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di La neve di aprile
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Luca e Laura ***
Capitolo 2: *** Cecilia e Marco ***
Capitolo 3: *** Viola e Nicolò ***
Capitolo 4: *** Leonardo e Anna ***
Capitolo 5: *** Greta e Marta ***



Capitolo 1
*** Luca e Laura ***


Disclaimers
Luca, Laura © La neve di aprile
L’intreccio qui descritto rappresenta copyright dell’autrice (La neve di aprile).


Partecipante all'iniziativa "Addobba l'albero con il Cos!"

III giorno
Parola: biscotto.
Warning: fluff.
Prompt: "Il vero messaggio del Natale è che noi tutti non siamo mai soli" - Taylor Caldwell.
Fandom: Naruto





 

A Francesco che vorrebbe più azione,
e meno "orletti e merletti".

 

DUE DI UNO
Luca e Laura

 

 
“Dai, vieni qui.”
“No.”
“Dai…”
“Quale parte del no ti è sfuggita, la n oppure la o?”
“Non farei così, amore…”
“Faccio come mi pare e piace!”
“Non mi piace supplicarti, lo sai.”
“Non ti sto mica chiedendo di supplicarmi, ti ho chiesto di lasciarmi in pace.”
“E io non voglio!”
“E allora non lamentarti se poi ti ritrovi a supplicarmi.”
“…”
“…”
“Dammi un bacino.”
“No.”
“Dammi un bacino.”
“Non mi va.”
“Bugiarda.”
“Non mi va, in quante lingue te lo devo dire?”
“Dammi un bacino e facciamo pace.”
 
Laura stringe le labbra in una smorfia e gonfia le guance.
Luca si avvicina cautamente, superando il muro di lenzuola stropicciate che lo separano dal corpo nudo di lei.
Stesa su un fianco, può leggere il rilievo delle vertebre e disegnare una ragnatela di baci tra le asperità delle scapole sporgenti.
Una costellazione di nei, nella pennellata bianco latte della pelle scoperta, lo invita a congiungere ogni puntino scuro in punta di dita come se, facendolo, potesse leggervi una qualche verità su di lei che ancora non conosce.
Una pozzanghera di briciole gli si conficca nel fianco quando si protende per abbracciarla: Laura protesta, ringhiando a denti stretti qualcosa di irripetibile e irrigidendosi nella stretta calda delle sue braccia; nel mare di ciocche scure che si riversano sul cuscino la conchiglia pallida di un orecchio lo invita a bisbigliare piano il suo pentimento.
 
“Scusami, non pensavo fosse l’ultimo biscotto.”
 
Glielo dice piano, scostando delicatamente la massa buia dei capelli per trovare con il naso la curva elegante del collo.
S’impiglia nella sottile catenina, nel ciondolo a forma di cuore che le ha regalato per il loro primo anno assieme.
Una tenerezza tiepida gli scalda il petto, ma affonda i denti nella carne delicata della gola scoperta come a volerla punire per il suo silenzio.
 
“Ti ho detto che mi spiace, davvero, non tenermi il muso…”
 
Non la sta supplicando, non più.
C’è una nuova morbidezza nelle spalle che Laura ancora gli rivolge, il segno impercettibile di un perdono già concesso quando ancora lo sguardo si perde verso il piccolissimo albero di Natale che li veglia dall’alto della cassettiera.
Semmai la vezzeggia, con la stessa tenace pazienza che gli è costato corteggiarla per strapparla al limbo d’inesperienza e timidezza dove l’ha scovata impantanata.
 
“Amore, dai, dimmi qualcosa…”
“Qualcosa.”
 
Un ringhiare sommesso, non più veramente arrabbiato, pregno di un orgoglio difficile da abbattere e scavalcare.
Può immaginarla assorta in una lotta interiore tra il desiderio di voltarsi e l’incapacità fisica di lasciar andare, la stessa ritrosia acuta delle persone che troppo hanno concesso e perduto per poi imparare ad amarsi e proteggersi con timore soverchiante di una nuova sofferenza.
Paura scaccia paura, ma una corazza di paura è difficile da svestire.
Troppo stretta, troppo pungente, cucita addosso: non si può strappare via – si strapperebbe anche l’anima che protegge – ma va disciolta nel calore dell’amore, dell’affetto.
È una creatura fragile e ostinata, Laura, ma Luca sa essere più cocciuto di lei.
Perché amore è anche questo, combattere le guerre degli altri per risparmiare loro la fatica dello scontro e la sofferenza delle ferite.
 
“Sei proprio stupida a volte, amore.”
 
Ride contro di lei, tra i suoi capelli, nella sua gola, lungo il profilo spinoso della spalla che accarezza di baci.
Due tazze sul pavimento hanno smesso di fumare da un bel po’, reliquie di una merenda sfociata poi nel dramma di un ultimo biscotto rubato e il capriccio di un momento evolutosi in battibecco.
C’è silenzio, sulla parete bianca s’inseguono i bagliori delle lucine dorate avvolte attorno al piccolo albero carico di gingilli.
C’è silenzio, ma il sussurro delle lenzuola strusciate già può intuirlo quando sente la schiena di Laura premere contro il suo petto.
L’accoglie con un sorriso sfacciato e un bacio sulla fronte, lasciandole spazio di rannicchiarsi contro di lui e scalciare via la coperta che si è aggrovigliata attorno alle sue gambe.
Avrà freddo tra un momento – la conosce -, ma la lascia fare riempiendosi il petto dell’odore del suo shampoo, della sua pelle, del suo amore.
 
“E tu un brutto ciccione.”
 
Ma lo dice ridendo stentata, di quelle risate impacciate che suonano sempre un po’ strane dopo un’emozione troppo violenta.
E Luca, che ciccione non lo è affatto, questa volta non ha proprio nulla da ridere perché ha vinto.

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Capitolo 2
*** Cecilia e Marco ***


Disclaimers
Cecilia, Marco © La neve di aprile

L’intreccio qui descritto rappresenta copyright dell’autrice (La neve di aprile).


Partecipante all'iniziativa "Addobba l'albero con il Cos!"



IV giorno
Parola: cuscini

Warning: song-fic (ci si può ispirare anche a una singola strofa)

Prompt: "Natale non sarà Natale senza regali.. " - L.M. Alcott.

Fandom: True Blood 12/12.
 


 

DUE DI UNO
Cecilia e Marco

 

A Cee e Marco, quelli veri.
Buon Natale a entrambi, ma soprattutto a te amica mia.


 

I'll be home for Christmas
You can count on me
Please have snow and mistletoe
And presents on the tree!
 
I’ll be home for Christmas —Bing Crosby.

 



“Non ci posso credere!”
 
Cecilia ha una bella voce calda, ma quando si emoziona è capace di abbracciare un registro che farebbe di lei un soprano degno di tale nome.
Le parole s’involano nel picco d’emozione e assieme al rossore del volto e la bocca increspata, il terzo sintomo di quello che Marco chiama troppo sentire sono gli occhi accesi della luce di tante – troppe – stelle.
Perché Cecilia è fatta così, emblema di pacatezza il novanta per cento del tempo e vulcano di tutto per il restante dieci: non conosce mezze misure perché nelle cose fatte a metà non ha mai creduto davvero, ma se non è convinta a pieno allora preferisce risparmiarsi per qualcosa che verrà in futuro e che meriterà il dispendio di cuore.
Marco la guarda rimbalzare sul divano accanto a lui, con precisione magnetica invidiabile, facendo precipitare sul tappeto una pioggia di ridicoli cuscini quadrati e targati Ikea.
Ha i capelli raccolti in una coda alta, e un sorriso che va da un orecchio all’altro come fosse incontenibile.
 
“Non ci posso proprio credere!”
 
Ripete euforica, gettandogli le braccia al collo e sbilanciandolo contro il bracciolo.
 
“Puoi anche dire di no, se non ti va…”
“Dire di no? Tu sei tutto, tutto, tutto pazzo!”
 
La prende in giro perché vederla così animata è un balsamo per l’anima.
La prende in giro perché la ama e non ride di lei, ride con lei che lo conosce e sa riconoscere quando una battuta vuole essere tagliente e quando è solo un gioco per strapparle un sorriso.
È uno scambio equo, un sorriso per un sorriso.
E di sorrisi ne hanno avuto pochi, negli ultimi mesi quando, stretta forte la laurea tra le dita, hanno imparato in fretta del valore inesistente di un numero scritto su un foglio di carta.
Avevano cassetti traboccanti di sogni e speranze, e uno ad uno li hanno dati in pegno per sopravvivere ad una realtà avara e avida.
Cecilia sta ancora cercando, Marco lavora in un call-center che si nutre del suo tempo e delle sue energie. È abituata ad aspettarlo alzata il sabato notte solo per potergli fare compagnia mentre mangia un boccone, ad un’ora così tarda che il mattino già preme ai confini della notte, tutta infagottata in un pigiama di flanella e con le palpebre pesanti di sonno.
È abituata a sfidare il mondo per poter passare un po’ di tempo con lui, e una famiglia che non ha mai veramente cercato di capirla.
Di capirli.
 
“Certo, arriverò un po’ in ritardo ma se non altro staremo assieme.”
"No, davvero, non ci posso ancora credere."
"Dici che tuo padre mi perdonerà se arrivo in ritardo al cenone?"
"Stiamo parlando di un uomo che quando arriva a casa si informa su di te prima di chiedermi come sia andata al giornata, ti ricordo..."
"Sei gelosa?"
"Di te o del mio papà?"
"Hai il permesso di essere gelosa solamente di me."
"Sissignore, sia mai contraddirti!"
"..."
"..."
"Insomma la Vigilia la passiamo assieme."
"Mangeremo panettone assieme, guarderemo un film sul divano tutti assieme e apriremo i regali assieme!”
 
Marco sorride del suo tono sognante, ma sotto sotto condivide lo stesso sollievo.
L’idea di lavorare non solo la sera della ventiquattro, ma anche del venticinque gli andava fastidiosamente stretta.
Così - grazie ad un colpo di fortuna che non sa spiegarsi se non come un vero e proprio miracolo del Natale-, almeno la vigilia potrà rimanersene accoccolato sul divano di casa della sua ragazza, sorridendo ai genitori di lei e immaginando un futuro che ancora non può offrirle.
 
“Pensavo non t’importasse niente dei regali.”
“Natale non è Natale senza regali!”
“Hai capito, furbetta che non sei altro…”
 
Il cuscino lo colpisce in faccia prima che possa aggiungere altro.
È quadrato, morbido; c’è un fiocco di neve scarlatto ricamato sopra e soffoca la protesta indignata di Cecilia nel momento in cui Marco le restituisce la cortesia.
Poi ne viene lanciato un secondo, poi un terzo,  poi i cuscini diventano superflui e sono le sue dita a cercare il fianco scoperto di lei per farle il solletico.
Tapparle la bocca e dissetarsi della sua risata è una naturale conseguenza del gioco, gli ricorda che in fondo hanno davanti tanto tempo nel quale rifarsi delle difficoltà e che quello che riescono a condividere vale qualsiasi fatica.

“Dovresti farti più spesso la coda, sei proprio… proprio.”
 
Glielo sussurra tra le labbra, facendola arrossire.
Cecilia si arrende al bacio, serrando le ciglia e sospirando silenziosamente quando Marco si allontana da lei.
Si guardano in silenzio, nella quiete della casa allagata dai raggi di una mattinata pigra di metà dicembre.
Un istante più tardi a colpirlo è un cuscino che sembra fatto di nuvole tanto è morbido. 
 
“Non penserai mica sia finita qui, vero?

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Capitolo 3
*** Viola e Nicolò ***


Questa notte ho sognato Nicolò, quello vero – il glorioso–; si può dire sia colpa sua.

 
 

 
Due di uno
Viola e Nicolò

 
 
 
 

Viola non fa fatica a percepire la presenza di Nicolò alle sue spalle.
È un po’ come se il sole fosse sceso dal suo piedistallo celeste – e lassù, oltre lo spicchio rotondo del lucernario, non fosse rimasto che il suo ricordo lucente di primavera – per stenderle sulle spalle un manto di calore impossibile. Insostenibile.
Ne sente il silenzio fitto, e il sorriso ispido di barba mentre tende alla cliente davanti a lei uno scontrino e la carta di credito.
 
“Ecco a lei, e grazie.”
“Grazie a te stella, e quando vuoi ti ho lasciato un caffè pagato giù al bar!”
“Allora ne approfitto subito, gentilissima!”
 
La porta dello spogliatoio si chiude, e nello sciabordio agitato dei bimbi in acqua che sale dal ballatoio il rumore della pinzatrice scandisce anche il primo passo di Nicolò. Nel tempo necessario a infilare la ricevuta in una busta di plastica trasparente è arrivato alle spalle di Viola e sta strofinando il mento irsuto nella curva morbida della sua gola, costringendola a reclinare il collo e schiudere le labbra in un sorriso.
 
“Stai cercando di farmi capire che non posso andare a berlo, quel caffè?”
“No, ti sto offrendo una valida alternativa.”
 
Viola ride, raccogliendo nel palmo della mano il viso di Nicolò.
Nello schermo del computer fattosi già nero, le loro facce vicine si guardano: le punte dei loro nasi già si sfiorano e gli occhi ridono senza risa, le labbra troppo impegnate a pregustare il sapore del bacio che si annuncia imminente.
 
“Sai che non posso, Nico, sono al lavoro…”
“Se è per questo ho mollato a Diletta le mie dieci ranocchiette[i] con la scusa del bagno, solo per venire qui.”
“Tu sei tutto scemo!”
“Volevo un bacio, e tu non scendi mai in piano vasca…”
“Perché non posso scendere giù a caso, lo sai!”
“Ma questo non significa che non possa venire a lamentarmi da te per il scarso affetto che mi dimostri.”
“Oh, ma taci!”
 
Nicolò sbuffa, e si vendica mordendole piano il lobo di un orecchio.
 
“Così sei sleale.”
“Mai detto il contrario.”
 
Si fronteggiano, in silenzio, le fronti vicine e i capelli che si mescolano tra loro.
Viola è mora, Nicolò biondo. A vederli niente li accomuna, se non il lavoro in piscina, ad un piano di distanza, e l’età: tanto lei è mite, innamorata di un mondo di inchiostro e carta, tanto lui è chiassoso, nato per passare le sue giornate all’aria aperta, baciato dal sole in ogni stagione.
Hanno iniziato ad uscire dopo mesi di chiacchiere da niente, separati da un bancone di legno e da chilometri verticali di timidezza, mentre Viola rileggeva per la milionesima volta Cent’anni di solitudine. Nicolò si era presentato con addosso la polo bianca degli istruttori di nuoto e un asciugamano in vita, i capelli ancora umidi e un sorriso sulle labbra che le aveva mozzato il fiato in gola. Come tutti i suoi sorrisi, del resto, tutte le volte: avrebbe acconsentito a qualsiasi cosa, per averne in cambio un altro.
 
“E se invece mi accompagnassi a prenderlo, quel caffè, e poi te ne tornassi dalle tue ranocchiette?”
 
Bello come un dio greco, Nicolò si rabbuia impercettibilmente e lei gli sorride pizzicandogli le guance, spianando con la punta delle dita il suo broncio. Non sono grandi ombre, le sue: arrivano e se ne vanno in fretta, senza indugiare troppo a lungo sulle linee del suo volto. Così in fretta che ogni tanto Viola pensa sia fatto interamente di luce, pulito così come sembra, e lineare, mentre lei è nata per raccogliere in sé soffici volute di nebbia lattiginosa, e gli spigoli di un carattere fin troppo rigoroso. Si sporge a baciarlo, con gentilezza, carezzandogli gli zigomi con le ciglia e già tutto il buio del suo malumore se ne è andato.
 
“Dai, vieni giù con me cinque minuti!”
“Ma io non voglio dividerti con nessuno, in questi cinque minuti.”
“Certe volte sei peggio delle tue ranocchie, lo sai?”
“Però nessuna delle mie ranocchie penserebbe mai di fare quello che io vorrei fare con te adesso…”
 
Viola sa di essere arrossita – si sente la faccia bollente – e non sa decidere se essere lusingata o indignata. Così rimane in silenzio, lasciando che il rossore si arrampichi lungo le guance pallide e ustioni i palmi delle mani di Nicolò che le stringono piano, combattuta tra il desiderio di mandare al diavolo il lavoro o il suo ragazzo. L’inibizione le riesce facile, persino con l’unica persona che poi è in grado di sfilargliela di dosso senza farle sentire il peso dei suoi ridicoli imbarazzi.
 
“Tu vieni proprio da un altro mondo, piccola.”
 
Le posa un bacio sulla fronte, con delicatezza, e strofina il naso contro quello di lei in un gesto affettuoso che da solo vale a gonfiarle il cuore di gioia e strapparle un nuovo sorriso.
 
“Dai principessa, andiamo che se tardo un altro po’ mi licenziano…!”
 
Viola si morde la lingua e, controllando che nessuno faccia capolino dalle scale, gli si stringe addosso cingendogli il collo con le braccia. Nel tepore del pomeriggio e i fumi di cloro che impestano l’intero edificio, l’odore della pelle di Nicolò le svuota la testa come neppure un tiro di sigaretta saprebbe fare e mentre lo bacia ha bisogno di aggrapparsi a lui per non cedere alla vertigine improvvisa che la coglie.
 
È stato così persino al loro primo bacio, quando ancora aveva in bocca il sapore dei pop-corn sgranocchiati una manciata di minuti prima, e lui si era teso verso di lei intrappolandola contro la poltroncina. L’aveva guardata con occhi verdissimi, e Viola aveva avuto la netta sensazione che in quel momento si sarebbe potuta scatenare l’apocalisse senza che lei riuscisse a fare altro che contare le pagliuzze dorate, petali attorno al nero delle pupille. Non se ne sarebbe accorta, semplicemente.
Scusami, non ce la faccio proprio più, le aveva detto Nicolò con una voce così esile da suonare quasi intimorita, se non ti bacio adesso potrei impazzire. E l’aveva baciata come nessuno l’aveva mai saputa baciare, con un trasporto tale che non fosse stata seduta si sarebbe trovata stesa a terra, incapace di reggersi sulle gambe.
 
“Vai dalle ranocchie, o ci cacciano entrambi per assenteismo.”
 
Glielo intima a fior di labbra, prima di scappare via verso le scale, inseguita solo dalla sua risata.
 
“E il tuo caffè?”
“Me lo bevo da sola, no?”
“Ma va, aspettami, vengo con te.”
 
Viola si ferma, al principio della scala che srotola verso il piano inferiore, aspettando che lui la raggiunga e le stringa la mano. Le ciabatte che indossa schioccano vivaci sul pavimento mentre lei posa la testa contro la sua spalla e sospira teatrale.
 
“Non sai proprio staccarti da me, eh?”
“Già. Le ranocchiette mi sgrideranno e sarà solo colpa tua.”
“Sopravvivrò.”
 
E con il peso del braccio di Nicolò sulle spalle, Viola sa che con lui accanto potrebbe sopravvivere davvero a qualsiasi cosa.
 
 
 

 


[i] Ranocchiette è come chiamo io i bambini piccoli che frequentano i corsi di nuoto nella piscina in cui lavoro. 

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Capitolo 4
*** Leonardo e Anna ***


Due di uno
Leonardo e Anna

 
 
 

         La sveglia suona precisamente alle cinque e quindici minuti del mattino, ogni mattina. Fuori il cielo è ancora buio, trapunto di stelle timide che si trattengono e sfidano l’aurora imminente solo per salutare Leonardo mentre spalanca le imposte e, per sette minuti esatti, le finestre, lasciando che l’aria notturna – pesante dei sogni che ha smesso di ricordare – se ne vada cedendo il passo a quella del mattino che sarà.

         
In quei sette minuti l’acqua in bagno scorre quasi ininterrottamente, una vecchia abitudine presa troppi anni prima quando Anna faceva i turni del mattino in ospedale e il suono della sveglia non faceva che innervosirla; al contrario, lo scroscio della doccia e dei rubinetti aveva la capacità di metterla di buon umore nonostante l’ora dimenticata persino da Dio. Nel tempo che impiegava a prepararsi – un filo di mascara, un filo di rossetto, un colpo di spazzola alla piega bionda sempre impeccabile – il profumo del caffè riusciva ad arrampicarsi lungo le scale, invitandola a scendere al piano di sotto nonostante il freddo che invadeva la cucina addormentata.        

         Leonardo non ha mai amato il caffè.
Ha sempre preferito il calore avvolgente di una tazza di thè alla spiccia scarica di energia di una tazzina di espresso – diffida da sempre di chi si aggrappa alle piccole parentesi di un manico freddo di prima mattina e non ha il coraggio di avvolgere tra le dita il calore dei fianchi capienti di una tazza – ma da quando Anna è entrata nella sua vita ha declinato le sue abitudini di sempre ai desideri di lei senza neppure accorgersene. Così dopo che la sveglia ha suonato alle cinque e quindici minuti del mattino, ogni mattina, e l’acqua in bagno è scappata giù per i tubi di scarico per sette interi minuti; dopo che le finestre sono state chiuse in camera e la caffettiera ha borbottato sospingendo l’odore del caffè appena fatto su per le due rampe di scale che portano al piano superiore, Leonardo siede capotavola in cucina e sorseggia il suo espresso nel silenzio ancora fitto d’oscurità.
        
         
La lampadina sul soffitto manda bagliori tremuli, combattendo il freddo di un’intera notte di buio per piangere le sue lacrime biancastre sulla lanuggine soffice che gli cresce in testa. Legge un libro, perché Anna non è mai stata una persona mattiniera e persino le chiacchiere della radio la indispettivano al principio di giornate lunghe e faticose nelle corsie del Pronto Soccorso: nel corso degli anni ha paziente divorato tutte le pietre miliari della letteratura russa a piccoli passi, una pagina alla volta, sorseggiando caffè nero e sgranocchiando una fetta di pane tostato appena velata di burro. Non ha mai saltato un giorno, se non la volta in cui ad Anna si sono rotte le acque proprio mentre accarezzava la copertina rigida di Guerra e pace. Nel trambusto generale che ha trasformato il loro essere una coppia in una famiglia, il volume è rimasto dimenticato sul tavolo per tre giorni interi, accanto alla tazzina ancora piena e alle briciole del pane mangiucchiato solo a metà.

         Ha conosciuto Anna in una bella giornata di sole.
La primavera era letteralmente esplosa nella città e nel suo cuore mentre percorreva un ampio viale alberato in bicicletta. Fischiettava una canzoncina da poco, ed era troppo intenta a guardare la luce del sole dispiegarsi in festoni dorati tra i rami verdissimi per accorgersi della giovane infermiera bionda che gli tagliò la strada di corsa. Ad anni di distanza Leonardo ancora non sa dire se a fargli più male fu la caduta che gli ruppe il polso o il colpo sordo che gli spaccò il cuore nell’incrociare il grigio degli occhi di lei. Tutto quello che ricorda con precisione è la necessità fisica, quasi dolorosa, di sentire una volta ancora il suono graffiato della sua voce lungo la stradine tortuose del centro storico e negli ampi soffitti della sala d’attesa dell’ospedale. Non erano anni in cui chiederle di scrivere il numero di telefono sul gesso appena asciugato, ma quando se ne uscì nuovamente al sole stringeva tra le dita un piccolo fazzoletto di carta e sulle labbra la felicità aveva dipinto un ampio sorriso.
 
         Leonardo ha un attimo di smarrimento davanti alla porta di casa.
Tra le dita sente la maniglia fredda, ma non ricorda precisamente cosa debba fare: l’ora è ancora troppo felice persino per i postini più mattinieri, e nelle strade solo i furgoncini che fanno la spola tra le edicole del quartiere hanno il coraggio di circolare. In altri tempi avrebbe aspettato che Anna scendesse dalle scale, litigando per infilare le braccia nelle maniche del cappotto e poi controllando di sfuggita nel grande specchio all’angolo che l’orlo dell’uniforme di infermiera non si fosse arricciato. Le avrebbe sorriso e accarezzato il volto, chinandosi per baciarle la fronte – non le labbra, o le avrebbe sbavato il rossetto steso sapientemente – e augurarle una buona giornata. Poi sarebbe tornato in salotto, alle sue lettura, in attesa che arrivasse l’ora per svegliare il loro unico figlio e prepararlo alla scuola, e solo poi imboccare la via dell’ufficio.
         Ma Anna non è più al suo fianco – non materialmente, per lo meno, con un corpo da abbracciare e una voce da ascoltare – da troppi anni, e il suo indugiare sull’uscio di casa – di una vita troppo radicata per essere abbandonata – non è che un riflesso automatico di giorni perduti.
 
         
“Oh, tesoro” sospira Leonardo, volgendo lo sguardo verso la piccola cornice ovale da dove la moglie gli sorride dolcemente “Hai sempre avuto ragione, ho sempre la testa tra le nuvole.”





 


Non chiedete, domani discuto la tesi e so perfettamente quanto incompiuta sia questa istantanea - è quasi ingiusto, per un concetto che mi stringe il cuore di tenerezza, che l'abbia sviluppato così male -, ma avevo bisogno di metterla giù. Non escludo revisioni future.

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Capitolo 5
*** Greta e Marta ***


Due di Uno
Greta e Marta

Il ticchettare dei tasti del pc la innervosisce come poche altre cose.
Greta sbuffa, trattenendosi dall’afferrare lo schermo del malcapitato computer e scagliarlo contro la parete immacolata che ha davanti: sul muro, il sole ha bruciato la pittura e i vuoti lasciati dalle fotografie rimosse sono un pugno allo stomaco che le fa male. Troppo male.

Si trattiene perché Marta sta ancora digitando.
Si trattiene anche se non sopporta di sentirsi dire le cose così, come se i tanti anni di amicizia accumulati alle loro spalle sparissero nel nulla all’ombra di un litigio e non fossero che due sconosciute che chiacchierano su Facebook per far passare il tempo.
Si trattiene anche se detesta, letteralmente, discutere con qualcuno a cui vuole bene senza potergli leggere gli occhi, senza poterne valutare l’espressione e la risposta fisica alle parole.
Si trattiene proprio perché conosce Marta da così tanto tempo da sapere invece quanto grande sia il suo disagio se posta davanti ad un litigio, ad un’immagine differente dalla propria, ad un profilo che non si sposa con il suo ma ci cozza contro con tanta violenza da minacciare di frantumarlo.

Greta affonda le dita tra i capelli, ignorando la protesta annodata delle ciocche bionde, e aspetta.
La sua ultima risposta è ancora lì, lunga e arrabbiata, ispida di una logica inappuntabile. Esattamente come è lei, esattamente come non è Marta.
Marta che s’infiamma per le piccole cose, Marta che piange per le piccole cose, Marta che strepita per le piccole cose. Marta che pesta i piedi e stringe i pugni, Marta che reagisce prima di pensare e non sa tenere le sue cose per sé, Marta che sbatte la testa contro i muri prima di vederli perché perennemente impegnata a puntare il naso per aria e respirare il cielo di un mondo tutto tuo.
Un mondo che a Greta è precluso, un mondo che le si è rivoltato contro e le è saltato alla gola dopo mesi di silenzi, e assenza.  Un mondo da cui si è sentita esclusa, giudicata, tradita.

“Non sei più la persona che conoscevo” le ha detto quel mondo “Non so se mi piaci più, non so più chi sei”.

E Greta ha incassato con grazia, sbattendo le ciglia lunghe su occhi grigi e gelidi come spuntoni di ghiaccio. Ha immaginato Marta e la sua postura triste, gli occhi troppo scuri per saper essere gentili e le dita nervose nel saltellare da un tasto all’altro per comporre una confessione tanto crudele e dolorosa. Ha spostato la pila di appunti di microbiologia, dimenticando per un istante l’esame imminente, ed è affogata in una palude di incredulità melmosa, sgradevole, che le si è appiccicata addosso e li era rimasta, marcendo in fastidio.

“E perché tutto questo non me lo dici in faccia?”

È stata la sua prima risposta, in uno scatto d’ira che era sfuggito alle strette maglie del suo autocontrollo. Marta non ha risposto subito e Greta si è chiesta sotto quante parole fosse rimasta sepolta prima di trovare quelle che, senza esser calibrate al loro peso, sapessero suonare giuste nel pentagramma confuso dei suoi pensieri. Perché Marta non è tipo da procedere in linea retta, e Greta lo sa. Per ogni passo avanti, almeno cinque la portano a destra e per farne uno solo a sinistra ce ne sono altri due indietro: non è facile essere amica di una persona così, non lo è mai stato. Eppure per anni hanno condiviso gioie e dolori, risate e lacrime, caffè e gelati nella bozza sicura di un rapporto solido, sincero. Anni, non mesi. Anni che adesso Greta sente scappare via come granelli di sabbia in una tempesta che non può essere contrastata, perduti in un oceano di insicurezze e paure.

Cosa sia cambiato, non l’ha mai capito.
Poco alla volta la distanza è cresciuta, le cose non dette di sono accumulate sul profilo sottile di una lontananza sempre maggiore, l’affetto si è trasformato in acredine e prima che Greta potesse rendersene conto era troppo tardi per tendere la mano e trovare delle dita da stringere.
Un ping attira la sua attenzione, assieme al comparire di una nuova notifica.
Ma non è Marta.

È Alberto, il suo nuovo ragazzo, che le chiede se vuole uscire a cena.
Quello che ha conosciuto nel momento in cui le cose con Marta hanno iniziato ad andare male, a cui si è aggrappata nei momenti di solitudine, a cui ha permesso di prendere tutto il posto che prima riservava all'amica. Con una scrollata di spalle scaccia un pensiero troppo sgradevole per poter essere pronunciato e digita rapida la sua risposta.
Ha esitato, ma è stato solo un secondo, indugiando nella speranza di potersi vedere con la sua amica per poterla guardare negli occhi e chiederle con che coraggio ha potuto scrivere certe cose, con che cuore non le ha voluto parlare per capire chi fosse diventata.
Ma Marta tace, Marta ha smesso di scrivere, e Greta non può perdonarle questa ennesima debolezza.
Non sa andare oltre alla nuova manciata di parole taciute, non ha voglia di aspettare i tempi della sua fragile e insicura vecchia amica.

Perché l'amicizia è la più crudele forma d'amore, la più pura, scevra d'ogni desiderio.
Quella che fa più male se tradita o calpestata, quella che è più facile tradire o calpestare perché spoglia di ogni pretesa di possesso: dove amicizia è condivisione assoluta, Greta è stanca di condividere solamente lacrime e malumori senza ragione. Stanca di perdonare, stanca di aspettare i tempi immutati di una persona che ha preferito affidarsi alla falsa sicurezza di una chat impersonale per dire qualcosa che era suo diritto sentire con le proprie orecchie.

Greta non piange, mentre con uno scatto secco chiude il pc e recupera gli appunti di microbiologia.
Ma il sorriso che ha sulle labbra è amaro come la sconfitta che, assieme a Marta, incassa in silenzio. 

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