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di viperas
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sola ***
Capitolo 2: *** Sorrow ***
Capitolo 3: *** Revival ***



Capitolo 1
*** Sola ***


Un giorno incontrai un bambino cieco, mi chiese di descrivergli il mare, io osservandolo glielo descrissi, poi mi chiese di descrivergli il mondo, io piangendo glielo inventai…
Jim Morrison
 
 
IL sole ancora non era sorto a illuminare la stanza della giovane, ma lei si muoveva con sicurezza al buio abbottonandosi la camicia bianca, infilandosi le calze e la gonna nera e verde smeraldo dell’uniforme e le all star che aveva ricevuto il permesso di usare a causa del dolore che le ballerine le causavano ai piedi: a tal proposito spesso si chiedeva se era la gente, a essere particolarmente credulona, o lei incredibilmente convincente? Ovviamente dopo alzava le spalle in gesto di non curanza.
Con la dimestichezza dovuta agli anni di utilizzo, fece il nodo alla cravatta verde e argento e, infine, legò i capelli in una lunga treccia castana dalle eccentriche punte azzurre.
In silenzio, per non rischiare di svegliare le compagne di stanza, uscì dal dormitorio e si diresse verso la sala comune, ne uscì e andò nella sala grande a prendere un solitario bicchiere di spremuta.
Lentamente andò verso l’aula di incantesimi, la superò e si accoccolò in una piccola nicchia del muro, da una tasca del mantello estrasse un piccolo aggeggio babbano, comunemente noto nella comunita non-magica col nome di i-pod*, infilò le piccole cuffie e si perse nel suo mondo fatto di solitudine, sospiri, fumo e sangue; ma soprattutto solitudine e assolutamente non lacrime.
 
Si risvegliò con un sussulto quando qualcuno la scosse leggermente. Suo cugino Al. La ragazza annuì lievemente come a ringraziarlo e saltò giù dalla cavità allontanandosi dal cugino: odiava il contatto fisico. Si tolse le cuffie stoppando la musica, i ragazzi stavano cominciando a entrare in classe preceduti dal professore e lei si accodò all’ultimo a qualche passo di distanza.
Quando tutti furono entrati si sedette nel solito banco solitario e iniziò a seguire la lezione con attenzione, tutto pur di non notare le occhiate insieme impietosite e colpevoli del cugino.
 
Tutto era iniziato durante il primo anno: Albus era stato smistato a Grifondoro e Rose a Serpeverde. Nonostante l’ormai inesistente rivalità fra case, Al aveva iniziato ad allontanarsi, non in modo brusco, ma pian piano, lentamente, in modo ambiguo, quasi non lo stesse facendo.
Proprio come quando ci si allontana da un serpente.
E quando se ne era resa conto, era troppo tardi.
All’inizio non capiva, la piccola Rose… non voleva capire.
Ma era una Serpeverde, Rose, non era stupida e nemmeno ingenua. Si era resa benissimo conto che era stata sostituita.
Ma non capiva, Rose, come Al avesse potuto sostituirla tanto facilmente.
E poi, l’illuminazione: non le aveva mai voluto bene come gliene voleva lei, per questo ci era riuscito, per questo aveva messo Scorpius al suo posto.
Paradossalmente, in quel cuore dagli occhi verdi, non c’era posto per il verde.
Lei però non ci sarebbe mai riuscita, a trovare qualcuno a ricoprire quel posto ormai vuoto, nessuno sarebbe mai stato all’altezza. All’altezza di cosa, poi, non era dato sapere, forse dell’idea che aveva di lui più che di lui.
Nonostante tutto, però, Rose non provava rancore perché lei sapeva di non meritarlo, se no non se ne sarebbe andato.
Perché Rose sapeva di non valere.
Soprattutto di non volere nessun’altro.
Così stava da sola Rose.
 
Perché Rose non meritava.
 
Vero?
 
La lezione era finita, i suoi compagni si stavano allontanando, lei si alzò con calma e, lentamente, cominciò a raccogliere le sue cose, quando sentì qualcuno schiarirsi la gola, come quando si cerca di attirare l’attenzione di qualcuno, ma lei non si girò, non alzò nemmeno la testa, sicura com’era che non si stessero rivolgendo a lei.
“Rose?” alzò la testa quasi stupita, ma cercando di non darlo a vedere: era Albus.
“mmm… io e Scorp ci chiedevamo se ti andava di venire con noi a Hogsmeade questo sabato.”
Lo guardò un attimo con sguardo vuoto, ricordando quante volte al terzo anno avevo sperato che glielo chiedesse.
Scosse lentamente la testa.
“Andiamo…” insistè Albus. Ma aveva, Rose, paura, una paura fottuta di essere scaricata di nuovo, quindi scosse piano la testa, nuovamente.
 Fece per prendere l’i-pod, ma questo era in mano al biondo che studiava incuriosito la sua musica “My Chemical Romance?” chiese stranito. La ragazza alzò le spalle, erano un gruppo babbano, normale che non li conoscesse.
Tese la mano, a fargli capire che lo rivoleva indietro, ma lui scosse la testa, quasi a farle il verso: “Solo se accetti di venire con noi”
Ma lei negò di nuovo e, senza far sentire la voce o usare la bacchetta, richiamò l’i-pod sotto i loro sguardi basiti, ma non voleva far uscire il minimo suono dalla bocca e neanche usare la bacchetta perché sapeva che lui sarebbe stato pronto con il protego. 
Con la borsa già in spalla si girò e si allontanò di qualche passo, ma un forte rumore la fece sobbalzare, evidentemente Albus si era innervosito e aveva tirato un calcio al banco che aveva slittato facendo tutto quel chiasso.
“Perché?” le chiese, era quasi sul punto di non rispondergli di nuovo, ma poi decise che per questa volta avrebbe potuto rompere il silenzio “Sei in ritardo di tre anni” sussurrò.
E corse via, Rose, scappò nell’altra classe, sperando di non arrivare in ritardo.
 
Finiti i corsi della mattina, mentre gli altri facevano pranzo, Rose andò nel parco, tirò fuori da una delle tante tasche del mantello un pacchetto di sigarette, ne estrasse una e la portò alla bocca mentre cercava l’accendino in un’altra tasca. L’accese tirando e la tenne in bocca mentre rimetteva l’accendino nella tasca nascosta.
Tolse la sigaretta e chiuse la bocca lasciando che il fumo le scendesse in gola bruciandola insieme alle narici, quando usciva.
Fumava camminando e si sedette ai piedi di un grande albero, dopo un attimo delle voci arrivarono alle sue orecchie.
“…Ma sono preoccupato Scorp! Non mangia quasi mai, parla di meno, si spaventa se qualcuno la sfiora anche solo e in più hai sentito anche te la puzza di fumo! Si sta rovinando con le sue stesse mani! E, Cristo, hai visto quanto è dimagrita!”
“Si, ma Al, pensaci: dopotutto come fai a pensare che voglia essere aiutata proprio da te! Però è vero la camicia le sta larghissima.”
Rose si alzò con la sigaretta ancora accesa, fece il giro dell’albero e se li trovò davanti.
Improvvisamente sentì una gran rabbia verso di loro.
“Rose! Ma allora è vero che fumi! Non devi! Fa male!” le urlò contrò suo cugino e lei, per la prima volta da quasi sei anni rispose con voce sicura.
“Ci sono cose che fanno ancora più male, sai?”
“Si lo so che non dovevo…” incominciò lui, ma venne interrotto
“Non parlavo di quello.” Disse solamente e si allontanò, buttando la sigaretta ormai ridotta al filtro nell’erba, lasciandoli basiti.
E ne accese un’altra.
 
Perché Rose era stanca, molto stanca, e quella notte, con la lametta andò a fondo, molto a fondo, troppo a fondo.
 
 

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Capitolo 2
*** Sorrow ***


 
Vivere è facoltativo,morire obbligatorio.
Jim Morrison
 
Rose entrò nel castello, percorse i corridoi, leggera come il volo di un pettirosso.
La cosa strana era che i suoi passi erano sì leggeri, ma soprattutto lo era la sua anima: in quel momento si sentiva come un semplice spettatore della sua vita.
E il bello era che, vista da fuori, sembrava una perfetta tragedia in stile greco.
Ma no, quella non era semplicemente l’idea di una mente perversa di uno sceneggiatore pazzo: era la sua vita.
Il sadico era forse Dio?
Ma può un padre volere per una figlia tale sofferenza?
Rose non sapeva, non voleva arrischiarsi in pensieri eretici: chiariamo, lei non era credente: più che altro erano idee davvero trite e ritrite.
Camminava, camminava.
A un certo punto, sentì come uno schicco, un colpo di frusta e, all’improvviso tornò in sé.
La depressione la travolse, sentiva un peso che la schiacciava, la opprimeva, la soffocava.
Provò a respirare e, sebbene l’aria, in teoria, entrasse nei suoi polmoni il senso di essere in apnea non passava.
Non era, questa, una sensazione completamente nuova per lei, si era sempre sentita –da quando Al l’aveva abbandonata- un pesce tolto all’oceano.
Eppure non l’era mai capitato in modo così intenso.
Conosceva già, dunque, questo sintomo.
Sapeva anche, purtroppo o per fortuna, il modo per alleviarla.
Dolore. Fisico.
Se qualcuno in quel momento avesse guardato nel corridoio avrebbe visto una ragazza camminare.
Se qualcuno avesse osservato avrebbe visto che aveva una mano davanti alla bocca.
Ma solo se si fosse fermato avrebbe visto le unghie che graffiavano le labbra.
Solo se si fosse fermato avrebbe visto la tragedia in quegli occhi color del miele.
Solo se si fosse fermato avrebbe visto il dolore.
Solo se si fosse fermato avrebbe potuto salvarla.
 
Solo se…
 
Solo che nessuno si fermava più per Rose.
 
Perché nessuno si fermava più per Rose?
 
Camminava, dunque, senza meta precisa e, senza pensare, arrivò in un certo corridoio al settimo piano, davanti a un arazzo molto particolare, riaffiorò nella sua mente stanca il ricordo di una conversazione tra James e zio George alla Tana.
Con la fretta di chi si sente morire fece su e giù tre volte pensando ardentemente a un bagno, il posto più comodo per tagliarsi, il posto dove basta un po’ d’acqua e il sangue scivola dalle braccia.
Poi torna, ovvio, ma almeno si ha il tempo di fasciarsi e coprirsi.
 
Una porticina comparve e lei l’aprì con urgenza, lasciandosela chiudere alle spalle.
Con passi affrettati si addentrò nel bagno e, dopo qualche metro, si accasciò per terra.
 
Pensò alla lametta e quella, subito, le comparse fra le mani; in fretta si tolse la camicia e riprese il pezzettino di metallo fra le mani.
Senza indugio e con la dimestichezza di chi, suo malgrado, compie un gesto da molto tempo, la premette sulla pelle del braccio, appena sotto la cavità del gomito, all’interno, e premette e premette. Con un gesto deciso la trascinò poi squarciando l’epidermide sottile, arrossata e fragile a causa dei molti tagli precedenti.
La pelle si aprì con facilità e una gocciolina di sangue si affacciò dai bordi della lacerazione.
Rose premette sulla pelle per fare uscire il veleno che si sentiva dentro, poi riafferrò la lametta e con la stessa urgenza di prima incise direttamente sulla crosticina di un taglio precedente e a quello ne seguì un altro e un altro ancora.
Con una strana sensazione tra l’euforia e il terrore ne contò una ventina, da quelli più sottili, incisi uno dopo l’altro con ferocia, quasi a punire il proprio corpo, a quelli più studiati, più profondi.
 
Durante l’operazione aveva appoggiato il braccio a una coscia e ora la gonna era imbrattata dal sangue, ma, soprattutto, la sostanza rossa e vischiosa – il veleno, come lo definiva Rose – era per terra a formare una pozzetta vermiglia.
Rose passò una mano sul bordo del braccio e, con stizza, constatò che il sangue coagulato non permetteva a quello fresco di scivolare formando delle sorta di stalattiti.
 
Avvicinò la mano al sangue per terra e lo toccò sorridendo a quella consistenza gelatinosa tipo “flubber” un film babbano visto con sua madre.
 
C’era qualcosa di tremendamente sbagliato nell’allegria malata generata dal dolore.
C’era qualcosa di tremendamente sbagliato nel non trovare altro modo per non soffocare, nel non trovare altro modo per arginare la sofferenza emotiva.
 
E Rose, lo sapeva.
 
Aveva letto molto al proposito e sapeva che l’interpretazione data dagli psicologi era che il dolore fisico aiuta spostare l’emotivo su un piano più facile da controllare.
Perché il dolore della psiche è un qualcosa di sfuggente, in un certo senso non dimostrabile: mentre se hai la febbre c’è un modo per capirlo, c’è una sorta di giustificazione riguardo gli altri, non c’è per la depressione, la tristezza, il mal di vivere.
La fisicità del dolore lo rende dimostrabile, in un certo senso. Se scotti, se il termometro segna 40 di febbre, nessuno metterà in dubbio che tu stia male.
 
Ma il dolore psicologico è dimostrabile?
Rose sapeva che se avesse detto a qualcuno di star male dentro, avrebbe pensato che fosse un modo di attirare l’attenzione.
 
E così Rose si tagliava, era autolesionista per concretizzare il suo dolore, ma anche per punirsi perché che diritto aveva lei di essere triste se aveva da mangiare? Se aveva da bere? Che diritto ne aveva se aveva tutte le parti del corpo e tutto funzionante?
 
Ma non finiva lì, Rose si tagliava per fare uscire, insieme al sangue, quel veleno, quell’amarezza, che non la lasciava vivere. Non la lasciava respirare.
Ricordava di aver letto in passato un libro di Choelo dove un medico definiva quell’amarezza vetriolo.
Ecco Rose, attraverso i tagli, voleva farlo uscire.
 
All’improvviso sentì il rumore di una porta che si apre e, spaventata tentò di alzarsi, ma non ci riuscì: le gambe non la ressero, la vista le si riempì di “lucine”, si appannò e, in fine, divenne tutto nero.
 
 
 
Another POV
 
Ti potranno tagliare le ali, ma non potranno impedirti di volare.
Jim Morrison
 
Sarah camminava con una certa urgenza fra i corridoi deserti, incazzata nera perchénon trovava nessuno a cui chiedere indicazioni per un fottutissimo bagno e fra sée séimprecava in tutte le lingue che conosceva per essere stata costretta a cambiare scuola e, soprattutto, per quelle cazzo di scale lunatiche che, all’ultimo momento, l’avevano dirottata in una parte della scuola a lei ancora sconosciuta.
Alla fine arrivò in un corridoio completamente vuoto, fatta eccezione che per uno stupidissimo arazzo.
Si decise così a tornare indietro quando vide l’arazzo farle segno: “Ragazza! Vai avanti e indietro tre volte pensando al bagno, potresti salvare una vita, in fretta!”
Ora, normalmente, Sarah si sarebbe ben guardata da fare quello che le diceva un’arazzo, anzi, per buona misura avrebbe anche fatto una visitina a un ospedale psichiatrico, ma qualcosa nel tono di voce, o forse nella magia del luogo, la convinse, quantomeno, a provare.
Con una certa premura, insomma, la vescica le stava scoppiando, fece su e giù pensando al maledettissimo bagno.
Con suo grande stupore apparve una porta, con un pelo di diffidenza entrò e quello che vide, beh diciamo che la vescica fu l’ultimo dei suoi problemi.
 
Una ragazza giaceva per terra svenuta (morta?) con le braccia piene di sangue e una pozza dello stesso liquido che le si allargava ai piedi.
 
Un suono strozzato le uscì dalla bocca, ma non perse tempo e fece levitare il corpo e lo fece uscire dalla porticina tenuta aperta.
“Ti prego, arazzo! L’infermeria, l’infermeria! Non ho idea di dove sia.” Chiese terrorizzata all’arazzo sperando che anche questa volta le parlasse.
“Percorri il corridoio e prendi le scale, ti condurranno loro, tu dovrai solo andare dritto.”
 
Sarah corse con il corpo della ragazza appresso e fece come detto da quella specie di quadro e mentre aspettava, in ansia, che le scale si assestassero correttamente si ritrovò a pensare che non era un caso che si fosse ritrovata lì, ma che probabilmente la scuola era talmente impregnata di magia da capire quando uno era in pericolo di morte e aiutarlo e quello era in un certo qual modo rassicurante e incredibile.
 
Quando finalmente giunse in infermeria gridò con tutto il fiato che aveva in gola, poco data la corsa, e in un secondo una signora anziana uscì da un’altra stanza.
Sarah vide nei suoi occhi lo stesso orrore che doveva esserci nei suoi, ma la signora agì subito spostando la giovane su uno dei letti e iniziando a trafficare con boccette e incantesimi.
 
Stremata la ragazza si lasciò scivolare per terra e, in tutta la confusione che aveva in mente, un pensiero si fece chiaro: ”ti hanno tagliato le ali, povera amica mia, ma resisti perché non potranno impedirti di volare”.
 
 
 
 
Perché sì, quella sera Rose aveva trovato un’amica, anche se ancora non lo sapeva.
 
 
 
POV Albus
 
Capirai l'importanza di un sorriso, solo se ti verrà negato.
 Jim Morrison
 
Albus camminava veloce per i corridoi, nervoso, dietro al custode, ignaro del motivo per cui la Mcgranitt lo avesse chiamato.
Con il pensiero fisso di Rose in testa, aveva un brutto presentimento.
Da un po’ di tempo era molto preoccupato per lei, ma preferì non pensarci.
“Siamo arrivati”, Albus guardò stranito il custode, non erano nell’ufficio della Mcgranitt, ma davanti all’infermeria. Senza porsi troppe domande entrò e quello che vide lo fece impallidire, la preside gli si avvicinò e disse a Gazza di andare a chiamare gli altri suoi cugini poi gli appoggia una mano sulla spalla: “Come puoi vedere, Potter, la signorina Weasley sta male, ha perso molto sangue.” Gli disse con voce quasi dolce.
“Io… Lei… Si riprenderà? Perché l’ha fatto?” le chiese, anche se, una parte di Albus conosceva già la risposta.
“Ha perso molto sangue, come già le ho detto, ma questo non è certo un problema per Madama Chips, quindi, sì, dal punto di vista fisico si riprenderà, ma avrà bisogno di molto aiuto e molta forza di volontà per ritrovare la serenità.” Albus sta per assicurarle che lo farà, quando lei continua “Purtroppo c’è un altro problema, Potter, gli esami dell’infermiera hanno evidenziato un principio di anoressia. Tra poco arriveranno i signori Weasley, ma hanno insistito perché spiegassi la situazione anche a lei. Vogliono che lei le stia vicino, erano molto preoccupati” il senso di colpa iniziò a farsi spazio in lui…
“Anoressia?”
“Si, Potter, sa cos’è, vero?” annuì preoccupato.
“Posso vederla?”
“Basta che non la sveglia”
“Chi l’ha trovata?”
“Una ragazza arrivata da poco, stava cercando il bagno e siamo fortunati che non l’avesse trovato e sia capitata nella stanza delle necessità, adesso sta parlando con l’infermiera.”
Si avvicinò cauto a Rose nel suo letto, così piccola e fragile e la cosa che spiccò per prima erano le bende avvolte attorno alle braccia.
“Perché ha tutte le braccia bendate e non solo i polsi?”
“Se non fosse che lei la sosterrà in questi mesi per aiutarla a riprendersi, non glielo dire e che la cosa resti tra noi, signor Potter” lo ammonì la preside
“Certamente, signora” si affrettò lui a rassicurarla
“Io e madama Chips sospettiamo che il suo intento non fosse di suicidarsi ma “solo” di farsi del male, ma che, presa dalla foga del momento sia andata troppo a fondo.”
 
 
 
 
 
 
 
Note di fine capitolo:
 
Ok, non ho mai messo delle note di fine capitolo, ma penso che dopo questo capitolo sia d’obbligo: quello che volevo assicurarmi fosse chiaro è che se ho in qualche modo banalizzato autolesionismo e/o depressione non era mia intenzione e che, anzi, ci ho messo tutta la mia più buona volontà per fare il contrario.
Se qualcuno pensa che dovrei mettere rating rosso vista la crudezza di queste scene me lo faccia sapere anche solo tramite MP (o magari recensione, ma non voglio forzare nessuno:D ).
Infine volevo ringraziare chi ha messo la storia fra seguite o, addirittura, preferite e Giulia dans le noir per aver recensito.
Buona serata J

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Capitolo 3
*** Revival ***


“Tu invece. Maledetto dalla nascita.
Un uomo, se così lo si può chiamare, che Dio stesso ha rigettato.”
“Basta! Perché dici così?”
“Perché tu lo credi.
Ma se soltanto potessi vedere la bellezza che può venire dalle ceneri”
“Ma sono diversi da me”
“Sì, tu hai un vantaggio:
più grande è la lotta e più glorioso è il trionfo.”
The Butterlfy Circus

 
 
 
 
Rose si rigirò nel letto, infastidita dalla bocca impastata e dallo spessore sulle braccia dovuto alle bende.
Non riuscendo a riprendere sonno, aprì gli occhi e, nella luce soffusa, guardò disorientata la stanza.
Infermeria.
E, all’improvviso, i ricordi la fecero sprofondare nelle lenzuola, arrabbiata con sé stessa, visto che ora, a causa della sua stupidità, qualcuno sapeva di lei, la lametta. Di loro, i tagli.
Ma la stanchezza ebbe il sopravvento e si riaddormentò.
 
 
Dopo qualche ora, si risvegliò nuovamente e si stupì non poco nel vedere una ragazza seduta sul letto di fronte al suo con lo sguardo perso nel vuoto.
Se, da una parte, avrebbe voluto eclissarsi, non farsi notare, dall’altra, la bocca impastata si era trasformata in una sete tremenda, quindi, con non poca fatica, si mise seduta.
La ragazza sembrò riprendersi da quella sorta di trance, la scrutò a lungo e, infine, le si rivolse: “Come stai?”
Rose si guardò intorno costatando di esserci solo lei, un po’ confusa le chiese a sua volta: “Chi sei?”
“E’ maleducazione rispondere a una domanda con un’altra, non lo sai?”
“Lo hai appena fatto anche te” le fece notare “meglio, comunque, ora mi diresti con chi sto parlando?”
“Sarah e, se ti può consolare, neanche io sono del tutto certa di conoscere il tuo nome, nessuno si è premurato di dirmi questo piccolo particolare.” Disse con un sorriso.
“Io sono Rose” le rispose.
“Bene Rose, vado a chiamare tuo cugino, se scopre che ti sei svegliata e io non l’ho avvertito subito mi crucia: prima stava per farmi fare un voto infrangibile. Fortuna che è arrivata Madama Chips e si è dovuto accontentare di una semplice promessa” disse con un sorrisetto sbieco.
 
E prima che potesse replicare, se n’era già andata.
 
E Rose aveva sempre più sete.
Subito dopo che Sarah era uscita, aveva sentito delle voci, ma non se n’era curata e aveva chiuso gli occhi.
Se li avesse tenuti aperti, avrebbe visto Scorpius Malfoy entrare, fu, invece, uno shock quando qualche minuto dopo li riaprì e se lo trovò vicino che la scrutava.
“Che ci fai qui?” gli chiese schiarendosi la gola sempre più secca.
“Come ti senti?”
Rose sbuffò nel vedere che non le aveva risposto e decise di fare come lui e chiedergli un po’ d’acqua.
D’altronde, non vedeva perché confidarsi dirgli come stava; un conto era Sarah, che probabilmente l’aveva salvata e si meritava uno straccio di risposta, per quanto potesse essere ermetica e poco esaustiva quella che le aveva dato, un conto era lui.
Bevve tutto d’un sorso il bicchiere che il ragazzo le aveva portato, accorgendosi solo con un attimo di ritardo che così facendo aveva messo in bella mostra le bende sulle braccia ma Malfoy dimostrò di avere un minimo di tatto e fece finta di non averle notate.
Tossì un briciolo per via della gola martoriata, ma si riprese subito.
In quel mentre, Albus e Sarah fecero il loro ingresso, affannati e il cugino le vomitò addosso un fiume di parole: “Rose! Come stai? Stai bene? Che scemo! E’ ovvio che tu non stia bene! Hai sete? Fame? Male? Parlami Rose! Mi dispiace tantissimo, davvero, credimi, sono stato uno stupido, ma ti spiegherò, non per trovare scuse, solo per farti capire...” Concluse col fiatone.
A dir la verità non aveva ancora finito solo che Sarah, quella ragazza le stava sempre più simpatica, cosa strana per lei, lo aveva interrotto:
“Merlino, Potter, lasciala respirare, se continui a parlare tu è ovvio che non riesce a dirti come sta e se vuole ascoltarti! Non opprimerla!”
Albus le lanciò una mezza occhiataccia, ma sapeva che aveva ragione lei.
“Io… Sto, Albus, semplicemente sto. E forse ti ascolterò, ma più tardi, così ti metterai la coscienza apposto.”
“Io…” provò a dire lui, ma lei non lo lasciò parlare.
“Tu? Non lo fai per metterti la coscienza apposto? Questo, Al? Prova a negare!”
“No, Rose, non lo faccio per quello. So che non ti fiderai, a ragione, ma io voglio realmente recuperare la nostra amicizia. So che penserai che è tardi, ma ti prego…”
“Ne parleremo un’altra volta, anche perché tra un po’ la madama torna e vi cazzia a tutti quanti.”
“Weasley ha perfettamente ragione, è ora che ve ne andiate, tra poco i suoi genitori saranno qui. Dite al resto della parentela che possono venire domani a vederla. La signorina Bones può restare, penso che i signori Weasley le vorranno parlare.” Quella donna aveva un che di spaventoso, tipo il dono dell’ubiquità, pensò Rose.
Malfoy, che fino a quel momento era stato muto se ne andò con Albus salutandola.
 
“Sai, sei stata brava a gestire tuo cugino, non voglio impicciarmi, non so cosa ti abbia fatto e se non vuoi dirmelo non voglio neanche saperlo, però non penso di aver mai visto qualcuno più preoccupato e in colpa insieme”
Rose rifletté un attimo, prima di risponderle con una scrollata di spalle: “Preferisco non pensarci, ora.”
“Hai ragione. Forse dovresti riposarti, se vuoi esco, così non ti disturbo” Mise molta enfasi nel dirlo, come se ne dipendesse molto più che la sua uscita da quella stanza.
Rose pensò attentamente a cosa risponderle, perché sapeva che se le avesse detto di andarsene, lei sarebbe uscita anche dalla sua vita e avrebbe perso una possibile amica.
Valutò a lungo, una parte di lei le diceva che non aveva bisogno di nessuno, che stava bene da sola; un frammento di coscienza le suggeriva di farla restare, di accettare la sua offerta d’aiuto.
Mentre rifletteva la osservava attentamente, scrutando i suoi occhi nocciola e i capelli color del grano con un taglio corto e sbarazzino.
Rose sapeva bene che non si deve giudicare dalle apparenze, ma quella ragazza le ispirava simpatia e fiducia con quegli occhi vispi e quelle lentiggini appena accennate, la sentiva affine a lei.
Solo più allegra.
“No, resta pure non mi dai fastidio. Anzi…” le disse infine, mettendo fine a quella lotta interiore.
“Ne sono felice. Allora, in che casa sei?”
“A Serpeverde, tu?”
“Grifondoro, ma il Cappello Parlante era indeciso se mettermi tra i Tassi”
“Oh, e in che anno sei?”
“Sesto, tu?”
“Anche, ma come mai non mi ricordo di averti mai vista a lezione? Almeno metà delle ore le dovremmo avere insieme, va beh che non faccio mai caso a chi mi circonda ma le persone me le ricordo, almeno di faccia.”
“Sono nuova, sono arrivata da poco”
“Oh, e come ti trovi?”
“Mah abbastanza bene, se non fosse che continuo a perdermi.” Fece una smorfia e continuò “Ma d’altronde, io non è che ho un cattivo senso d’orientamento” fece un’altra pausa per poi esclamare con espressione disperata: “Io il senso dell’orientamento non ce l’ho!” sebbene non fosse chissà che gran battuta, Rose scoppiò a ridere. Per la prima volta da, probabilmente, mesi ( anni? ), rise, con chiaro nella mente un cartone che le aveva fatto vedere sua madre, insieme ad Al, dove un asinello, con lo stesso tono che aveva usato Sarah, esclamava: “ Io le dita non le ho!”.
 
Mentre Rose ancora rideva, entrarono i suoi genitori che la guardarono sorpresi e, dopo essersi ripresi, lanciarono un’occhiata riconoscente a Sarah, che scese dal bordo del letto dove si era accovacciata per presentarsi.
“Salve, sono Sarah, Sarah Bones.” Sorrise porgendo la mano alla madre di Rose.
“Piacere, io sono Hermione e lui è mio marito, Ron.” Disse in fretta prima di rivolgersi a Rose con espressione preoccupata.
“Rose…” non disse altro, non le chiese come stava, sapeva che non le avrebbe mai detto la verità, si limitò ad abbracciarla, il padre le posò una mano sulla spalla, stringendola lievemente.
Poco dopo arrivò Madama Chips che chiese ai genitori di Rose di entrare nel suo studio per parlare.
 
Per il resto del tempo le due ragazze rimasero in silenzio, dopo una ventina di minuti, quando ormai, Rose aveva la testa ciondolante, uscirono e le fecero promettere di scrivere una lettera al giorno e se ne andarono salutandola affettuosamente.
 
 
Albus POV
 
“Non serve strappare le pagine della vita,basta voltare pagina e ricominciare
Jim Morrison

 
Albus camminava strisciando i piedi, perso nel suo mondo di ricordi.
Non sapeva spiegarsi, lui, per quale motivo si fosse comportato così con Rose.
 
Bugia.
 
Lo sapeva, forse non in modo chiaro, forse era tutto un caos, confuso, ma un’idea del perché l’aveva.
Si era sentito, Albus, fuori posto affianco alla cugina, non sapeva, almeno all’inizio, perché si sentisse così a disagio.
Inizialmente pensava derivasse dallo stupore di scoprire che, in realtà, lui non conosceva Rose bene come credeva.
Lui l’avrebbe vista bene a Grifondoro, al limite a Corvonero, anche a Tassorosso, esagerando.
Ma mai tra le serpi. Mai.
Si chiedeva, si domandava, quale caratteristica avesse delle serpi: non sembrava molto ambiziosa, pensava che quello sarebbe stato comunque il male minore, o vendicativa.
Sulla scia di quel pensiero, iniziò a vedere cose che non c’erano, pensò fosse falsa, doppiogiochista, crudele…
 
Non capiva, non ancora, di star solo cercando una giustificazione.
Perché se lui si sentiva a disagio, fuori posto, non era per colpa di Rose. O no. Era colpa sua.
Perché, ma ci arrivò solo dopo qualche anno, il cappello gli aveva suggerito Serpeverde, ma lui aveva rifiutato, impaurito dal fatto di poter essere diverso.
Rose no e, paradossalmente, una serpe era stata più coraggiosa di un Grifone. E questo, Albus, non poteva proprio sopportarlo.
Così nel suo infantilismo, o forse non era cosciente, iniziò ad allontanarsi nella speranza che il disagio, la vergogna, che provava rimanessero insieme a Rose, che ne era la causa.
 
Inizialmente, per lo stesso motivo per cui si usa dire “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, stava meglio.
Ma poi, quella sensazione tornò amplificata e Albus non sapeva come liberarsene.
 
Nel frattempo vedeva Rose sempre più sola, ma si rifiutava di capire che fosse colpa sua.
Tutto fino a quando non la vide deperire sempre più, allora iniziavano i sensi di colpa e la tristezza, ma comunque Albus non provava a tornarle amico: pensava che non lo avrebbe mai perdonato.
 
Scuse.
Balle.
 
E, infondo, Al lo sapeva.
 
E aveva paura.
 
Seguendo quei pensieri, era arrivato nella sua stanza, sul suo letto, senza quasi rendersene conto. Si addormentò.
 
Fu svegliato da qualcosa di appuntito che batteva sulla sua spalla, un becco.
Con i movimenti lenti di chi si è appena svegliato da un riposino fuori programma, sciolse la lettera dalla zampa del gufo, che volò via.
Aprì la lettera con mani leggermente tremanti dopo aver riconosciuto la scrittura sulla busta:
Albus Severus Potter,
 Torre di Grifondoro,
Dormitorio del sesto anno.
Srotolò delicatamente la pergamena e cominciò a leggere.
 
 
Caro Al,
come va? Ti scrivo questa lettera, perché di parlartene a voce non ne trovo la forza: sono molto stanca.
Ma tralasciamo.
Sai, ho pensato molto, a quello che mi hai detto ( sia oggi, che quando mi hai chiesto di venire a Hoqsmeade ), ho riflettuto attentamente e valutato e ponderato tutto quello che è successo, tutto quello che ho provato.
Tutto quello che ho passato.
E fino a poco fa ero decisissima a non passarci assolutamente sopra.
Poi qualcuno mi ha fatto riflettere.
Quindi, vuoi sapere il verdetto Al?
 
Ebbene: ho mandato a puttane tutti i ragionamenti di sopra e, contro ogni logica, voglio perdonarti.
Non so se riuscirò mai a fidarmi di nuovo di te, forse sarò fredda e distante, ma quella non è una cosa che posso comandare, la fiducia.
Quella, se tornerà, lo farà da sé.
Cosa strana la fiducia, no? Anni per costruirla, secondi per distruggerla.
 
Ma c’è un motivo, anzi più di uno, se sono una Serpeverde: cambio pelle, io.
Come i serpenti.
Ora ho solo bisogno di riposo, di tempo per leccarmi le ferite, di curami, per poi lasciarmi tutto alle spalle; come una vecchia pelle da cui si è imparato tutto quello che si poteva imparare.
Non te lo nascondo, non sarà facile.
Sarà, anzi, una fatica immonda, per me. Ma, mi hanno detto, ho un vantaggio: “più grande è la lotta, più glorioso sarà il trionfo”
A questo punto, se vorrai sostenermi e aiutarmi, io accetterò nuovamente la tua presenza; se non lo vorrai fare, non proverò rancore.
 
Una volta, non tanto tempo fa, a dirla tutta, pensavo che la vecchia Rose, quella prima di Hogwarts, fosse sparita: annegata in tutta questa sofferenza, indifferenza e odio verso sé stessa.
Ora so, che quella Rose, è sempre al suo posto, un po’ dolorante e ammaccata, forse, ma è lì: sepolta.
 
Basta che qualcuno riesca a tirarla fuori, e qualcuno ci sta provando, con mio enorme stupore e, sì, felicità.
E Rose avrà pure tanti difetti, ma sa perdonare.
 
Ora ti saluto, Al, con la speranza che rifletterai attentamente a ciò che ti ho scritto.
 
Tua,
 
Rose
 
 
P.S. Beh dovresti ringraziare Sarah che ha portato la lettera in guferia, io avevo anche provato ad alzarmi, ma M. Chips stava per uccidermi per non farmi prendere freddo e rischiare di prendere un raffreddore ( un po’ un controsenso, no? )  :)
 

Ed Albus, con gli occhi lucidi, tirò un sospiro di sollievo, sorridendo al post scriptum della cugina, ammirandola per tutta la forza che doveva avere per essersi riuscita a rialzare.
E, sì, ci sarebbe stato.
E, sì, era stato un completo idiota. Per fortuna che Rose era più intelligente di lui.
Ma, d’altra parte, come zio Ron sottolineava sempre, aveva ereditato il cervello di sua madre.
 
Con un sorriso, prese pergamena e piuma e si accinse a scrivere una risposta a quella che, sperava, sarebbe tornata ad essere la sua migliore amica.

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