Lullabies.

di LilithJow
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A new life. ***
Capitolo 2: *** Tiny dreams. ***
Capitolo 3: *** Insomnia. ***
Capitolo 4: *** Sins. ***
Capitolo 5: *** Complicated. ***
Capitolo 6: *** Fire and ice. ***
Capitolo 7: *** Bittersweet. ***
Capitolo 8: *** Heartless. ***
Capitolo 9: *** Phobia. ***
Capitolo 10: *** Rescuer. ***
Capitolo 11: *** Awaited. ***
Capitolo 12: *** Violent delights. ***
Capitolo 13: *** Figure 8. ***
Capitolo 14: *** Happiness. ***
Capitolo 15: *** Trust. ***
Capitolo 16: *** Heavy. ***
Capitolo 17: *** Forgiveness. ***
Capitolo 18: *** Breathe in, breathe out. ***
Capitolo 19: *** Unarmed. ***
Capitolo 20: *** Hallucination. ***
Capitolo 21: *** Wide awake. ***
Capitolo 22: *** Clarity. ***
Capitolo 23: *** Shelter. ***
Capitolo 24: *** Presage. ***
Capitolo 25: *** Sacrifice. ***
Capitolo 26: *** Winning tragedy. ***



Capitolo 1
*** A new life. ***




Capitolo 1
"A new life"

 

Ho sempre pensato che gli esseri umani siano l'emblema della contraddizione. Insomma, lo si capisce perfettamente solo sentendoci parlare. Nei modi di dire, per esempio: quando esclamiamo a gran voce “la vita è una sola, vivila” e poi, se qualcosa va male, rimediamo con “questa vita è finita, adesso ne comincia una nuova”.

“Volto pagina”, “la vita ha una sola pagina, scrivila”.

Con le nostre parole e convinzioni, siamo capaci di modellare il mondo a nostro piacimento, secondo il nostro punto di vista, così da poter essere sempre dalla parte della ragione, in una dimensione dove la realtà è perfetta, dove non esistono i problemi – ovvero, esistono, ma la nostra mente ci spinge, semplicemente, ad ignorarli o a trasformarli in qualcosa di positivo. Tuttavia, nel bene e nel male, le contraddizioni sono ciò che ci spinge ad andare avanti, ogni giorno, a vivere.

Ecco perché quando cambiai città, a causa del lavoro di mia madre Judith – un avvocato e piuttosto di successo – mi convinsi a immergermi nelle contraddizioni e abbandonare il mio giudizio, per alcuni fin troppo severo, sulla psicologia umana.
Desideravo davvero una nuova vita, lontana dal paesino sperduto nel quale avevo vissuto fino a quel momento. Trasferirsi in una città grande come Chicago era una svolta, una nuova possibilità, un modo per lasciarmi alle spalle tutti i casini, come la rottura con la mia ragazza Tiffany, la tempestosa lite con il mio ormai ex migliore amico Andrew e, non per ultime, le continue prese in giro da parte dei bulli di paese.
Speravo che in una metropoli enorme, la gente fosse più matura.
Del resto, non avevo mai capito perché se la prendessero con me. Forse perché amavo studiare, forse perché, a differenza loro, avevo delle ambizioni, avevo un sogno, quello di diventare un bravo psicologo e aiutare la gente. Evidentemente, fare del bene non rientrava nell' “esser figo”, a loro dire.
“Simon Clarke è superiore, per questo è il mio migliore amico” diceva sempre Andrew. Se fosse stato così, a quel tempo, saremmo stati ancora amici e io non sarei stato distrutto.

-

«Simon, metti via quel quaderno! Siamo quasi arrivati». Il tono per nulla lieve di mia madre mi fece sobbalzare sul sedile anteriore del Suv beige sul quale viaggiavamo, un regalo della nuova compagnia che l'aveva assunta. Dovevano tenerci davvero tanto alle sue competenze, per darci in dono un appartamento in pieno centro a Chicago e un Suv nuovo di zecca.

Roteai gli occhi, riponendo nel mio zaino logoro e mezzo rotto, il quaderno dalla copertina rossa che portavo sempre con me, sfogando i miei pensieri su carta.

«Appena ci sistemiamo, compriamo qualcosa di nuovo per la scuola. Non puoi frequentare l'Istituto con quella roba».

L'Istituto. Me ne ero quasi dimenticato. Ovviamente, nel pacchetto era compresa anche l'iscrizione ad una delle scuole private più lussuose degli Stati Uniti. Abituato alle scuole pubbliche di provincia, quello era un bel salto di qualità.

Altro che nuova vita, questa è un altro mondo.

«Ci sono affezionato a questo zaino» replicai, fissando per un istante fuori dal finestrino.

«Il fatto che lo porti con te dalla prima elementare lo conferma, tesoro». La sentii ridere e io feci lo stesso.

Il profilo di Chicago era già perfettamente visibile dal lungo ponte su cui viaggiavamo. Ne rimasi letteralmente incantato. Non avevo mai viaggiato molto, nei miei sedici anni di esistenza. L'unica mia esperienza era stata una gita di tre giorni a New York, in terza media, ma li avevo passati tutti in bagno, per una indigestione.

Già, la fortuna non era mai stata mia compagna.

Il percorso per finalmente raggiungere il nuovo appartamento mi sembrò durare addirittura di più delle dieci ore di macchina a cui ero stato sottoposto. Sarebbe stato di gran lunga più comodo l'aereo e mi chiesi più volte per quale assurdo motivo l'agenzia non avesse finanziato anche quello. Forse per testare il Suv.
Quando arrivammo davanti all'enorme palazzo dalla muratura rossiccia e grandi finestre di vetro opaco, mi resi conto che la sua descrizione non gli rendeva affatto giustizia. Ero ben consapevole che, da quel momento, avrei vissuto in un ambiente diverso e più lussuoso, ma non mi aspettavo così tanto. All'interno, c'era persino una portineria con le rifiniture in oro e due ragazzi con camicia e papillon si occuparono delle nostre valige, dicendoci che le avremmo trovate nel nostro appartamento, una volta sbrigate le ultime pratiche del passaggio di proprietà.

Ero sbalordito.

Simon Clarke aveva fatto il botto!

Certo, non per merito mio, ma a causa del lavoro di mia madre; potevo comunque trarne vantaggio.

Quello era un evento da ricordare.

Ero pressapoco sicuro di avere un sorriso ebete stampato in faccia che – quasi certamente – aveva fatto spuntare quelle odiose fossette che apparivano sulle mie guance ogni volta che ero allegro. Recuperai il mio zaino rattoppato ed estrassi il quaderno rosso e una penna.

Giorno 1
Siamo arrivati! Il solo ingresso nel palazzo è stato grandioso fantastico, è tutto fantastico. Non vedo l'ora di...

La penna scivolò via dalla mia mano e il quaderno cadde a terra insieme ad essa, a causa di un urto. Concentrato nel metter su carta ogni mia sensazione, entrato così tanto nel mio mondo, avevo per un attimo perso la cognizione della realtà e dal via vai che poteva verificarsi in quell'enorme atrio. Dal quaderno, inevitabilmente, fuoriuscirono una marea di fogli che vi ficcavo dentro praticamente sempre. Sentii mia madre sbuffare, mentre mi inchinavo a raccogliere ogni cosa. Tenni sempre lo sguardo basso e, forse a causa di questo, mi accorsi solo dopo un bel po' della presenza di altre due mani, pallide e sottili, che mi stavano aiutando a rimediare a quel casino.
Sollevai lo sguardo e mi ritrovai davanti una ragazza, dai capelli castani e gli occhi verdi. Era magra, con il rossetto rosso e l'ombretto nero e sbavato sulle palpebre. Indossava una divisa, presumibilmente quella di un Istituto privato come il mio – magari era proprio il mio – alla quale aveva dato un tocco personale, sbottonando la camicetta bianca e annodando su di un fianco il maglioncino verde.
Mi stava fissando, sorridendo appena. Aveva già raccolto metà dei fogli caduti sul pavimento, e io non ne reggevo nemmeno uno.
Ero rimasto incantato, ma mi accadeva ogni volta che qualcuno dell'altro sesso mi si avvicinava. Scossi appena la testa.
“Non fare l'idiota, Simon! Sei una persona nuova, ricordi?” mi suggerì la mia coscienza. Annuii deciso, quasi a dargli ragione. «Grazie per l'aiuto» esclamai, raccogliendo il resto della roba che era rimasta a terra.
«Non c'è di che». La ragazza dagli occhi verdi mi porse i fogli che aveva in mano. Li presi, distrattamente. Non feci in tempo a dire o fare altro, che lei era già scomparsa. Chissà dove, poi. Quando mi rimisi in piedi, neanche trenta secondi dopo, lei non era visibile nemmeno in fondo all'atrio o davanti gli ascensori.
Aggrottai le sopracciglia, confuso, ma il dubbio su dove fosse finita quella ragazza fu obbligato a dissolversi quando mia madre urlò – letteralmente – di muovermi. Così, raccattata la mia roba, la seguii fino all'ascensore che ci portò al nono piano nel giro di qualche secondo.
Fu qualcosa di fulmineo e, per un attimo, mi venne la nausea.
L'interno dell'appartamento era ancor più elegante di tutto il resto. Solo il salotto, ricopriva una superficie pari - o addirittura superiore – alla nostra vecchia casa in provincia.
L'arredamento era tutto moderno: il soggiorno con due divani e una poltrona bianca, la cucina color panna, il pavimento liscio e lucido. Il pezzo forte era la mia stanza.
Avrei potuto viverci là dentro. C'era di tutto: una grande scrivania, un pc portatile nuovo di zecca – ne avevo bisogno, un letto a due piazze e persino un bagno tutto mio.
Il sorriso ebete non se ne era ancora andato dalla mia faccia. Ero quasi sul punto di saltare dalla gioia, perché non mi ero sbagliato.

Non mi ero sbagliato per nulla: quello era davvero l'inizio di una nuova vita e io non vedevo l'ora di immergermici dentro.

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Capitolo 2
*** Tiny dreams. ***


Capitolo 2
"Tiny dreams"


«Simon! La colazione!».

La voce acuta di mia madre provocò il primo risveglio traumatico nella nuova casa. Era strano come si percepisse a tono così elevato, anche a metri e metri di distanza, in quell'enorme appartamento.
«Arrivo!» urlai, in risposta, mentre mi trascinavo fuori dalle coperte, a fatica. Non avevo molte energie. Avevo passato la sera prima davanti al pc, a documentarmi il meglio possibile sulla nuova scuola: imparai a memoria l'orario di quel semestre e tutti i nomi dei professori. Così, per fare una bella impressione. Il fatto di iniziare a metà anno era qualcosa di arduo, lo sarebbe stato per chiunque, ma, stranamente, quella volta mi piacque essere fiducioso.
Prima di raggiungere la cucina, dalla quale proveniva un sottile odore di pancake, mi buttai sotto la doccia del mio bagno personale – amavo avere un bagno personale. Il getto d'acqua calda riuscì a tonificarmi per bene e a svegliarmi quasi del tutto.
Mi vestii rapidamente, indossando la divisa scolastica che l'Istituto mi aveva fatto gentilmente trovare a casa, insieme ad una calorosa lettera di benvenuto. Non erano esattamente abiti che mi appartenevano. Ero sempre stato abituato a jeans strappati e t-shirt di vari colori. Passare ad un completo con pantaloni grigi a piega centrale, maglioncino verde e cravatta rossa, era davvero un gran cambiamento.
“Ma questa è la nuova vita, giusto, Simon?” suggerì la mia coscienza e non potei non darle ragione.
Infilai il mio fedele quaderno rosso nello zaino di pelle nera che mia madre si era ostinato a comprarmi, nonostante io fossi in disaccordo, e andai in cucina, per la colazione.
Mangiai tutto in assoluta fretta. Ero impaziente e non sapevo nemmeno perché. Forse era la troppa ansia, allegata al panico del cambiamento e al desiderio impellente di cominciare, finalmente, qualcosa di bello e nuovo. Mia madre mi fissò, ridacchiando, e io feci una smorfia, non replicando a parole, altrimenti il cibo mi sarebbe uscito fuori dalla bocca e avrei combinato un disastro.
Alla fine, ormai più che sazio, mi alzai di fretta, saltellando appena.

«Ehi, piccolo campione! Ma che fretta hai?».

Storsi le labbra. «Piccolo campione? Sul serio, mamma? Mi chiamavi così quando avevo cinque anni».

«Beh, sei pur sempre il mio bambino, non credi?». Roteai gli occhi. Spesso si lasciava prendere dalla nostalgia del passato e io non potevo far nulla per impedirlo, e nemmeno volevo farlo. Ero tutto ciò che rimaneva a mia madre, dopo l'abbandono senza scuse di mio padre. Per me, quella nuova vita se la meritava anche e soprattutto lei.

«D'accordo» esclamai «puoi ancora chiamarmi così, ma solo quando siamo io e te. Intesi?».

«Oh, sì, capo!». Rise. «Comunque, ho già parlato al telefono con il Preside della tua scuola. E' tutto a posto, quindi non serve che ti accompagni io, anche perché stamattina è anche il mio primo giorno allo studio e...».

«Mamma!».

«Cosa?».

«Pensavo mi accompagnassi in auto! Avrei mangiato più in fretta se avessi saputo che avrei dovuto prendere l'autobus!».

«Si può mangiare più in fretta di quanto hai fatto tu?».

Strabuzzai gli occhi, allargando le braccia e lei rise ancora. «Oh, scusa, tesoro» disse, cercando di ricomporsi. «Non mi hai fatto finire. Non posso accompagnarti io a scuola, ma ci sarà un auto dell'Agenzia che ti porterà a scuola, con tanto di autista in divisa».

«Che cosa?!». Ciò che mi fuoriuscì dalla bocca fu più che altro un urlo stridulo che avrebbe potuto tranquillamente appartenere ad una dodicenne. «Ho un'autista privato?».

«Non esageriamo adesso. E' solo un piccolo favore ed è temporaneo».

Non diedi molta attenzione alle sue ultime parole. Possibile che stesse andando tutto in meglio e la strada davanti a me fosse in discesa? La sensazione era quella.
Diedi un bacio veloce sulla guancia di mia madre, che ancora continuava a spiegarmi cose che entravano da un mio orecchio e uscivano tempestivamente dall'altro. Ciò che appresi e che, di fatto mi serviva, fu «E' una Mercedes blu scuro, si trova davanti al portone».
Evitai di prendere l'ascensore: per i miei gusti, ci avrebbe messo troppo tempo e mi precipitai giù per le scale. Stranamente, non avevo il fiatone quando arrivai in strada e mi ritrovai di fronte quell'enorme auto, con l'autista in abito d'alta sartoria proprio al fianco di essa. Per il sorriso che feci, le mie fossette dovevano aver scavato due profondi buchi sul mio viso.

«Buongiorno, signorino» disse l'uomo, indossando un'espressione cordiale.

“Signorino? Davvero?”.

«Salve!» replicai, con tono euforico e salii in auto. Partimmo poco dopo.

La scuola era parecchio distante da dove abitavamo: si trovava quasi in periferia, questo perché, a quanto pareva, era un luogo più tranquillo della trafficata metropoli, e non potevo discutere su ciò.
Quel mini-viaggio durò esattamente trentasette minuti, che passai tutti a fissare fuori dal finestrino, a osservare la gente affannarsi, correre da ogni parte, scendere per prendere la metro o arrabbiarsi al volante della propria auto. Nonostante quel casino, a me sembrò essere ancora tutto idilliaco.
L'autista – Tom, lessi dal cartellino appiccicato sul retro del sedile anteriore – rimase in silenzio per tutto il tempo, concentrato alla guida, quasi fosse un robot. Per un attimo, temetti che lo fosse davvero. Arrivato davanti al gigantesco edificio dalle pareti rossicce e rifiniture bianche, scesi dalla Mercedes blu, lanciando un cenno di saluto a Tom, che rimase impassibile, anche a quello. Abbozzai un sorriso sarcastico e mi diressi verso l'entrata dell'Istituto.

Quel posto era molto silenzioso, forse fin troppo. C'erano gruppi di ragazzi sparsi un po' ovunque, nel prato che circondava la scuola, interrotto saltuariamente da vialetti di pietra. Nessuno mi diede molta attenzione. Solo qualche sguardo distratto, prima di continuare le loro chiacchiere.

Questo accadde fuori. Non appena varcai la soglia del grande portone di legno, intagliato con decori floreali, l'atmosfera fu ben diversa. C'era chiasso, provocato dalle voci degli studenti vicino alla schiera di armadietti blu. Gli occhi di tutti mi ricaddero addosso e io rimasi paralizzato. Sopraggiunse anche un improvviso silenzio a complicare le cose. Alzai una mano, in segno di saluto generale a tutti, ma non ottenni nulla da parte loro.

“Questo è imbarazzante” pensai.

«Tu devi essere quello nuovo». Un ragazzo biondo, dagli occhi azzurri, tutto tirato nella sua divisa identica alla mia – solo che a lui stava meglio, io sembravo più un pinguino – mi si avvicinò, seguito da altri due, più bassi, mori e dalla pelle più scura.

«Già» replicai, riuscendo a riprendere fiato. «Simon Clarke».

«Simon! Benvenuto alla Hills High. Io sono Jason Boyd, loro sono Carl e Jerry».

«Piacere».

«Ti ambienterai presto. Qui dentro siamo in pochi, del resto, ci conosciamo tutti, più o meno».

«Bene, questo... Credo sia un bene, considerata la mia non propensione al fare nuova amicizie in tempi brevi». Jason scoppiò a ridere, incitando anche gli altri due a fare lo stesso. Le risate di Carl e Jerry furono palesemente sforzate. Aggrottai le sopracciglia, cercando di ridere come loro, ma la mia recita fu pessima, tanto che feci una smorfia, cercando di tornare a comportarmi normalmente, per quanto fosse possibile.

La prima lezione della mattina era lingua inglese. Jason, per mia fortuna – o sfortuna, dipendeva dai punti di vista – frequentava lo stesso corso e fu proprio lui, seguito dai suoi scagnozzi – quello erano – a guidarmi tra i corridoi dell'Istituto, che sembrava sempre più un labirinto. Da solo, lì dentro, non mi sarei mai orientato. Perché non avevo imparato a memoria anche la piantina dell'edificio? Progettai di farlo quella sera.
Per non dare troppo nell'occhio, mi diressi subito in fondo alla classe, dove sarei stato coperto da tutti gli altri studenti, ma il mio tentativo di raggiungere l'ultimo banco fu boicottato da Jason, che mi tirò per un braccio, costringendomi a sedermi al primo, proprio di fianco a lui.
L'insegnante era una certa Miss Boudlaire, una donna di mezza età, che entrò in classe sistemandosi il tailleur rosa pallido di Chanel e aggiustandosi i capelli, prima di sussurrare un timido «Buongiorno» ai propri allievi. Salutò me personalmente, ma solo perché ero “quello nuovo”.

L'argomento della lezione era Shakespeare. Il metodo di insegnare era totalmente diverso dalla vecchia scuola. Qui c'era partecipazione da parte di tutti, era più un dibattito, una botta e risposta tra studenti e insegnanti, anche se, in realtà, alla fine tutto si trasformò in una sorta di dialogo tra Miss Boudlaire e Jason, che rispondeva ad ogni sua domanda, guardando me con un sorriso ogni volta.
Quel ragazzo era stranamente intelligente, sebbene, dall'aspetto, avrei detto che assomigliasse di più ad uno stupido giocatore di football che puntava il proprio futuro sulla borsa di studio dello sport. Che poi, non sapevo nemmeno se l'Istituto avesse una squadra di football.
Jason rispose correttamente ad ogni domanda: data e luogo di nascita dello scrittore, titolo della prima opera, stile. Io non potei intervenire nemmeno una volta, almeno finché lui non sbagliò. 
Avevo come la sensazione che nessuno avesse il coraggio di contraddirlo, né i nostri compagni e, tanto meno, l'insegnante.
Alla domanda «Quali tragedie Shakespeare scrisse prima del 1600?», Jason disse «Romeo e Giulietta, Giulio Cesare e Amleto». Sbagliò e nessuno disse niente. Non so cosa mi spinse a parlare prima della professoressa. «In realtà» dissi «l'Amleto è stato scritto tra il 1600 e il 1602. Tra le tragedie prima del '600, manca Tito Andronico, che poi, è la prima vera tragedia scritta da Shakespeare».
Miss Boudlaire sorrise soddisfatta. «Molto bene, signor Clarke» esclamò. Anche Jason mi sorrise, ma il suo fu più che altro un gesto meccanico, di falsa cortesia.
Osai contraddirlo altre due volte in quella lezione, e la stessa cosa accadde per quasi tutta la mattinata, a chimica e a matematica. Era nata una sorta di sfida tra noi, e non sapevo ancora se fosse un bene o un male. Del resto, mi stavo divertendo a competere sotto qualcosa di culturale.

Purtroppo per me, non passò molto prima che potessi collocare da una delle due parti quella lotta, e non era una celestiale luce bianca.

Nella pausa pranzo, mentre camminavo seguendo le indicazioni per la caffetteria in quel labirinto di corridoi tutti uguali, mi sentii afferrare per le spalle, con forza e prepotenza. Senza che potessi urlare, dimenarmi o fare qualsiasi altra cosa, mi ritrovai in un piccolo stanzino, immerso nell'oscurità. Ero impossibilitato a muovermi, sentivo due paia di braccia bloccare le mie e, la parte peggiore, era che non riuscivo a vedere niente.

«Novellino, pensavo fossi più cauto». Riconobbi la voce di Jason. «Sai, chi arriva alla Hills High, normalmente si dà da fare per capire chi comanda e chi invece obbedisce. Se non ti fosse chiaro, IO sono quello che comanda. Il migliore della classe, il migliore della squadra di football, il migliore del team di Chimica. Tentare di entrare in competizione con me? Pessima mossa».

«Competizione? Io ho solo...». La mia frase venne interrotta bruscamente e un dolore lancinante mi attanagliò lo stomaco. «Questo è solo un avvertimento, Clarke» disse ancora Jason e il suo pugno di scagliò sul mio volto. Sentii scrocchiare le sue nocche contro il mio zigomo.

«Fatti da parte, finché sei in tempo».

Venni liberato dopo l'ultima frase. La presa, probabilmente di Carl e Jerry, cessò e io ricaddi in ginocchio sul pavimento. Il silenzio tornò e l'oscurità fu ancora più profonda. Ebbi il coraggio e la forza di rialzarmi solo dopo qualche minuto. Forse cinque, forse dieci.
Uscii dallo stanzino, che scoprii essere lo sgabuzzino del bidello. Non c'era nessuno in giro e ringraziai per quello: avrei evitato le mille domande “cosa è successo? Chi è stato?” e così via.
Andai in bagno, nel tentativo di darmi una ripulita, prima delle lezioni del pomeriggio, se mai vi avessi partecipato, ma, guardandomi allo specchio sopra uno dei tanti lavandini in fila, vidi come il pugno di Jason era riuscito a spaccarmi il labbro. Dal taglio sulla bocca, usciva parecchio sangue e l'occhio destro stava iniziando a gonfiarsi; per non parlare della divisa, tutta sgualcita e sporca.

«Dovresti metterci su del ghiaccio». Udii una voce femminile, proprio alle mie spalle. Mi girai di scatto e... Ed era lei. La stessa ragazza che avevo visto nell'atrio di casa mia qualche giorno prima.

«Tu cosa...» balbettai. «Cioè... Questo è il bagno dei maschi».

«Lo so» replicò, facendo qualche passo in avanti e fermandosi a qualche metro da me. «Ti ho visto uscire dall'ufficio di Jason».

«Ufficio?».

«Lo sgabuzzino del bidello. So come è fatto Jason: vuole essere il migliore in tutto. Ecco perché, quando arriva qualcuno nuovo, cerca subito di farselo amico, per testarlo e tenerlo a bada. Ci sono passati quasi tutti i ragazzi di questa scuola, quelli che hanno voluto tenergli testa, almeno».

Sbuffai. «Ho solo risposto a qualche domanda in classe».

«Per lui è grosso torto anche e soprattutto quello».

«E' una cosa...».

«Da idioti. Ma da una ragazzino ricco e annoiato, che cosa ci si può aspettare?».

Abbozzai una risata, priva d'entusiasmo.

«Comunque» continuò lei «Io sono Johanna. Johanna Wilkinson».

«Simon Clarke». Feci una breve pausa. «Ci siamo visti l'altro giorno, nell'atrio a...».

«Sì, abitiamo nello stesso palazzo».

«Mi sarei presentato, ma sei sparita prima che potessi farlo».

Johanna mi sorrise. «E' una mia caratteristica». Si avvicinò ancora e, alla fine, fu solo a qualche centimetro di distanza dal mio viso. Alzò una mano e sfiorò con due dita i contorni del mio zigomo.

Io fui attirato dai suoi occhi. Ero sempre dell'idea che lo sguardo di una persona rivelasse chi quella persona fosse, perché gli occhi non tradiscono mai.
I suoi erano verdi, cristallini e chiarissimi e... Strani. Non che lei fosse davvero strana: insomma, mi pareva una ragazza piuttosto normale. Solo che, in quel momento, mentre fissavo quelle due pozze color smeraldo, mi parve di vedere delle ombre rosse attraversare l'iride, in maniera repentina. E fu, appunto, molto strano.

«Porti le lenti a contatto?» chiesi, inconsciamente.

«Cosa?» esclamò. «No».

«Oh...». Scossi appena il capo e accennai una risata, nervosa. «Mi sembrava che... Niente, lascia perdere. Devo aver preso anche una botta in testa».

«Forse». Johanna fece un passo indietro. «Ora esco: questo è pur sempre il bagno degli uomini».

«Giusta osservazione».

Mi sorrise ancora e fece per uscire, ma, sulla soglia della porta, si fermò, voltando appena verso di me. «Stavo pensando» disse «visto che abitiamo nello stesso palazzo, qualche volta potremmo studiare insieme. Ti va?».

«Uhm». Tentennai per qualche secondo. «Certo, mi... Sarebbe bello».

«Grande. Ci vediamo, allora».

«Ci vediamo».

Johanna sparì dal bagno e mi ritrovai nuovamente solo. Nelle condizioni pietose in cui ero, non me la sentii di partecipare alle lezioni del pomeriggio, anche perché la maggior parte includevano la presenza di Jason.
Così, restai seduto sui gradini all'ingresso, fino a fine giornata, quando Tom mi venne a prendere. Non chiese nulla riguardo al livido sull'occhio, al taglio sul labbro o altro. Restò in silenzio: forse era ciò che gli avevano detto di fare.
Per mia fortuna, a casa, mia madre non c'era ancora. Trovai un suo messaggio in segreteria, che mi comunicava di ordinare qualcosa da fuori, perché lei sarebbe tornata tardi. Fui grato di ciò: anche le sue domande sarebbe state evitate.

Non ordinai nulla da mangiare, volevo solo dormire e fu quel che feci. Mi liberai della divisa scolastica, gettandola sul pavimento di moquette, e mi ficcai sotto le coperte.

Calando le palpebre, oltre all'oscurità, vidi una sola cosa, per tutta la notte: gli occhi verdi di Johanna e quelle ombre rosse.

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Capitolo 3
*** Insomnia. ***


Capitolo 3
"Insomnia"


Dicono che quando si dorme, la nostra attività cerebrale aumenti, invece che diminuire. Nel sonno, si attivano una marea di meccanismi che plagiano il nostro inconscio, ripescando cose che avevamo dimenticato, cose che non pensavamo di aver vissuto. A volte, nei sogni, possiamo addirittura vedere cosa sarebbe successo se avessimo fatto una sola scelta diversa nella nostra vita.

Spesso, a me capitava di vedere la mia ex ragazza, Tiffany. Vidi cosa sarebbe successo se le avessi perdonato il tradimento con il mio – ex anche lui – migliore amico e, per quanto fosse possibile, le alternative erano addirittura peggiori della realtà stessa.
Ecco perché desideravo non sognare o, perlomeno, dato che è impossibile non farlo, non ricordare nulla al mio risveglio. Il problema era che riuscivo a ricordare sempre tutto ed era opprimente.

Da quando mi ero trasferito a Chicago, avevo dormito abbastanza bene ed ero stato in grado di rimuovere ben presto i sogni della notte dalla mia testa. Ma, dopo poco più di due settimane di tranquillità, l'insonnia tornò e così mi ritrovai alle due di notte, in piedi, in cucina, a rigirare tra le mani una tazza di tè ormai freddo.
Tenevo lo sguardo basso, assente. Desideravo davvero dormire, sprofondare nel letto e lì rimanere per tutto il weekend, ma... Dannato inconscio.
Sovrappensiero, fui scosso solamente da un rumore, proveniente dalla mia camera. Qualcosa di leggero, che di giorno non avrei mai sentito a causa del traffico per strada e dalla grandezza della casa, ma la quiete della notte rendeva ogni mio senso più acuto.
Mi alzai di scatto e cominciai a muovermi lentamente verso la mia stanza, dopo aver recuperato la prima cosa che trovai, per difendermi.
“Oh, certo, un ombrello ti sarà molto utile per difenderti da un potenziale assassino!” mi sgridò una vocina nella mia testa e sbuffai per zittirla.
Continuai a camminare a passi felpati, a piedi nudi sulle mattonelle di ceramica bianca, fino alla camera in fondo al lungo corridoio. Allungai la mano, per aprire piano la porta e presi un respiro profondo, stringendo tra le dita l'ombrello. Per favore!” si lamentò ancora la stessa vocina. Sbuffai ancora.
Mi girai di scatto, pronto a colpire chiunque si fosse intrufolato in casa – se mai ci fosse stato qualcuno.
Sobbalzai quando vidi Johanna accanto alla finestra, in un pigiama composto da pantaloncini a righe chiare e una canottiera bianca. Cacciai un urlo molto simile a quello di una bambina e lo stesso fece lei, vedendomi.

Quella sì che era una pessima figura.

«Jo!» esclamai, chiudendo di getto la porta, per evitare che mia madre sentisse ulteriori rumori, e gettai a terra la mia arma di difesa. «Cosa... Che ci fai qui?».

«Non riuscivo a dormire. Ho visto la luce accesa e allora...».

«E come sei entrata?».

«Dalla finestra».

«Dalla...». Strabuzzai gli occhi e iniziai a gesticolare. Accadeva sempre quando ero nervoso. «Siamo al nono piano!».

«Lo so, ho usato la scala antincendio». Fece una pausa, abbozzando un sorriso. «E' finito l'interrogatorio?».

Allargai le braccia e scossi appena la testa. «Credo di sì». Mossi qualche passo nella sua direzione e lei fece lo stesso. «Ti stavo quasi per rompere quel vaso. Per fortuna hai la moquette» disse, abbozzando una risata.

«Previene anche molti incidenti, sai?».

«No, questa me la devo segnare». Fece un'altra breve pausa, portandosi una ciocca di capelli dietro ad un orecchio. «Non riuscivi a dormire nemmeno tu?».

«No». Sospirai e mi sedetti sul letto, proprio lì vicino. Johanna mi seguì, quasi fosse la mia ombra. «Non ci riesco da un bel po', ormai» aggiunsi, sussurrando.

«Posso chiederti il motivo?».

«Troppi pensieri, credo».

«Riguardo?».

Abbozzai un sorriso, ironico. Conoscevo Johanna da quanto? Dieci giorni, circa, o qualcuno di più. Non sapevo se fosse giusto buttarle addosso i miei problemi passati e le mie insicurezze attuali. Lei, di fatto, era una estranea.
Un'estranea che si trovava nella mia camera da letto, in pigiama, a quell'ora di notte.

“Già, proprio un'estranea”. La vocina nella mia testa mi fece il verso e rise di me.

Restai in silenzio e non risposi alla sua ultima domanda, il che le fece capire che, forse, non volevo dire nulla. «Okay, non ne vuoi parlare» esclamò allora, rivolgendo lo sguardo altrove, ad osservare ogni dettaglio della stanza, quasi lo dovesse analizzare e catalogare. «No» sussurrai. «Cioè, no, non è vero che non ne voglio parlare, è che...».
«C'entra una ragazza?» chiese Johanna, continuando la sua osservazione scrupolosa. «C'entrava» risposi, mordendomi piano il labbro inferiore.

«Ti ha mollato?».

Spalancai la bocca e strabuzzai gli occhi. «Hai... Un tatto fenomenale».

Johanna rise e i suoi occhi verdi smeraldo tornarono su di me. Non seppi perché, ma rabbrividii quando lo fece. Possibile che avessero uno strano potere? Perché, davvero, sentivo di esserne schiavo. «Mi piace essere diretta» disse. «Allora? Ti ha mollato?».

«No, non mi ha... Mollato. L'ho fatto io».

«E perché mai?».

«Lei mi... Tradiva con il mio migliore amico, da un po'».

La vidi fare una smorfia e poi scoppiò a ridere, mentre il mio essere perplesso e stupido aumentava a dismisura. «Tu stai ridendo!» esclamai, stridulo.

«Sì, scusa» replicò, portandosi una mano alla bocca, cercando in tutti i modi di tornare seria. Ci riuscì solo dopo cinque minuti buoni. «Scusa. Scusa» bofonchiò «è che lo trovo...».

«Patetico?».

«No. Insensato».

«Insensato?».

«Sì. Tu sei... Molto carino e dolce. Penso che una ragazza dovrebbe ritenersi fortunata ad averti come fidanzato, anziché tradirti col primo che passa solo perché ha maggiore sex appeal».

Fui nuovamente muto, ma i motivi erano diversi, rispetto a poco prima. Era un complimento, quello? Ero talmente abituato a non riceverne mai, da nessuno, soprattutto da una ragazza, che mi parve che il mio cuore si fosse fermato.Mi sentii un'idiota in quel momento.

“Oh, qualcuno sta arrossendo qui”. Persino la mia coscienza colse il mio imbarazzo e ci cantilenò sopra.

Sorrisi, facendo spuntare le mie amate-odiate fossette sulle guance. Gli occhi di Johanna mi fissavano ancora e - non per mia impressione - si erano avvicinati parecchio al mio viso, più di quanto avessero fatto giorni prima, a scuola.
Ma, proprio come quella volta, qualcosa accadde: ancora quelle ombre rosse che le attraversarono l'iride. Più forti, più scure, più continue: le vidi chiaramente, e non era né un riflesso di luce né una mia fantasia né, tanto meno, per via di una botta in testa. Li fissai, incredulo, ma allo stesso tempo incuriosito: a cosa era dovuto? Non ne avevo la benché minima idea. Forse internet mi avrebbe dato delle risposte, oppure – cosa molto più probabile – riempito di ansie, paure e paranoie.
Ero piuttosto certo di aver appena assunto un'aria da perfetto idiota, ancor peggio del sorriso ebete di poco prima. Johanna se ne accorse, tuttavia non si scostò ancora.

«Qualcosa non va?» domandò, innocente.

“I tuoi occhi non vanno” pensai, ma tutto ciò che mi uscì di bocca fu: «I tuoi occhi. Sono bellissimi».

Già, ero passato dall'essere quasi spaventato da quello strano fenomeno che la riguardava a farle un apprezzamento. Mi pizzicai la lingua con i denti, per rimproverarmi, credo.

«Oh, grazie» sussurrò lei. «Me lo dicono in molti».

Non avevo nessun dubbio su quello.

«Beh, hanno ragione, sono...».

«Vorresti baciarmi?» disse ad un tratto, smorzando per l'ennesima volta una mia frase.

«Come?» chiesi, retorico, fingendo di non aver afferrato il concetto.

«Con la bocca. Come, se no?».

«Quello lo avevo capito, intendevo... Cioè... Io... Noi... Ehm...».

Dovetti correggermi: non erano solo gli occhi di Johanna a mandarmi in tilt. Era lei, in tutto e per tutto.

Completamente.

Johanna Wilkinson mi mandava letteralmente in tilt.

In tutta risposta, rise e una sua mano raggiunse i miei capelli. Li scompigliò tutti e si alzò dal letto, facendo mezzo giro su se stessa. «Oltre a carino e dolce, sei anche adorabile» esclamò. Scossi appena la testa. Quella era la ragazza più strana con cui io avessi mai avuto a che fare e, in quel momento, stavo tralasciando di proposito le ombre rosse.
«Ora è meglio che vada» aggiunse, poco dopo. «Cerca di dormire, ragazzo carino, dolce e adorabile, domani dobbiamo studiare per il compito di chimica».
«Già, fa'... Lo stesso anche tu» biascicai e la vidi uscire dalla finestra, così come era entrata.
Aspettai che nessun rumore provenisse più dall'esterno e raggiunsi tempestivamente la scrivania. Accesi il mio portatile – ultima generazione, lo adoravo, grazie agenzia di mamma! - e avviai una ricerca online. 
Esattamente, non sapevo cosa cercare. Optai per “iride ombre rosse”, il che mi sembrò abbastanza stupido. Roteai gli occhi, maledicendomi per quello che stavo facendo.
La pagina di Bing con i risultati si aprì dopo qualche secondo, in contemporanea con la porta della mia stanza.

«Simon!».

Era mia madre.

Chiusi il pc di scatto, non leggendo nemmeno una riga di ciò che era apparso sullo schermo.

«Sei ancora sveglio? Ma sai che ore sono?».

«Uhm, sì» balbettai. «Non riuscivo a... Prendere sonno, così mi sono fatto un tè e adesso... Adesso, sì, torno a letto».

Lei si limitò ad annuire, evidentemente ancora avvolta dal sonno. «D'accordo» disse, sbadigliando. «E ricordati di spegnere le luci».

«Sì, certo».

Ritornai ad essere solo dopo neanche un minuto. Ebbi l'istinto di riaprire il pc e immergermi nelle ricerche, ma alla fine lasciai perdere. Era meglio lasciar perdere, almeno per quella volta.

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Capitolo 4
*** Sins. ***


Capitolo 4
"Sins"

 

La nuova vita di Simon Clarke è peggio della vecchia. Seriamente, inizio ad odiare quasi tutto, persino il lusso. La scuola è un incubo. Nessuno mi parla, forse – anzi, sicuramente – a causa di Jason. Sono certo che ha minacciato tutti, promettendo pestaggi a chiunque mi rivolga la parola.
E' un maniaco del controllo e non riesco a capirlo. Sarebbe un bel caso da analizzare, se fossi già e per davvero uno psicologo. L'unica persona che osa avvicinarsi a me per i corridoi dell'Istituto e nel cortile, è Johanna.
Non sembra avere paura di Jason, per niente. Anzi, a volte ne parla pure male. Anche lei sarebbe un caso interessante, psicologicamente parlando.
Continuo ad essere incuriosito da lei, senza contare il fatto che è praticamente ovunque mi giri. Davvero, non so come faccia a spostarsi alla velocità della luce. Magari fa parte della squadra d'atletica della scuola, devo ricordarmi di...

La campanella dell'Istituto, che annunciava la fine della pausa pranzo, troncò di netto la mia frase. Pasticciai dei punti di sospensione sul mio quaderno dalla copertina rossa e lo chiusi rapidamente, riponendolo nella borsa a tracolla di finta pelle, che aveva preso il posto dello zaino vecchio e logoro.
Tutti si stavano affannando a tornare dentro, nelle varie aule: nonostante il leggero sole piacevole di quel giorno, nessuno di loro amava arrivare in ritardo. Anzi, ero pressapoco convinto che un ritardo ad una lezione, in quel luogo, equivalesse ad un peccato capitale.
Per quanto mi concerneva, tuttavia, essere odiato per un motivo o per un altro, non cambiava molto le cose. Per tale motivo, mi alzai lento dalla panchina su cui mi ero accomodato per ingurgitare – letteralmente – il panino al tonno che mia madre mi aveva preparato quella mattina e mi incamminai a passo strascicato verso l'ingresso dell'Istituto.
Avevo matematica, la penultima lezione del giorno. L'insegnante era Miss Torn, una donna giovane, sulla trentina, alle sue prime esperienze di insegnamento. Era brava, solo che, a mio parere, era troppo influenzabile. Jason aveva parlato – o intimorito – anche con lei, tanto che, alle sue lezioni, a me era concesso a stento respirare.
«Ehi, ragazzo carino!». La voce squillante di Johanna mi fece fermare nell'esatto centro del vialetto di pietra che si apriva nel grande prato che circondava l'Istituto. Quando mi girai, lei mi aveva già raggiunto e si fermò davanti a me, portandosi una ciocca di capelli dietro ad un orecchio. «Ehi» replicai, abbozzando un sorriso, in cenno di saluto.

«Pensavo ti fossi già fiondato a lezione».

«Ci stavo andando, proprio ora».

«Che materia hai?».

«Matematica».

«E sei bravo?».

«Me la cavo».

«Quindi, se volessi, potresti saltarla».

«Immagino... Immagino di sì».

Johanna rise lievemente e sentii una sua mano sfiorare la mia, mentre i suoi occhi continuavano a fissarmi. Quella volta, non vidi nessuna ombra, ma quasi desiderai che ci fosse, chissà per quale assurdo motivo. D'istinto, senza nemmeno pensarci o ragionarci su, le mie dita si intrecciarono alle sue. Lei diede uno sguardo veloce a quel gesto e poi riportò gli occhi sul mio viso.

«Io ho storia, ma non mi va di andarci» sussurrò. «Ti va di venire con me in un posto?».

Tentennai per un solo attimo, mordendomi appena il labbro inferiore. «Che posto?» domandai, retorico. Probabilmente, nemmeno mi interessava saperlo.

«Qui vicino. Non ci allontaniamo troppo, te lo prometto».

Sorrisi, in risposta. Lei fece lo stesso, abbozzando una lieve risata, e mi trascinò – letteralmente – via, attraverso il prato. Correndo, mano nella mano, facemmo il giro dell'edificio.
Entrammo da una porta sul retro, che non avevo mai usato. Notando il maniglione anti-panico, non appena fummo dentro, dedussi che fosse un'uscita d'emergenza o di servizio, che Johanna aveva – di sicuro – precedentemente manipolato, con un pezzo di nastro adesivo, per far sì che si potesse aprire anche dall'esterno. Qualcosa di geniale, a mio parere.
Non camminammo per lungo ancora, per quei corridoi tutti uguali che a me parevano ancora un immenso labirinto. Lei, invece, li conosceva bene, e mi condusse attraverso di essi, fino ad arrivare ad uno stanzone enorme. Anzi, più che enorme.
Eravamo giunti alla grande piscina rettangolare dell'Istituto, usata principalmente – o esclusivamente – dalla squadra di nuoto. Essendo io, praticamente, estraneo ad ogni genere di attività fisica, quella era la prima volta che mi trovavo lì.

«Che ci facciamo qui?» domandai. La risposta poteva o non poteva essere ovvia: in entrambi i casi, io non ne riuscivo a dare una.

«Facciamo il bagno, naturalmente» replicò lei e solo allora lasciò la mia mano. Vidi la sua tracolla ricadere a terra e, successivamente, la giacca della sua divisa.

«Non ho... Il costume» balbettai. Johanna rise. «Non ci serve» esclamò. In breve tempo, sotto i miei occhi che strabuzzavano – rischiai seriamente che i bulbi oculari mi cadessero a terra – lei rimase solo in intimo, degli slip e reggiseno di pizzo bianco.

Mi lanciò un'occhiata veloce e si tuffò in piscina, facendo schizzare l'acqua da tutte le parti.

La mia bocca si aprì d'istinto, per lo stupore e la perplessità. Sapevo che Johanna fosse strana e particolare, ma ero comunque sbalordito da tutto ciò.
Insomma, non era normale saltare le lezioni per fare il bagno in piscina, no? Senza costume, per giunta! E io che ci facevo lì? Cominciai a domandarmelo sul serio.

«Andiamo, salta dentro!» mi urlò, nuotando a dorso.

«Io...».

«Non costringermi a tirarti, perché finiresti in acqua vestito e la divisa ci impiega un'eternità ad asciugarsi».

Mi guardai attorno, per la millesima volta da quando lei si era tuffata. Avevo paura che qualcuno entrasse e, in tal caso, una sospensione – o peggio, l'espulsione – dall'Istituto era garantita.
Ero come ad un bivio che, più che altro, si era creato nella mia testa. Una parte, del tutto razionale, mi invitava a scappare da quel posto il più veloce possibile e correre a matematica, non incrementando ancor di più il ritardo già titanico. L'altra, invece, quella più volubile, mi spingeva a togliermi i vestiti ed entrare in piscina, per perdermi nel mare degli occhi di Johanna.
Per mia fortuna – o sfortuna – la seconda alternativa ebbe la meglio.
Anche la mia tracolla cadde a terra, insieme alla divisa. Restai solo con i boxer azzurri addosso, ed entrai in acqua, in maniera forse un po' più delicata di come aveva fatto lei.
Johanna rise e mi fu addosso praticamente subito. Portò le braccia attorno al mio collo e fece leva sui gomiti per sollevarsi appena e incrociare le gambe intorno al mio bacino.

«Visto? Non è poi così male» sussurrò. Io non ascoltai molto le sue parole. Il motivo era semplice e piuttosto scontato. Mi ero abituato ad esser schiavo dei suoi occhi verdi e, quella volta, tornò anche l'ombra rossa, intermittente e più accentuata, rispetto ai giorni precedenti. Era come se fossi più attratto da quella che da tutto il resto, forse perché era qualcosa che non sapevo spiegare e il mistero era più intrigante di cose note.

«Come si chiamava?» mormorò ancora.

«Chi?» chiesi, spostando lo sguardo, saltuariamente, dagli occhi alla sua bocca.

«La ragazza che hai lasciato».

«Ah... Lei. Tiffany. Si chiamava Tiffany».

«Beh, Tiffany è stata una vera idiota a lasciarti andare».

Feci un mezzo sorriso, a tratti malinconico. «O forse ho fatto bene io a lasciare andare lei».

«Forse».

Johanna mi accarezzò piano i capelli sulla nuca e sbattè le palpebre in maniera dolorosamente lenta. Poi si sporse verso di me e le sue labbra si poggiarono sulle mie.
Ci fu un bacio, prima delicato, lieve, col suo respiro che accarezzava la mia pelle. Dopo più spinto, più avido. Le nostre lingue iniziarono a danzare, come se si conoscessero da sempre. Un vortice continuo, che mi travolse, facendomi formicolare ogni parte del corpo.
Johanna iniziò a tirare i miei capelli e quel dolore fu quasi piacevole. L'altra sua mano scorse sul mio collo e pian piano più giù, sul mio petto, dove si fermò. Indugiò sul quel punto per qualche secondo, in maniera delicata; ma, d'improvviso, senza che me ne accorgessi, le sue unghie sprofondarono nella mia pelle. A quello non seppi resistere e fui costretto a troncare il bacio, allontanandomi col viso di qualche centimetro. «Ahi» esclamai, fissandomi per qualche secondo il petto. I cinque segni delle sue dita erano ben evidenti sulla mia pelle color latte e avevano iniziato a sanguinare. Johanna si staccò del tutto da me. Mi guardò, con occhi smarriti e mi parve che i due diamanti verdi che possedeva, avessero perso la loro luce. «Scusami» biascicò.
«No, non... Non fa niente» dissi, per tranquillizzarla. In realtà, ero piuttosto... Scosso. Non seppi definire bene le sensazioni che provai in quel momento. Avrei dovuto avere paura o cosa?
«Devo andare» sussurrò ancora e la vidi nuotare rapida, fino al bordo piscina. La seguii subito, parandomi davanti a lei, prima che potesse uscire dalla vasca. Poggiai le mani ai lati della sua testa, sulla parete della piscina e la fissai negli occhi, sperando che fosse lei a perdersi nei miei, quella volta.
«Non devi andartene» mormorai. «Non è successo nulla, davvero».

«Tu non puoi capire. Devo andare, Simon, dico sul serio».

«Perché? Ti sei solo lasciata prendere e...».

«E non avrei dovuto. Ti prego, lasciami uscire da qui, è meglio per entrambi».

Esitai per qualche secondo, ma alla fine, dovetti arrendermi. Per quanto volessi tenerla lì e dirle – ancora – che non era capitato nulla di così grave, mi scansai e le lasciai lo spazio per uscire dalla vasca. Johanna recuperò i propri vestiti in modo distratto e corse via, senza dire ulteriori parole.
Io restai in acqua ancora per un po': forse qualche secondo oppure una serie di minuti. Quando uscii dalla piscina, mi sedetti sul bordo bianco, fissando l'acqua limpida che avevo davanti. Mi rivestii solo quando sentii suonare la campanella della penultima ora e corsi più che potevo verso l'aula di scienze. Almeno a quella lezione, evitai di arrivare in ritardo e commettere qualche altro peccato.

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Capitolo 5
*** Complicated. ***


Capitolo 5
"Complicated"


La psicologia umana è qualcosa di estremamente complicato. Ci sono innumerevoli situazioni, comportamenti, gesti, che il nostro cervello non riesce ad interpretare; non riesce a dar loro una spiegazione logica perché, nella maggior parte dei casi, questa nemmeno c'è.
La linea che traccia il confine tra l'esser sano e l'esser pazzo è estremamente sottile, un po' come quella che separa l'odio e l'amore, il dolore e il piacere.
Io sentivo di esser in bilico su quella linea, con la paura addosso di cadere sia da una parte che dall'altra.

Da quando Johanna mi aveva praticamente mollato lì, da solo, in piscina, non l'avevo più vista. Per la settimana che seguì, non si fece viva a scuola, né allo studio quotidiano al pomeriggio, né, tanto meno, ci furono le sue visite in camera mia nel cuore della notte. Era come se fosse scomparsa e per un attimo cominciai seriamente a temerlo.
Ancora non mi spiegavo cosa fosse successo tra noi, in acqua. C'era stato quel bacio, che mi aveva tolto il fiato e poi quel leggero incidente. Bastava seriamente solo quello per far sì che lei si dissolvesse nel nulla?
Mi passò per la testa di andare a bussare alla porta del suo appartamento, inventandomi qualche scusa stupida, o di chiamarla, ma ogni volta ci fu qualcosa a trattenermi: dubbi, incertezze o altre domande senza risposta che vagavano e si scontravano nel mio cervello, rischiando di farlo esplodere.
Feci la mia ricerca su internet, riguardo gli occhi rossi, ma, a parte qualche leggenda metropolitana per nulla credibile e qualche film horror, non trovai niente di davvero utile.

Anche quella sera, rimasi immobile nel mio letto, sfatto da chissà quando, a fissare il soffitto. Chiusi gli occhi, svariate volte, sperando che il sonno mi colpisse e mi avvolgesse in qualche modo, ma nulla accadde. La mia insonnia era sempre più insistente.
Nemmeno scrivere o leggere mi aiutò più di tanto, anzi, sembrò peggiorare la situazione.

Mi rigirai sul materasso. Prima su un lato, poi sull'altro, di nuovo da quello opposto, finché qualcosa cambiò.

«Ehi».

Mi misi di scatto seduto sul letto e mi voltai. Johanna stava in piedi, accanto alla finestra, con addosso un vestito bianco che quasi si confondeva con la sua pelle color latte. Così mi alzai e le andai incontro, fermandomi a qualche centimetro da lei. «Pensavo non volessi più vedermi» sussurrai, mordendomi appena il labbro inferiore. «No, io...» biascicò e abbassò lo sguardo, fissandosi i piedi scalzi. «Scusa per... L'altro giorno».

«Non fa niente, te l'ho detto».

Johanna sorrise timidamente e mosse un passo nella mia direzione. Una sua mano si poggiò sulla mia spalla e l'altra raggiunse il mio collo. D'istinto, mi sporsi verso di lei e le nostre labbra si sfiorarono, per un secondo bacio, più lieve e delicato, rispetto al primo.
Poggiai i palmi sui suoi fianchi e la fronte sulla sua, quando ci staccammo.
Fino a quel suo ritorno, non mi ero reso conto che mi fosse davvero mancata e fu strano, perché non avevo mai pensato che potesse succedere una cosa del genere, non a me, non così presto. Eppure, eccomi lì, inchiodato ai suoi occhi come sempre, succube del suo respiro e del suo tocco.

«Che cosa è successo, l'altro giorno, Jo?» sussurrai, anche se, in realtà, non avrei voluto dire nulla. «Sei... Scappata via e poi sei sparita per tutto questo tempo, io...».

«Ho avuto paura» biascicò, accarezzandomi delicatamente il petto. Sembrava essere decisamente più calma e tranquilla, rispetto all'ultimo momento passato insieme.

«Di cosa?».

«Di te».

«Di me? Ti faccio paura?».

«No, non in quel senso, te l'ho detto: sei adorabile». Fece una breve pausa e si sollevò sulla punta dei piedi, per baciarmi sulle labbra, ancora una volta. «Ho paura di legarmi a te e poi non essere più in grado di lasciarti andare».

«Non devi farlo».

Sorrise appena, ma senza entusiasmo. «E' complicato» mormorò.

Complicato.

Avevo sempre odiato quella parola, fin troppo. Ogni cosa che non ero in grado di comprendere, semplicemente, la odiavo.

«Prova a spiegarmelo lo stesso» dissi, allora.

«Ti annoierei».

«No, non è vero».

Johanna si morse lievemente il labbro inferiore e si staccò da me piano. «Voglio chiederti una cosa» esclamò, sviando in modo palese il discorso. Feci finta di niente: se non me ne voleva parlare, mi stava bene. Avrei aspettato, finché non fosse stata pronta.

«Chiedimela» replicai.

«Vuoi venire al ballo con me?».

«Al... Ballo?». Alzai un sopracciglio, perplesso.

«Sì» replicò, abbozzando una risata. «Quello d'inverno. Siamo un po' in ritardo quest'anno, ma lo faremo e... Mi piacerebbe andarci con te».

Nessuno mai mi aveva proposto una cosa del genere, anche perché, in vita mia, ero stato ad un solo ballo, quello dell'ultimo anno delle medie, ed ero stato io a chiederlo a Tiffany, ricevendo un sonoro no. In quell'occasione, avevo passato la serata con Andrew, a ridere di sciocchezze, per distrarci.
Invece, stava succedendo per davvero. Nella nuova città, non solo avevo una ragazza – potevo considerare Johanna così? - ma stavo anche per partecipare al ballo scolastico insieme a lei, per sua proposta.

Sorrisi – come un'idiota, di sicuro. “Ecco le fossette” pensai.

«Piacerebbe molto anche a me» sussurrai.

«Devo prenderlo come un sì?».

«Un super-sì. Ma solo se mi prometti di non sparire di nuovo».

«Non sparirò».

La vidi abbozzare un sorriso e indietreggiare di un passo. Evidentemente, si preparava per andarsene. «Perché non resti?» dissi, di getto, senza rimuginarci troppo sopra. A volte, era meglio seguire l'istinto. «Restare?» mormorò lei.
«Sì, potresti... Dormire qui, se... Se i tuoi genitori vogliono, insomma... In realtà, potresti anche rientrare in camera tua prima che loro se ne accorgano, dato che usi le finestre come fossero porte».
Rise, a quella mia affermazione e lo feci anche io, come se il suo buonumore fosse lo stesso mio. «D'accordo» sussurrò. «Non russi, vero?».
Storsi per un attimo le labbra, il che mi fece assumere un'espressione di disappunto. Johanna rise di nuovo. «Sto scherzando, ragazzo carino» disse e allungò una mano, prendendo la mia. Le nostre dita si intrecciarono, mentre lei mi conduceva verso il letto, dove ci sdraiammo, l'uno di fianco all'altro, con gli sguardi incastonati e legati da qualcosa che non seppi definire.
Forse, un magnete e una calamita. Ecco: i miei occhi venivano attirati dai suoi mediante lo stesso processo. Diamanti verdi e azzurri che si scioglievano e univano, senza scontrarsi o respingersi.

«Sei riuscito a dormire queste notti?» domandò, prendendo a sfiorarmi con i polpastrelli l'incavo del collo. Scossi appena la testa. «No» mormorai «e stavolta dovresti sapere il perché».

«Sono stata la causa della tua insonnia, quindi?».

«Una specie».

«Mi dispiace».

«Non devi. Dispiacerti, intendo».

«Forse un po' sì».

Johanna strisciò sul materasso, fino a quando le punte dei nostri nasi non riuscirono a sfiorarsi. Le sue carezze continuarono e tutto ciò mi portò a rilassarmi in maniera più che incredibile. Socchiusi gli occhi, avvolto da quella beatitudine e non passo molto prima che il sonno sopraggiungesse.

Oltre ad essere la causa del mio non-dormire, delle volte, lei risultava essere anche la mia cura per farlo.

Quando riaprii gli occhi, ero solo, coperto dal piumone azzurro fino al fianco. La mia mano poggiava sul materasso vuoto. La mossi un po', nel dormiveglia: forse Johanna si era solo spostata un po'.

Ovviamente non era così.

Al suo posto, trovai un biglietto, abbandonato sul cuscino. Lo rigirai tra le mani, prima di leggerlo.

Sono andata via all'alba, ma non ho voluto svegliarti. Non sono sparita, ti ho promesso che non l'avrei fatto. Torno da te nel pomeriggio. Dolce risveglio, ragazzo carino. Johanna”. 

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Capitolo 6
*** Fire and ice. ***


Capitolo 6
"Fire and ice"


Il ballo della Hills High non era nulla a confronto dei balli dei normali licei. Era pur vero che non avevo esattamente partecipato nemmeno ad uno di quelli, ma avevo assistito alla preparazione, all'organizzazione delle cose, ed erano due mondi totalmente differenti.
Innanzitutto, tutti gli studenti partecipavano. Nessuno prendeva anche solo in considerazione l'idea di stare a casa, che fosse accompagnato o meno. Del resto, l'unica minaccia della scuola era Jason e la sua vittima del momento ero io. Poi, la festa era a tema, un po' come avevo visto in vari film e telefilm, ma mai nella realtà.
In quell'occasione, il tema era il ghiaccio. Sull'invito all'evento – già, c'era l'invito e non un biglietto di carta sottile mal strappato – c'era scritto in grassetto di presentarsi in abiti di color bianco o azzurro chiaro e che le tonalità troppo scure di blu non erano ammesse.
Mi venne quasi da ridere, leggendolo, per svariati motivi. Il primo, ovviamente, per il modo in cui era stata fatta la richiesta. Il secondo era il pensiero di me in abito elegante e chiaro.

Sarei risultato un cucciolo di pinguino: ridicolo e goffo.

«Non è vero, sarai tenero» mi aveva detto Johanna, quando glielo confessai. Ma lei era sempre in vena di complimenti nei miei confronti e ancora dovevo capirne il motivo.

Insomma, di fatto, eravamo molto diversi. Lei era molto più socievole di me, più estroversa; io ero solo un ragazzo goffo che studiava troppo.

I presupposti per una buona relazione non c'erano, ma forse non era giusto basarsi solo su quelli.

«Si può?».

Ero in piedi, davanti allo specchio, tentando in tutti i modi di annodare la cravatta tinta panna in maniera semi-decente, ma senza ottimi risultati, quando mia madre si intrufolò in camera mia.

«Sei praticamente già entrata, mamma» replicai, abbozzando una risata.

«Beh, l'ho chiesto solo per cortesia, in fondo». Rise anche lei e mi raggiunse, fermandosi al mio fianco. Mi guardò subito storto. Evidentemente avevo già fatto danno, cercando solo di vestirmi.

Così mi fece voltare e iniziò ad aggiustarmi la camicia bianca, la giacca azzurro chiaro e la cravatta.

«Allora» disse «come si chiama?».

«Chi?».

«La ragazza che porterai al ballo».

Scossi appena la testa ed esitai più di qualche secondo a rispondere. «Oh, andiamo» continuò lei «Ti conosco. Non hai mai partecipato ad un ballo scolastico, a parte quello dell'ultimo anno delle medie e avevi una ragazza, no?».

«No. L'avevo chiesto ad una ragazza, ma mi ha rifiutato».

«Non ha idea di quello che si è persa». Fece una breve pausa ed annodò in maniera perfetta la cravatta. «E stasera, invece?».

Mi guardai distrattamente allo specchio. Avevo ancora l'aspetto di un pinguino, ma, perlomeno, ero un pinguino elegante e ben vestito.

«Johanna» sussurrai «si chiama Johanna».

«E' un bel nome. Ed è carina?».

«Non ho intenzione di avere una conversazione del genere con te».

«Perché no? Sono tua madre!».

«Appunto per questo».

«Preferisci passare direttamente al discorso sul sesso?».

Strabuzzai gli occhi. «Mamma!». Dalla bocca mi uscì fuori un tono stridulo, raccapricciante.

Lei scoppiò a ridere e passò una mano tra i miei capelli. «Sto scherzando» esclamò. «Divertiti stasera, chiunque sia la ragazza che, tra parentesi, spero mi presenterai. Ah, e mi raccomando, a casa entro mezzanotte».

«Mezzanotte? Sul serio?».

«Massimo mezzanotte e mezza».

«Mamma!».

«Hai pur sempre sedici anni».

Si congedò in quel modo, facendo una smorfia e fui nuovamente solo; ma ero in pratica pronto e non ci misi troppo ad uscire di casa. Presi l'ascensore quella volta. Non volevo rischiare di sudare eccessivamente o, goffo com'ero, di strapparmi il completo che indossavo; completo che, di sicuro, avrei usato solo in quell'occasione per poi vederlo rimanere chiuso perennemente nell'armadio.
Avevo appuntamento con Johanna nell'atrio del nostro palazzo. Io avrei voluto andare a prenderla al suo appartamento, ma alla fine risultò molto più comodo un punto d'incontro comune.Arrivai puntuale e lei era già lì. Sembrava esserlo da parecchio.
Aveva scelto un vestito bianco, opaco, con i risvolti di pizzo, che le lasciava le spalle scoperte. Le scarpe erano della stessa tinta, col tacco, piuttosto alto. Aveva lasciato i capelli sciolti, che le ricadevano lievi e mossi sulla schiena. Johanna si trovava davanti alla portineria, rigirandosi tra le mani la propria giacca nera. Sorrisi appena, mentre mi avvicinavo a lei.
«Stai benissimo» esclamai e la vidi voltarsi. Abbozzò una risata, forse d'imbarazzo e aspettò che la distanza tra noi si riducesse a qualche centimetro. «In realtà, in questo momento sento la mancanza della divisa scolastica» disse, portandosi una ciocca di capelli dietro all'orecchio.

«Oh, ti sta bene anche quella».

«Credevo di esser sempre io a fare i complimenti».

«Mhm, no. Ne sono capace anche io». Johanna scosse appena la testa. Ero pressapoco sicuro che avrebbe voluto avvicinarsi ulteriormente e baciarmi – la cosa era reciproca – ma non lo fece per via del rossetto rosso che le colorava le labbra.

«Andiamo?» proposi. Lei annuì e basta.

Uscimmo dal palazzo e ad aspettarci c'era Tom, appoggiato alla Mercedes blu scuro. Ci fece un cenno col capo, in segno di saluto e – come sempre – nulla più. Fu lui a invitarci a salire in auto: un vero e proprio trattamento di lusso che non mi dispiaceva, proprio per niente.
Johanna mi sorrise e mi tenne la mano per tutto il tempo. Mentre ci inoltravamo per le strade trafficate di Chicago, lei poggiò la testa sulla mia spalla e socchiuse gli occhi. Mi pareva incredibile che fosse la stessa ragazza in grado di tener testa ad un bullo o di fare pazzie a scuola. In quel momento sembrava tutt'altro che temeraria, manifestava un atteggiamento esile, docile ed indifeso.
 

***


Arrivammo all'Istituto dopo mezz'ora circa.

Il ballo era addirittura più bello di come era stato descritto. Gli addobbi e i festoni azzurri e bianchi erano presenti già dal viale che conduceva al grosso portone d'entrata, lasciato aperto per l'occasione. Il percorso era segnato da tante candele, l'unica illuminazione presente, che rendeva l'ambiente soffuso e, a tratti, magico.
Dentro, nel grande salone – perché lì non si usava la palestra per il ballo – le cose erano ancora meglio. Sulla pista liscia di legno, si ergeva un gigantesco lampadario di cristallo, che sprigionava una luce intensa, la quale faceva brillare i festoni argentati e bianchi che decoravano le pareti e si rincorrevano da una parete all'altra della stanza.
Il banchetto, non composto da punch corretto e salatini bruciati, ma da antipasti, primi e secondi, caldi e freddi, era allestito su un lungo tavolo ricoperto da una tovaglia bianca, dove era appoggiata la statua di un cigno, intagliato nel ghiaccio.
Più che un ballo scolastico, sembrava essere un evento di beneficenza per ricche famiglie.

«Ti piace?» chiese Johanna, mentre io ero ancora assorto nell'osservare ogni minimo dettaglio di quel posto, fermo sulla soglia della porta d'ingresso. «E'... Stupendo» dissi, distrattamente.

«E quest'anno si sono trattenuti. L'anno scorso il tema era il cinema. C'erano maxi schermi ovunque».

«Avrei voluto esserci».

«Già. Anch'io avrei voluto che tu ci fossi».

«Ma sono qui ora».

«Lo so». Fece una breve pausa e si tolse la giacca, affidandola a uno dei ragazzi dello staff – almeno così riportava la scritta sulla loro maglietta nera.

«Balliamo?» propose, tirandomi appena per un braccio.

«Uhm» tentennai. «In realtà sono piuttosto un pezzo di legno».

«Non ti credo».

«Oh, dovresti».

«Questa è una canzone lenta. Devi solo...». Mi condusse al centro della pista. Prese le mie mani e le poggiò sui propri fianchi, mentre le sue braccia circondarono il mio collo. «Devi solo stringermi e dondolare da una parte all'altra» sussurrò.
Sorrisi appena, più che altro preoccupato di ciò che gli altri avrebbero potuto pensare vedendomi intraprendere quei movimenti così impacciati. Ben presto, tuttavia, la preoccupazione svanì, come se entrambi fossimo stati circondati da una spessa barriera di vetro.

Solo noi e la musica.

Riuscii ad escludere tutte le coppie che si formarono sulla pista da ballo, lì attorno.

Johanna appoggiò la testa sul mio petto e io la strinsi a me, affondando il viso tra i suoi capelli.

Niente di complicato, proprio come lei aveva detto. Bastò spostare il peso del corpo da un piede all'altro, oscillare appena e chiudere gli occhi.

Il suo profumo alla vaniglia mi inebriò.

Stavo dannatamente bene, ma non era quella felicità euforica derivante dalla casa nuova e dalle cose materiali. No, era qualcosa di diverso, qualcosa che, in realtà, non avevo mai avuto, nemmeno con Tiffany.
Niente brutti pensieri, niente eccessive analisi sulle persone che mi stavano attorno, niente problemi inesistenti e soluzioni alquanto vaghe. Niente, nulla di nulla. Quel benessere raggiunse il picco quando Johanna sollevò il capo e poggiò le labbra sulle mie. Ormai ero abituato ai suoi baci spontanei e dolci, o meglio, avrei dovuto esserlo; solo che, quella volta, proprio come era accaduto in piscina, quando mi staccai, mi mancò il fiato. La cosa strana era che non c'era stata foga in quel momento, ma non diedi molto peso a quel particolare. Del resto, il mio cuore stava battendo all'impazzata: la mancanza di respiro avrebbe potuto essere dovuta a ciò.

La canzone finì in quell'istante. Le punte dei nostri nasi si sfioravano ancora e i nostri occhi sorridevano, incastonati gli uni negli altri.
Johanna mi prese per mano e ci avvicinammo al buffet, recuperando due bicchieri di quella che molto probabilmente era aranciata – aveva quell'aspetto.

«Visto?» esclamò lei. «Hai ballato e non sei affatto un pezzo di legno».

«Oh, questo perché c'eri tu a guidarmi».

«Andiamo, non...».

La sua frase venne interrotta, stroncata a metà.
Le ero finito letteralmente addosso ed entrambi rischiammo di cadere. Mi appoggiai a lei, per non capitombolare sul pavimento e barcollai per tornare ad avere un equilibrio stabile. Non appena lo feci, mi ritrovai davanti la faccia strafottente di Jason, con un mezzo sorriso ironico e divertito in volto. Dietro di lui, con le mani nelle tasche, stavano Carl e Jerry.

«Clarke! Non mi aspettavo di trovarti qui stasera» esclamò Jason.

Sbuffai. Quella sua spinta aveva fatto finire l'aranciata sopra al mio completo, sulla camicia e sui pantaloni.

«Dio, Jason!» disse Johanna, prima che potessi proferire parola. «Devi essere così idiota anche quando non si tratta di voti?».

Lui rise, sarcastico. «Che succede, Clarke? Non sai nemmeno rispondere da solo? Hai bisogno di una ragazzina che prenda le tue parti?».

«Smettila» fu sempre Johanna a ribattere e io, sinceramente, non seppi cosa fare. Non volevo causare problemi, non in una serata come quella.

«Oh, e perché?» continuò Mr. Boyd, incrociando le braccia sul petto. «Volevo solo fare due chiacchiere con Simon».

«Bel modo di iniziare una conversazione».

Strizzai gli occhi. Avevo imparato una lezione da quando ero stato chiuso nello sgabuzzino e preso a botte: era meglio lasciar perdere ogni cosa riguardante Jason Boyd, subito, all'istante. Per quanto Johanna fosse forte caratterialmente, tanto da tenergli testa, avevo paura che qualche sua parola lo facesse scattare ed ero pressapoco sicuro che Jason non si sarebbe fatto fermare dal suo bel faccino.
Pensai alla sua incolumità, ovviamente, prima della mia. «Lascia stare» sussurrai, in maniera a malapena percettibile.
Jason rise di nuovo e i suoi scagnozzi – mai nome fu più appropriato – fecero lo stesso. Johanna sbuffò e strinse la mia mano, che nel frattempo era scivolata ad afferrare la sua.

Ci allontanammo dalla sala da ballo con passo svelto, lasciando quei tre alle loro risate prive di senso. Mi lasciai trascinare da Johanna per i corridoi della scuola. Avevo imparato a riconoscerli, più o meno, tanto che seppi quasi subito dove mi stava conducendo.
Ci ritrovammo nel bagno dei ragazzi, poco dopo. Solo allora, lei mi lasciò la mano, esclusivamente per recuperare della carta, di solito usata per asciugarsi le mani. Aprì uno dei rubinetti e lasciò scorrere l'acqua. Mi avvicinai lento a lei, che si affannò fin da subito per cercare di ripulire il disastro apparso sulla mia camicia.

«Jason è un'idiota» esclamò, non accennando a porre fine a quella nuova occupazione. Io la lasciai fare.

«Già, ne so qualcosa» sussurrai, in risposta.

«Dico sul serio. Cosa... Cosa gli costa lasciare in pace la gente almeno per una sera? Siamo ad un ballo, non c'è nessuna competizione qui».

«Mhm, forse il mio vestito era meglio del suo».

Lei scoppiò a ridere a quella mia affermazione e lo feci anche io. Non seppi nemmeno perché quelle parole mi fossero uscite di bocca. Probabilmente, per alleggerire la situazione, per la voglia di non rovinare per forza quella serata che era iniziata così bene.

«Su questo non c'è dubbio» commentò. Scosse appena la testa e sollevò lo sguardo, su di me, che non avevo smesso di osservare i tratti del suo viso. «E' finita la carta» disse. «Vado a prenderne un po' nell'altro bagno. Dobbiamo lavare subito la macchia, per non lasciare il segno».

«D'accordo».

«Aspettami qui, torno subito».

Si congedò in quel modo e io mi ritrovai solo in quella stanza che pareva tremendamente piccola, considerando quella del ballo. Sospirai e recuperai gli ultimi brandelli di carta asciutta, per cercare di rimuovere l'aranciata dalla camicia, ottenendo ben pochi risultati.
Molto probabilmente, ciò che indossavo sarebbe finito dritto nella spazzatura in tempi brevi, il che mi dispiaceva parecchio, dato che avevo comprato ogni cosa con miei soldi, messi da parte da mesi, solo per non disturbare troppo mia madre.

Stavo ancora tentando di porre rimedio a quel disastro, quando il silenzio in cui l'ambiente era avvolto venne bruscamente interrotto. Udii un urlo, di una ragazza: forte, chiaro, nitido.

“Johanna” pensai, d'istinto.

Mi precipitai subito, allora, fuori dal bagno.

Il corridoio non era più vuoto.

No: tutti gli studenti della Hills High si erano ammassati lì, correvano verso l'uscita dell'Istituto, e urlavano, mentre qualcuno piangeva.
Era il caos totale. Alle grida, si aggiunse anche l'allarme antincendio, attivato forse distrattamente dalla folla o forse di proposito da qualche insegnante supervisore.
In situazioni normali, sarei corso via anche io. Avrei seguito la massa, verso un luogo più tranquillo, più sicuro, ma, recentemente, avevo smesso di pensare solo a me.

Andai controcorrente. Tutti cercavano di allontanarsi il più possibile dalla sala del ballo, io cercavo di avvicinarmi. Non che fossi sicuro che Johanna si trovasse lì, dato che mi aveva esplicitamente detto che sarebbe andata nell'altro bagno, adiacente a quello in cui ero io; ma qualcosa, dentro di me, mi spinse a credere che lei fosse rimasta indietro, forse proprio a causa di quell'ammasso informe di gente.

«Jo!» chiamai. «JO!».

Non ottenni risposta. Come potevo?

Continuai a sbracciarmi, per farmi largo tra tutte quelle persone e, alla fine, ci riuscii.

Raggiunsi la sala del ballo, ma Johanna non era lì.

Non c'era più nessuno lì, a parte Jason, steso a terra, in un angolo remoto di quel gigantesco posto, immerso in una pozza rossa.

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Capitolo 7
*** Bittersweet. ***


Capitolo 7
"Bittersweet"


Bloccato.

Paralizzato, dalla testa ai piedi, tanto che sembrò che il mio cuore si fosse fermato, insieme al respiro.
Stavo fermo, con le braccia lungo i fianchi, a fissare gli occhi spalancati di Jason, vuoti, senza espressione. Le urla, fuori dalla sala del ballo, non erano cessate. Regnava il caos e il panico, sia fuori che dentro di me. La morte faceva quell'effetto un po' a tutti.

«Simon!». La voce di Johanna mi fece sobbalzare. Mi girai di scatto e la vidi venirmi incontro, di corsa, finché non si buttò su di me, circondandomi il collo con le braccia. «Sei qui» sussurrò.
Portai lentamente le mani sui suoi fianchi e socchiusi gli occhi. Lasciai che il suo profumo alla vaniglia mi inebriasse e riuscì anche a tranquillizzarmi, almeno un po'.
«E' morto» biascicai, come se fosse necessario dirlo ad alta voce per realizzare quanto fosse vero. Johanna si staccò da me, scuotendomi appena. Io non mi ero nemmeno reso conto di aver cominciato a tremare.
Prese il mio viso tra le mani e passò i pollici sulle mie guance. Stavo addirittura piangendo. Per quale motivo, poi?

«Andiamo a casa» mormorò.

«Jo...».

«Stiamo bene. Noi stiamo bene. Andiamo a casa».

Mi limitai ad annuire. Ero ancora spaventato e sotto shock, e non sapevo spiegarmi il perché. Non che Jason mi fosse mai piaciuto, ma, vederlo a terra, privo di vita, mi toccò qualcosa dentro e mi strinse una morsa attorno al cuore, una forte stretta che fu difficile da sciogliere.
Ascoltai Johanna, tuttavia, che mi prese per mano e mi condusse fuori dall'edificio, passando tra la folla che si era riversata nel cortile e sembrava essere più confusa che mai. Esattamente come mi sentivo io.

Cosa era successo?

Passai i tre giorni successivi a domandarmelo, chiuso nella mia stanza, senza contatti esterni che non fossero le visite di Johanna, di giorno e di notte, e la presenza saltuaria di mia madre.
La scuola rimase serrata, durante le indagini della polizia, che aveva meno risposte da dare di me. La morte di Jason sarebbe rimasta un caso irrisolto per anni ed anni. Tutti avevano un motivo per odiarlo, tutti avevano un movente.
L'unica cosa che si seppe per certo fu la causa del decesso: la descrissero come una pugnalata al petto, che aveva letteralmente diviso in due l'aorta. Non aveva avuto nemmeno il tempo di dissanguarsi, la vita gli era scivolata via dalle dita prima che potesse sbattere le palpebre.

Era un modo atroce di morire, che nemmeno lui meritava. Che nessuno meritava.

***


«Domani si torna alla vita di tutti i giorni».

Seduto sulla moquette, accanto al letto, non mi accorsi dell'entrata di Johanna nella mia stanza, stranamente dalla porta e non dalla finestra, come al solito. Sollevai lo sguardo e feci una smorfia, vedendola in piedi, davanti a me. «Tua madre mi ha fatto entrare» disse, prima che potessi chiederle qualcosa.

«E ti ha sottoposto a qualche interrogatorio?».

«No, mi ha solo chiesto il nome e quasi saltellava quando gliel'ho detto».

Sorrisi appena, ma solo per circostanza. Ero totalmente privo di ogni entusiasmo. Vidi Johanna inginocchiarsi e, successivamente, sedersi al mio fianco. Appoggiò la testa sulla mia spalla e intrecciò le dita di una mano con la mia.
«Stai bene?» sussurrò. Avrei voluto annuire, dire sì, che ero solo un po' frastornato e scosso. Sarebbe stata la verità, del resto. Eppure, rimasi in silenzio. Mi girai lento verso di lei, che sollevò lo sguardo. Attendeva ancora una risposta, che non le diedi.
Appoggiai le labbra sulle sue e la baciai, prima delicatamente, lento, poi in maniera più spinta, come se volessi farle mancare il fiato al mio posto. Era come se sentissi l'estremo bisogno di sentire qualcuno il più vicino possibile e Johanna non era da meno. Percepii subito le sue mani sul mio collo e, poco a poco, sul mio petto; prima sopra la maglietta, poi al di sotto di essa.
«Tua madre è di là» biascicò lei, mordicchiando il mio labbro inferiore. «Mhm, basta che chiudiamo la porta» dissi, in maniera pressoché incomprensibile, e allungai una gamba, in modo da poter spingere l'anta e far sì che si chiudesse. Johanna rise, tra un bacio e l'altro.
Prese il mio viso tra le mani e ci mettemmo entrambi in ginocchio. Afferrai la base della maglietta grigia che indossava e gliela sfilai, buttando quel pezzo di stoffa a terra. Lei fece lo stesso con la mia t-shirt blu.
Le cinsi i fianchi e ci alzammo in piedi. Prese a giocherellare con l'elastico dei pantaloni della tuta che avevo addosso, mentre con le labbra mi torturava delicatamente l'incavo del collo.
Sospirai sommessamente. I miei palmi vagavano lenti sulla sua schiena pallida, mentre socchiudevo gli occhi, immerso in quella piccola beatitudine che solo il contatto con la sua pelle calda riusciva a darmi.
Ci spostammo, quindi, sul letto. Ricademmo entrambi sul materasso, lei sopra di me, con le labbra che si ritrovarono le une contro le altre per l'ennesima volta. Johanna si sfilò le scarpe e i jeans, mentre io mi limitavo ad osservarla, con le braccia piegate ai lati della testa.
Quando tornò col viso attaccato al mio, mi sfiorò con le labbra il mento. «Sei... Sicuro di volerlo fare?» mormorò. Mi venne quasi da ridere a quella sua domanda. «Di solito è il ragazzo che domanda queste cose» commentai.

«Lo so, ma tu... Hai l'aria più dolce e innocente di me, quindi credo che possa valere il contrario, almeno per questa volta».

Risi, allora, e lo feci per davvero. Sollevai il capo, per depositare un casto bacio sulla sua bocca e feci in modo che le nostre posizioni si ribaltassero, così che potessi esser io sopra al suo corpo. «Non sono così innocente» esclamai, marcando strettamente il “così”, di proposito.
Insomma, non ero mica vergine! Ed ero pressapoco sicuro che lei fosse convinta del contrario. Ahimè, avrei voluto sul serio esserlo. La mia prima volta era stata talmente imbarazzante che, al solo pensiero, mi veniva voglia di sotterrarmi.
Fu Johanna a ridacchiare allora, piegando le gambe ai due lati dei miei fianchi. Non disse nient'altro. Neppure io lo feci. Lasciammo che fossero i gesti a parlare: i baci, le carezze, a tratti rudi, a tratti delicate.

I nostri ultimi brandelli di vestiti ricaddero sulla moquette. Fummo nudi, tra le lenzuola azzurre, a guardarci di tanto in tanto, un po' per timidezza, un po' per frenesia.
Ero pronto per passare alla fase successiva – mi fece strano pensarla in quel modo – ma qualcosa mi fermò prima che potessi farlo.

Io non avevo preservativi in camera, né, tanto meno, in casa.

Il motivo era semplice: non mi aspettavo di fare sesso con qualcuno entro un periodo così breve!

“Idiota!” mi rimproverò l'irritante vocina nella mia testa e la parte peggiore fu che non potei ribattere in alcun modo. Roteai gli occhi e iniziai a guardarmi intorno, spaesato, come se la soluzione potesse spuntare fuori da qualche parte nella stanza.
Ovviamente non fu così: come poteva davvero accadere una cosa del genere?

Johanna mi guardò in maniera perplessa, mentre cercavo un'ipotetica soluzione, la quale sembrava essere terribilmente lontana da me.
«Qualcosa non va?» domandò, allora. Sulle prime, rispondere mi parve una cattiva idea. Le avevo appena detto che non ero casto e puro; affermare che non avevo profilattici in casa suonava quasi come una presa in giro.

«Uhm. No, niente» biascicai. «E' solo che...».

«Che?».

Sospirai e strizzai gli occhi. Johanna si trovava sotto di me, nuda, e quella distanza così ravvicinata al suo corpo aveva già influenzato in maniera tangibile e visibile il mio.

“Idiota”.

«Io non ho...» balbettai. «Non ho i... Cosi. Insomma... Quelli».

«I cosi... Cosa?».

Sospettai che, vedendomi in difficoltà, stesse fingendo di non capire, ma mi resi presto conto che quello che mi stava uscendo di bocca era davvero incomprensibile.

«I... I preservativi» soffocai, infine.

Johanna rise, probabilmente a causa dell'espressione che il mio viso aveva assunto in quel momento: un misto tra imbarazzo e voglia di suicidarsi seduta stante per la pessima figura.

Era poi così pessima?

«Non fa niente» disse, quando riuscì a riprendere fiato.

«Niente? Come può non...».

«Li ho io».

Spalancai gli occhi, con stupore. In realtà non avrebbe dovuto toccarmi qualcosa del genere. Da Johanna, c'era da aspettarselo. «Sono nella tasca di dietro dei miei jeans» sussurrò, baciandomi rapidamente sul mento.

«Oh. Bene». Mi spostai appena sul materasso e recuperai i suoi pantaloni, in bilico tra il letto e la moquette. Estrassi da essi la piccola bustina quadrata, color porpora.

La aprii e indossai il tutto, sotto il suo sguardo devoto, ma anche, a tratti, divertito.

Quando finalmente le entrai dentro, cominciai a muovermi avanti e indietro con il bacino. Prima lento e a fondo, poi più veloce, prendendo un ritmo sempre più accelerato. Afferrai una sua mano e la premetti sul cuscino, facendo intrecciare le nostre dita. Lei mi sfiorò la schiena con i polpastrelli. All'inizio furono solo carezze, dopo mi graffiò. Percepii dolore e non poco, ma non diedi molto peso a quel particolare, perché ero impegnato in altro – letteralmente.
Feci una smorfia e premetti le labbra sulle sue, con foga. Johanna gemette e quel suono fu in grado di farmi rallentare. Non appena lo feci, lei si distaccò di poco dal mio viso e portò la mano libera sulla mia nuca. Tirò piano i capelli in quel punto.

«Non. Ti. Fermare» sillabò, col fiatone.

Non avevo alcuna intenzione di farlo. L'unico motivo per cui avevo interrotto quel ritmo frenetico era per paura di farle male. Lo ripresi, tuttavia, più veloce e forte di poco prima, fino a portare entrambi al culmine del piacere.

E quella volta fu decisamente meglio della mia prima volta.

Scivolai al fianco di Johanna, tirandomi dietro il lenzuolo, che finì per coprirci entrambi, dai fianchi in giù. Lei mi seguì quasi di riflesso, appoggiando la testa sul mio petto.

Non seppi esattamente cosa accadde in quel momento.

Stavo bene, da un lato, ma dall'altro, mi sentivo peggio di prima. Era come se i pensieri che mi vagavano in testa nei momenti precedenti al suo arrivo, si fossero amplificati e io ero confuso, schiacciato da altre domande senza risposta e, a quel punto, sopraggiunsero persino i rimorsi, che non avevano nemmeno il senso di esistere.
Avrei voluto scacciare ogni cosa, ma fu pressoché impossibile.
«A che pensi?» sentii Johanna mormorare e io risposi di getto, lasciandomi trasportare dalle cose che mi vagavano per la mente in quel momento: «Pensavo a... Quello che è successo a Jason».

A quelle mie parole, lei sollevò la testa e abbozzò una risata, nervosa. «A... Quello che è successo a Jason? Davvero?» disse, con le labbra serrata.

«Io...» biascicai. «E' solo che... E' morto in modo atroce e io ho l'immagine di lui a terra, immerso nel sangue e non...».

«Jason era un coglione, che faceva star male tutte le persone che avevano la sfortuna di girargli attorno».

«Lo so, ma essere un coglione al liceo non è una ragione valida per morire in una maniera del genere».

«Quindi, ti dispiace per lui?».

«Ovvio che mi dispiaccia per lui, io...».

«Noi abbiamo appena fatto sesso e tu... Tu te ne esci col fatto che pensi a Jason?».

«Jo, mi hai chiesto a che pensavo e te l'ho detto. Non credevo che...».

Per la terza volta in meno di un minuto, la mia frase non trovò fine. Johanna scosse ripetutamente la testa e si alzò in modo brusco dal letto, raccattando in modo distratto i propri vestiti da terra e indossandoli alla stessa maniera.

«Jo...» mormorai, mettendomi seduto sul letto. «Non te la devi prendere, okay?».

«Non me la sto prendendo, me ne so semplicemente andando».

Sospirai sommessamente e mi alzai anche io, recuperando i miei boxer neri e mettendomeli addosso, rischiando di incastrarli con i miei piedi più volte.

Johanna, nel frattempo, si era completamente rivestita ed era sul punto di aprire la porta. Riuscii a fermarla non appena la sua mano toccò il pomello.

«Non andartene» sussurrai. «Okay, mi dispiace, ma... Hai frainteso tutto, davvero».

«Oh, io ho capito benissimo, Simon. Ora spostati, voglio tornare a casa».

«Jo...» biascicai, per l'ennesima volta. Lei sostenne il mio sguardo duramente e, alla fine, non ebbi più altra scelta che togliermi di mezzo e permetterle di uscire dalla stanza.

Non era davvero mia intenzione ferirla in qualche modo. Anche se quelle non erano le parole più adatte da pronunciare dopo un evento del genere, qualcosa di estremamente importante in una coppia, nemmeno il mio inconscio poteva minimamente immaginare che quella sarebbe stata la sua reazione.
Una cosa, tuttavia, riuscì a farla: farmi sentire terribilmente oppresso dai sensi di colpa.
Era incredibile come il mio cervello fosse in grado di tirarmi verso la parte del torto, sempre di più, senza che io potessi impedirlo.
Quella volta i rimorsi furono così pesanti che passò solo un'ora prima che mi decidessi ad andare da lei e ringraziai chissà chi per il fatto che abitasse nel mio stesso palazzo.
Misi addosso una tuta e le scarpe. Ero pronto ad uscire, ma non avevo calcolato la presenza di mia madre in cucina. Sicuramente, mi avrebbe riempito di domande alle quali non avevo la benché minima voglia di rispondere. Decisi, allora, di usufruire dell'alternativa preferita da Johanna: la scala antincendio.
Scavalcare il davanzale della finestra fu un'impresa, considerando anche che soffrivo enormemente di vertigini. Tenni per qualche secondo gli occhi chiusi, ma poi l'acida vocina nel mio cervello mi rimproverò: “Questo è un metodo sicuro per cadere di sotto, imbecille”.
Dovetti percorrere un metro di cornicione, prima di raggiungere la scala e per me equivalse a correre una maratona. Il cuore mi batteva all'impazzata e fui pressapoco sicuro del fatto che ebbi un infarto in quell'occasione.

Johanna abitava al settimo piano, il che voleva dire scendere due rampe di scale per raggiungere la finestra della sua camera. Non ci ero mai stato nella sua stanza. In realtà, non ero proprio mai entrato in casa sua.
Ero passato davanti alla porta di ingresso un paio di volte, quando l'avevo accompagnata all'appartamento dopo la scuola e sapevo quale fosse la sua finestra solamente perché lei si era affacciata una mattina, per dirmi di aspettarla; nulla di più.
Ero curioso di vedere un po' il suo mondo. Johanna conosceva nei minimi dettagli il mio.

***

Giunsi alla vetrata azzurra che si affacciava sulle strade trafficate di Chicago, dopo aver percorso un ulteriore pezzo di cornicione – e in quel caso, l'infarto fu triplo.
Per mia estrema fortuna, trovai la finestra aperta e, non senza difficoltà, riuscii a catapultarmi dentro la stanza, ovviamente cadendo fragorosamente a terra, e lì non c'era la moquette ad attutire la frana che ero.

“Dannazione” pensai, mentre mi rialzavo.

«Jo?» chiamai, ma non ottenni risposta. La camera sembrava essere vuota. Mi guardai attorno: era tutto tremendamente scuro, a partire dalle pareti, colorate di nero, la coperta viola sul letto e i poster di band metal attaccati praticamente ovunque. Se non avessi saputo il contrario, avrei di certo detto che quella fosse la stanza di un ragazzo.

«Jo?» dissi ancora e, di nuovo, nessuno replicò.
Non avevo intenzione di andarmene. Prima o poi sarebbe rientrata e io avrei avuto l'occasione di parlarle e chiarire. Se c'era davvero qualcosa da chiarire. Mi sentivo un perfetto idiota per aver messo a soqquadro ogni cosa, semplicemente parlando. A volte, avrei davvero dovuto tenere la bocca chiusa.
Inizia a gironzolare per la stanza, un po' per curiosità, un po' per passare il tempo.
Osservai le rare foto presenti – due, per l'esattezza - ritraenti una Johanna da sola, sorridente, l'altra con una ragazza, forse la sua migliore amica o qualche altra conoscente. C'erano molti quaderni sparsi sulla scrivania, alcuni aperti, altri chiusi, e nessuno di essi conteneva pagine bianche. Era una che amava scrivere, proprio come me, e non potei non esserne felice.
Sorrisi, tra me e me, e continuai quella sorta di sopralluogo. Non che fossi veramente in grado di fare una cosa del genere, anzi... Non lasciare traccia del mio passaggio era cosa ardua. Di fatti, nel giro di cinque minuti, rischiai di far cadere un vaso e feci cadere tre libri da uno scaffale.
Rimisi tutto a posto, di fretta, ma, operando in quel modo, non feci altro che incrementare il danno, facendo riversare a terra tutta la pila di libri, uno dietro l'altro.

E non furono le uniche cose a cadere.

Capitombolò a terra anche la libreria a quattro ripiani, spinta da qualcosa, da dietro. Mi scansai di getto, per non rimanere sotto a tutto quel macello.
Strizzai gli occhi per più volte e, quando riuscii a tener su le palpebre in maniera corretta, ciò che vidi mi fece raggelare completamente il sangue nelle vene. La parete era letteralmente crollata e, da quel buco del muro, era uscito fuori un corpo, che ora giaceva sopra i libri e pezzi del mobile distrutto.
Un cadavere e non uno qualsiasi. Nonostante la parziale decomposizione, riconobbi chiaramente i tratti del viso di Johanna: il taglio degli occhi, la bocca socchiusa, l'arcata sopraccigliare.

Era lei, in tutto e per tutto.

Senza rendermene conto, avevo iniziato ad essere scosso da forti tremori. Mi morsi forte il labbro inferiore, portando una mano sulla bocca, e sentii una lacrima – dovuta a chissà cosa – percorrermi una guancia. Feci un passo indietro, totalmente sconvolto, impaurito, divorato dal panico.

Poteva essere altrimenti?

Sperai, pregai con tutto me stesso che quello fosse solo un brutto sogno. Doveva esserlo, per forza.

Ma non era così. La realtà, dura e cruda, mi prese a schiaffi, poco dopo.

«Non dovresti essere qui».

Mi voltai, in maniera estremamente lenta.

Johanna, quella di sempre, stava in piedi sulla soglia della porta. Il suo sguardo ricadde sul cadavere per mezzo secondo, poi tornò su di me. Sembrava essere dispiaciuta, ma non ne seppi il motivo. Forse per me, o forse per se stessa.

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Capitolo 8
*** Heartless. ***


Capitolo 8
"Heartless"


Shock post-traumatico: insieme di forti sofferenze psicologiche che conseguono un evento catastrofico e violento.

Sapevo benissimo dare la definizione di tale patologia, ma provare certe cose sulla propria pelle, fu nettamente diverso. Ero sempre stato dell'idea che fosse qualcosa di superabile, attraverso la conversazione, il controllo del respiro e così via.
Solo allora, mentre Johanna ancora mi fissava, immobile sulla soglia della porta, realizzai quanto tutte le mie convinzioni fossero un enorme buco nell'acqua.

Non sapevo che fare, che pensare, ed avevo la netta sensazione di stare per impazzire. Lo avrei fatto a breve, sarei completamente crollato. Le mie emozioni erano un miscuglio caotico che mi portarono a piangere senza controllo e più cercavo di portar via le lacrime dal mio viso, più esse scorrevano, rendendomi la vista appannata e le idee ancor meno chiare. Riuscii, tuttavia, a scorgere Johanna provare a fare un passo verso di me.

«Stai... Stai indietro» urlai e il tono che mi uscì di bocca fu stridulo e nevrotico.

«Simon... Sono io, per favore» mormorò lei, alzando le mani, come in segno di resa e innocuità.

Scossi ripetutamente la testa e mi passai più volte i palmi sul volto, cercando di restare almeno un po' lucido. «No, no, no, no... Quella... Sei... Sei tu» biascicai e indicai distrattamente il cadavere. «Ma tu sei anche... Qui, davanti a me e sei... Viva, perciò, a meno che tu non abbia una spiegazione un minimo logica a tutto questo, tu... Stai indietro». Avevo iniziato anche a fare discorsi da pazzo, il che non mi sorprese per niente.

«C'è una spiegazione, in realtà» replicò. «Puoi, per favore, smettere di tremare?».

Come poteva chiedermi una cosa del genere in quel momento? Era come chiedere al sole di spegnersi in un giorno d'estate. O in qualsiasi altro giorno, in realtà.
Parlando, Johanna fece un passo avanti. D'istinto, io ne feci uno all'indietro, sollevando una mano, come se quella potesse effettivamente difendermi. «Stai indietro!» ripetei, soffocando un urlo. Lei si morse piano il labbro inferiore e si fermò, continuando ad osservarmi con sguardo stanco. Il mio, intanto, vagava dal corpo morto steso sui libri ammassati sul pavimento al viso di Johanna.
«Puoi fidarti di me» disse, ad un tratto. Accennai una risata, isterica. «Oh, ho appena trovato un cadavere nella tua stanza ed è uscito fuori da un muro» esclamai. «Ho qualche problema con la fiducia, in questo momento».

«Ti ho anche detto che c'è una spiegazione. Se solo tu ti calmassi...».

«Non posso calmarmi! Come diavolo faccio a calmarmi?!». Non ottenni risposta, ovviamente, perché nemmeno c'era. Feci una breve pausa e socchiusi più volte gli occhi. Non piangevo più, per mia fortuna. «Sei tipo... La gemella cattiva che ha ucciso quella buona? O... Oppure quella buona che accidentalmente ha ucciso quella cattiva o...».
Johanna sorrise lievemente, ma tornò quasi subito seria, di fronte alla mia espressione contrariata. «Hai visto parecchi film, Simon» disse, tranquilla. Estremamente tranquilla, il che mi fece irritare terribilmente. «Devo farti una domanda, prima di poterti dire tutto».

«Falla».

Esitò per qualche istante. «Credi nel sovrannaturale?».

«Fino a dieci minuti fa, ti avrei detto di no, senza pensarci due volte, ma... Al momento non so più a cosa credere».

«Sospettavo una risposta del genere». Si prese un'altra pausa. Altro silenzio, durante il quale io continuai a fissarla, negli occhi, sperando e pregando che riuscissero a donarmi benessere, come facevano sempre. Ma non ci riuscirono.

«Dovresti crederci» disse, poi. «Il tuo mondo è circondato dal sovrannaturale e non te ne rendi conto».

Deglutii rumorosamente. D'improvviso, come un flash davanti gli occhi, mi tornarono in mente le ombre rosse, che in quell'attimo erano passate in secondo piano. Le mie ricerche, le leggende metropolitane che avevo ritenuto poco credibili e attendibili. Era evidente che mi fossi sbagliato.

«Che cosa sei?» domandai, con un fil di voce. Se quella domanda avesse davvero un senso, dopo tutto, non seppi dirlo. Johanna mi lanciò una rapida occhiata, serrando le labbra. Voleva rivelarmi ogni cosa, ma era trattenuto, tentennante o, perlomeno, mi diede quell'impressione.

«Sono una Divoratrice di Anime» sussurrò, quasi si vergognasse di pronunciare tali parole.

«Una...» balbettai. «E che... Che significa?».

Rise, nello stesso modo di poco prima. «Non si capisce?».

«Mi stai dando spiegazioni» esclamai e il mio tono di voce risultò leggermente più fermo. «Mi aspetto che tu mi dica... Tutto, nei minimi dettagli».

«Ci vorrebbero secoli per raccontarti tutto».

«Prova a fare un riassunto». Sospirai. Tenevo ancora la mano alzata, nella sua direzione e non ero molto propenso a levare quella difesa – se mai avesse potuto esser definita tale. «Partiamo da lei» dissi e feci un cenno verso il cadavere. «Perché è uguale a te?».

«Perché... Lei è la vera Johanna Wilkinson».

«La vera? Cosa...».

«Io ho solamente preso il suo aspetto. I Divoratori possono farlo. Possono prendere l'aspetto delle anime che divorano».

«Quindi, tu l'hai uccisa?».

«No. Lei si è uccisa, io sono arrivata dopo e ho impedito che la sua anima finisse in posti peggiori».

«Peggiori del tuo stomaco?».

Johanna – o come dovevo chiamarla dopo che aveva dichiarato di non essere la vera Johanna? - mi guardò storto, quasi si fosse offesa. Sospirai e gesticolai con la mano non impegnata nell'inutile difesa. «Scusa» dissi «battuta di pessimo gusto, ne faccio parecchie quando sono nervoso».

«Non fa niente».

«Jason. L'hai ucciso tu?».

«No. Perché sei così convinto che io abbia ucciso qualcuno?».

«Era giusto per... Chiedere».

Sbuffò, passandosi una mano tra i capelli. «Non ho ucciso Jason» esclamò, con tono cantilenante. «Anche se mi sarebbe piaciuto, perché era davvero un coglione».

«E chi è stato?».

«Non lo so. Probabilmente qualcun altro della mia specie. Siamo parecchi qui, a Chicago».

«Vuoi dirmi che ce ne sono altri come te?».

«Io non sono come loro. Loro uccidono, io... Non lo faccio. Devo nutrirmi delle anime delle persone per sopravvivere, ma prendo quelle di coloro che rifiutano la vita».

«Le anime dei suicidi?».

Annuì. «La vita umana è un dono prezioso, Simon. Il fatto che qualcuno la butti via per chissà quale assurdo problema è un crimine, che viene punito, dopo quella morte forzata».

«Perché hai preso l'aspetto di Johanna?».

«Perché era carina e... Adoro i suoi genitori. Sono gentili e premurosi, ma lei non l'ha mai capito».

«Da quanto sei lei?».

«Un anno, circa. Stavo per andarmene, in realtà, io... Non tengo per molto lo stesso aspetto, anzi, questo è stato il più longevo, ma poi... Sei arrivato tu».

«Io? E che cosa ho fatto?».

«Tu mi hai fatto sentire umana. Mi fai sentire umana». Prese un respiro profondo e indietreggiò di qualche passo, fino a sedersi sulla poltrona bordeaux affiancata alla scrivania di legno. «I Divoratori non possono provare sentimenti» sussurrò «che siano buoni o cattivi. Sono... Siamo, semplicemente, apatici. Le uniche volte in cui sentiamo qualcosa è quando ci nutriamo e l'effetto dura per qualche giorno. Ma quando tu mi stai attorno, tutto cambia e quell'effetto si amplifica. Tu sei... Diverso».

A quel punto, abbassai il braccio. A che serviva una difesa quando era lei a risultare estremamente vulnerabile? Rimasi, tuttavia, fermo e immobile, sebbene qualcosa nella mia testa mi stesse suggerendo di avvicinarmi e abbracciarla.
«Non voglio farti del male» mormorò Johanna, notando forse la mia incapacità di muovermi. «Non ho mai voluto, sul serio. Non aver paura di me».
Di quello, stranamente, ero sicuro. Una parte di me, chissà quanto remota, si fidava delle sue parole, al contrario di quanto avevo affermato poco prima, ma probabilmente tale sensazione non sarebbe durata a lungo.

«Quel giorno, in piscina» dissi, allora. «Perché sei scappata?».

«Ho degli istinti, come Divoratrice, e a volte... Faccio fatica a trattenermi».

«Come un vampiro col sangue?».

«Una cosa del genere».

«Quindi, sei tipo un vampiro».

Abbozzò una risata e quella volta ci colsi un po' d'entusiasmo. «L'ho già detto che hai visto troppi film?».

«Sto solo... Cercando di capire. Insomma, come...Come fai? Come... Divori le anime delle persone?».

«Devo toccare il loro cuore».

«Toccare, nel senso metaforico del termine?».

«No. Toccarlo, tenerlo in mano. Attraverso il petto».

Mi mancò quasi il respiro. Sembrava che, ad ogni sua parola, le mie emozioni sobbalzassero e non di poco: avevano picchi di totale tranquillità e quasi la stessa beatitudine che lei prima riusciva a infondermi, seguiti da abissi neri in cui tutto ciò che mi circondava era il nero, il colore della paura e della morte.
Deglutii rumorosamente e il mio sguardo si perse nel vuoto per un attimo. Nemmeno avevo ricominciato a respirare in maniera regolare, che mi ritrovai Johanna davanti, a pochi centimetri dal mio viso. Avrei voluto indietreggiare subito, ma qualcosa mi tenne incollato al pavimento. Molto probabilmente, i suoi occhi verdi che mi fissavano.

«Non avere paura di me. Per favore» sussurrò.

«Io...» mormorai, incapace di dire altro. Lei alzò una mano e la avvicinò piano al mio viso. D'istinto, mi scansai, evitandola. Mi guardò per un attimo, socchiudendo gli occhi e mise giù il braccio, evidentemente delusa da quel gesto.

«E' meglio che vada» dissi, con voce impastata. Johanna annuì appena: non che concordasse davvero, ma, evidentemente, non aveva molta scelta. Lanciai un'ultima occhiata al cadavere, a terra, e poi mi diressi verso la finestra, per uscire, così come ero entrato. «Simon» mi chiamò lei. Avevo già un piede sul davanzale, ma mi voltai col capo, per guardarla in viso. «Non... Puoi dire niente a nessuno. Lo sai questo, vero?» sussurrò. Abbozzai una risata, ironica. Chi mai avrebbe creduto ad una storia del genere? A stento ci riuscivo io e non senza rischiare seriamente di impazzire. Se solo ne avessi fatto parola con qualcuno, probabilmente prima mi avrebbero riso in faccia e dopo trascinato verso il manicomio più vicino. La cosa buffa era che avrebbero riaperto i manicomi solo per me.

«Non dirò nulla» replicai e mi accinsi a compiere una nuova maratona lungo i cornicioni, per tornare a casa.

 

***


La mattina successiva, sedevo al tavolo della cucina, rigirando il cucchiaino dentro la tazza gialla, colma di latte caldo che quasi certamente non avrei bevuto. Avevo lo sguardo fisso nel vuoto. Non ero riuscito a dormire per nulla quella notte. Continuavo a ripensare a ciò che avevo visto, alle parole di Johanna – o non-Johanna, come chiamarla cominciava ad essere un dubbio – a ciò che avrei fatto da lì in poi. Come avrei dovuto comportarmi? Fare finta di niente, fingere di non sapere nulla quando la verità mi stava prendendo a calci nello stomaco ad ogni scoccare d'orologio? Era pressoché impossibile.

«E quella faccia a cosa è dovuta?». Mia madre entrò nella stanza, aggiustandosi la giacca blu scuro del tailleur che indossava. Sobbalzai appena a causa del tono di voce squillante, ma non risposi, quasi avessi perso la parola o peggio, tutta la mia vitalità. Con la coda dell'occhio, vidi la sua figura sedersi al mio fianco. Percepii il suo sguardo su di me per qualche secondo; o forse furono minuti.

«E' successo qualcosa che riguarda quella ragazza che è venuta qui ieri?». La sua domanda mi fece abbozzare un sorriso, del tutto privo d'entusiasmo. «No» sussurrai.

«Sei sicuro? Perché è uscita di corsa e mi è parso che stesse piangendo».

«Non è successo niente» mi ostinai a ripetere, marcando tali parole.

«Avete litigato?». Lei era ostinata e la cosa non mi sorprese. Mia madre aveva sviluppato una sorta di empatia nei miei confronti: anche stando in silenzio, avrebbe sempre capito quando qualcosa non andava.

Sospirai, lasciando perdere il cucchiaino che continuavo a torturare tra l'indice e il pollice e mi feci di poco indietro con la sedia. «In un certo senso» dissi.

«Oh, Simon. Siete adolescenti. Gli adolescenti litigano perennemente. Non abbatterti così».

«Non è una delle solite stupide liti da adolescenti».

«Ah, no? E che cos'è?».

Esitai per qualche istante. Che cos'era? Oh, mi sarebbe piaciuto darle una spiegazione almeno lontanamente credibile. «E' complicato» mormorai, malgrado odiassi con tutto me stesso quella parola.
«Complicato è sempre meglio di irrimediabile, anche perché “irrimediabile” sarebbe collegato al fattore “incinta” e sono decisamente troppo giovane per diventare nonna. Aspetta un momento... Johanna non è incinta, vero?».
Risi, stranamente per davvero. I problemi che si fece mia madre mi distrassero per un attimo dalla situazione reale. «No, non è incinta» dissi.
«Questo è rassicurante». Annuì alla propria frase e allungò una mano a sfiorare delicatamente la mia. «Le cose complicate possono diventare semplici» esclamò «basta solo volerlo. Ho capito che neanche sotto tortura mi dirai cosa è successo tra voi, non ora, perlomeno, ma... Tutto si risolverà, okay? Johanna sembra una ragazza a posto e tu sei... Beh, sono terribilmente di parte, ma tu sei un vero tesoro. Troverete un modo per raggiungere la semplicità e, guardandovi alle spalle, questa cosa complicata che vi ha fatto litigare sarà solo un brutto ricordo».
Alzai lo sguardo. Lei mi stava sorridendo amorevolmente, come faceva sempre. Incurvai anch'io le labbra all'insù, sebbene fu solo per farla contenta. Per quanto quelle parole avessero l'intento di rassicurarmi, non potevano davvero farlo.

Quella cosa era complicata e niente poteva sbrogliarla, nemmeno la più acuta razionalità.

***

A scuola, evitai Johanna per tutto il tempo. Incrociai il suo cammino più volte: prima nel cortile, poi nei corridoi e infine in mensa. Cambiai strada in ogni occasione, spesso in modo abbastanza palese.
Lei ci rimase male, ovviamente. O forse no. Non avevo ancora capito bene come funzionassero le sue emozioni, se le avesse, se potesse offendersi, se invece era del tutto indifferente. 
Era tutto confuso, io ero sul punto di esplodere, perché, d'improvviso, nulla aveva più senso. Nemmeno più il mondo in cui vivevo. Ogni cosa era stata catapultata in una dimensione dove esisteva il soprannaturale e io non riuscivo a sopportarlo.

Perché niente era più normale, a partire dalla mia esistenza.

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Capitolo 9
*** Phobia. ***


Capitolo 9
"Phobia"


La paura è una delle principali emozioni umane, sebbene sia in comune anche con molti animali. Sulla carta, è una forte emozione, derivante da un pericolo, reale o presupposto, ed è dominata, principalmente, dall'istinto di sopravvivenza.
A volte, però, la paura tramuta in qualcosa di più grande, di più complesso e prende il nome di fobia. Questa è una paura più intensa, più persistente, più duratura e più difficile da scacciare.

Nei tre giorni che seguirono la scoperta della natura di Johanna e quindi dell'esistenza dei Divoratori di Anime e di altre strane creature, io divenni, a poco a poco, ossessionato dalle fobie.
Temevo praticamente tutto. Ogni persona che incrociavo camminando per strada, ogni rumore fuori dalla norma, persino i cambiamenti climatici, mi atterrivano. Ero sempre all'erta, con il panico addosso e la sensazione che qualcosa di brutto avrebbe potuto accadere da un momento all'altro. Tremavo per la maggior parte del tempo ed evitai di uscire di casa se non strettamente necessario. Fosse stato per me, avrei aggirato persino l'andare a scuola, ma così facendo, avrei impensierito mia madre, che avrebbe cominciato a pormi mille domande e avrebbe solamente incrementato la mia ansia.
Evitai anche – e soprattutto - Johanna, senza sosta, anche se i miei modi di farlo furono sempre più palesi e poco efficaci. Finimmo persino per guardarci per esattamente ventidue secondi, fermi nel corridoio a pochi metri l'uno dall'altro, mentre la gente attorno correva per non arrivare in ritardo a lezione; dopo di che, io corsi via, trovando rifugio nel bagno, lasciando lei lì, immobile, senza dare spiegazioni.

Improvvisamente, non riuscivo nemmeno a sopportare il solo starle vicino. Era più forte di me, come se in lei si concentrassero tutte le mie fobie.

Tuttavia, non per mia estrema fortuna, non riuscii ad eludere Johanna per troppo tempo. Il quarto giorno, di fatti, lei riuscì a fermarmi nel cortile della scuola, all'uscita.
Mi sentii prendere per un braccio e sobbalzai. Molto probabilmente ebbi un infarto in quel momento, considerando quanto forte il mio cuore cominciò a battere.

«Mi stai evitando» esclamò, strattonandomi appena. Mi liberai della sua presa allo stesso modo e feci un passo indietro, barcollando. I tremori, che ormai erano diventati miei compagni abituali, si fecero più forti in quell'istante, e iniziai anche a sudare freddo.

«Sì! Sì, lo sto facendo!» quasi urlai.

«Perché? Non è cambiato niente, Simon, sono ancora io».

«No, no, no, non sei tu ed è questo il problema!». Iniziai persino a gesticolare, passandomi ripetutamente una mano davanti al viso. Lei continuò a fissarmi incredula - o perplessa o sconvolta - dal mio comportamento. Vedendomi da fuori, avrei avuto la stessa reazione: sembravo un pazzo senza controllo.

«Tu non sei tu! Sei... Sei una... Sei... Sei qualcosa fuori dalla norma e io... Io ho terribilmente paura di te e... E... E di tutto il resto e... E credo che tra un po' impazzirò, andrò totalmente fuori di testa perché non posso nemmeno parlarne con qualcuno, non posso... Non posso fare niente, ho paura... Ho paura di tutto e... E non riesco nemmeno a respirare delle volte, non riesco a dormire, non riesco a pensare a qualcosa di diverso che non sia il pericolo costante che mi circonda e... E vorrei che tutto smettesse, ma non lo fa. Non lo fa, anzi, tutto si amplifica e... E...».

Le parole mi morirono in gola, sotto lo sguardo di Johanna che si era fatto vuoto e cupo. Io avevo il fiatone, quasi avessi corso per chilometri, senza bere un sorso d'acqua.

«Okay» mormorò lei, e il suo tono di voce risultò quasi meccanico, inconsistente. «Ti sei... Spiegato benissimo, per cui... Ti lascerò in pace».

La fissai per qualche secondo, cercando di tornare a respirare regolarmente, per quanto fosse difficile per me in un momento del genere. Johanna mi rivolse gli occhi stanchi; scosse appena la testa e si allontanò, verso la strada, sparendo ben presto all'orizzonte.
A quel punto, le mie gambe cedettero, letteralmente. Mi ritrovai inginocchiato a terra, con le lacrime agli occhi, più perso che mai. Le mie fobie mi avevano ormai divorato, del tutto, e avevo perso ogni cognizione un minimo logica del mondo che mi circondava.

Purtroppo per me, il peggio doveva ancora arrivare, perché quando le proprie fobie si tramutano in realtà, beh... Quella diviene una situazione estremamente critica.

Passò un'altra giornata, dove fui costretto a trascinarmi a scuola, causa forze maggiori. Johanna non c'era, non la incontrai da nessuna parte. Le lezioni passarono lente, estremamente lente. Inutile dire che non ascoltai nemmeno una parola di ciò che i professori dissero. L'unica cosa che mi restò impressa fu che si sarebbe tenuta una cerimonia in onore di Jason, quella sera, e tutti gli studenti erano obbligati a partecipare.

Non potei sottrarmi, dunque; nemmeno fingermi malato funzionò con mia madre, che si offrì persino di accompagnarmi all'Istituto e mi promise di tornare a prendermi qualche ora dopo, al termine della sua ennesima cena di lavoro. Tuttavia, proprio a causa degli eccessivamente lunghi preparativi proprio per quest'ultima occasione, ci ritrovammo a uscire di casa con venti minuti di ritardo e il traffico di Chicago di certo non agevolò l'impresa di raggiungere la scuola in tempi brevi. Probabilmente, andandoci a piedi, avrei impiegato meno tempo.
Non che mi interessasse molto arrivare in orario alla cerimonia commemorativa di Jason, anzi; trovavo abbastanza ipocrita il fatto che tutti, adesso, lo definissero “un bravo ragazzo”. Insomma, era noto quanto fosse un vero coglione; a me dispiaceva per lui, ovviamente, ma non gli avrei mai attribuito tale appellativo, nemmeno sotto tortura.

Quando arrivai all'Istituto, mia madre mi cacciò – letteralmente – fuori dall'auto e per un attimo temetti che ripartisse senza permettermi di chiudere la portiera prima. Mi fece sorridere quella sua fretta isterica, sebbene io non fossi esattamente nelle condizioni per ridere dell'isterismo altrui.
Il cortile esterno dell'edificio era vuoto, per ovvi motivi: la cerimonia doveva essere iniziata già da parecchio; mezz'ora, secondo i miei calcoli. Misi le mani nelle tasche dei pantaloni dei jeans neri che indossavo e mi addentrai all'interno della scuola. Incredibile quanto paresse estremamente diversa rispetto al giorno e, soprattutto, rispetto al ballo di giorni prima. Forse, il fatto di camminare solo tra quei corridoi poco illuminati dava una percezione diversa di tutto l'ambiente.
Dovevo raggiungere il cortile interno, quello in cui di solito – per sentito dire – si tenevano le riunioni del Comitato Studenti, il che voleva dire tutto e niente. Io, lì, non c'ero mai stato. Forse, entro il quinto anno, sarei riuscito a visitare ogni angolo di quell'enorme costruzione. Oppure no, avevo ancora i miei dubbi.

Mi guardavo distrattamente attorno, mentre seguivo l'eco della voce del preside, cercando di modulare le varie frequenze, in modo da potermi orientare grazie alle variazioni di volume, quando sentii una voce chiamarmi.

«Ehi, tu!». Apparteneva ad un ragazzo. Mi girai e vidi un biondo, alto, vestito di nero, accennare una corsa per venirmi incontro. Mi fermai, scuotendo appena la testa: forse era uno degli studenti della Hills High, anche se non l'avevo mai visto prima; ma, del resto, non potevo conoscere tutti lì dentro.

«Sto cercando di raggiungere la cerimonia, ma credo di essermi perso. Questo posto è un labirinto» disse, poco dopo, abbozzando una risata.

«Già, non me ne parlare» replicai, forse un po' in ritardo rispetto al normale. Lui allargò il sorriso, in un modo che mi parve terribilmente inquietante, ma ciò avrebbe potuto esser dovuto alle mie persistenti paure su ogni cosa e su chiunque. Compiendo quel gesto, i suoi occhi si ridussero a due fessure e lo vidi inclinare appena la testa di lato. «Io sono Sebastian» disse, poi «Sebastian Sanders». Mi tese una mano in cenno di saluto.

«Simon» sussurrai «Simon Clarke». Stavo per dare inizio a quella conoscenza, partendo dalla presentazione; però, prima che potessi sfiorare il suo palmo ancora aperto, qualcosa catturò la mia attenzione.
I suoi occhi azzurri non erano più socchiusi, anzi: erano ben aperti. Mi fissavano e, nel farlo, notai le stesse ombre rosse che caratterizzavano gli iridi di Johanna.
D'istinto, feci un passo indietro, lentamente. Non sapevo se lui fosse come Johanna, ossia relativamente innocuo, oppure fosse uno di quelli che uccidevano. In quel momento, fui più orientato verso la seconda ipotesi.

Deglutii rumorosamente e continuai a indietreggiare. «Dovrei... Dovrei andare» biascicai.

«Oh, possiamo andare insieme. Almeno non ci perdiamo».

«No, è che... Non partecipo alla cerimonia, per cui io...».

«Davvero? E' obbligatoria».

«Lo so, ma... C'è mia madre che... Mi aspetta, fuori».

Sebastian sorrise, ironico e sarcastico, e allargò le braccia. «Peccato» esclamò «volevo davvero diventassimo amici e questo poteva essere un buon inizio, ma...».

Senza che potessi minimamente rendermene contro, lui scattò in avanti. Mi afferrò per il collo, stringendo forte la presa e la mia schiena sbatté con violenza contro il muro ricoperto da piastrelle tinta panna, sicuramente rompendone alcune.

«Ma a quanto pare dovrò fare a meno di donarti il piacere della mia conoscenza».

Facevo fatica a respirare. Le sue dita premevano prepotenti sulla mia gola e i miei piedi non toccarono più terra. Ogni mio tentativo di liberarmi fallì miseramente. Non riuscii nemmeno a urlare, per chiamare a aiuto.
Riuscii a scorgere la mano di Sebastian non impegnata a strangolarmi, scivolare sul mio petto. Si fermò all'esatto centro, all'altezza del cuore. Non mi ero affatto sbagliato sul suo conto, non mi ero confuso sulle ombre rosse: era anche lui un divoratore di anime.
Percepii le sue unghie perforare la mia pelle, proprio come era successo con Johanna in piscina, qualche settimana prima, solo che quel dolore non fu affatto piacevole, tutt'altro: fu orribile. Più lui premeva, più il male aumentava e le mie urla venivano soffocate dalla sua presa possente al collo.
Improvvisamente, tuttavia, ogni cosa cessò. Mi ritrovai seduto a terra, sul pavimento, con la schiena ancora appiccicata al muro. Avevo la vista offuscata e i suoni che udivo erano ovattati.
Scorsi solamente due figure poco lontane da me, scagliarsi l'una contro l'altra. Urlavano, o meglio, ringhiavano, producendo rumori sordi, appena sopportabili stridii, che mi costrinsero a tapparmi le orecchie, con mani tremanti.
Di nuovo senza preavviso, tutto tacque.
Strizzai gli occhi più volte, scacciando via le lacrime che fuoriuscirono lente e timide, senza il mio controllo. Portai una mano sul petto, all'altezza del cuore. Sanguinavo, ma non era nulla di particolarmente grave; non faceva nemmeno più male.

«Simon!». Riconobbi la voce di Johanna e, pochissimi istanti dopo, me la ritrovai davanti, piegata sulla gambe, con un'espressione terribilmente preoccupata stampata in viso. «Stai bene?».

Tremavo ancora, in realtà, e non riuscii a proferire parola. Riuscii solamente a scuotere appena la testa e così annuire, sebbene quella non fosse l'assoluta verità.
Stavo peggio di prima e tutto ciò mi sarebbe costato più che uno shock post-traumatico.
Lei allungò una mano nella mia direzione, con l'intenzione di sfiorarmi una guancia con le dita; di riflesso, mi scansai. Strisciai lungo la parete e mi rimisi, barcollando, in piedi.

«Non... Toccarmi» biascicai, stringendo la mia maglietta tra le dita. Johanna sospirò e si tirò su. Mi guardò per qualche attimo: i suoi occhi erano circondati dalle ombre rosse, tanto che mi parve che gli iridi avessero del tutto cambiato colore. «Ti ho appena salvato la vita» esclamò «Non credi sia un controsenso che ti faccia del male?».

Aveva ragione, ovviamente, solo che il mio inconscio mi portava a sollevare spesse barriere nei confronti di qualunque cosa e di chiunque.
Scossi violentemente la testa e allontanai la mano dal petto. Era imbrattata di sangue e ciò non fece altro che gettarmi ulteriormente nel panico, più di quanto non lo avesse fatto poco prima, quando mi ero accorto di essere ferito in tal modo.

«Ho bisogno di andare a casa» mormorai, fissandomi le dita tremanti.

«Ti accompagno» suggerì subito lei.

«No» replicai e, stranamente, risi. Ovviamente, fu una risata isterica. «No, no, io... Voglio stare solo». Tornai serio quasi immediatamente.

«Simon...».

«Lasciami solo, Jo...».

Lei tentò ancora di dire qualcosa, ma non stetti ad ascoltare. Ero troppo sconvolto per restare semplicemente immobile, permettendo ad altre parole di scivolarmi addosso. Corsi semplicemente via, il più lontano possibile dalla scuola.

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Capitolo 10
*** Rescuer. ***


Capitolo 10
"Rescuer"


Il tragitto dall'Istituto fino a casa mia necessitava di almeno trenta minuti di macchina – non considerando il traffico – per essere completato. Il fatto che riuscii ad essere nella mia camera nella metà del tempo la diceva lunga su quanto fossi scosso e sconvolto. Il cuore mi batteva così forte che di lì a poco sarebbe balzato fuori dal petto e avrebbe rotolato a terra.

Non appena entrai nella stanza, chiusi a chiave la porta e, continuando a correre da una parte all'altra, in preda a spasmi e singhiozzi, serrai anche tutte e tre le finestre presenti.
Purtroppo, quella difesa che tentai di costruirmi attorno fu più che vana. Quando barricai l'ultima delle finestre, la più grande, mi voltai e vidi Johanna in piedi, proprio davanti alla porta, con le mani lungo i fianchi e i pugni chiusi. Sobbalzai, portandomi d'istinto una mano sul petto, forse a controllare che il mio battito non accelerasse più di quanto stesse facendo.

«Tu!» esclamai – o meglio, urlai. «Tu cosa... Come diavolo hai fatto ad entrare?».

«Sono... Abbastanza veloce» rispose lei.

Scoppiai a ridere, ma, come da un po' di tempo a quella parte, fu qualcosa dettato dal puro isterismo. Infilai le mani tra i capelli, facendo fatica a respirare. Non mi ci volle molto per capire che si trattava di un attacco di panico: battiti accelerati, iperventilazione, sudorazione fredda.
Mi piegai sulle ginocchia, fissando il pavimento e cercando di riprendere il più in fretta possibile il controllo del mio corpo. Dannazione, perché doveva essere così difficile?
Johanna, intanto, mi aveva raggiunto e si era inginocchiata al mio fianco. Sollevai appena il viso, incontrando il suo sguardo spento, nonostante il rosso ancor ben evidente nei suoi iridi.

«Mi dispiace così tanto, Simon» sussurrò. Tentennai per un attimo, tremando e stringendo i pugni sulle cosce. «Ti dispiace per... Per cosa?» biascicai, in maniera pressoché incomprensibile.

«Per tutto» rispose, mordendosi appena il labbro inferiore. «So quel che provi e...».

«No, non... Non lo sai. Non puoi saperlo».

«Certo che posso. Hai paura, stai totalmente uscendo di testa ed è... E' normale. Perché è questo che le persone fanno quando si trovano di fronte a qualcosa che non conoscono».

«Il problema è che... Io conosco le cose ed è questo a spaventarmi».

«Non conosci tutto e questo perché stai continuando a scappare». Fece una breve pausa. «Io voglio proteggerti, Simon» sussurrò, poco dopo «voglio proteggerti da tutto questo e tu devi permettermelo. Te l'ho già detto, io non... Non farei mai niente per farti male, non posso, perché il solo vederti così mi distrugge, per cui... Per favore, permettimi di starti vicino e aiutarti».
Mi porse una mano, tendendo il palmo all'insù. Di certo, si aspettava che io la afferrassi, ma passò parecchio tempo, qualche minuto, prima che mi decidessi sul serio a farlo. All'inizio, mi bloccai a fissare le sue dita affusolate, appena tremanti e mi concentrai sul suo respiro che si sforzava di essere regolare, a differenza del mio.
Quando finalmente il mio inconscio mi permise di muovermi, afferrai una sua mano e, senza ragionarci su troppo, mi buttai tra le sue braccia, appoggiando la tempia sul suo petto. Lei, di riflesso, mi strinse a sé, abbracciandomi e cullandomi, come avrebbe fatto mia madre, ma, ovviamente, l'effetto su di me fu diverso.
Mi sentii al sicuro, in un modo più che strano. Quanto poteva essere priva di ogni logica quella sensazione?
Fino a qualche minuto prima, la temevo e in quel momento, invece, era come se lei fosse la mia casa, il mio rifugio sicuro. Come se lo fosse sempre stata, senza che io me ne rendessi effettivamente conto.
Non seppi per quanto rimanemmo in quella posizione. Un'ora, forse, o di più, o di meno. Quando trovai il coraggio di distaccarmi, tutte le mie lacrime si erano asciugate.

«Dobbiamo medicare quella ferita» disse Johanna. Mi guardai distrattamente il petto. La maglietta azzurra che indossavo era sporca di rosso ormai opaco, di sangue non più fresco. «Non è niente» sussurrai. «Non mi fa nemmeno più...». La frase venne interrotta da lei, che mi diede un leggero colpo proprio sulla parte danneggiata del mio corpo, il che riuscì a farmi pulsare la ferita e mi provocò bruciore. «Ahi» mi lamentai.

«Scusa» replicò, abbozzando una risata che, molto probabilmente, era solo per infondermi un minimo d'entusiasmo che sembrava essersi disperso in me.

Si alzò, poco dopo, e aiutò me a fare lo stesso, facendomi sistemare seduto sul materasso. Si allontanò verso il bagno e, alla velocità della luce – letteralmente, mi bastò sbattere tre volte le palpebre – recuperò garze, cerotti e acqua ossigenata, e tornò da me, accomodandosi al mio fianco.
«Dovresti toglierti la maglietta» disse, sorridendomi in maniera del tutto rassicurante. Io stavo sfregando nervosamente le mani sulle mie cosce, che nemmeno avevo avuto modo di pensare di compiere un'azione del genere; anzi, non ero riuscito a pensare proprio a nulla che non fosse la situazione assurda in cui mi trovavo. Il mio cervello, poi, si rifiutò di collaborare, impedendomi di dire o fare qualsiasi cosa in risposta. Tutto ciò portò Johanna a credere che io stessi tentennando, per chissà quale assurdo motivo.
«Andiamo, non è niente che io non abbia mai visto» esclamò, allora. Risi anche io, a tal punto, e mi decisi a sfilarmi l'indumento sporco, accartocciandolo tra le mani e abbandonandolo distrattamente sul letto.
La ferita non era molto grave. Erano presenti cinque fori sul mio petto, grandi più o meno un centimetro, ed erano evidenti solamente a causa della mia carnagione eccessivamente pallida.
Johanna cominciò a tamponare la pelle con un pezzo di garza imbevuto d'acqua ossigenata, il che mi pizzicò e bruciò, non poco, ma strinsi i denti, evitando di urlare o fare cose peggiori.
“Andiamo, Simon, sopporta il dolore!” mi suggerì la mia coscienza, ma era più facile a dirsi che a farsi. Non ero mai stato il tipo tosto, immune ad ogni genere di calamità e pericolo, tutt'altro: ero abbastanza sorpreso del fatto di non essere svenuto alla vista del mio stesso sangue. Guardare il viso di Johanna, tuttavia, fu un'ottima distrazione. Aveva l'aria assorta, tranquilla, innocente e dolce.

Come avevo potuto pensare anche solo per un secondo che avesse voluto farmi del male?

“Perché non è quello il suo vero aspetto, idiota!” suggerì la parte più acida, ma anche realista di me.

Scossi appena la testa, cercando di scacciare quell'idea.

«Come... Facevi a sapere che ero in pericolo?» sussurrai.

«Credo di... Averlo percepito» rispose lei, continuando imperterrita la propria operazione.

«Quindi... Non mi stavi seguendo o...».

«Non sono una stalker, Simon».

«Oh, non era quello che intendevo». Feci una breve pausa, nella quale Johanna piazzò un cerotto sulla ferita e si alzò, buttando nel cestino accanto alla scrivania le garze sporche.

«Dovrei farti un lungo discorso col quale ti ringrazio per avermi salvato e un altro con cui ti chiedo scusa per come ti ho trattato e per averti evitato, ma...» sospirai, stringendo i pugni appoggiati sulle ginocchia. «Ma quando servono, le parole sembrano mancarmi».
Johanna accennò un sorriso, sentendo le mie frasi. Rimase in piedi di fronte a me, stringendosi nelle spalle. «Non fa niente» sussurrò. «Te l'ho detto, io... Ti capisco».
Stranamente, mi convinsi del fatto che sarebbe stato del tutto inutile proseguire con quel discorso, con le mie scuse da una parte e i suoi rifiuti di esse dall'altra. A me bastava averglielo detto e che non ce l'avesse troppo con me.

«Quel ragazzo che mi ha attaccato» cambiai di nuovo discorso «è come te, no? Nel senso... E' un Divoratore. Lo conosci?».

«Diciamo di sì». Sospirò e tornò a sedersi al mio fianco, tenendo lo sguardo basso. «E' mio fratello» sussurrò e per un attimo mi parve – o sperai – di aver capito male.

«In realtà, i Divoratori sono tutti fratelli tra loro, ma... Noi siamo semplicemente stati vicini l'uno con l'altro fin dall'inizio dei tempi».

«Vicini... Quanto vicini?». Quella domanda risultò abbastanza stupida. Ero mica geloso?

Forse un po' sì.

Johanna abbozzò una risata, tornando a far scintillare i propri occhi – verdi e non più rossi – su di me. «Non così vicini» disse e la cosa mi rasserenò.

«E poi cosa è successo?» domandai.

«Poi lui è... Cambiato, ha iniziato a frequentare dei gruppi di Divoratori per niente benevoli, anzi, tutt'altro. Degli spietati killer che si muovevano in branco, uccidendo anche interi villaggi e... Io non l'ho seguito».

«Perché?».

«Non è ovvio? Te l'ho già detto, io non uccido. Ma questo lui sembra non accettarlo, così ogni volta che tento di vivere come un'umana, cerca di distruggere ogni cosa».

«Per questo motivo non tieni per molto lo stesso aspetto?».

«E' uno dei tanti». Si prese un ulteriore pausa, sbattendo piano le palpebre. Come non accadeva da un po', fui immediatamente catturato da quei due diamanti verdi che si ritrovava e, per un attimo, trattenni il respiro.

«Non gli permetterò di farti del male» sussurrò, allungando una mano, a raggiungere il dorso della mia, ancora appoggiata sulle gambe. «Non di nuovo».

Lentamente, girai il palmo e feci in modo che le nostre dita si intrecciassero, in quel gesto complice e timido, come del resto era sempre stato.

«Lo so» mormorai, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «E direi che te la sei cavata benissimo oggi, contro di lui».

«E' stata solo fortuna. E' molto più forte di me». Tentennò per qualche secondo, sfiorando con il pollice la mia pelle. «Sono riuscita a recuperare una cosa per te» disse, poco dopo.

«Che cosa?».

La vidi tirar fuori dalla tasca qualcosa e solo quando me lo mise davanti agli occhi, realizzai cosa fosse. Era un ciondolo, una pietra semi-trasparente, a forma di rombo, azzurro e mi dondolava davanti, col rischio di ipnotizzarmi. Non che potesse farlo davvero: quel potere era riservato solo agli occhi di Johanna.
«E' un amuleto» disse lei «raro, molto raro. Questo ciondolo si illuminerà ogni qualvolta che un Divoratore è troppo vicino a dove sei tu. Se si illumina, scappa il più velocemente possibile, il più lontano che puoi».

«Tu sei una Divoratrice, ma... Non si è illuminato».

«Certo che no. Indosso anche io un amuleto, che mi isola dal potere del tuo».

«E se lo indossasse anche Sebastian?».

«E' impossibile. Ne esistono solo due copie in tutto il mondo e l'altra è tenuta dall'imperatore giapponese».

«L'imperatore giapponese è un Divoratore?!».

«Da qualche anno ormai».

Rimasi a bocca aperta, ma ormai niente avrebbe dovuto più sconvolgermi. Per quanto ne sapevo, ogni persona che mi circondava avrebbe potuto essere una creatura sovrannaturale; il punto era che, diversamente ai giorni precedenti o anche solo a quella mattina, tutto ciò non mi toccava più.
Era come se il panico e la paura si fosse spenti, acquietati, fermi, in attesa di tornare forse un giorno alla ribalta; ma, per il momento, io ero tranquillo, totalmente rilassato dal tocco lieve di Johanna, dalla sua pelle calda, ammaliato dai suoi movimenti, dal modo in cui si mordeva piano il labbro, allacciandomi l'amuleto al collo.

«Dovresti dormire un po' adesso» sussurrò Johanna, lievemente. «Non lo hai fatto molto in questi giorni, vero?».

«A dir la verità, per niente». Sorrisi appena, inclinando di poco il capo di lato e guardandola. «Hai percepito anche questo?».

«No, questo no, ma so che le uniche volte che hai dormito da quando sei arrivato a Chicago, sono state quando...».

«Quando?».

«Quando io ti ho... Aiutato a farlo».

Aggrottai le sopracciglia, perplesso. «E come avresti fatto?».

«Cantando». Pronunciò quella parola con estrema innocenza e mi parve di vederla arrossire, non sapendo nemmeno se ciò fosse effettivamente possibile. Sorrise, in imbarazzo e abbassò uno sguardo, quasi si vergognasse di fissare i miei occhi in quel momento. «Ho questo potere» sussurrò poi. «Se io canto, aiuto le persone a fare sonni tranquilli. A volte mi è capitato anche di creare dei sogni. Bei sogni. Non so se altri Divoratori hanno questo potere, ma... Spero di no. Mi piacerebbe essere unica almeno in questo».

«Lo sei» mormorai e mi venne da dirlo in maniera naturale, spontanea.

Johanna rise e si passò una mano tra i capelli. «Credevo mi odiassi e invece questo suona addirittura come un complimento».

«Non ti ho mai odiato».

Lei tornò seria e fece una smorfia, il che riuscì solamente a renderla adorabile ai miei occhi. Quel che avevo detto non era altro che l'assoluta verità: nonostante l'incondizionata paura e il terrore per quella che di fatto era la sua natura, non avevo mai covato odio nei suoi confronti; un po' perché non ce n'era motivo, un po' perché sarebbe stato impossibile per me farlo.

«Posso...» sussurrò «posso aiutarti a dormire anche ora... Se ti va».

Mi limitai ad annuire.

Quelle appena passate erano state le ore più travolgenti e caotiche della mia intera esistenza. Quel turbinio di emozioni e sensazioni mi aveva letteralmente sconvolto e stravolto, ma, perlomeno, non ero più confuso e atterrito. Anzi, tutto il contrario: stavo bene.
Stetti bene quando mi sdraiai sul letto, sotto le coperte, e Johanna fece lo stesso, accanto a me. Stetti bene quando lei cominciò ad accarezzarmi delicatamente il viso e cantò, una mia personale ninna nanna.
Non capii bene le parole che pronunciò; non mi sembravano nemmeno appartenenti ad una lingua esistente o non morta, ma fu comunque estremamente rilassante. Il suo potere aveva davvero effetti benefici.
Socchiusi gli occhi; l'ultima cosa che sentii fu un «Buonanotte, ragazzo carino» da Johanna mormorato e poi mi addormentai, sprofondando nel sonno.

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Capitolo 11
*** Awaited. ***


Capitolo 11
"Awaited"


Fino a qualche tempo prima, avevo desiderato dormire e vedere solo nero. Stare del tutto tranquillo, rilassato, senza pensieri, per poche ore che alla mia testa sarebbero sembrate eterne.
Non ero mai stato propenso ai sogni, l'avevo ripetuto chissà quante volte; ma, quella notte, non avrei voluto fare altro.
Sognai: cose belle, sorrisi, il sole lieve della primavera, il freddo piacevole della neve a fiocchi, il rumore delle onde del mare che si infrangevano sul bagnasciuga. Tutto questo, tutto insieme, in un'unica sensazione che mi regalò pace e la parte migliore era che sapevo benissimo chi ringraziare per ciò.

Quando riaprii gli occhi, quella mattina, ogni cosa era diversa; io per primo. Non ero più perennemente ricoperto di sudore, il mio respiro e il battito del mio cuore erano assolutamente regolari e non tremavo. Mi svegliai con un lieve sorriso stampato in faccia, sfregando lieve una guancia contro il cuscino.
Ero felice, sebbene il pericolo non fosse ancora svanito. Anzi, qualcosa, dentro di me, suggeriva che ciò che era successo la sera precedente era solo l'inizio. Ero pressapoco sicuro che Sebastian fosse un tipo orgoglioso, che sarebbe tornato o per vendicarsi su Johanna o per completare l'omicidio – potevo chiamarlo così? - del sottoscritto.
Nonostante questo, tuttavia, non permisi a me stesso di sprofondare nel panico; il fatto che Johanna fosse ancora lì con me semplificava le cose.
La vidi entrare nella stanza con in mano un bicchiere di caffè di Starbucks e un sacchetto bianco evidentemente pieno di muffin o qualcosa del genere, mentre mi mettevo seduto sul materasso, sfregandomi gli occhi.

«Sono andata a prenderti la colazione» sussurrò, poggiando il tutto sul comodino accanto al letto e prese posto al mio fianco. «Grazie» mormorai, in risposta.

«Figurati, è solo una ciambella».

«Non per... La colazione. Per stanotte. I sogni e tutto il resto».

Sorrise, annuendo appena, ma subito dopo cambiò palesemente discorso: «Ho chiamato anche tua madre, che mi ha ringraziato per... Diciamo averti accompagnato a casa. Lei ha avuto un imprevisto e probabilmente sarà fuori casa per qualche giorno, quindi non avrebbe potuto passare a prenderti ieri sera».

«Uh, sono stato fortunato ad essere aggredito, allora».

Lei abbozzò una risata. Il mio senso dell'umorismo – che in realtà niente aveva a che fare con il vero umorismo, anzi, tutto il contrario – fu fuori luogo, ma nessuno dei due ci diede molto peso. O forse lo fece il mio cervello per qualche secondo, che bastò a farmi mancare la salivazione e mi costrinse a deglutire più volte per ritrovarla.
Tossii falsamente, passandomi ancora una volta la mano sul volto. «C'è una cosa che ancora non ti ho chiesto» dissi, poco dopo.

«Cosa?».

«Il tuo vero nome».

«Perché ti importa?».

«Perché... Ora so tutta la verità... Beh, quasi tutta e... E vorrei saperla fino in fondo. Il tuo nome è uno dei tasselli mancanti».

La vidi scuotere appena la testa ed alzarsi di scatto in piedi. Fece qualche passo confuso nella stanza, sotto il mio sguardo perso ad analizzare ogni minimo movimento del suo corpo. Poi si fermò, proprio davanti a me, stringendo i pugni contro il petto. «Chiamami solo... Johanna» mormorò.
Mi alzai anche io, solo ed unicamente per essere alla sua stessa altezza e poterla guardare negli occhi. «Johanna è morta» dissi, con un tono stranamente sicuro – forse fin troppo. Ma ero davvero io a parlare?
«Io non l'ho mai conosciuta» continuai «non ci ho mai parlato, non... Non ci ho mai passato del tempo insieme. Tutte queste cose, però, le ho fatte con te e... E so che voglio conoscerti ancora di più, partendo dal tuo vero nome».
Lei fece una smorfia e, sinceramente, non seppi bene cosa pensare. Per me, Johanna – o in qualunque modo in realtà si chiamasse – sarebbe sempre rimasta un enigma.

«Perché sei così?» sussurrò.

«Così come?».

«Così... Terribilmente dolce in tutto quello che dici o fai».

Sorrisi, e un leggero rossore mi apparve sulle guance. «Non lo so» mormorai «credo sia un dono di natura». La feci ridere e la vidi mordersi piano il labbro inferiore, mentre con le dita si portava una ciocca di capelli dietro ad un orecchio.

«Il mio vero nome è Hazel» disse, poco dopo.

«Hazel è... Un bel nome».

«Non così bello».

«No, lo è davvero. Posso... Posso chiamarti Hazel?».

«Se vuoi».

«Certo che sì».

Mi sarebbe occorso tempo prima di abituarmi a riconoscere Johanna come Hazel; probabilmente qualche volta avrei finito col confondermi, ma ero abbastanza certo che per lei sarebbe andato bene qualsiasi nome con cui l'avessi chiamata. Lo leggevo nei suoi occhi, che avevano ripreso la loro normale funzione, ossia quella di incatenarmi a loro e rendermi totalmente schiavo.
Non mi ero ancora chiesto se ciò fosse un potere comune a tutti divoratori; tuttavia, la risposta sembrava essere piuttosto semplice: con Sebastian – era quello il suo vero nome? - non mi era capitato; quindi, gli occhi incantati – dovevo pur definirli in qualche modo – li possedeva solo lei, un po' come le ninne nanne speciali che mi avevano cullato quella notte.

«Voglio farti conoscere una persona oggi» disse lei, ad un tratto.

«Chi?».

«Un'amica».

«Anche lei è... Insomma...».

«E' anche lei una Divoratrice, sì. Ma è buona, non uccide, proprio come faccio io ed è... Molto forte. Potrebbe aiutarci con mio fratello, se dovesse tornare».

«Questo vuol dire che tornerà...».

«Lo conosco e so che lo farà. Per il momento, sei al sicuro, ma... Dobbiamo pensare a cosa fare nel caso accada, nel caso in cui lui ritorni e...».

«Okay».

Hazel sospirò e prese il mio viso tra le mani, sfiorandomi le guance con i pollici. «Io ti proteggerò sempre, d'accordo?» sussurrò. Posai le dita sulle sue braccia, accarezzandogliele delicatamente. Non dissi nulla in risposta: un po' perché non sapevo cosa effettivamente dire, un po' perché non ero del tutto convinto della sua affermazione. Sapevo che lo avrebbe fatto, che ci avrebbe provato per davvero, ma ero certo del fatto che non si può proteggere una persona per sempre.
Avrei dovuto essere spaventato, allora, ripiombare in quel baratro nero di panico e ansia; ma non lo feci, poiché ormai avevo la mia ancora, che mi teneva ben stretto, impedendomi di andare ancora fuori di testa.

«Sarai... Una sorta di mio angelo custode?» sussurrai, sforzando un sorriso.

«Una specie, sì. Anche se il bianco non mi dona».

Accennai una risata e lasciai ricadere le braccia lungo i fianchi. «Vestiti» disse lei. «Io ti aspetto di là». Si staccò piano da me e fece qualche passo indietro, verso la porta. «Perché?» esclamai, allargando le braccia, con fare ironico. «Credevo non ci fosse nulla che tu avessi già visto».
Hazel rise e si passò le dita tra i capelli. «Ti aspetto di là» ripeté, cantilendando. Dopo di che, uscì dalla stanza, lasciandomi solo.
 

***

Non badai molto a ciò che misi addosso. Infilai le prime cose che trovai nell'armadio, ossia un paio di jeans blu e una maglia nera e rossa, a maniche lunghe.
Inciampai nelle scarpe da ginnastica e rischiai di cadere più volte a terra per metterle, ma alla fine riuscii a portare a termine quella piccola impresa e raggiunsi Hazel in cucina.
Lei era ferma accanto al tavolo, giocherellando con il cesto di frutta - che fungeva più che altro da decorazione - che mia madre si era preoccupata di sistemare minuziosamente – era fissata per quel genere di cose.
«Sei pronto» esclamò, senza voltarsi. «Già» dissi, avvicinandomi. Ficcai distrattamente le mani in tasca e solo quando le fui a meno di un metro di distanza, lei si girò, abbozzando un sorriso. «Dove abita la tua amica?» domandai.

«Sulla trentesima strada, in un attico».

Strabuzzai gli occhi. «Trentesima? E' tipo... Dall'altra parte della città e io non ho una macchina e, in realtà, nemmeno la patente, quindi, se avessi la macchina, sarebbe piuttosto inutile, a meno che tu non sappia guidare, ma... Qui si torna al problema del non avere una macchina».
Hazel rise, sbattendo lentamente le palpebre. Il flusso eccessivo di parole che mi uscì di bocca non aveva molto senso e me ne resi conto soltanto quando ebbi finito la frase. «Non ci serve la macchina» disse lei «o un pullman o una bici o qualsiasi altro mezzo di trasporto».

«Ah, no? Hai intenzione di andarci a piedi? E' piuttosto... Lontano».

«No, nemmeno. Chiudi gli occhi».

«Cosa... Perché?».

«Fallo e basta. Fidati di me».

Esitai per qualche secondo: del resto, la fiducia non era più un grosso problema, sebbene continuassi a chiedermi come fossi passato da un estremo all'altro in maniera così repentina. Non sapevo spiegarlo, ma ero contento che fosse accaduto.
Feci come mi disse: chiusi gli occhi e inspirai profondamente. Percepii le sue dita sfiorare le mie e poi intrecciarsi, le une con le altre, quasi fossero due pezzi di puzzle finalmente congiunti.
«Ora puoi aprirli» sussurrò lei e io obbedii. Con mia enorme sorpresa, realizzai che non eravamo più nella cucina di casa mia, ma al centro di un lungo corridoio costeggiato da porte rosse tutte uguali, ad almeno cinque metri di distanza tra loro, o forse più.
Spalancai la bocca, stringendo d'istinto le sue mani più forte che potei, tanto che, se non fosse stata estremamente più resistente di me, avrei rischiato di spezzarle qualche osso.

«Dove... Dove siamo?» balbettai.

«Sulla trentesima strada, davanti alla porta dell'attico» rispose, ridacchiando.

«E come...».

«Te l'ho detto: sono piuttosto veloce».

«Già, ma non credevo così veloce».

Rise, inclinando appena la testa di lato e mi tirò lentamente verso una delle tante porte rosse, alla quale bussò, non distogliendo gli occhi verdi dal mio viso. Non aspettammo molto prima che qualcuno ci aprisse; fu una ragazza bionda, dagli occhi azzurri e piuttosto bassa. Sorrise largamente quando ci vide e batté le mani, come avrebbe fatto una bambina per festeggiare il proprio compleanno.

«Haz!» esclamò «Non ti aspettavo!».

Capii ben presto che tutta quella felicità era dovuta alla visione di Hazel e che io ero stato pressapoco ignorato.

«Ciao, Martha».

Hazel fu costretta a lasciarmi la mano, così che potessero abbracciarsi e salutarsi. Solo quando i loro corpi si distaccarono, Martha sembrò accorgersi della mia presenza. Mi guardò, strabuzzando gli occhi e spalancando la bocca. «Non mi dire che è lui!» quasi urlò. L'amica annuì e le sorrise.
«Oh, mio Dio!». Le mani di Martha raggiunsero tempestivamente il mio volto e non potei fare assolutamente nulla per scansarmi. Cominciò a tirarmi le guance, analizzando con i polpastrelli ogni angolo più remoto della mia faccia, tra la timida risata di Hazel e le mie smorfie. «Ma sei davvero tanto carino!» disse, poi.
Non era solo una prima impressione: quella ragazza – la definii così, per la mia sanità mentale – era l'opposto di Johanna, o Hazel, o... Insomma, lei. Era spigliata, estroversa e, a tratti – mi dispiacque pensarlo – irritante.

«Okay, credo sia sufficiente». Fu Hazel a salvarmi, staccando da me l'amica, che entrò in casa saltellando, dietro l'eco di «Entrate pure».

«Di solito non fa così» mi sussurrò, riprendendo la mia mano.

«Ah, no?».

«No, ma tu eserciti uno strano potere un po' su tutti».

Avrei potuto rispondere qualsiasi cosa, ma il rossore che mi assalì il volto fu abbastanza.
Entrammo dentro quell'appartamento enorme, con la vista su tutta Chicago, tramite finestre di dimensione titaniche, che costeggiavano ogni angolo di quell'attico. Roba assolutamente di lusso, tanto che casa mia, al confronto, mi parve estremamente piccola. Mi guardai attorno, distratto, mentre Hazel mi conduceva attraverso il grande salotto, fino a permettermi di accomodarmi sul grosso divano bianco ad angolo.

«Allora, a cosa devo l'onore di questa visita?». Sentii Martha squittire. Avevo perso di vista la sua figura, ma bastò sbattere una sola volta le palpebre e me la ritrovai seduta sulla poltrona chiara proprio davanti a noi.

«Riguarda quella faccenda di cui ti ho parlato tempo fa» rispose Hazel. Io stetti solamente ad ascoltare il loro dialogo.

«Oh, giusto, l'irritante Sebastian». A quanto pare era quello il suo vero nome.

«Già. Ha attaccato Simon la scorsa notte e temo possa rifarlo».

«E' certo che lo rifarà. Quel tipo non sa arrendersi di fronte a niente».

«Qualche idea su come fermarlo?».

«Cambiare aspetto e scappare, come fai sempre. Come, se no?».

«Sai che questa volta è diverso».

«Sì, perché questa volta c'è di mezzo il ragazzo dagli occhi oceano».

Capii che si stava riferendo a me e trattenni il respiro per un attimo, cercando di non diventare rosso. Che quello fosse o meno un complimento, il mio inconscio era solito reagire sempre in modo piuttosto strano.

«Sei tu l'esperta, Martha» continuò Hazel. «Lo sai, me la sono sempre cavata da sola, sono sempre fuggita. Se non fosse davvero importante, non sarei qui a chiederti aiuto».

La biondina arricciò le labbra e prese a giocherellare con una ciocca di capelli, passandosela numerose volte tra le dita. A giudicare dalle espressioni che il suo viso assunse nel giro di pochi secondi, stava progettando una risposta sulla quale era restia. Forse Sebastian spaventava anche lei, ma non voleva darlo a vedere. «Posso cercare qualcosa» disse, infine.
Hazel sospirò, quasi sollevata da quella affermazione. «Grazie» sussurrò.

«Potrebbe esistere qualche incantesimo che tenga a bada Sebastian per un po'».

«Sai fare incantesimi?».

«Certo che no. Sono le streghe a fare incantesimi, ma è facile contattarne una. Dammi del tempo».

«Quanto tempo? Non credo ne abbiamo molto, lui potrebbe...».

«Rilassati, Haz. Gli hai dato l'amuleto?».

«L'ho fatto».

«Bene, è già qualcosa. E poi, conosciamo Sebastian: se messo a tappeto, resterà in disparte per qualche tempo, che a noi sarà sufficiente per difenderci nel migliore dei modi. Fidati di me».

Sembrava quasi non fossi presente nella stanza, dalla piega che prese il discorso, tanto che alla fine ne persi addirittura il filo. Loro misero in mezzo altri nomi, a me ignoti, di persone o cose di cui nemmeno conoscevo l'esistenza. Dovetti tossire falsamente per rientrare nella loro realtà e solo a quel punto tacquero entrambe, puntando gli sguardi su di me. Tutte e due, all'unisono e io... Non avevo niente da dire.

“Potevi lasciarle parlare” mi rimproverò la mia coscienza e dovetti darle ragione.

«Tutto okay?» mi chiese Hazel.

«Sì, stavo solo...».

«Oddio».

«O... Oddio cosa?».

«Ti ho portato la colazione, ma non ti ho lasciato nemmeno il tempo di mangiarla. Ovvio che non sia tutto okay!».

«No, davvero, non ho...».

Non mi diede l'opportunità di finire la frase. Scomparve in un battito di ciglia, lasciando l'eco di un «Torno subito». Io rimasi da solo, con Martha che ancora mi fissava, con occhi vispi e un sorrisetto compiaciuto stampato in faccia.

«Che c'è?» domandai, sfregandomi nervosamente le mani.

«Nulla» sospirò lei «solo che non ho mai visto Hazel così premurosa. Deve essere vera quella cosa: che sei diverso».

«Questo è ciò che mi ha detto, anche se... Non capisco cosa io abbia di diverso».

«Qualcosa l'avrai. La conosco da centinaia di anni e per quanto si sia sforzata di essere umana, non ci è mai riuscita così tanto quanto ora. La stai cambiando. Forse, alla fine, potrei anche ringraziarti».

Abbozzai un sorriso. Dovevo prendere anche quello per un complimento?

«Posso chiederti una cosa?» dissi, poi.

«Chiedila».

«La ragazza di cui hai l'aspetto... Si è uccisa, giusto?».

«Esatto».

«E tu sai perché lo ha fatto? Oppure l'hai... Semplicemente trovata? Non so come funzioni...».

Martha portò per un attimo la testa all'indietro e tenne chiusi per qualche secondo gli occhi. «Quindi non ti ha raccontato proprio tutto» esclamò.

«Beh, ha detto che... Ci sarebbero voluti secoli per raccontarmi tutto».

«Già, e forse nemmeno basterebbero». Fece una breve pausa e si spostò sulla poltrona, in modo da poter piegare le gambe sopra uno dei braccioli. «Si chiamava Laurel» sussurrò «abitava in una piccola cittadina, vicino ad Atlanta. La sua vita era splendida a mio parere: genitori amorevoli, una grande e bella casa, bei voti a scuola. Io avevo l'aspetto della sua vicina di casa, una donna quarantenne che si era tolta la vita per problemi di gioco d'azzardo. E ci ho parlato con Laurel, diverse volte, tanto che ad un certo punto ero diventata la sua consulente personale o qualcosa del genere. Per questo sapevo tutto su di lei. Sapevo che era innamorata di un ragazzo, di nome Matthew. Era piuttosto popolare, giocava nella squadra di football. Lei passava ore al campo, solo per guardarlo allenarsi, sebbene quello sport nemmeno le piacesse. Lui la guardò, qualche volta e forse sbagliò a farlo, perché Laurel cominciò a viaggiare di fantasia e, soprattutto, si mise ad aspettare. Aspettò che Matthew facesse la prima mossa, che si accorgesse finalmente di lei e dei suoi sentimenti. Ma non accadde mai, anzi: lui andò avanti. Si mise insieme ad una cheerleader che aveva avuto più coraggio o... Più altro, non lo so. Laurel si è uccisa per aver aspettato. E' rimasta lì tutto il tempo, ad attendere che qualcosa cambiasse, senza fare niente. E' rimasta ferma, pretendendo che il proprio amore raggiungesse quel ragazzo per qualche sorta di magia, un po' come nei film. Il problema è che nel mondo reale questo non accade. Gli umani hanno numerosi pregi, Simon, ma il tempo non è dalla loro parte. Il tempo umano è breve ed effimero, e nessuno può prendersi il lusso di aspettare, per nessuna ragione. Sono le persone a creare il proprio destino, sono le persone a gestire nel modo giusto il tempo a loro disposizione. Se ami qualcuno, devi dirglielo. Non puoi semplicemente aspettare che qualcuno si accorga di te perché ci sono talmente tante persone al mondo, milioni di persone, la maggior parte delle quali sono cieche davanti a molte cose. Non puoi aspettare e non puoi esitare per paura della reazione dell'altro. Se aspetti, la vita ti si ritorce contro e... Finisci appeso con una corda al soffitto della tua camera».

Stetti ad ascoltare in silenzio le sue parole e mi suonarono strane dette da una Divoratrice: in fondo, da definizione, una creatura del genere non avrebbe dovuto provare alcun genere di sentimento. Invece, sia lei che Hazel sembravano possedere più compassione e buon animo rispetto ad umani che io conoscevo.
Era ciò possibile? Per quanto me lo fossi chiesto, non avrei mai trovato una risposta.
Io rimasi in silenzio subito dopo, anche perché non ebbi modo di replicare, a causa del ritorno di Hazel che, per la seconda volta quella mattina, mi portò la colazione; quella volta, potei consumarla – anzi, ne fui in pratica costretto.
Le due, mentre mangiavo, ripresero i loro discorsi, che io facevo fatica a comprendere per la maggior parte; ma non importava. Mi limitai ad osservare il viso di Hazel, il suo cercare la mia mano di continuo e i suoi sguardi furtivi per assicurarsi che buttassi giù ogni cosa che mi aveva portato.

Fu strano, perché ero in una grossa stanza con due Divoratrici di Anime e non mi ero mai sentito più al sicuro.

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Capitolo 12
*** Violent delights. ***


Capitolo 12
"Violent delights"



Chicago è la città del perenne inverno. Me ne hanno parlato, più di una volta, ma non ci ho mai creduto troppo. Eppure, siamo quasi alle porte della primavera e nevica da tre giorni. Se continua così, molto probabilmente chiuderanno le scuole, anche perché è praticamente impossibile spostarsi in tempi brevi. Di solito, mi sarebbe dispiaciuto; credo di essere uno dei pochi che adora andare a scuola, ma stare lontano dalla Hills High... Beh, non potrei chiedere di meglio. 
Nell'ultimo periodo, lo studio non occupa molto i miei pensieri. Nemmeno la scrittura, in realtà, e penso di saperne il motivo. Quando ho dichiarato di volere una nuova vita, non immaginavo potesse cambiare così tanto. Mi sono abituato, comunque, e penso di averlo fatto in modo abbastanza veloce. Tralasciando il mio quasi crollo psicologico, me la sono cavata anche piuttosto bene.
Ci sono ancora alcune mie domande irrisolte e molto probabilmente rimarranno tali. Hazel è molto propensa a raccontarmi ogni cosa riguardo la sua natura, ma sembra sempre esserci qualcosa di nuovo.
Passo molto tempo con lei, ma questa – a parte per quel mio periodo di pazzia – non è proprio una novità. O meglio, dipende dai punti di vista. Ogni volta che siamo insieme, finiamo per parlare del soprannaturale, dei Divoratori, di altri leggende e di Sebastian. Soprattutto di Sebastian. Non importa da che parte iniziamo, andiamo sempre a capitolare su argomenti circoscritti. E' come una sorta di ossessione, il mio domandare perennemente e il suo rispondermi a tono, e non so quanto questo sia positivo.
Non so se ammetterlo apertamente o meno, ma mi mancano quei giorni in cui ero ignaro di tutto e l'unica cosa magica erano i suoi occhi che riuscivano a incantarmi in pochi secondi. Mi manca il nostro rapporto iniziale, mi mancano le mie palpitazioni per un nostro bacio, mi mancano le nostre intime carezze. Adesso è tutto diverso. Il nostro unico contatto è quando ci stringiamo le mani e per un po' mi è bastato. Vorrei che tutto tornasse come prima, ma non è possibile. Non potrebbe mai farlo, non con ciò che mi vaga per la testa, non con ciò che lei, di fatto, è. Non p...



«Hey, ragazzo carino!». La voce di Hazel mi distrasse dallo scrivere il mio diario. Chiusi distrattamente il quaderno rosso, lasciando la penna in mezzo e mi girai con la sedia, abbozzando un sorriso. «Hey» replicai, picchiettando due dita sulla scrivania. Lei era proprio accanto a me, che mi fissava sbattendo lentamente le palpebre. «Ho interrotto qualcosa?» domandò, gentilmente. Scossi appena la testa. «No, non hai... Interrotto niente».

«Sicuro? Hai... Tutta l'aria di essere troppo pensieroso».

«Forse un po' lo sono».

Mi alzai in piedi, in modo lento, e passai una mano sul mio viso. Mettere su carta le cose che mi vagavano in testa era molto più semplice che dire tutto ad alta voce. «Voglio fare una cosa oggi, con te» sussurrai. Hazel accennò un sorriso, mordendosi piano il labbro inferiore. «Cosa?» chiese.
Sospirai. Sì, davvero difficile. «Tu dici sempre che ti faccio sentire umana» esclamai «ma io, in realtà, non faccio niente. Non.... Non credo di fare niente per farti sentire così».

«Succede e basta, Simon, senza che tu te ne renda conto».

«E' questo il punto. Magari faccio qualcosa inconsciamente, ma io voglio esserne consapevole. Perché, Hazel, se io ti faccio sentire umana, tu mi fai sentire bene. Cerchi sempre di proteggermi, ti preoccupi persino di farmi fare bei sogni la notte e lo fai per tua volontà. Vorrei solamente fare qualcosa di attivo per te e... E per un giorno, almeno uno, lasciare da parte il soprannaturale, Sebastian, persino Martha. Vorrei farti trascorrere una giornata normale, da umana, con me».
Lei non ebbe nessuna reazione, inizialmente, il che mi portò a trattenere il respiro per dei secondi che mi parvero infiniti. Quando finalmente parlò, sussurrando un «Che hai in mente?», ripresi fiato.
«E' una sorpresa» replicai, sebbene, in realtà, non avessi ancora minimamente pensato a nulla. Era stato qualcosa basato sull'istinto, parole che mi erano uscite di bocca senza che io potessi controllarle, ma fui lieto per l'accaduto: se ci avessi rimuginato su per più di qualche istante, molto probabilmente avremmo finito per passare un altro pomeriggio chiusi in camera, a parlare di cose soprannaturali.

«Prima di tutto» continuai «devi metterti qualcosa addosso».

Hazel fece una smorfia e guardò distrattamente i jeans neri e la maglia blu a maniche lunghe che indossava. «Intendo un cappotto» precisai «e anche una sciarpa e un cappello, se ce l'hai. Usciamo, saranno utili».

«Sai che non posso prendere l'influenza, vero?».

«Uhm, sì, ma puoi comunque sentire freddo, no?».

«Sì, ma...».

«Nevica da giorni e fa... Parecchio freddo. Dobbiamo vivere un giorno normale, il che implica un cappotto e una sciarpa, perché è così che la gente normale si protegge dal freddo quando nevica. Perciò, per favore, metti queste cose addosso e basta».

Lei sorrise appena, inclinando di poco il capo di lato. «D'accordo» mormorò «vado a... Recuperare un cappotto e una sciarpa. Torno subito».

Feci solo in tempo ad annuire e a passarmi una mano sul viso, prima del suo ritorno. Il “torno subito” di Hazel equivaleva a dieci secondi, come tempo massimo. Aveva in mano una sciarpa turchese e già addosso un soprabito nero e pesante, lungo fino alle ginocchia.

«Oh, e anche questo» esclamai.

«Questo cosa?».

«Lo... Smaterializzarti da una parte e l'altra in qualche istante: oggi non esiste».

Trattenne a stento una risata. Evidentemente, nel dare ordini non ero così convincente e mi stavo pure sforzando nel sembrare almeno lontanamente credibile. Lei, tuttavia, decise di accordarmi, annuendo ripetutamente ad ogni cosa che dissi da lì in poi. Probabilmente la stavo facendo divertire con la mia goffaggine persino nel formulare qualche frase dal tono categorico.
Mi morsi nervosamente il labbro inferiore, mentre in modo distratto indossavo il mio cappotto grigio. Uscimmo di casa dopo qualche minuto, passando – rigorosamente – dalla porta e usando – per forza – l'ascensore e camminando – obbligatoriamente – a passo moderato.

***
 

Uno di fianco all'altro, per strada, tra la gente che correva un po' ovunque, chissà verso quale meta.
Io ogni tanto guardavo il viso di Hazel e i suoi occhi impegnati a scrutare ogni angolo della città, quasi vedesse tutto ciò per la prima volta, sebbene non fosse - e non potesse essere - effettivamente così.

Ero pressapoco sicuro che lei facesse lo stesso quando io non la fissavo, ma i nostri sguardi non riuscirono mai ad incrociarsi. 
I fiocchi di neve cadevano radi sulla città. La bufera era in procinto di cessare o, molto probabilmente, sarebbe solo stata in pausa per qualche ora.
Strada facendo, mi venne in mente il posto preciso nel quale mi sarebbe piaciuto portarla. Distava un po' da Chicago: dovemmo prendere il treno e sottoporci ad un mini-viaggio di un'ora e mezza per arrivare a destinazione. Quasi rimpiansi il fatto di aver vietato la smaterializzazione da un posto all'altro; ma non sarebbe stato un giorno normale, dopo tutto.

Durante quel non breve tragitto, non ci furono molte parole. Lei continuò a chiedermi dove avevo intenzione di portarla e io raggiravo una possibile risposta come potevo, per quanto ne fossi effettivamente capace.

Il tempo calcolato fu esatto; il treno non fece nemmeno un minuto di ritardo e ci ritrovammo alle porte di Bellwood, un piccolo paesino di campagna, circondato da prati ricoperti di neve e albi spogli e grigi.

«Dove siamo?» mi chiese Hazel, mentre la conducevo lungo l'unico sentiero libero dal manto bianco. «Bellwood» replicai, guardandomi distrattamente attorno. «Quando ero piccolo, venivo qui con i miei genitori a trascorrere le vacanze di Natale. Ci abitavano i miei nonni paterni, per cui...».

«E' un posto un po' desolato».

«Lo è. Ma... Quando venivamo qui, tutto sembrava essere magico. La mia famiglia era più unita che mai e io riuscivo a passare del tempo con mio padre. Si prendeva una pausa dal lavoro solo a Natale ed era... La parte migliore dell'anno».

Sentii una sua mano raggiungere la mia, come accadeva praticamente sempre, il che mi portò a fermarmi, per guardarla negli occhi. Mi stava fissando, sbattendo piano le palpebre, in quel modo incantevole che solo lei riusciva a fare. E io, sì, davo terribilmente importanza e rilevanza ad un gesto che al parere degli altri sarebbe risultato superfluo e del tutto irrilevante.

«Ti manca?» sussurrò. «Tuo padre».

Sospirai. «Un po'» risposi, a bassa voce. «Ma se ne è andato, ha scelto lui di farlo e va bene così». Tagliai corto. Parlare di mio padre poteva solamente distruggere e atterrare il mio umore, che si sforzava di essere euforico. «Non è per questo che ti ho portata qui» continuai, allora.

«E perché lo hai fatto?».

«Per questo».

Indicai con lo sguardo ciò che si estendeva poco distante da noi: un'immensa lastra di ghiaccio; bianco, candido e pulito, circondato da una schiera di alberi tutto attorno, quasi fungessero da guardie a quello specchio d'acqua solida.

«Che cos'è?» domandò Hazel. «Un lago» replicai «quando fa caldo. D'inverno è solamente ghiaccio. Ci venivo a pattinare con mio padre ed era... Piuttosto divertente».

«Vuoi pattinare?».

«Quella era l'idea».

«Non abbiamo portato i pattini».

«Oh, non ci servono».

«Non...».

Non le feci terminare la frase, non gliene diedi il tempo. Riuscii a sollevarla da terra, caricandomela in spalla, tra le sue e mie risate. Avanzai – senza correre, altrimenti saremmo capitolati a terra nel giro di pochi secondi – verso il lago ghiacciato e solo lì, dopo un giro fatto su me stesso, le permisi di reggersi in piedi da sola.

Beh, forse “reggersi” era una parola troppo grossa in quel momento. Stare in piedi sul ghiaccio con le scarpe da ginnastica era più che un'impresa, ma era anche la parte più divertente.
Ero ben consapevole che non era nulla di così speciale, tuttavia era ciò che per me si avvicinava di più all'essere normale e allo stare bene; quello era lo scopo della giornata.

Per di più, ridere con lei fu... Magico e incantevole.
Non importò il fatto che ci ritrovammo a terra un sacco di volte, che non riuscimmo a percorrere più di cinque metri sul ghiaccio. L'importante era stare insieme, sentirci quasi come una coppia di ragazzi, di adolescenti che cercavano il divertimento ovunque e per un po' fu davvero così.
Fu più di così. Ci fu un momento, uno dei pochi in cui riuscimmo a restare fermi, in piedi, l'uno di fronte all'altro, in cui i nostri sguardi si fusero. Diamanti verdi dentro diamanti azzurri. Mi mancò il fiato, complice il freddo dell'aria e il calore del suo corpo.
Le sue labbra furono un richiamo, come non accadeva da parecchio; un richiamo dolce e soave, quasi come una canzone di una sirena, quelle voci lievi che incantavano i marinai, secondo varie leggende.

Per me, in quel momento, Hazel era così: era la mia sirena, che mi richiamava e mi incantava, e io, come sempre, ne ero succube.

Appoggiai una mano sul suo collo sottile e sfiorai la punta del suo naso con la mia.

Le nostre bocche si sarebbero toccate, mancava così poco, ma, prima che potesse accadere, vidi il suo sguardo abbassarsi. Di riflesso, compii il medesimo gesto, che mi portò a fissare l'amuleto che avevo al collo.

Una strana luce lo illuminava e voleva dire – purtroppo per noi – una sola cosa.

Non feci nemmeno in tempo a metabolizzare l'idea che un Divoratore di anime fosse nei paraggi, che il suono di una voce, chiara e limpida, mi fece rabbrividire.

«Oh, ma che cosa romantica».

Sebastian stava in piedi, fermo e stabile, con le mani nelle tasche dei pantaloni scuri che indossava, a poca distanza da noi. Non appena terminò la frase, Hazel, prontamente, si parò davanti a me, tenendo una mano sul mio braccio, a mia protezione.
Nonostante si sforzasse in tutti modi di farmi da scudo con il proprio corpo, non avrebbe mai potuto coprirmi completamente la visuale. Riuscii chiaramente a scorgere il sorriso sarcastico di Sebastian, il suo capo appena piegato di lato e la sua espressione divertita dai gesti della sorella.

«Andiamo, non serve essere così protettiva, Haz» esclamò il biondo e, per quanto mi riguardava, avrei voluto solamente prenderlo a pugni in faccia; ovviamente, non ci provai neanche, perché sarei morto solo compiendo un passo nella sua direzione. «Se avessi voluto ucciderlo, lo avrei già fatto» continuò.

Era quello che credevo anche io, non contando il fatto che ci avesse già provato.

«Vuoi davvero andare avanti con questa cosa per l'eternità, Sebastian?» esclamò Hazel e sentii le sue dita premere sulla mia pelle.

«No, non lo voglio» replicò lui «ecco perché sono qui: per mettere fine a tutto questo una volta per tutte».

Deglutii rumorosamente: in qualsiasi piano fosse stata messa tale affermazione, non avrebbe mai portato a qualcosa di buono, specialmente se detta da qualcuno del suo malvagio calibro.

«Tu prova solo a sfiorarlo e io...». Le parole di Hazel vennero brutalmente interrotte dal fratello: «Non ho alcuna intenzione di annientare il tuo giocattolino per l'ennesima volta, perché, parliamoci chiaro, ce ne sarà sempre un altro come rimpiazzo e dopo un po', diventa una cosa noiosa». Fece una breve pausa e, nel frattempo, avanzò di un passo. «Sai che quel che fai è sbagliato, sorellina» continuò «ma lo fai lo stesso, lo fai da secoli ed è giunta l'ora che tutto questo trovi il suo epilogo».

Fu del tutto impossibile per me comprendere il suo discorso e, dall'espressione che Hazel assunse, capii che quanto anche lei fosse confusa.
Se era davvero così facile metter la parola fine alla loro faida, perché non lo aveva mai fatto?
Non presi in considerazione l'ipotesi che, per Sebastian, la fine di qualunque cosa era nel sangue. Poco dopo, infatti, lo vidi estrarre da sotto la giacca di pelle quel che sembrava essere un pugnale, lungo, argentato e affilato, con degli strani simboli sul manico: spirali e croci, per la maggiore.
Quando Hazel se ne accorse, irrigidì e mi tirò di più a sé, in modo che la sua schiena aderisse al mio petto.

«Che succede?» osai domandare, sebbene ciò che mi uscì di bocca suonò più che altro come un lamento.

«Paura, sorellina?» sibilò Sebastian. Lei non rispose, né a me, né tanto meno al fratello, e mi parve di sentirla tremare. «Il pugnale di Eleksha, l'unica arma in grado di uccidere un Divoratore di anime». Lui andò avanti e a quel punto tremai anche io.

«Stai mentendo» disse Hazel, tra i denti. «E' solo una leggenda. I Divoratori non possono essere uccisi da niente».

«Ah, sì? Vogliamo provare?». Sebastian,accarezzò la lama del pugnale con disinvoltura e sorrise; un sorriso del tutto diabolico, malvagio, che fece calare un silenzio assordante.
Io avevo una tremenda paura e non per me stesso, anche se ero pressapoco sicuro che se lui avesse deciso di uccidere la sorella, quasi certamente avrebbe fatto lo stesso con me. Ma, per la prima volta, temetti per Hazel, solo ed esclusivamente per lei, sebbene il mortale, il più vulnerabile, per logica, fossi io.
Tuttavia, Hazel non era mai propensa a preoccuparsi della propria incolumità. Anche in un momento del genere, quando era lei ad essere in pericolo, pensò a me. La vidi voltarsi appena, scorsi i suoi occhi verdi diventare rossi in una frazione di secondo e farsi lucidi, colmi di lacrime che si sforzava di non versare.
«Mi dispiace» mormorò, in maniera a malapena percettibile. «Cosa?» biascicai, scuotendo nervosamente la testa. Non ottenni nessuna replica. Lei mi spinse via, con forza e, in un battito solo di ciglia, non mi trovavo più sul lago di Bellwood, ma a terra, sul pavimento di casa di Martha.

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Capitolo 13
*** Figure 8. ***


Capitolo 13
"Figure 8"


«Simon?».

Riuscii a sollevare a stento lo sguardo e mi ritrovai davanti la faccia perplessa di Martha, che mi fissava con occhi spalancati. Poco distante da lei, scorsi un'altra figura, una ragazza dai capelli rossi, che non riconobbi. Non mi sforzai nemmeno di capire chi fosse, forse perché, in quel momento, poco mi importava.

«Hazel» biascicai, mettendomi goffamente in piedi. «Hazel cosa?» esclamò Martha, con fare isterico.

«Eravamo... Noi eravamo sul lago e... E Sebastian ci ha trovato e così lei...». Stavo balbettando ed era terribilmente frustrante. Succedeva ogni volta che venivo assalito dal panico e, in quell'ultimo periodo, esso sembrava esser diventato il mio nuovo migliore amico.
«Dove sono?» disse la bionda, serrando le labbra. Non riuscii a rispondere subito, o perlomeno, non nel breve tempo in cui durò la sua pazienza. Martha mi scosse vigorosamente, tenendomi per le spalle. «Dove, Simon?» ripeté, seria.

«Sul lago di Bellwood. E' ad un'ora di...».

Non mi lasciò finire. «Preparati, Tamara».

La ragazza dai capelli rossi annuì alle parole della Divoratrice. Io non ebbi il tempo di dire altro, che Martha scomparve.
Rimasi fermo e immobile al centro del salotto, lì dove ero - di fatto - apparso dal nulla. Vidi Tamara – a quanto pare quello era il suo nome – sfogliare freneticamente un grosso libro, dalle pagine gialle e più che consumate. Avrei voluto chiederle che stesse facendo, chi fosse, perché era in quel posto, ma, ovviamente, nessuna parola di senso compiuto uscì fuori dalla mia bocca. Restai, semplicemente, in silenzio, in attesa di chissà cosa, con il cuore che mi batteva a mille e che, molto probabilmente, era vicino all'uscirmi dal petto e rotolare sul pavimento.
Pensieri caotici mi vagarono nella testa, senza né logica né ordine e tutto divenne ulteriormente più confuso quando Martha riapparve, tenendo Hazel, scossa da tremori, tra le braccia.

«Ora!» urlò e Tamara prese a recitare dei versi di quello che mi sembrò essere latino. Non mi preoccupai molto di lei. Il mio sguardo andò subito a cercare i lineamenti di Hazel, che intanto era stata adagiata sopra ai cuscini del divano bianco.
Tentai di avvicinarmi, a passo lento, ma Martha mi urlò di stare indietro e, purtroppo, capii subito il perché. Voleva evitare che vedessi coi miei occhi ciò che Sebastian aveva fatto alla sorella e non era nulla di buono.
Ma non ebbe successo. 
Hazel stava sanguinando e non poco. Una ferita profonda si apriva sul suo addome e quel liquido rosso non sembrava cessare di fuoriuscire, copioso. Le mani di Martha cercavano di porre rimedio a tutto, invano.
A me mancava il fiato. Mi sentivo del tutto debole e impotente. Hazel sprofondava nell'agonia e io non potevo aiutarla in nessun modo.

«Dimmi cosa fare» supplicai. Fui pressapoco sicuro che le lacrime riuscirono a raggiungere i miei occhi. «Ti prego, dimmi... Dimmi cosa fare».

Non ottenni nessuna risposta, anzi, sembrai scomparire da quella stanza, perché nessuno mi diede più retta. Tamara continuò a recitare quelle strane – e alle mie orecchie, prive di senso – parole, in modo sempre più acuto.

Mi morsi forte il labbro inferiore e rischiai di sanguinare anche io. Strinsi i pugni lungo i fianchi e cercai di non farmi tremare troppo il petto.

La vista mi si annebbiò per qualche istante, sbattei più volte le palpebre.

All'improvviso, così come era iniziato, il caos finì.

Tamara tacque e il silenzio fu rotto solo da gemiti lievi di Hazel. Vidi Martha rimettersi in piedi e venirmi incontro.

«Ho bisogno che tu stia con lei» sussurrò.

«Sta... Sta bene?» biascicai.

«E' stata meglio, ma la ferita si sta rimarginando. Io devo parlare con Tamara e sistemare delle faccende. Puoi restare con lei, per favore?».

Mi limitai ad annuire. «Qui siete al sicuro» continuò. «Ho fatto sigillare un incantesimo di protezione su questa casa, perciò, finché rimarrete qui dentro, Sebastian non potrà trovarvi».

Feci nuovamente cenno di sì con la testa, ma non riuscii a replicare a parole. Martha, a quel punto, si spostò, raggiungendo l'amica dai capelli rossi e, insieme, abbandonarono il salotto.

Io ci misi più di qualche secondo a compiere un solo passo in direzione del divano. Mi fermai a meno di metro da esso, trattenendo il respiro. Hazel aveva gli occhi socchiusi e sollevò a stento le palpebre per guardarmi. Sforzai un sorriso, per nulla convincente, e mi inginocchiai al suo fianco, cercando di ignorare i cuscini sporchi di rosso e la sua maglietta impregnata di sangue.

«Sto bene, Simon» mormorò, con un filo di voce.

«Fino a poco fa, non sembrava affatto» replicai, con lo stesso tono.

«Non posso morire, ricordi?».

Risi, sarcastico e privo d'entusiasmo. Dovevo aspettarmi che lei non sarebbe rimasta per troppo quella debole o, perlomeno, non avrebbe voluto sentirsi tale per più di dieci minuti. «C'ero anche io sul quel lago, con Sebastian» dissi, riuscendo a non inciampare sulle mie stesse parole. «Ho sentito quel che ha detto e ho visto quel che ti ha fatto. Sei stata ferita in maniera piuttosto grave, per cui, per favore, non pretendere che io non sia scosso e soprattutto preoccupato per te».

«Non voglio che ti preoccupi, non... Io sto bene, davvero».

«Se Martha non fosse venuta a salvarti, lui ti avrebbe uccisa».

«Ma non è successo».

«Avrebbe potuto succedere, dannazione, tu non...». Mi stavo innervosendo e, soprattutto, arrabbiando. Ero arrabbiato, furioso con lei che continuava a far finta che nulla di grave fosse successo, quando in realtà era tutto il contrario. Lo faceva per proteggermi, ovviamente, per farmi stare bene, ma non riusciva a capire che, facendolo, ciò che otteneva era soltanto farmi sentire più che inutile.
Mi passai una mano sul viso, più volte, cercando di calmarmi, almeno un po'. «Tu non ti preoccupi di te stessa, Hazel» dissi, nervosamente. «Non lo fai nemmeno per un secondo, pensi sempre agli altri, pensi sempre a me e lo trovi dannatamente normale e allora perché... Perché non è normale che io sia terribilmente in ansia se la mia ragazza sta male?».
Lei mi fissò, con la bocca aperta e gli occhi socchiusi. La vidi abbozzare un sorriso, genuino e unico, mentre io mandavo giù a fatica la saliva.

«Vieni qui» mormorò, scostandosi appena sul divano, per farmi posto.

«Non... Non credo sia una buona idea» balbettai. «Sei ancora debole e...».

«Vieni qui e abbracciami, Simon. Per favore».

Esitai per qualche secondo, ma alla fine, come sempre, dovetti arrendermi ai suoi diamanti verdi, che mi supplicavano. Così mi alzai, lento, e la raggiunsi sui quei cuscini bianchi sporchi di rosso, ignorando con più facilità il sangue. Mi sdraiai al suo fianco, permettendole di poggiare la testa sulla mia spalla.

«Sono davvero la tua ragazza?» disse, a bassa voce e riuscii a percepire il suo respiro lieve sulla mia pelle. Abbozzai un sorriso e dopo poggiai le labbra sui suoi capelli scuri. «Già» sussurrai.
Sebbene lo avessi detto di getto, era quel che pensavo. Lo facevo prima di scoprire la sua natura e il mio inconscio aveva solo rimosso quell'idea nel mio periodo di crisi, ma non era mai scomparsa del tutto. Hazel – o Johanna – era la mia ragazza e non c'era nessun altro posto in cui avrei voluto stare, se non accanto a lei.
 

***

Aprii gli occhi a pomeriggio inoltrato. Il sole era appena tramontato e ogni cosa si era colorata di arancione, attendendo con pazienza il buio della notte.
Mi passai una mano sul viso, rigirandomi sui cuscini morbidi del divano. Ero rimasto solo lì. Probabilmente mi ero addormentato e Hazel ne aveva approfittato per sgattaiolare via. Non che fosse andata molto lontano; nemmeno poteva, del resto.
Mi alzai goffamente in piedi e tentai di rendere i miei vestiti meno stropicciati di quanto in realtà fossero. Udii dei rumori provenire dalla cucina. Doveva essere lei, per forza di cose, anche perché Martha sembrava trovare sempre delle scuse per stare fuori casa. Lo faceva da due giorni e non me ne spiegavo il motivo.
Quando raggiunsi la nuova stanza, vidi Hazel in piedi, di spalle, davanti alla finestra, con addosso una camicia da notte bianca con ornamenti di pizzo. Non era molto il suo stile; molto probabilmente le era stata prestata dall'amica.

«Avresti dovuto riposare, lo sai, vero?» esclamai, fermandomi sulla soglia della porta. La sentii ridere. «Sono rimasta ferma su quel divano per due giorni» replicò «con te che mi servivi e riverivi. Direi che è un tempo sufficiente». Si voltò, allora, sorridendomi dolcemente. «La ferita è scomparsa» continuò e, nel frattempo, avanzò verso di me. «Sto bene, ora, e non lo dico solo per farti contento».

«Questo è un bel passo in avanti».

Ormai mi era arrivata vicinissimo. I nostri volti distavano solo qualche centimetro e io riuscivo chiaramente a percepire il suo caldo respiro sulla mia pelle.

Nei due giorni passati, non avevamo avuto occasione di parlare del quasi bacio di riappacificazione sul lago; o meglio, nessuno dei due aveva avuto il coraggio di tirar fuori tale argomento, forse preso dalla preoccupazione reciproca e da tutta la situazione che si andava creando attorno a noi.
Non avevamo parlato e non avevamo agito. Eravamo semplicemente fermi, come all'interno di una bolla di sapone, con il timore di muoverci e farla scoppiare.

«Martha mi ha dato il permesso di farti vedere una cosa» sussurrò Hazel ad un tratto, quando ogni mio istinto represso in quei giorni per portarmi a baciarla era quasi del tutto incontenibile.

«Che cosa?» chiesi, fissando – non volendolo consciamente – le sue labbra. Lei abbozzò una risata, prima di prendermi per mano e trascinarmi via dalla cucina, lungo i corridoi di quell'immenso attico.

Ci fermammo solamente quando raggiungemmo una stanza dalla porta rossa e lì entrammo. Non ci avevo mai messo piede, così come nelle altre – forse dieci – camere.
Era un luogo molto grande; i soffitti alti, completamente bianchi, come le pareti: candide e prive di imperfezioni. Non c'era molto mobilio, solo un grosso letto a baldacchino, dalle lenzuola turchesi, avvolto in un tulle dello stesso colore, solamente di qualche gradazione più chiaro.

«Questo cos'è?» chiesi, anche se la risposta era piuttosto ovvia. Hazel rise di nuovo e saltellò in direzione del letto. Si fermò con le spalle al muro, osservandomi da distanza, con la testa inclinata di lato. «Che città ti piace?» esclamò, ignorando la mia domanda.
Non capii il senso della sua. Mi morsi piano il labbro inferiore, muovendo qualche passo nella sua direzione. «Non lo so» dissi «me ne piacciono parecchie».

«Scegline una. Avanti: New York, Londra... Tokyo?».

«Parigi».

«Parigi è una bella scelta».

Realizzai solo allora, quando le luci si abbassarono e le pareti cominciarono a colorarsi, il perché mi avesse posto una domanda del genere. Sui muri bianchi, quasi per via di un incantesimo, cominciò a delinearsi il profilo di Parigi: case illuminate, strade trafficate, la Tour Eiffel. Mancavano solo i suoni della città e le voci di gente francese, e quell'illusione sarebbe stata perfetta.

«E' un'installazione di Martha» esclamò Hazel, distogliendomi dal contemplare con lo sguardo quella meraviglia che si era creata attorno a noi. «Dice che le piace essere ogni giorno in una città diversa» continuò «anche se potrebbe effettivamente spostarsi, è troppo attaccata alla sua vita da semi-umana per andarsene in giro per il mondo. Così ha creato tutto questo e direi che...».

«E' magnifico» completai per lei la frase.

«Lo è».

A quel punto, il mio istinto, il mio desiderio, non erano più soli. C'era la magia di Parigi, c'erano i suoi occhi verdi che mi fissavano, la luce soffusa. Solo uno stupido sarebbe rimasto fermo. Molto probabilmente, ciò che ero tre mesi prima, il Simon di tre mesi prima, sarebbe restato immobile, a fissarsi i piedi; ma non c'era tempo per non muoversi.
Compii un solo passo e le fui – praticamente – addosso. Poggiai una mano sul suo fianco, l'altra sul suo collo e premetti la bocca contro la sua. Le nostre lingue danzarono e si attorcigliarono l'una con l'altra, mentre la sua schiena aderiva perfettamente al muro e io la sollevavo da terra, accarezzando lieve le sue cosce. Le sue mani si infilarono tra i miei capelli, tirandoli appena – come d'abitudine.
Ringraziai mentalmente Martha per non essere in casa e qualcosa mi suggerì che quello fosse proprio il suo intento: lasciarci soli, solo che, fino a quel momento, non avevamo proprio colto una delle mille occasioni avute.
Mi spostai lento, senza perdere il contatto con le sue labbra, sull'alto e morbido materasso. Adagiai Hazel sul letto, facendola sdraiare, con me sopra.
I nostri corpi erano come un magnete ed una calamita: si attiravano inesorabilmente l'uno all'altro, si cercavano, si accarezzavano e aumentavano di temperatura.
Mai come allora fui bruciato dalla passione, ma forse era un metodo per la mia redenzione: per averla trattata male, per averla respinta senza ragione. Donarle me stesso, per farmi perdonare, sebbene lei lo avesse già fatto, più di una volta.
I vestiti ci scivolarono di dosso. Io la spogliavo, lei mi spogliava, in gesti complici, meccanici, come se da un mio movimento ne dipendesse uno suo, uguale e contrario.
In quel momento, le perenni domande su cosa sarebbe successo, se mai avremmo avuto un futuro, sui pericoli che avremmo corso quando l'incantesimo di protezione sarebbe cessato, svanirono. Scomparvero del tutto, in quell'angolo di paradiso, nell'illusione di Parigi, nella nostra bolla tranquilla e serena, almeno fino alla mattina successiva.

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Capitolo 14
*** Happiness. ***


Capitolo 14
"Happiness"


Si dice che la felicità sia quello stato d'animo, assolutamente positivo, che deriva dalla piena soddisfazione dei propri desideri.
L'essere umano, per la propria indole, è spinto costantemente alla ricerca della felicità, quasi fosse il solo scopo della vita. Non è un emozione oggettiva, né casuale. E' qualcosa di estremamente soggettivo, perché, per ovvie ragioni, ognuno di noi ha sogni e bisogni diversi.

Per quel che mi riguardava, in quel momento, stare con Hazel era il mio desiderio, ed essere sdraiato con lei che poggiava la testa sul mio petto, entrambi ricoperti da spesse lenzuola blu, la mia felicità.

«Devo farti una domanda» la sentii sussurrare, mentre lieve mi accarezzava il collo coi polpastrelli. «Falla pure» replicai, abbassando lo sguardo, in cerca del suo. Hazel aveva ancora il capo basso e solo quando lo sollevò, riuscii ad incrociare i suoi occhi. «Non stai pensando a Jason, vero?» chiese, mordendosi appena il labbro inferiore. Accennai una risata. «Assolutamente no» esclamai e la feci scivolare più su, in modo che le nostre labbra potessero scontrarsi ancora una volta, come avevano fatto per tutta la notte.

«Tu occupi completamente i miei pensieri, lo giuro».

«Volevo esserne certa».

Hazel appoggiò i gomiti ai lati della mia testa, sul cuscino, e io presi ad accarezzarle piano la schiena nuda, percorrendo con le dita la linea della colonna vertebrale.

«Non riesco a credere che questo stia succedendo» mormorò, sfiorandomi i capelli.

«Questo cosa?».

«Tu».

«Io?».

Annuì e strisciò nuovamente all'indietro, sul mio corpo, così che potesse appoggiare un orecchio sul mio petto e, a suo dire, lasciarsi cullare dai battiti regolari del cuore. Io continuai le carezze sulla schiena, come se fosse un gesto ormai automatico.

«Credi sia possibile che un essere programmato per non sentire nulla, all'improvviso senta tutto?» sussurrò. Fissai il soffitto per un attimo e capii subito a cosa si stesse riferendo. Il suo “mi fai sentire umana” era un tatuaggio impresso sulla mia pelle. «Credo che tutto sia possibile» replicai, a bassa voce.

«L'ho fatto altre volte» continuò, con lo stesso tono. «Parlo del... Dell'andare a letto con qualcuno, ma... Non è mai stato così... Intenso». Fece una breve pausa, durante la quale sollevò la testa e mi guardò, sbattendo piano le palpebre. «E se tu avessi fatto nascere le mie emozioni? Delle vere emozioni».

«Sarebbe qualcosa di... Davvero grosso».

«Lo so». Rimase di nuovo in silenzio per qualche secondo, mordendosi piano il labbro inferiore. «Forse mi sto illudendo che sia così, perché sarebbe la via più semplice e bella».

«E' quello che gli umani fanno».

«Fanno cosa?».

«Vivono nell'illusione. Vivono... Nell'attesa, di chissà cosa. Passano il tempo a sperare che qualche avvenimento stravolga loro la vita, che all'improvviso possano essere davvero felici e, certe volte, si illudono che sia così». Una mia mano si fermò su uno dei suoi fianchi, mentre l'altra si appoggiò sul suo collo, sollevandola lentamente, a far tornare i nostri visi l'uno davanti all'altro, vicini.

«Per quanto mi riguarda, tu sei molto più umana di chi umano lo è davvero. Alcuni danno le emozioni per scontate e finiscono per perderle».

Hazel tremò appena e poi si sporse verso di me, baciandomi delicata sulle labbra. «Non mi lasciare mai. Intesi?»

«Non credo di essere in grado di lasciarti andare».

Fui io a baciarla, quella volta. La tirai di più nella mia direzione, stringendola a me, forte, e scivolando sul materasso, ribaltando le nostre posizioni, finché non le fui io sopra, per sprofondare di nuovo l'uno dentro l'altro.
 

***

Aprii gli occhi quando il sole era già alto nel cielo. Scorsi la sua luce da uno spiraglio della finestra socchiusa. Doveva essere mezzogiorno o comunque un'ora molto vicina. Hazel non era accanto a me, rimaneva solo il suo profumo alla vaniglia sulle lenzuola.
Mi passai una mano sul viso, mentre distrattamente indossavo i miei vestiti, sparsi un po' ovunque per la stanza. Ancora assonnato, abbandonai la camera da letto e barcollai per i corridoi dell'enorme attico, fino alla cucina.
Mi aspettai di trovare lì Hazel o Martha, ma nessuna delle due era presente. C'era solo la ragazza dai capelli rossi, seduta al tavolo, intenta a torturare come meglio poteva il proprio cellulare, al quale avrebbe staccato i tasti, se solo li avesse avuti.
Ringraziai la mia coscienza per avermi convinto a metter addosso i pantaloni della tuta e una maglietta e per non aver optato solo per i boxer grigi.
Lei non si accorse della mia presenza, almeno finché non le sedetti di fronte e poggiai i gomiti sul tavolo. Sobbalzò, lasciandosi cadere il cellulare dalle mani. «Accidenti!» esclamò, socchiudendo gli occhi. Accennai una risata. «Tamara, giusto?» dissi.

«Già» replicò, scuotendo piano la testa. «E tu sei il famoso Simon».

«Famoso? Perché dovrei essere “famoso”?».

«Per avere una relazione con una Divoratrice di Anime, forse?».

«Si è famosi per questo?».

«Beh, sì. Non è una cosa proprio usuale, ma... Per fortuna avete qualcuno di assolutamente incredibile ed eccezionale come me a proteggervi il culo. Una vera fortuna, no?». Sorrise apertamente, ma riuscii comunque a scorgere un tono sarcastico nella sua voce. Evidentemente non era come Martha, a sostenere la mia relazione con Hazel.

Feci una smorfia e cambiai drasticamente argomento. «Hazel e Martha dove sono?» domandai.

«Sono uscite».

«Uscite? Sbaglio o non possiamo uscire da questa casa? Tipo... Tutti, tranne Martha, certo e...».

«Non sbagli, ma... Ricordi che avete una strega a pararvi il culo? Bene, faccio anche questo». Sbuffò e riprese a torturare il cellulare. «Hazel aveva bisogno di nutrirsi. E' quasi morta, santo cielo. Le ho dato un amuleto sigillato con lo stesso incantesimo che c'è sulla casa, solo che con oggetti piccoli, non dura più di un'ora. Ma, tranquillo, saranno di ritorno molto presto».

Sospirai. Tamara sembrava essere molto sicura di sé e, seppur scontrosa e sarcastica, faceva bene. Se Martha l'aveva contattata, voleva dire che era molto potente o, perlomeno, abbastanza forte per tenere a bada Sebastian, il che mi fece pensare che conoscesse molte cose, forse più degli stessi Divoratori.

«Posso chiederti una cosa?» esclamai, e la mia mente corse subito al discorso della notte precedente, in camera da letto, con Hazel.

Tamara sbuffò ancora e non accennò a mollare il telefono. «Tecnicamente lo hai già fatto, ma okay» disse. «Spara».

Mi venne voglia di prenderle il cellulare e scaraventarlo a terra, ma una vocina nella mia testa – sempre la stessa – mi suggerì di trattenermi e andare dritto al punto. «E' possibile che...» sussurrai «Che un Divoratore di Anime sviluppi dei sentimenti? Intendo, dei veri e propri sentimenti, non quelli derivanti dall'aver appena... Mangiato».

«No, non credo».

«Ne sei sicura?».

La strega, a quel punto, si decise a lasciar perdere il proprio telefono, che abbandono sul tavolo e mi guardò, facendo scintillare gli occhi color nocciola. «Perché ci tieni tanto a saperlo?» domandò.

Mi morsi piano il labbro inferiore. «Perché è ciò che Hazel desidera di più. Vuole essere umana e, se esiste un modo per renderla tale, io... Io voglio trovarlo».

Tamara abbozzò un sorriso e, quella volta, non fu per niente ironico o sarcastico. «Ci tieni veramente a lei, vero?».

«Sì, ci tengo».

Fece una breve pausa e sospirò. «Posso provare a cercare qualcosa, ma non ti assicuro niente. I Divoratori di Anime sono una specie molto complicata, esistono migliaia di leggende e storie su di loro, e nessuno sa quali di esse sia vera o falsa».

«Va bene, è... E' pur sempre una speranza».

La nostra conversazione fu troncata in quel momento, dopo quella frase, con il ritorno di Hazel e Martha, l'una di fianco all'altra, proprio accanto al tavolo. La prima non esitò più di qualche secondo a sorridermi e le tesi subito la mano, in modo da poter entrare in contatto, come sempre. 
Tamara mi lanciò uno sguardo, complice, mentre salutava Martha.
Non sapevo se ci fosse davvero una possibilità di rendere Hazel umana, ma, stranamente, sentivo di potermi fidare del tutto di Tamara ed ero certo che avrebbe trovato un modo, qualunque esso fosse stato.



 

_______________________________________________________________

Ehm, ehm.. Io sono una di quelle che evita sempre le note dell'autore a fine del capitolo, perché sono assolutamente pignola con le mie storie e le voglio tutte ordinate!
Comunque, faccio una piccola eccezione per questa volta, unicamente per ringraziare tutti coloro che hanno letto/recensito/apprezzato questa storia. Come ben sapete, mi riempie di gioia sapere che quel che scrivo piace, che tutto ha un senso e, sì, mi esalto quando ricevo nuove recensioni. Tipo tantissimo, okay. #viamotutti
Seconda cosa, vorrei augurare a tutti voi una buona Pasqua e felici vacanze *-*

Terzo - per chi non l'avesse capito - vi presento tutti i personaggi - clicca qui - in quest'ordine; Simon, Johanna/Hazel, Martha, Sebastian e Tamara.
Per adesso sono solo loro, non so se ne aggiungerò altri. Forse sì, forse no u_u''

#viamoancora <3

A presto,
Susy.

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Capitolo 15
*** Trust. ***


Capitolo 15
"Trust"



Si dice che la fiducia viaggi di pari passo con la speranza e che spesso queste due cose siano legate l'una all'altra a filo doppio e che si rafforzino a vicenda.
L'essere umano, tuttavia, non è mai molto propenso a donare la propria fiducia, che solitamente vive in un cerchio ristretto; a volte talmente ristretto che rimane fisso nella singola persona.
Fidarsi di qualcuno risulta un enorme sforzo per qualcuno. Capita anche di trovare soggetti refrattari alla fiducia e, in quel caso, il rapporto tra le due persone viene interrotto quasi automaticamente, senza che nessuno dei due se ne renda conto.

Io ero quel tipo di ragazzo che riponeva la fiducia in chiunque e qualunque cosa. Mia madre mi diceva sempre che ciò dipendeva dalla mia età, che col tempo avrei imparato come dosare la mia fiducia, a donarla solo a chi la meritava. Ma lei non aveva mai ragionato sul fatto che essa fosse compagna della speranza e io, di quella, ne avevo tanta.
Fu per tale motivo che mi fidai ciecamente di Tamara, sebbene, di fatto, non la conoscessi. Lei rappresentava la mia speranza, colei che mi avrebbe aiutato a trasformare Hazel in un'umana, che avrebbe trovato un modo per farlo, colei che avrebbe concretizzato la mia felicità.
Alzando scudi e muri a difesa, di certo non avrei ottenuto nessun risultato.

Iniziai a trascorrere molto tempo con la ragazza dai capelli rossi. Dal momento che non volevo che né Hazel né Martha scoprissero ciò a cui stavamo lavorando, approfittavamo della loro assenza mentre erano fuori a nutrirsi, il che accadeva ogni due giorni, per un'ora e mezza. Quando erano presenti, invece, comunicavamo tramite e-mail o sms.
Non che ci fossero molte informazioni da condividere, poiché ogni nuova strada che trovavamo, era un vicolo cieco e privo di senso. Ero comunque pronto a fallire, più di una volta: Tamara mi aveva avvisato. C'erano numerose leggende riguardo ai Divoratori di Anime, conoscerle e rintracciarle tutte era un'impresa da titani, poiché molte non erano conosciute nemmeno dai Divoratori stessi.
Io non ero molto bravo a mentire, anzi, ero pessimo, e nascondere ciò che stavo facendo – soprattutto ad Hazel – fu atroce. Ma non potevo rivelarle nulla, perché lei mi avrebbe chiesto di interrompere le ricerche perché troppo pericoloso, di non immischiarmi in cose più grandi di me e io, mio malgrado, sarei stato costretto a darle retta.

«Tanto prima o poi lo scoprirà» si era lamentata Tamara «insomma, è pur sempre della sua natura che stiamo parlando!».

In fondo, aveva ragione. Tuttavia, preferii continuare ad avere quel segreto, almeno per un po', convincendomi che era tutto a fin di bene.


***


Quel pomeriggio era uno di quelli in cui Martha e Hazel erano assenti, entrambe protette dai loro amuleti anti-Sebastian, in giro chissà dove, a nutrirsi. Probabilmente erano dall'altra parte del mondo, in quel momento, sebbene Chicago non fosse propriamente in carenza di suicidi.
Io ero concentrato a fissare la rossa che decifrava codici vecchi di secoli, in una lingua che, a mio parere, era morta una decina di volte. Avrei voluto chiederle se c'erano novità ogni due secondi, ma ero pressapoco sicuro che mi sarei beccato un calcio negli stinchi se solo avessi aperto bocca e l'avessi deconcentrata – e già era successo. Così mi limitai a giocherellare distrattamente con una matita in mano, mentre lei rimaneva piegata su un grosso libro dalle pagine consumate con sopra strane tracce di inchiostro – l'alfabeto della lingua morta e a me sconosciuta, in pratica.

«Puoi, per favore, stare fermo con quella matita?» quasi urlò Tamara. «Qualcuno sta cercando di decifrare un codice antico di millenni».

Sbuffai, poggiando i gomiti sul tavolo. «Riesci a capirci qualcosa?» osai chiedere.

«Sto cercando di farlo».

«Ma...».

«Ma non credo che io possa riuscirci, se continui a parlarmi».

«Ho tenuto la bocca chiusa fino ad ora».

«Bene, fa' lo stesso per un'altra mezz'ora!».

Feci una smorfia, pronto a ribattere, perché, sì, anche i battibecchi facevano parte del pacchetto “passa il tempo con Tamara”; avevamo proprio l'aria di fratello e sorella, ad attaccarci su tutto, senza motivo. Tuttavia, non ne ebbi propriamente il tempo, poiché lei scattò in piedi, cominciando a fare su e giù per l'ampia cucina. «Non posso crederci» mormorò, tra sé. «Non posso crederci!».
Mi alzai anche io, di riflesso, cercando di seguirla in quel camminare privo di logica, ma mi arresi quasi subito, rimanendo fisso in un punto, a osservarla solo compiere quei movimenti frenetici. «Cosa? A cosa non puoi credere?» domandai.
Tamara si fermò di scatto di fronte a me. «Sono un genio!» esclamò. «Sono un dannato genio!». Sospirai appena. «Lieto di scoprire che la tua autostima ha superato di gran lunga i livelli consentiti» commentai.

«Oh, certo che lo sei, perché l'ho trovato!».

«Che hai trovato?».

«Ho trovato come rendere i Divoratori umani, razza di idiota!».

Un sorriso mi si delineò sulle labbra a quelle parole, mentre una strana sensazione mi attanagliò lo stomaco, la stessa che capitolava solo in presenza di Hazel. Fui estremamente e irrimediabilmente felice, tanto che ascoltai in modo palesemente distratto il proseguire del suo discorso. «Qui dice che si tratta di una leggenda, ma considerati gli ultimi avvenimenti, sappiamo quanto possano essere di fatto vere. Non è complicato, insomma, dice che è qualcosa che c'entra con l'amore umano o robe simili. E' una cosa graduale, molto graduale, come una lenta iniezione di sentimenti nel corpo della creatura oscura. Non si sa come questo processo venga innescato, né perché, e non può capitare a tutti, ma parla di alcuni soggetti che sono realmente cambiati e hanno vissuto una splendida vita umana, per cui è tutto...».
Non le diedi il tempo di finire. La mia gioia era troppo per essere contenuta, così mi buttai, letteralmente, addosso a lei, facendole cadere il libro di mano, e la abbracciai, stringendola forte e non smettendo di sorridere.

Il tempismo non era mai stato mio compagno, anzi, il più delle volte gli piaceva ficcarmi in situazioni ambigue e fraintendibili, proprio come accadde in quel momento, quando Hazel e Martha tornarono e videro l'abbraccio, ai loro occhi privo di senso.
Ero troppo su di giri per inventare altre bugie, per cui, staccandomi da Tamara, mi limitai a continuare a sorridere e salutai entrambe con un – quasi patetico – «Hey!».
Tamara si affrettò a raccogliere i libro e i fogli da esso caduti da terra e, distrattamente, la aiutai. Scorsi di poco e di sfuggita il viso di Hazel, su cui si era stampata un'espressione strana, assente, che mai le avevo visto addosso.
Tuttavia, non mi impuntai troppo. Appena avrei avuto la conferma della leggenda trovata dalla strega – sì, avevo bisogno di conferme o almeno di una rilettura che non comprendesse la mia troppa euforia che mi faceva perdere il senno - le avrei raccontato ogni cosa. Per il momento, però, mi convinsi a tacere.
Lo feci per tutto il resto della giornata e non fu nemmeno difficile. Quando Tamara se ne andò, nessuno più aprì bocca. Nemmeno Martha, che si limitava, dall'altra parte del salotto, a lanciarmi occhiatacce piuttosto minacciose – a suo parere; dal mio punto di vista, non avrebbe mai potuto intimorire nessuno con gli occhi da cerbiatta che si ritrovava.
Hazel, invece, rimase sulle sue, con le cuffie dell'Ipod nelle orecchie, stesa sul divano, e sguardo rivolto al soffitto. Che se la fosse davvero presa per quell'abbraccio?

Il cellulare che mi ostinavo a rigirare tra le mani, tanto per avere qualcosa da fare, squillò, mentre cercavo un modo per interagire con lei.
Era un messaggio da parte di Tamara: “Ho tradotto la parte della leggenda che mi mancava. E' tutto vero, ma per completare la trasformazione serve una chiave, che il libro, purtroppo, non specifica. Continuerò a cercare. Ti tengo aggiornato”.

Abbandonai il telefono sopra la poltrona e raggiunsi Hazel sul divano, inginocchiandomi al suo fianco. Tirai con un dito il filo degli auricolari e le tolsi una cuffia dall'orecchio, così che potesse sentirmi parlare. A quel punto, tenere il segreto non era più una via ottimale. “E' pur sempre della sua natura che stiamo parlando”. La mia coscienza citò Tamara, imitando palesemente il tono della sua voce.

«Stai bene?» chiesi. Domanda assolutamente formale e, di nuovo, al limite del patetico. Non che avessi fatto realmente qualcosa di male, ma forse il fatto di averle mentito per giorni interi, seppur a fin di bene, poneva un grosso e pesante peso sulle mie spalle.

«Benissimo» replicò lei, rivolgendomi distrattamente lo sguardo.

«Sicura? Non mi parli da tutto il giorno, a stento mi guardi. Ho fatto qualcosa di sbagliato?».

«No, non hai fatto niente di sbagliato».

Da come si comportava, dava tutta l'impressione di essere gelosa e, per un attimo, mi venne da ridere. Tuttavia, più di un sorriso non riuscii a fare, poiché, pian piano, sebbene Tamara me lo avesse confermato per messaggio, la parola “leggenda” svaniva dalla mia mente, per lasciar posto alla realtà. Vera realtà, tangibile realtà.
Seppur non bello, la gelosia era un sentimento, complesso e fin troppo distante dalla natura dei Divoratori. Se qualche parte di me era scettica nei riguardi di quella vecchia leggenda – una parte molto razionale - in quell'istante si convinse del contrario.

E se fossi stato io ad innescare i suoi sentimenti? Se fossi io ad infonderglieli a poco a poco? Del resto, Hazel me lo aveva sempre detto, che ero a farla sentire umana.
Forse mi stavo dando troppa importanza, ma era una soluzione così semplice, bella e soprattutto dannatamente concreta per ritenerla falsa. 
I miei ragionamenti, tuttavia, vennero interrotti da lei che si alzò, bruscamente e camminò veloce verso la camera da letto. La seguii, quasi fossi la sua ombra, ignorando ulteriori occhiatacce da parte di Martha.

Hazel era molto più rapida di me. Quando entrai nella – ormai nostra – stanza, lei stava in piedi, di spalle a me, accanto al letto, con lo sguardo rivolto alle pareti che riprendevano il profilo di New York, di notte. Osservai la sua schiena lasciata scoperta dalla maglia grigia che indossava e le sue gambe esili.

«Passi molto tempo con Tamara, ultimamente» disse.

«Già» sussurrai, indugiando sulla soglia della porta. «Non vuoi che resto solo, per cui...».

Si voltò e si morse piano il labbro inferiore. «Ti piace?» mormorò.

Non avevo sbagliato sul fatto che fosse gelosa, ma non sapevo più se ciò fosse un bene o un male.

Avanzai nella sua direzione, fino a ridurre a pochi centimetri la distanza tra noi. «Non è esattamente il mio tipo» cercai di rassicurarla.

«Davvero? Perché... Perché lei è umana e... E può darti un sacco di cose che io non posso darti e di certo non ha messo la tua vita in pericolo più di una volta».

Vidi i suoi occhi farsi lucidi e il petto tremarle appena.

«Pensi davvero che mi importi di una cosa del genere?».

«Perché non dovresti? E' ciò che gli umani desiderano: una vita sicura, felice, con una propria famiglia».

Sospirai. «Sei gelosa».

«Cosa?».

«Sei gelosa di Tamara».

«Non dire sciocchezze, non posso esserlo».

«E invece, a quanto pare, sì». Presi un ulteriore respiro profondo e feci un passo avanti, fino ad arrivare a cingerle i fianchi con entrambe le mani. «Ricordi quando mi hai detto che ho fatto nascere le tue emozioni?» mormorai.

Annuì. «Sì, ma... E' qualcosa di surreale e impossibile».

«Non lo è. E' per questo che, ultimamente, ho passato molto tempo con Tamara. Le ho chiesto di aiutarmi a trovare un modo per renderti umana, perché so quanto lo desideri».

«Tu hai fatto cosa?».

«Non prendertela, okay? Volevo solo...».

«E' pericoloso, Simon».

«Ho fatto solo qualche ricerca su dei libri. Anzi, io non... Non ho fatto un bel niente, perché è tutto scritto in una lingua che non conosco e...».

«Perché lo hai fatto?».

«Perché voglio stare con te». Feci una breve pausa, spostando le mani sul suo viso e asciugai con i pollici le lievi lacrime che le avevano rigato le guance. «Parli della mia felicità, ma non ti è mai passato per la testa che tu lo sia? Se non è successo, te lo dico ora: tu sei la mia felicità, Hazel e non c'è altra persona che possa farmi stare così bene, non c'è altra persona che vorrei al mio fianco per tutta la vita, se non te».

Ci fu un attimo di silenzio, durante il quale mi lasciò poggiare la fronte sulle sua. «Esiste davvero... Un modo per farmi essere umana?» biascicò.

«Esiste davvero e stai già diventando umana, a poco a poco».

«Come può accadere? Io non...».

«Non lo so. Non lo so, ma... C'è davvero bisogno di una spiegazione?».

Scosse appena la testa e portò le mani sulle mie guance, ad accarezzarmi con i polpastrelli.
Forse avrei dovuto aggiungere che sarebbe occorsa una chiave, prima o poi, se i miei ragionamenti erano del tutto veri, ma preferii rimandare quella parte del discorso.

«Non dovremo più preoccuparci di Sebastian» sussurrai «non dovremo più preoccuparci di niente e potremo tornare a casa».

Lei mi sorrise, dolcemente. «Chi devo ringraziare per averti trovato?» mormorò.

«Mh, mia madre, credo. Tecnicamente, è lei che mi fatto nascere, anche se, senza mio padre, la cosa non s...».

Hazel rise. «Era una domanda retorica, Simon».

«Oh». Feci una smorfia, mordendomi piano il labbro inferiore, mentre un mezzo sorriso ebete mi si dipingeva in faccia, facendo spuntare le mie odiate fossette. «A volte la mia parte idiota è fin troppo evidente» commentai.
Fece cenno di no e si sporse nella mia direzione, appoggiando piano le labbra sulle mie, per uno dei nostri baci, quelli lievi e delicati, che erano capaci di togliermi il fiato, ciò che accadeva solo ed unicamente con lei.

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Capitolo 16
*** Heavy. ***


Capitolo 16
"Heavy"


Sono chiuso in questa casa da due settimane. Ho contato i giorni, a volte persino i minuti, ma non mi dispiace stare qui – anche se devo usare dei fogli sparsi, al posto del mio fidato quaderno rosso. Non ho ben capito che scusa Martha ha rifilato a mia madre per giustificare la mia assenza in pratica da tutto, scuola compresa. Molto probabilmente, la stessa usata con i falsi genitori di Hazel.
Le vacanze di primavera di mezzo, tuttavia, ci hanno aiutato molto. Gli studenti di ogni città sono soliti partire, andare in montagna o al lago, durante quel periodo. Ogni tanto ricevo qualche chiamata da mia madre, sul cellulare. E' sempre tranquilla e felice per me e, soprattutto, per me ed Hazel – anche se lei la conosce come Johanna.
Non so per quanto tempo ancora dovremo nasconderci. Ho chiesto a Tamara perché non possa semplicemente spostare l'incantesimo di protezione sulle nostre abitazioni e sulla scuola. Mi ha risposto che potrebbe, ma, purtroppo per noi, si è saputo che Sebastian tiene sotto controllo quei luoghi e non è solo. Nella sua caccia, sono compresi altri divoratori, che fanno parte del suo clan – o gruppo, o qualsivoglia nome.
Non è per niente una buona notizia. Mi atterrisce più di chiunque altro e il pensiero che possano essercene altri del suo stesso calibro, mi fa già tremare.
Per di più, ora come ora, non ho più nulla con cui possa distrarmi. Tamara si è messa alla ricerca della famosa chiave, ma lo ritiene un lavoro più solitario e dice che io le sarei semplicemente di intralcio.
Hazel sta con me il più possibile, ma ci sembra scorretto chiuderci in camera e tagliar fuori Martha. Del resto, questa è casa sua. Per questo motivo, spesso, lascio loro degli spazi, da riempire con cose da amiche, anche se non sono molto sicuro che due come loro possano effettivamente avere conversazioni come due normali teenager. Non mi resta che riprendere a scrivere. Mettere su carta ogni mio pensiero, di qualsiasi tipo. Dicono che aiuta e, effettivamente, con me ha funzionato in passato.
Anche Hazel scrive. L'ho vista molte volte con in mano una penna argentata e un quaderno dalla copertina nera. Di solito, mentre butta giù le proprie parole su pezzi di carta bianca, mi guarda e sorride.
A me risulta ancora difficile capire cosa le passa esattamente per la testa. Capita che non la comprenda a pieno e non raramente, e, da una parte, ciò mi intriga parecchio. Dall'altra, però, vorrei che fosse tutto più semplice, che io potessi afferrare al volo l'idea partita da un suo sguardo o da un suo gesto. Penso che in quel quaderno nero ci sia molto di lei. Probabilmente anche parti che non mi ha mostrato o che io non ho fatto in tempo a scoprire.
Sono convinto, comunque, che col tempo tutto risulterà più chiaro. O almeno lo spero.



Posai la penna blu accanto ad uno dei fogli senza righe che ero riuscito a recuperare dalla risma nello studio – così chiamava la sua stanza, la più tecnologica della casa – di Martha.
Ero solo, in camera da letto, seduto alla scrivania di legno che evidentemente non era mai stata usata da nessuno prima di allora.
Anche da lì, tuttavia, sentivo Hazel e Martha ridacchiare, seppur alle loro risate si alternavano attimi di assoluto silenzio. Nemmeno provai ad immaginare ciò che si stavano dicendo e, se lo avessi fatto, non sarei mai giunto a qualche logica soluzione. Entrambe credevano che io dormissi e, data l'ora – le tre di notte – era una cosa che poteva definirsi normale, una delle poche rimaste nella mia vita.
Il punto era che era impossibile per me farlo. Mi ero abituato alle ninne nanne di Hazel. Me ne cantava una ogni sera, ma, quella volta, feci finta di addormentarmi prima, pur di trascorrere un po' di tempo con i miei pensieri. Ne avevo semplicemente bisogno.
Una notte d'insonnia, del resto, dopo tanto, non mi avrebbe fatto male.

Mi passai una mano sul viso, schioccando le dita dell'altra, pronto a riprendere la scrittura. Un occhio, in quell'istante, mi cadde sul quaderno dalla copertina nera di Hazel, abbandonato sopra al comodino accanto al letto, sotto alcuni libri a mio parere mai aperti.
Il desiderio di prenderlo e leggere quelle pagine era alto. Eccessivamente alto.

“A te non piacerebbe se lei si intrufolasse tra i tuoi pensieri su carta” mi rimproverò la mia coscienza, tornata alla ribalta dopo parecchi giorni.

Sbuffai, scuotendo appena la testa. «Non farlo, Simon» dissi a me stesso e quasi mi venne da ridere. Era la prima volta che davo voce alla mia parte ragionevole. «Non farlo e non combinare casini» ribadii.
Riafferrai la penna tra le dita, cercando di proseguire la stesura del mio diario, ma... Il quaderno nero era un richiamo troppo forte. Era una necessità che andava soddisfatta, per quanto stupida potesse sembrare.

«Ma una lettura veloce, rapida e indolore, non farà male a nessuno, no?».

Mi alzai di scatto, lanciando uno sguardo distratto alla porta per controllare che lei non entrasse proprio in quel momento – dato che il mio tempismo era pessimo.
Per mia fortuna, nulla del genere accadde. Riuscii a tenere il quaderno tra le mani dopo esattamente dieci secondi. Sfogliai un po' di pagine, erano tutte datate e tra quell'infinità di giorni, riuscii a trovare quello del nostro primo incontro, nell'atrio del nostro palazzo.

Ho incontrato un ragazzo oggi. Non so ancora come si chiama. E' molto carino, i suoi occhi sono come il ghiaccio. Brillavano, persino con poca luce. Vorrei conoscerlo. Potrebbe essere la mia unica ragione per restare”.

Sorrisi, tra me, scorrendo tra quelle righe. Poteva rimanere estremamente dolce solo attraverso dell'inchiostro?

L'ho incontrato di nuovo. Si chiama Simon Clarke. Mi piace molto il suo nome. Sembra essere molto timido, il che lo rende semplicemente adorabile. Ha buon cuore, riesco a sentirlo. Stranamente, quando lui è nei paraggi, sento tutto”.

Andai avanti.

Con Simon sto bene. Sto estremamente bene e n...”. Alcune righe erano cancellate, impossibili da leggere. Le saltai. “Non so se posso andare avanti, non con quello che voglio fare. Lui non può scoprire cosa sono, altrimenti, tutto va in frantumi”.

Altre righe cancellate. Quel che doveva fare? Che cosa?

La confusione mi attanagliò e i miei occhi scorsero ancora quelle pagine scritte.

Il danno è fatto. Simon ora sa tutto. Ho pensato di lasciar perdere, ci ho pensato davvero, ma è una cosa troppo importante per essere rimandata ancora. Cerco uno come lui da secoli. Finalmente l'ho trovato. Non posso rimandare il sacrificio”.

Alla parola “sacrificio”, per un attimo mi mancò il fiato. Dovetti rileggere l'ultima riga per più volte, per accertarmi di non avrei frainteso. Le parole erano quelle, sebbene nella mia testa non avessero ancora un pieno significato.
Non sapevo di che sacrificio stesse parlando e ancora non mi spiegavo come, in solo qualche pagina, tutto si fosse ribaltato e fosse diventato insopportabile.

Ucciderlo non sarà facile. Lui deve essere d'accordo, deve donarsi spontaneamente. Per questo ho bisogno che si fidi di me. Odio questa parte, ma purtroppo non ho scritto io le leggi. Se voglio far risorgere il nostro Creatore, questo è l'unico mezzo. Presto tutto sarà finito e il mondo sarà per sempre nostro”.

Altra confusione. Asfissiante confusione, perché ogni attimo vissuto nell'ultimo periodo, con lei, con Hazel, era stato messo in discussione nel giro di qualche secondo.
Ogni cosa aveva perso significato, ogni cosa sembrava patetica e architettata nel migliore dei modi e io mi sentivo terribilmente stupido. Rilessi quelle parole. Inchiostro nero su pagine ingiallite; ogni lettera era come un duro e forte colpo allo stomaco.

Devo ucciderlo”.

Si sta fidando di me, come volevo”.

Manca poco”.

DEVO UCCIDERLO”.

 

«Hey, sei sveglio!».

La voce di Hazel mi fece sussultare. Rimasi con lo sguardo fisso nel vuoto per qualche attimo, con mani tremanti e percepii una lacrima scendermi lungo la guancia. Non ebbi il coraggio di muovermi, non subito.

«E' tutto okay?» sussurrò lei.

Mi girai lento, con ancora il quaderno nero appoggiato sui palmi. Hazel fece una smorfia, quando lo vide. «Perché lo hai preso?» domandò, con tono un po' più duro del solito, il che non riuscì a sorprendermi più di tanto.
Cercai di evitare che il mio respiro si facesse troppo affannato, perché voleva dire solo che il panico stava tornando ad attaccarmi e, in quel caso, non ci sarebbe stato più nulla a tenermi a galla. Mi morsi forte il labbro, abbassando lo sguardo nuovamente su quelle righe che, come lame, continuavano a ferirmi.

«“Ormai è fatta. Simon si fida ciecamente di me, farebbe qualsiasi cosa. Mi basterà chiederglielo e tutto si compirà, come giusto che sia”». Lessi ad alta voce le sue parole, con tono arrancante. «“Mi toglierò un peso, dopo tutto, poi penserò anche a Sebastian. Gli brucerà il fatto che sarò io a vincere la nostra battaglia”».

Alzai gli occhi su di lei. Avevo il fiatone. Hazel mi guardò con la sua aria dispiaciuta e scorsi delle lacrime sul suo viso, le stesse che ormai inondavano la mia faccia. «Io non ho mai scritto quelle cose» biascicò.

«E' il tuo diario» replicai, tremando. «Dentro ci sono tutti... Tutti i momenti passati insieme, alcuni descritti nei minimi dettagli e... E questo quaderno è sempre stato qui, tra le tue mani e...».

«Io non avrei mai scritto nulla del genere, Simon!». Fece un passo in avanti. Avrei voluto indietreggiare, ma non avevo spazio. Lei riuscì ad avvicinarsi. Allungò una mano, a sfiorarmi una guancia, ma la scansai.

«Ti prego» mormorò. «Non puoi credere a quelle parole, Simon, tu... Fidati di me, ti prego».

«Come posso anche solo pensare di fidarmi di te, adesso?».

«Dopo tutto ciò che ti ho detto, dopo tutto ciò che abbiamo passato, credi di più a delle stupide parole scritte che a me?».

«Non so più a cosa credere».

«Credi a me! A me, Simon! Mi conosci... Non farei mai niente per ferirti».

Me lo aveva ripetuto così tante volte, che in quel momento quella frase non significò nulla. «Mi hai preso in giro per tutto questo tempo?» biascicai.

«Cosa? No!».

«Quindi non c'è nessun sacrificio per risvegliare il Creatore dei Divoratori?».

Sperai che mi dicesse di no, che la sua voce riuscisse a calmarmi, come faceva sempre. Glielo avrei permesso, per quanto restio ancora fossi, ma non ottenni nulla, a parte il silenzio, che concretizzò tutti i miei dubbi, le mie nuove ansie, le mie nuove paure.
Il diario mi cadde di mano. L'impatto col pavimento fece sparpagliare fogli scritti un po' ovunque. Hazel mi fissava, con occhi lucidi. I miei, invece, si erano svuotati.

«Simon...» mormorò ancora. Mi prese di forza la mano, nonostante io avessi cercato di evitarlo. Mi accarezzò nervosamente il viso e per un solo attimo, glielo lasciai fare.
Durò tutto solo cinque secondi, esatti, contati, prima che mi staccassi bruscamente. «Non toccarmi» sibilai. Ero troppo scosso per anche solo provare ad essere comprensivo. Avevo la vista annebbiata dalle lacrime e non ragionavo più, perché nel giro di qualche secondo, ogni cosa mi era crollata addosso. Di nuovo.
Di nuovo, ero terrorizzato da lei ed era qualcosa di diverso a ciò che avevo provato quando ero venuto a conoscenza della sua natura poiché, in quel caso, una piccola parte di me mi spingeva a fidarmi ancora. Quella volta, invece, non c'era nulla, se non la rabbia e la paura e l'angoscia.
Non ero al sicuro. Mi trovavo nel posto più pericoloso al mondo.

Cominciai a vagare per la stanza, senza un minimo di logica, recuperando ogni cosa che fosse mia. Non molto, comunque, solo qualche indumento e le scarpe che misi ai piedi.

«Che stai facendo?» mi chiese Hazel, con voce spezzata e non muovendosi di un millimetro.

«Me ne vado» quasi urlai e non cessai di muovermi.

«Dove? Sebastian potrebbe trovarti e...».

Mi fermai, di scatto, proprio davanti alla soglia della porta. Mi morsi forte il labbro inferiore e rischiai di farlo sanguinare.

«Se dovesse trovarmi, gli dirò che non ha più motivo di prendersela con me, dato che non faccio più parte della tua esistenza» dissi e risultai anche un po' acido, sebbene il mio cuore stesse quasi per fermarsi a causa del dolore.

«Hai promesso che non te ne saresti mai andato» la sentii biascicare.

Sorrisi, amaro. «Non avevo tenuto conto delle bugie e degli inganni».

«Non ti ho mai mentito. Da quando hai scoperto cosa sono, ti ho sempre detto la verità e tu lo sai».

«Non mi hai mai detto nulla del sacrificio».

«Perché non mi importa del sacrificio, Simon! Per quale assurdo motivo mi interesserebbe riportare alla vita un essere così spregevole?».

«Non lo so!». Mi girai di scatto. Lei era ancora ferma, lì dove l'avevo lasciata e mi fissava, con i pugni chiusi lungo i fianchi.

«Quelle cose non le ho scritte io» ripeté, per l'ennesima volta.

«Chi è stato, allora?».

«Non ne ho idea. E' il mio diario, sì, ma quelle non sono mie parole. Non tutte, perlomeno. Non lo so, forse Sebastian ha...».

«Non puoi continuare a incolpare Sebastian per ogni cosa. E qui dentro, Sebastian non può entrare».

«Avrà trovato un modo!». Strinse i denti e mi parve di vederla tremare. Era come se, lentamente, stesse perdendo il controllo di se stessa.

Avanzò verso di me, a passi svelti e si fermò solo quando pochi centimetri rimasero a separarci. Una lieve voce nella mia testa mi suggeriva di crederle, mi supplicava di farlo, ma, purtroppo, ciò che avevo letto continuava a martellarmi, a prendermi a calci, come se fosse l'unica cosa importante, come se avesse il potere di oscurare tutto il resto.
Mi sentivo vuoto, apatico, quasi fossi io quello non umano nella stanza.

«Non lasciarmi» biascicò e i suoi occhi scintillarono di rosso. «Tu non puoi lasciarmi, tu non... Tu non puoi». Trattenne il fiato e prese, con ben poca delicatezza, il mio viso tra le mani. Quasi mi strattonò e la nostra differenza di forza mi impedì di liberarmi. Fui costretto a guardarla negli occhi, ma tanto sarebbe accaduto in qualunque caso; io che cadevo nella trappola dei suoi diamanti verdi era ormai abitudine.

«Io ti amo, Simon Clarke» sussurrò, quasi stesse esalando l'ultimo respiro, come se quelle fossero le ultime sue parole, troppo importanti per essere messe in disparte, per essere lasciate perdere; l'ultima ragione per vivere.
Su di me, in altre circostanze, anche solo un'ora prima, tali parole avrebbero avuto un diverso effetto da ciò che, di fatto, accadde.

«Tu non mi ami» sibilai e la mia espressione si fece seria e, a tratti, agghiacciante. Vedendomi allo specchio in quel momento, non mi sarei riconosciuto. «Non mi ami, perché non puoi. Non hai un'anima. L'amore è per gli umani e tu non lo sei».

Probabilmente, presto mi sarei pentito di quelle ultime frasi. Probabilmente, a mente lucida, mi sarei addirittura odiato per aver tirato fuori parole così taglienti, con il solo scopo di ferirla, un po' come avevano fatto le sue – ammesso che lo fossero – scritte sul diario.

Il problema è che la rabbia riesce sempre ad inibire ogni altro senso e io, in quel momento, ero accecato da quel mostro color sangue, che mi spingeva sempre più nella direzione sbagliata.

Hazel staccò piano le mani dal mio viso, tenendole a mezz'aria, mentre i nostri sguardi erano ancora fusi l'uno con l'altro, ma senza la solita complicità e appartenenza.
Feci fatica a respirare e lei indietreggiò, con la bocca socchiusa. Le braccia le ricaddero lungo i fianchi. Avrei voluto giustificarmi in qualche modo, dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma l'istinto mi portò a tacere.
“Tu non sei in torto, idiota” mi rimproverò la vocina malefica della mia coscienza. Dovetti accordarla, per quanto credessi di esser io quello dalla parte dell'errore, in quel momento. Ma la rabbia... Già, la rabbia c'era ancora ed era più forte che mai.
Lei lo aveva capito dall'espressione priva di sentimento che avevo stampata in faccia. Tuttavia, nemmeno da parte sua ci furono suoni. Rimase in silenzio e, in un battito di ciglia, sparì dalla stanza, lasciandomi solo.

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Capitolo 17
*** Forgiveness. ***


Capitolo 17
"Forgiveness"


Il perdono è definito come un atto umanitario. A sentirla così, la cosa fa un po' ridere, perché gli umani sono gli esseri meno inclini al perdono di tutto il pianeta.
Cessare di provare rancore e voglia di rivalsa sono cose troppo difficili per noi. Siamo costantemente bloccati dall'orgoglio, dalla rabbia; totalmente annebbiati dalla voglia di stare dalla parte della ragione che nemmeno per un attimo vogliamo sbilanciarci e perdere posizione.

A perdonare ci vuole coraggio e io... Io ero un codardo.

 

Erano quasi le quattro di notte e io mi aggiravo in una città pressoché deserta. Non avevo mai visto Chicago in quelle vesti: silenziosa, calma, con le luci soffuse. Era primavera inoltrata, ma faceva comunque freddo e il fatto di non avere un cappotto abbastanza pesante me lo faceva notare di più.
Tuttavia, non era quello a preoccuparmi. Continuavo a ripensare a ciò che era successo solo trenta minuti prima, nella stanza del grosso attico. C'erano le parole scritte nel diario da una parte e la voce di Hazel dall'altra. E poi c'ero io, che non sapevo più cosa fare, cosa dire, a cosa credere.
Mi risultava impossibile anche solo immaginare che lei avesse finto tutto, in ogni occasione; che avesse persino recitato la parte di qualcuno che aveva dei veri sentimenti, che, perlomeno, mi avesse illuso di averli.
Ma, del resto, era pur sempre di un Divoratore di Anime che stavo parlando: non avevano emozioni, non provavano nulla. Perché proprio lei avrebbe dovuto essere diversa?
Mi sentii un ingenuo, uno stupido e ancora stavo combattendo dentro di me una battaglia senza fine. C'era la parte ragionevole e arrabbiata, che mi urlava contro che avevo fatto bene a dirle quelle cose, che se le meritava, che forse avrei dovuto fare peggio. L'altra parte, quella più calma, quella che provava irrimediabilmente qualcosa per Hazel, mi suggeriva di cercarla, di chiederle scusa, oltre che a ulteriori spiegazioni.

Seppur oppresso e con gli occhi gonfi, la prima parte ebbe la meglio.

Ci misi un'eternità per raggiungere casa. Era ormai l'alba quando attraversai il grosso atrio di lusso e, con le mani nelle tasche della felpa, mi infilai nell'ascensore.
Riuscii ad intrufolarmi in casa senza fare nessuno rumore, stranamente, nonostante la mia abituale goffaggine. Mia madre dormiva ancora ed ebbi successo nel non svegliarla.
Mi chiusi in camera quasi subito e, lì, non appena chiusi la porta, le gambe mi cedettero. Scivolai a terra, seduto, strisciando la schiena sull'anta di legno. E piansi, quelle lacrime che credevo esaurite, ma che, invece, erano ancora presenti, a consumarmi la pelle e a prosciugarmi gli occhi. Mi presi la testa fra le mani, singhiozzando e tremando. Maledii la mia insonnia persistente. Perché non potevo semplicemente sprofondare in un sonno profondo e vedere solo nero? Niente sogni, niente incubi.

Niente di niente, solo la pace, la quiete del sonno.

Ma no. La mia coscienza era sempre pronta a punirmi, che io avessi colpe o meno.

Passai ore steso sul letto, a fissare il soffitto. Inutile fu il tentativo di provare a non pensare. Ovviamente, la mia testa era tempestata dai ricordi degli ultimi mesi, taglienti come lame, violenti seppur belli. Mi bruciavano, come avrebbe fatto il fuoco vivo.
Sarei rimasto in quella posizione forse per tutto il giorno o per giorni, se mia madre non fosse entrata nella stanza, accorgendosi quindi della mia presenza. Mi fece un sacco di domande, riguardo alle vacanze di primavera, alle quali risposi sempre a monosillabi, e, soprattutto, riguardo a quella che conosceva come Johanna.
Lei, tuttavia, aveva quella innata capacità di capirmi anche quando stavo in silenzio. E, di fatti, dopo un po', non mi chiese più nulla. Si limitò ad abbracciarmi e a darmi un leggero bacio sulla fronte, lasciandomi poi nuovamente solo.
Per quanto avessi voluto relativamente parlare e sfogarmi con qualcuno, di certo non era la persona più adatta. Avrei dovuto mentirle, inventare sotterfugi e non volevo.

Trovai la forza di alzarmi dal letto solo a pomeriggio inoltrato. Mi sentivo debole e spossato. Rimasi seduto sul materasso, con i gomiti poggiati sulle ginocchia.

Non sapevo che cosa avrei fatto.

La sola idea di dover tornare alla normalità, fingendo che tutto andasse bene o che, peggio, avessi solamente avuto a che fare con una rottura adolescenziale, mi dava il voltastomaco.
Di certo, avrei dovuto trovare una qualche scusa per il mio perenne essere di malumore, se mai a qualcuno fosse effettivamente importato qualcosa.

Mi alzai a rilento, trascinando i piedi sulla moquette. Mossi solo qualche passo, prima che qualcosa riuscisse a fermarmi: il ciondolo che ancora portavo al collo cominciò a illuminarsi, a intervalli regolari e fu seguito dal suono di una voce, metallica, che mi mise i brividi addosso.

«Ciao, Simon».

Mi fermai, appena tremante, davanti alla porta chiusa. Mi morsi piano il labbro inferiore, trattenendo il respiro, mentre mi voltavo.

Sebastian stava in piedi, accanto alla finestra sigillata. Teneva le mani nelle tasche del giubbotto di pelle che indossava e il solito sorriso sarcastico gli marcava i tratti del viso.

«Vattene» sibilai, come se quel mio ordine potesse essere in qualche modo minaccioso. In realtà, non lo era per niente; ero già sul punto di esser assalito dal panico. Per quanto ne sapevo, avrebbe potuto uccidermi in mezzo secondo.

«Non è propriamente questo il modo di trattare gli ospiti» replicò, avanzando di un solo passo. Restai immobile, stringendo i pugni lungo i fianchi. «Sei tornato a casa, dunque» continuò «e immagino di sapere la ragione per cui lo hai fatto. Hai scoperto la verità, non è così?».

Il tono ironico che usò non mi lasciò indifferente, ma cercai di non avere reazioni eccessivamente spropositate. «Che cosa vuoi?» esclamai, ignorando di proposito la sua domanda. Sebastian allargò il sorriso. «Prendo la tua non-risposta come un sì».

«Che cosa vuoi?» ripetei, serrando la mascella.

«Voglio parlare».

«Da quando sei uno che preferisce le parole ai fatti?».

«Da sempre». Abbozzò una risata. «Rilassati, non cercherò di ucciderti questa volta».

Ovviamente, rimasi teso. Come era razionalmente possibile rilassarsi con un Divoratore di Anime nella stessa stanza? Uno come lui, poi.

Sospirai, cercando di non andare in iperventilazione, cosa che sarebbe accaduta comunque, di lì a poco. «Cosa intendi con verità?» chiesi, in un sussurro. Probabilmente, trarre informazioni da Sebastian non era una buona cosa: odiava Hazel, avrebbe detto qualsiasi cosa pur di farla odiare anche a me. Eppure, la stessa e solita razionale voce nella mia testa mi suggerì di ascoltarlo comunque. Ma forse era solo l'estrema confusione che viaggiava nella mia mente a guidarmi in un discorso privo di senso.

«Il fatto che ti stesse solo usando, ovviamente» rispose, cominciando a spostarsi distrattamente per la stanza, senza una traiettoria precisa. «Lo fa da secoli, o forse millenni, e tutti ci sono sempre cascati. Le basta fare qualche sguardo dolce, qualche sorriso, dire qualche parola carina e... Ecco fatto. E' facile,sai? Persino io potrei assumere l'aspetto di una piccola e adorabile bambina e farti credere chissà cosa. E' un nostro vantaggio. Non abbiamo emozioni, né sentimenti. Non sentiamo nulla e, quando non senti nulla, Simon, puoi essere tutto».

Percepii una lacrima rigarmi la guancia. Avevo ricominciato a piangere, senza rendermene conto.

Non c'è dolore peggiore di quello provocato dalla verità. Mai come allora ne fui convinto. Tutti i tasselli sembravano combaciare sempre più.

«Perché tu non ci hai mai provato? A trovare qualcuno, a compiere il sacrificio» mormorai.

«Perché a me non interessa». Le stesse parole di Hazel.

«Non vuoi riportare in vita il tuo Creatore?».

«Il nostro Creatore è uno stronzo e io non ho problemi ad ammetterlo. Preferisco andare avanti con il pensiero di lui divorato dalle fiamme dell'inferno, piuttosto che errante su questo pianeta».

«E perché Hazel vuole farlo?».

«Perché non glielo chiedi?».

Tacemmo entrambi, per qualche secondo. Incrociai i suoi occhi, che scintillarono di rosso.

«Hai ucciso tutti quelli a cui lei si è avvicinata per questo motivo? Per impedirle di fare il sacrificio?» domandai ancora.

«Mh, quasi. Generalmente, non mi faccio molte domande su chi uccido, ma potrebbe essere una ragione valida». Si fermò, dandomi le spalle, e osservò le pile di libri sistemati sulle due mensole di legno, su una delle pareti della camera. «In precedenza, non potevo uccidere lei» andò avanti «per cui... Si fa quel che si può».

«Questo è il tuo piano? Ucciderla?».

«Tentare di farla ragionare è ormai cosa poco utile». Si voltò, allora, squadrandomi con sguardo truce. «Credimi, sto facendo un favore alla mia e alla tua razza».

«Alla mia razza? Ero dell'idea che tu odiassi gli umani».

«Li odio. Odio un po' tutti, in realtà, nel caso non si fosse capito».

Abbozzai un sorriso, del tutto privo d'entusiasmo. «E tu, invece» esclamò lui, avvicinandosi ulteriormente. «Oltre a me, odi anche lei, non è vero?».

Lo guardai, mordendomi piano il labbro inferiore.

Odio era una parola troppo grossa. Io non mi ritenevo in grado di provare qualcosa di simile, per nessuno. Per Hazel, poi... Era tutto eccessivamente complicato.

Restai in silenzio. Nessuna parola mi uscì di bocca e mi parve di sentire il mio cuore cessare di battere per un'istante.

«Lo prendo per un sì» disse, sorridendo. «Non sei di molte parole, mi devo arrangiare».

«Non ucciderla» biascicai, con sguardo perso nel vuoto, nonostante Sebastian mi stesse ancora fissando.

«Come?» domandò lui, retorico.

«Non ucciderla» ripetei. «Magari è... E' cambiata e... E non le interessa più del sacrificio».

Il Divoratore scoppiò a ridere e lo fece anche la mia coscienza. «E l'avresti cambiata tu? Per favore. Pensi davvero che l'amore possa cambiare la nostra natura?».

«Può farlo».

«Io non credo. Mettitelo in testa: Hazel ti ha usato e basta. Non ha mai provato nulla per te, ti avrebbe fatto fuori nel giro di poco, non farti troppe illusioni. Dovresti ritenerti fortunato per aver scoperto tutto in tempo».

Mi tornò in mente la leggenda trovata da Tamara. Forse Hazel ne era addirittura a conoscenza. Il punto era che, in quel momento, mi trovavo in bilico, su un filo sottile e presto sarei caduto, affondato in un baratro nero, che mi avrebbe portato solamente altro dolore, indipendentemente dalle parti.
C'erano troppe cose che combaciavano, troppe assurde coincidenze. Era tutto troppo.

Per di più, Sebastian aveva personificato la mia coscienza malefica, le aveva dato voce ed era qualcosa di estremamente distruttivo.

«Chi lo sa» continuò «potrebbe ucciderti comunque, presto o tardi».

Scossi appena la testa, sebbene non fossi in grado di parlare. Ero paralizzato, probabilmente dalla paura.

«Sono sicuro che lo farà. Fossi in te, cercherei di nascondermi al meglio». Sorrise, ironico e sarcastico, come faceva sempre.

Prima che potessi ribattere – anche se non lo avrei fatto – scomparve nel nulla, così come era apparso.

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Capitolo 18
*** Breathe in, breathe out. ***


Capitolo 18
"Breathe in, breathe out"


Uscii di casa di corsa. Non mi disturbai nemmeno a prendere l'ascensore. Mi mancava il respiro, avevo bisogno d'aria e ne avevo bisogno subito.
Rischiai di cadere più volte lungo le imponenti rampe di scale, fino al piano terra. Attraversai l'atrio senza guardarmi attorno, ignorando un cordiale «Arrivederci» da parte del portiere.
Fui in strada, in mezzo alla gente che si affannava da una parte e l'altra. Stavano tutti tornando da lavoro, data l'ora, ma io ormai avevo pressoché perso la cognizione del tempo.
Non ero preoccupato per ciò che mi aveva detto Sebastian. Nonostante le parole lette sul diario, mi ero auto-convinto a non credere che Hazel potesse seriamente darmi la caccia; ma, probabilmente, era solo un meccanismo di difesa assunto dal mio inconscio più vulnerabile, che era ancora in fase di negazione.

Il cielo si era tinto di grigio, c'era poca luce e, in lontananza, si udiva l'eco dei tuoni che preavvisavano l'arrivo della pioggia. L'odore di essa già aleggiava nell'aria.
Riuscii a muovere qualche passo sul marciapiede, non badando molto alla direzione che stavo prendendo e nemmeno alla traiettoria, tanto che più volte qualcuno mi venne addosso, maledicendomi poi. Chiesi scusa in dei sussurri, ma dubitai del fatto che fosse qualcosa di comprensibile alle orecchie degli altri.

Continuai a camminare, lento e perso, e la pioggia iniziò a cadere, prima lieve, poi più violenta, scatenandosi. L'acqua addosso non mi faceva nulla.

Fui completamente fradicio in poco tempo e nemmeno me ne accorsi. Tutti cercavano riparo, chi rifugiandosi nei negozi, altri proteggendosi con la propria giacca e correndo. Io, semplicemente, vagavo per le varie strade, osservando ogni cosa e non facendo assolutamente nient'altro.

Ad un tratto, tuttavia, mi ritrovai in un luogo familiare. Non ci ero mai stato fisicamente, ma ne avevo sentito parlare.
Un grosso portone rosso con le maniglie color oro spiccava all'ingresso di un palazzo d'altri tempi, in netto contrasto con gli edifici moderni che costellavano quella zona della città. Lì, abitava Tamara, o almeno così credevo.
Non esitai più di tanto prima di entrare, approfittando della gentilezza di un'anziana signora che mi scortò dentro. Nemmeno avevo una ragione per essere in quel posto, ma forse era stato il mio inconscio a guidarmi. Avevo bisogno di uno sfogo e Tamara era l'unica con cui non avrei dovuto mentire, dato che era a conoscenza di ogni cosa.
Dovetti iniziare a leggere i nomi su ogni campanello, sperando di trovare il suo. Ebbi successo dopo una ricerca che mi portò al quinto piano, salendo per delle scale di pietra non molto livellate e quasi decadenti.

L'appartamento di Tamara – o, perlomeno, sperai fosse il suo, mentre bussavo alla porta, sentendomi, come al solito, abbastanza idiota – si trovava in fondo ad un lungo corridoio dalle pareti giallognole e scrostate. Non era proprio un condominio di lusso, tutt'altro, ma, da ciò che mi aveva detto, non poteva permettersi altro, abitando da sola.
Per mia fortuna – già, raramente, mi accompagnava – era la giusta abitazione. La ragazza dai capelli rossi mi aprì dopo neanche venti secondi d'attesa. Sgranò gli occhi, non appena mi vide. «Che accidenti ci fai qui?» quasi urlò.

«Ho bisogno di parlarti» biascicai.

«Hai un Divoratore alle costole, perché hai lasciato casa di Martha?!».

«Te l'ho appena detto».

«Non mi hai detto proprio nulla! E come hai fatto a trovare casa mia?!».

«Una volta hai accennato al portone rosso, lo hai... Descritto nei minimi dettagli e non ci sono molti portoni rossi così, per cui... Ho tentato».

Tamara mi stava guardando a bocca aperta. Strano che non si fosse minimamente preoccupata del fatto che fossi zuppo d'acqua, che grondava da ogni parte sul pianerottolo.

«Hai intenzione di farmi entrare o...?» sussurrai. Lei roteò gli occhi e si scansò, facendomi un cenno con la testa. Varcai la soglia della porta passandomi una mano tra i capelli bagnati. «Sai che esistono gli ombrelli, vero?» esclamò Tamara, abbozzando una risata. Io, purtroppo, non riuscii a fare lo stesso.
Mi fece un altro cenno, invitandomi a sedere sul divano. «Ti prendo degli asciugamani» disse. Sparì per qualche secondo, giusto il tempo necessario ad eseguire quel suo ordine o qualunque cosa fosse; poi tornò, con due tele di spugna bianche tra le mani, e me le porse.

«Grazie» mormorai, in tono a malapena percettibile.

«Non te la prendere, ma... Hai un aspetto orribile» commentò dopo. Riuscì a strapparmi un sorriso, ma durò tutto non più di due secondi. Rigirai un asciugamano tra le mani, mentre gocce d'acqua mi colavano lungo il viso, partendo dalla tempia.

«Che è successo?» domandò Tamara, sedendosi al mio fianco. Non incrociai il suo sguardo. Puntai il mio a terra, a fissare un punto vuoto. «Un sacco di cose, in realtà» replicai.

«Dimmene qualcuna. Sei venuto qui per parlare, del resto».

Sospirai appena. «Hai idea di...» sussurrai, con un fil di voce «Hai idea di come ci si sente quando scopri che una persona che pensavi di conoscere è in realtà tutto l'opposto?».

«Ho avuto le mie esperienze». Fece una breve pausa. «Ci stiamo riferendo a qualcuno in particolare?».

«Hazel».

«Avete litigato?».

«Più o meno». Sollevai lo sguardo, ancora vacuo, su di lei. «Ho letto delle cose» sussurrai «cose affatto non buone, anzi... Erano crudeli. Il punto è che è successo tutto all'improvviso, tutto troppo velocemente e io... Io non so cosa fare».

«Quali erano queste cose crudeli?».

«Non ha molta importanza. O forse... Dirlo ad alta voce farebbe solamente più male, per cui...».

«Hai parlato con lei? Qualunque cosa abbia fatto, magari aveva una ragione precisa».

«Una ragione sbagliata. Lei non...». Mi interruppi, mordendomi forte il labbro inferiore, rischiando di farlo sanguinare. Tamara mi fissò, con aria evidentemente dispiaciuta o, molto più probabile, con compassione. Guardando il mio riflesso, mi sarei fatto pena io stesso.
«E' difficile credere a qualcuno, se hai perso ogni fiducia in esso» mormorai, poco dopo. «E sai qual è la parte peggiore? E' che io sono pressapoco sicuro di essere innamorato di lei. Solo che a lei non importa».

«Simon...» sentii Tamara dire ad alta voce, prima di vederla avvicinarsi a me, lentamente. Mi strinse in un abbraccio e io non mi opposi.

Appoggiai la testa sulla sua spalla, socchiudendo gli occhi. Mi sentivo terribilmente debole, inutile. Non avevo avuto il coraggio di reagire. Non lo avevo mai fatto. Ogni qualvolta che la mia vita veniva sconvolta, semplicemente crollavo, lasciandomi schiacciare dal peso del dolore, rimanendo inerme di fronte a tutto. Ed era capitato di nuovo, così come era successo con Tiffany, solo che, in quel momento, la sofferenza era triplicata.
Rimasi fermo, in quella posizione, per alcuni minuti, lasciandomi semplicemente cullare. Fu Tamara a interrompere l'abbraccio, in maniera delicata, distaccandosi in modo lento da me. Quando lo fece, i nostri visi si ritrovarono allo stesso livello, terribilmente vicini. Io sorrisi appena, qualcosa di strettamente forzato e privo di qualunque entusiasmo. Era più che altro per mostrare un minimo di gratitudine per quel suo gesto. Lei, tuttavia, sembrò fraintendere o chissà cosa le passò per la testa.
Pochi secondi dopo, le sue labbra erano sulle mie, una sua mano tra i miei capelli e l'altra sul mio collo. Non riuscii a fermarla subito. Probabilmente, una parte di me nemmeno voleva, sostenendo che una piccola distrazione come quella avrebbe alleviato almeno un po' le mie pene.
Accordai il bacio, allora, sfiorando con i polpastrelli il suo viso, la sua pelle calda. Ma quando mi distaccai, solo per un secondo, solo per riprendere fiato, il volto di Hazel mi apparve davanti agli occhi: i suoi lineamenti delicati, i suoi occhi verdi, il suo sorriso velato.

Evidentemente, al mio inconscio piaceva vedermi soffrire.

Mi alzai di scatto, muovendo qualche passo distratto, e, data la mia goffaggine, finii per ribaltare il tavolino di legno che era posto proprio davanti al divano.

Tamara mi seguì di riflesso, mettendosi in piedi, seppur mantenendo una certa distanza da me. «Mi dispiace, Simon» balbettò. «Non volevo, davvero, io non...».

«Non fa niente» biascicai, passandomi una mano sul viso.

“Adesso cominci pure ad avere allucinazioni. Peggiori sempre più”. La voce malefica della mia coscienza inveì per l'ennesima volta contro di me.

«Non volevo baciarti» continuò lei, parlando in maniera frenetica. «Cioè, tu sei molto carino e tutto quanto, e hai degli occhi blu cielo che sono davvero fantastici, ma questo non...». La guardai, facendo una smorfia. «Okay, la smetto» concluse.

«E' meglio che vada ora».

«Sì, assolutamente».

Annuii frettolosamente.Tamara ancora tentava di scusarsi, in qualsiasi metodo possibile. Ciò che recepii io fu solo una marea di parole tutte uguali.
“Più confuso di prima: ottimo risultato” pensai, mentre uscivo dal piccolo appartamento. Mi chiusi la porta alle spalle e fui di nuovo in piedi, nel corridoio con le pareti scrostate.

Sentivo ancora la pioggia picchiettare ai vetri delle finestre: non aveva intenzione di smettere. Probabilmente, sarei dovuto restare a casa di Tamara, almeno per un po', ma ero dell'idea che l'imbarazzo ci avrebbe impedito anche solo di tenere qualche genere di conversazione.
Misi le mani nelle tasche della felpa ancora bagnata e camminai lento verso l'ascensore, antico, come un po' tutto lì dentro. Cigolò, salendo fino al piano, e quasi ebbi l'idea di optare nuovamente per le scale. Alla fine, tuttavia, decisi di usufruirne comunque.
In realtà, quando vi entrai, mi accorsi che, più che essere un ascensore, quello era un montacarichi. Aveva una grande porta, che si apriva in verticale, ed era incastonata nel muro, in un abitacolo che poteva contenere almeno dieci persone. Già, un montacarichi travestito da ascensore; la lentezza con cui iniziò la discesa, poi, me ne diede ulteriore conferma.

Ma non era di quello che dovevo preoccuparmi.

Poco dopo, di fatti, l'aria in quel piccolo spazio diventò gelida, oppure fu solamente una mia impressione, dato quel che accadde.

«Simon». Fu un sussurro lieve, a malapena comprensibile, ma fu sufficiente per permettermi di riconoscere di chi fosse. Strizzai gli occhi, sperando che il mio inconscio mi avesse giocato un ulteriore scherzo meschino, con un'altra allucinazione. Purtroppo per me, quella malefica essenza era corsa ai ripari, lasciandomi in pace proprio nel momento meno opportuno.

Mi girai lentamente, quasi non volessi farlo. Quasi avessi paura di farlo.

Hazel stava in piedi, con i pugni chiusi lungo i fianchi. Aveva addosso lo stesso vestito bianco con cui l'avevo lasciata, solo che era sporco di terra. La matita nera che contornava gli occhi le aveva sporcato il viso; la pioggia aveva colpito anche lei, considerati i suoi capelli fradici.
Avrei voluto dire tante di quelle cose, chiederne altrettante. Avrei voluto che la sua voce mi consolasse, avrei voluto persino un suo abbraccio rassicurante, insieme ad altre parole che avrebbero cancellato le precedenti, e invece... E invece rimasi fermo, immobile, inchiodato alla lastra di metallo di quel montacarichi. La fissai e basta, e lei, per un po', fece lo stesso.

La vidi muoversi, poi, finché una sua mano non raggiunse i pulsanti dell'ascensore, che si arrestò, tra il quarto e il terzo piano, quando ne premette uno.

“Avresti dovuto impedirglielo”. La voce fin troppo lontana del mio io ragionevole mi rimproverò; aveva ragione, ma non ci sarei comunque riuscito.

«Ti ho trovato» esclamò, fulminandomi con i suoi diamanti verdi. «Mi stavi seguendo?» replicai, cercando in tutti modi di evitare i suoi occhi. Hazel fece cenno di no con la testa. «Non sono una stalker, ricordi?». Abbozzò un sorriso, del tutto privo d'entusiasmo; mi avrebbe sorpreso il contrario. «Voglio parlare con te, Simon» continuò. «Voglio... Spiegarti, chiarire. Io so che... Che le cose che mi hai detto l'altro giorno non le pensavi. Lo so, perché tu hai un animo buono e...».

«Non sono io quello che deve essere perdonato, Hazel».

«Nemmeno io».

«E allora che facciamo? Io non ho intenzione di credere alle tue parole». Quella era una grossa balla. Perché pensavo una cosa e ne dicevo un'altra? Forse era l'orgoglio. Da quando ne avevo uno?

«No, perché vuoi i fatti, non è così?» disse.

«Non lo so. Non so più quel che voglio, non...».

«Non ti fidi di me».

«Come potrei? Dimmelo».

«Non ci hai neanche provato, Simon».

«Io ci ho provato, ma è difficile».

«Lo sai che non farei mai nulla per ferirti».

«Una volta credevo fosse così. E vorrei che valesse ancora adesso, ma rimango in bilico e... E torno ad avere paura di te».

Hazel fece un passo avanti. E poi un altro e un altro ancora, finché non mi fu quasi addosso. I nostri volti vicini, tanto che riuscivo a percepire il suo respiro sulla mia pelle.
Il suo sguardo, nonostante tutta quella situazione, era ancora dolce, ancora confortante, come al solito. Fu per questo che fu pressoché impossibile non notare il cambiamento che avvenne. Vidi i suoi occhi spegnersi, letteralmente: il verde oscurato dal rosso scuro, il mezzo sorriso piegato in una smorfia di rabbia.

«Sei stato con lei» sibilò.

In un primo momento, la sua affermazione mi spiazzò. Non sapevo a cosa si stesse riferendo, perché lo stesse facendo proprio in quell'istante. Poi capii: parlava di Tamara.

«Non è importante» sussurrai, e non lo era davvero, non rispetto a tutto il resto.

«Sei stato con lei» ripeté e il tono fu più isterico.

«Lo stai seriamente facendo? Stai ribaltando le cose per far sì che debba essere io a sentirmi in colpa? E' stato solo un bacio!». Lo dissi senza l'intento di scatenare qualcosa, era solo una mia difesa, di cui, a mio parere, non avevo bisogno. Per Hazel, invece, fu come un fulmine a ciel sereno.
L'espressione del suo volto si fece più rabbiosa. Ringhiò e, prima che potessi rendermene conto, le sue dita premevano contro il mio collo. Mi fece sbattere violentemente con la schiena contro una parete gelata dell'ascensore e i miei piedi non toccarono più terra. Tentai di liberarmi dalla sua presa, ma era troppo forte. Una morsa ferrea che mi toglieva lentamente il respiro, mentre i suoi occhi rossi si erano ridotti a fessure e mi fissavano, quasi volessero trucidarmi. La tenue luce dell'abitacolo cominciò ad andare a scatti. Rapidi lampi, seguiti dai tuoni provenienti dall'esterno.

«Haz... Hazel...» riuscii a biascicare, tentando ancora di allontanare le sue mani, invano. Non avevo quasi più fiato, la vista cominciò ad appannarsi e... E a quel punto, lei mi lasciò, di scatto, balzando all'indietro. Io ricaddi a terra. Il cuore mi batteva a mille.
Scorsi Hazel fissarsi le mani tremanti e poi guardare me. «Mi dispiace» sussurrò «mi dispiace... Mi dispiace». Si inginocchiò al mio fianco, tentò di aiutarmi ad alzarmi, ma la scansai, in maniera brusca.

«Mi dispiace» disse, per l'ennesima volta. «Non odiarmi. Ti prego, non... Non odiarmi».

«E' tardi per... Per chiederlo» mormorai, con un filo di voce.

Per quanto mi dolesse ammetterlo, ciò che era appena successo era solo la conferma dei miei dubbi e delle mie incertezze.

Un quadro completo, senza ulteriori e inutili spiegazioni.

Hazel socchiuse gli occhi per un attimo: erano tornati verdi ed erano lucidi. Non aggiunse nient'altro. Mi lanciò un'ultima occhiata e sparì, lasciandomi da solo, su quella lastra fredda.

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Capitolo 19
*** Unarmed. ***


Capitolo 19
"Unarmed"


In psicologia, si è soliti pensare che, dopo un evento catastrofico, si passi attraverso cinque fasi emotive, inevitabili, inesorabili, che stanno lì ad aspettarti, senza che tu possa fare nulla per evitarne anche solo una.
Sono fasi solitamente associate alla morte di qualcuno, alla sua scomparsa, ma io avevo sempre avuto l'idea che tali fasi sopraggiungessero in qualunque caso dopo la perdita di qualcuno, che fosse fisica o meno.
La morte non è l'unica cosa che fa allontanare due individui; è solo una ragione estrema. Prima di arrivare ad essa, ci sono innumerevoli motivi per i quali le persone se ne vanno, o ti spingono via, o spariscono senza un perché, o ti feriscono così profondamente da rendere impossibile una guarigione. E in quelle fasi ci passi comunque, anche se da qualche parte esiste un modo per aggiustare le cose, solo che il dolore è talmente grande da impedirti di trovarlo.

Negazione, rabbia, contrattazione o patteggiamento, depressione, accettazione.

Una dietro l'altra, nessuna via di scampo.

Io chi avevo perso? Praticamente tutto, compreso me stesso, anche se ero pressapoco sicuro di esser rimasto inchiodato tra la quarta e la quinta fase.

Per tre giorni, gli ultimi prima che le vacanze di primavera finissero, rimasi chiuso in casa; la maggior parte del tempo la passavo in camera mia Le uniche volte che osavo uscire da quella piccola stanza erano per via di mia madre, che mi costringeva a recarmi in cucina per buttare giù qualcosa e, per farlo, ero sempre costretto a indossare felpe ingombranti che riuscissero a coprire almeno in parte i segni viola sul collo; sarebbe stato molto più semplice mettere una sciarpa, ma avrebbe destato più sospetti.
Non avevo quasi mai fame, tuttavia mi sforzai di mangiare qualcosa, giusto per farla contenta, ma rimanevo nel più assoluto silenzio per tutto il tempo. Lei continuava a parlarmi, a farmi domande che le si ritorcevano contro.
Lo fece anche quella sera, a cena e, all'ennesimo mio mutismo, reagì. «Simon, accidenti!» esclamò «sto cercando di distrarti, ma rendi le cose terribilmente difficili!».

Abbozzai un sorriso, senza entusiasmo, rigirando con la forchetta la pasta al pomodoro nel piatto, che non avevo toccato più di tanto. «Grazie per il pensiero, mamma, però credo che niente funzionerebbe, ora come ora» sussurrai.

«Sono giorni che sei così giù, tesoro. Sei a pezzi e non mi parli. Di solito lo fai sempre».

«Non mi va di parlarne».

«Perché no? Potrebbe farti stare meglio». Fece una pausa, accarezzandomi amorevolmente il braccio. «C'entra qualcosa quella ragazza, vero? Johanna?».

Sospirai. «Come ho già detto, non mi va di parlarne».

«Oh, e invece ne parliamo. Ho capito quanto ci tieni. Direi parecchio e, credimi, queste cose riesco a sentirle, non solo perché sono tua madre. Però, tesoro, qualunque cosa sia successa, rimanere inerme al mondo non aiuta. Devi reagire. Cerca di sistemare le cose, se puoi. Oppure, se tutto è andato seriamente perso, cosa di cui dubito, va' avanti. Hai solo sedici anni, ci saranno altre ragazze che ti faranno battere il cuore allo stesso modo, se non di più».

Le sue parole erano ovvie e scontate. Qualsiasi persona, al suo posto, avrebbe detto cose del genere. Lo avrei fatto anche io, se si fosse trattato di una situazione del tutto normale. Del resto, presto o tardi, il dolore sarebbe svanito e avrei voltato pagina. Solo che non vi era nessuna situazione nella norma e sul mio corpo spuntavano sempre nuove cicatrici. Mi limitai ad annuire, serrando le labbra e lasciando perdere le posate e il cibo. Mia madre sospirò. «Non mangi più?» chiese.

«Non ho fame».

Fece una pausa. «Vuoi che parli io con Johanna? So essere molto convincente».

Mi venne quasi da ridere. “Certo, mamma. Chiedile se, per favore, può non tentare di uccidere nuovamente tuo figlio e, già che ci sei, di non sacrificarlo in un nome di un Creatore che assomiglia al Diavolo, se non è peggio. E, sì, dai il meglio di te”.

«No, grazie» replicai, in tono brusco, pur non volendolo. Purtroppo, non riuscivo più a controllare bene le mie sensazioni e il mio modo di pormi.

Mi alzai da tavola senza chiedere il permesso, cosa che di solito facevo quasi sempre, per abitudine, e corsi in camera, chiudendo la porta alle mie spalle, a chiave, come se quella fosse una difesa sufficiente e, soprattutto, utile.
Non avevo altri metodi. Non avevo nulla, non ero nulla; solo un semplice umano buttato in qualcosa di eccessivamente grande, titanico. Continuavo a sentirmi debole, come quello che doveva sempre esser protetto. Era andata così sin dall'inizio, se mai Hazel avesse mai voluto effettivamente proteggermi.
Le cose dovevano cambiare. Io dovevo cambiare, altrimenti, sarei definitivamente crollato e niente e nessuno sarebbe riuscito a ricomporre i miei pezzi.

Mi tolsi di dosso la pesante felpa blu e la gettai distrattamente sul letto. Se dovevo reagire, tutto avrebbe dovuto accadere in modo repentino, quasi istantaneo, perché le incertezze e insicurezze mi avrebbero solamente danneggiato ulteriormente.
Afferrai il cellulare abbandonato sulla scrivania, tra libri e fogli sparsi, e mandai un messaggio a Tamara. Poche parole, con le quali le chiedevo di venire a casa mia. Lei era di gran lunga più esperta di me in più o meno tutto e da qualche parte dovevo pur iniziare. Per un attimo, mi balenò in testa l'idea che declinasse quella mia richiesta, per via del bacio e dell'imbarazzo seguente, ma la sua risposta dopo solo qualche secondo cancellò ogni paranoia.

La ragazza dai capelli rossi fu nella mia camera dopo circa quaranta minuti. Feci in modo che scampasse agli sguardi di mia madre in cucina e riuscii nell'intento.

«Bella stanza» esclamò Tamara, stringendo la cinghia della sua borsa a tracolla. «Già» replicai, distrattamente e le feci cenno di sedersi da qualche parte. Optò per la sedia girevole della scrivania. Io rimasi in piedi, muovendo qualche passo privo di logica.
Non sapevo bene come cominciare il discorso. In realtà, ero partito in quarta, senza prepararmi le giuste parole da dire. Quindi esitai, per qualche istante, stringendo i pugni. Lei, tuttavia, non era il classico esempio di persona che amava stare in silenzio, per cui, mi precedette. «Senti, riguardo...» disse «Riguardo all'altro giorno...».

«Facciamo finta che non sia successo nulla, okay?».

«Okay, per cui... Tutto risolto. Insomma, non...».

«Lasciamo perdere quel bacio, d'accordo? E' capitato, tutto qui. Andiamo avanti».

«Oh... Pensavo mi avessi detto di venire qui per questo».

«No, non è per questo».

«E per cosa, allora?».

Mi fermai di scatto, serrando la mascella. «Ho bisogno del tuo aiuto».

«Aiuto per fare cosa?».

Strinsi i pugni, così forte che percepii le unghie infilzare i palmi. «Per abbattere Hazel... E Sebastian».

Tamara sgranò gli occhi e la sua perplessità non mi sorprese. Probabilmente, ai suoi occhi ero ridicolo o, forse, lo ero per davvero. «Ho sentito male oppure mi hai appena detto che vuoi distruggere la ragazza che pensi di amare?» esclamò.

«Hai sentito benissimo».

«Perché vorresti farlo?».

«E' una minaccia. Per me, per le persone a cui voglio bene, per il mondo intero. Vuole risvegliare il Creatore dei Divoratori, per farlo necessita di un sacrificio umano. Io ero il sacrificio. Ecco perché abbiamo litigato, se si può definire così una cosa del genere».

«E Sebastian?».

«Ha ucciso centinaia, se non migliaia di persone innocenti. Mi sembra una ragione piuttosto valida».

«A me sembra una follia. Con tutto il rispetto, Simon, queste sono creature che girano sulla Terra da anni ed anni. Sono esperte, hanno mille combattimenti alle spalle e...».

«Beh, io ho te».

Lei abbozzò un sorriso che non sembrò essere troppo di circostanza. «Non è la stessa cosa» mormorò, poco dopo.

«Perché no?».

«Perché posso benissimo tenere a bada un Divoratore, ma se fossero di più? Tipo... Un esercito? Hai presente me e te contro un esercito?».

«Hai sempre proclamato di essere una strega potente».

«Lo sono, infatti, ma...».

«Ti prego, Tamara. Sei l'unica che può aiutarmi, altrimenti dovrò andare avanti da solo e non so se posso riuscirci».

Si alzò in piedi, muovendo qualche passo nervoso per la stanza. Poggiò le mani sui fianchi, stropicciando con le dita la camicia a scacchi rossa che indossava. Non sembrava essere molto convinta. Del resto, se avessi avuto una conversazione del genere con me stesso, sarei scoppiato a ridere e, se lei lo avesse fatto di lì a poco, sarebbe stato del tutto comprensibile.
Non ero propriamente credibile come il ragazzo che diventa un eroe e si accinge a combattere una schiera di Divoratori di Anime. No, non lo ero per niente, sebbene la parte meno coscienziosa di me mi stesse convincendo del contrario.

«Hai già un piano?» disse lei ad un tratto, sebbene sembrasse ancora titubante. Mi lasciai scappare un sorriso, per la prima volta, dopo parecchio, ricalcato da un briciolo d'entusiasmo.

«Il pugnale» esclamai. «E' l'unica cosa che può uccidere un Divoratore, quindi direi che dobbiamo procurarcene uno».

«Sai quanto è raro? Fino a qualche settimana fa, nemmeno sapevo esistesse».

«Ma esiste. Sebastian ne ha uno e dubito che sia l'unico esemplare».

«Se fosse l'unico?».

«Beh, in tal caso, troveremo un'altra soluzione».

Da dove veniva poi tutta quella calma che d'improvviso mi investì? Riuscivo a ragionare lucidamente – nei miei limiti, ovviamente – e addirittura a rasserenare Tamara. Mi sarei aspettato una situazione ribaltata.
Tuttavia, molto probabilmente, quella era tutto apparenza, dovuta ad una scarica di adrenalina o qualcosa del genere. Dovevo approfittarne, finché l'effetto sarebbe durato.

«D'accordo, posso... Iniziare a cercarlo, allora» disse Tamara e io annuii di riflesso. «Oh, e un'altra cosa...» aggiunsi.

«Cosa?».

«Ho bisogno di un tuo incantesimo per tenere Hazel lontana da me».

Tamara scosse appena la testa. La mia convinzione era andata fin troppo oltre e ne ero ben consapevole. «Ne sei sicuro?» domandò lei.

«Ne sono sicuro».

«Se piazzo un incantesimo su di te, Hazel non sarà più in grado di trovarti».

«Non voglio che mi trovi, non per adesso. Fallo, ti prego e... E anche per Sebastian. Abbiamo bisogno di tempo».

«Dovrò pensare a qualcosa di nuovo. Quello presente su casa di Martha è fin troppo vulnerabile».

«Quel che vuoi».

Senza rendermene conto, le mani avevano iniziato a sanguinarmi. Avevo stretto così forte la presa da riuscire a ferirmi e, fino a quel momento, non provai nemmeno dolore. Non fisico, perlomeno.
Quando realizzai ciò che era successo, mi voltai di scatto, cercando di ripulire il liquido rosso con il quale mi stavo imbrattando con qualunque cosa mi capitasse a tiro, come la felpa che poco prima avevo addosso. Tamara, nel frattempo, si spostò lenta al mio fianco. «Meglio che disinfetti tutto» sussurrò.

«Non è niente» replicai, secco.

Fece una pausa e la sentii sospirare. «Non devi farlo per forza» continuò, a bassa voce. «Puoi ancora chiarire e...».

«Ha cercato di uccidermi» la interruppi, bruscamente. Era la prima volta che trovavo il coraggio di dirlo ad alta voce. «Hazel ha cercato di uccidermi l'altro giorno, nell'ascensore di casa tua. Non c'è assolutamente nulla da chiarire».

Scossi appena la testa, abbandonando nuovamente la felpa, ormai sporca, sul letto. Mossi qualche passo distratto per la stanza, dando le spalle a Tamara, che, nel frattempo, non si spostò di un millimetro. «Mi dispiace, Simon» la sentii sussurrare. Sorrisi e, quella volta, con ironia. «Non farlo» dissi. «Non dispiacerti. Sono stufo delle gente che mi compatisce».

«Non è compassione. E' solo che nessuno meriterebbe di essere tradito e trattato in questo modo».

Avrei voluto replicare in qualche modo, ma non dissi nulla. Strofinai le mani sopra i pantaloni della tuta e cambiai drasticamente argomento. «Puoi provvedere all'incantesimo, per favore?» dissi, voltandomi. Tamara annuì, distrattamente.
Il punto di svolta era arrivato. Ero davvero deciso a cambiare, sebbene nessuno mi avesse detto che combattere il dolore ne provocasse altro, più profondo e più lancinante. Affrontandolo, venni investito dalla realtà dei fatti, dalle scomode e taglienti verità e da consapevolezze che avevo sempre cercato di evitare.
Ma si trattava della mia vita, del resto, e dovevo trovare un modo per sopravvivere. Come mi aveva detto mia madre, rimanendo inerme al mondo, avrei finito col diventarne succube.

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Capitolo 20
*** Hallucination. ***


Capitolo 20
"Hallucination"


Isolamento: quella capacità umana – e non – di tagliare ogni genere di rapporto con il mondo circostante e rinchiudersi sotto una propria campana di vetro, quasi in un universo parallelo, e lì vivere, in una calma apparente, utile solo a preannunciare una tragica fine.


Com'era possibile che fossi circondato da persone, che correvano da ogni parte nel cortile dell'Istituto, sotto il tiepido sole di Maggio, ma avevo l'impressione di trovarmi nel vuoto, senza nemmeno più la forza di gravità?
Era come se la vita di tutti i giorni mi stesse passando davanti agli occhi, in una serie di immagini sbiadite e confuse, e io fossi bloccato nel mio universo cadente e a pezzi, a combattere una battaglia dalla quale, molto probabilmente, sarei uscito sconfitto.
La parte peggiore era che non potevo fare molto per impedire che fosse così.

Sebbene fossi deciso io a cambiare, la mia vita – o almeno una parte – sarebbe sempre rimasta contaminata dal sovrannaturale, che io volessi o meno.
Non riuscivo nemmeno più a distrarmi con lo studio, la lettura o la scrittura. Andavo a scuola per inerzia e per dovere; i miei voti ne risentirono, ma non mi preoccupò molto. Passò tutto in secondo piano: la gente, mia madre, io... Io che ero del tutto concentrato nella ricerca del pugnale, insieme a Tamara, che intanto mi aveva donato un amuleto sigillato con un incantesimo molto più potente di quello che era presente sulla casa di Martha.
Mi aveva detto che era speciale, che era la prima volta che lo provava. Tuttavia, con mia assoluta non-sorpresa, riuscì nell'intento di calare su di me una sorta di barriera che mi avrebbe reso pressoché invisibile sia ad Hazel che a Sebastian; non avevo capito bene tutte le altre clausole, ma era certo che nessuno dei due avrebbe potuto toccarmi.
Era un ciondolo di pietra verde. Senza volerlo, mi ero ritrovato ad odiare quel colore: mi ricordava troppo i suoi occhi. Mio malgrado, però, non si poteva cambiare e mi arrangiai, nascondendolo sotto la maglietta.
Un incantesimo simile fu piazzato anche su casa mia e nascosi una pietra sigillata allo stesso modo nella borsa di mia madre, giusto per precauzione.
Purtroppo, a parte quelle protezioni, non facemmo altri passi avanti. Il pugnale sembrava essere più che raro e le possibilità di trovarlo si abbassarono ad un livello rasente lo zero. Senza quell'oggetto, non potevamo fare molto. Tuttavia, non avevo intenzione di arrendermi, non dopo essermi spinto fin troppo avanti, oltre il confine, oltre il limite.
 

***


Era l'ora di pranzo. Come sempre, preferii evitare la mensa: ci sarebbe stata troppa confusione che mi avrebbe solamente scombussolato.

Sedetti sulla solita panchina nel cortile dell'Istituto, rigirando tra le mani il panino al burro d'arachide che mi ero preparato frettolosamente quella mattina. Il mio sguardo era perso nel vuoto, a osservare tutto e niente. Aspettavo solo una chiamata o un messaggio da parte di Tamara, che mi dicesse di aver fatto qualche passo avanti: anche solo un piccolo cenno mi sarebbe bastato.

Invece no, non arrivò nulla, così come accadeva da una settimana.

«E' proprio bello qui».

Il suono di una voce estremamente familiare echeggiò nell'aria. Mi bastò girare appena il capo per intravedere i capelli biondi di Martha, seduta al mio fianco, con lo sguardo rivolto al prato verde davanti a noi.
Mi ero scordato di inserire anche lei nella lista delle persone da tenere lontano, ma forse, inconsciamente, mi ero convinto del fatto che fosse l'unica innocente in tutta quella storia.

«Non sembra essere una scuola. Sembra tipo una pensione a cinque stelle, sempre che esistano pensioni a cinque stelle» continuò.

Abbozzai un sorriso, tirato. «Perché sei qui, Martha?» sussurrai, puntando anche io gli occhi all'orizzonte.

«Me lo chiedi pure? Dovresti saperlo».

«Evidentemente no, dato che te lo sto domandando».

Sbuffò. «Cosa hai fatto ad Hazel? E' distrutta».

«Beh, non è l'unica».

«Dico sul serio. Se continua così, non succederà nulla di buono».

«Non sta già succedendo nulla di buono e, da come parli, immagino tu non sappia nulla di ciò che è accaduto».

«Oh, io so molte cose, Simon. So del diario, l'ho letto e sono assolutamente certa che lei non avrebbe nemmeno mai pensato a qualcosa del genere».

«Forse non la conosci così bene, dopo tutto».

«Forse sei tu quello che non la conosce affatto, perché non si è nemmeno sforzato di farlo».

Scossi appena la testa e mi voltai nuovamente nella sua direzione. Lei fece lo stesso e i nostri sguardi si incontrarono. «Mi sono sforzato» quasi urlai «l'ho fatto per davvero. Sono stato giorni a torturarmi, a pregare che niente fosse vero, ma non è così. Hazel mi ha attaccato, ha cercato di strangolarmi. Questo va oltre delle parole veritiere o meno».

«So anche dell'attacco. Me ne ha parlato, mi ha raccontato tutto. Nemmeno se ne è resa conto».

«E tu le hai creduto?».

«Ovvio che le ho creduto. E' stata mia compagna in questo mondo per millenni, sarebbe da pazzi se non le credessi».

«Mi dispiace distruggere l'immagine immacolata che hai di lei, ma forse è cambiata e non...».

«Dannazione, Simon, Hazel ti ama! Hai idea di quanto grande sia questa cosa per un essere che è programmato a non sentire assolutamente niente?».

«Questo è il punto. Se non senti niente, puoi essere tutto. Puoi fingere tutto, anche amare». Citai consapevolmente Sebastian e mi odiai per tale motivo. Non sopportavo essere così freddo e distante, ma lo risultavo irrimediabilmente.
Martha mi fissò, con un'espressione del tutto indecifrabile sul viso. Avrei detto fosse dispiaciuta o forse delusa. «Che ti è successo?» domandò, in tono retorico. «Qualcosa mi dice che quello cambiato sei tu».

«Lo sono, Martha, e ho dovuto farlo. Sono dovuto diventare qualcosa che detesto, ma è quello che succede quando si viene feriti».

«Perché non combatti?».

«Lo sto facendo».

«Vuoi combattere Hazel?».

Non risposi. Voleva davvero costringermi a dirlo a voce alta? Le parole mi uscivano di bocca a stento, guidate da chissà cosa.

«Non ti importa più, Simon?» sussurrò la bionda, incatenando i suoi occhi azzurri ai miei. Vidi, per la prima volta, le ombre rosse farsi strada anche nei suoi iridi. «Se lei morisse» continuò «non ti sentiresti morire anche tu?».

Fino a qualche giorno prima, la risposta sarebbe stata immediata, scontata e ovvia: sarei morto anche io se Hazel lo avesse fatto. Allora, invece, non seppi cosa dire. Non c'erano alternative opposte, positive e negative; ero in bilico, nonostante mi sforzassi di prendere posizione. Già, io che stavo assiduamente cercando un pugnale creato per distruggerla, non sapevo ammettere a gran voce cosa effettivamente volessi.

Rimasi in silenzio, allora, serrando le labbra, e quasi smettendo di respirare.

«Proverò il contrario delle tue convinzioni» mormorò Martha, poco dopo.

«Come?» domandai, retorico, e quasi mi venne da ridere. Cos'era tutta quell'ostinazione per provare una falsa innocenza di Hazel? A lei nemmeno avrebbe dovuto importare, del resto.

«Non preoccuparti di questo» aggiunse. «C'è qualcosa sotto e se tu non sei abbastanza forte per scoprirlo, lo farò io per te».

«Martha, sul serio, non... Non credo che niente aggiusterebbe le cose».

«Sta a guardare, allora». Si congedò con quelle parole, sparendo in un battito di ciglia. Rimasi a fissare il vuoto per qualche secondo, imbambolato e appena tremante.

Fu solo lo squillo acuto del mio cellulare a riportarmi drasticamente alla realtà. Sobbalzai, prendendo il telefono dalla tasca. Era Tamara: strano che non usasse i messaggi, come al solito.

«Pronto?» risposi.

«Ho una bellissima notizia!».

«Hai trovato il pugnale?».

«No, quella sarebbe una notizia super-splendida. Questa è solo bella».

«Oh, beh... Di che si tratta?».

«E' un po' difficile da spiegare al telefono, per cui, ti ho chiamato per chiederti di venire a casa mia, dopo scuola. E' molto più pratico fartela vedere e provare».

«Non è una domanda, vero?».

«Assolutamente no. Ti aspetto». Riattaccò, senza darmi la possibilità di replicare, il che, da una parte, era un bene.

Il resto della giornata, quelle tre ore che rimanevano, passò abbastanza velocemente, a lezione di storia, con il signor Genevieve. Era uno dei pochi corsi che frequentavo con Hazel – Johanna; il suo banco era vuoto, da giorni, ormai, e lo sarebbe rimasto per parecchio. Ogni tanto mi capitò di perdermi nel fissarlo, come se lei avesse potuto apparire da un momento all'altro. Delle volte, mi pareva di vederla per davvero, guardarmi e sorridere, come era solita fare quando ci trovavamo nella stessa stanza, ma non potevamo parlare. La parte peggiore era che non sapevo se desiderassi vederla comparire all'improvviso per davvero oppure stessi semplicemente controllando che restasse lontana.
La risposta avrebbe dovuto essere scontata, ma, ovviamente, la battaglia tra me e il mio inconscio sarebbe durata in eterno, senza darmi tregua, con visioni e allucinazioni, indipendentemente dalle mie effettive decisioni e scelte.
 

***


Avevo imparato a memoria la strada per raggiungere l'appartamento di Tamara. Era nell'esatta metà tra casa mia e l'Istituto. Ci arrivai a piedi, snobbando sia l'autobus sia il passaggio che Tom ancora mi offriva, con quell'auto d'ultra lusso. Avevo cominciato a non sentirla mia, non più. Camminai con il cappuccio della felpa in testa, indumento che stonava incredibilmente con la divisa scolastica, e le cuffie dell'Ipod nelle orecchie.
In quell'ultimo periodo, la musica era l'unica cosa che riuscisse a tranquillizzarmi, almeno un po'.

Con le mani in tasca, varcai la soglia del grande portone rosso e salii – rigorosamente a piedi – fino al quinto piano. Proseguii fino alla porta, con l'intento di bussare, ma un biglietto giallo – un post-it – attaccato su di essa, mi fermò prima.

Vieni in soffitta. Ti aspetto lì”.

Feci una smorfia: che diavolo ci faceva in soffitta e perché voleva che ci andassi?

Dovetti salire altri tre piani, più una scala di legno trasandata per giungere a quel luogo che, a mio parere, era tetro e angosciante. Ad ogni mio passo, sentivo scricchiolii da ogni parte, che mi portavano a guardarmi attorno di continuo.

«Ce l'hai fatta, finalmente!». La voce squillante di Tamara mi fece sobbalzare e me la ritrovai davanti, non appena riuscii ad entrare nella vecchia soffitta di quell'antico palazzo. Rischiai seriamente di avere un infarto per quella sua apparizione improvvisa, specialmente perché avvenuta in un luogo del genere.

«Accidenti!» esclamai, socchiudendo gli occhi e cercando di far tornare il mio respiro regolare. «Perché diavolo siamo qui?!».

«Oh, ti sei spaventato?» mi chiese, ignorando la mia domanda.

«Certo che mi sono spaventato!».

Accennò una risata. «Avresti dovuto dire no, così da essere più credibile nella parte dell'eroe».

Roteai gli occhi: io l'eroe? Stavo per ridere anche io. Scossi appena la testa e decisi di cambiare argomento, o meglio, tornare al punto di partenza. «Seriamente, che ci facciamo qui?» domandai un'altra volta.

«Deviare il discorso: ottima tecnica, signor Clarke!» esclamò Tamara, indietreggiando di pochi passi. La vidi poi voltarsi e correre dall'altra parte della grossa soffitta. Io rimasi immobile.

«Ho pensato che prima di trovare il pugnale, ne passerà di tempo, il che è un bene per te» continuò, fermandosi davanti alla parete di legno di quel luogo, sulla quale c'erano disegnati strani simboli con gesso bianco. Ovviamente, non seppi identificarne nemmeno uno.

«Un'arma è utile solo se si sa come usarla e per usare un'arma, bisogna allenarsi».

«Vuoi che mi alleni?».

«Quella è l'idea».

Aggrottai le sopracciglia. Non avevo messo in conto un allenamento per prepararmi ad una ipotetica battaglia e, probabilmente, avrei dovuto, considerando la mia goffaggine e tutto il resto. Tamara pensava sempre a tutto; non mi spiegavo mai come facesse, anche se la soffitta abbandonata del suo palazzo non aveva l'aspetto ideale per un luogo di training.

«E con chi dovrei combattere?» chiesi, dunque. «Con te?».

La ragazza dai capelli rossi si girò, con un largo sorriso sulle labbra. Poggiò le mani sui fianchi e inclinò leggermente il capo di lato. «No» disse. «Con loro».

«Loro chi?».

Non ottenni una risposta. Non a parole, perlomeno.

Da quegli strani simboli calcati sul legno si sprigionò una luce bianca, prima tenue, poi più forte, tale da costringermi a strizzare e chiudere gli occhi per qualche secondo. Quando sollevai le palpebre e fui in grado di vedere limpidamente di nuovo, due nuove figure stavano in piedi davanti a me, accanto a Tamara. Sembravano persone concrete, un ragazzo e una ragazza dai capelli scuri e gli occhi rossi, come i Divoratori. Avevano lineamenti simili e per nulla rassicuranti.

«Chi... Cosa... Insomma» balbettai.

«Non preoccuparti, sono finti» spiegò lei. «Sono dei... Manichini, solo che sanno combattere come un vero Divoratore e possono fare davvero male, se si impegnano».

«Questo dovrebbe rassicurarmi?».

«Mhm, no, ma i veri Divoratori sono mille volte peggio, per cui tu n...».

La fulminai con lo sguardo. «Okay, la smetto» concluse.

Già, Tamara pensava davvero a tutto e, forse, quella volta aveva addirittura pensato troppo. Io non avevo nessuna base di combattimenti, allenamenti e categorie affini. Ero pressapoco sicuro che sarei finito in ospedale con un paio di ossa rotte, se solo quei due “manichini” avessero messo in atto le loro abilità.

«Vuoi provarli?» domandò lei, poco dopo.

«Ora?».

«Sì, ora».

«Mi spezzerebbero in due, Tamara».

«No, sono stati creati per impedire che tu venga spezzato in due. E sul serio».

Corrucciai le labbra, in un'espressione di dissenso o, più che altro, in una che spinse lei a ridere. Avanzò nella mia direzione, finché non mi raggiunse. Si fermò davanti a me e mise le mani sulle mie spalle. «Avanti, Simon» esclamò. «Sono sicura che puoi farcela».

Sospirai.

Non era vero o forse era troppo per crederci. Socchiusi gli occhi per un attimo e, di nuovo, per l'ennesima volta, come l'ennesima ferita letale, vidi lei; dietro Tamara, mi fissava, con le braccia lungo i fianchi e l'espressione delusa stampata sul viso. Sembrava che quel riflesso mi stesse pregando di fermarmi, di seguire la via di Martha, di credere a quelle sue nuove parole, di cambiare rotta.

«Tutto bene?».

Probabilmente, dal momento che accadeva quasi sempre, mi ero incantato, perdendo per un attimo il senso della realtà. Scossi il capo, tornando a guardare il volto di Tamara e l'allucinazione scomparve.
Anche i ripensamenti e i rimorsi mi avrebbero sempre accompagnato, senza che io volessi. Dovevo farci i conti, ma non lasciarmi influenzare da essi. Se avessi permesso ad una sola esitazione di bloccarmi, sarei finito col prendere ulteriori decisioni sbagliate e non me lo potevo permettere.

Simon il debole era morto, dopo tutto. Dovevo solamente accettarlo.

«Tutto okay» dissi, più che altro per convincere me stesso. «Testiamo i manichini».

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Capitolo 21
*** Wide awake. ***


Capitolo 21
"Wide awake"


Ho perso la cognizione del tempo. Capita sempre più spesso, ultimamente, anche se preferivo non sapere che giorno fosse a causa della felicità, non perché sono terribilmente concentrato in qualcosa di fittizio e pericoloso.
Sto tornando a casa sempre più di rado. Solo per cenare e dormire; a volte, nemmeno per quello. Rimango a dormire da Tamara, per quanto sia difficile per me farlo. Ovviamente, l'insonnia è tornata e considero una sorta di miracolo quello di riuscire a chiudere gli occhi per trenta minuti a notte.
Mi farebbero davvero comodo le mie personali ninne nanna, sebbene mi renda conto che non dovrei nemmeno pensare a una cosa del genere. Purtroppo, le allucinazioni rendono tutto più complicato; persino gli allenamenti diventano impossibili da gestire, a volte.
All'inizio è filato tutto liscio. Diversamente da quanto pensavo, sono piuttosto bravo nello sferrare calci e pugni e a difendermi da vari attacchi. Sono addirittura stato sul punto di colpire al cuore con un finto pugnale uno dei manichini, solo che sono stato bloccato, ancora, dall'immagine del suo viso. Forte, prorompente, chiara, crudele. Accade ogni volta che provo a compiere l'ultimo passo, quello che mi porterebbe a scavalcare il confine, senza la possibilità di tornare indietro.
Sono in grado di affrontare un Divoratore - strano a dirlo - forse persino Sebastian, ma se mi trovassi davanti lei... A quel punto, che accadrebbe? Sarei comunque bloccato o riuscirei ad andare fino in fondo?
Non posso permettere ai miei sentimenti di avere il totale controllo. Se lei vuole fare il sacrificio, può trovare qualcun altro e rendere il mondo un inferno, e io mi sentirei incredibilmente responsabile per esser rimasto inerme.
Un grosso problema è che non so come il sacrificio effettivamente funzioni. Ciò che ho letto sul diario non scende molto nei dettagli e nei libri di Tamara, a quanto dice – io non ho nemmeno provato a leggerli, non li capirei - non c'è molto, quasi nulla. E' tutto ignoto, tutto confuso e delle volte penso che sia addirittura troppo per me.
Martha non si è più fatta viva. Conosco le sue intenzioni e, per quanto buone siano, non credo troverà qualcosa. Forse si unirà a noi, dopo aver scoperto che niente può contraddire quella scomoda verità. Mi sarebbe di grande aiuto; è una fonte vivente di informazioni – potrei chiedere a lei di spiegarmi in cosa effettivamente consiste il sacrificio - e sarebbe di gran lunga più brava nell'insegnarmi a combattere senza inciampare sui miei piedi.
Tuttavia, non credo si arrenderà tanto facilmente e, da un lato, la capisco. E' difficile accettare il fatto che una persona che ti è accanto da una vita sia qualcosa che non conosci. Solo che Martha è forte, più di me, e andrà avanti, in un modo o nell'altro.

«Hai ripreso a scrivere?».

La voce di Tamara mi portò a posare la penna e a chiudere il mio fedele quaderno rosso. Lo rigirai tra le mani, seduto a terra, a ridosso di una parete della spoglia soffitta. Lei mi affiancò, abbozzando un sorriso.

«Già» mormorai. «Non lo facevo da un po'».

«E' un bene». Fece una breve pausa. «E' tardi. Che ne dici di riposare un po'?».

«Non ci riuscirei, nemmeno volendolo. Preferisco restare qui e... Giocare con loro». Indicai distrattamente i fantocci ora inanimati, in piedi a qualche metro di distanza.

«Comincio a pensare che siano stati una pessima idea» commentò.

«Assolutamente no».

«Ci passi ore qui e spesso ti sento urlare. Non sono urla qualsiasi. E' come se le stessi parlando o, perlomeno, cercassi di farlo».

Tamara non sapeva nulla delle allucinazioni. Se solo gliene avessi parlato, avrebbe mollato tutto il resto solo per trovare un rimedio e non potevamo permetterci ulteriori rallentamenti. Del resto, il fatto che la vedessi ovunque, dipendeva unicamente da me. Non c'era una ragione esterna.

Non poteva esserci.

«Sto benissimo» mi ostinai a dire – quasi urlai, in realtà – e mi alzai in piedi, di scatto, abbandonando il quaderno sul pavimento di legno.

«Pensavo solo che n...».

«So cosa pensavi. La stessa cosa di cui è convinta Martha».

«Martha?».

«Sì. Qualche giorno fa è venuta a scuola e abbiamo parlato. Lei ha parlato, io mi sono solo limitato a rispondere». Mossi qualche passo distratto, passandomi una mano tra i capelli. «Non so cosa... Pretendiate che io faccia. Sto cercando una soluzione, non solo per me, ma anche per impedire che venga compiuto questo dannato sacrificio. Il punto è che sembra tutto più complicato con voi che... Non lo so. Sto cercando disperatamente di non permettere che la mancanza di ciò che è stato mi blocchi, ma trovo... Trovo ostacoli ovunque».

Tamara sospirò e la vidi alzarsi lentamente. Mi venne davanti e prese il mio viso tra le mani, sfiorandomi le guance con i pollici. «E' tutto okay, Simon» sussurrò. «Ti sei ritrovato catapultato in qualcosa più grande di te, sarei sorpresa a vederti senza insicurezze e paure».

Ero abituato a sentire rassicurazioni da parte sua. Lo faceva sempre, del resto, anche se delle volte optava per lasciarmi solo il più possibile, a sfogarmi.
Negli ultimi giorni, tuttavia, le cose erano sostanzialmente cambiate. Forse era solo una mia impressione, ma sembrava che Tamara cercasse in ogni modo di avere un contatto con me, di qualsiasi tipo; che fosse sfiorarmi un braccio compiendo un semplice gesto, o mettendo una mano sulla mia spalla per incoraggiamento o, talvolta, per degli abbracci, che duravano sempre più a lungo, sempre più intimi.
Normalmente, non avrei mai notato una cosa del genere, ma, da quando ci eravamo baciati, per incidente o meno, avevamo sempre tenuto le distanze – fisiche, perlomeno. Restare indifferente a quello sbalzo era pressoché impossibile; anche perché, in quel momento, lei continuò con le carezze sulle mie guance, piano si spostò con le dita sul collo e la vidi chiaramente fissare le mie labbra.
L'ultima cosa di cui avevo bisogno era che si prendesse una cotta per me.

“Una cotta per te? Ma ti sei visto?”. La mia coscienza inveì contro di me, il che mi portò a roteare leggermente gli occhi.

Tamara non poteva invaghirsi di me, per una lista infinita di motivi; il primo, in assoluto, era non sarebbe mai stata ricambiata e io non volevo ferirla, in nessun modo.
Poi c'era tutta la situazione in cui eravamo immersi, la mia confusione e il resto.
Scossi appena la testa e rimossi delicatamente le sue mani dal mio volto, facendogliele fermare a mezz'aria. «Grazie» sussurrai, in un tono che sembrò fin troppo forzato.

«E di che» replicò lei, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi. Sorrise, senza entusiasmo.

Io compii qualche passo distratto per la grande stanza, passandomi una mano tra i capelli e, così, scompigliandoli. Decisi di cambiare argomento. «Hai fatto qualche progresso nella ricerca del pugnale?» domandai.
«No, nessuno» rispose e, senza che me ne rendessi conto, azzerò nuovamente la distanza tra noi, impedendomi di scansarmi in modo non goffo e naturale.

Feci per dire qualcosa, qualsiasi cosa sarebbe andata bene, ma, per mia fortuna – o sfortuna, dipendeva dal punto di vista – fui preceduto da qualcuno.
Martha apparve dal nulla, davanti alla porta chiusa della soffitta. Aveva i pugni chiusi lungo i fianchi, anche se, in uno, la vidi stringere un oggetto e non uno qualsiasi.

Avrei riconosciuto quel quaderno nero tra mille.

Analizzai solo più tardi la sua espressione, contorta in una smorfia di rabbia, che non prometteva nulla di buono. Tamara si voltò prima che io potessi proferire parola e indietreggiò appena, arrivando al mio fianco.

«Che ci fai qui?» sussurrai. Martha sbuffò, impaziente e mi porse il diario, tenendolo a mezz'aria. «Leggilo» sibilò.

«L'ho già fatto».

«No. Hai letto il falso. Questo è quello vero».

«Quello vero?».

«Fallo e basta, Simon!» quasi urlò. Aveva tutta l'aria di essere infuriata, per cui, per non peggiorare la situazione, feci come ordinato. Presi tra le mani il quaderno dalla copertina nera, lo aprii e rilessi quelle pagine.

Ho incontrato un ragazzo oggi. Non so ancora come si chiama. E' molto carino, i suoi occhi sono come il ghiaccio. Brillavano, persino con poca luce. Vorrei conoscerlo. Potrebbe essere la mia unica ragione per restare”.

Tutto come lo ricordavo, fin lì. Così, andai avanti.

L'ho incontrato di nuovo. Si chiama Simon Clarke. Mi piace molto il suo nome. Sembra essere molto timido, il che lo rende semplicemente adorabile. Ha buon cuore, riesco a sentirlo. Stranamente, quando lui è nei paraggi, sento tutto”.

Ancora tutto uguale. Alzai lo sguardo e quello di Martha mi incitò a proseguire.

Con Simon sto bene. Sto estremamente bene”. Qui ricordavo le cancellature. In quel momento, invece, ogni frase era chiara, ben leggibile. “..e so che questo non dovrebbe accadere, considerando la mia natura. Come è possibile, allora? Ho cercato una spiegazione plausibile, ma non c'è, oppure io non sono capace di trovarla. La parte peggiore è che io vorrei essere totalmente onesta con lui, ma ho paura che, se scopre cosa sono, tutto vada in frantumi. E io non voglio”.

Trattenni per un attimo il fiato, ma c'era dell'altro: altre parole, altro inchiostro su carta bianca.

Il danno è fatto. Simon, ora, sa tutto. Ho pensato di lasciarlo perdere, per la sua sicurezza. Non voglio che venga coinvolto in cose più grandi di lui, cose che potrebbero ferirlo, ma ormai è troppo tardi. Il solo pensiero di stargli lontano mi uccide. Continuerò a vegliare su di lui, anche se non vuole. Mi sto accontentando di cantargli le mie ninne nanne per farlo addormentare. Posso stargli vicino, almeno quando dorme, così da non leggere nei suoi occhi la paura che ora ha di me”.

Mossi qualche passo distratto nella stanza, allontanandomi di solo qualche metro da Martha e Tamara; come se cercassi di isolarmi, benché, al momento, non possibile. E continuai a leggere.

Sebastian mi ha trovato di nuovo. Ha attaccato Simon, ma sono riuscita a salvarlo e abbiamo anche fatto pace. Si sta fidando di me, come volevo, come ho desiderato da quando ha scoperto cosa sono, e non c'è sensazione migliore. Vorrei che tutto tornasse come prima, ma, purtroppo, non accadrà. Con mio fratello in circolazione, poi, la cosa si complica. Sono sicura che è ancora ossessionato da quel sacrificio, quello per riportare in vita il nostro Creatore. Il fatto di non aver vinto nemmeno una volta, in tutti questi secoli, gli brucerà. E' un pazzo che va fermato, se solo potessi davvero farlo. Per ora, le mie priorità rimangono Simon e la sua sicurezza”.

Perché era tutto diverso? Perché, improvvisamente, ero io a recitare la parte del cattivo senza cuore? Perché sembravo io quello non umano? Era come mi sentivo, perlomeno: completamente svuotato, colpito in pieno petto da nuove parole, le stesse che avrebbero dovuto rassicurarmi, solo qualche tempo prima.

Mi girai di scatto ed ero pressapoco sicuro di aver iniziato a piangere, senza controllarmi. «Cosa vuol dire?» biascicai, tremante.

«Perché non lo chiedi alla tua amichetta?» replicò Martha e lanciò un'occhiata a Tamara. Il mio sguardo ricadde di riflesso su di lei, sebbene non stessi capendo più nulla.

La ragazza dai capelli rossi restò immobile. Evitò qualsiasi contatto visivo con me, fissando il pavimento. Un assordante silenzio calò in quella soffitta e rischiò solamente di farmi impazzire. Avrei urlato, se Martha non fosse intervenuta. «Ti conviene parlare, prima che ti strappi via il cuore dal petto» esclamò e si stava rivolgendo alla strega. «E sai benissimo che potrei farlo».

Attesi una qualsiasi reazione da parte sua, ma non ottenni nulla, a parte altro silenzio.

«Parla!» urlò Martha. Tamara sobbalzò e osò sollevare lo sguardo. Anche i suoi occhi erano lucidi. «Ho scambiato io i diari» mormorò, soffocando. Pregai, per un solo secondo, di aver sentito male, ma l'espressione di dispiacere che il suo viso assunse confermava ogni cosa.

«Oh, ma questa è solo una delle tante cose che hai fatto. Dico bene?». Martha infierì e fu la prima volta in cui diede l'impressione di esser per davvero una minaccia. Prima, non era mai capitato. Era sempre sembrata innocua, dolce, innocente. I suoi occhi, ora, continuavano a scintillare di rosso, forse a causa della rabbia. Tamara, a nemmeno un metro di distanza da lei, aveva cominciato a tremare.

«Cosa...» balbettai. «Tutto questo che significa?!».

La bionda si voltò verso di me. Feci appena in tempo a sbattere una sola volta le palpebre e lei mi fu davanti, a pochi centimetri di distanza. «Ti avevo detto che avrei trovato le giuste spiegazioni» sibilò. «Tu ce le hai avute sotto il naso per tutto questo tempo e nemmeno te ne sei accorto».

«Che spiegazioni... Che spiegazioni hai trovato?».

Vidi Martha fare un mezzo sorriso. Fu inquietante. Si girò appena verso Tamara. «Perché non glielo racconti tu?» disse. «E stai attenta a non tralasciare nessun dettaglio. Ti conviene dire proprio tutto, se non vuoi che lo faccia io, dopo aver spezzato in due il tuo corpo».

La rossa, però, restò in silenzio, mordendosi forte il labbro inferiore. Martha abbozzò una risata, sarcastica e tornò a puntare lo sguardo su di me. «E' con Sebastian» affermò e fu come ricevere un pugno in pieno stomaco.
Ero di nuovo io l'idiota, quello che si era fidato della persona sbagliata, pensando di fare la cosa giusta. E invece... Invece avevo solo combinato ulteriori casini.
Attesi un'eventuale smentita da parte di Tamara, ma era ovvio che non avrebbe mai potuto arrivare, così Martha andò avanti: «L'attacco di Sebastian sul lago? Il fatto che, fra tutte, mi sia stata consigliata lei come strega? Hazel che ti aggredisce nell'ascensore? Il vostro bacio? Le sue moine di recente?». Fece una breve pausa. I suoi occhi rossi erano incastonati ai miei. «Ti stai facendo due calcoli, vero, Simon?».

Era come ricevere una frustrata sulla pelle nuda ad ogni sua frase. Niente aveva ancora un senso, non logico, non nella mia testa.

Lanciai uno sguardo a Tamara, ancora ferma dall'altra parte della stanza, con i pugni chiusi lungo i fianchi. La sua espressione era indecifrabile, non più confortante e amichevole, come sempre.

«E' tutto vero?» biascicai, sentendomi stupido, insignificante. Lei tacque e il silenzio bastò. Mossi qualche passo nella sua direzione, Martha me lo lasciò fare e scorsi un senso di vittoria nel sospiro che tirò.

«Perché?» sussurrai, ancora, sforzandomi di guardarla in volto.

«Non ti interesserebbe saperlo».

«Oh, invece mi interessa».

Tamara abbozzò un sorriso, del tutto privo di entusiasmo. Improvvisamente, mi sembrò di non averla mai conosciuta, come se fosse una totale estranea.

«E' per mio fratello» mormorò.

«Tuo fratello?».

«Sebastian ha il suo aspetto». Smise di parlare per un attimo e con una mano asciugò la lacrima che le scivolò lungo la guancia. Poi riprese: «Lui è morto circa un anno fa. Era partito per la Florida e non è più tornato. Sebastian mi ha detto che avrebbe potuto recitare la sua parte, se io avessi fatto tutto ciò che voleva».

«Sai che non potrebbe mai sostituire tuo fratello».

«Oh, io lo so. Ma mia madre no. Lei non sa nulla della sua morte. Non lo sopporterebbe».

Infilai le mani nei capelli, scompigliandoli. Per quanto nobili avessero potuto essere le sue ragioni – pensava a sua madre, del resto – rimanevano comunque totalmente sbagliate. Perché mettersi dalla parte di un essere così spregevole? Perché aiutarlo?

«Hai fatto tutto ciò che lui voleva, senza chiedere spiegazioni?» quasi urlai. «Senza... Senza pensare che agendo in quel modo, finivi irrimediabilmente col ferire qualcun altro?».

Tamara scosse appena la testa e sorrise, questa volta con convinzione. «Quando c'è di mezzo la tua famiglia, faresti di tutto, Simon, anche allearti con chi non dovresti» sussurrò.

Sentii Martha ridere e poi esclamare: «Ucciderà sia te che tua madre, non appena avrà raggiunto i suoi scopi».

La rossa fece una smorfia. «No, mi ha promesso anche che ci avrebbe protette, che avremmo potuto vivere tranquille» disse.

«Una volta che avrà raggiunto i suoi scopi, non ci sarà più un posto in cui vivere. Non per gli umani, perlomeno, e assolutamente non felici» replicò l'altra.

Serrai la mascella. Ero caduto con disinvoltura nella trappola di Sebastian, anzi, avrei detto che non avessi fatto altro che spianargli la strada, con i miei gesti e il mio comportamento.

«E' lui che vuole fare il sacrificio, non è vero?» chiesi, a bassa voce.

Martha avanzò verso di me. Riservò uno sguardo truce alla strega, prima di guardarmi. «Sì, è lui, anche se gli piace indugiare» disse.

«Come si compirebbe? Tam...». Stavo per dire che Tamara non aveva trovato nulla a riguardo – purtroppo – ma era palese che non avesse mai voluto trovare qualcosa. O forse, sapeva già tutto, però non le era concesso rivelarmelo. «Io non so come funzioni, ecco. Nel... Finto diario, ero il sacrificio da compiere».

«Il sacrificio sei tu» disse Martha. «Ma non per le ragioni che tu credi. La leggenda dice che il nostro Creatore sia stato esiliato negli Inferi dalla nostra Creatrice. La sua colpa era di essersi innamorato di un'umana e la cosa era reciproca. Non c'erano precedenti, ma qualcosa era scattato, quella volta. Per la Creatrice, non era accettabile che un Divoratore, di quel calibro, si mischiasse con quello che per loro era, ed è, solo cibo. Così si infuriò e lo condannò a patire le maggiori torture, sotto terra. Giurò che solo quando un umano si sarebbe innamorato di uno di noi e tale amore sarebbe stato ricambiato, allora il sangue dell'umano sarebbe colato sopra il sigillo da lei posto, riportando alla luce il Creatore».
Fece una breve pausa e riprese. «Secoli e secoli negli Inferi hanno trasformato il Creatore in qualcuno da evitare. E' rabbioso nei confronti dell'umanità, perché è causa del suo dolore, e con metà della sua stirpe, perché mai ha provato a tirarlo fuori da lì. Nessuno sano di mente ci proverebbe, ma a Sebastian piace correre il rischio».

«Quindi... Qual è il suo piano?».

«Creare un'armata, prepararsi a ricevere i meriti, farsi trovare pronto quando ti ucciderà. Purtroppo, lui non è mai stato troppo incline ai sentimenti umani, l'amore non lo scalfirebbe mai. Hazel è diversa, lo ha sempre saputo. Temeva, però, che la sua fosse solo una tattica per compiere il sacrificio per proprio conto, ma non è mai stato così».

«E perché ha fatto in modo che io la odiassi?».

«Non te l'ha fatta mai odiare, sarebbe un controsenso. Solo respingere. La voleva a tutti i costi dalla sua parte e, pensaci, Simon: se l'amore fa nascere in lei l'umanità, cosa può fare la repulsione? Ti ha visto con Tamara, costantemente, perché lui voleva che ti vedesse, che si arrendesse al fatto di averti perso, al fatto che la stessi rimpiazzando così facilmente».

«Ha tentato di ucciderla, al lago...».

Fu Tamara a intervenire. «Voleva testare il pugnale» sussurrò «e avere qualcosa che ti depistasse».

Mi morsi forte il labbro inferiore, rischiando di farlo sanguinare. Per tutto quel tempo, sebbene colmo di dubbi, ero rimasto fisso sulla mia strada, ricalcando i miei passi, lasciandomi trasportare dagli eventi. Non avevo osservato, soltanto guardato, di sfuggita e, in quel momento, i sensi di colpa cominciarono ad opprimermi.

Tra i mille pensieri confusi, uno prevaleva. «Devo trovarla» sussurrai.

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Capitolo 22
*** Clarity. ***


Capitolo 22
"Clarity"


«Devo trovarla» ripetei, stavolta ad alta voce. Martha sgranò gli occhi e la vidi subito scuotere vigorosamente la testa, in cenno di dissenso. «Oh, no, tu non farai proprio un bel niente» sentenziò.

«Tu non capisci!» quasi urlai. «Devo trovarla, devo parlarle e...».

«E' troppo tardi, Simon!» sbraitò la Divoratrice e si sforzò di restare calma. Strinse per un attimo i pugni lungo i fianchi e tirò un sospirò. «Ormai Hazel è più lontana dall'umanità di quanto tu possa solo immaginare» mormorò.

«Appunto per questo» singhiozzai. Mi parai davanti a lei e misi le mani sulle sue spalle. «Devo riportarla indietro, perché lei non ha mai voluto essere così, ma lo è diventata, per colpa mia».

Martha mi fissò. La sua espressione parve mortificata. «Apprezzo il tuo atto di eroismo» disse «ma l'unica cosa che posso fare è tenerti al sicuro, per il bene di tutti».

«Non per quello di Hazel». Avevo passato così tanto tempo ordinandomi di non pronunciare il suo nome – nemmeno pensarlo – che sentirlo con il mio tono mi mise i brividi. Lasciai ricadere le braccia di peso e mossi due passi all'indietro. «Aiutami» biascicai. «Ti prego».

Esitò.

Il mio sguardo ricadde anche su Tamara, che nel frattempo, non si era mossa più di tanto. Avrebbe potuto andare ovunque, scappare, dissolversi, soprattutto dopo gli ultimi avvenimenti, eppure rimase lì immobile. Forse aveva paura che fuori da quella stanza, Sebastian l'avrebbe trovata e punita per essersi fatta scoprire. Da lui, ci si poteva aspettare di tutto.
Tornai a puntare gli occhi su Martha. Fissava un po' a terra, un po' il mio viso. Era evidente quanto fosse indecisa. «E' un rischio troppo grande» mormorò, ad un tratto. «Se ti succede qualcosa, non...».

«Lei non lo permetterà» la interruppi.

«Non l'hai vista di recente».

Non seppi come prendere tale frase. Sicuramente, non bene. Hazel si era trasformata in un mostro, per colpa mia, qualcosa di intoccabile, a causa del dolore che le avevo imposto. Il punto era: si era davvero spinta così in là, tanto da uccidermi per davvero? Provai a dubitarne, ma tutto era possibile.

«Questo è solo un motivo in più per salvarla» mormorai. «E poi, se tu mi non mi aiuterai, cercherò di trovarla comunque, solo che ci metterò più tempo».

Mi morsi appena il labbro inferiore. Quello era una specie di ricatto – ingenuo e assolutamente poco efficace – ma pur sempre un ricatto, perché le cose sarebbero andate allo stesso modo, seguendo una via o un'altra.
Martha sbuffò, passandosi le dita nei lunghi capelli biondi e li fece ondeggiare sulla schiena. «Perché sei così ostinato?» chiese, sottovoce.

«Lo sai perché» risposi d'istinto e lei capì. In realtà, a mio parere, aveva sempre capito e stava semplicemente aspettando che io mi dessi una mossa.

Mi parve di scorgere un sorriso dietro quella maschera ostile e sarcastica che aveva indossato. «Credo di sapere dove si trovi» disse. «Ti ci porterò, ma io resterò con te».

«Devo parlarle da solo».

«Terrò una distanza di sicurezza».

«Martha...».

«Niente discussioni, ragazzo carino».

Usò l'appellativo con cui Hazel era solita chiamarmi. Lo aveva fatto sin da subito, quando era ancora Johanna per me. Per un solo attimo, sorrisi anche io, malinconico, e non osai obiettare ulteriormente.
Non mi preoccupai di salutare o fare qualsiasi altro cenno a Tamara. Per il momento, era uscita dal mio campo di attenzione, oltre che visivo. Mi affidai completamente alla Divoratrice bionda, che prese le mie mani e mi incitò a chiudere gli occhi.

Conoscevo le sensazioni che la smaterializzazione – o qualsiasi cosa fosse – dava ad un comune essere umano. Per alcuni secondi, dopo esser giunti a destinazione, il corpo mi formicolò, con leggere scosse elettriche lungo gli arti. Approfittai del breve tempo in cui ripresi sensibilità per guardarmi attorno, anche se non c'era molto da vedere, a parte il buio.

«Dove siamo?» sussurrai, quasi avessi paura di usare un tono più alto di voce. «Nel punto più alto della città» rispose lei.

Facendo mente locale, dovevamo trovarci sulla Willis Tower, il grattacielo più alto di Chicago. Ammesso che intendesse quello e non seppi dirlo con certezza fin quando, salendo delle scale di pietra su cui rischiai di inciampare più volta, non ci ritrovammo proprio in cima a quel maestoso edificio, sullo skydeck di vetro che di giorno è solitamente riservato ai turisti, preoccupandosi principalmente di impressionarli, ma di notte è pressoché deserto.
Deglutii rumorosamente nel momento in cui Martha mi fece un cenno con il capo, indicando qualcosa – qualcuno – poco distante.

Ed eccola lì: la figura esile di Hazel, in piedi, davanti ad una lastra trasparente e infinita di vetro, una grande finestra che si affacciava su Chicago, che scintillava di luci nell'oscurità della notte.
Stava di spalle, con addosso quel vestito bianco e logoro che nell'ultimo periodo aveva sempre avuto. I lunghi capelli scuri le ricadevano sulla schiena, appena mossi, ma sporchi di quello che sembrava essere fango, misto a ciò che purtroppo era sangue. Chissà di chi. Le sue braccia, abbandonate lungo i fianchi, avevano lo stesso aspetto trasandato, di chi si è lasciato completamente andare.

Una morsa mi si strinse attorno al cuore, pensando di essere io l'artefice di quello spettacolo.

Tremai e fu difficile da nascondere. Martha mise una mano sulla mia spalla. «Io rimango qui» mi sussurrò. Annuii, distratto. «Qualsiasi cosa succeda» replicai «tu non intervenire».

«Simon...».

«Fa' come ti dico. Per favore».

Non obiettò più. In fondo, sapeva che sarebbe stato inutile mettersi a discutere in un momento del genere. Indietreggiò, mimetizzandosi nel buio, mentre io cominciai ad avanzare, a passi lenti e incerti. Mi fermai solamente una volta raggiunto il centro della grande stanza di vetro, quando solo qualche metro mi separava da Hazel. Lei, nel frattempo, non si era mossa. Che non si fosse accorta della mia presenza? Piuttosto improbabile.
Strinsi i pugni così forte che rischiai di farli sanguinare. «Hazel» biascicai. Non ebbe alcuna reazione, inizialmente. Rimase semplicemente immobile, a fissare le luci degli altri grattacieli.

«Hazel» ripetei, con voce più ferma, per quanto impossibile mi risultò farlo.

Solo a quel punto lei barcollò appena e si voltò. Il suo viso era irriconoscibile: sporco di terra e sangue, graffiato, contorto in una smorfia di rabbia. Gli occhi, invece, i suoi meravigliosi occhi verdi erano ricoperti da un rosso fiammeggiante, acceso e intermittente.
Mi ritrovai a trattenere il respiro. Avrei solo voluto stringerla a me, sussurrarle di scusarmi e che tutto sarebbe andato bene, ma non potei fare nulla del genere.

«Perché sei qui?» ringhiò. Il tono della sua voce era rauco, quasi assente.

«Sono venuto a prenderti» mormorai. Hazel piegò le labbra in un mezzo sorriso, privo di entusiasmo e sarcastico, a tratti inquietante, complice il rivolo di sangue che aveva sul mento. «Va' via» sibilò.

Scossi vigorosamente la testa e osai fare un passo avanti. E poi un altro, un altro ancora, finché non le fui davanti, a pochi centimetri di distanza. «Vieni con me» sussurrai.

Lei, stavolta, rise, amara. «Dovresti correre via terrorizzato, finché sei in tempo» esclamò, acida.

«Non ho... Non ho paura di te». Mi pizzicai lieve la lingua.

Hazel mi guardò per un attimo, per un millesimo di secondo in cui riuscii a rivedere il verde dei suoi occhi; ma, purtroppo, tutto fu eclissato dal rosso in breve tempo. «Dovresti» disse, in tono stanco. Poi si gettò in avanti, su di me. Le sue mani raggiunsero il mio petto e mi spinse, con forza, più di quanto ne avesse mai usata. Volai, letteralmente, dall'altra parte della stanza, sbattendo con violenza contro una parete di vetro. Provocai una grossa crepa su di essa e scivolai sul pavimento. Il dolore alla schiena fu lancinante e mi portò a piegarmi in due, nell'inutile tentativo di rimettermi in piedi. Fui solamente in grado di mettermi seduto, ancora a ridosso della parete, tenendomi un braccio incollato allo stomaco. Probabilmente, mi ero rotto qualcosa nell'impatto.
Strizzai gli occhi e vidi Hazel avvicinarsi a passi lenti, che le fecero ondeggiare il vestito bianco. I piedi nudi calcavano il pavimento, lasciando impronte di terra secca.

«Perché sei così ostinato a morire, Simon?» esclamò. «Potrei ucciderti in un battito di ciglia».

«Non lo farai» mormorai.

«E questo chi lo dice?». Ringhiò e mi afferrò per la maglietta azzurra che indossavo. Mi sollevò di peso, mettendomi forzatamente in piedi e, non mollando la presa, mi fece nuovamente sbattere contro la lastra di vetro, provocando un'ulteriore crepa. Cercai di non urlare e ci riuscii a stento.

«Io...» biascicai, quasi fossi a corto di fiato. «Lo dico io».

Le supposizioni avute durante gli allenamenti con i manichini si rivelarono più che vere, ma forse era solo colpa di tutta quella situazione. Come potevo anche solo pensare di attaccarla? Punto primo: non avrei avuto la benché minima possibilità. Secondo: non ne ero capace, la mia mente mi bloccava.
I nostri visi, intanto, si erano avvicinati incredibilmente. Riuscivo quasi a percepire il suo respiro – gelido – sulla pelle. La sua mano, tuttavia, spingeva sul mio sterno, provocandomi altro dolore. Cercai di non focalizzarmi troppo su ciò.

«Non mi ucciderai» sussurrai «perché mi ami». Ero consapevole che giocare quella carta, in quel momento, avrebbe solo peggiorato la situazione. E, di fatti, dopo qualche secondo, un suo urlo precedette un altro schianto: il mio corpo che piroettava nella stanza di vetro e andava a sbattere con il doppio della violenza contro la parete opposta, provocando più di una sola crepa.
Feci appena in tempo ad accorgermi che avevo cominciato a sanguinare sulla nuca, prima che lei mi afferrasse nuovamente per il collo della maglietta. Strinse in una morsa il mio mento e mi fece male. «Io non posso amarti» sbraitò e i suoi occhi scintillarono. «Non posso. Non ho un'anima. L'amore è per gli umani e io non lo sono».

Citò le mie parole, quelle che avevo pronunciato con disprezzo, trovando il falso diario. Quelle che nemmeno pensavo, ma che la rabbia aveva portato in superficie.

Hazel mollò la presa e io ricaddi fragorosamente sulle mattonelle. Sollevai a stento il capo e vidi il pavimento macchiarsi di gocce di sangue. Piccole macchie rosse, una dietro l'altra.
Feci leva su un braccio solo, quello sano, ed ebbi successo nel mettermi seduto, a ridosso della parete. Lei si era voltata e continuava a muovere passi distratti per la stanza.
Socchiusi gli occhi, anche perché le palpebre riuscivano a stento a starmi su. «Hai sempre...» mormorai, tossendo. «Hai sempre pensato che gli esseri umani fossero perfetti». La vidi fermarsi, a quel punto, ma non si girò a guardarmi. Così continuai: «Solo per... Per il fatto che siamo in grado di provare qualcosa, perché abbiamo emozioni. Il problema è che la maggior parte di noi non le sa usare o lo fa nel modo sbagliato. Ecco perché spesso... Spesso facciamo degli errori. Grandi errori, a cui possiamo riparare solo rare volte. Siamo esseri... Contraddittori, cattivi, incoerenti. Siamo qualsiasi cosa, ma lontani anni luce dalla perfezione. Forse nemmeno dovremmo chiamarci umani. L'umanità è troppo pura, qualcosa di a stento raggiungibile, qualcosa in cui non meritiamo di identificarci». Feci una breve pausa e solo allora Hazel si voltò. Nella penombra, cercai i suoi occhi, ma li vidi a stento. «Ma tu sì» mormorai «tu la meriti e tu... Tu non sei questa. Sei quella che... Che mette la vita di un ragazzo imbranato prima della sua, quella che si intrufola nella sua stanza per cantargli delle ninne nanne perché sa che senza non sa addormentarsi, quella che torna da un'idiota come me, anche se prima l'ha trattata da schifo».

Mentre le mie parole scorrevano, lei si portò le mani sulla testa, tra i capelli. Chiuse gli occhi, quasi non volesse sentire la mia voce. Iniziò a bisbigliare qualcosa di incomprensibile, che, gradualmente, prese tono e si trasformò in un urlo: «Sta' zitto!».

Ubbidii, ma il fatto di iniziare a sentirmi estremamente debole fu complice. Hazel sembrava sull'orlo di una crisi di nervi. Iniziò a tremare, fuori controllo. Dentro di lei si stava compiendo una battaglia, riuscivo a percepirlo: il bene da una parte, il male dall'altra.
Alle sue spalle, scorsi Martha. Immersa nel buio, riuscii solamente a vedere bene i suoi occhi. Voleva intervenire, ma gli feci cenno, con il capo, di non farlo.
Strisciai lungo la parete con la schiena, a fatica, per rimettermi in piedi. Avevo la vista leggermente appannata, a causa della botta in testa e del dolore presente, in pratica, in ogni parte del mio corpo.
Ero sul punto di compiere un passo verso di Hazel, ma lei mi precedette. Mi venne in contro e mi bloccò contro il vetro, premendo i polpastrelli contro il mio petto. Aveva il fiatone, come se fosse stata sottoposta ad un enorme sforzo e capii cosa si stava accingendo a fare: nutrirsi della mia anima.

Lo avrebbe fatto sul serio?

Da come continuava a tremare, da come quel gesto risultava incerto, ne dubitai, ma ormai niente era più sicuro.

Sollevai lo sguardo e i nostri occhi si incrociarono. C'era di nuovo il verde nei suoi.

«Vuoi prendere la mia anima, Hazel?» sussurrai. «Fallo. Non mi serve, non se non riesco a riportarti indietro». Sentii le sue unghie affondare nella carne e mi lasciai scappare un gemito. Mi sforzai di tenere gli occhi incastonati ai suoi. «Prima però» biascicai «dovresti sapere una cosa». Feci una breve pausa, durante la quale sollevai a stento una mano, posandola sul suo avambraccio teso.

«Mi dispiace» dissi, a bassa voce. «Mi dispiace per come ti ho trattato, per... Per non averti creduto sin dall'inizio e... E per quello che hai visto con Tamara e... Sono umano, no? Ecco i miei errori».

Portai la mano libera sulla sua, sopra lo sterno, e premetti delicatamente. I respiri di entrambi erano affannosi; il suo, forse, per l'ansia che la attanagliava. Il mio... Non seppi dire il perché.

La guardavo, cercando di andare oltre in sangue scuro che le macchiava la candida pelle del viso, oltre i capelli arruffati, oltre l'aria minacciosa che aveva sempre più crepe e instabilità; perché lì sotto c'era la mia Hazel, quella di sempre, quella di cui non avevo mai davvero dubitato.

Lo sapevo e basta.

«Ti amo, Hazel».

Lo dissi senza pensarci. Senza esitare, senza rimuginarci sopra, perché tanto era cosa ovvia, era cosa logica, era cosa che il mio inconscio aveva già capito, da sempre, ma che io mi rifiutavo di ammettere, perché bloccato dalle circostanze, perché frenato dall'eccessiva ragione, perché accecato dalla rabbia futile.
Probabilmente, non era uno di quei momenti romantici in cui avevo pensato di dire quelle due parole per la prima volta, ma andava bene comunque.

«Non. E'. Vero» sillabò lei e premette più a fondo le unghie nella carne.

«Tocca a te crederlo questa volta» biascicai. «Vuoi commettere anche tu un errore?».

Avevo le palpebre pesanti. Mancava poco e le gambe non mi avrebbero più retto in piedi. Mi sforzai, tuttavia, di restare vigile, cosciente e i suoi occhi, in tal caso, aiutarono molto.
Vidi tutto. Vidi come la sua espressione si spaccò in due, come, tentando di mantenere una facciata dura, ogni cosa si ruppe, lasciando spazio alla sua solita aria dolce e, in quell'occasione, rammaricata. Vidi i suoi occhi tornare ad essere solo verdi e farsi, pian piano lucidi; la mano scivolò via dal petto e la mia la seguì a ruota.

Hazel si buttò tra le mie braccia, affondando il viso nel mio collo. Non potei fare a meno che stringerla a me, sebbene la mia debolezza fece crollare entrambi a terra, io seduto, lei semi-sdraiata su di me e in lacrime.

«Va tutto bene» mormorai, appoggiando le labbra sui suoi capelli. «Va tutto bene».

Singhiozzò, aggrappandosi alla mia maglietta. Solo allora Martha ci raggiunse e non ebbi la necessità di fermarla. Rimase in piedi, a qualche metro di distanza e ci scambiammo uno sguardo veloce. Le feci capire che ero riuscito nell'intento con quel gesto e lei abbozzò un sorriso.

Era vero: l'amore umano può cambiare una persona. Hazel ne era l'esempio vivente. Se solo me ne fossi accorto prima, forse avrei evitato tutto quel casino. O forse, era semplicemente tutto necessario affinché me ne rendessi conto.

Sentivo ancora il sangue colarmi dalla nuca, quando Hazel sollevò il capo e mi guardò. Tremava, era continuamente scossa. Portò una mano sul mio viso e mi accarezzò la guancia con le dita, come meglio poteva, sfiorando delicatamente i miei tratti, dal sopracciglio destro allo zigomo.

«Sei... Sei ferito» biascicò.

Scossi appena la testa. «No. Sto bene» dissi. Era una grossa bugia. In realtà, ero convinto di essere sul punto di svenire, ma ero contento del fatto che fosse tornata a preoccuparsi per me, come aveva sempre fatto, del resto.
Martha intervenne. «Perché non andate a casa mia?» propose. «Io rimango qui a ripulire questo casino e poi vi raggiungo». Il suo tono di voce era piatto e tranquillo. Mi permisi di pensare, per un solo attimo, che tutto fosse finito per davvero e lasciai da parte il fatto che, invece, quello era solo l'inizio, perché Sebastian non si sarebbe arreso facilmente, non dopo esser arrivato così vicino al proprio obiettivo.

Hazel annuì distrattamente alla proposta dell'amica. Mi parve di sentirla sussurrare un grazie, prima che entrambi scomparissimo da quella torre.

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Capitolo 23
*** Shelter. ***


Capitolo 23
"Shelter"


Ci ritrovammo al centro del grande salotto di casa di Martha in meno di un secondo. Ebbi solamente il tempo di sbattere le palpebre una volta e il luogo attorno a me era già cambiato.

Ero ancora a terra, ancora con Hazel tra le braccia, ma niente più vetri rotti attorno a me, solo mobili moderni e piastrelle laccate color perla.

«Devo prendermi cura di te». Sentii la sua voce, ma non vidi le sue labbra muoversi. Poco dopo, tuttavia, si alzò in piedi e aiutò me a fare lo stesso. Arrancammo fino al divano del salotto e sprofondai tra quei cuscini di finta pelle. Hazel fece per allontanarsi, ma una mia mano scivolò subito ad afferrare la sua e così la trattenni. «Resta qui» sussurrai. Lei abbozzò un sorriso, lieve. Mi sfiorò con la punta delle dita una guancia, toccando i bordi di un taglio che mi ero procurato, proprio sotto l'occhio sinistro. «Prendo solo delle bende e torno da te» disse, a bassa voce. Non potei rispondere o replicare in qualche modo: era già sparita e, prima che il mio tentativo di rimettermi in piedi e seguirla fallisse, era già tornata. Si sedette al mio fianco, tirò fuori dalla cassetta del pronto soccorso – già, Martha ne aveva una in casa, ne fui sorpreso – delle garze, bende e disinfettante. Cominciò a medicarmi, ed era talmente assorta in quei gesti che, per un attimo, smisi di seguire ogni suo movimento e mi focalizzai solo sul suo viso. A parte le tracce di terra e di sangue ormai secco, Hazel era sempre la stessa; la ragazza che mi era venuta addosso il mio primo giorno a Chicago, quella che mi aveva consolato dopo l'aggressione da parte di Jason, quella della piscina, quella del ballo, quella iperprotettiva, quella delle ninne nanne.

Senza accorgermene, avevo portato una mano sul suo volto, sfiorando ogni lineamento con i polpastrelli e soffermandomi sulla bocca. Solo allora, lei alzò lo sguardo su di me e lasciò per un attimo perdere la medicazione, che intanto aveva iniziato a pizzicare. Accennò un sorriso, uguale a quello di poco prima.

«Mi sei mancata» mormorai.

«Mi sei mancato anche tu». Prese la mia mano e vi appoggiò la guancia sopra. Sorrise di nuovo e più genuinamente. «Intendevi...» disse, poco dopo. «Intendevi davvero quelle parole, sulla torre?».

«Tutte quante».

«Anche... Quelle due parole?».

Abbozzai una risata. «Soprattutto quelle».

«Pensavo non volessi nemmeno più rivedermi». Scosse appena la testa e io non risposi. Sapeva di Tamara? Evidentemente no e forse non era qualcosa da poterle dire in quel momento, anche perché non mi andava di rovinarlo. Non mi andava per niente.

«Dopo quello che è successo quando hai trovato quel diario...» continuò. «Non sapevo che fare per farti cambiare idea, per... Spiegarti. Era tutto inutile, perché tu eri arrabbiato. Così ho pensato di... Lasciarti i tuoi spazi e... Tornavo da te solo la notte, per aiutarti a dormire, anche se non mi riusciva bene come le altre volte».

«Sei tornata da me anche dopo le brutte cose che ti ho detto?».

«Io tornerei sempre da te». Abbassò lo sguardo, come se fosse imbarazzata dall'aver pronunciato l'ultima frase. Portò le labbra sul dorso della mia mano e ci depositò sopra un bacio delicato, prima di fare intrecciare le nostre dita.

«Quel giorno, in ascensore» sussurrò ancora «non volevo aggredirti. Era come se qualcuno mi stesse spingendo a farlo, prima... Parlandomi e poi... Poi muovendo addirittura il mio corpo, senza che potessi fermarlo».

Rimasi ad ascoltare. Anche quell'inconveniente era opera di Tamara, sotto l'ordine di Sebastian.

Scossi appena la testa, socchiudendo gli occhi. «Non fa niente, okay?» mormorai. «E' passato e non...».

«Non può non fare niente». Lasciò la mia mano, poggiandola delicatamente sul mio ginocchio. Spostò lo sguardo altrove. «Quella voce continuava a parlarmi e...» andò avanti «e peggiorava ogni cosa. Ero furiosa, continuamente, inesorabilmente e tu sembravi essere sempre così lontano e non...».

Mi sollevai piano dai cuscini del divano, cercando di ignorare il dolore lancinante che mi attanagliava la schiena. Allungai un braccio, fino a sfiorare il suo mento e costringerla a voltarsi, così che i nostri occhi potessero incatenarsi gli uni agli altri. Hazel era ancora titubante e tremava.

«Ho ucciso delle persone, Simon» biascicò.

Era come se me lo aspettassi, perché non ebbi nessuna reazione esagerata. Non fui colto dal panico o dal terrore, l'ansia non mi divorò. Rimasi calmo. Inaspettatamente calmo perché sapevo che, qualunque cosa avesse fatto durante quel dannato periodo di lontananza, non era dipesa da lei, almeno non direttamente.
Il palmo della mia mano si poggiò delicatamente sul suo collo, mentre lei abbassava il capo, cercando di evitare il mio sguardo, come se non volesse che la vedessi piangere.

«Sono un mostro» mormorò.

Scossi la testa, in senso di diniego. «No, non è vero» dissi.

«E' così! Io... Io...».

«No, ascoltami». Riuscii a farle sollevare il capo, stringendo il suo viso con entrambe le mani. Con i pollici, le asciugai le lacrime che le rigavano le guance. «Qualsiasi cosa tu abbia fatto, non eri in te. Sei tutt'altro che un mostro. Chi lo è, non prova rimorso. Ti hanno costretta a farlo e ne sei pentita. Questo non ti rende qualcuno di orribile».

«Esserne pentita non è un rimedio e non...».

A quel punto, tentare di fermarla a parole non avrebbe avuto più senso. Era pur vero che ero sempre stato convinto che esse facessero tanto, forse fin troppo, e il fatto che alcune in particolari avessero causato tutto quel casino, ne era l'evidente prova; ma, in quel momento, non fu necessario usarle, non fu necessario emettere suono.
Mi sporsi solamente in avanti e poggiai le labbra sulle sue, per un lieve bacio, uno di quelli che toglie il fiato; uno di quelli che si aspettano per una vita, che gli altri invidiano, che gli altri ammirano.
Io non ebbi il coraggio di allontanarmi. Lo fece lei, lentamente, poco dopo, ma restò comunque abbastanza vicina così che potessi ancora sentire il suo respiro caldo sulla pelle.

«Perché non ti sdrai con me e... Mi abbracci?» sussurrai. Hazel accennò un sorriso e mi baciò rapidamente sulla bocca. «Tu per me l'hai fatto, una volta» replicò.

Annuii e già i nostri corpi erano scivolati, a sincrono, sopra i morbidi cuscini del divano: Hazel tra le mie braccia, con la testa sopra il mio petto, e io che la stringevo a me, ignorando il dolore che mi affliggeva ancora, praticamente ovunque.

Chiusi gli occhi e il sonno sopraggiunse quasi istantaneamente, conciliato dalla sua soave voce.
 

***


Sogni tranquilli e beati mi accompagnarono per delle ore. C'ero io e c'era Hazel: noi, mano nella mano, sul lago ghiacciato di Bellwood, tra i sorrisi e le risate, e i baci che si susseguivano in quella meravigliosa armonia, tra la neve candida e il leggero soffiare del vento. Niente minacce, niente assurde incomprensioni: nulla.

Quando mi svegliai, tuttavia, quella sensazione di benessere sembrava essersi dissolta, poiché mi ritrovai da solo sul divano, con addosso una coperta di pile blu, e senza Hazel tra le braccia.
Mi misi in piedi, di scatto, e così facendo mi provocai una fitta di dolore alla schiena che mi costrinse a piegarmi in due e a trattenere il fiato.

«Che ci fai in piedi?».

Sollevai lo sguardo e la vidi, a pochi metri di distanza, completamente ripulita, con addosso un paio di pantaloni neri e una camicetta bianca: era raggiante, come sempre. Sorrisi o, perlomeno, tentai di farlo; ero pressapoco convinto che non mi fosse riuscito qualcosa di meglio di una smorfia. «Sei qui» biascicai.
«Certo che sono qui». Si avvicinò e mi aiutò a non capitolare a terra – e ci mancava davvero poco. Mi aggrappai ai suoi fianchi e appoggiai la fronte sulla sua. «Credevo di aver sognato tutto» biascicai «o che te ne fossi andata».

Sorrise. «No, è tutto vero. E anche se fossi andata via... Io torno sempre, ricordi?».

«Sempre» ripetei, sussurrando. Ero sul punto di sporgermi nella sua direzione, per baciarla ancora – perché l'avrei baciata sempre – ma l'ingresso di Martha nella stanza me lo impedì.
Le sorrisi, quasi istintivamente. Non avrei mai smesso di ringraziarla per ciò che aveva fatto. Purtroppo, però, il mio sorriso svanì quasi immediatamente, quando, a seguire la ragazza bionda, vidi Tamara. Feci una smorfia e, senza rendermene conto, strinsi di più Hazel a me. «Perché lei è qui?» domandai, con tono duro. La mia opinione sulla strega era cambiata e non poteva essere altrimenti.

Ero lucido, allora, e le cose si erano fatte più chiare, per mia fortuna; per tal motivo, riuscii a sopportare a stento la sua presenza.

«E' tutto okay, Simon» sussurrò Hazel. Prese il mio viso tra le mani, costringendomi a guardarla negli occhi, che mi incatenarono, come sempre. «No, non è okay» biascicai. «Lei... Lei è la ragione per cui noi ci siamo separati, ha... Ha combinato tutto questo casino e...».

«Lo so, lo so». Mi baciò rapidamente sulle labbra e quel gesto mi calmò, almeno un po'. «Martha mi ha detto tutto».

«E le permetti di stare qui?».

«Devo. Non posso lasciarla andare».

«Perché no?».

«Perché Sebastian la troverebbe e la costringerebbe a dirgli che mi hai trovato, che sono tornata in me e a quel punto inizierebbe la sua caccia».

Era vero. Non avevo preso in considerazione quell'ipotesi; accecato dalla rabbia e dalle mille altre sensazioni confuse, in precedenza, non avevo valutato bene la situazione. Così, scossi appena la testa, in cenno affermativo. Poi, posai ancora una volta le labbra su quelle di Hazel.

Un altro bacio, un'altra esaltante perdita di fiato.

Fu lei a staccarsi, poco dopo, e si voltò, facendo aderire la schiena al mio petto. Le nostre mani si unirono quasi meccanicamente e le nostre dita si intrecciarono le une con le altre.
Tamara sospirò. Vidi Martha lanciarle un'occhiataccia, forse per zittirla in anticipo, ma la rossa non si lasciò intimidire – probabilmente, senza minacce verbali, la Divoratrice bionda non era poi così credibile.

«Mi dispiace, Simon» disse, facendo un passo avanti. «E Hazel, mi... Mi dispiace, okay?».

«Risparmia le scuse» replicai, acido.

«Sto cercando di rimediare e...».

«Ed è tempo perso!».

«Simon!». Hazel mi rimproverò. Non l'aveva mai fatto, prima di quel momento. Mollò la mia mano e si voltò, indietreggiando appena. «Perdono» esclamò «è una caratteristica umana. Dovresti saperlo usare».

«Non posso». Scossi vigorosamente la testa, nervoso. «A causa sua, ci siamo quasi distrutti e non posso... Non posso perdonare una cosa del genere».

«Ti prego». La sentii sospirare e vidi Tamara abbassare lo sguardo. Hazel riprese nuovamente le mie mani, stringendole tra le sue, e portò i miei pugni chiusi sul proprio petto. «Fallo per me. Fammi credere che negli umani c'è ancora quella bontà e quella perfezione che ho sempre creduto ci fosse. Per favore».

La guardai negli occhi: quei diamanti verdi erano lucidi e mi stavano supplicando. Una parte di me si chiedeva ancora come fosse possibile una cosa del genere; come fosse possibile che un essere apatico fosse così pieno di compassione, più di me, forse più di tutta l'umanità messa insieme.
In realtà, mi resi conto che non avrei più dovuto farmi una domanda simile, a meno che non avessi voluto una risposta scontata, che più volte avevo ripetuto ad alta voce e che avevo chiuso in un cassetto remoto nell'ultimo periodo: Hazel era la più umana tra tutti, pur non avendo un'anima e per un attimo fui di nuovo oppresso dai sensi di colpa, per averlo ritenuto falso.

«Solo per te» sussurrai e lei mi sorrise. Dopo rivolsi lo sguardo a Tamara e biascicai un «Ti perdono» per nulla convinto, a malapena percettibile, ma andò bene; Hazel ne era felice e mi baciò dolcemente sulle labbra, quasi volesse ringraziarmi.

Io non dissi più nulla, evitai persino il contatto visivo con Tamara, per non lasciarmi tradire da espressioni contraddittorie, e lasciai passare in quel modo il resto della giornata, con i problemi più grandi ancora fuori.


 

______________________________________________________________________________

Ma salve, miei cari lettori!
Ebbene sì, torno a fare le note dell'autore a fine del capitolo, per ragioni varie: prima cosa, l'aver aggiornato tardi rispetto al solito; e sì, lo so che ci sono autori che aggiornano dopo mesi, ma io sono abituata a farlo un po' più frequentemente, quindi, se passa più di una settimana, vado nel panico!
Secondo: so bene che non è successo nulla di eclatante in questo capitolo, ma, dal momento che si avvicina il finale (*sobs*), sto riservando tutto per quello, ecco u_u''
Terza cosa: io mi diletto tantissimo con Photoshop, quindi.. Ho fatto anche delle fan-art sulla mia storia. Se volete darci un'occhiata, eccone alcune :3
http://24.media.tumblr.com/cbcd82d1027392c31edab59d39f3768b/tumblr_mmebkw6iIV1qb0holo1_500.png
- http://25.media.tumblr.com/b67b707b747a534adb2cb947b45a1030/tumblr_mlzaqc0grV1qb0holo1_500.png
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- http://25.media.tumblr.com/e640e2035ec78b9b6b5d1586a9163301/tumblr_mltlo4xnJe1qb0holo1_500.png
- http://25.media.tumblr.com/1ae8d7f75bdf7fd7a21eb7da246f2897/tumblr_mlq2lt65Bh1qb0holo1_500.png

Ce ne sono anche altre, ma, siccome EFP non mi fa inserire collegamenti (*ri-sobs*), metto solo queste.
Come sempre, ringrazio tantissimo chi legge, chi recensisce, chi tutto! Significa tantissimo per me, davvero.
Vi amo!

-Susy.

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Capitolo 24
*** Presage. ***


Capitolo 24
"Presage"


Presentimento: sinonimo di presagio; avere un'intuizione, una sensazione di ciò che sta per accadere. E' quasi sempre associato a qualcosa di negativo, perché la felicità non è propriamente prevedibile.
Gli esseri umani hanno spesso presagi e capita che si lascino condizionare da essi, forse fin troppo. Alcuni presagi hanno il potere di gettare nel panico una persona, di farla divorare dal terrore. Altri, invece, vengono semplicemente ignorati e sono i peggiori, perché sono gli unici che si rivelano veri.

 

Erano passati tre giorni dal mio ricongiungimento con Hazel. Avevo avuto la possibilità di tornare a casa, da mia madre, che si rallegrò di rivedermi con “la sua Johanna” - lo dimostrò il suo largo sorriso quando ci vide entrare in casa mano nella mano; ma uno strano presentimento mi aveva sempre accompagnato, durante quel breve periodo. Non che potesse essere altrimenti: chi non avrebbe cattivi presagi con un Divoratore di Anime che non vuole altro che il suo sangue?
Tuttavia, era strano. Della mia incolumità, poco mi importava. Ero più preoccupato per quella degli altri: mia madre, per prima, dal momento che era all'oscuro di tutto e non aveva difese. Chiesi a Tamara – o meglio, pregai Martha di parlarle per me – di mettere un incantesimo di protezione su di lei. La strega disse che l'amuleto che le avevo messo in borsa settimane prima era ancora funzionante e che poteva bastare. Cercai di fidarmi, sebbene ancora scettico.
A seguire, c'era Hazel. Sebastian aveva ancora il pugnale e prima o poi avrebbe scoperto il fallimento del suo piano così ben architettato e sarebbe tornato alla riscossa. Ero pressapoco sicuro che non avrebbe più esitato ad uccidere la sorella e, di conseguenza, me.
Infine, c'era Martha. Lei era la più forte di tutti, colei che all'apparenza non aveva bisogno di nessuna protezione – tanto meno della mia. Ma aveva di sicuro qualche punto debole e sicuramente lui ne era a conoscenza, o lo sarebbe stato presto.

“Il sacrificio sei tu, idiota! Sei tu quello in pericolo, non loro!”. La mia coscienza continuava a rimproverarmi. Era la parte più egoista di me e, in fondo, aveva ragione.
L'obiettivo del Divoratore biondo ero io, non loro.

La domanda che mi assillava costantemente, però, era perché stesse aspettando e cosa, soprattutto. Probabilmente, Tamara ne era conoscenza, ma non ce lo avrebbe mai detto, nonostante i suoi tentativi di redimersi. Iniziai a comprenderla, sotto un certo punto di vista: cercava di salvarsi la vita – sua e della madre – e rivelandoci ogni dettaglio del piano del nemico, si sarebbe messa in guai seri.

Il presentimento non svanì, anzi, diede l'impressione di diventare sempre più concreto, sempre più assillante. Avevo paura ed era difficile negarlo.

L'insonnia era tornata, nonostante le ninne nanne di Hazel. Finivo col rigirarmi costantemente nel letto, senza riuscire a chiudere occhio; oppure, quando ci riuscivo, i sogni incantati venivano oscurati da incubi tenebrosi, che mi facevano palpitare forte il cuore e sudare freddo, proprio come quella notte.
Mi misi seduto di scatto sul letto, con gli occhi spalancati e il fiatone, come se avessi corso per chilometri. La maglietta bianca del pigiama mi si era appiccicata addosso, insieme ai capelli che si erano incollati alla fronte.

«Tutto okay?». La voce lieve di Hazel risuonò nelle mie orecchie. Girai appena il capo e lei era lì, seduta al mio fianco, con addosso la sua camicia da notte di pizzo bianco, sveglia e lucida – e perfetta – come sempre. Annuii, distrattamente. «Ho solo avuto un brutto sogno» biascicai. La sentii sospirare. «Vorrei poterti aiutare a non averne» sussurrò «ma riesci a cacciarmi via dalla tua testa».

«Mi dispiace».

«Non è colpa tua». Hazel si mise in ginocchio sul materasso, rimanendomi accanto e si sporse lievemente, a depositare un delicato bacio sulla mia tempia. Non osai replicare e, per un po', il silenzio fu nostro compagno. Con l'assenza di parole, rimasero solo i gesti: io che le baciavo il dorso della mano, piano, non tralasciando nemmeno un millimetro di pelle e lei che mi accarezzava piano i capelli sulla nuca e mi stuzzicava il collo con le labbra.

«Ricordi l'installazione di Martha?» sussurrò, poco dopo, il che mi portò a portare lo sguardo sul suo viso e i nostri occhi si incrociarono. «Certo che sì» mormorai. Lei sorrise. «Hai scelto Parigi come città» continuò. «Un giorno, vorrei portarti lì, quando tutto questo sarà finito e baciarti sotto la vera Tour Eiffel».

Sorrisi anche io, genuinamente. «Tu ci sei già stata?» domandai.

«Sì, ma non c'era ancora la Tour Eiffel e, cosa più importante, non c'eri tu».

«Quante città hai visitato?».

«Parecchie. Quasi tutto il mondo, in realtà».

«E non hai mai voluto... Restare da qualche parte?».

«Parecchie volte, ma non potevo e dovresti sapere il perché».

«Lo so». Feci una breve pausa, abbassando lo sguardo. «Forse potrei portarti io, a Parigi» sussurrai, poco dopo «con un convenzionale volo aereo, in terza classe, ma andrebbe bene comunque».

«Che vuoi dire?».

«Voglio dire che, da umana, l'aereo sarebbe il mezzo più veloce per attraversare l'oceano». Successivamente a quella frase, il sorriso che le si era stampato in faccia da quando avevo aperto gli occhi, svanì, lasciando posto ad una strana e poco rassicurante smorfia. La sentii sospirare, mentre lentamente scioglieva l'intreccio delle nostre mani e si scansava appena. «Tu credi...» mormorò «credi ancora a quella storia? Dell'umanità che nasce giorno per giorno?».

«Certo che ci credo».

«Non dovresti».

«Perché no?».

«Perché... Perché è qualcosa che Tamara ha scoperto e... E lei ci ha mentito così tanto. So che l'abbiamo perdonata, ma... E' diverso».

«Ci ha mentito, è vero, però non penso che l'abbia fatto su questo. Sono sicuro che...».

La mia frase non ebbe modo di avere fine. La porta della mia stanza cigolò e i passi – appena percettibili – di mia madre sulla moquette, costrinsero Hazel a dissolversi prima che potessi impedirglielo – che poi, nemmeno potevo impedirglielo, se volevo evitare un conseguente interrogatorio.

«Simon! Sei sveglio» disse mia madre, accendendo la luce. L'assenza repentina della semi-oscurità mi portò a strizzare gli occhi. «Ehm, sì» replicai «ho fatto un brutto sogno». Mi sentii un bambino di cinque per pochi secondi. Capitava spesso, a quell'età, che mi svegliassi nel cuore della notte, urlando e col fiatone, e lei veniva a tranquillizzarmi, qualunque ora fosse, e restava con me fino alla mattina, anche dopo che mi ero addormentato. Sorrisi lievemente, a quel ricordo. «Tu che ci fai in piedi?» chiesi poi.

«Volevo solo...» rispose, a bassa voce. Sospirò e si sedette sul letto, vicino alle mie gambe distese. «Volevo solo controllare che il mio piccolo stesse bene».

«Sto bene».

«Ultimamente, non sembrava». Fece una breve pausa, spostando per un momento lo sguardo altrove. Poi lo riportò su di me e allungò una mano, tirando leggermente i miei capelli all'indietro. «Ti vedevo sempre triste, cupo, a volte arrabbiato» continuò «ma adesso le cose si sono aggiustate, no?».

Annuii. Come accadeva sempre, mia madre era stata in grado di ricostruire perfettamente ciò che era successo, senza che io gliene avessi effettivamente parlato. Era la sua empatia, costantemente efficace e presente, ed ero grato che ci fosse.

«E' quella ragazza, vero?» sussurrò, poco, e abbozzò un sorriso. Mi parve di vedere i suoi occhi brillare. «Johanna. Lei... Lei ti rende felice».

«Sì. Lo fa». Sorrisi anche io, allora, con lo stesso suo entusiasmo.

«Questa è la cosa più importante: tu devi essere felice. Se è lei la tua felicità, non lasciarla andare, Simon: mai. E' rara da trovare, al giorno d'oggi».

«Non ne ho alcuna intenzione». Abbassai per qualche secondo lo sguardo. «Perché mi stai dicendo tutto questo?» sussurrai.

«Perché il mio bambino sta crescendo ed ha bisogno delle giuste dritte. Voglio impedirti di commettere errori che ti segneranno per tutta la vita, un po' come ho fatto io».

«Intendi papà?».

«Intendo un sacco di cose». Scosse appena la testa e non osò dire altro. Si alzò lenta dal materasso e io non proferii parola. Mia madre non aveva mai esternato il proprio dolore: aveva sempre cercato di essere forte, nonostante le difficoltà; mi era rimasta accanto, cercando di rendere la mia vita il più normale possibile, senza farmi mancare troppo mio padre, anche se era difficile, per entrambi. Però capitava che qualche volta crollasse e si lasciasse andare: mai al limite, mai in via definitiva, ma accadeva e, in quei casi, io ero il suo unico appiglio.

«Torna a dormire, Simon» sussurrò, ormai sulla soglia della porta. «Domani hai scuola». Si congedò in quel modo, spegnando la luce e sparendo nel buio corridoio.

Io restai immobile, seduto sul materasso, nell'attesa di qualunque cosa, probabilmente che Hazel tornasse a farmi compagnia per il resto della notte, che venisse a cantarmi una delle sue ninne nanne e che mi regalasse bei sogni, ma nulla accadde. Rimasi solo, nell'oscurità. Tornai quindi a sdraiarmi sul letto e mi costrinsi a chiudere gli occhi, sperando di addormentarmi presto.
 

***

Mi svegliai con il sole tenue che filtrava dalla finestra della mia camera. Doveva essere l'alba. Ero riuscito a dormire, per un po', senza sogni, né incubi, il che, per me, andava più che bene. Mi trascinai fuori dal letto, facendo cadere sulla moquette le lenzuola. Le lasciai lì, le avrei raccolte dopo. Mi sentivo stranamente confuso e intontito, così dovetti stropicciarmi gli occhi più volte per essere un po' più lucido. A piedi nudi, uscii dalla stanza e il contatto con le mattonelle gelide mi fece rabbrividire.
Solitamente, anche a quell'ora, sebbene fosse presto, la casa era quasi sempre invasa dal profumo della colazione: pancake, cornetti caldi, uova strapazzate e pancetta, e altre delizie che mia madre preparava a tonnellate. Non riuscivamo mai a finire tutto, ma lei non osava ridurre la quantità di cibo. Quella mattina, invece, l'ambiente aveva un odore acre, strano, di aria rafferma, di un posto sigillato da fin troppo tempo. Mi chiesi il perché, rigirando tra le varie stanze: la cucina, il salotto, la camera degli ospiti, il bagno. Ogni angolo del grande appartamento.

«Mamma?» chiamai, attendendo una risposta nel bel mezzo del corridoio. «Mamma? Non mi dire che stai ancora dormendo».

Incurvai le labbra all'insù, lasciandomi trasportare per un attimo dai ricordi d'infanzia: probabilmente quella giornata avrebbe avuto quello come tema.
Da bambino, quando mi svegliavo prima dei miei genitori, mi intrufolavo nella loro camera e strisciavo sul letto, tra loro, iniziando a saltare sul materasso. Erano momenti felici, spensierati, che da quando mio padre se ne era andato, erano scomparsi.

Così, mi diressi verso la stanza dove dormiva mia madre e aprii piano la porta. Era buio, le tende gialle erano tirate, perciò il sole, là dentro, non riusciva ad entrare. Camminai in punta dei piedi fino al letto e vi salii sopra, mettendomi in ginocchio su di esso. «Mamma?» esclamai e scossi appena il materasso. Ma lei non ebbe alcuna reazione.

“Sonno pesante” pensai e ripetei il gesto di poco prima. Una volta, due, tre.

«Mamma?» chiamai ancora e allungai una mano, per scuotere lei, stavolta. Non appena toccai il suo corpo, tuttavia, percepii qualcosa di bagnato sul mio palmo: un liquido appiccicoso, ghiacciato.

«Mamma!». Questa volta urlai e la mia voce si spezzò. Non ebbi bisogno di accendere la luce per rendermi conto che quello era sangue e il rosso era ovunque. Lei non si muoveva, non respirava e il suo cuore non c'era più.

Ed ecco che i miei presagi divennero realtà, mentre io iniziavo a tremare e il mio inconscio mi trascinava in un baratro nero, dal quale difficilmente sarei uscito.

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Capitolo 25
*** Sacrifice. ***


Capitolo 25
"Sacrifice"


Si pensa alla morte come qualcosa di troppo remoto per riguardarci. Una scura e crudele mano nera che trascina chissà dove le persone, ma rimane lontano dai nostri interessi, dalle nostre menti.
Si pensa alla morte come qualcosa che tocca sempre e solo gli altri, gente sconosciuta con la quale non abbiamo mai parlato, della quale non sentiremmo la mancanza, in ogni caso. Ed ecco perché è così devastante: è sempre inaspettata, sebbene tutti siano a conoscenza del suo inesorabile avvenire.

 

«Simon Clarke, te l'ho già ripetuto. Sì, sì, ho chiamato quel numero, ma è inesistente. No, non... Dici? Non credo che... No, non ci sono altri familiari. Sì, va bene, attendo».

Il mio assistente sociale era una donna bruna, vestita con un tailleur grigio di almeno due taglie più grande, il che la costringeva a tirarsi su la gonna praticamente ogni secondo. Era al telefono da quelle che erano ore. O forse di meno, forse di più: non avevo scandito bene il tempo.
Non avevo fatto un bel niente, in realtà, a parte stare seduto immobile, con lo sguardo fisso nel vuoto. Non avevo parlato, né gesticolato. Mi avevano mosso loro, come un fantoccio, cambiandomi i vestiti e pulendo la mia pelle, facendola tornare immacolata, priva di ogni traccia di rosso.
Un paramedico aveva sussurrato le parole “shock post-traumatico”. Non era la prima volta che mi capitava di averne uno, solo che ero pressapoco sicuro di non aver mai raggiunto quei livelli, così catastrofici. Non ero nemmeno stato in grado di chiamare aiuto, come se la vista di tutto quel sangue mi avesse reso muto.
Era stato il portinaio a chiamare aiuto, oppure i ragazzi delle pulizie. Non ne avevo idea. Tutto si muoveva attorno a me, nella sede centrale della polizia di Chicago, ma io non riuscivo ad interagire con nulla. Non sentivo nemmeno il calore della tazza di tè che mi avevano dato e che stavo tenendo in mano, senza avere l'intenzione di bere.

«Simon? Simon!».

Venni scosso delicatamente dalle spalle e solo allora riuscii a interagire di nuovo col mondo o, perlomeno, una parte di esso. Due mani dalle dita sottili raggiunsero il mio viso e mi accarezzarono lievi le guance; poi, vidi due occhi verdi che mi fissavano, sgranati. Si leggeva la preoccupazione in essi.

Hazel mi stava di fronte. La guardai, schiudendo appena le labbra. Cercai di dire qualcosa, ma, in un primo momento, quasi smisi di respirare.

«Ehi» sussurrò lei. Mi tolse la tazza di tè dalle mani e la ripose a qualche centimetro da me, sulla panca di legno su cui ero bloccato.

«Ti ho chiamata» riuscii a biascicare e dubitai che avesse compreso qualcosa, ma andai avanti lo stesso. «Ho detto il tuo nome ad alta voce o forse... Forse l'ho solo pensato, non lo so, però ti volevo al mio fianco e tu non c'eri e... E allora ho aspettato che tornassi, io ho aspettato, l'ho fatto e anche... Anche lei ti ha aspettato e lei... Lei... Lei è morta e... E io... Io...».

«Shh». Hazel mi strinse tra le sue braccia e io poggiai la testa sul suo petto. Solo allora piansi. Le lacrime, prima di quel momento, non avevano osato fuoriuscirmi dagli occhi. Erano rimaste intrappolate. Pensai avessero paura di colarmi sulle guance.

«Mi dispiace, Simon. Mi dispiace così tanto» la sentii sussurrare. Io non replicai: non sapevo cosa avrei potuto dire e nemmeno ne avevo la forza. Lei continuò a stringermi a sé, cullandomi, come fossi un bambino, e io chiusi gli occhi, sperando che quel gesto riuscisse a calmarmi, a farmi ritrovare almeno un briciolo di serenità, sebbene fosse impossibile.

«Possiamo andare!». Un'altra voce sopraggiunse, d'improvviso. Attesi qualche secondo prima di sollevare le palpebre e scorsi Martha, in piedi, di fronte a noi. Aveva un'espressione tranquilla, rilassata, come al solito. «Non posso andarmene» mormorai, alzando di poco il capo. «Non ho... Parenti stretti da cui andare, a parte mio padre, ma è lontano, chissà dove e io non...».

«Oh, non essere sciocco» mi interruppe la bionda «Hai me!».

«Cosa?».

«Già. Sono la tua nuova zia».

«Tu... Come...».

«Ho i miei trucchi. E amici nella polizia e nell'assistenza sociale. Un giorno ti spiegherò tutto».

Razionalmente, a mente lucida, l'avrei riempita di domande pressoché logiche che spiegassero con fatti concreti e soddisfacenti ciò che stava accadendo; tuttavia, il mio stato confusionario ed emotivamente sconvolto mi portò ad annuire e basta, senza obiettare su quanto fosse una vera pazzia.

Nemmeno loro dissero più nulla.

Lasciammo la centrale di polizia, sviando ulteriori pratiche burocratiche, almeno per quella sera. Per strada, mi bastò chiudere per un istante gli occhi e stringere la mano di Hazel per ritrovarmi al centro del salotto di casa di Martha. Quest'ultima, si allontanò quasi subito da noi due, come del resto faceva sempre, con la sua intenzione di lasciarci soli. Probabilmente, quello era uno degli unici momenti in cui davvero avevamo bisogno di restare da soli.

«Dovresti riposare un po'» sussurrò lei e le sue mani raggiunsero lentamente il mio viso. Scossi appena la testa. «Non riesco a dormire, non... Non posso» biascicai.

«Posso aiutarti io. Ti va?».

«No. Non...». Lasciai la frase in sospeso e strizzai gli occhi, trattenendo ulteriori lacrime che già sentivo affiorare. «Devo fare qualcosa, Hazel» mormorai. «Io devo. L'ha uccisa e lei... E lei non sapeva niente di tutto questo, non... Credevo di averla protetta abbastanza e invece non... Non...».

Dalla mia bocca uscivano frasi spezzate, sconnesse. Era ancora l'effetto dello shock.

«Lo so» disse lei, sfiorandomi le guance con i pollici. Alla fine, le mie difese erano crollate ancora una volta e stavo piangendo, ancora. «So che è stato lui e ti giuro che la pagherà per questo, ma ora come ora, tu non puoi fare nulla. Finiresti solo col farti uccidere e non credo di riuscire a sopportarlo»

«Cosa devo fare, allora?».

«Niente. Fidati di me e basta. Dobbiamo aspettare e poi, insieme, risolveremo tutto. Te lo prometto, d'accordo?».

Di nuovo, la mia reazione fu quasi meccanica. Annuii solamente, mordendomi piano il labbro inferiore. Hazel si sollevò sulla punta dei piedi, per baciarmi delicatamente in fronte e, successivamente, sullo zigomo sinistro. Mi prese per mano, poi, e io fui di nuovo un fantoccio, lasciandomi guidare nella “nostra” camera da letto. L'installazione era spenta, c'erano solo pareti pallide attorno a noi.
Hazel mi aiutò a mettermi a letto, davvero quasi fossi un bambino, togliendomi di dosso gli indumenti che bastavano per permettermi di stare comodo sotto le coperte, che rimboccò con cura. Un po' come faceva mia madre.

«Dormi un po', okay?» mi sussurrò e posò un altro delicato bacio su una delle mie guance. Abbozzò un sorriso, del tutto privo d'entusiasmo, e fece per andarsene. Tuttavia, nello stato in cui mi trovavo, se lo avesse fatto, molto probabilmente mi sarei definitivamente deteriorato, senza modo di tornare indietro.
Così allungai una mano e afferrai un suo braccio, trattenendola. «Resta qui con me» biascicai. Lei non obiettò. Forse, nemmeno aveva il coraggio di farlo. «D'accordo» mormorò e salì sul materasso, sdraiandosi al mio fianco. Mi rifugiai tra le sue braccia e sentii un suo lieve bacio sui miei capelli.

«Tu sei tutto ciò che mi resta» dissi, in un sospiro. Sollevai appena il capo, per incrociare i suoi occhi smeraldo. «Non... Non mi lasciare, okay? Mai, non... Non mi lasciare».

«Non ti lascio, Simon. Non vado da nessuna parte».

«Me lo prometti?». Oltre che a sembrare un bambino, in quel momento, mi comportai addirittura come tale, ma non potei farne a meno. La parte più infantile di me necessitava di sicurezze, di piccole rassicurazioni, per quanto potessero essere veritiere o lontanamente razionali.

«Te lo prometto» sussurrò Hazel. La guardai per qualche istante e mi morsi forte il labbro inferiore, rischiando di farlo sanguinare. Volevo evitare che il mio volto si riempisse ulteriormente di lacrime. Tornai a poggiare la testa sul suo petto e chiusi gli occhi. Lei prese ad accarezzarmi delicatamente il capo e poi cantò, una delle sue ninne nanne, che pian piano, mi fecero scivolare in un sonno profondo.


***


Sognai mia madre. Hazel scelse di farmi sognare lei: i suoi abbracci, le sue carezze, le sue favole della buona notte. Tutta quell'armonia passata che mi faceva stare bene. E fu così: nel sonno, stetti bene. Non c'era confusione, non c'era dolore, non c'era panico: solo armonia, gioia, felicità, dolcezza.

Quando aprii gli occhi, tuttavia, ogni cosa svanì. Ero solo, in quel grande letto dalle lenzuola blu scuro. Mi trascinai fuori dalle coperte, scompigliandomi i capelli con le dita e passandomi una mano sul volto. Indossai distrattamente le scarpe e la felpa nera, sperando di non avere un aspetto eccessivamente devastato. Abbandonai la camera da letto e, a passo lento, mi diressi verso il salotto. Ero sul punto di entrare in quella stanza, ma qualcosa mi bloccò: delle voci, quelle di Hazel e Martha. Stavano parlando ed ero pressapoco sicuro che io fossi il principale argomento della loro conversazione.

«Non devi farlo» esclamò l'ultima. Il suo tono sembrò quasi isterico ed era strano, da parte sua. Io rimasi nascosto dietro alla porta, sperando che non si accorgessero della mia presenza.

«Sì che devo» replicò Hazel «devo farlo, se vogliamo che questa storia finisca».

«Possiamo trovare un altro modo, Haz, noi p...».

«Non c'è un altro modo, Martha. Tamara gli avrà riferito ogni minimo particolare e lui starà già architettando qualcosa di diabolico». Fece una breve pausa e la sentii sospirare. «Ho bisogno che tu faccia una cosa per me».

«Cosa?».

«Devi dargli questa, dopo... Sai cosa».

«Una lettera? Credi che una lettera possa rimediare tutto?».

«Può spiegargli tutto, il motivo per cui lo sto facendo».

«No. No, scordatelo. Non sarò io a dargliela».

«Perché?».

«Perché non voglio essere io quella che gli spezza il cuore».

«Si sveglierà tra poco, Martha, ti... Ti prego».

«Non pregarmi! Io non farò proprio niente e nemmeno tu dovresti! Lo sai benissimo che è una follia!».

Hazel avrebbe replicato, ma, a quel punto, mi decisi a interromperle, anche perché non ero riuscito a seguire bene il discorso e volevo chiarimenti. «Cosa è una follia?» chiesi, muovendo qualche passo nel grande salotto. Vidi sussultare entrambe e Hazel si girò verso di me. Finse un sorriso e mi accorsi chiaramente di quanto fosse nevrotico e privo di ogni convinzione. «Ehi» disse, ignorando la mia domanda.

Avanzai ancora e mi fermai a meno di un metro da lei. «Cosa è una follia?» ripetei.

«Niente, non... Non preoccuparti».

«Dovresti dirglielo» si intromise Martha. L'amica la guardò in malo modo per un istante e le fece cenno di tacere. Io, ovviamente, fui più che confuso. «Dirmi cosa?» esclamai.

«Avanti, Hazel, svelagli il tuo piano». La Divoratrice bionda non era il tipo da prendere ordini, lo avevo sempre saputo. Sorrise ironicamente, incrociando le braccia, mentre Hazel scuoteva appena la testa, maledicendola con gli occhi.

«Hai un piano?» le chiesi, cercando il suo sguardo. Lei annuì, distrattamente. «Sì» biascicò «ce l'ho».

«E quale sarebbe?».

Esitò, mordendosi il labbro inferiore e portandosi una ciocca di capelli dietro ad un orecchio. Era come se stesse cercando le parole chissà dove ed esse non esistessero. Me ne accorsi dal modo in cui cercava inesorabilmente di evitare che i nostri occhi si incrociassero. «Ho intenzione di... Rubare il pugnale a Sebastian e... E usarlo, contro... Di lui» disse, alla fine.

Feci una smorfia e Martha sorrise, allo stesso modo di poco prima.

La sua frase era incerta, ma per un momento, dei frammenti di secondo, le credetti. «Rubargli il pugnale?» esclamai.

«Sì».

«E come facciamo?».

«Non “facciamo”. Lo farò io, da sola».

«Cosa? No, non... Non puoi farlo da sola! Tu...». Mi interruppi e, d'istinto, cercai lo sguardo di Martha. Mi bastò osservare i suoi occhi azzurri per un solo istante per capire tutto.
Purtroppo.

La sua espressione preoccupata, come mai l'aveva avuta, mi comunicò di più di ciò che le parole avrebbero fatto.

Tornai a fissare Hazel. Anche sul suo viso era stampata una maschera d'angoscia, mista di sensi di colpa. «Questo è il tuo piano?» mormorai. «Una missione suicida?». Lei non rispose. Fu Martha a farlo. «Quello è esattamente il suo piano» disse.

Avrei voluto dire tante di quelle cose, allora. Avrei voluto addirittura fermare il tempo per parlarle, però sembrava scorrere così in fretta che nulla riuscì ad uscirmi di bocca, se non un retorico «Perché?».

Hazel abbozzò un sorriso, amaro, e fece un passo avanti, per ritrovarsi in piedi a pochi centimetri di distanza da me. «Perché è giusto che sia così» sussurrò. «Tutto questo casino è scoppiato per colpa mia. Sono stata egoista e ho messo in pericolo troppe persone. Ho ferito troppe persone. Se voglio rimediare, questo è l'unica maniera per farlo».

«Vuoi... Vuoi rimediare permettendo a Sebastian di ucciderti?».

«Sebastian vuole uccidere sia me che te ormai, Simon, ma non sa che se uccide prima me, il sacrificio non funzionerà. Esso nasce dall'amore che un umano prova per un Divoratore, ma se il Divoratore cessa di esistere, questo non vale più. Non puoi amare una persona morta».

«Questo non è vero. Il vero amore non smette di esistere se uno dei due scompare, altrimenti amore non era e io sono assolutamente certo che il nostro lo sia e non... Tu non puoi farlo».

«Simon...».

«No!». Urlai. Ero fuori di me. Ero arrabbiato e triste allo stesso tempo e una marea di altre sensazioni erano entrate in conflitto dentro alla mia testa. «No, no, no, questo è... Questo è egoista! Tu che mi lasci dopo che ti ho supplicato di non farlo!».

«Credi che io voglia lasciarti?!». Urlò anche lei. Gli occhi di entrambi si erano fatti lucidi, ma nessuno dei due stava piangendo. Non ancora. «Io vorrei tanto stare con te per sempre, amore mio». Quella frase la sussurrò. «Però preferisco saperti felice, con una vita normale, e non in perenne pericolo a causa mia. Mi piace immaginarti mentre cresci e fai tutte quelle esperienze che un umano necessita di fare. A volte ti immagino adulto, con un bambino in braccio, identico a te, e tu gli sorridi, pieno di gioia, facendo comparire quelle due fossette che odi, ma che in realtà ti rendono il mio ragazzo carino. E' questo che voglio più di tutto il resto. E' questo ciò di cui non voglio privarti, per nulla al mondo».

Cedemmo entrambi, senza forse volerlo. Tutti e due stavamo piangendo, guardandoci negli occhi. «E quel che io voglio, non ha importanza?» replicai, stringendo i pugni lungo i fianchi.

«Certo che ne ha, ma è importante anche che tu viva». Fece una breve pausa e si passò una mano sul viso, che riuscì a sbavare ulteriormente il trucco che aveva sugli occhi. «Io l'ho fatto per millenni e... Non è giusto che tu dica addio a tutto così presto».

«Non è giusto che io dica addio a te».

Non replicò a quello. Mi sorrise, sforzando enormemente un briciolo d'entusiasmo. «Martha si prenderà cura di te». Cambiò argomento, drasticamente. «E'... Forte, starai bene con lei, finché non troverai la tua strada».

«Hazel...». L'amica la interruppe, ma non riuscì a proseguire la frase.

«Me lo ha promesso» continuò lei. Ci fu un'altra pausa, un po' più lunga della precedente. Hazel strizzò occhi e mi sorrise di nuovo, però quella volta non si sforzò di fingere euforia. Fece un passo avanti e alzò una mano, per sfiorarmi una guancia.

Io, forse a causa della troppa rabbia, la scansai. Ma non se la prese, continuò a sorridermi dolcemente, come del resto faceva sempre. Indietreggiò, rivolgendo lo sguardo a Martha. Dall'espressione di quest'ultima, si capiva chiaramente come la stesse supplicando di fermarsi.

«Non tenterai neanche di combattere?» biascicai. Hazel tornò a fissare me. In quel momento, indossava una maschera di dispiacere. O forse era pietà, date le mie condizioni.

«Ci proverò» sussurrò. Ovviamente, non era vero. Aveva già deciso il modo in cui tutto avrebbe dovuto svolgersi. Abbozzò un altro sorriso, l'ultimo che avrei mai visto. «Addio, Simon» disse, a bassa voce. Si voltò, pronta a dissolversi nel nulla, pronta a intraprendere un cammino irreversibile verso la morte.

Fu allora che cedetti. 
La rabbia, molto spesso, impedisce alle persone di fare le cose giuste. Non le fa ragionare e svanisce quando ormai è troppo tardi.

E quello era un addio. Che io volessi o meno, lo era, ed io ero arrabbiato, talmente tanto che nemmeno avevo avuto il coraggio di dirglielo per davvero.

Strizzai gli occhi, cercando di cacciare via il pianto. Balzai in avanti, coprendo in una frazione di secondo lo spazio che ci divideva. Afferrai un braccio di Hazel, la tirai verso di me, facendola girare. I nostri corpi sbatterono l'uno contro l'altro, ma non importò. Presi il suo viso tra le mani e poggiai le labbra sulle sue, nel bacio più doloroso che avremmo mai potuto darci.
Lei stritolò tra le dita la mia maglietta. In bocca, percepii il sapore salato delle sue lacrime, miste alle mie. Quando ci staccammo, le accarezzai le guance con i pollici. Avevamo entrambi il fiatone, come se avessimo corso un'intera maratona.

«Torna da me» sussurrai, con voce impastata.

«Sempre» replicò lei, con lo stesso tono. Nemmeno quello era vero, lo disse per lenire almeno in parte le mie ferite e il dolore che in seguito sarebbe sopraggiunto.

Non osai ribattere. Non ne avevo la forza. Mi staccai piano da lei che, dopo solo un battito di ciglia, sparì, lasciando nell'aria solo il suo profumo.

 

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Salve, lettori!
Ebbene sì, si sta avvicinando il finale c.c
A mio parere, è molto strappalacrime, ma lascio valutare a voi.
Nel frattempo, vi linko il gruppo Facebook della storia e, quindi, mio da autrice:

https://www.facebook.com/groups/335947866507523/

Se vi va, dunque, mi trovate anche lì.
Un bacione <3

Susy.

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Capitolo 26
*** Winning tragedy. ***


Capitolo 26
"Winning tragedy"



Il mio nome è Simon Clarke.
Ho sedici anni e da poco mi sono trasferito a Chicago, con mia madre.
Avevamo grandi aspettative per questa nuova vita, lei con un lavoro prestigioso, io frequentando un Istituto privato di gran classe. 

Ma le cose non sono andate esattamente secondo i nostri piani. Probabilmente, erano troppo ambiziosi per due di provincia come noi.
Sono innamorato di una Divoratrice di Anime, essere programmato a non sentire nulla, ma, incredibilmente, tra noi la situazione è diversa.
Il nostro amore è una maledizione, nel vero senso della parola. Ha portato dolore e lacrime, forse in quantità maggiore rispetto alla felicità.
Il nostro amore è una tragedia continua, ma dicono che è di questo che i grandi amori sono fatti.

 

«Cosa vuol dire che non hai una soluzione? Tu hai sempre una soluzione per tutto!».

Martha scosse vigorosamente la testa alla mia affermazione. Avevo riposto tutto le mie speranze per una via d'uscita in lei, ma anche lì trovai solo uno spesso muro a sbarrarmi la strada.

«Questa volta no, Simon» sussurrò. Dalla sua espressione si capiva perfettamente che era dominata dalla rassegnazione.

«Ma deve esserci qualcosa che possiamo fare» mi ostinai a proseguire quel discorso. «Andiamo, noi... Noi dobbiamo trovare un modo per salvarla e so che tu non le permetteresti mai di morire così. E' la tua migliore amica, no?».

«Ci sono cose a cui non c'è rimedio e questa è una di quelle». La sentii sospirare. Solitamente, era lei quella a incoraggiare tutti, a prendere ogni situazione alla leggera, a trovare una soluzione ad ogni problema. In quel momento, invece, la situazione era ribaltata e io non sapevo minimamente da dove stessi prendendo la forza per evitare di crollare.

«Quindi ti arrendi così?» esclamai. Anzi, urlai, allargando le braccia. Martha mi fissò. I suoi grandi occhi azzurri erano lucidi e, a poco a poco, si stavano riempiendo di lacrime. Sarebbe stata la prima volta in cui l'avrei vista piangere.

«Mi dispiace» mormorò «è troppo tardi per combattere».

«Non è mai troppo tardi per combattere».

«Non capisci? Non abbiamo con che farlo! I Divoratori possono essere uccisi solo con quel pugnale e dubito che Sebastian lo lasci facilmente in giro».

Aveva ragione, ovviamente, ma io al pugnale non ci avevo nemmeno pensato. No, la mia mente era già altrove. «Me» sussurrai. Dubitai che lei avesse capito qualcosa, perciò lo ripetei, con tono più chiaro: «Me». Martha aggrottò le sopracciglia, perplessa, così andai avanti: «E' me che Sebastian vuole. Se vado da lui, potrò essergli vicino abbastanza per recuperare il pugnale».

«Stai scherzando?».

«Assolutamente no».

«Se ti lasciassi fare una cosa del genere, sarebbe Hazel a trovare un nuovo modo per uccidere i Divoratori e lo testerebbe su di me!».

«Allora trova un'altra soluzione! Io non ho nessuna intenzione di lasciarla andare. Non così e so che nemmeno tu vuoi. Lei è un po' come la tua famiglia, no?».

Martha si morse piano il labbro inferiore. «Lo è» bisbigliò, in tono a malapena percettibile.

«Allora aiutami. Ti prego».

Sospirò. Era incerta. Non l'avevo mai vista incerta, ma molto probabilmente non ero a conoscenza di molti suoi lati. «Si arrabbierà molto» esclamò, poco dopo.

«E' un piccolo prezzo da pagare» commentai.

Abbozzò una risata, sarcastica. «Lo definirei un enorme prezzo da pagare». Fece una breve pausa e vidi i suoi occhi scintillare, accendersi di nuovo. «Il fatto che ti presenti da lui di tua spontanea volontà potrebbe risultare sospetto o, quanto meno, Hazel tenterà di impedirtelo, se...». Lasciò in sospeso la frase, ma capii come sarebbe continuata: “Se non sarà già morta”. Andò oltre. «Se io ti consegno a Sebastian, fingendo di voler cambiare lato di combattimento, saremo in due nel suo covo».

«E poi?».

«E poi... Io so attirare bene le sue attenzioni».

«Sai at... Oh, Dio!». Spalancai per un attimo la bocca, strabuzzando gli occhi. «Non mi dire che tu e... Insomma, tu e lui, voi non...».

«Qualche volta, anni fa. Anzi, secoli fa».

Continuai a guardarla con un'espressione sconvolta. Generalmente, non mi sarei mai scandalizzato di fronte a una rivelazione del genere, ma era impensabile per me immaginare Martha la temeraria insieme a Sebastian lo scellerato.

«Oh, andiamo, Simon!». Agitò le mani e si affrettò a cambiare argomento. La vidi fare su e giù per stanza e non afferrai mai quale fosse la sua meta, anche perché, molte volte, svanì letteralmente nell'aria, riapparendo dopo una manciata di secondi, sempre con qualcosa di diverso in mano.

Tornò ad essermi davanti, poi, stringendo tra le dita quelli che sembravano pugnali. Non sembravano, lo erano: simili a quel pugnale, ma più piccoli e con varie sfumature di grigio. Ce n'erano due.

«Cosa sono?» domandai.

«Pugnali incantati» replicò, porgendomene uno. «Hanno il potere di rallentare un Divoratore. Lo feriscono, ma non abbastanza per ucciderlo. Hazel ne ha uno con sé, spero sappia usarlo bene».

«Saprà farlo» sussurrai e abbozzai un sorriso, che servì più che altro per auto-convincimento. Martha mi porse uno dei pugnali. Lo rigirai tra le mani, soffermandomi sulle incisioni sul manico. Erano molto più simili all'originale di quanto pensassi. Se non fosse stato per i colori, avrei giurato fossero dello stesso calibro. Solo che, purtroppo per noi, non lo erano.

«Dove li hai presi?» domandai. Lei sospirò. «Dopo che Hazel è stata ferita, ho pensato sarebbe stato utile avere qualcosa con cui difenderci, solo che...». Fece una breve pausa, socchiudendo gli occhi. «Non credevo li avremmo usati in un momento come questo. Non così catastrofico, perlomeno» concluse.
Avrei voluto dire qualsiasi cosa, per rassicurarla, per quanto assurda avrebbe potuto essere una situazione del genere, ma non ne ebbi il tempo. Martha troncò il discorso e ne iniziò un altro. «Tu, invece? Sai maneggiare un'arma del genere?» esclamò.

«Me la cavo» replicai, ricordando l'allenamento con i manichini. Perlomeno, mi era stato utile a qualcosa.

«Bene. Cerca solo di non farti uccidere». Mi fece l'occhiolino e abbozzò un sorriso. Cercai di fare lo stesso, però fingere entusiasmo non era proprio un mio punto forte.

In realtà, non ero affatto pronto. Avevo una paura tremenda e lo considerai lecito. Non erano cose che un qualunque sedicenne sarebbe stato in grado di affrontare. Io, soprattutto: il goffo e impacciato Simon Clarke che si preparava a sbaragliare – o tentare di farlo – una schiera di Divoratori di Anime. Chi mai ci avrebbe creduto?
 

***


Non avevamo un piano, non uno scrupolosamente dettagliato.
Martha doveva consegnarmi e poi avrei dovuto fare io tutto il resto. Non era per niente facile, anche perché ero assillato dal pensiero che Hazel avrebbe potuto già essere morta e non ero sicuro che avrei retto ad una notizia del genere. Se lo avessi appreso, molto probabilmente mi sarei lasciato trasportare dagli eventi e dal caos e sarei morto anche io.
Il covo di Sebastian era una fabbrica abbandonata nella periferia di Chicago. Appena fummo in quel posto così desolato e cadente, pensai che forse avrebbe potuto trovarsi di meglio. Ma, in fondo, a lui che importava?

«Sei sicuro di volerlo fare?» sussurrò Martha, guardandosi attorno. «Sei ancora in tempo per tirarti indietro».

«No» replicai, con tono incredibilmente fermo. «E' per Hazel, no?».

Si limitò ad annuire. «Ti farò un po' male. Ti chiedo scusa in anticipo».

«Non fa n...». Non ebbi la possibilità di finire la frase che fui strattonato per un braccio. Scomparimmo e riapparimmo per un paio di volte. Non le contai, ma passò solo qualche secondo prima che ci ritrovassimo all'interno della fabbrica, in un enorme sala illuminata dalla lieve luce dei lampioni che traspariva dalle lunghe e sottili finestre dell'edificio.

«Bene, bene». La voce metallica di Sebastian risuonò nell'aria. Vidi Martha girarsi di scatto e costrinse me – con poca delicatezza – a fare lo stesso.

«Due visite nel giro di qualche ora. Sono onorato».

Il malefico Divoratore uscì dall'ombra, fermandosi sotto un fascio luce che mise in risalto i suoi occhi rossi. Dietro di lui, intravidi altre sagome, altri Divoratori, sicuramente, ma non riconobbi nessuno.

«Penso di avere qualcosa che ti interessa» esclamò Martha. Sembrava davvero seria e a tratti minacciosa, il che mi fece dubitare per un attimo che stesse effettivamente fingendo. Ma era così. Non poteva essere altrimenti.

«Uhm, sì, lo vedo». Sebastian accennò un sorriso, compiaciuto. «Mi sorprende vedere te qui con quel sacco di carne. Dovrei forse sospettare qualcosa?».

«Niente. Sono solo stanca delle liti e delle grandi battaglie. Vuoi riportare in vita il nostro Creatore? Fallo! A me sta bene. Almeno questa tortura avrà fine».

«E tu che ci guadagni?».

«La tranquillità, lo sai. Sai come ho sempre voluto vivere».

«Oh, sì, lo so. Ma, sbaglio, o ultimamente anche tu ti sei attaccata agli umani?».

«L'ho fatto per Hazel. E' mia compagna da secoli».

«E' anche la mia».

«Vuoi il tuo sacrificio o no?».

Sebastian avanzò, lento, con passi violenti che mi misero i brividi. Si fermò solo quando fu a pochi centimetri da me. Cercai, con difficoltà, di sostenere il suo sguardo. Percepii la presa di Martha fare pressione sul mio braccio.

«Più che “ragazzo carino”, ti definirei “ragazzo sfortunato”» sibilò. «Come ci si sente, Simon, ad essere il fautore della propria morte e di quella di tutti gli altri?».

Non risposi, sebbene avessi così tante cose da dire; sebbene volessi fare tante cose, come, per esempio, ucciderlo e vendicare mia madre, se mai la vendetta fosse stata sufficiente. Invece, rimasi immobile, trattenendo il respiro, finché delle urla non me lo fecero perdere completamente.

«No, no, no!». Alla spalle di Sebastian, le sagome nel buio si fecero da parte. Ne lasciarono passare altre e una la riconobbi subito, nonostante l'assenza di luce. Quando essa apparve, vidi Hazel, sporca in viso di sangue, tenuta ferma da due uomini, alti, possenti e all'apparenza più minacciosi del Divoratore loro capo.
Deglutii rumorosamente, del tutto paralizzato. Hazel mi guardò, scuotendo la testa. Cercò di liberarsi, invano.

«Allora, ragazzo carino?» esclamò Sebastian, marcando con acidità le ultime due parole. «Che ne dici di veder morire prima la tua dolce condanna?».

Mi mossi appena. Non so per quale strana ragione riuscii a farlo, ma trovai la mano di Martha a fermarmi. Non sembrava avere intenzione di porre fine a ciò che stava per accadere, mentre Sebastian tirava fuori dalla propria giacca il suo maledetto pugnale, accarezzandone la lama.

«Tu non hai niente in contrario, vero, Martha?» disse. «Quello che vuoi di più al mondo è la tranquillità e immagino che tu sia stufa di prendere sempre le sue parti, senza nessuna ricompensa, poi».

La Divoratrice bionda non replicò. Non fece assolutamente nulla e non capii perché. Sarebbe semplicemente rimasta a guardare?

Stavo rischiando di impazzire.

Ed ecco che l'ansia tornò, e il panico, e il fiato corto e l'apnea e la voglia che tutto diventasse nero e basta e il desiderio che tutto fosse solo un brutto sogno, ignorando quel pugnale alzato a mezz'aria che ben presto avrebbe raso al suolo ogni mia ragione di vita.
Tuttavia, proprio quando tutto stava per compiersi in modo irreversibile, inesorabile, un suono sordo interruppe ogni cosa.

Martha si lanciò in avanti, su Sebastian, con violenza. Capitolarono entrambi a terra e da quel momento in poi fu solo caos.
I Divoratori cominciarono a correre, ad attaccare, me soprattutto. Hazel, seppur mal ridotta, corse nella mia direzione e scacciò via con un calcio due individui prima che potessero essermi addosso. D'istinto, afferrai il mio pugnale incantato, stringendo le dita attorno al manico intagliato.
Mi guardai per un attimo attorno. Sia Martha che Sebastian erano spariti nel nulla.

«Perché siete qui?» urlò Hazel. C'era un briciolo di rabbia nella sua voce.

«Per salvarti» replicai, senza esitazioni.

Un altro Divoratore ci si scagliò addosso e lei lo respinse con facilità.

«Io non volevo essere salvata!».

«Non importa!» urlai anche io. «Io non vivo se tu non ci sei. Se cadiamo, cadiamo insieme». Non replicò. Non ne ebbe il tempo, perché fummo attaccati ancora. Hazel mi rivolse un solo sguardo e fu d'intesa. Non fu necessario parlare e farmi spiegare cosa avrei dovuto fare. Mi prese per mano, intrecciando le mie dita con le sue, e cominciammo a muoverci a sincrono per la grossa fabbrica, quasi fossimo un unico essere. Ci dissolvevamo da una parte, apparivamo da un'altra e colpivamo col pugnale, cogliendo di sorpresa i nostri nemici.
Forse per la volta nella mia vita, legato in quel modo a lei, mi sentii forte. A tratti invincibile.

Ma avrei dovuto sapere bene che non lo ero.

Un Divoratore ringhiò e tirò Hazel con violenza. Le nostre mani furono costrette a staccarsi, mentre lei e uno dei compagni di Sebastian rotolavano distanti, fino a sbattere prepotentemente contro una delle pareti di cemento. Li vidi lottare tra loro e poi, improvvisamente, sparire, sicuramente non per volere di Hazel: non mi avrebbe lasciato solo in quel luogo.
Nella fabbrica abbandonata ero rimasto solo io, con attorno Divoratori a terra, tutti malconci, e il silenzio. Il mio primo istinto fu quello di nascondermi. Era vero che con Hazel mi sentivo forte, così come lo era il fatto che senza di lei risultavo estremamente debole. Tremai appena e corsi verso l'uscita dell'edificio. Mi convinsi ad escludere il pensiero che quel Divoratore potesse avere la meglio su di lei.

Sarebbe tornata.

Lei tornava sempre.

Accelerai il passo, avevo il fiatone. Ero quasi giunto alla meta, quando fui bloccato da qualcuno.

Tamara mi si parò davanti, facendo ondeggiare il vestito bianco dai contorni di pizzo che aveva addosso. Era identico a quello di Hazel, quello che aveva la notte in cui l'avevo ritrovata. Era scalza e l'espressione stampata sul viso sembrava non appartenerle. Sorrideva, in modo acido, proprio come faceva Sebastian.

«Tamara» sussurrai.

Lei allargò il sorriso. «Ritenta» sibilò.

Bastò quella parola a farmi realizzare ciò che era successo alla strega dai capelli rossi.

L'ingenua strega dai capelli rossi che si era fidata di uno spietato Divoratore di Anime ed era finita uccisa.

Deglutii rumorosamente e, neanche accorgendomene, feci qualche passo indietro.

«Oh, non essere sciocco. Se provassi a scappare, non andresti molto lontano. Non con le tue gambe, almeno». La sua voce riecheggiò in quel vasto spazio.

Pregai e sperai con tutto me stesso che Hazel o Martha tornassero. Avevo di nuovo paura e, ancora, mi sentii completamente e irrimediabilmente debole.

«Chi sei?» esclamai, ma ciò che uscì dalla mia bocca si avvicinava di più ad un lamento che ad una domanda.

«Il mio nome non è poi così importante. Se vuoi, puoi continuare a chiamarmi Tamara. Quella ragazza era piuttosto forte».

«Così forte da spingerti ad ucciderla».

«E' quello che i Divoratori fanno, dolcezza».

Mi morsi il labbro inferiore. Avevo smesso di muovermi, perché, sì, aveva ragione: non sarei andato lontano, nemmeno volendolo. Ma se scappare non era un'alternativa, non sarei semplicemente rimasto immobile.

“Coraggio, Simon: puoi farcela”. Per la prima volta, la mia coscienza, invece di rimproverarmi, fu dalla mia parte, concorde ai miei istinti e ai miei piani.

Avevo ancora il pugnale in mano, non l'avevo mai lasciato. Corsi in avanti, allora, anziché indietreggiare. Anziché scappare.

La Divoratrice mi evitò con facilità, però non demorsi. Mi scagliai di nuovo nella sua direzione e quella volta riuscii a colpirla. Prima la spinsi, poi, non seppi nemmeno come, la ferii al braccio destro. Fu un taglio superficiale, tuttavia mi rese orgoglioso di me stesso.
Quella piccola gioia durò poco: lei ringhiò e replicò all'attacco. Mi venne incontro. Alzai una mano, quella libera, per ripararmi dal colpo. Ebbi successo una volta, due. Alla terza, però, venni urtato e caddi a terra, a qualche metro di distanza da dove inizialmente mi trovavo.
Non restai a lungo sul pavimento. Mi rialzai velocemente e corsi di nuovo, convinto, deciso, con l'ardente desiderio di colpire quella Divoratrice, sebbene l'avrei solamente ferita e nulla più. Per il momento, mi bastava; almeno fino al ritorno di Hazel.

Forse avrei dovuto rimanere immobile.

Ero sempre rimasto inerme in situazioni del genere. Fare l'eroe non era qualcosa che mi apparteneva e, inevitabilmente, portò alla catastrofe.

Avevo raggiunto la Divoratrice dai capelli rossi. Il suo viso finì a pochi centimetri dal mio, i nostri sguardi si incrociarono.

Ma non fu il suo sangue a ricadere lento sul pavimento.

Fu il mio.

Trattenni il fiato, facendo un solo passo indietro. Le mie gambe cedettero subito e mi schiantai sulla pietra fredda. Intorno al mio corpo, ogni cosa iniziò a tingersi di rubino. La ferita all'addome era profonda. Nonostante la vista già offuscata, scorsi tra le dita della Divoratrice con l'aspetto di Tamara il pugnale che io poco prima reggevo.

“Stupido, sciocco, ragazzo carino” sussurrò la mia coscienza e nemmeno quello suonò come un rimprovero.

Le mie mani raggiunsero a fatica la ferita, tentando – sicuramente invano – di fermare il sangue che già usciva a fiotti. Sentii la Divoratrice sogghignare. Evidentemente, quello era uno spettacolo da cui trarre divertimento.
Tuttavia, la sua risata fu presto placata. Non fui in grado di vedere ciò che successe. Udii solo grida e stridii, che finirono all'improvviso, proprio come erano iniziati.

Cercai di muovermi, sebbene le mie gambe avessero già smesso di rispondere ai miei comandi. Nemmeno il tentare di parlare funzionò: dalla mia bocca fuoriuscì solo un lieve lamento.

«Simon». Il suo fu solo un sussurro, a malapena percettibile. La sua voce, però, sarebbe sempre stata cristallina per me.

Hazel era tornata. Riuscii a vederla inginocchiata al mio fianco, percepii il suo palmo premuto con vigore sul mio addome.

La confusione, tuttavia, mi aveva già avvolto.

«Andrà tutto bene, okay? Non è così grave, non... Starai bene, amore mio, io... Te lo prometto, okay? Starai bene».

Stava singhiozzando e io stavo morendo. Anche in una situazione del genere, provai l'impulso di consolarla. Volevo dirle io che tutto sarebbe andato bene, sebbene fosse una grande menzogna.

Nulla sarebbe andato bene.

Il nostro amore è una tragedia continua, ma dicono che è di questo che i grandi amori sono fatti”.

Nessuna tragedia sarebbe tale senza la morte come protagonista.

Ed eccola che mi avvolgeva. Ed ecco che scivolavo via, dentro l'ignoto, dentro l'oscurità, incredibilmente senza dolore.

L'ultima cosa che vidi furono i suoi occhi.

Diamanti azzurri dentro diamanti verdi, che si spegnevano insieme.






 

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Ebbene sì. Così questa parte della storia ha fine.
TUTTAVIA, questa non è la fine di tutta la storia, perché ho deciso di dare ai miei pargoli un seguito, ma non voglio anticipare molto.
Anzi, non voglio anticipare niente.
Spero che il finale non vi abbia deluso.
Spero non sia stato qualcosa di eccessivamente scontato.
Grazie a chiunque abbia letto fin qui, commentando o meno: non ha importanza.
Vi ringrazio tantissimo, significa molto per me.
Vi ricordo il gruppo su storia/autore di Facebook:

https://www.facebook.com/groups/335947866507523/
 
E a presto <3


-Susy




--- aggiornamento: trovi il seguito qui http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1972269

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