Altre eclissi per non rivederci

di Centomila
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dovremmo spogliarci di certi periodi ***
Capitolo 2: *** Continenti e fusi orari ***
Capitolo 3: *** Se alle crisi mondiali preferisco i tuoi sguardi ***



Capitolo 1
*** Dovremmo spogliarci di certi periodi ***


Le lingue di fuoco riscaldavano l’atmosfera, si attorcigliavano ai ricordi che m’infestavano la mente e li riducevano in cenere.
Eppure li sentivo ancora tentennare sulla spina dorsale, danzando dal bacino sino al midollo osseo.
Poi mi canticchiavi quella canzone che ci piaceva tanto e sembravano scomparire nel nulla, ancora.
La nostra relazione, per quanto instabile, mi piaceva così, mi piaceva vederti una volta ogni tre mesi, mi piaceva perdermi tra le corde della tua chitarra e tra i tratti della tua grafite, mi piaceva persino passare le nottate a fissarci su skype.
Ed erano mesi che non vivevo per aspettarti, come se fossi stato bloccato, alla stazione dei treni, quelli che non arrivano mai.
E sentivo che nulla avrebbe rovinato quella serata, perché tu eri finalmente lì con me, davanti ad una fiamma, con i nostri amici, con i nostri sorrisi vivi per la prima volta dopo tempo.
E ‘nostri’ mi suona strano ancora adesso, che n’è passato di tempo.
Ma non m’interessava, non m’importava se un ‘noi’ non c’era ancora o se non ci sarebbe mai stato, mi avevi in pugno, avresti potuto decidere di gettare via i miei sentimenti da un momento all’altro, ed invece non l’avevi mai fatto, e mi ricordo che accennasti a qualcosa che suonava come quella parola tanto consumata inutilmente che è ‘amore’, ma io non t’avevo mai creduto.
Mi lasciai catturare dai tuoi occhi, sembrava bruciassero di blu, spaziassero di colori indefinibili, così indecifrabili che ci affogavo ogni volta.
Sentivo ricostruirsi le nostre emozioni che venivano frantumate troppo spesso da un paio di pixel, o da centinaia di chilometri.
“Devo parlarti” mi accennasti.
Colpito ed affondato. Deglutii tutte le parole che mi avevano occupato la testa fino a quel momento.
Se qualcuno avrebbe rovinato quella serata non potevamo essere che noi, con i nostri discorsi seri, i nostri masochismi involontari, o ancora i nostri silenzi scomodi.
“Dimmi” abbozzai un sorriso, fingendo che le due paroline di prima mi fossero scivolate addosso.
Avvicinasti la testa alla mia spalla, portandoti poi le ginocchia al petto.
Avevo già capito di cosa si trattasse, ti cinsi le spalle con il braccio, e ti strinsi più forte che potessi, come se in questo modo sarei riuscito a non farti andare via.
“Mia madre” ti si spezzò la voce.
“Dove dovrai andare?”.
“Vancouver” dicesti d’un fiato.

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Capitolo 2
*** Continenti e fusi orari ***


Che mi eri così vicina e non ti avevo mai sentita più distante.
E dovevo dormire, ma le tue parole m’echeggiavano in testa. Ed i tuoi sorrisi di troppo che tanto amavo, mi voltavano lo stomaco. Ancora non ci credevo, non ci credevo che davvero mi avevi detto che non ci saremmo più visti con un sorriso stampato sulle labbra.
E non mi bastava più sentire la tua pelle sotto le mie dita, non mi bastava più vedere i tuoi occhi saturi di quello che credevo fosse amore, non mi bastavano più i tuoi sospiri e le tue parole che mi avevano fatto sentire, così tante volte, l’unica persona di cui davvero t’importasse.
Perché quando credi finalmente di esserne uscito, bastano due parole a rigettarti dentro?
A confonderti con tutte quelle persone che sono morte prima di nascere, con tutta quella gente che, ormai, la speranza l’ha persa, che va avanti con inerzia, e con gli sguardi vuoti di chi non ha più l’anima, di chi non riesce più a reggersi in piedi, e di chi non vuole farlo, perché stanco di doversi rialzare ad ogni caduta.
E poi? E poi di cosa cazzo avrei vissuto quando non sarebbero stati più un centinaio di chilometri a dividerci ma un continente intero? Che ci avrebbe diviso un oceano, e comunque non ti sarebbe importato.
Che i tuoi sorrisi sarebbero stati sempre della stessa staticità su skype, a Berlino così come a Vancouver. Ed i nostri discorsi sempre troppo poveri, perché non ci andava di distruggerci a vicenda, che preferivamo mentirci.
Perché l’amore a distanza non lo si spiega.
Non la si sa spiegare quella sensazione di vuoto che ti prende lo stomaco ogni mattina appena ti svegli, ed è destinata ad annientarti per tutta la giornata; non lo si spiega quel bisogno di sapere che l’altro stia bene, a prescindere da come stia tu; non la si spiega quell’ansia che ti prende quando non senti l’altro da giorni; non lo si spiega e basta, perché non lo si comprende finché non lo si prova sulla propria pelle.
E non volevo che quel fine settimana volasse come tutti gli altri. Volevo viverti per l’ultima volta e strapparti l’ultimo bacio alla stazione, come in uno di quei film melodrammatici di merda.
“Non riesci a prendere sonno, vero?” dicesti, prendendomi per mano.
“Da quanto sei sveglia?” ribattei.
“Non importa” sospirasti, lasciando la presa ed accasciandoti sul materasso.
“Mi sento inutile, davvero. Che vorrei poter dire qualcosa per farti sentire meglio” accennai “e detto sinceramente, trovare qualche lato positivo alla tua partenza, servirebbe anche a me”.
Avevi gli occhi colmi di lacrime, ed i brividi mi si attorcigliavano attorno al midollo osseo.
“Io, te lo giuro, che non ti dimentico”.
Abbassai lo sguardo, e lo persi nel nulla. Avrei voluto registrarti, in modo da poter risentire le tue parole ogni volta che ne avrei avuto bisogno, ogni volta in cui avrei creduto che non sarei diventato altro che una macchia sbiadita nel tuo passato.
Ed a queste promesse non c’avevo mai creduto, e forse non avrei dovuto cascarci neanche quella volta.

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Capitolo 3
*** Se alle crisi mondiali preferisco i tuoi sguardi ***


I primi raggi dell'alba filtravano dalle veneziane, ti accarezzavano i capelli, danzavano sulle clavicole per poi percorrerti fino ai polsi.
Sembravano quasi disegnare i tuoi tratti lievi, dare forma e colore ai tuoi sguardi, gli stessi che mi facevano perdere la testa ad ogni battito di ciglia.
Avrei voluto ricordarti così, con la tua voce debole, con il tuo sorriso imbarazzato e quelle lentiggini che si moltiplicavano alla luce del sole, con i capelli legati, che mettevano in mostra quel tuo bel viso che eri abituata a nascondere, e disordinati, come i tuoi pensieri, vestita di tutti i tuoi problemi che insieme avevamo risolto e di tutti gli altri che avremmo dovuto risolvere; insieme. Quella parola che ormai non aveva più senso, e che forse un senso non ce l’aveva mai avuto. Che ci eravamo distrutti a vicenda, che ce ne siamo andati, tutti e due, e soprattutto tu.
E non avevo voglia di continuare a riflettere su quello che sarebbe accaduto o su cosa saremmo diventati, se avremmo perso i contatti e se ti saresti innamorata di qualcun altro.
Volevo portarti via, e non m’interessava se saresti partita e se il freddo di Gennaio avrebbe reso tutto più drammatico di quanto già fosse. Presi la mia chitarra, ti presi per mano e scappammo via da quella casa che c’opprimeva gli animi, era come se stessimo scappando dal nostro passato, dalle tue parole della sera prima, come se stessimo ignorando il futuro e vivendoci il presente.
Ti portai sulla riva del lago, e sembrava tutto nostro e non c’eravamo nemmeno mai stati prima.
Iniziai prendendo due accordi, fino a far scivolare via dalle mie corde vocali quella canzone che amavamo tanto per l’ultima volta.
Ed ogni volta che ci ripenso, ricordo quei tuoi occhi luminosi che mi avevano scavato oltre la gabbia toracica e mi avevano colpito dritti al cuore, ricordo quelle lacrime che ti rigavano il volto e le tue labbra che avevano cercato così tante volte le mie.
E forse non ti avevo mai amata tanto, ma non ti dissi nulla.
Che passammo la giornata così, distesi sui quei ciottoli quasi come fossimo in uno di quei libri che ti lasciano senza fiato, con le vibrazioni delle corde della chitarra a farci da colonna sonora.
Ce ne andammo solo quando fu ora di salutarci, che ti accompagnai alla stazione con il cuore che rischiava di traforarmi il petto. E mi abbracciasti così forte da farmi dimenticare di tutto, di tutta l’angoscia che m’aveva occupato la mente quella notte, di quel senso di vuoto, di quella tristezza cronica che mi prendeva troppo spesso.
E cercai le tue labbra per l’ultima volta, che ci sciogliemmo in uno di quei baci che sembrano segnarti a vita, che non si dimenticano mai.
La voce metallica degli altoparlanti ci divise, salisti su quel treno con un sorriso vuoto di speranza, lo stesso che indossavo io in quel momento.
Guardai il treno correre verso Berlino, ed urlai di amarti e tu facesti lo stesso, ma sapevamo entrambi che era troppo tardi.

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