi. Era senza alcuna ragione, nelle sue vene il sangue scorreva lento e il suo cuore pulsava solo perché doveva, non perché voleva. Era immobile, lì, perso tra le parole che la sua testa lasciava fluire, alzava soltanto ogni tanto il braccio per fare un sorso di caffè. 
L’ho osservato mentre batteva il piede in maniera sempre più pesante sul pavimento, il nervosismo in lui cresceva respiro dopo respiro, le parole nella sua testa stavano diventando urla, potevo vederle, potevo veder correre davanti ai suoi occhi tutti quei Dove sei?, Chi sei?, Perché?
Ha battuto un pugno sulla scrivania e poi, dopo un urlo staziante, ha lanciato contro la parete la tazza di caffè, andata in frantumi. La tinta marrone si spargeva sul muro, avrebbe potuto esserci anche il cervello di Gerard spappolato lì sopra. 
- Me lo sono scritto da solo. L’ho scritto da solo l’ho scritto da solo l’ho scritto da solo l’ho scritto da solo l’ho scritto da solo l’ho scritto da solo l’ho scritto da solo l’ho scritto da solo l’ho scritto da solo - parlava velocemente, andava avanti e indietro per la stanza, gli occhi fissi in basso, vuoti come la mia anima. 
Si è poi appoggiato al muro, sbattendovi forte la schiena, lasciando il suo sguardo prima andare verso l’altro, colmo di lacrime, poi al suo braccio, dove io vi avevo lasciato quella scritta. Forse non era stata una così buona idea. Stupido, stupido, stupido fantasma che non ero altro. Avrei dovuto rimanere al mio posto, lasciare a Gerard il tempo di guarire. Con i mesi la ferita che aveva lasciato la mia assenza sarebbe scomparsa, si sarebbe rimarginata, non sarebbe rimasto altro che una vecchia cicatrice. Avevo solo complicato tutto, lo avevo solo fatto stare male. 
In quel momento avrei voluto morire un’altra volta. 
Mi sono alzato di fretta dal letto, per raggiungerlo. - Gera-Gerard, perdonami, non avrei… non avrei… - mi sono morso le labbra, cercando di trattenere le lacrime. Con le mani ho tentato di prendere il suo volto, ma lui era così distante. Ci divideva una linea troppo spessa, un universo troppo grande. Ho sfiorato la sua guancia, osservando, con un sorriso amaro, le sue lacrime scendere, insieme alle mie. Le nostre anime vivevano in simbiosi, anche ora, anche ora che forse entrambe erano morte. 
Gerard ha abbassato lo sguardo sul suo braccio, analizzandolo. - Io… non è la mia scrittura. Pensa pensa pensa. Chi è entrato nella mia camera stanotte? Pensa, Gerard, che sta succendo? - si è preso la testa fra le mani. - Che mi sta succedendo? - In lacrime si è lasciato strisciare contro la parete, fino a sedersi sul pavimento. Quando ha alzato la testa, per un solo attimo ho creduto stesse guardando dritto nei miei occhi e invece mi passava attraverso.
Mi amava. Ricordava di amare qualcuno, sentiva di amare qualcuno, ma non si ricordava il mio volto. 
Provateci voi a non sentirvi una merda nelle miei condizioni. Morto, dannato, maledetto, abbandonato, drogato, autolesionista, basso, terribilmente pasticcione. Non c’era una cosa, una sola, che mi andasse bene. Ero un disastro, anche da morto. Anche senza un’anima a cui dare la colpa. 
Gerard ha allungato una mano verso la mia scritta. Qualcosa, dentro di me, forse lo stomaco, si è annodato. Le sue dita sottili si muovevano piano verso il suo braccio destro e non sapevo dove guardare, se nei suoi occhi curiosi o se verso il suo braccio. 
Le sue dita hanno sfiorato appena la scritta e in quello stesso attimo, nell’esatto momento in cui Gerard aveva toccato il suo braccio, ci siamo ritrovati. Per mezzo secondo la mia mente si era di nuovo annebbiata, ho rivisto i due anni che avevamo passato insieme, ma era tutto troppo veloce per poterlo ricordare e il mio corpo, così come la sua anima, avevano vibrato, scossi come da elettricità. Qualcosa, per un attimo, ci aveva unito, per poi dividerci ancora. 
L’impatto mi aveva fatto cadere a terra violentemente, mentre Gerard era rimasto immobile contro la parete. Il suo sguardo aveva qualcosa di diverso, ci si poteva vedere una piccola luce in quegli vuoti.
Era… sorpreso.  
Mentre lo guardavo negli occhi, sorridendo, qualcosa, nel mio corpo, aveva iniziato a far rumore, soltanto per qualche istante. Il mio cuore aveva vissuto per un altro paio di battiti e nel contempo tra le labbra di Gerard sfuggiva il mio nome. 
- Frank…

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