You Saved My Life

di Nanek
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** How to save a life ***
Capitolo 2: *** Lost and insecure you found me ***
Capitolo 3: *** Summer of 58 ***
Capitolo 4: *** Kiss me ***
Capitolo 5: *** Look after you ***
Capitolo 6: *** A little bit longer ***
Capitolo 7: *** When you’re gone ***
Capitolo 8: *** I wish I was beside you ***
Capitolo 9: *** You Saved My Life, You Are My Hero ***
Capitolo 10: *** 21 guns ***



Capitolo 1
*** How to save a life ***


Capitolo 1

How to save a life

18 marzo 1971

Il cielo sembrava così strano quel giorno.
Le nuvole, non erano come se le ricordava, troppo strane, troppo grigie, troppo nere per sembrare naturali.
E quella polvere poi, che gli bruciava gli occhi, cos’era?
Sabbia?
Troppo rossa per essere sabbia, troppo grossa, troppo tutto.
E quel rumore?
Cos’era quel rumore? Lo sentiva troppo lontano, non riusciva a capire cosa fosse, come se avesse del cotone sulle orecchie.
Dov’era?
Non si sentiva le gambe, non si sentiva il braccio destro.
Che ci faceva lì?
Come c’era arrivato lì?
Non lo sapeva.
Continuava a contemplare quelle strane nuvole, continuava a sentire dei rumori in sottofondo, non capendo nulla.
Fu un attimo, e si sentì sollevato; sollevato da terra, sollevato da due braccia che non conosceva.
Fu un attimo e lo vide, vide quegli occhi, gli occhi di ghiaccio di un ragazzo, un uomo che conosceva bene, il caporale Phillips.
Fu un attimo, e lui chiuse gli occhi.
Una mano però, lo schiaffeggiava piano, sulla guancia.
Aprì gli occhi, e si ritrovò i suoi, i suoi occhi color ghiaccio, che lo incitavano a stare sveglio, che lo incitavano a non dormire.

-soldato White sveglia! Non le permetto di dormire! Questo è un ordine- gli urlava il caporale, ma lui, sentiva solo un lieve rimbombo.

Come se avesse ripreso un po’ di coscienza, il giovane cominciò a capire dove si trovasse.

Il giovane Billy White, 19 anni, primo anno di guerra, gli occhi smeraldini, i capelli castani erano stati rasati, il più giovane quell’anno, l’anno più atroce della guerra in Vietnam, vivo per miracolo.
Incosciente, impreparato, troppo debole per l’esercito, era solo una vittima, una giovane vittima, mandata a morire, mandata a far sentire ancora più in colpa lui, il suo caporale, James Phillips.

Quest’ultimo aveva 29 anni, i capelli biondi, rasati anche questi, gli occhi di ghiaccio, e ormai otto anni di esercito sulle spalle.
Odiava vedere giovani inesperti in campo, odiava averli sotto il suo controllo, odiava averli in squadra e vederli morire, si sentiva colpevole delle loro morti, si sentiva un padre per ognuno di loro, forse perché in ognuno di loro, vedeva il suo riflesso: quell’aria che solo i giovani avevano, quella voglia di vivere che caratterizzava tutti, quella vita che lui non poteva più avere.

Anche James si arruolò giovane, a 19 anni, e lo fece per motivi di soldi; non poteva studiare, la scuola non era per lui, non trovava un lavoro adatto, l’esercito era la sua ultima speranza, l’ultima speranza per lui e per la sua famiglia.
Ed ora era lì, con la polvere negli occhi, dentro quel furgone, con quel ragazzo dagli occhi verdi, che si divertiva a chiamare “Billy Elliot”, inerme, il braccio rotto, le gambe piene di sangue e di sabbia, lui l’avrebbe salvato quel giorno.
Billy aveva un compito da svolgere per lui, doveva, lo aveva scelto dal primo istante che lo vide, era l’ideale, era perfetto, era colui che stava aspettando: era suo amico.

Lo guardava, mentre alzava piano la mano, la portava all’altezza della tempia, e con voce roca rispose –agli ordini James- cercando di sorridere.
 

Dopo un’ora, erano finalmente tornati alla base, erano finalmente al sicuro, Billy poteva essere curato.
James lo salutò, dicendo solo –ricordati di lei, soldato- e sorrise amaro.
Billy lo guardava confuso, e sussurrò piano –lei, chi?-
Ricevette come risposta solo –Charlie Jones, ricordati di lei- poi, il buio.
 

25 marzo 1971

L’alba lo svegliò dolcemente, i raggi del sole entrarono deboli da quella finestra.
Billy aprì gli occhi, come colto da un incubo.
Aveva le gambe piene di garze, il braccio destro ingessato, un cerotto enorme sulla guancia, e uno sull’orecchio.
Vide entrare un medico, e con quel poco di voce che gli era rimasta chiese –che è successo?-
Il medico quasi sobbalzò dallo spavento.

-soldato White, lei si riprende più in fretta di quanto potessi immaginarmi-
-d-dove sono? Che è successo?-
-in infermeria soldato, una bomba lo stava colpendo in pieno, il caporale Phillips l’ha aiutato, e meno male che lei è ancora qui soldato, ma.. si rimetta ora, il campo lo aspetta, la patria ha bisogno di lei-
-ma.. ma.. dov’è il caporale Phillips?- continuò Billy.
-oh sì vero, tenga- il medico gli porse una busta –il caporale mi ha raccontato della sua fidanzata, soldato White, beh, deve rispondere immagino, la macchina da scrivere è lì accanto, la tratti con cura-
-ma.. io non ho una fidanzata- ma il medico non lo ascoltò, e uscì dalla stanza.

Con la mano sinistra cominciò a osservare quella busta, la girò, e ci trovò l’intestazione.
“Destinatario: James Phillips Mittente: Charlie Jones,  North Broadway 18, Chicago, Illinois, Stati Uniti”
Charlie Jones, quel nome, gli ricordava qualcosa.
Risaliva al giorno prima, o almeno credeva.

 

*** 

Il caporale Phillips lo stava portando in infermeria, gli parlava, lo incitava a stare sveglio, doveva dirgli una cosa importante.
-ai suoi ordini caporale..- cercava di rispondere Billy.
-silenzio White, non parlare, ascoltami, è importante e tu mi devi stare ad ascoltare, siamo intesi soldato?-
Billy annuì.

-starò via soldato, starò via per molto tempo dalla base, e io.. devo.. devo tenere aggiornata una persona, devo dirle che non tornerò, ma.. non c’è tempo di saluti soldato, lo devi fare tu, devi rispondere a Charlie Jones e dirle che il caporale non tornerà a casa, devi dirglielo tu White, mi hai capito?-
Billy annuì, e chiese –perché lei non dovrebbe tornare?-

-da questa guerra, non si torna, solo i giovani forse, perché passeranno questa guerra in infermeria- sorrise –è un ordine soldato, devi dire a Charlie Jones che il caporale Phillips non tornerà, glielo scriverai come lettera di risposta alla sua, lo devi fare soldato, per me- concluse, gli occhi di ghiaccio pieni di lacrime.
Billy portò la mano alla fronte –ai suoi ordini-

 

*** 

Ed ora era lì, pronto a svolgere il suo lavoro.
Ed ora era lì, con la lettera di Charlie in mano, una delle tante lettere che il caporale riceveva, che leggeva, e poi bruciava, il ricordo di lei gli dava la speranza di tornare, gli dava l’illusione che sarebbe andato tutto bene; ma poi James vedeva morire sotto i suoi occhi i suoi uomini, e la speranza spariva, insieme a Charlie.
 Preso dalla curiosità, aprì la busta, prese con la mano sana la lettera al suo interno, cominciò a leggerla.


“Caro James,
mi manchi, e sono ormai ripetitiva, te lo scrivo in ogni lettera che mi manchi, ma non credo mi stancherò mai di farlo; amore mio, aspetto la tua risposta ogni giorno, una risposta che non arriva mai, e che mi sta spaventando.
Amore mio torna, ti prego torna.
Ho bisogno di te, e tu lo sai.
Devi tornare amore mio, perché me l’hai giurato; devi tornare perché mi hai giurato che questa era la tua ultima missione, e poi saresti tornato da me, per sempre sta volta.
Non puoi non tornare, me l’hai giurato James, e io ti sto aspettando; hai detto che stavi via un anno, e di anni ne sono passati 5, hai giurato mi avresti risposto, e non l’hai fatto, hai giurato tante cose, e non l’hai fatto.
Ma quella che più mi importa, è che tu torni, e io voglio credere che manterrai la parola, perché tu lo sai che devi tornare, non hai solo il compito di far felice la patria, tu devi tornare per me, tu devi tornare per la tua famiglia.
Una famiglia che hai abbandonato troppo presto, ma che è ancora qui ad aspettarti.
Ti prego James torna, non mi interessano i soldi che tu prendi, io voglio che tu torni.
Abbiamo una casa, abbiamo soldi a sufficienza, io lavoro, non abbiamo bisogno dei soldi che tu prendi rischiando ogni secondo la vita, io voglio che torni.
Lo voglio, non ha senso vivere in questa bella casa senza di te, non ha senso per me stare in questo lusso senza di te; preferisco avere una casa orribile, la più misera di questo mondo, pur di averti qui con me, qui con noi.
Devi tornare perché Ashley ha bisogno del suo papà.
Ha 5 anni e non ti conosce James, ha 5 anni e non ha mai visto il tuo viso.
Torna amore mio, ti prego.

Charlie.”

 
 
Allegata a quella lettera, c’era una foto.
Una ragazza, i capelli lunghi, lisci, castani, la pelle chiara, occhi verdi, che gli ricordavano molto i suoi: teneva in braccio una bambina, dai capelli biondi e ricci, gli occhi grandi e verdi.
Charlie, fidanzata del caporale, teneva in braccio sua figlia, Ashley.

Con la mano sinistra si appoggiò la macchina da scrivere sulla pancia, con l’indice, cominciò a premere quei tasti, uno dopo l’altro, tentando di non sbagliare.
I tentativi di Billy nel rispondere a quella lettera, nel modo richiesto dal caporale, furono molti.

“caporale Phillips deceduto. Missione in corso, cordiali condoglianze”
“amareggiato nell’annunciare la morte del caporale Phillips, condoglianze”
“caporale Phillips, uomo virtuoso e pieno di coraggio deceduto durante una missione, condoglianze”

Tutto sembrava così sbagliato verso quella ragazza, nessuna parola sarebbe bastata, nessuna parola sarebbe stata opportuna in quel momento.
Continuava a fissare quella foto, continuava a non capire il senso di quello che doveva fare.
Non poteva scriverle una disgrazia simile, non poteva farlo, non se la sentiva, e tutto era ancora possibile, il caporale poteva tornare, il caporale.. il caporale dov’era?
Billy cominciò a urlare con tutta l’aria che aveva dentro di sé, chiamava il medico, urlava, tentando di farsi sentire con quella sua voce roca.

-soldato White che ha da dimenarsi?-
-dov’è il caporale? Mi dica dov’è il caporale Phillips!-
-il caporale è dato per disperso da giorni soldato, pensavo fosse chiaro.-
-è morto?-
-solo il cielo lo sa-
-quindi non è detto sia morto, quindi lui potrebbe ancora tornare!-
-dorma soldato, lei è molto stanco- annunciò il medico, allontanandosi.
Billy si sentiva rassicurato da quelle parole, e come se avesse preso lui il controllo, decise di rispondere a quella ragazza, decise di darle speranza, senza consultare nessuno, voleva credere che il caporale sarebbe tornato.

Senza rendersi conto di sfidare la sorte.


“Cara Charlie,
mi scuso per le mancate risposte, ma qui si fa la guerra, il tempo scarseggia, e i miei soldati hanno bisogno di me.
Tu non sai quello che succede qui, amore mio, tu non sai che atrocità vedo con i miei occhi, tu non sai e non vorrei mai che tu vedessi quello che ho visto io.
I miei uomini sono giovani, Charlie, molti di loro muoiono sotto i miei occhi, molti di loro scappano, pochi di loro, riesco a salvarli.
Tutto questo mi sta distruggendo, amore mio, e non sai quanto mi manchi anche tu, quanto mi manchi tu, e la piccola Ashley.
Guardo la foto che mi hai mandato, e piango, vi guardo e desidero essere solo al vostro fianco, tenervi tra le mie braccia, nella nostra casa.
Ho trovato da poco questa macchina da scrivere amore mio, e ora, sappi che posso risponderti, posso rassicurarti, posso farmi sentire lì, vicino a te.

Non perdere mai la speranza Charlie, io sono James, io tornerò, se dico che torno, vuol dire che lo farò per davvero; non dimenticarmi mai Charlie, come io non mi dimentico mai di voi, vedo gli occhi di Ashley in quelli delle bambine che vivono qui, vedo i tuoi capelli lunghi e lisci in quelli delle donne che stanno qui, in mezzo a questo caos, in mezzo a queste mostruosità; non riesco ancora a credere quanta atrocità ci sia dentro ogni essere umano, e fidati che non è neanche un quarto di quello che mostrano in televisione.

Stare qui è come stare all’inferno, ma tu puoi salvarmi Charlie, tu puoi, tu sei l’aria pura che qui manca, tu sei l’unico rifugio che io trovo per allontanarmi da tutto questo.
Ti prego quindi, amore mio, di darmi sollievo: non rendermi triste, non dirmi che sei sola e piena di paura, perché non c’è motivo di esserlo, questa guerra finirà, ed io tornerò a casa; ti chiedo quindi, nelle prossime lettere, di farmi vivere.
Ricordami nelle tue lettere di noi, ricordami dei bei momenti passati insieme, ricordami quello che c’era prima di tutto questo orrore, ricordami chi ero, chi eri tu, e cosa siamo diventati insieme.

Mi mancano quei momenti, mi mancano quei ricordi, che questa guerra mi sta cancellando; ma tu non glielo devi permettere amore mio, devi essere più forte tu di questa guerra, e devi tu aiutarmi a vincerla.
Parlami del nostro primo incontro amore mio, affinché io possa rivivere ogni attimo, ogni sguardo, ogni gesto.
Dai un bacio a mia figlia, e dille che il suo papà sta tornando.
A presto amore mio,

James”


Note di Nanek:
da dove comincio? commenti finali, di solito mi vengono molto spontanei, ma per questa storia..è difficile!
che dire.. io spero che possa piacere come storia, spero che vi entusiasmi e che non vi annoi!!
io.. beh.. spero di trovare qualche recensione prima di mettere il prossimo capitolo =) vorrei vedere se ne vale la pena.. vorrei capire se vi ha colpito in qualche modo =) farò del mio meglio per stupirvi =)
a presto!
Nanek

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Capitolo 2
*** Lost and insecure you found me ***


Capitolo 2

Lost and insecure you found me

14 ottobre 1971

Aveva spedito quella lettera da sette mesi.

E da sette mesi, il caporale Phillips non era ancora stato trovato.

Billy era tornato sul campo, e miracolosamente, era ancora vivo.
Quel giorno, mentre camminava con gli altri verso la base, si rese conto di quanta forza di volontà avesse dentro, si rese conto, che quella guerra lo stava cambiando, si rese conto che stava lottando davvero.
Come se spinto da uno spirito altruista, come se stesse vivendo per uno scopo, non personale: non stava lottando per salvarsi la vita, non stava lottando per i soldi che avrebbe ricevuto quando quella guerra sarebbe finita, lui stava lottando per il caporale Phillips.

Stava lottando per Charlie.

In quei sette mesi, non perse mai la speranza di trovare il caporale, magari nascosto da qualche parte, magari vederlo zoppicare fino alla base, non voleva convincersi che fosse morto, voleva ancora sperare in un miracolo, lo stesso miracolo che lo faceva stare vivo, lo stesso miracolo che lo proteggeva; voleva tornare ogni sera vivo, voleva tornare per poter trovare una lettera di Charlie.

Sapeva che stava illudendo una ragazza, sapeva che darle tutte quelle speranze non sarebbero state adatte in caso di ritrovamento del corpo senza vita di James, ma nonostante questo, Billy sentiva dentro di sé il dovere di rassicurarla, il dovere di confortarla, come se James fosse ancora lì, accanto a lui.
James era colui che gli aveva salvato la vita, James era un padre, James non lo avrebbe deluso, sarebbe tornato, e sarebbe stato felice con la sua famiglia.

***

-sei destinato a vivere James, te l’assicuro- diceva Billy, mentre si rinfrescava con l’acqua fresca del fiume.

Erano passati solo due mesi dal suo arrivo nell’esercito, il giovane Billy White si sentiva come un pesce fuor d’acqua in mezzo a quella guerra.
Aveva rischiato di morire più di una volta, in appena due mesi; la speranza di tornare a casa vivo, ormai, era andata sotto i piedi: sapeva che non ce l’avrebbe fatta.

-anche tu sei destinato a vivere, ti proteggo io- gli aveva risposto James, indossando la maglietta verde, ormai tappezzata di macchie.

Il caporale Phillips aveva da subito manifestato il suo affetto nei confronti del giovane Billy, il che, poteva suonare abbastanza inquietante; il caporale tentava sempre di difenderlo, lo salvava dagli attacchi diretti, lo spingeva, facendolo cadere, per evitare una bomba o direttamente una pallottola nel cranio, il caporale sembrava più interessato alla sua vita che alla propria, Billy non capiva il motivo di tale attaccamento.

-tranquillo soldato White, posso assicurarti di non essere gay, mi piacciono le donne, anzi, una donna, e oltre a lei nessun’altra- l’aveva rassicurato James, sorridendo a quell’affermazione.

Fu quel giorno che Billy conobbe Charlie, la ragazza del caporale, fu quel giorno che venne a conoscenza di morte e miracoli riguardanti loro due.

-sai perché mi stai simpatico?- gli aveva chiesto James.
-sono curioso caporale.-
-hai gli stessi occhi di Charlie, sicuro di non essere suo fratello?-
-spiacente caporale, sono l’ultimo di sette fratelli.-

***

Billy sapeva tutto su James, e James, sapeva tutto su di lui.

Le loro serate le passavano così, seduti uno affianco all’altro, a contemplare la luna, che sembrava essere l’unica cosa che non mutasse mai nonostante la guerra; stavano lì e parlavano, si conoscevano, si confidavano i segreti più intimi e nascosti.

James era un libro aperto.

Billy sapeva che il caporale aveva una figlia, la piccola Ashley, che non lo aveva mai visto; sapeva che il caporale era abituato alla guerra. I suoi otto anni glieli raccontava nei minimi dettagli: dalla prima missione dal 1961 al 1963 e poi di nuovo dal 1966 al 1971.
Sapeva ogni cosa riguardante Charlie, sapeva cosa amava sentirsi dire e cosa invece non sopportava, sapeva che canzoni ascoltavano insieme e quali invece si divertivano a deridere.
James e Billy erano diventati migliori amici.

Ed ora Billy era lì, in mezzo agli altri, e si sentiva nuovamente solo e abbandonato, alzava lo sguardo verso la luna, e sperava che anche il caporale la stesse guardando.

Billy non riusciva a mettersi l’animo in pace, non riusciva a convincersi che la vita del caporale fosse finita, come gli ripetevano da mesi i suoi compagni.
James gli aveva insegnato a difendersi, James l’aveva salvato, James aveva giurato a Charlie che sarebbe tornato, doveva mantenere la parola data.
Entrò nell’accampamento, e una volta trovatosi disteso sul letto, entrò un soldato: i capelli rossi, il viso lentigginoso, gli occhi color nocciola, sempre lui: Paul, il postino.

Erano mesi che non lo vedeva, e quasi temeva per la sua vita, rivederlo gli dava gioia, gli dava speranza: sapeva che una lettera era destinata a lui, sapeva che era giunto il momento di proteggere Charlie, di nuovo.

Paul cominciò a urlare i nomi dei destinatari.
-Michael Black! Russell Lee! James Phillips!- e a quel nome, tutti si guardarono interdetti.
-il caporale è morto mesi fa idiota!-
-scrive dall’aldilà adesso? Ahah-
-è per me la lettera, idioti.- intervenne Billy, tra i commenti generali.
-da quando sei caporale, novellino?- lo derisero.

Panico.

Che fare in quel momento?
Come spiegare quello che stava facendo?
E come un fulmine a ciel sereno, Billy realizzò una cosa. Una cosa che non doveva passare in secondo piano.

Timore.

E se avessero mandato una lettera a Charlie?
Se l’avessero informata sulla scomparsa di James?
No, quello non era possibile, di solito lo facevano dopo almeno un anno di scomparsa.
E se invece lo avessero fatto perché lui era un caporale?

Billy prese dalle mani di Paul la busta appena arrivata e lo trascinò con sé nel corridoio, in un angolo, dove nessuno potesse notarli.
Paul era come spaventato dalla mossa del soldato, era diventato più muscoloso dall’ultima volta che lo aveva visto, nei suoi occhi non c’era più l’aria spaventata del novellino.

-Paul, mi serve una conferma- gli disse con tono aggressivo; Paul si limitò ad annuire.
-ti hanno già incaricato di portare in America le lettere delle scomparse o delle morti?-

Ma Paul continuava a sembrare spaventato.

-che hai? Ti hanno mangiato la lingua? Parla Paul è importante!-
- l-le d-devo.. s-spedire.. d-domani.. –
-ma come? Non è passato un anno!-
- d-durante l-la g-guerra.. è.. d-difficile.. – lasciò in sospeso la frase.
-dannazione Paul! Smettila di tremare e parla da uomo!-
- negli ultimi mesi è stata dura inviare lettere, le uniche che sono partite a marzo erano solo quelle del caporale Phillips e del medico che richiedeva medicinali, c’erano i bombardamenti, non si poteva inviare le lettere, e , ora che si sta calmando la situazione, volevamo spedirle, questo è tutto- disse tutto d’un fiato.
-sei sicuro che a marzo siano state inviate solo quelle? La lettera della scomparsa del caporale ce l’hai qui? Sei sicuro?- continuava a chiedere Billy, preso dall’ansia.

Paul cominciò a frugare nell’enorme borsone, pieno di buste, tutte sistemate in ordine alfabetico.

Quando arrivò alla lettera “P”, tirò fuori la busta e gliela porse.

-eccola, non l’hanno spedita-
-quanto vuoi per far finta che non sia mai esistita?- sbottò Billy.
- c-cosa?-
-questa lettera non deve arrivare in America.-
- m-ma, il caporale è morto!-
- il corpo non è stato trovato-
- ma.. ma cosa stai dicendo Billy? Non essere ingenuo.-
- ti ho chiesto quanto vuoi per questa lettera, Paul. James tornerà, e io ne sono certo.-

Paul lo guardò, con sguardo curioso, come se stesse cercando di cogliere qualcosa che gli stava sfuggendo; vide la mano di Billy, che teneva ben salda la busta consegnatagli pochi minuti prima.

-tu scrivi lettere alla fidanzata del caporale, fingendoti il caporale?! Sei diventato idiota?!-
-le do la speranza che merita.-
-il caporale è morto da sette mesi! Stai peggiorando le cose!-
-e se tornasse? Il corpo non l’hanno trovato! Perché togliere quella speranza a Charlie, eh? Perché?-

Paul non rispose, si limitò a fissare per terra.

-ti ho chiesto quanti soldi vuoi per questa lettera, ti darò quello che vuoi pur di non inviarla a Charlie, non si merita tutta questa sofferenza, lui tornerà-
-e se così non fosse?-
-andrò io personalmente a dirglielo-
-e se tu muori qui?-
-devi portare sfiga per caso? Pensavo dovessi portare la posta.-

Quella risposta fece sorridere Paul; i due si fissarono, poi Paul, gli consegnò l’altra busta, e si allontanò.
-cosa vuoi in cambio Paul?!- gli urlò Billy.

Ma il postino non si voltò, si limitò a dire –domani portami la lettera per Charlie, caporale, merita di ricevere la sua risposta- salutandolo con la mano alzata.
 


 
Billy sedeva su una roccia, appoggiata sulle gambe la sua macchina da scrivere, illuminato da una piccola lampadina, non troppo visibile per il nemico, ma sufficiente a leggere quella lettera.

“caporale James Phillips, amareggiati di annunciare la sua scomparsa, cordiali condoglianze. Tenente Bell”

La lettera che avrebbe rovinato i suoi piani.
L’appoggiò a terra, prese l’accendino dalla tasca e le diede fuoco.
La guardava bruciare, guardava sparire in briciole di cenere quello che sarebbe bastato a mandare all’aria quella sua missione: dare speranza a Charlie.
Sarebbero bastate quelle poche parole a distruggere tutto.

Prese la sigaretta, che teneva sull’orecchio, l’accese e ispirò un po’, per poi cominciare a leggere la lettera di risposta di Charlie.


“Caro James,
tu non sai quanto mi hai reso felice rispondendo alla mia lettera, ti giuro amore mio, credo di aver pianto per almeno una mezz’ora, se non di più; all’inizio pensavo ti fosse successo qualcosa, ma poi ho visto la tua firma, e il mio cuore non è scoppiato per la troppa gioia.
So che la guerra che stai combattendo è dura, so che non tornerai prima della sua fine, so quanto contano i tuoi uomini per te, e so che sarà dura aspettare tanto tempo prima di una tua prossima risposta, ma io ti aspetterò, io lo giuro che aspetterò, e lo giuro, mi fido di te, so che tornerai.

Devo dire che la tua richiesta mi ha fatto sorridere, mi fai sempre sentire troppo importante amore mio, mi fai arrossire come tuo solito, ma amo anche questo di te.
Il nostro primo incontro, e chi se lo scorda? Io no di sicuro, ed è per questo che oggi, ti racconterò nei minimi dettagli quello che abbiamo passato.

Sappi una cosa: so benissimo che lo ricordi anche tu, ma so anche che sei un romanticone e che ti piace il mio modo di raccontare le cose che abbiamo fatto e vissuto insieme.

Cominciamo allora, era il 10 giugno 1957.
Io avevo, come te del resto, 15 anni.

Credo che io debba essere grata in tutte le lingue possibili a mia madre per averti incontrato quell’anno; in campeggio non ci volevo proprio andare, era troppo noioso per i miei gusti, non si poteva andare nel bosco senza l’accompagnatore, non si poteva fare il bagno nel lago per via delle sanguisughe (ma non c’era nessuna sanguisuga) , non si poteva fare nulla, e tutto questo mi annoiava.
Mi pento, giuro, di esser stata due settimane chiusa in camera, invece di uscire, invece di incontrarti prima.

Ma d’altronde, dovevo arrivare al limite della sopportazione prima di esplodere, prima di prendere il mio giubbotto e inoltrarmi a notte fonda nel bosco, senza accompagnatore.
Mi ricordo quella notte, credo di non aver mai corso così tanto in vita mia, le mie gambe ancora mi fanno male al pensiero, quanto che ho corso, quanti graffi che mi ero fatta, perché da brava imbecille ho tenuto i pantaloni corti.

Ricordo che quando il fiato finì, cominciai a capire in che guaio mi fossi cacciata.

Da sola nel bosco, di notte.
L’ansia che provai mi fa ancora rabbrividire, quanto panico in quel momento, quanta paura.

I miei stessi passi mi facevano sobbalzare, se sentivo un gufo mi chiudevo a riccio in me stessa, se calpestavo un bastoncino secco, lasciavo scappare qualche gridolino.
Quanta paura in quel momento. Quante lacrime sono cominciate a scendere.
Cominciai a correre senza una meta, di nuovo, ed arrivai al lago, vicino al campeggio, ma a notte fonda, non è possibile riconoscere i nostri movimenti, figuriamoci i luoghi.
Mi accucciai alla base di un albero, che fiancheggiava l’acqua e cominciai a piangere, singhiozzando più forte.

Fu allora che sentii una voce.

-che hai tu?- mi chiese quella voce, spaventandomi e facendomi urlare.
-e smettila, frignona- mi rimproverava.
-cosa vuoi da me? Chi sei tu?- chiesi, impaurita.
-sono l’albero magico- rispose, sentii una risatina.
-per chi mi hai preso? Ho 15 anni non quattro- dissi con tono scocciato.
-da come piangi e urli ne dimostri almeno due.. neanche mia sorella è così fifona- continuava la voce.

Non riuscivo a vedere nulla, era troppo buio, non capivo da dove venisse quella voce.
Feci il giro del tronco, ma niente, tra i cespugli non c’era nulla, la voce veniva dall’alto, veniva da un ramo dell’albero.
E solo allora alzai lo sguardo, e vidi, grazie anche alla luce della luna, un’ombra.

-si può sapere chi sei?- continuai, e vidi l’ombra muoversi: qualcuno era appoggiato di schiena al tronco dell’albero, le gambe distese, le mani dietro la nuca.
-te l’ho detto, sono l’albero magico.- continuava a deridermi quella voce.
-guarda che ti vedo..-
-ah si? Che colore sono i miei occhi?- mi istigò la voce.
-se mi dai una mano a salire lo scopro-
-negativo ragazza, questo posto è mio.-

Sospirai.

-io mi chiamo Charlie- annunciai
-e chi te l’ha chiesto?-
-sei un albero antipatico..- e sentii di nuovo una risatina
-puoi dirmi come faccio a tornare al campeggio? Mi sono persa-
-basta che segui il lago qua davanti, arrivi in dieci minuti..-
-beh.. grazie albero- e salutai quella voce.

Fortunatamente quell’indicazione si mostrò esatta e io riuscii a rientrare prima che qualcuno si rendesse conto della mia fuga.
La sera seguente, logicamente, tornai lì, sta volta però, armata di scala, curiosa come mio solito, di vedere a che faccia appartenesse quella voce.
Sempre fortunatamente, quella voce era lì, come ad aspettarmi.

-Charlie? Sei tu?- mi chiese, appena sentì i miei passi.
-vedo che non ti scordi di me, albero- risposi io, posizionando la scala, sentii una risata.
-che stai facendo?-
-voglio vedere chi sei-
-non puoi venire qui! Le ragazze non sono ammesse!- ma era troppo tardi.

Mi arrampicai con tutte le forze che avevo in corpo, e raggiunsi quella voce, che quando mi trovai in difficoltà per salire, mi prese la mano e mi trascinò su.
Finalmente, eravamo faccia a faccia.
Ti puntai la pila che mi ero portata dietro, negli occhi, e dire che mi innamorai del tuo sguardo è dire poco.
I tuoi occhi, occhi azzurri, così glaciali, da farmi arrossire, ti eri messo una mano davanti il viso, per proteggerti dalla luce, e mi davi della pazza.

-i tuoi occhi sono azzurri- ti dissi io, in risposta alla sera precedente.
-e i tuoi capelli sono biondi, caro albero.- conclusi, spegnendo la torcia.
Sorridemmo entrambi, poi tu –io mi chiamo James- prendendomi la pila dalle mani e puntandomela addosso.
-tu invece hai gli occhi verdi e i capelli castani, Charlie- e sorrisi.

Inutile dire che quella notte parlammo così tanto da avere la bocca secca, inutile dire che, mi innamorai di te nell’arco di poche ore.
Eri, e sei tutt’ora, così dolce, sempre pronto ad ascoltarmi, sempre pronto a farmi sentire importante, sempre lì, in silenzio a fissarmi e a farmi domande di ogni genere.
Credo che in una notte, tu sia riuscito a conoscere tutto quello che mi caratterizzava in 15 anni di vita, sentivo il bisogno di dirti ogni cosa su di me, sentivo per te un’attrazione così forte da non poter resistere: volevo piacerti, volevo dimostrarti che avevi incontrato la persona che faceva al caso tuo, volevo che tu provassi i sentimenti che stavo provando io, volevo essere tua ad ogni costo.

Ma come ben sappiamo, non sempre tutto inizia bene no?

E infatti, due giorni dopo, quando tornai su quell’albero, tu non c’eri più, avevi lasciato solo un post it, che credo di avere ancora da qualche parte.

“North Chicago Street , 8 , Joliet, IL, Stati Uniti : se ti va di mandarmi qualche lettera, sarò lieto di leggerla. L’albero magico, James Phillips”

Inutile dire che urlai di gioia.

Vivevi a Joliet, io a Romeoville , non eravamo troppo distanti, in un’ora avrei potuto venire a salutarti, ma, non lo feci mai, l’idea di una corrispondenza tramite lettere mi ha sempre entusiasmato, come stiamo facendo ora.
Amore mio, questo ricordo del nostro primo incontro mi fa venire il magone, quanto eravamo piccoli, quanto eravamo ingenui, quanto io mi ero illusa, brutto antipatico che non sei altro, ma ti rendi conto che ci scambiavamo lettere e tu stavi con un’altra? E tutto questo me lo hai detto solo il giorno del nostro primo appuntamento, povera ragazza, provo ancora pena per lei, ma d’altronde, tu eri mio, eri destinato a me, e questo, io l’ho sempre saputo.

James, sono sempre io a raccontare, ma.. sai che mi sono resa conto di non averti mai chiesto cosa provasti tu? Non ti ho mai chiesto nulla, non mi sono mai soffermata sui tuoi pensieri, e mi sento un po’ antipatica per questo; lascio a te la parola amore mio, nella tua risposta vorrei solo sapere che hai provato, nel dettaglio però, non voglio sentire sempre la solita scusa del “mi stavi simpatica”, voglio sapere quello che provi James, voglio sentirmelo dire, voglio non dimenticarmi dei tuoi sentimenti per me.
A presto amore mio,

Charlie”

 
Billy sorrise quando finì quella lettera, si sentì un po’ un intruso in quella storia che non gli apparteneva, ma sapeva benissimo che sarebbe successo: se voleva darle speranza, doveva saper affrontare queste esperienze, sapeva che la timidezza non sarebbe stata d’aiuto, sapeva che doveva essere James in tutto e per tutto.
Ringraziò il cielo di averlo conosciuto così bene, e ringraziò il cielo di conoscere così bene ogni singolo dettaglio della storia di James e Charlie, poteva risponderle senza esitazione, poteva esprimere davvero quello che lui gli aveva raccontato.

Cominciò a scrivere, cercando di non dimenticare nessun particolare.


“Cara Charlie,
non sai da quanto ho aspettato questa risposta, non sai da quanto tempo ho aspettato Paul con la busta per me.

Rileggere l’inizio della nostra storia mi da i brividi, come sempre, mi riempie l’anima e mi fa vivere; sei sempre adorabile amore mio, ma dico, non la smetterai mai di rinfacciarmi il fatto che stessi con un’altra mentre mantenevo una relazione via lettere con te? Avanti, dimenticati di.. come si chiamava? Daphne? Selena? Tiffany? Non me lo ricordo più sinceramente, e sai perché? Perché io ho scelto te, e ora non arrossire, lo so che lo stai facendo.

Ho scelto te dal primo momento che ti ho sentita piangere sotto quell’albero, ho scelto te quando ti ho aiutata a salire, ho scelto te quando ho illuminato con la pila i tuoi splendidi occhi verdi amore mio.

Visto? Non sto usando la scusa del “eri simpatica”, anche se comunque è vero, mi facevi ridere, il suo senso dell’umorismo è sempre stato un punto a cui non sapevo, e non so tutt’ora, resistere, amavo sentirti parlare, amavo le tue interruzioni dei discorsi per fare una battuta, ridevo e ridevo, e tu mi guardavi incredula mentre lacrimavo dalle risate.

Mi chiedi cosa provai? Vuoi davvero saperlo? Credo di non essere un buon scrittore come lo sei tu, mia cara giornalista.
Credo che sarei banale a esprimere i miei sentimenti, ma se questo può renderti felice, ci proverò.
Ricordo quando ti ho puntato la luce della pila, quanto mi sentii brutto davanti a te, quanto eri, e sei, bella piccola Charlie, ricordo che indossavi il tuo vestito rosso con i fiori, e se lo hai fatto per farti piacere, beh, ci sei riuscita in pieno, dato che io ero vestito con il pigiama.

Non sai quanto ti ho pensato dopo quella notte, al campo tutti mi prendeva in giro, ma a me poco importava.
Poi si sa, sono tornato a casa, ma non mi sono scordato di te; quel post it.. tu non immagini quante prove io abbia fatto prima di appenderlo al tronco, ho consumato un intero blocchetto, e non sai quanta paura avessi: temevo non lo avresti trovato.
Ma, tu sei la mia Charlie, e io il tuo James, e come ti piace ricordare, eravamo destinati a stare insieme.

Sei la cosa più bella che mi sia mai capitata, sei la mia piccola Charlie, che amo tenere tra le mie braccia e riempire di baci sulla testa; amo immergere il mio naso tra i tuoi capelli, amo sentire quel profumo che mi manca da morire in questo momento: cocco.
E a volte rido sai? Perché qui, i capelli delle donne dei miei ragazzi sanno di vaniglia, di pesca, di rose, di muschio bianco, e poi intervengo io e tutti mi guardano interdetti.
Ogni volta che dico di cosa profumano i tuoi capelli, quasi rido, perché mi ricordo le tue manie, mi ricordo le tue parole, come quella volta che ti chiesi perché proprio il cocco.

“ma come?? Non lo sai? Il cocco tiene i capelli lisci e luminosi, le sue fibre mi fanno i capelli più belli di miss Illinois!” e io rido, sempre.

Non ti sto prendendo in giro, ma questo tu lo sai, perché sai che io amo quel profumo, perché so che nessun altra ha il tuo stesso odore, nessun altra è come te, tu sei unica.

Sai una cosa? Vorrei tanto dirti ancora tutto quello che sento per te, ma questo, rovinerebbe la mia intenzione: non voglio finire con il ripetere sempre le stesse cose, non voglio sciupare in solo una lettera quello che sento per te.
Ti chiedo quindi, di aspettare una prossima lettera, nella quale, tu comincerai a raccontarmi di quel che è successo il 16 luglio 1958, data a me cara, e tu sai perché.
Scrivimi presto piccola mia,

James”

Billy piegò quel foglio di carta e lo mise in una busta, già pronta con l’indirizzo battuto a macchina.
Quella lettera era perfetta, era esattamente come James l’avrebbe scritta, e lui lo sapeva benissimo.
Il motivo di tale sicurezza lo fece tornare indietro nel tempo, una notte passata a fare il turno di guardia con il caporale.

***

-caporale, mi parli della sua di ragazza, io sono a corto di informazioni per quanto riguarda il tema donne-
-che vuoi sapere di lei?-
-non lo so.. quello che lei si ricorda-
-mi ricordo tutto di lei.-
-mi dica le prime cose che le stanno passando per la mente.-
James ci pensò su prima di rispondere.
-beh, Charlie odia che io nomini Whitney, lei era la mia ragazza quando avevo 15 anni, e anche mentre scambiavo lettere con Charlie-
-lei è una volpe caporale- rise Billy tirandogli una pacca sulla spalla.


-lo so, ma.. Whitney non è mai stata importante per me, quindi.. quando Charlie si diverte a rinfacciarmi questa storia, io fingo sempre di non ricordarmi il nome, impresa ardua, visto che cinque ragazze su dieci, a Chicago, si chiamano così-

sei sempre adorabile amore mio, ma dico, non la smetterai mai di rinfacciarmi il fatto che stessi con un’altra mentre mantenevo una relazione via lettere con te? Avanti, dimenticati di.. come si chiamava? Daphne? Selena? Tiffany?
 

 
-poi.. Charlie arrossisce sempre quando le dico che io ho scelto lei-

Perché io ho scelto te, e ora non arrossire, lo so che lo stai facendo.
 

 
-quando Charlie vuole sentirsi dire qualcosa di tenero, per esempio perché mi sono innamorato di lei, mi dice sempre che devo smetterla di dirle che mi stava simpatica, perché non ti puoi innamorare di chi ti sta simpatico.. sennò non era nulla di vero, o almeno questo è quello che lei crede-

Non sto usando la scusa del “eri simpatica”

 
 
-Charlie ama quando le ripeto quello che lei dice, le sue citazioni, o le sue battute, perché così sa che io so tutto di lei, e che non mi scordo mai nulla.-

“ma come?? Non lo sai? Il cocco tiene i capelli lisci e luminosi, le sue fibre mi fanno i capelli più belli di miss Illinois!”

 
 
-poi, logicamente, ama il fatto che io mi ricordi le date più importanti della nostra storia.-

tu comincerai a raccontarmi di quel che è successo il 16 luglio 1958, data a me cara, e tu sai perché.

 
 
-ed infine, Charlie ama il fatto che io.. beh.. non esprima il mio amore per lei tutto su un colpo, rischio di finire sul banale, come dico sempre io, e.. a lei piace che io esprima quello che sento un po’ alla volta, perché quel poco, sa che è magnifico-

Sai una cosa? Vorrei tanto dirti ancora tutto quello che sento per te, ma questo, rovinerebbe la mia intenzione: non voglio finire con il ripetere sempre le stesse cose, non voglio sciupare in solo una lettera quello che sento per te.

 
 

-queste sono le cose a cui sto pensando ora, Billy, ma fidati che io, di Charlie, so tutto, a momenti anche quante lentiggini aveva sulle guance a 15 anni-




Note di Nanek:

ed ecco a voi, a distanza di pochi giorni, il capitolo numero 2 :) un capitolo bello lungo direi, ma d'altronde, chi non si ricorda nei minimi dettagli cose di questo tipo?
                                                                       spero vivamente che vi possa piacere, 23 visite solo nel capitolo 1 e già due recension da parte di due care persone, che io adoro <3 ma che loro lo sanno già ;)

                                                                       spero vi piaccia questo capitolo.. spero vi piaccia la piega che Billy sta prendendo ;) spero spero spero.. sono una tipa speranzosa insomma!!
                                                                       non vi disturberò ulteriormente :) a presto!

Nanek

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Capitolo 3
*** Summer of 58 ***


Capitolo 3

Summer of 58

6 gennaio 1972

-Billy? Billy sveglia!- lo chiamava quella voce.
-Billy? Sono Paul! C’è posta!- continuava a ripetergli.
-lasciala lì Paul.. dopo la leggo..-
-negativo soldato, tra venti minuti devo ripartire con le risposte!-
-perché non l’hai detto subito?! Ora mi muovo- balzò in piedi il ragazzo dagli occhi smeraldini, stiracchiandosi.
Aprì la busta, contenente il papiro scritto da Charlie, sapeva bene di non poterlo leggere, e sapeva che in venti minuti non sarebbe riuscito a rispondere come la volta precedente.
Mise da parte la lettera, e cercò di formulare qualcosa.
-Paul che le scrivo in venti inutili minuti?! Mi ci vuole come minimo un’ora!-
Paul stava consegnando le buste ad altri soldati, e gli fece cenno di uscire dalla camerata.

 
Passarono circa dieci minuti, quando Paul lo raggiunse.
Billy sedeva per terra, la testa fra le mani, la macchina da scrivere sulle gambe, il foglio bianco.

-manca l’ispirazione soldato?- lo derise Paul.
-spiegami come faccio a sembrare il caporale in dieci minuti!- sbottò istericamente Billy.
-dovevo prepararmi la riposta con anticipo! Sono un idiota.- continuava a rimproverarsi.

Paul sembrava pensarci un po’ su, si allontanò, lasciando Billy in preda dalle sue ansie.
Cosa poteva fare in quel momento?

Non poteva rispondere a monosillabi, non sarebbe stato cortese, non sarebbe stato da James: lui o rispondeva o evitava di farlo.
Potrei non rispondere, pensava Billy tra sé.
No, non posso farlo ora, povera Charlie, le spezzerei il cuore.
Ci voleva una soluzione in qualche modo.

Paul tornò indietro, e lo chiamò, facendogli segno di seguirlo.

Lo portò in una stanzina, vicino alla mensa, abbastanza appartata, piuttosto insolita, che Billy considerava lo sgabuzzino della base.
Aprì la porta, non servì la luce, la finestra illuminava abbastanza bene: dentro c’era solo un tavolino e una sedia, le pareti.. dipinte.
Sembrava di essere su una collina, o in un posto abbastanza alto: il panorama davanti ai suoi occhi era qualcosa di unico; c’era disegnata una valle, l’erba verde, il fiume che scorreva, gli alberi tutti intorno, poi si apriva verso un campo di grano, le spighe erano talmente perfette da sembrare vere, come se si potessero toccare, c’erano delle farfalle, che sembravano circondarlo e posarsi su di lui, colori incredibilmente vivi per essere solo dei semplici disegni.

Gli occhi verdi del giovane Billy cominciarono a seguire quelle figure, quelle ali, le seguiva con lo sguardo, come se stessero volando davvero, e lo costringessero a non perderle di vista; era incantato da quelle ali, come un bambino che per la prima volta guardava in cielo… e poi, in mezzo a quello splendore, c’era una linea grigia, una strada forse, una via da seguire.

Quella strada portava vicino al lago.
Billy si ritrovò a guardare un’altra parete: il colore dominante era l’azzurro, in tutte le sue sfumature, non ci impiegò molto a capire che James aveva rappresentato il cielo e il lago di Chicago.
L’azzurro del lago sembrava combaciare con il cielo, come se fossero la stessa cosa, la linea dell’orizzonte era quasi impercepibile, era come stare su uno scoglio, ad ammirare quella meraviglia.

I gabbiani in cielo, la spiaggia con delle impronte di piedi, le onde disegnate con piccoli tratti più bluastri, ogni singolo dettaglio era presente, ogni tratto di quel disegno non sembrava fatto con un pennello, era tutto troppo reale per essere un dipinto fatto dalla mano umana, era troppo perfetto nei dettagli, sembrava una fotografia, sembrava di essere davvero lì.
Poi, l’immagine si avvicinava, come se, il paesaggio stesso, si stesse avvicinando all’osservatore, come per travolgerlo, come per trascinarlo dentro; ma non era quella l’intenzione del caporale, l’immagine era vicina, il lago e il cielo erano più lontani, per dare spazio a un nuovo primo piano, dove si potevano scorgere due schiene: quella di un uomo, dalle spalle larghe e i capelli biondi, e una ragazza, la maglia rossa e i capelli lunghi e lisci raccolti in una treccia.

Le loro mani intrecciate, e sotto di queste, una firma “JP 25.12.62”
-il caporale lo chiamava “macchina del tempo”, l’unica via per tornare a casa e isolarsi dalla guerra- disse Paul, mentre Billy rimaneva estasiato da quel dipinto.
Paul lo spinse verso il tavolo e lo incitò a guardare attentamente.
Sulla superficie, c’erano delle scritte, fatte con un’indelebile abbastanza grosso.

Perdonami, perdonami di amarti e di avertelo lasciato capire. William Shakespeare

L’eternità era nelle nostre labbra e occhi. William Shakespeare

Ma tu chi sei che avanzando nel buio della notte inciampi nei miei più segreti pensieri? William Shakespeare

Eravamo insieme. Tutto il resto del tempo l’ho scordato (W.Whitman)

Perché l’amavo? Perché era lei; perché ero io (Montagne)

Non oso chiederti un bacio, non oso mendicare un sorriso, per timore che, ottenendo l’uno e l’altro, io possa diventare superbo.
(Herrick)


E così continuavano, a non finire, su tutto il tavolo.
-a James piacevano le poesie.. forse le dedicava anche a Charlie, no?-

Billy non sapeva che rispondere.

Davvero al caporale piacevano?

A quel tipo duro come un sasso che rideva dei soldati fragili che volevano fare gli scrittori?

James che amava le poesie?

Non poteva essere vero, le cose non tornavano.

Per la prima volta, Billy si trovò in difficoltà: non sapeva quale fosse la risposta.

Come poteva essere sicuro?

Non sapeva neanche di quel nascondiglio, non sapeva di quel disegno, come poteva sapere se dedicava quelle poesie a Charlie o le condivideva solo con se stesso?

-Billy?- lo scosse Paul.
-io.. sei sicuro che sia stato lui a fare tutto questo?- domanda scontata, ma Paul annuì.
-e sei sicuro che le inviasse a Charlie?-
-pensavo fossi tu il migliore amico del caporale.. come posso saperlo?- chiese Paul confuso.
-forse mi sfugge qualcosa.. ma io ti giuro non sapevo nulla di tutto questo, è un bel casino non sapere tutto dannazione!- alzò la voce.
-senti Billy.. io dovrei essere già in viaggio, senti, rischia! Che ti devo dire, scrivile queste frasi e basta, e poi, se la fortuna è con te, magari gliele dedicava veramente.. se no.. beh, presto o tardi lo avrebbe scoperto.. non credi?- concluse Paul, informandolo che lo aspettava all’uscita.

Non c’era tempo per ragionarci sopra.

Billy non ci pensò troppo a sfidare nuovamente il destino: prese in corsa la macchina da scrivere, e batté quelle frasi, concludendo quella minuscola lettera con un “un bacio a voi, le mie donne” sperando che Charlie capisse cosa voleva trovare nella sua prossima risposta.
Consegnò la busta a Paul, e lo salutò, ringraziandolo, e augurandogli un in bocca al lupo per il suo ritorno.



 
Quella mattina doveva andare in missione, in una zona non ancora stata colpita dai bombardamenti, doveva andare a controllare i villaggi, controllare che ci fossero solo civili, per evitare un attacco diretto.
Billy era confuso, quella mattina.

Continuava a essere sotto ipnosi, come se quella stanzetta l’avesse sconvolto, come se l’avesse spaventato, come se quel disegno gli avesse detto in faccia che del caporale Phillips sapeva ben poco.

Si sentiva tradito, in parte, da James; insieme avevano condiviso così tanto, si erano confidati i segreti più nascosti, le loro paure, le loro incertezze: com’era possibile che in realtà, James non era stato completamente sincero con lui?

Come aveva potuto tenergli nascosto certe cose? Come aveva potuto allontanarlo così tanto da lui? Non erano forse amici loro?

Evidentemente, James non si fidava troppo di Billy.

Questo è un problema, si ripeteva mentre camminava fissando il terreno polveroso.

Se mi ha tenuto nascosto altre cose, è la fine, rischio davvero di farmi smascherare da Charlie.

Di nuovo il panico nelle vene, al pensiero della sua lettera, inviata quella stessa mattina all’alba.
Alzò gli occhi al cielo, e cominciò a fissare le nuvole grigie di quel giorno, e come se fosse impazzito, si lasciò scappare un urlo.

-volevi a tutti i costi che lei sapesse che te ne sei andato vero?! Dimmelo che è così James!! Sei un idiota caporale lo sai?! Perché mi neghi la possibilità di aiutarla eh?! Lei è un idiota!-
Urlava contro il cielo, contro le nuvole, come se James fosse davvero lì, seduto su una nuvola, ben nascosto, ad ascoltarlo.

-sembra davvero che tu voglia lasciarla sola caro James! Sembra che tu voglia abbandonarla davvero! Sembra che tu voglia essere dimenticato!- continuava ad urlare, con gli sguardi di tutti puntati contro.
-ma mi spiace per te, caro caporale, non è ancora finita, io sono più furbo di lei, e io so che lei tornerà!!- concluse, per poi esser distratto da un boato.




 
Calò la notte, cessarono i colpi, e Billy era ancora vivo.

Solo un graffio in viso, in piena guancia, provocatogli da quel cecchino “bendato”, che lo stava puntando mentre lui ringhiava contro il cielo.
Un cerotto e nulla di grave.
Un’altra volta era stato in bilico, sul filo di un rasoio, un’altra volta qualcuno, dal cielo, lo aveva protetto, facendo sbagliare quel cecchino, e procurandogli solo un graffio.
Un graffio e una ramanzina di un’ora e mezza da parte del tenente per il suo essere irresponsabile, un nulla, rispetto ad alcuni suoi compagni, feriti alle gambe, o alle braccia: nessuno morto quel giorno.

Un attacco debole, da parte di appena venti nemici, un attacco che per quel giorno, aveva risparmiato le loro vite.
Si mise disteso, con le braccia incrociate dietro la testa, e nel farlo, sentì il rumore di carta stropicciata; si alzò leggermente, e la trovò lì, la lettera di Charlie, che non aveva ancora letto, la lettera che aveva aspettato da mesi, la lettera che raccontava del famoso 16 luglio del 1958.

La prese, e si avviò verso la stanzetta segreta di James per leggerla, lontano da occhi indiscreti.


“Caro James,
non ti smentisci mai eh? Pure le date ti ricordi, ogni volta sorrido come un’adolescente.

16 luglio 1958.. e chi se la scorda una data così? Una data che mi fa.. ridere come una scema, e Ashley mi guarda strana, per poi ridere anche lei.
Ricordo talmente bene quel pomeriggio.. che potrei scrivere un articolo, intitolato “il tempismo di James Phillips”..
Quel pomeriggio ero a casa mia, appena tornata dalla partita di pallavolo, ero esausta, e sudata come pochi, che caldo in quella dannata palestra, le finestre chiuse poi.. lasciamo perdere questo argomento o ricomincio con la polemica!

Per la precisione quel pomeriggio ero in vasca, bella piena e riempita con acqua fresca, bagnoschiuma alla lavanda, perfetto per rilassarmi un po’.
Mi ero appena immersa, in modo tale da bagnare anche i miei capelli, mi misi comoda con la schiena appoggiata alla vasca, e chiusi gli occhi.
Che goduria, ero così rilassata, i miei pensieri erano ancora fissi sulla partita, ma l’acqua fresca era così perfetta sulla mia pelle, non troppo gelida da ibernarmi, né troppo calda per peggiorare la situazione, ero in paradiso.

Sentivo entrare dalla finestra il cinguettio degli uccellini, sentivo passare qualche camion, ma nulla mi disturbava, ero sola, solo io e la mia anima rilassata e beata.
Ma ovviamente, nulla dura in eterno, no?
E ovviamente il campanello suonò, sul mio pensiero più bello: tu.
Stavo proprio pensando a te in quel momento, stavo pensando che era ormai un anno che non vedevo il tuo viso, era da un anno che continuavamo a sentirci via lettere e basta, e questo, mi piaceva troppo.

Il campanello suonò una seconda volta, e io sbraitai un –arrivo dannazione!- la mia finezza quel giorno era alle stelle.
Mi misi l’accappatoio di mio padre,  color verde acido, cappuccio in testa, ciabatte al volo, e dire che allagai casa mia, non è un’esagerazione: lasciai una scia d’acqua assurda.
Corsi giù per le scale, cercando di non scivolare, e, letteralmente, mi precipitai alla porta.

Aprii, e senza rendermi conto di chi avessi davanti, esclamai un gentile –che diamine volete?!-
Quando mi ritrovai i tuoi occhi puntati contro, diventai color pomodoro.

-ciao anche a te, Charlie!- , la tua risposta.

E io, ti chiusi la porta in faccia, facendoti ridere come uno scemo.
Mi appoggiai con la schiena alla porta, imbarazzata al massimo, con l’accappatoio verde, e le ciabatte degli orsetti.

-dai Charlie non è educato lasciare fuori un ospite!- mi incitavi tu, ma io ero troppo presa dal mio stato di imbarazzo totale, per aver fatto una figura da chilo con colui che definivo, nei miei pensieri, “il mio principe azzurro”.

Il tuo tempismo era stato davvero pessimo.

Continuavi a bussare, mentre io continuavo a disperarmi.
Decisi di sfidare me stessa.

Aprii nuovamente la porta, e con scatto felino, corsi nuovamente su per le scale: dovevo vestirmi e cambiarmi nell’arco di almeno un minuto!

-Charlie? Ma dove sei?- mi chiedevi tu dal piano di sotto.
-entra James! Dammi due minuti e arrivo!-
-ma, non è un problema.. cioè.. ehm, okay ti aspetto.. qui.. sul divano.. posso?-
-vai, vai! Io arrivo, perdonami!- urlavo, mentre asciugavo per terra, mi pettinavo e nello stesso tempo mi vestivo.

Mi avevi colto alla sprovvista, che figuraccia, che situazione.
Raccolsi i capelli in un chignon, mi misi il vestito azzurro che mi ero preparata, fondotinta leggero sulle guance per concludere, in tre minuti esatti mi ero sistemata, non ero perfetta, ma ero sicuramente più presentabile di prima.
Mi misi le infradito bianche, non troppo imbarazzanti.
Scesi le scale velocemente, e mi catapultai in soggiorno.

E tu eri lì.

Seduto, dritto come se avessi un bastone nella schiena, immobile, la mani sulle gambe, come se avessi paura di rompere o sporcare qualcosa: adorabile.
I capelli biondi, alzati in una crestina, i pantaloni corti e beige, la maglietta con il collo tirato su, bianca, la tua pelle abbronzata, il tuo profumo invadeva tuta la stanza.
-ciao- riuscii a dire, facendoti girare verso di me, i tuoi occhi azzurri, glaciali, mi fecero abbassare lo sguardo.
Mi avvicinai a te, che ti eri già alzato pronto a salutarmi, ci abbracciammo, e io diventai ancora più rossa.

-ciao a te Charlie, come stai?-
-che ci fai qui?- chiesi io, facendoti ridere.
-il bello di voi ragazze è che non sapete rispondere senza fare una domanda- il tuo sorriso stupendo.
-ehm, sto bene grazie- risposi frettolosa-tu? Stai bene? Che ci fai qui? Vuoi da bere? Hai fame?- il nervosismo.

Continuavi a ridere di me –devo rispondere a tutte queste domande?-

-ovvio- risposi, ridendo a mia volta.

Il tuo viso così pensieroso, mentre cercavi una risposta per ogni mia domanda.
-allora, sto benone, non ho fame, né sete.. e sono qui perché..- lasciasti la frase in sospeso.
-perché vorrei invitarti a fare un giro in bicicletta- e scoppiasti a ridere, io non capivo.
-ehm, sì.. in bicicletta, va bene.. prendo le chiavi allora..- e mi avviai a prendere borsa e tutto l’occorrente; lasciai un post it per i miei e quando venni a cercarti in soggiorno, tu eri già uscito.

Chiusi la porta, e quel che vidi, mi fece sentire scema.

Tu, seduto per terra, mentre ti mettevi un paio di pattini.

-e questa sarebbe una bicicletta?- chiesi io, presa dal panico, io e i pattini non avevamo una bella relazione.
-le strade di questo posto sono troppo belle per non essere sfruttate dai pattini- vidi la tua mano passarmi dei pattini rosa –tieni, spero ti vadano bene, ma a occhio e croce, direi che è la taglia giusta- e ti vidi sorridere di nuovo.

Ero stanca morta, dopo la partita, eppure non mi sono mai sentita così tanto in forze in vita mia.
Una volta indossati quegli attrezzi di tortura, mi sollevai, cercando l’equilibrio di cui avevo bisogno, ed annunciai –sono perfetti- facendoti sorridere.
-ti vedo incerta Charlie- tu e il tuo essere così perspicace.

-meglio così- commentasti abbassando lo sguardo, e lasciandoti sfuggire un lieve rossore.
Mi misi vicina a te, e tu, furbo, avvicinasti la tua mano alla mia, fino ad intrecciarla.
-beh, dai allora, ti tengo io, hai voglia di.. un gelato?-
-effettivamente fa un po’ caldo, vada per il gelato-
-così festeggiamo!- esclamasti tu.
-festeggiamo cosa?- chiesi io, facendoti arrossire.
-oggi compio sedici anni cara Charlie- ennesima figuraccia, la seconda, alla quale avrebbero susseguito molte altre quel giorno.

Cominciammo a muoverci, a pattinare insieme, e io mi sentivo un’autentica idiota: come avevo potuto scordarmelo? Come poteva essere successo? Dimenticarsi del tuo compleanno, continuavo a ripetermi che alla fine di quella giornata non ti avrei più rivisto, chi si dimentica il compleanno del proprio “principe azzurro”? : io, ovviamente.
Continuavo a stare in silenzio, a pensare a un modo per rimediare a quel pasticcio, ma non mi veniva in mente nulla, troppo agitata, troppo arrabbiata con me stessa per averti fatto una cosa simile.
Quando arrivammo alla gelateria, mi offrii per pagare quello che avresti preso, come per poter rimediare alla mia dimenticanza; ma tu, ti sentivi offeso nell’orgoglio per tale offerta.
-da quando un uomo si lascia pagare il gelato da una donna? Sei matta? Pago io, compio io gli anni, non tu- mi dicesti con tono quasi scioccato.
 
 
-vado a tenere il posto su quella panchina, Charlie, riesci a ordinare i gelati senza farli cadere?- mi chiedesti tu, prendendomi in giro.
Ti mostrai la lingua –certo che ce la faccio, antipatico, che gusti vuoi?-
-stupiscimi mia bella.- la tua risposta, lasciandomi lì, su quei pattini, con quella banconota, in preda dal mio pessimo equilibrio.
Ordinai e presi in mano il resto e i due coni, e cercai di non uccidermi, avvicinandomi a te.

E meno male che non feci cadere nulla, pensavo, ma l’ennesima figuraccia era dietro l’angolo.

-che gusti hai scelto allora?-
-ho preso cioccolato e fragola per me, e per te, cioccolato e pistacchio! Come piace a te- sorrisi, convinta delle mie idee..
La tua richiesta, in seguito, mi stupì.

-facciamo così, per oggi, io mangio quello che hai preso per te, e tu quello che hai preso per me, stop alla monotonia, bisogna essere di larghe vedute, non trovi?-
Ti guardai male, sembravi davvero uno scemo, ma data la mia dimenticanza, se quel giorno mi avessi chiesto di buttarmi dal ponte io l’avrei fatto; e fu così che ti porsi il mio gelato, e io mi mangiai il tuo.

-devo essere sincera, è buono il pistacchio!- ti dissi entusiasta, era buono davvero.
-eh.. io ho gusti raffinati, buona anche la fragola comunque- mi sorridesti, quanto eri gentile.

E nuovamente eravamo lì, a parlare, di nuovo, dopo un anno, alla luce del sole.
Mi parlavi di scuola, di sport, ti lasciavo parlare quel giorno, ero talmente triste per non averti regalato nulla, che non mi permettevo di fermarti, ti lasciavo parlare, a raffica, e tu parlavi, gesticolavi, con gli occhi che brillavano.

Quando calò il silenzio, ti porsi quella domanda, -ma come mai vieni qui solo dopo un anno?-
Era una domanda che mi tenevo da troppo tempo, e se avessi saputo la risposta, non te l’avrei mai fatta.
-ehm.. ho avuto problemi..-
-di che tipo?- chiesi curiosa.
-ehm.. devo essere sincero con te vero?- mi spaventasti con quella domanda.

 Annuii.

-vedi.. ehm, io.. quando ero al campo.. ehm, stavo.. con una ragazza- sbiancai, ti avrei tirato dietro un sasso, o direttamente il gelato, o i pattini, o la panchina.
Ma tu, riprendesti il discorso, come per rassicurarmi –non fraintendermi, te lo posso giurare che ora non la vedo più, te lo giuro, non sarei qui se non fosse vero, lei non è più nulla-

Ti guardavo negli occhi, e.. mi misi a ridere.

La tua faccia continuava a essere come in bilico, non sapevi se ridere o se aspettarti un ceffone da parte mia; ma quel giorno, avevo fatto troppe figuracce per potermi permettere un gesto simile, ed inoltre, mi fidavo troppo di te.
Per me, quella visita inaspettata, era la dimostrazione del tuo interesse per me; ero talmente affascinata da te, che non riuscivo a pensare a te come un ragazzo sciocco che si prendeva gioco degli altri; i tuoi occhi erano la mia sicurezza, il tuo sguardo mi diceva di fidarmi di te, e credo che questo sia il motivo per cui ti ho sposato e che credo che tornerai da questa guerra.

A quella tua piccola confessione, mi limitai ad appoggiare la mia mano alla tua, per poi stringerla.
Alla fine di quel pomeriggio, pattinammo fino a casa mia, io fin troppo felice per tutto quello che avevamo fatto.
Ci salutammo fin troppo velocemente, ma tu dovevi prendere l’autobus, l’ultimo che passava, ci salutammo con un bacio timido sulla guancia, un bacio fin troppo vicino all’angolo della mia bocca, ci salutammo con un –vengo a trovarti presto-.

Ricordo di esser stata sveglia per tutta la notte quel giorno, il pensiero di te, che lasciavi un’altra per me, pensavo ai tuoi occhi sinceri, pensavo a quel pomeriggio, pensavo e sorridevo da sola, pensavo e sentivo i brividi sulla pelle, pensavo e il mio cuore batteva troppo forte.
Il giorno seguente, ti mandai per posta una busta di pistacchi, come regalo di compleanno, come rimedio per la mia dimenticanza.

Non dimenticherò mai la tua lettera per ringraziarmi, non dimenticherò mai il tuo “ps” finale: “Charlie, senza offesa, davvero non voglio offenderti, ma.. è meglio che tu lo sappia, piccolina: io sono allergico ai pistacchi”.

Grazie, amore mio, per avermi fatto sentire un’idiota.

Ma sappi una cosa, caro James, che non sei l’unico ad aver fatto un figurone quel giorno: per tua informazione, quei pattini erano troppo stretti, le vesciche non mi lasciarono un attimo di pace per cinque giorni.

Dopo questa breve confessione spero che ora tu ti stia mettendo a ridere di me, come fai sempre, e ti chiedo scusa, per non avertelo detto prima.
Caro amore mio, è bello pensare al nostro passato, mi riempie l’animo, e ogni volta che ricevo posta, vado in giro con il sorriso.

Sta volta non ti dico cosa voglio come tua risposta, voglio che tu mi stupisca, hai carta bianca mio bel caporale, e spero di riceverla presto.
Mi manchi James, ma noi ti stiamo aspettando, ricordatelo sempre questo.
Sempre tua,

Charlie”

Billy si lasciò scappare una risatina a quell’episodio, se lo ricordava, il caporale gli aveva raccontato del loro appuntamento, ma conoscere i retroscena e le figuracce di Charlie era davvero unico.
Sorrise, rileggendo quella frase:

“Sta volta non ti dico cosa voglio come tua risposta, voglio che tu mi stupisca, hai carta bianca mio bel caporale.”

Alzò lo sguardo verso il dipinto di James, e sempre sorridendo, si lasciò scappare un commento.
-ah, ora sì che dimostra di non volerla perdere, caporale- e alzò la mano alla tempia, come se James fosse davvero lì con lui.

 

Note di Nanek:
salve gente =) ecco, solito problema delle note finali dove non so cosa dire.. cioè.. che dite voi? Vi piacciono questi due piccioncini? ;) a me abbastanza, ma io sono di parte, e voglio bene ai miei personaggi, per questo faccio le domande a voi ;)
spero di non avervi annoiato, perché per l’ennesima volta sto capitolo è stra lungo -.- pessima che sono..
ad ogni modo, spero che vi possa piacere <3 e spero di trovare qualche recensione da parte vostra =) ringrazio come sempre la mia Tomma e la mia Malika (che l’ultima volta mi ha lasciato un papiro, che mi ha messo in profonda crisi per questo capitolo, quindi se ti fa schifo è colpa TUA U.U ) <3
ringrazio anche elspunk93 che sta seguendo questa storia =)
alla prossima care lettrici =)
Nanek

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Capitolo 4
*** Kiss me ***


Capitolo 4

Kiss me

 

25 settembre 1972

-Paul!!!!- urlò il soldato White, di ritorno da un’ispezione mattutina.

Il giovane cominciò a correre alla vista del postino, allontanandosi dal gruppo, correva e correva, quella lettera la stava aspettando da troppo tempo.
Che aveva riposto Charlie?
Lo aveva scoperto?
Era riuscito a cavarsela?
Lo avrebbe scoperto a breve: Paul era lì, sorrideva, buon segno.
Quando furono vicini lo abbracciò, sotto lo sguardo di tutti, che lo derisero e gli diedero della “femminuccia”.
Paul era rosso in viso, imbarazzato a morte, ma si lasciò abbracciare da quel giovane soldato, ancora vivo, ancora pronto a rispondere a quella lettera che Charlie aveva inviato, ogni volta vederlo arrivare era come un sollievo.

-ehm, soldato, un po’ di contegno- riuscì a dire Paul, cercando di staccarlo dal suo petto.
-sono stanco morto Paul, lasciami immaginare che tu sia una splendida fanciulla-

Paul, al sentire quelle parole si irrigidì.

-per favore Billy, staccati- rispose serio.
Il soldato si allontanò, e lo guardò con sguardo curioso –allora c’è posta per me?-

Paul annuì e gli diede la busta blu che gli consegnava sempre.
Billy cominciò a camminare, verso una sedia messa davanti alla base: aveva bisogno di stare solo, voleva stare in compagnia solo di se stesso quando leggeva quello che Charlie gli scriveva, voleva tenersi per lui le sue parole, voleva stare su una bolla con i suoi racconti.
Sospirò a fondo prima di aprire quella busta, contenente buone o cattive notizie.

Quando vide il solito papiro, sorrise: forse ce l’aveva fatta.


“Caro James,

a leggere quelle frasi, sono diventata color fragola, amore mio.
Credo che appena ti vedo ti riempio di baci, credo che non ti lascerò neanche respirare, tu non sai quanto io sia contenta di questo tuo essere così dolce e tenero con me.
Quelle frasi, quel tuo saluto finale, ho capito sai di che vuoi parlare, furbetto.
Credo, sì, che il mio cervello sia andato in tilt quando ho letto la tua corta, ma profonda lettera di risposta; leggendo quelle frasi, sono tornata indietro con il tempo, sono tornata indietro, e non sai quanto avrei voluto rimanere lì.

Solo per stare con te.

Chi se la dimentica quella data, James? Chi? Io no di certo.
Quel lontano 31 dicembre 1958, a Chicago, con la neve.

Mi hai salvato il capodanno amore mio, l’avrei passato con i miei genitori se non fosse stato per te.
La tua lettera d’invito l’avevo riletta circa settanta volte prima di riuscire a crederci.
Che nervosa che ero, come sempre d’altronde.

Non sapevo come vestirmi, non sapevo se farmi la coda o lasciare i capelli sciolti, non sapevo che fare, e finii per andare sul banale.
Un vestito bianco, le calze pesanti e blu, e le scarpe sempre blu scuro: mi devo ancora dare un perché per tale abbinamento orribile.
Ricordo di aver rifatto quella treccia incorporata per ben cinque volte, temevo di aver perso talmente tanti capelli da restare pelata.
Poi il trucco, mia madre mi diceva di non truccarmi, mia cugina, trentenne, mi diceva di mettere una bella pennellata di rosso sulla bocca.
Optai per un rossetto tenue di mia madre, che mi faceva sembrare un cadavere : bianca latte in viso ma con la bocca viola, uno splendore di ragazza non c’è che dire.

Poi il campanello suonò.

E tu eri arrivato.

E ovviamente ti aprì mio padre, pronto per l’interrogatorio.
Ricordo il tuo sguardo dolce, mentre rispondevi alle domande del “Colonnello”, ricordo di essermi incantata.
Semplicemente adorabile con quel maglione di lana bianco (ottima scelta amore mio, sembravamo due gemelli) , ma decisamente perfetto per te e per il tuo viso ancora abbronzato, nonostante fosse inverno inoltrato.

Eri semplicemente perfetto.

Poi ovviamente tu, con la tua grazia, mi hai riportato alla realtà, salutandomi con il tuo –ehy pistacchio vivente!- burlone.

I tuoi cugini ci aspettavano in macchina, non dimenticherò mai il modo orribile di guidare di Ed.
Ma tralasciamo questi miseri dettagli che mi fanno solo consumare inchiostro.

Arrivati alla festa, a casa del tuo amico Stan, mi sentivo un autentico pesce fuor d’acqua.

Tutte quelle fanciulle lì presenti erano davvero belle, e io a confronto, con quel vestito, ero una suora mancata.
Mi sedetti in disparte, sulle scale, e fissavo quel posto.
Non sapevo cosa dire, non sapevo cosa fare, mi sentivo solo fuori luogo, e, se devo essere sincera, mi mancava la voglia di fare amicizia con qualcuno.
L’unico motivo che mi aveva portata fino a lì, eri tu.

E tu dov’eri? Ma ovvio, con quella bambolina tutto seno e sedere dal vestito attillato e rosso, la sua bocca era un autentico canotto dello stesso colore del tessuto del suo abito, scarpe altissime, e, ovviamente, bionda.

Non ti nascondo che avrei tanto voluto venire lì e rovesciarle un po’ di punch addosso, lei ti stava distraendo da me.
Notai una coppia passarmi vicino, andavano verso le camere, mi sentii imbarazzata al pensiero che al piano di sopra qualcuno si stesse dando da fare.
Ora, non prendermi per pervertita, ma andai anche io al piano superiore, e non come credevi tu per “fare cose sconce”, volevo vedere se in quella casa enorme ci fosse una mansarda.

Effettivamente la trovai, in alto, e fortunatamente, la trovai libera; una mansarda con solo un tavolo e delle sedie, e cinque scaffali pieni di libri.
Pane per i miei denti, insomma, dato che io, amo i libri, e amo scrivere, non a caso sono una giornalista, no?
Credevo di aver trovato davvero il paradiso in quella mansarda, sarei rimasta lì per ore.
Cominciai a curiosare tra i vari titoli, e man mano che ne trovavo di interessanti me li prendevo.
Autori tra i più gettonati: Shakespeare, un classico che amo con tutto il cuore, ma anche Montagne, e tanti altri.

Cominciai a leggere quelle pagine, e mi persi nei miei pensieri.

Shakespeare era in assoluto il migliore per una ragazzina sciocca come me; le mie illusioni non avevano fine, mi facevo tanti di quei castelli che neanche ti immagini.
Mi immaginavo su quel terrazzo, a Verona, in attesa del mio James, lo aspettavo e recitavo quelle parole, quasi a memoria, che mi riempivano l’animo e mi facevano sorridere.
Mi è sempre piaciuto Romeo e Giulietta, e a chi non piace? È la storia d’amore più triste ma bella del mondo, una storia che è sempre riuscita a commuovermi, e che mi ha fatto credere che l’amore esiste, in qualche modo.

E mentre nei miei castelli mi stavo già gustando il sapore delle tue labbra, tu arrivasti dietro di me, e dire che urlai dallo spavento, è dire poco.

-che ci fai qui da sola?- maledizione a te e al tuo tempismo.
-leggo- ti risposi, non nascondendo il mio essere scocciata, visto che ti eri completamente dimenticato di me.
-cosa leggi?-
-Romeo e Giulietta- tagliai corto nuovamente.
-stai bene?- e sentii la tua mano sulla mia spalla, che mi accarezzava.
-benone.- e tolsi pure quel piccolo contatto tra noi, alzandomi, e sistemando i libri.
-ti sento.. arrabbiata?- sei sempre stato un tipo perspicace.

Non ti risposi.

Continuavo a mettere i libri al loro posto.
Sentii poi le tue mani sui miei fianchi, sentii il tuo respiro sul mio collo: la fine per me e il mio misero tentativo di fingermi offesa.
Sentii la tua voce, sussurrare -Ma tu chi sei che avanzando nel buio della notte inciampi nei miei più segreti pensieri?-
Non ci potevo credere: tu conoscevi Shakespeare.
Mi girai di scatto, gli occhi spalancati, sorpresi, non ci potevo credere.

-e questo dove l’hai..?- cercai di dire.
-anche io studio qualche volta, sai- la tua risposta.

Abbassai lo sguardo, arrossii.
Sentimmo delle urla dal piano inferiore, qualcuno che annunciava gli “ultimi 60 secondi del 1958”
Alzai lo sguardo, e ti ritrovai vicino a me, il tuo naso appoggiato al mio, le tue mani ancora sui miei fianchi.
Quanto stavo implorando che tu ti avvicinassi ancora un po’, solo un millimetro, e sarei stata felice.
Ma tu, solito simpaticone, non eri  così principe come speravo.

-ehm, andiamo dagli altri?-

Ti avrei tirato un pugno in faccia.
Sospirai e annuii.
E fu così che capodanno, lo passai a maledirti.

Continuavo a chiedermi che cosa stesse succedendo, ci sentivamo da mesi e mesi, venivi spesso a trovarmi, mi tenevi la mano, cosa ti bloccava a dare una svolta al tutto?
Non ti piacevo abbastanza?
Non lo sapevo, ero confusa, ero triste, ero la ragazza più scema del mondo.
Mi si avvicinò un tipetto, si sedette vicino a me: capelli neri, rasati, occhi marroni, si chiamava Pjay, un nome più orribile non poteva esistere.

Semplicemente mi chiese –ti va di uscire?- e io, sciocca, accettai senza pensarci due volte, visto che tu, eri ancora impegnato a parlare con le ochette del quartiere.
Presi la giacca e mi avviai fuori con lui.
Era simpatico, Pjay.
Era un tipo socievole, chiacchierone, e aveva solo nove anni più di me, avrei potuto denunciarlo per pedofilia.

Ma lui, non aveva nulla di volgare, o di pericoloso, era un tipo a modo, convinto di alcune sue idee sull’ecologia e il rispetto per l’ambiente, era un tipo diverso, e io non capivo che ci facesse a quella festa in mezzo a tanti marmocchi.

-mi piace guardare le persone.- mi rispose.
-sai, come i poeti, che fissano i paesaggi o la donna amata, io fisso le persone, mi piace fantasticare su ognuno di loro, immaginarmi la loro vita, credere.. per esempio… che dietro a quel viso pieno di trucco, dietro ci sia una graziosa ragazza, colta, intelligente, interessante..-

Mi affascinava il suo modo di parlare.

-e quando hai visto me, che hai immaginato?- chiesi curiosa.
-mi sono avvicinato per questo, non riesco a immaginarmi nulla su di te, spiegami, sei un fantasma?- mi disse lui ridendo.

Risi anche io.

-sei una tipa misteriosa, e quelle poche volte che ti ho visto sta sera, eri sempre seduta su quelle scale-
-mi sentivo un po’ fuori luogo- mi giustificai.
-dai, a me puoi dirlo, per chi sei venuta? Il bel ragazzo moro, il padrone di casa, o l’amico biondo di Joliet?-

Sorrisi, abbassai lo sguardo.

-per il biondino di Joliet- confessai, e Pjay si batté le mani per aver indovinato.
-lo conosco anche io, il nostro caro James- mi rispose lui, cominciando a raccontare di averti conosciuto grazie a un’altra festa di compleanno di Stan.
-posso assicurarti che non ha mai portato nessuna con lui- e mi fece l’occhiolino, ma questo, non mi tirava su di morale.
-beh, buon per le altre, ha risparmiato loro la noia- sputai, seccata, arrabbiata con te e per il tuo essere così antipatico, così indifferente alla mia presenza, come se io non fossi nulla di importante, qualcosa da lasciare a marcire sulle scale.
-qualcuno è offeso a quanto pare-
-sei perspicace- e cominciai a giocare con il mio braccialetto.

Mentre Pjay si fumava un’altra sigaretta, cominciò a nevicare, e tu, finalmente, ti sei fatto vedere.
Non avevi neanche la giacca, eri uscito come in corsa, come se avessi perso qualcosa, e appena i nostri sguardi si incrociarono, ti precipitasti su di me, abbracciandomi.

-vuoi farmi venire un colpo Charlie?! Complimenti, missione compiuta! Avvisarmi che uscivi no??- mi rimproverasti, agitato come non mai, quasi arrabbiato, preoccupato per me.
-eri troppo preso dalle tette di quella lì- risposi io a tono, facendo ridere Pjay.
-e tu che ci fai qui con lei, Pjay?- ringhiasti tu, contro l’unica persona che mi era stata vicina.
-mi tiene compagnia- intervenni io.
-ho capito, vado dentro- concluse il mio unico “amico” per quella sera, che gettò la sigaretta, e senza spegnerla, si affrettò ad entrare, facendomi l’occhiolino.

Quando chiuse la porta, avrei tanto voluto ammazzarti.

-chi ti credi di essere tu?! Prima mi porti qui, mi abbandoni e ora l’unica persona che mi si avvicina la cacci via?!- urlai.
-non ti ho abbandonato!-
-come no! Sei stato tutta la sera con le oche del quartiere, non mi hai parlato neanche dieci minuti!-
-non posso stare solo con te, ci sono anche i miei amici.-
-e allora perché farmi perdere tempo?! Potevi lasciarmi a casa!-
-scusa se ho pensato a te!-
-ma dannazione a te James! Non vedo l’ora di andare a casa e non vederti più- risposi secca, ed entrai in casa, lasciandoti lì.

Tornai alla mansarda, l’unico posto in quella casa che poteva accogliermi, l’unico posto dove cominciai a piangere come una bambina, avevo 16 anni, e mi ero davvero illusa di contare qualcosa per te.

Piangevo perché mi ero pentita di quelle parole, piangevo perché avrei voluto vivere qualcosa di perfetto, quella notte, e invece, la verità era che di me, non ti importava niente.
Avevo solo fantasticato su qualcosa che non era possibile, e questo mi era costato caro.”

 

-hanno trovato un corpo! Un soldato! Un soldato! Dei nostri!!-

Delle urla interruppero la lettura di Billy, gli mancavano ancora poche righe da leggere, ma si concesse due minuti per vedere cosa stesse accadendo.
Vide arrivare un gruppo di cinque soldati, che portavano di peso un telo, sembrava pesante, stavano portando un cadavere.

-è Phillips! È il caporale! È il corpo del caporale!- urlava uno di loro.

Billy si alzò in piedi, di scatto, lasciò la lettera di Charlie sulla sedia, e corse verso di loro.

-il caporale?! Come può.. no non ci credo! Non può essere lui!- urlò, come preso dall’ansia.
-fammelo vedere!- urlava verso uno dei cinque soldati, ma loro non sembravano ascoltarlo.

Portarono il corpo dentro la base, lo appoggiarono su una barella, il medico avrebbe verificato la causa della morte: giravano strane voci su armi segrete e letali dei loro nemici, volevano saperne di più riguardo a ipotetici gas velenosi.
Tutti i soldati della base erano attorno a quell’uomo senza vita, tutti curiosi di guardarlo, Billy saltava come un pazzo per poterlo osservare meglio.
Sentiva i commenti generali.

-il caporale, che brutta fine-
-non se lo meritava-
-povero James-

E Billy si innervosiva sempre di più.

Con tutta la forza che aveva in corpo, si fece valere, e cominciò a spintonare qua e là, per poter guardare meglio, per vedere con i suoi occhi se quel corpo era davvero del caporale Phillips.
Gomitate, insulti, non lo sfioravano nemmeno.
Si ritrovò finalmente, faccia a faccia con quel cadavere.

I capelli biondi.

Il corpo grande, muscoloso.

La divisa da caporale.

Una collana che Billy conosceva troppo bene, d’argento, che il caporale teneva come porta fortuna.

Billy si sentì mancare.

Provò a guardargli il viso: ma era impossibile trovare qualche somiglianza con il genere umano, completamente sfigurato.
Il viso era segnato da tagli, da sangue, polvere rossa, quasi non si vedeva il contorno della bocca.
Ferite, graffi profondi, quello che dominava il viso di quel ragazzo morto, sotto gli occhi di Billy.

-come fate a dire che è il caporale?! È irriconoscibile questo viso!!- urlò Billy, mentre tremava, mentre tutti gli altri si guardavano, senza dare risposta.

Il medico arrivò, e portò via la barella con sé.

Billy lo seguiva, lo incitava a fermarsi, perché voleva guardare ancora, voleva capire chi fosse realmente quel soldato, voleva credere che fosse un altro.
Il medico non gli dava ascolto, entrò nel suo “ambulatorio” e gli chiese cortesemente di non entrare.

-io devo vederlo cazzo!!- urlò, esasperato.

Paul, che era ancora alla base, lo raggiunse, e cercò di trascinarlo via, senza successo.
Billy tirò un pugno al muro, e poi, si accasciò, la schiena appoggiata, le mani sul viso, le lacrime di disperazione che scendevano senza controllo.

James era morto.

James non sarebbe tornato a casa.

Il suo peggior incubo era appena iniziato.

Il corpo del caporale era stato trovato senza vita, ufficialmente.

Il viso sfigurato, altre ferite in tutto il corpo, ucciso brutalmente, e poi fatto trovare dal suo stesso esercito, come per mostrare la crudeltà dei loro nemici.
Billy non sapeva che fare, continuava a piangere, continuava a pensare a quel corpo, a Charlie, a quello che avrebbe dovuto dirle.
Imprecava contro il cielo, imprecava contro James, che non aveva mantenuto la promessa, che aveva deciso di abbandonare davvero sua moglie e sua figlia.
Sua figlia di cinque anni, che non l’aveva mai visto, sua figlia che gli assomigliava tanto, sua figlia che aveva tanto bisogno di lui.

I singhiozzi lo stavano uccidendo, non riusciva a smettere, nella sua mente l’immagine di James era ferma, costante, lo assillava.
Continuava a ripetersi che non era vero, che non poteva essere successo veramente.

-maledizione a te James! Come cazzo fai ad abbandonare una ragazza come Charlie?! Come cazzo hai potuto sposarla e poi lasciarla così?! Perché lo hai fatto James?! Perché?!- urlava, sotto lo sguardo di tutti, sotto gli occhi di Paul, che lo incitava a non urlare, a non mostrarsi così debole.

-è colpa di questa guerra di merda! Che porta via vite e basta! Ma chi cazzo l’ha inventata la guerra?! Chi ha inventato questo lavoro mortale?! Dimmelo Paul!- continuava il giovane.
Paul si inginocchiò vicino a lui, -prima o poi sarebbe successo- gli sussurrò.

E quelle parole, gli costarono un pugno sulla guancia.

Billy l’aveva colpito, con tutta la forza che aveva in quel momento, con tutta la rabbia e la tristezza che lo stavano distruggendo.
Paul cadde a terra, con un po’ di sangue sul lato della bocca, con gli occhi spaventati e il cuore che batteva forte.

Si portò una mano sulla ferita, -ma sei impazzito?!- gli chiese.

Billy lo fissò, incredulo di quello che aveva appena fatto.
Guardò la mano di Paul, che puliva il labbro appena sanguinante, e notò una cosa che non aveva mai visto: una rondine sulla sua mano.

-che cos’è quell’affare?- gli chiese, indicando il disegno, gli occhi spalancati.
Paul ci mise un po’ prima di rispondere –è un tatuaggio, qualche problema con i tatuaggi White?- chiese scocciato.

Sul viso di Billy, qualcosa cambiò.

Si alzò in piedi, e senza pensare a quello che avrebbe passato in seguito, aprì con violenza la porta dell’ambulatorio.
Il medico si spaventò al vederlo lì, e lo incitò ad uscire, perché stava per aprire il corpo di un uomo, e lui non doveva assistere.
Ma Billy, convinto delle sue idee, andò dritto dritto verso il cadavere del ragazzo, posto sulla barella, completamente nudo.

-le ho detto di uscire soldato!- urlava il medico, con il bisturi in mano.

Billy si avvicinò all’unica parte del corpo illesa, l’unica parte del corpo di quel ragazzo che non aveva segni di ustioni, ferite da taglio, né altro, era solo pelle umana.
Andò verso la caviglia sinistra di quel cadavere, e la guardò attentamente.

Pulita.

Nessun segno, nessun disegno, nulla, solo pelle.

Controllò bene, e per sicurezza, guardò anche la caviglia destra: ma su quelle caviglie non c’era nulla.

Sul viso di Billy si formò un sorriso.

Uscì dallo studio correndo come un pazzo.
Appena fu fuori, vide Paul, con un fazzoletto in mano, che si disinfettava la ferita.
Si lasciò scappare un urlo di gioia.

-Non è James!- e i suoi occhi si bagnarono di lacrime, di nuovo.

Si avvicinò a Paul, e lo abbracciò forte, lo sollevò da terra.

-non è James! Non è lui!- continuava a gridare, facendo giravolte su sé stesso con il postino tra le braccia.
-mettimi giù!!- gli urlava Paul, confuso.

Tutti i presenti, compreso il medico, che sentì le sue urla, si avvicinarono ai due.
-come fai ad esserne sicuro?- chiedeva uno.
-White che ci nascondi?- chiedeva un altro.
Billy lasciò andare Paul, e asciugandosi le lacrime con la mano, continuò a ripetere –non è il caporale-
Sorrise, e si stropicciò gli occhi, sotto lo sguardo curioso di tutti.

-il caporale ha un tatuaggio, su una caviglia, il cadavere ha le caviglie pulite- riuscì finalmente a dire.

Un soldato piuttosto robusto si fece avanti –e la collana che aveva al collo? Quella era di James, sono fin troppo sicuro-
Ma Billy, non si sentì sfiorato da quella prova.

-può essere che James gliel’abbia data, ma quel corpo non è di James, ho guardato, le caviglie sono illese, il suo tatuaggio l’ho visto, più di una volta, e se avesse voluto toglierlo, beh, sarebbero stati dolori. Invece quel morto, ha la pelle più perfetta di un bambino- concluse, guardando il medico, come se aspettasse un’ulteriore conferma.

Il diretto interessato non poté che dargli ragione –dal ginocchio in giù, potrebbe essere ancora vivo, nessun segno di percosse, o tagli, nulla- e quella frase bastò, a far urlare nuovamente Billy.

I soldati si avvicinarono al compagno, e lo abbracciarono, tutti insieme, tutti soldati semplici.
Un abbraccio puro, che univa quelle anime, così giovani, così sensibili, ingenui, che non capivano ancora perché si facesse la guerra, o perché bisognasse soffrire, o addirittura morire.
In quell’abbraccio Billy si sentì protetto, come se si trovasse tra le braccia dei suoi fratelli, come se fosse a casa, di nuovo, al sicuro, dove la sofferenza non era qualcosa di catastrofico e mostruoso, come lo era invece, quella guerra, fatta di armi micidiali, di veleni, di corrosivi, di torture, di paura, di ansia, fatta della stessa pasta degli incubi più oscuri, incubi che però, non se ne andavano accendendo la luce.


 
Billy corse fuori, verso i fogli che aveva abbandonato.
Doveva finire di leggere, e rispondere a Charlie, risponderle che il caporale la amava, risponderle in tempo, prima che Paul ripartisse.
Riprese a leggere.


“ Quel viaggio di ritorno verso casa mia, fu uno dei momenti più brutti di tutta la serata.
Il silenzio tombale, tra noi due, e io nascondevo i miei occhi gonfi e rossi.
Appena arrivati, scesi velocemente, ringraziando tuo cugino, e senza rivolgerti lo sguardo.
Ma tu.. avevi deciso di fare il principe, in quel momento.

Ti vidi scendere, e venire verso di me, dopo aver fatto cenno a tuo cugino di andare non so dove con la macchina.
Nevicava ancora.

Mi porgesti un pacchetto rosso, con il fiocco bianco, aveva un biglietto, datato il 23 dicembre 1958, giorno del mio compleanno, e con scritto < tanti auguri alla mia stella, a te, che ti vorrei sempre con me > e io mi morsi il labbro.

Non ti eri dimenticato del mio compleanno, non ti eri dimenticato di me, quella notte, ma io, stupida, non l’avevo capito.
Aprii quel piccolo dono, e spalancai gli occhi quando la vidi: una collana.
Una collana d’oro, con un ciondolo con in mezzo un brillante, ero senza parole.

-girala- mi dicesti tu, e dietro, c’erano incise una “C” e una “J”.

Non sapevo cosa dire, mi sentii solo tanto stupida, stupida a non averti creduto, stupida per il mio comportamento da bambina immatura.
Ma tutte queste parole, tutti questi tentativi di chiederti scusa, furono bloccati dalle tue labbra sulle mie.

Stavo aspettando quel bacio da mesi, me l’ero sognato e pianificato in tutti i modi possibili, ma mai lo avrei immaginato così, sotto la neve, dopo una nottata passata ad odiarti e a maledirti.

Sentivo le tue mani sul mio viso, io ero come paralizzata, come se in quel momento non sentissi più nulla, se non le tue labbra fredde sulle mie, mi sentivo bene, mi sentivo felice, su una nuvola, da sola, con te.
Quando ti allontanasti riuscii a dire solo –wow- e tu scoppiasti a ridere.

Che persona sciocca, ma cosa potevo dirti? Mi avevi colto alla sprovvista, nel momento meno aspettato della serata, ma come dici tu: con me, non volevi nulla di simile a un cliché; beh, quella notte ci sei riuscito in pieno.

Ricordo le tue parole, che mi fecero rabbrividire -L’eternità era nelle nostre labbra e occhi- di nuovo Shakespeare.

Poi ancora -Perdonami, perdonami di amarti e di avertelo lasciato capire, mia Charlie- e io stavo per svenire lì.

-Eravamo insieme. Tutto il resto del tempo l’ho scordato.- riuscii a dire io, citando un altro poeta che io amo.

-Perché l’amavo? Perché era lei; perché ero io.- continuasti tu, e io arrossivo sempre di più.

Ti avvicinasti alle mie labbra, e quasi sussurrando in queste, mi confessasti -Non oso chiederti un bacio, non oso mendicare un sorriso, per timore che, ottenendo l’uno e l’altro, io possa diventare superbo. Ma, sperando che il cielo mi perdoni, vorrei richiederteli-

Sorrisi spontanea, e come presa da un’attrazione fin troppo violenta per la tua bocca, ti baciai di nuovo.
Quanto amavo, e amo le tue labbra, James.
E non sai.. quanto mi mancano.

Ci credi che sto piangendo? La verità è che.. voglio che questa distanza svanisca, amore mio, io.. non lo so James, ma ho bisogno di te.
Ho bisogno di te come quella notte, ho bisogno di stringerti, ho bisogno di sentirti mio, ho bisogno del tuo calore, del tuo affetto, ho bisogno di mio marito.
So che queste sono solo le pretese di una scema, che non capisce che tu non stai giocando, ma non posso tenermele dentro per sempre James.

Io ho bisogno di te, e oggi, volevo scrivertelo, ho bisogno di te, perché io ho paura, ho paura che ti possa succedere qualcosa, ho paura che tu sparisca senza che io me ne accorga, voglio averti con me James, lo voglio davvero tanto.
Non.. non riesco più a scrivere, James.
Scusami.
A presto amore mio,

Charlie”

 
Billy si concesse un minuto per riflettere.
Non poteva lasciarle una risposta breve come quella dell’ultima volta, ci voleva qualcosa di più rassicurante.
Ma cosa?
Che dire a quella ragazza?
Come rassicurarla al meglio?
Come difenderla da quella paura con quella distanza tra loro?
Cominciò a pensare, e un’immagine si fece spazio nei suoi ricordi.
Sorrise.
Cominciò a scrivere.


Note di Nanek:
e cosa scrisse il nostro giovane e tenero Billy? beh, lo scoprirete la prossima volta ;)
che dire care lettrici, nulla , come sempre... non so che dirvi..
se non GRAZIE.
sono una logorroica e ripetitiva.
ma non mi stancherò mai di ripeterlo.
grazie alle mie adorabili Tommo's girl e Malika taxi <3 che amo loro e le loro recensioni <3
ma amo anche tutte le altre lettrici, che mi fanno felice con le loro visite :)
per chi fosse curioso, il tatuaggio di Paul è questo qui:Image and video hosting by TinyPic
e quello di James? ;) curiose eh? ;) lo metterò la prossima volta <3
a presto!
Nanek

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Capitolo 5
*** Look after you ***


Capitolo 5

Look after you

 

25 settembre 1972

Seduto con la sua macchina da scrivere, il giovane White rispondeva a Charlie.

“Cara Charlie,
leggere la tua ultima lettera è stato orribile, dico davvero; ovvio, non per quanto riguarda il contenuto iniziale, quello è stato un piacere leggerlo, credo di essermi pure incantato più volte, e di aver riletto più di una volta alcune frasi perché perdevo il filo del discorso, tu e il tuo modo di scrivere.. così unico, così bello, mi manca leggere i tuoi articoli, sono piacevoli agli occhi, scorrono così bene, la tua scrittura così fluida, la tua calligrafia così adorabile: gonfia, ordinata, rotondeggiante, mi immagino la tua mano che scrive a raffica, il tuo viso concentrato al cento per cento, quell’espressione seria, che amo fissare, che compare sul tuo viso quando scrivi, non sai quanto mi manchi quell’espressione.

La tua ultima lettera è stata orribile per la parte finale.

Manchi anche a me Charlie, e non vergognarti di ripetermi che mi vorresti lì, al tuo fianco, ti prego: io ho bisogno di sentirmi cercato da te, io ho bisogno di sapere che c’è qualcuno, dall’altra parte dell’oceano, che mi sta aspettando, non vergognarti, non temere di sembrare un’egoista solo perché mi vuoi con te, per il semplice fatto che.. io voglio tornare.

Voglio tornare, e voglio trovarti lì, voglio tornare e poter stringerti a me, Charlie, voglio sentire sul mio petto il tuo viso, voglio sentire le tue mani che si intrecciano alla mia schiena, voglio inebriarmi del tuo profumo.
Non so che parole usare per dirti che mi manchi, che vorrei stringerti forte, d’altronde, sono bravo solo a fare la guerra, non a scrivere, a quanto pare.

Userò un ricordo, sperando di tirarti su, un ricordo che conservo nella mente, insieme a tutti gli altri, ma che oggi, mi è passato davanti agli occhi, quando ho visto un tatuaggio sulla mano di un mio compagno.
Ricordi quel giorno? Quel lontano 14 agosto 1959, a Joliet, stavamo insieme da otto mesi quasi, e avevamo deciso di fare quella cosa.

-sei sicura di volerlo? Non è che dopo ti penti, e i tuoi mi uccidono?- ti chiesi io, mentre camminavamo lungo la strada, mano nella mano.
-smettila James, lo voglio, non mi tiro indietro, o hai paura tu?- mi rispondesti tu, con il tuo solito fare da simpaticona.
Ti strinsi più vicino a me, non capivo perché lo stessimo per fare, ma l’idea ci era balzata in mente, e da quel giorno, avevamo deciso di farla diventare reale.

Entrammo in quel negozio, io davvero impaurito come non mai, avevo appena 17 anni, tu ancora 16, non era troppo legale come cosa, ma eravamo ostinati a farlo, ad ogni costo: avevamo pure l’autorizzazione dei genitori, chi si tirava indietro?
Entrammo in quel negozio, e ci accolse Dan: il tatuatore.

Un vecchietto, niente tatuaggi visibili, solo uno, piccolo, e semplice, sul collo, una scritta in arabo, che ancora oggi mi chiedo che volesse dire.

-e voi che volete, piccoletti?- ci chiese, scherzando.
-un tatuaggio!- rispondesti tu, con la tenacia di una donna vissuta, che stava richiedendo la cosa più semplice del mondo.
-un tatuaggio? Che tipo di tatuaggio? Una stellina?- ti derise lui.
-voglio un dragone su tutta la schiena, o un teschio, faccia lei- rispondesti di nuovo a tono, facendogli spalancare gli occhi, e facendomi ridere come uno scemo.

Intervenni, notando l’aria fin troppo sorpresa del vecchietto.

-scherza, è un clown nato questa ragazza- risi –vorremmo un tatuaggio piccolo, abbiamo già le carte firmate dai genitori- e gliele porsi.

Il viso di Dan si rilassò, e riprese un po’ di colorito.

-ma siete sicuri?- chiese, leggendo l’autorizzazione –un tatuaggio è per sempre- concluse con questa frase saggia.
-anche io e lui siamo per sempre- rispondesti tu, di nuovo.
Lui rise di gusto –quanti anni avete?-
-17 lui, io ancora 16, 17 a dicembre-
-e tu credi di durare per sempre? Bambina- continuava a istigarti, e se non ti stessi tenendo la mano, l’avresti sicuramente ucciso sferrando un tuo pugno.
-ci vediamo al nostro matrimonio allora- ringhiasti tu.

Mi viene da ridere amore mio, perché effettivamente, lui è venuto alla nostra cerimonia.

-tipa decisa ragazzo, auguri- mi disse, io mi limitai a sorriderti, stringerti più a me, e rispondere –che ci posso fare? È fatta come vorrei io- e ti lasciai un bacio sulla testa.

Ci fece cenno di entrare nella saletta.
Ci porse il “catalogo” con tatuaggi di tutti i tipi.
Cuori, draghi, scritte, stelle, quadrifogli, lettere scritte in tutti i caratteri possibili e immaginabili.
Io sapevo già cosa tatuarmi: quel tatuaggio l’avevo pensato molte volte, sapevo che era quello che volevo, per sempre, sulla mia pelle.
Mi guardasti, come in cerca di aiuto, confusa, insicura.

-chi comincia?- ci chiese Dan, e io alzai la mano.
Mi fece accomodare sul lettino, misi ben in vista la caviglia.
Indicai con l’indice il punto esatto.

-lo vorrei qui- annunciai determinato.
-che ti disegno?- mi chiese.
-vorrei una “C”, con il carattere più carino, tipo corsivo, con attorno delle rondini, e delle stelle ad asterisco- alzai gli occhi al cielo, era troppo difficile da spiegare, cercai nella tasca dei pantaloni, e appena trovai il foglio bianco glielo porsi.
Avevo disegnato per bene il mio tatuaggio.

Dan lo guardò attentamente –hai idee chiare insomma- mi disse, e cominciò la procedura.
Tu rimanevi immobile, a fissarmi, gli occhi spalancati, guardavi me, e guardavi il tatuatore, e la vista di qualche goccia di sangue ti faceva sbiancare ancora di più.
Io ti guardavo, e sorridevo, piccola mia.
Dopo una decina di minuti, il mio tatuaggio era fatto: era piccolo e semplice, non ci voleva troppo tempo.
Lo guardai, prima che me lo coprisse, ero soddisfatto.

Fu il tuo turno, tremavi.
Distesa, incerta.

-tu invece cosa vuoi? E dove lo vuoi?- ti chiese, e indicasti anche tu la caviglia.
La tua voce tremava, mentre gli dicevi –vorrei una “J”, con accanto il simbolo, in piccolo, dell’infinito, e una chiave, piccola-
Dan annuì e cominciò a preparare il tutto.
-pronta?- ti chiese, e tu rispondesti con un lieve cenno del capo.
Mi avvicinai una sedia, e ti presi la mano, incredibilmente ghiacciata, tremante, avevi paura, paura del dolore.

-Charlie- ti chiamai, quando Dan appoggiò l’ago sulla tua pelle.
-guardami, parlami- ti incitavo, e sentivo la tua presa stritolarmi la mano.
-dimmi, perché l’infinito e la chiave?- domandai curioso.

Ti guardavo, mentre deglutivi e cominciavi la tua spiegazione.

-perché solo tu hai trovato la chiave giusta per fare colpo su di me- stringevi la mia mano, spiavi con la coda dell’occhio.
-non guardare Charlie, guarda me- ti incitai –va avanti su-
-l’infinito perché, perché mi da un senso di eterno.- e i tuoi occhi si alzarono al cielo per il dolore.
-tu Jamie? Perché la rondine? Perché le stelle?- mi domandasti.
-perché.. la stella è il simbolo che ti ho dedicato- tu sorridesti –la rondine perché.. la rondine emigra ovunque, ma tornerà sempre a casa- conclusi.
-te ne vai?- mi domandasti tu, impaurita –dove vai? Perché ci vai? James?- continuavi a riempirmi di domande.
-l’anno prossimo ho il servizio militare amore, hai presente?-
-ah sì.. vabbè ma mica vai in guerra!- ti calmasti, rilassando i muscoli.

-ad ogni modo, il mio tatuaggio è il mio giuramento: per quanto lontano io possa andare, io torno Charlie, io torno da te, sempre, in qualsiasi situazione- arrossii –te lo giuro- e mi avvicinai alle tue labbra.

-sei un folle Phillips- annunciasti tu.
-e tu ancora più folle a stare con me, Charlie-
I tuoi occhi si chiudevano, ancora dolore.
-Charlie?- ti richiamai.
Apristi un occhio, mi guardasti.
-dimmi- riuscisti a sussurrare.

-ti amo- confessai, appoggiando la mia fronte sulla tua, baciandoti il naso.
Vidi il tuo viso farsi sempre più rosso.
-ti amo anche io, folle- mi sussurrasti sulle labbra, a voce bassissima, per timore che Dan ti sentisse.


 
Dopo dieci minuti, anche il tuo tatuaggio era fatto.
-hai ancora male?- ti chiesi, mentre camminavamo verso casa mia.
-no, è passato un po’. Però, mi porti in groppa?- la solita pigrona.
Ti feci salire sulla schiena, e ripresi a camminare, tenendoti le gambe.

-James?-
-dimmi pigra-
-ma siamo soli sta sera?-
-sì Charlie, te l’ho ripetuto cento volte ormai, che hai? Paura di conoscere i miei? Quando ci sposiamo devono conoscerti sai- ti annunciai io, ridendo.
-sì, ma.. magari me li presenti a Natale-
-hai paura?- ti presi in giro.
-oh non sai quanta- rispondesti tu, facendomi ridere.




 
-casa tua diventa sempre più grande ogni volta che ci vengo, Jamie- esclamasti, alla vista del nuovo acquisto di famiglia Phillips: piscina in giardino, con tanto di trampolino, fatta da mio padre, un autentico gioiello, l’ideale per l’estate calda.
-voglio buttarmi dentro!- esclamasti, come una bambina piccola.
-magari dopo, con il buio, così vedi anche le luci che hanno messo, sono belle- ti annunciai io, ancora più entusiasta di te.

Dire che mangiasti più veloce di un affamato è dire poco: bambina impaziente che sei, Charlie.
Ricordo la tua fretta, avevi preparato la tavola, avevi preparato la cena, non mi degnavi di uno sguardo, mangiasti come un lupo, e lavasti tutti i piatti, pure quelli che non avevamo sporcato noi.
Alle dieci in punto, con il buio perfetto, cominciasti a saltare.

-dai Jamie! Dai che è buio!! Oddio che bello!!-
-sta calma canguro, è solo una piscina!- ti calmai io, invano.
-tu hai un costume da prestarmi?- mi domandasti.
-certo, perché io sono donna e vado in giro con il costume intero- ironizzai.
-se vuoi ti do quello di mia mamma- e tu mi guardasti con faccia sconvolta.
-ma sei pazzo?! Assolutamente no!-
-allora niente piscina, bimba- annunciai, soddisfatto: finalmente potevamo starcene sul divano a coccolarci un po’.

Illuso che ero.

-non posso entrare in intimo e con una tua maglia sopra?- e ti guardai con gli occhi spalancati: te le sognavi di notte queste soluzioni?
-Charlie..- riuscii a dire, ma tu, eri, e sei, un’autentica rompi palle quando ti ci metti.
-dai Jamie, amore mio- continuavi a canzonarmi, con gli occhi da cucciolo tenero e adorabile a cui non si può dire no, poi quando mi chiamavi così, “Jamie”, eri, e sei, così tenera.

Ti accontentai, e ti prestai una mia maglia: ti faceva da vestito.
Andammo fuori, tu tutta emozionata, ti togliesti le ciabatte, e ti lanciasti a bomba nella piscina.
Quando tornasti in superficie urlasti –dai buttati si sta benissimo!- e io , mi sedetti sul bordo vasca, con solo le gambe a mollo.
-non ho voglia di mettermi in costume, mi limito a guardarti- ti risposi, ma a te, non si può mai dire di “no”.

Cominciasti a schizzarmi con l’acqua, e mi ritrovai fradicio nell’arco di 10 secondi.

-sai cara Charlie? Ora tu morirai- ti minacciai, togliendomi la maglia e i pantaloni, e lanciandomi verso di te.
Tu ridevi, come una pazza, e cercavi di nuotare lontana, ma la piscina non era così enorme, e riuscii a bloccarti, al bordo.
-e ora che fai?- ti chiesi, in tono minaccioso.
-imploro pietà!- rispondesti, ridendo.
-non mi basta, mi hai bagnato contro la mia volontà, devi pagare caro- dissi in tono malizioso.
-oddio! Jamie!- urlasti, e io non capii.
-il tatuaggio! Ma possiamo stare in acqua?!- cominciasti a chiedermi.
-boh, ma ormai, siamo qua- e mi avvicinai di più.
-e se ci viene un’infezione?! accidenti! Usciamo, muoviti!- rispondesti, uscendo più veloce della luce.

Sbuffai, e ti seguii.

Rientrammo in casa per controllare: non avevamo nulla, eravamo stati poco in acqua, ma ovviamente tu sei miss allarmismo a mille e ti eri agitata come non mai.
Ci asciugammo, e li coprimmo per bene con una garza pulita.
-tranquilla Charlie, non moriremo, o al massimo moriremo insieme- scherzai.

Tu ridevi, mentre ti facevi una coda con i capelli bagnati, con la mia maglietta attillata sul tuo corpo bagnato.
Tornammo fuori, per goderci l’aria calda, e le stelle, ci sedemmo in mezzo al mio guardino, su un asciugamano, eri seduta tra le mie gambe, la tua schiena appoggiata al mio petto.
Ti sciolsi la coda –ti faccio una treccia, se permetti- amavo giocare con i tuoi capelli lunghi, amavo farti le trecce, amavo avere così tanto contatto con te.
Intrecciavo i tuoi capelli bagnati, il loro profumo di cocco c’era ancora, nonostante il cloro.
Una volta terminata, la feci scendere lungo il tuo petto, di lato, per lasciare scoperto il tuo collo, al quale mi avvicinai con le labbra.

-quanto siamo vogliosi, Phillips- mi rimproverasti tu, ridendo, prendendomi in giro: perché era così difficile credere che tu fossi così eccitante per me?
-quanto siamo santarelline, Charlie- ti presi in giro, sapevo bene com’eri fatta, e la santarellina era un ruolo che ti piaceva recitare per farmi sentire un maniaco.

Ti girasti, e mi lasciasti un bacio, con una foga fin troppo strana, ti avevo offesa? Eccome, sapevo come farti sentire in imbarazzo.
Mi distesi, con te sul mio petto, che continuavi a baciarmi, passavi dalla bocca al mio collo, al mio petto scoperto, provocandomi brividi ovunque.
Poi però, ti fermasti.
Ti sollevasti dal mio petto, e cominciasti a fissare il cielo.

-sì sono una santarellina- ti sentii confessare.

Io mi lasciai scappare un sorriso, tu e la tua vergogna, aveva un non so che di tenero.
Ti trascinai nuovamente verso di me, invertendo le posizioni: io sopra di te, come per proteggerti.

-qualcuno si vergogna?- chiesi, conoscendo già la risposta.
-ovvio, mi vergogno di non riuscire a realizzare tutti quei pensierini che mi faccio su di te- confessasti, non rendendoti conto che il tuo imbarazzo ti avesse tradito: avevi un’espressione ben poco scherzosa, che faceva ben capire che quei “pensierini” te li facevi davvero: la mia santarellina.
Sorrisi al pensiero, visto che io me n’ero fatto uno esattamente cinque minuti prima.

-non essere timida, dolce Charlie, qui, ci siamo solo noi- cercai di rassicurarti.
-sì, nel giardino di casa tua, con i vicini spioni- e mi indicasti la luce accesa della casa accanto.

Sospirai, mi avevi istigato troppo, per tutta la serata, per tutti quei mesi, non riuscivo più a trattenermi: ti volevo, avevo bisogno di sentirti mia, almeno una volta, non sapevo perché, ma forse, era solo per via degli ormoni adolescenziali.
Avevo 17 anni, e avevo una ragazza stupenda davanti a me, era, ed è, mia: perché non desiderarti? Ti desideravo eccome, ma tu sembravi non crederci.
Come ogni ragazza: ti sentivi troppo poco, le gambe troppo poco magre, perché troppo muscolose per via dello sport, le spalle troppo larghe, il seno troppo piccolo, troppo “imbarazzante”, e una serie infiniti di difetti che solo tu vedevi.
Cosa vedevo io? Io vedevo te , Charlie, vedevo te, nella tua perfezione, nel tuo sorriso, nei tuoi occhi grandi e verdi, vedevo te, solo te, e non sapevo che fare per fartelo capire.

Ti amavo, ti volevo, perché non volevi convincertene? Mi ero fatto tatuare la tua lettera, un tatuaggio, di quelli indelebili, ho tatuato la mia pelle di te, così ti potevo avere sempre addosso, io volevo, e voglio tutt’ora, solo te.
E quella sera, ero fin troppo ostinato a dimostrartelo, anche nell’ultimo dei modi.
Ripresi a baciarti, nonostante le tue lamentele.

-lasciati andare, Charlie, non farti problemi degli altri, ti prego, preoccupati di me, solo di me, per una volta- e ti sentii irrigidire, come se avessi toccato un tasto dolente.
Ti sentivi in colpa vero? Per la prima volta sì.
Con quelle parole, ti avevo come svegliata: ti preoccupavi troppo del giudizio altrui, lasciandomi sempre in disparte, se così si può dire.

Cominciasti a scusarti, a raffica, come presa dal panico, e io ridevo: che ci potevo fare? Come potevo prendermela con te?
All’ennesimo “scusa”, ti baciai, come per zittirti.
Ci ero riuscito, per la prima volta in otto mesi: ero riuscito a zittirti.
Mi staccai, solo per essere certo di non fare una cosa per il mio interesse, dovevi lasciarti andare, ma non contro la tua volontà: maledizione a me e al mio interesse per te.

-ma se proprio non vuoi, non ti sforzerò- riuscii a dire, pregando che tu non ti tirassi indietro.
Mi avvicinasti alla tua bocca –ti voglio Jamie- sussurrasti, e i miei muscoli si rilassarono un po’, più calmi, più sicuri del fatto che non lo stavi facendo contro la tua volontà.
Sospirai, sollievo puro, e tu ridesti –okay santarellina, ma insomma, perché non sfruttarti?- rispondesti con tono malizioso.
Risi anche io, eri incredibile.

Cominciai a baciarti, privandoti di quei pochi indumenti che indossavi, e tu facevi lo stesso con me, cercando di non restare mai ferma, cercando sempre un contatto con me, cercando di non apparire troppo timida e inesperta.
Ti sentivo nervosa, ti sentivo dubitare di quello che facevi.

-Charlie..- ti chiamai, mentre mi baciavi il collo.
-stai tranquilla, non devi dimostrare nulla a nessuno, siamo io e te- ti rassicurai, accarezzandoti la guancia, ti sentii deglutire.
-hai paura?- ti sussurrai, prendendoti la mano.

Ti vidi annuire.

Piccola Charlie, come si fa a non amarti?
Ti avvolsi in un abbraccio, cercando di rassicurarti in qualche modo, la mia Charlie.
Mi chiedo ancora oggi con che coraggio riuscii ad andare avanti, perché per quanto può sembrare strano, avevo troppa paura di ferirti.
Non riuscivo a vedere bene i tuoi occhi, al buio, ma sentivo le tue mani, le sentivo tremare, le sentivo stringere le mie braccia per il dolore, non sapevo che fare, non sapevo come alleviare quella sofferenza che io stesso ti stavo provocando.
Ma poi, qualcosa cambiò, naturalmente, e la tua stretta si alleviò, solo in quel momento presi il coraggio necessario per continuare.

Ti lasciavi sfuggire gemiti, poco udibili, la tua vergogna era alle stelle: se ci vedevano i vicini!

Sorrisi a te, alla mia timida Charlie, che finalmente, dopo otto mesi, aveva deciso di essere mia, completamente, uniti, solo noi due.
Perché ti sto parlando di quella notte Charlie?
Lo vuoi sapere?

Perché credo di non esser mai stato così unito a te come in quel momento, perché in quel momento, sapevo che ti stavo dando me stesso, e ti stavo proteggendo, non ti stavo lasciando sola.
Non ti avevo lasciato sola dal tatuatore, non ti avevo lasciato sola in quel momento, cercavo in tutti i modi di farti sentire che io c’ero, con i miei respiri, con le mie labbra, con le mie carezze.
Io c’ero Charlie, ma ci sono anche adesso: sono lontano Charlie, ma io sono come la rondine che ho tatuato sulla gamba, io torno Charlie, io torno per te, sempre, e torno per nostra figlia, che mi manca quanto te.
Non piangere Charlie, non piangere, io ci sono, sempre; guarda dalla finestra quando è buio, lo stesso cielo che vedi tu, è quello che è sopra i miei occhi quando sono di guardia.

Non essere triste Charlie, io torno, te l’ho giurato a 17 anni, e il mio giuramento è indelebile, come il mio tatuaggio.
Ti amo Charlie, e mi manchi da morire.
Sempre tuo,

Jamie”

-come procede White?- chiese una voce alle sue spalle.
Billy sospirò.
-non lo so Paul, ho paura di esagerare troppo ad esser sincero- confessò il giovane, passandogli, per la prima volta, la lettera che aveva scritto.
-ho davvero bisogno di un parere, il caporale queste cose me le raccontava, ma chi mi assicura che avrebbe davvero risposto così a sua moglie in lacrime?- continuò a lamentarsi Billy, mentre l’amico cominciava a leggere le sue parole.


 
-sei bravo a scrivere, White- annunciò Paul, una volta terminata la lettura.
-non sto scherzando, ma.. se io fossi lei, mi calmerei un po’, mai pensato di fare lo scrittore?- continuò.
-come no, e dopo che mangio? La carta? Dici che devo inviargliela, piuttosto?- chiese titubante.

Paul annuì, porgendogli il foglio.

-non è troppo dolce?- chiese di nuovo il giovane soldato.
-credo che.. una donna, sola, con una figlia, e un marito in guerra, dove rischia di morire ogni secondo, abbia bisogno di qualcosa di dolce, nessuno potrà mai capire cosa scorre nella mente di una moglie di un soldato in guerra, ma posso assicurarti che.. è doloroso- concluse Paul, che abbassò lo sguardo.
Billy lo guardò strano.
-dici?- gli chiese.
-non è facile vivere guardando il telegiornale, viviamo cose orribili, soldato, e l’hai visto tu stesso oggi, con quel cadavere- sospirò.

Billy si limitò ad annuire.

-sai una cosa Paul?- lasciò la frase in sospeso –ho deciso che andrò a cercarlo- annunciò, facendo spalancare gli occhi al postino.
-dove?! Sei impazzito?! Vuoi essere il bersaglio perfetto?!-
-starò attento- riprese Billy –ma devo, lui è lì fuori, ha bisogno di aiuto- concluse White, alzandosi in piedi, dopo aver chiuso la busta per Charlie ed averla messa nella borsa di Paul.

Quest’ultimo, lo abbracciò.

-avanti Paul, torno! Devo sempre rispondere a Charlie, no?- esclamò Billy, accarezzandogli la schiena.
Lo sentì sussurrare –fa attenzione, soldato.-
 

 

Note di Nanek:
che capitolo lettrici, devo essere sincera? È orribile, lo so, e mi dispiace.
Troppo caria denti questo capitolo, lo ammetto, e mi dispiace davvero, ma.. non lo so; devo essere sincera, è troppo mieloso, ma, lo volevo esattamente così.
Esagero, abbondo con lo zucchero, ma, c’è un motivo, e quel motivo lo dice il mio caro Paul, che amo semplicemente :D il mio caro postino saggio :D credo che, sì, lui sia portavoce delle mie idee qui in questo racconto, credo davvero che nella testa di una donna sola, scorrano pensieri di ogni tipo, (magari questa cosa potrei approfondirla in un capitolo? ;) ) pensieri dolorosi, pensieri tristi, ansiosi, la paura di perdere chi ami, paura di perderlo in guerra, credo sia davvero doloroso, e credo che la medicina migliore, sia scrivere cose di questo tipo: forse non funzionerebbe lo stesso, chi può saperlo? Charlie è un personaggio davvero sofferente: una ragazza così solare, sveglia, divertente, ma che, come ogni donna, soffre, ha bisogno di attenzioni, ha bisogno di sentirsi amata e protetta dall’unica persona che ama, il nostro caro James, che chissà dov’è sparito!! Il nostro Billy partirà a cercarlo! Riuscirà a trovarlo? Chi lo sa! Leggendo lo scopriremo magari ;)
Grazie per le visite, grazie per le recensioni, grazie mille a tutte voi, non vi ringrazierò mai troppo ;)
Alla prossima =)
Ps: per chi fosse curiosa, ecco le foto dei tatoos ;)





Image and video hosting by TinyPic il tatuaggio di James con la "C" della piccola Charlie, rondini e stelline.






Image and video hosting by TinyPic il tatuaggio di Charlie con la "J" di James, il suo infinito e la chiave ;)





Nanek

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Capitolo 6
*** A little bit longer ***


Capitolo 6

A little bit longer, and I’ll be fine





9 agosto 1973




Dall’ultima lettera inviata a Charlie, passarono più di undici mesi.

Quasi un anno, dall’ultima volta che Billy vide arrivare Paul, a consegnare la posta.
L’ultima volta che il postino era arrivato, era Settembre del 1972.
Da quel giorno, Billy non l’aveva più visto.
In quei mesi, Billy White ebbe molte cose da fare, e quasi ringraziò il cielo di non doversi preoccupare di Charlie: aveva una guerra da continuare, aveva la sua vita da salvare, ma soprattutto, aveva James da trovare.

Aveva cominciato le sue ricerche, tenendo all’oscuro i compagni, o il suo stesso Generale, scappava di nascosto, si assentava, e cominciava a cercare in lungo e in largo.
Usciva di notte, quando in realtà gli toccava il turno di guardia, usciva e se ne fregava di tutti: rischiava di mettere in pericolo gli altri, di non riuscire ad avvisarli del pericolo imminente, ma quello non lo fermò, e lui continuò per la sua strada, sfidando il destino, sfidando la sorte, ogni giorno, ogni notte.
Durante le ispezioni del territorio, usava la solita scusa per allontanarsi: -vado io a controllare di là, non è necessario far muovere troppe persone, se non torno entro tre ore, date l’allarme- quella era la sua frase di routine, e dopo un cenno del capo da parte di un suo superiore, partiva nella sua ricerca clandestina.

Cercava ovunque, l’arma ben salda in caso di strani brusii, gli occhi ben aperti, la mente concentrata su un unico pensiero: James.
Lo cercava tra gli uomini di qualche villaggio che incrociava, lo cercava vicino alle fonti d’acqua, lo cercava tra i cespugli, ma di James non c’era traccia.
Trovava soldati morti, senza una tomba, abbandonati per terra, e quando notava che le loro divise portavano il suo stesso simbolo, sbiancava: pregava il cielo che non fosse lui, pregava ogni volta che si avvicinava a un cadavere, gli guardava il volto, o gli controllava la caviglia, ma di James non c’era traccia, neanche tra quei corpi.
Tornava alla base più sconsolato, ma anche sollevato: non trovare il corpo senza vita di James era sempre da considerare una fortuna.

Quel pomeriggio di Agosto, se  ne stava disteso sul letto.

Sarebbe partito, non appena l’altra squadra fosse tornata, doveva aspettare solo una mezz’oretta per poi ritornare a cercare James.
La porta della sua camerata si spalancò di colpo.
-White!!!- urlò un ragazzo dai capelli rossi: la solita borsa enorme, piena di posta, la solita divisa, il solito viso magro, il solito Paul.
Billy si alzò in piedi, corse ad abbracciarlo, sorpreso di vederlo, dopo quasi un anno.

-Paul! Mio Dio quanto mi sei mancato! Ma sei ancora vivo o questo sei tu in versione fantasma? Oddio Paul da quanto! Ma sei ancora più magro?- esclamò Billy, mentre continuava a stringerlo tra le sue braccia.
-taci soldato, tu non hai idea di cosa ho passato, ho rischiato di morire circa venti volte al secondo- affermò Paul, ricambiando quell’abbraccio con più decisione.

Billy lo guardò negli occhi, con sguardo interrogativo, e Paul, cominciò a raccontare, di getto, quello che era successo in quegli ultimi mesi.
Parlava di bombe, di aerei caduti, di lettere bruciate, di assalti, di massacri, di morti, parlava della sua paura, parlava del pericolo sempre pronto a tormentare gli animi, anche durante la notte, senza tregua, senza un attimo di respiro.

-sembra che i nostri nemici siano alieni. Cazzo ma loro non dormono mai?!- sbottò Paul, con gli occhi spalancati, le iridi che sembravano tremare, le mani che non riuscivano a stare ferme.

Billy lo lasciava parlare, Paul non si fermava un secondo, quell’impulso, quella voglia di togliersi quel peso, quel racconto, dal petto era troppo forte.
Le lacrime poi, presero il sopravvento.
Paul cominciò a piangere, un pianto isterico, un pianto strano, come se fosse solo l’ennesimo da contare, un pianto che gli faceva sobbalzare con troppa violenza il petto, che sembrava indebolirlo sempre di più.
Poi, la confessione.

-è morto!- quasi urlò, soffocato da un singhiozzo, che lo fece accasciare al pavimento.

Billy si mise davanti a lui, confuso, disorientato; lo riprese in un abbraccio, facendogli appoggiare la testa alla sua spalla, e accarezzandogliela con il palmo della mano.
-non piangere Paul, ti prego- gli sussurrava, mentre l’amico continuava a emettere strani suoni, e a bisbigliare parole incomprensibili.
-Andrew.. il mio Andrew..- singhiozzava Paul, quando si ritrovò senza più fiato e senza più forze.

Solo in quel momento Billy capì.
Andrew Martin, 26 anni, amico d’infanzia di Paul, o forse: qualcosa di più di una semplice amicizia.
Capelli corvini, occhi color caramello, lentiggini sulle gote, lavorava con Paul, era anche lui un postino della guerra.

-lo hanno.. lo hanno torturato prima di farlo morire- continuò a raccontare Paul –lo hanno legato, lo hanno ferito, lo hanno fatto sotto i miei occhi- un singhiozzo lo bloccò, nuove lacrime avevano rigato le sue guance.
-ma chi sono queste persone? Come possono essere uomini coloro che torturano un ragazzo come Andrew?!- urlò, stringendo la maglietta di Billy.
Il soldato rimaneva in silenzio.
-il mio Andrew, il mio Andrew, dovevo esserci io al suo posto!- continuava Paul –io gli volevo bene, lui non meritava, lui non meritava di morire!- concluse infine, quando un colpo di tosse lo bloccò definitivamente.
Billy lo strinse ancora più a sé, dopo avergli offerto un bicchiere d’acqua, che Paul sorseggiò appena e a fatica.

-mi dispiace tanto, Paul, davvero- gli sussurrò, guardandolo, mentre si puliva le ultime lacrime con il palmo della mano e tirava su con il naso.
-so quanto ci tenevi a lui, so quanto eravate amici, non so cosa dire, davvero- continuava il giovane, senza parole di fronte al suo compagno, stravolto, sotto shock, isterico, anche lui vittima indiretta di quella guerra; vittima indiretta, perché Paul non era morto con il corpo, non era morto per colpa di una pallottola, o di una bomba, Paul era morto dentro, lacerato dalla sofferenza, lacerato dal ricordo di quell’episodio, dove un suo caro amico aveva perso la vita in modo atroce.
Paul si alzò in piedi, e allontanò Billy: odiava essere considerato un debole, Paul era conosciuto da tutti come una persona fredda, senza emozioni, e farsi trovare in quelle condizioni non era da lui, lui era l’uomo senza sentimenti.

-soldato, non una parola su quel che ti ho detto- annunciò infatti.

Billy si limitò ad annuire, e dentro la sua testa, si chiese da quanto tempo Paul aspettasse quel momento, il momento in cui quel peso si sarebbe tolto, il momento in cui qualcuno l’avrebbe ascoltato, l’avrebbe consolato, e gli avrebbe detto quelle parole di cui si ha bisogno di sentire.
-ho due sorprese per te, Billy- continuò Paul, frugando nella sua borsa.
Tirò fuori due buste blu: due lettere di Charlie.

-una è la risposta alla tua, quella di Settembre- e gliela porse, -questa invece, è una lettera vecchia, molto vecchia, risale ancora alla prima missione del Caporale, parliamo del 1961, James era ancora un ragazzino- concluse Paul.
-e perché arriva qui? E soprattutto: perché ora?!- chiese Billy.
Paul gli mostrò il retro della busta, qualcosa scritto in penna.
-la nostra Charlie ha pensato di spedirla ora, forse nel 1961 non ha avuto coraggio- annunciò Paul, mentre Billy leggeva:

“te la spedisco ora, perché credo tu debba sapere che anche all’ora ti pensavo, nonostante avessi paura, e avessi perso il coraggio per imbucarla, spero apprezzerai i pensieri di quando ero "piccola". Charlie.”

-vuoi lasciarle una lettera minuscola per farle almeno capire che sei vivo, “James”?- chiese Paul, indicando la macchina da scrivere.
-magari le lascio due parole, e le dico che abbiamo problemi e missioni; non ho più tempo Paul, James non si trova da nessuna parte- annunciò il soldato, avvicinandosi alla macchina da scrivere.
 
 
 
Era passata un’ora dal suo saluto a Paul, e da un’ora, Billy era fuori, con le lettere di Charlie con sé, cercava James, sperando che quelle parole riuscissero a portargli un po’ di fortuna.
Si avvicinò al fiume, aveva sete.
Immerse la mano e bevve, per poi notare un’immagine riflessa: l’albero dietro di lui.
Si voltò a fissarlo, aveva poche foglie, i rami grossi, vuoti.
Uno però, catturò la sua attenzione.

C’era qualcosa su quel ramo, qualcosa che non vedeva bene.
Si avvicinò al tronco, per vedere meglio, l’ombra non era troppo lontana, riusciva a vederla, riusciva a riconoscere il profilo di una persona.
Si arrampicò, appena scorse una divisa da militare.
Si arrampicò piano, facendo attenzione, e non appena si trovò dietro quell’ombra, spalancò gli occhi.
I capelli biondi, rasati, il corpo muscoloso, il viso serio, concentrato: no, non lo avrebbe confuso con nessun altro al mondo.

-James?!- urlò il giovane Billy, facendo voltare quell’uomo che aveva tanto cercato.
Il viso dell’uomo misterioso si girò verso il soldato: gli occhi azzurri di James erano spalancati, increduli di vederlo lì.
Billy non fece in tempo ad aggiungere altro, il ramo al quale si teneva con la mano cedette, troppo esile per reggerlo, e Billy cadde al suolo, perdendo i sensi.
 
 

Billy aprì gli occhi.
Sopra di lui c’era un muro grigio.
Sentì puzza di muffa, di posto chiuso.
Si mosse di scatto.
Sentì qualcosa al suo piede destro.
Come se fosse legato.
Una catena, che lo teneva legato al muro.
Si guardò attorno.
Era su un letto.
In quel posto c’era solo una finestra.
Una porta troppo lontana per raggiungerla, ma che lasciava entrare una luce fioca.
Era solo.
Incatenato.

-dove.. dove.. dove cazzo sono?!- urlò, preso dal panico.

Sentì mancargli l’aria, come preso da un attacco di claustrofobia.
Cominciò a dimenarsi, cercò di liberarsi da quella catena, non capiva.
-ehy! Ehy! Cazzo! Dove cazzo sono? Ehy! C’è nessuno?! Come cazzo sono finito qui?!- continuava a urlare, senza ricevere risposta.
Sentì qualcuno.
Una voce strana, proveniente dalla finestra, che gli diceva qualcosa, qualcosa che lui non capiva: non parlava la sua lingua.
E se qualcuno non parlava la sua lingua, non era di certo un alleato.

Oh merda. Sono stato preso. Pensava, mentre si portava una mano alla bocca: non poteva urlare, il tipo fuori dalla finestra l’aveva minacciato con il suo tono di voce, era sufficiente a farlo stare zitto.

Billy era stato preso.
Billy era stato catturato.
Fatto prigioniero.
L’ansia si fece più viva.
Le mani tremavano, e continuavano a tenere la bocca serrata, per evitare che scoppiasse a urlare dal panico, per evitare che cominciasse a piangere e i suoi singhiozzi fossero troppo rumorosi.

Nei suoi pensieri, vedeva la fine dei suoi giorni, non era più libero, non era più destinato a vedere la luce del sole, se non attraverso quella miseria finestra; i suoi giorni potevano essere contati sulle dita delle mani, o forse, solo sulle dita di una, o forse in nessuna; prigioniero, non più libero, un morto che respirava ancora per poco.
Continuava a trattenere un singhiozzo, mentre tutta la sua vita gli passava davanti come in un film: la fine era vicina, un prigioniero non poteva uscire vivo da quella situazione, se non da morto, dopo continue torture, e quello lui lo sapeva bene, e per la prima volta, cominciò a tremare di paura.
Morire sul campo, a causa di una bomba, forse era la cosa più facile e meno dolorosa, era una morte da uomo coraggioso, caduto sul campo; la morte che gli spettava era diversa, sarebbe stata il suo incubo peggiore, sarebbe stata lenta e dolorosa, sarebbe stata orribile.

Tremava, i denti battevano.

Un pensiero poi lo invase: Charlie.
Come avrebbe fatto senza di lui? Senza le sue lettere?
Come avrebbe fatto a rassicurarla? Come avrebbe fatto a farla sentire felice?
Come avrebbe fatto a dirle che James..

JAMES.

Ed ecco un nuovo pensiero farsi largo nella sua mente: James, vivo, su quell’albero.
Se l’era sognato?
Forse una visione?
No, impossibile. Si ripeteva.

Ricordava con fin troppa precisione l’intera scena, se la ricordava fin troppo bene per esser stata solo un’illusione.
L’albero riflesso sull’acqua, l’ombra di un uomo su un albero, un uomo dai capelli biondi, il corpo muscoloso, le spalle larghe, gli occhi di ghiaccio che lo fissavano con aria sorpresa quando lui l’aveva chiamato per nome.
Non poteva essersi sbagliato: James era su quell’albero, James era vivo, ne era certo.

L’unica cosa che lo confondeva, era la divisa militare: perché era diversa da quelle che usava lui? Perché sulla sua divisa mancava lo stemma americano? Perché su quella divisa non aveva almeno intravisto tutte le sue medaglie?
Qualcosa non quadrava, i conti non tornavano, quella divisa era strana, era diversa.
Non era una divisa americana. Concluse Billy, per poi spalancare gli occhi al pensiero.

No, non è possibile, quella non può essere la divisa del nemico!!. Esclamò nei suoi pensieri, sussultando appena.
Che James fosse passato con il nemico?
James Phillips? Caporale devoto alla sua patria? L’avrebbe davvero pugnalata alle spalle per schierarsi con coloro che avevano massacrato i suoi uomini? Uccidendoli come barbari? Torturandoli fino all’estremo, facendo perdere loro la dignità?
James aveva davvero fatto una cosa simile?
Billy si distese sul letto.

No, James non ci tradirebbe mai. Concluse, pensando a che fine potesse aver fatto.
E se l’avessi fatto scoprire? Continuava a interrogarsi.

Dov’era andato il caporale?
Billy lo aveva davvero messo nei guai?
Lo aveva fatto catturare?
Forse James era già morto a causa sua?
O James era riuscito a scappare?

Troppi interrogativi invadevano la mente del giovane White, troppi tormenti gli fecero aumentare il dolore alla testa.
Si fece il segno della croce, e cominciò a pregare, come faceva spesso, quando la sua fede tendeva ad oscillare.
L’ultima frase della sua preghiera, era rivolta a James.
So che ti sei nascosto e sei riuscito a scappare, ti prego James, vivi ancora, e se ti avanza tempo, Salvami.


 

Note di Nanek:
poco da dire: questo capitolo fa schifo. È triste, pieno di cose tristi (Andrew :( ), pieno di scene da infarto.. e basta, non mi dilungo troppo.
In questo capitolo notiamo la personalità di Paul, volevo un po’ trattarla, Paul mi sta troppo a cuore.. volevo che si sciogliesse un po’, lo volevo tenero anche lui.. spero vi piaccia =)
Il nostro Billy è stato catturato, il nostro James è stato trovato e perso di nuovo di vista.
Che dite? Billy è destinato a morire in quella cella? Chi lo sa… lo scopriremo nel prossimo capitolo dai =) grazie alle mie due lettrici preferite, la Tomma e la Malika, che mi stressano per scrivere questa storia, e che spero apprezzeranno fino alla fine <3 grazie anche a chi legge e sta in silenzio ;)
A presto!
Nanek

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Capitolo 7
*** When you’re gone ***


Capitolo 7

When you’re gone

 

16 maggio 1974

Sono ancora vivo.

Quelle parole rimbombavano nella sua mente, costantemente, ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo.
Erano passati nove mesi dalla sua cattura, e Billy White era ancora vivo.
Segretato in quella cella, legato a quel muro, ma ancora libero di respirare.
Non era stato sottoposto a nessuna tortura, non era stato sottoposto a interrogatori: Billy passava le sue giornate da solo, rinchiuso, vedeva il sole sorgere e tramontare attraverso la finestra, sentiva entrare le goccioline di qualche pioggia passeggera, sentiva la guerra, le bombe, gli spari, che di giorno in giorno si scatenavano con più violenza, ma che non lo sfioravano neanche con un dito; Billy era isolato dal mondo, Billy non viveva la guerra.

Non parlava con nessuno, se non con la sua coscienza, si rivolgeva a Dio, ringraziava di essere vivo, di poter ancora vedere quella luce, di poter ancora sentire quello che lo circondava, lo ringraziava per ogni cosa.
Non aveva contatti umani, con nessuno, se non con una “mano”: all’alba, per pranzo e per cena, vedeva entrare dalla porta una mano, si allungava dentro la sua prigione, e gli lasciava da mangiare; sempre due piatti di cibo, a volte freddo, a volte eccessivamente cotto, ma era cibo, e una bottiglia d’acqua, da due litri, che doveva bastargli per l’intera giornata.
Inizialmente aveva paura di quegli alimenti: temeva fossero velenosi, temeva di morire soffocato, ma la fame aveva preso il sopravvento, e lo fece avvicinare una prima volta ai quei piatti che “una mano” gli porgeva: si era avvicinato, aveva ingerito velocemente tutto il possibile, ed era vivo, vivo e in forze.

Quella mano gli procurava la vita, quella mano lo sfamava ogni giorno, gli dava la possibilità di farcela, quella era la sua “mano dal cielo”.
La aspettava con gli occhi sognanti, ogni mattina all’alba, ogni mezzogiorno, ogni sera prima di dormire, l’aspettava come un innamorato aspetta la sua amata, aspettava quella mano, e le sorrideva quando posava quei piatti.
Non la ringraziava a voce, per paura di essere ucciso, la ringraziava col pensiero, con un sorriso, mangiando tutto quello che portava, come per renderla felice.
Si chiedeva spesso chi fosse tanto caritatevole con un americano, si chiedeva spesso chi fosse lo sciocco da tenere in vita un nemico.
E quelle domande, quel giorno, avrebbero avuto risposta.

16 maggio 1974, ora di cena, Billy sentì i soliti passi avanzare lungo il corridoio, gli stessi passi che gli avrebbero portato il suo cibo, o almeno così sperava ogni giorno, pregando sempre di non dover andare a morire da un momento all’altro.
I passi si fermarono davanti alla sua cella.
Sentì un rumore metallico, nervoso, come se fossero.. delle chiavi.
Come se qualcuno stesse cercando la chiave giusta per aprire la sua prigione.
Il cigolio della porta di metallo, fastidioso per le sue orecchie, si fece sentire in quel silenzio tombale; la porta si aprì del tutto, sotto lo sguardo fisso di Billy, che osservava incredulo, le iridi verdi che tremavano, tra paura e agitazione, come se la sua vita stesse per cambiare, stesse per prendere una piega diversa, magari una brutta piega, che l’avrebbe condotto alla morte, alla fine dei suoi giorni.

La persona che aprì la porta si fece avanti con passo deciso, e ritrovarselo lì davanti, gli fece aprire le labbra in un sorriso quasi disperato.
-James!- urlò Billy, cercando di andargli incontro, ma la catena che lo legava al muro, si fece sentire su di lui, procurandogli dolore.
Si sedette per terra, e cominciò a massaggiarsi con una mano, ma con lo sguardo fisso su quell’uomo: i capelli biondi, gli occhi di ghiaccio, il suo fisico allenato, ma ancora una volta, una divisa militare che non gli apparteneva.
James socchiuse la porta, e si avvicinò al giovane White.

-ciao Billy Elliott- lo salutò, inginocchiandosi vicino a lui e appoggiando una mano sulla sua spalla.
Billy non poté far altro che avvicinarlo a sé, abbracciandolo con tutte le forze che aveva dentro.

-James! James io non ci posso credere! Oddio ma sei davvero tu? Tu non sai quanto ti ho cercato! Dove siamo? Perché sono qui dentro? Abbiamo vinto la guerra? Perché cazzo usi questa divisa?!- domandò tutto d’un fiato il giovane, senza lasciare la schiena del caporale.
-sei in salvo, non temere- rispose secco James, accarezzandogli la testa.
-ma dove sono? E perché sono rinchiuso? Sei tu che mi porti da mangiare?- continuò White.
James si limitò ad annuire –sei qui perché così non muori lì fuori- rispose, allontanandosi da quell’abbraccio, e aiutandolo ad alzarsi.
-James? Che succede? Io non ci capisco più niente! Sento spari, bombe, ma che succede?- lo guardava Billy, con viso stranito.

-gli americani ci danno del filo da torcere- sentenziò il caporale, lasciando Billy ancora più perplesso.

-che significa “gli americani” James?!- gli prese il bordo della maglietta della divisa –che cazzo significa questa cazzo di divisa?! Dove cazzo hai messo la tua?!- urlò più forte.
-questa è la mia divisa- concluse James, levandosi di dosso la presa di Billy, che non credeva alle sue parole.
-non.. non.. non giocare con me James. Questa divisa è dei nemici! Tu sei americano James! A-M-E-R-I-C-A-N-O! – urlò ancora il giovane, ricevendo come risposta gli occhi di James rivolti verso il basso, nulla di più.

-da quando hai deciso di voltarci le spalle?- chiese a brucia pelo Billy.
-da quando mi hanno garantito di tornare vivo a casa- rispose freddo James.
-no, io non ci credo cazzo!- sputò Billy –tu non puoi aver accettato una cosa simile cazzo! Quelli lì hanno ucciso e torturato i tuoi uomini! Li hanno massacrati e tu.. tu.. tu ti sei schierato con loro solo perché sei un codardo!!- un colpo di tosse bloccò Billy.

Calò il silenzio tra di loro.
Poi James, cercò di avvicinarsi ai capelli del giovane, per accarezzarlo, ma quest’ultimo, schivò la presa, e fulminandolo sussurrò –io mi fidavo di te- per poi spintonare con rabbia quello che era il suo Caporale.

-tu eri il mio punto di riferimento, tu eri la persona che più stimavo nella mia vita!- sospirò –invece sei solo un traditore-
-Billy.. io..- cercò di dire James, ma il soldato, urlò più forte.
-spero che un americano ti spari in testa! Spero che nessuno ti riconosca e ti lascino qui! A marcire! Perché è quello che ti meriti! Traditore che non sei altro! E io mi sono preoccupato di aiutare tua moglie cazzo! Una donna che non sa che razza di idiota si ritrova come marito!- sbraitò, pieno di rabbia, pieno di delusione, pieno di emozioni troppo vive per lasciarle a tacere.
-che c’entra mia moglie? Che le hai fatto?!- chiese James, spalancando gli occhi.
-ho finto di essere te! Ho finto di essere James Phillips, dicendole che eri vivo, che stavi bene, rassicurandola, ricordandole quel James che pensavo di conoscere! Invece.. tu sei.. tu mi fai schifo-
-non avevi il diritto di farlo White-
-spero che quando, e se tornerai, lei si sia già trovata un altro, uno migliore di te.- sputò, ricevendo uno schiaffo in pieno volto dal Caporale Phillips.

Billy si portò la mano sulla guancia, e guardandolo nuovamente quasi ringhiò –ti odio- , notando un’espressione di tristezza nello sguardo di James, che si girò di scatto, e si avvicinò nuovamente la porta.
Gli lasciò la sua cena, e quasi in un sussurro lo salutò –io ti voglio salvare- per poi andarsene, richiudendolo, e camminando più veloce per il corridoio.
Billy si sedette sul suo misero letto, le mani che tenevano la testa.

Lasciò libero sfogo a un urlo di disperazione, di delusione, che fece rimbombare le pareti.
James Phillips aveva tradito l’America per schierarsi con il peggior nemico che si potesse avere, un nemico primo di umanità, un nemico che si divertiva a torturare i soldati, un nemico che aveva massacrato Andrew e molti altri.
Il battito del cuore di Billy accelerava secondo dopo secondo, le mani tremavano, gli occhi trattenevano lacrime di rabbia, la mascella contratta, l’espressione quasi bestiale.
Si distese per terra, in quel pavimento sudicio, senza motivo, come se non avesse più il controllo del suo corpo, come se quella notizia l’avesse scosso nel profondo.
Nel farlo, notò della carta sotto al suo letto.
Non le aveva mai notate, dato che non si buttava mai per terra, ma ora le vedeva, quelle buste, che per nove mesi non aveva mai visto, e che aveva lasciato marcire su quel pavimento.
Allungò la mano per raccoglierle, e vedere la calligrafia di lei, lo fece sobbalzare: le lettere di Charlie, quelle che Paul gli aveva consegnato prima della sua cattura.

Una lacrima gli solcò il viso.

Prese in considerazione quella più vecchia, quella che Charlie non aveva avuto il coraggio di inviare durante la prima missione di James: scelse di leggere quella, perché sentiva che sarebbe stata la giusta cura per il suo turbamento.
Aprì quella busta, dopo aver riletto quel “post it” scritto sul retro da lei: sorrise nuovamente a rileggerlo, per poi tirar fuori quella lettera di molti anni prima, datata 23 giugno 1961.


“Caro amore mio,

sei partito da troppo tempo, ragione per cui, non scriverò da quanto tempo manchi da casa, da quanto tempo manchi a me.
Qui il sole è ustionante, e io sono al parco.

Mi guardo attorno, è pieno di gente ovunque, e tutti sembrano essere felici.
Guardo il bambino che gioca con la palla rossa, la lancia in aria, la rincorre, inciampa e ride con lei: il suo pallone è la sua felicità.
Guardo la signora anziana che da il biberon al suo nipotino, lo dondola, gli sorride, lo tiene stretto e al sicuro, quasi riesco a vedere i suoi occhi brillare: quel bambino è la sua felicità.
Guardo il ragazzo che si allena con lo skate, lo vedo correre, cadere, rialzarsi, riprovare e alla fine riesce a fare l’acrobazia desiderata: questo momento è la sua felicità.
Non starò qui ad annoiarti descrivendo tutto quello che fanno gli altri.

Mi limiterò a dirti che: io sono l’unica a non avere la mia felicità, il mio James.

Sto qua seduta su questa panchina, e sembra che sia appena uscita dal funerale di qualcuno.
Ho addosso un vestito grigio scuro, i capelli raccolti in una coda mal ridotta, le occhiaie dominano la mia faccia, le mie labbra sono rivolte verso il basso.
Una guancia è appena stata rigata dall’ennesima lacrima, gli occhi mi bruciano ancora dopo l’ennesima notte passata a piangere e a pregare per la tua vita.
L’anno scorso, a quest’ora, stavi facendo i tuoi mesi di servizio militare, e mi dicevi che non avresti mai accettato di andare in guerra per davvero.

E invece dove sei ora James? A rischiare la vita.

E tutto perché? Perché tu vuoi prendere quei soldi per comprare una casa per noi, per farci vivere senza bisogno di aiuti da parte dei nostri genitori.
E io da stupida, ho accettato questa tua decisione.
Ho accettato di lasciarti andare in mezzo alle bombe e agli spari, ho accettato di mandarti a morire per una stupida casa, ho accettato questo senza pensare al rischio che tu corri ogni santo giorno, e tutto per una stupida casa, che sarà vuota, se una pallottola ti prende in pieno.
Complimenti a me, stupida che sono.
Non ho valutato i rischi, non ho valutato nulla, ho solo visto la possibilità di andarmene da casa mia per vivere vicino a te, in una casa tutta nostra, continuando la mia vita da studentessa universitaria, che vive a scrocco del suo fidanzato: un soldato.

Non ho pensato a quanti notti avrei pianto, pregando, implorando Dio di farti vivere, di farti tornare a casa, di non farti mai mancare l’ossigeno per vivere, o il cibo per combattere la fame.
Stupida che sono stata, un’idiota, un’egoista, una che non ti merita neanche un po’.

Voglio che torni Jamie.
Voglio che lasci quel lavoro, voglio che tu torni a casa, non ho bisogno dei tuoi soldi, non ho bisogno di quell’indipendenza, è ancora presto, non abbiamo neanche 19 anni, possiamo vivere ancora così, non abbiamo bisogno di affrettare tutto, io ti amo, e ti amo anche se vivi in un’altra città.
Voglio averti al mio fianco James, voglio saperti vivo, integro, tranquillo, e non con il panico che ti scorre nelle vene ogni due secondi per paura di un attacco a sorpresa.
Torna James.

E lo so che stai pensando: tu sei fedele alla tua patria, non sei un codardo, ti batterai fino all’ultimo, saprai essere l’eroe americano, devoto all’America, umile e coraggioso.

Ma a me non importa nulla della tua devozione alla nostra patria.
Io voglio che tu torni, io voglio che il mio fidanzato sia qui, accanto a me, fedele a me, sono io la tua donna, non l’America, sono io che posso darti tutto l’amore possibile, non l’America, tu non hai bisogno dei suoi soldi, tu hai bisogno di me, hai bisogno di affetto, di sicurezza, di rapporti umani.

Ho bisogno di te James, e questa guerra mi sta già distruggendo, mi sta portando ad odiare il mio stesso paese, perché mi tiene lontana da te.
Voglio vederti qui James, e ora non ho più la forza di scrivere.
Chissà se riuscirò mai a spedirti questa lettera.”


Charlie aveva interrotto così la sua prima lettera, una lettera che non aveva mai inviato a James.

Lacrime amare solcarono le guance del giovane Billy, ancora disteso per terra, con quel foglio appoggiato sul petto.
Singhiozzava, non si fermava, lasciava il suo petto alzarsi a scatti, lasciava che la debolezza lo travolgesse tutto, come se ormai, non avesse più importanza essere forti e virili.
Piangeva per troppe ragioni.

Piangeva per quello che lo circondava, piangeva pensando a chi, in America, stesse aspettando il ritorno di un soldato; piangeva per la madre di Andrew, piangeva per tutte le persone a lui care, immaginava i loro volti, sconvolti, distrutti, gli occhi gonfi, dopo ore passate a piangere, immaginava quel buio sul loro sguardo, divenuto ormai vuoto, senza più speranze, senza più un motivo per guardare il telegiornale, senza più un motivo per affacciarsi alla finestra ed aspettare qualcuno all’inizio della via.

Spostò i suoi pensieri verso casa sua, rivolse un pensiero ai suoi fratelli, a tutti loro: non ricordava neanche le loro voci, e quasi se ne vergognava, pensava ai loro volti, si chiedeva se lo stessero aspettando, se stessero pregando per lui, dato che era stato dato sicuramente per disperso, se non morto.
Pensava a sua madre, la vedeva in ginocchio, sulla panca della piccola chiesa vicino a casa loro: la vedeva, in ginocchio, con in mano la sua collana, quella che Billy le aveva lasciato prima di partire, con dentro la foto di loro due insieme, la vedeva tra le sue mani, e la vedeva bagnata dalle sue lacrime, avvolta dalle sue preghiere per quel figlio tanto giovane, troppo giovane, per essere già scomparso.

I suoi pensieri cambiarono nuovamente luogo, e finirono a Chicago, in quella casa, dove Charlie, aspettava di nuovo James.
Ripensava alle sue parole.
Coraggioso.
Fedele.
Devoto.
Umile.
Eroe.

-lui è un fottuto traditore!- urlò, sbattendo il pugno sul pavimento.

Lacrime di disperazione lo travolsero, era troppo.
Quella notizia aveva spento in lui quella voglia di vivere fino alla fine, James li aveva traditi tutti, senza troppe preoccupazioni, aveva preferito i suoi interessi alla vita dei suoi uomini.
Billy piangeva, l’amaro in bocca dalla delusione.
Non sapeva che pensare, se non quanto lo odiasse, se non quanto del male gli avesse fatto.

-non mi frega un cazzo di stare qui! Voglio uscire! Salvare i miei uomini! Fare quello che tu non fai più!- urlò di nuovo verso la porta, ma nessuno lo sentiva, Billy non esisteva per nessuno, Billy era solo colui che James voleva salvare, e che nessuno conosceva.

Rilesse la lettera di Charlie, e al leggere di nuovo quegli aggettivi, la strappò.
La strappò con rabbia, fregandosene di tutto, la strappò e la lanciò in aria.
I pezzettini caddero a terra.
Uno solo, ricadde più vicino al soldato.
Billy si alzò in piedi, e si buttò sul letto, cercando di calmarsi, cercando di dormire.
Non si rese conto però, di quel pezzetto di carta, più vicino a lui.
Sbagliò a non leggerlo.
Quell’aggettivo, quella parola, che era rimasta integra, vicino a lui, sarebbe stata parte del suo destino.
Ma Billy ancora non lo sapeva.
Eroe.
 

 


Note di Nanek
Questo capitolo è in mega ritardo, ed è soprattutto, molto cattivo: il nostro Billy ha ormai un esaurimento nervoso, a forza di stare segregato, e anche per colpa della batosta da parte di James.
James, cosa ci combini insomma, la delusione è davvero tanta, non so che pensare.
La nostra Charlie, si rivela sempre molto tenera.
E la parola “Eroe”? chissà che vuol dire insomma =)
Oltre a ringraziare le solite due carissime
Malika e Tomma, che adoro, e che continuano a spronarmi a continuare questa storia, un grande grazie va anche a Mrs_Moony che ha messo questa storia tra le ricordate =)
Spero di riuscire a postare presto, ormai siamo alle ultime care lettrici =) manca davvero poco poco, e ne succederanno di tutti i colori =)
A presto =) vi adoro tutte =)
Nanek

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Capitolo 8
*** I wish I was beside you ***


Capitolo 8

I wish I was beside you





29 dicembre 1974

 

E anche questo anno è quasi andato.

Ripensava Billy, segnando sul muro, con un sasso, un altro giorno vissuto in quella cella.
Da più di un anno, Billy era rimasto rinchiuso in quella prigione.
Vedeva James, ogni giorno, e ogni giorno, evitava il suo sguardo.
James gli portava il cibo, gli portava il materiale per curarsi la barba, l’acqua per un bagno veloce, un asciugamano per coprirsi: James si prendeva cura di lui come se fosse un figlio.
Ma Billy, non ringraziava il suo salvatore.
Non gli rivolgeva la parola, non gli rivolgeva lo sguardo, come se James fosse solo un fantasma, che portava l’essenziale per vivere, e niente di più.
Il Caporale tentava un contatto, ci provava ogni giorno, ma Billy era chiuso in se stesso.

Quella notte, James entrò nella cella, fuori orario.
-Billy?- lo chiamò, entrando con una candela, ma il soldato, stava già dormendo.

Gli si avvicinò, illuminandogli il viso, e quasi sorrise alla vista di quel giovane.
Billy non poteva saperlo, ma era davvero cambiato.
Il viso da giovane ingenuo era sparito, per dar spazio a un viso da adulto, maturo, forte.
La barba era sempre presente, come se avesse preso simpatia per la sua pelle, e volesse sempre farsi notare; i capelli non più rasati, ma tenuti corti; il fisico più grande, e allenato, visto che il giovane si divertiva a fare flessioni anche per un’ora di fila, tutto in Billy era cambiato.
Ma quando dormiva, quando chiudeva gli occhi, e si lasciava prendere dal sonno, ricompariva quell’espressione dolce, che James aveva sempre paragonato a quella di Charlie.
Sospirò, e si alzò dal letto: sentì cadere qualcosa.
Sobbalzò dallo spavento, ormai, anche il minimo rumore lo preoccupava e lo metteva in allerta: una busta blu.
Sgranò gli occhi al leggere il mittente: Charlie Jones; la prese in mano velocemente, e tirò fuori il contenuto, come preso da una nostalgia acuta.
Si sedette con la schiena contro il muro, posizionò la candela, e illuminò quei fogli, datati “15 gennaio 1973”.
La calligrafia di sua moglie gli fece battere il cuore più forte, il respiro si fece quasi più corto, come se stesse per piangere.
Cominciò a leggere quella lettera, deglutendo a fatica.


“Caro James,

tua figlia ieri è tornata a casa con una domanda: perché sono nata?
Mi chiedo cosa insegnino in queste scuole, non ha neanche sette anni, e fa domande di questo tipo.
Mi sono un po’ preoccupata, e sono andata ad indagare: un suo compagno le ha detto che lei è nata per soffrire, e per essere abbandonata dal suo papà, che preferisce la guerra allo stare con lei.
Nostra figlia è tornata a casa in lacrime.
Quel bambino lo metterei in un angolino senza merendina per tipo una settimana se fa un altro torto a nostra figlia.
Sta di fatto che dopo una sera passata a consolarla e ad asciugarle le lacrime, l’ho fatta dormire nel nostro letto, insieme a me.
È incredibilmente uguale a te, caro James, dorme anche come te: con una mano sotto al cuscino, e l’altra vicina al viso, chiusa a pugno.
Ho una piccola Jamie al mio fianco; ha solo gli occhi verdi come me, e forse la forma, ma la bocca carnosa è del suo papà, ma le orecchie piccole, i capelli biondi, le mani lunghe  e magre, sono uguali alle tue.
La fissavo, mentre dormiva vicino a me, e ho pensato alla sua domanda: perché è nata.
Ho sorriso al pensiero, perché mi è venuto in mente quel giorno, o meglio, quella notte.

Era notte fonda, e non ti stavo aspettando, visto che eri nuovamente partito, nonostante le mie lacrime e le mie urla di disperazione, ma quella notte, eri tornato a casa, per poco, solo cinque giorni di permesso, per poi riprendere la tua guerra.
Ricordo di aver urlato dallo pavento, eri così brutto: tutto sporco di terra, la divisa che era davvero un porcile incorporato a te: puzzavi in una maniera assurda.
Ti spedii in bagno, tappandomi il naso con le dita, ma tu, dopo aver riempito la vasca della nostra nuova casa, uscisti, mi sollevasti di peso, e mi gettasti in acqua, con il pigiama nuovo: quanto odio Phillips.

-Ciao a te amore mio- mi dicesti, cominciando a baciarmi con una foga tale da svegliarmi completamente.
-Ti pare il modo di arrivare?! Credevo fossi un ladro!- strillai, mentre la tua bocca continuava a cercare la mia: quella povera vasca, quanta acqua che abbiamo tirato su il giorno dopo.
-Mi sei mancata da morire- mi sussurravi, e mi chiedevo se quelle parole fossero vere.

Uscimmo dalla vasca, e tu mi avvolgesti con l’asciugamano, e come se fossi stata una bambola, mi portasti nel letto, senza lasciarmi mai.
Mentre mi stendevo, trattenevo l’ennesimo pianto.
Continuavi a baciarmi, a toccarmi, e per la prima volta in vita mia: non ero sicura di volerti lì.
Tu eri lì, in quel momento, e io non ero felice, perché non saresti rimasto, perché ti avrei rivisto partire, non sapendo se fosse un addio o solo un arrivederci.
Non riuscivo a pensare ad altro, e fu così che scoppiai.

-J-James- balbettai, con le lacrime agli occhi.
-No Charlie, no, non..- dicevi tu, fermandoti, avvicinandoti al mio viso, baciandomi le guance.
-Non ce la faccio Jamie, io, non ce la faccio a vivere così- confessai, continuando a singhiozzare, sentendo le tue braccia avvolgermi di più.
-Charlie non dire così, io lo sto facendo per noi- mi dicevi, e lì non ci capii più.
-Non è vero!-esclamai, cominciando a rinfacciarti le mie giornate passate a piangere, le mie ore passate a pregare per te, le mie ore passate a controllare il telegiornale, ore passate a pregare il cielo di non vedere mai il tuo nome nella lista dei caduti.

Piangevo e urlavo, per l’ennesima volta, davo voce alla mia disperazione, che tu non sembravi capire, come se io fossi una matta, una matta innamorata della tua persona, che voleva solo tenerti con sé, lontano dai pericoli.

-Voglio un figlio da te- mi bloccasti tu, facendomi zittire con quelle parole.
Spalancai gli occhi, incredula.
-Così dopo dobbiamo piangere in due per te?!- sputai.
-Voglio che un figlio sia la mia ennesima promessa- continuasti.
-Voglio fatti James, non promesse mandate al vento-
-Quando vedrò mio figlio, io non partirò più-
-Cazzo James, ma devo avere un figlio per farti restare?! Che cazzo di discorso è?!- continuai.
-Ti prego- mi supplicasti, e io non capivo.
-Voglio un bambino da te- continuasti –e quando lo vedrò, sarà il giorno della fine della guerra-
-Non crescerò tuo figlio da sola.- sputai nuovamente.
-Nostro figlio- sentii le tue dita spostarmi un ciuffo di capelli dietro l’orecchio, per poi avvicinare la tua bocca al lobo.

Ti sentii sussurrare, e i brividi mi invasero –Vorrei un bambino con questi lobi- le tue labbra scesero verso il mio viso, un scia di baci lungo le mie guance –vorrei che avesse le tue stesse guance-
Il tuo indice tracciava i contorni delle mie sopracciglia, dei miei occhi, scendeva lungo il naso, sfiorava la mia bocca –Vorrei ritrovare queste labbra sul volto di mio figlio, vorrei rivedere il colore dei tuoi occhi su un’altra creatura-

Ti sentii ridere appena –Vorrei una bambina, una piccola Charlie, che quando mi guarda mi fa innamorare di lei-
Sentii le tue mani intrecciarsi alle mie –Vorrei tenerla per mano e portarla al parco, sentire quanto le sue mani siano simili alle tue-

Un bacio.

-Vorrei sentirla chiamare “papà” quando si sente in difficoltà, vorrei vedere nei suoi occhi, la stessa espressione triste che hai tu quando credi di non potercela fare-

Brividi.

-Vorrei tornare a casa, e trovare le mie donne ad aspettarmi-

Le tue mani sul mio corpo.

-Ti prego Charlie-
Un lacrima sul mio viso.
Un sorriso che prevalse la tristezza di quella notte.
La voglia che tenevo nascosta, la voglia di avere un figlio da te, la voglia di avere una famiglia per noi.
Sono bastate poche parole da parte tua, carezze, la tua voce che mi sussurrava la tua voglia di essere padre, che mi hanno portata  a fidarmi nuovamente di te, a credere che saresti tornato, per vedere tua figlia.

Quella notte, fare l’amore con te è stato qualcosa di davvero speciale e importante per me: nonostante le paure, nonostante la mia tristezza, ero riuscita a mettermi il cuore in pace, ero riuscita a pensare solo alla cosa bella che sarebbe successa dopo quella notte; sorridevo quella notte, sorridevo al pensiero di un figlio tuo, che a differenza tua, lo desideravo solo uguale a te, un piccolo James, o piccola, non importava il sesso, a me bastava che fosse uguale a te: volevo i tuoi capelli biondi, i tuoi occhi azzurri, il tuo sorriso timido, che mi faceva coraggio, che mi rassicurava, che mi rendeva felice.

Immaginavo di abbracciarlo, nostro figlio, e di riconoscere il tuo stesso profumo, lo stesso che quella notte mi stava inebriando.
A quasi un mese e mezzo da quella notte, cominciai a sentirmi strana:  nausea, voglie improvvise,  e logicamente, un ritardo molto… in ritardo.
Corsi a comprare i test di gravidanza, e sorrisi a tutti quei risultati: incinta, incinta e incinta.
Andai dal medico, per confermare quello che già sapevo: avrei avuto un bambino.
Non sapevo come dirtelo, non sapevo come contattarti, non potevo chiamarti, non sapevo come comportarmi.

Ma tu, hai saputo stupirmi.
Quel giorno, ennesimo controllo, terzo mese inoltrato, quasi quarto, ero appena tornata a casa, avevo appena scoperto che aspettavo, come tu desideravi, una bambina.
Il telefono di casa squillò, appena varcai la porta, risposi, pensando che fosse mia madre.
-Pronto?-

-Ciao bellissima-

La tua voce.

-James? Oddio James sei tu?- chiesi, da stupida, certo che eri tu, come potevo non riconoscere la voce di mio marito?
Mi sedetti sulla sedia, mi torturavo la fede dall’ansia.
Mi chiedevi se avevo scoperto il sesso di nostro figlio, sorrisi –E tu come fai a sapere che sono andata oggi?-

-Da qui, vedo ogni tuo movimento, dai esci-

Spalancai gli occhi, tu avevi riattaccato.
Aprii la porta di casa, e ti trovai davanti a me.
Avanzasti verso di me, e ti fiondasti sulle mie labbra.
Con una mano mi accarezzavi la pancia, mi facevi rabbrividire.

-Allora? Maschio o femmina?- mi domandasti, curioso come un bambino.
-Hai scelto i nomi?- ti chiesi, anche se sapevo benissimo che l’unico nome che ti eri preparato era per una femminuccia.
Ti vidi annuire e sorridere con aria colpevole, per poi dire –Se è una femminuccia Ashley, se è un maschio.. A.. s.. h.. Ashton!-
-Lo hai scelto adesso, furbetto? Guarda che lo chiamo davvero Ashton: Ashton Phillips, non suona male- mi accarezzai la pancia.

-è.. un maschio?- ti vidi preoccupato.
Sorrisi, prendendoti in giro, -No Jamie, è una bambina, Ashley Phillips- e il sorriso che comparve sul tuo viso era qualcosa di unico.
Lo stesso sorriso che avevi quando ci siamo messi insieme, quando ci siamo sposati, lo stesso sorriso che da luce al mondo intero, ti comparve sul viso, ed è rimasto indelebile nella mia mente; mi abbracciasti, stando attento a non stringere troppo, continuavi a dire cose senza senso, come “grazie” “sei unica”.
Dopo appena sei ore, mi salutasti nuovamente, per ripartire per la tua guerra.

Mi lasciasti una collana, d’oro, un ciondolo.. con incise tre lettere: la tua J, la mia C, e la A per nostra figlia: era il tuo dono per lei, il primo regalo tuo che avrebbe ricevuto.
Quella collana è ormai incorporata su nostra figlia: non la toglie mai, neanche per dormire, neanche quando è arrabbiata con te perché non torni, lei con quella collana ti sente vicino, sente la tua presenza, e mi assicura che torni.
Perché tu torni, vero James?
Perché tu me l’hai promesso, perché tu me l’hai giurato: tu torni, perché le tue donne, sono qui ad aspettarti.
Ti aspetto Jamie, ti aspetterò sempre.

Tua Charlie”

Una lacrima solcò il viso del caporale Phillips, ancora seduto a terra, la schiena appoggiata al muro della cella di Billy.
Rileggeva quelle parole, come se fossero l’ossigeno che gli mancava, quelle parole venivano da casa sua, da sua moglie, ne respirava il significato, e l’immagine di lei era il suo unico pensiero.
La immaginava su quel letto, di notte.
La vedeva messa a pancia in su.
La vedeva con gli occhi aperti, mentre pensava a lui, mentre pregava per la sua vita.
La vedeva poi, spostare lo sguardo, verso la finestra.
La vedeva, mentre si alzava, mentre si affacciava, e fissava il cielo.
Alzò anche lui lo sguardo, verso la piccola finestra della cella, guardò il cielo.
 
Non lasciarmi mai. Diceva Charlie a quel cielo.
Il mio cuore vuole tornare a casa. Diceva James in risposta.
Riesci a sentirmi?. Continuava lei.
Ti sento vicina, anche se siamo così lontani. Continuava lui.
Un altro giorno è passato senza di te. Lei, Charlie.
Ho fatto una promessa: tornerò indietro da te. Lui, James.
Sto cercando le parole da dire.Charlie.
Alcune parole sono difficili da confessare. Mi manchi. James.

Vorrei essere vicino a te. James. Charlie.

 
Some words are hard to speak
When your thoughts are all I see
“Don’t ever leave” she said to me.

So close but so far away.
Can you hear me?

She sleeps alone
My heart wants to come home
She lies awake
Trying to find the words to say

Another day, and I’m somewhere new
I made a promise that I’ll come home soon
Bring me back, bring me back to you.

When we both wake up underneath the same sun
Time stops, I wish that I could rewind
So close but so far away.
She sleeps alone
My heart wants to come home

I wish I was, I wish I was
Beside you

She lies awake
Trying to find the words to say

I wish I was, I wish I was
Beside you.

 
 

Note di Nanek
Bene, in mega ritardo pure qui, viva me insomma, e la puntualità che mi manca..
Come mi giustifico.. sempre colpa di Luke Hemmings! È lui che mi distrae…
No dai, questo capitolo è.. è stato davvero un po’ impegnativo, per vari motivi: non sapevo che scrivere, come finirlo, cosa trattare in particolare.. poi bam! L’illuminazione grazie a questa canzone, che è il titolo del capitolo, e che ho riportato (poche parti) alla fine: Beside You- 5SOS.
Questa canzone è la chiave di questo capitolo insomma, e se siete curiose di sentirla, beh, youtube è fatto a posta per questo =) ve lo garantisco è stupenda, sono innamorata di quella canzone, e credo che su questo episodio sia un sottofondo bellissimo.
Troppo modesta? Eviterò di dilungarmi troppo allora =)
Come sempre ringrazio la Tomma e la Malika per le loro recensioni di sempre =) ma attenzione gente! Abbiamo nuove arrivate! *-*
elelove98 che ha messo la storia tra le preferite <3
Gvorgia  che ha messo la storia tra le ricordate <3
 myllyje  Panna Montata che seguono la storia <3
grazie mille <3 a tutte voi <3 dalla prima all’ultima <3
spero di riuscire ad arrivare presto con il capitolo 9, lo spero davvero =)
grazie ancora di tutto <3 vi adoro <3
Nanek

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Capitolo 9
*** You Saved My Life, You Are My Hero ***


Capitolo 9

You Saved My Life, You Are My Hero

 

30 aprile 1975




Un boato lo svegliò di soprassalto.
Una bomba era appena esplosa.
E dopo mesi, per la prima volta, l’aveva sentita esplodere fin troppo vicino a lui.
Billy balzò in piedi, cercando di guardare fuori dalla finestra.
Il cielo grigio, le nuvole nere, le vedeva di nuovo.
Il fumo che invadeva il tutto, la guerra che si avvicinava pericolosamente a lui.
Il suo cuore cominciò a battere più forte.
Un altro colpo.
Spari.
Troppi spari.
Troppo vicini per restare calmi.
Cercò di allungarsi ancora di più, per poter vedere meglio quello che stava succedendo, ma senza successo: quella maledetta catena lo fermava, gli faceva del male, gli impediva ogni movimento.
Sentiva la guerra, la sentiva vicina, e non sapeva cosa fare.

-Ehy! Ehy! Ci sono anche io qui!! Ehy!- urlava, cercando di sovrastare la confusione di quel momento.

Ma nessuno sembrava sentirlo, nessuno sapeva che lui fosse lì, tranne James.
-James! James! Sono ancora qui!- continuava a urlare, ma un'altra bomba sovrastò la sua voce, spaventandolo ancora di più.
Le iridi verdi del giovane White tremavano come le sue gambe, come le sue mani: il panico lo stava assalendo minuto dopo minuto, lo soffocava quasi, non sapeva cosa pensare, e se pensava, il pessimismo regnava nella sua mente.
Sarebbe rimasto lì?
Chi lo avrebbe salvato?

-James ti prego!!- implorò di nuovo, il suo grido fu strozzato da un singhiozzo.

Si sedette per terra, le ginocchia sul petto, le lacrime della disperazione lo invasero senza pietà, senza lasciargli il tempo di ragionare, di pensare a una soluzione.
Era circondato da rumori, da bombe che esplodevano, da spari che rimbombavano dentro di lui.
Due braccia lo avvolsero.
Una voce sussurrava al suo orecchio.

-Non piangere, non piangere, soldato, ce ne andiamo da qui- lo rassicurava l’unica persona che sapeva della sua esistenza.

Billy alzò lo sguardo verso James.
Gli occhi bruciavano, le lacrime sembravano non cedere.
James liberò Billy dalla catena, e lo aiutò ad alzarsi.

-Avanti soldato, meno cose da femminucce e più cose da uomini con le palle.- ordinò il biondo, asciugando le guance del giovane White, che continuava a fissarlo.
Quasi incredulo.
-White porca puttana! Ti vuoi svegliare?- lo schiaffeggiò, notando la sue espressione ancora persa nel vuoto.
-Billy Elliott!- lo richiamò ancora, scuotendolo -dobbiamo andare!-.
-No- riuscì a sussurrare Billy –non verrò con te, tu sei un fottuto traditore.- sputò, lasciando la presa di James.

La risposta di quest’ultimo, fu una risata.
James rideva, di gusto, all’affermazione del giovane soldato.

-Meriteresti mille flessioni con me sopra per l’offesa appena fatta a un tuo superiore, White- annunciò.
-Tu non sei un mio superiore- continuava Billy.
-Ah davvero? Lo racconti al Tenente allora appena raggiungiamo la base, nel frattempo, porta rispetto White, io sono il tuo Caporale-
-James tu non sei uno di noi, sei un traditore!- abbassò lo sguardo, e solo in quel momento, notò che la divisa di James era nuovamente cambiata: una divisa americana.
-E un traditore non merita neanche di indossarla questa!- gli puntò l’indice sul petto, riprendendo a fissarlo, nuovamente stupido dal suo Caporale: come poteva avere il coraggio di indossare quella divisa? La divisa che aveva tradito per tutto quel tempo, come poteva permettersi una cosa simile?
-E secondo te, mio caro White, un traditore farebbe esplodere cinque bombe nella base Vietnamita?- James inarcò il sopracciglio.

Billy rimase impietrito.
-Cosa credi White? Che io tradirei davvero l’America? Hai una bassa considerazione di me allora; mai sentito parlare di infiltrazione? Mai sentito parlare di spie, White?- lo interrogava James, sotto lo sguardo incredulo di Billy.
-Io.. io.. perché non me l’hai detto?!- sbraitò il giovane, non sapendo che rispondere.
-E da quando siamo così in confidenza? Da quando ti fai gli affari miei? – sorrise James.

Billy non sapeva cosa dire.
Le sue preghiere, alla fine erano state accolte in qualche modo: James, James era un eroe, era l’Eroe americano, non un traditore, James stava aiutando l’America, sua unica patria.
Come preso da uno strano impulso, abbracciò il Caporale.
-Io lo sapevo che non ci avresti traditi- gli diceva all’orecchio, mentre James gli accarezzava la schiena.
-Soldato, lei mi sta diventando sempre più femminuccia, avanti! Comportati da uomo- lo istigò, sorridendo.
Billy si staccò da quell’abbraccio, portò una mano alla tempia –Agli ordini Caporale Phillips- urlò, con il sorriso sulle labbra.


 
Tornare alla base non era un’impresa facile.

Bombe che esplodevano troppo velocemente, spari che non cessavano neanche per un secondo: James aiutava Billy a camminare, non troppo in forze per reggersi da solo, lo spingeva, lo incitava a muoversi, il pericolo era sempre troppo vicino.
Il Vietnam era troppo pericoloso: era troppo potente da poter battere.
-Avanti Billy, guarda! Siamo arrivati- annunciò James, notando la bandiera americana della loro base.
Billy sorrise.
Fu una questione di pochi secondi, e il tutto cambiò.

Billy e James avanzavano.
Sicuri che gli altri li stessero aspettando.
James aveva già provveduto a contattare la base, aveva già provveduto ad informare del loro rientro, in quanto le cinque bombe da lui posizionate, erano esplose con discreto successo.
Videro Paul, accompagnato da Robert, medico della base, pronti ad accompagnarli all’interno.
Billy sorrise a quella vista.
James li salutò alzando la mano.
Ma il viso di Paul era strano.
Non sorrideva, Paul.
Paul aveva gli occhi spalancati, preoccupati, e Billy lo aveva notato.
Vedeva le sue mani sbandierarsi all’aria, ma non come saluto, le agitava troppo velocemente per essere un semplice saluto.
Vide mimare le sue labbra.
Mimavano qualcosa, che non lo rendevano felice, l’espressione del suo viso era troppo tesa per essere qualcosa di bello.
Fu questione di un attimo, e Billy capì il significato di quello che Paul stava urlando, ma che non riusciva a sentire, a causa dei boati.

“Dietro di voi”

Quelle erano le parole che Paul stava urlando.
Le mani di Paul stavano a indicare loro di voltarsi e guardare alle loro spalle.
James non l’aveva capito, ma Billy sì.
Il giovane White si voltò.
Dietro di loro, un soldato.
Una divisa diversa da quella americana.
Una divisa nemica.
Un soldato vietnamita.
Un soldato armato.
Un soldato che puntava l’arma alla schiena di James.
-No!!!- urlò il giovane Billy, spingendo il Caporale Phillips, facendolo cadere a terra, nel momento in cui quel soldato si era deciso a sparare.
Fu questione di un attimo.
Le pallottole entrarono dentro Billy White, sotto gli occhi spaventati del Caporale, di Paul, del medico della base.
Billy cadde a terra, il sangue che cominciava a uscire dal suo corpo.
-No Billy!!!!- urlò James, incredulo a quella situazione.
Altri soldati semplici americani si fecero avanti, per difendere James, e per ferire a morte quel soldato vietnamita, che aveva appena colpito Billy.
James trovò la forza di reagire, trovò la forza di sollevare il corpo di Billy, ancora cosciente, ancora con lui, ancora in grado di salvarsi.

Lo portò dentro alla base, e mentre correva, Billy continuava a parlargli.

-S-siamo pari ora, James- sussurrava il giovane White, sorridendo appena.
-Silenzio soldato! Ti affatichi per nulla! Sottospecie di idiota! Come ti è saltato in mente una cosa simile?!- rispondeva James, in bilico tra rabbia e lacrime.
-Lei è sempre così gentile Caporale- sorrise appena, un sospiro -Grazie per avermi salvato quella volta James..- continuava il ragazzo dagli occhi verdi.
-Sei mio amico Billy, lo rifarei altre cento volte, basta parlare- cercava di zittirlo.
-P-promettimi una cosa James…- Billy alzò la mano, la portò verso la maglia del Caporale, verso il suo cuore.
-Tutto quello che vuoi, ma me lo dici dopo okay? Resisti Billy resisti!- gli occhi ghiaccio di James cominciavano a diventare rossi.
-G-giurami che non la abbandoni più..- una lacrima sul viso del giovane –giurami che starai sempre con Charlie, giurami che lascerai la guerra, giuramelo James- lo implorava, sentendosi le forze mancare sempre di più.
-Te lo giuro Billy, lo giuro. Torneremo insieme, in America, organizzeremo feste e ci vedremo sempre, non partiremo più. Saremo amici per sempre Billy, ti prego, non lasciarmi, ti prego Billy resisti.- implorava a sua volta il biondo, bagnando il viso di Billy con le sue lacrime.
-Ti voglio bene James, tu sei il mio..- sorrise –il mio eroe, l’eroe americano di questa guerra- tossì appena –ma prima di tutto, sei l’eroe di Charlie e di Ashley..- le iridi verdi fissarono in alto –Non ti scorderò mai James..- e gli occhi del giovane si chiusero.
-Billy? Billy? Soldato svegliati! Billy White svegliati!!- pianse più forte James.
Posò il corpo sulla barella, lasciò la mano di Billy –Svegliati soldato!! Svegliati!!- urlò ancora, per poi vedere la porta chiudersi davanti a lui.

 
Passarono solo dieci minuti, i dieci minuti più lunghi di tutta la sua vita, prima che il medico uscisse.
James si alzò in piedi, gli andò vicino, lo vide abbassare gli occhi.
-Ha perso molto.. molto sangue- sospirò –non ce l’ha fatta Caporale, mi dispiace- annunciò.
-Posso vederlo?- riuscì a chiedere James, Robert annuì appena.

 
Vederlo disteso, su quella barella, gli fece tremare le gambe.
Si avvicinò al ragazzo, coperto dalla testa ai piedi da un lenzuolo bianco.
Trovò la forza di scoprirlo, solo per vedere un’ultima volta il suo viso.
Sembrava che stesse dormendo.
La stessa espressione da bambino, lo stesso Billy di sempre, che dormiva, che viveva nei suoi sogni.
James si lasciò andare alle lacrime.
Avrebbe voluto dirgli tante cose, a quel giovane, avrebbe voluto dirgliele, ma in quel momento, era sopraffatto dal dolore, e le uniche cose che uscivano dalla sua bocca, erano i singhiozzi.
Accarezzò la guancia di Billy, ancora calda, e la sua mano, al contatto, tremò ancora di più.
Fece un passo indietro, e uscì da quella stanza.
Ad accoglierlo, furono gli occhi del Tenente Bell.
Si asciugò le lacrime, e lo salutò, portando la mano all’altezza della tempia.
-Ottimo lavoro Phillips- si congratulò il Tenente –ma.. purtroppo, non è servito a niente-
James annuì.
-Domani si torna a casa, l’America è stata sconfitta- concluse Bell, allontanandosi.
James si incamminò fuori, troppo fragile per poter stare dentro a quella base, dove in una stanza, giaceva il corpo del suo Billy White.
James uscì, e cercò rifugio sopra un albero, come faceva sempre, il suo unico modo di isolarsi, e stare da solo con i suoi pensieri.
Dall’alto guardava quello che lo circondava.
Il cielo stava riprendendo il suo colore originale, nell’aria, solo il fruscio del vento, non più spari, non più bombe, non più urla soffocate, solo il bisbigliare dell’aria.
Nella sua mente, passavano immagini di quelle poche ore.

Rivedeva ogni singola azione, ogni singolo istante, strinse i pugni.

 

***

Sentiva le bombe esplodere.
Le cinque bombe che aveva posizionato, come richiesto dal Tenente.
Le sentiva esplodere, una ad una.
Sentiva dei passi, i suoi passi, mentre correvano verso una voce, una voce rinchiusa in una cella, la voce di Billy, che lo chiamava, insistentemente, che chiedeva aiuto, perché voleva essere aiutato da lui.

Lo vedeva raggomitolato, vicino al letto, chiuso in se stesso, mentre piangeva.
Le braccia di James che lo avvolgevano, la sua voce che lo rassicurava, le sue mani che lo liberavano dalla catena.
Vedeva i suoi occhi verdi, si sentiva quasi fulminato dall’intensità di quello sguardo, lo stesso sguardo che gli rivolgeva ogni giorno, da quando gli aveva lasciato credere che fosse un traditore.

Poi il loro chiarimento, i loro sorrisi, la fiducia mai persa tra soldato e Caporale, la loro amicizia, che portò Billy ad abbracciarlo, e quasi sentiva il calore del suo corpo sul petto, la stretta di Billy che lo teneva vicino a sé, una stretta che non avrebbe mai dimenticato.
E poi, tutto era cambiato, tutto era andato nel verso sbagliato.
Stavano arrivando, stavano per essere al sicuro, alla base, dove  avrebbero aiutato Billy, lo avrebbero messo al sicuro, per quegli ultimi istanti di guerra.
Ma quel soldato vietnamita, era dietro di loro.
E lui, James, non se n’era reso conto: non l’aveva visto mentre li spiava, non lo aveva visto mentre li seguiva, non l’aveva visto puntargli l’arma contro.

Ma Billy sì.
E Billy, si era sacrificato.
Lo aveva spinto per terra, lo aveva salvato, aveva messo la vita di James come priorità, e si prese quei colpi al posto suo.

Vederlo cadere a terra, era stato qualcosa di scioccante.
La corsa verso la salvezza, la corsa fatta da James per portare Billy al sicuro, nelle mani di Robert: era un ottimo medico, e lui era sicuro che l’avrebbe salvato.
Billy che diventava sempre più debole, sempre più pallido.
Billy che gli chiedeva un giuramento, prima di lasciarlo.

***

 
Gli occhi di James erano rossi, lacrime rigavano il suo viso.
Piangeva in silenzio, il Caporale Phillips, su quell’albero.
La guerra del Vietnam era finita.
L’America aveva perso.
Il giorno dopo saprebbero tutti tornati a casa, dalle proprie famiglie.
E Billy.. era morto quel giorno stesso.

Il Caporale Phillips piangeva, per ogni soldato morto in quegli anni.

James Phillips invece, piangeva per un amico che non avrebbe mai scordato.

Un amico che aveva dato la vita per lui, un amico che non meritava di morire il giorno della fine di quella guerra.

L’Eroe dell’America, l’Eroe di quella guerra, non meritava di morire quel giorno.




 

Note di Nanek
Eccomi!! Come promesso, ecco il penultimo capitolo insomma..
Sono stata veloce vero? Mi faccio i complimenti da sola..
Aaaaahhh avete visto? James non è un traditore!! Era in missione segreta lui u.u non avrebbe mai tradito l’America u.u
E ora la guerra è finita.. e si torna a casa..
e..
sì insomma..
non riesco neanche a scriverlo…
Billy non c’è più =(
So che alcune di voi diranno “ecco, storia bella e lui deve morire”, e mi scuso se sono sprofondata nella banalità.. però.. Billy doveva essere l’Eroe, certo anche James è un eroe, ma Billy.. Billy è un Superhero, e questo suo sacrificio, mi è costato molto, sono affezionata al mio giovane White, ma credo che.. sì, insomma.. che sia giusto così.
Ormai dico cose senza senso, ma la tristezza di questo capitolo è tale che non riesco a formulare qualcosa di decente.
Non ho altro da dire, tranne un : a breve metterò il capitolo finale, e spero che vi piaccia; poi dico Grazie alla Tomma, per la sua recensione alquanto originale, e spero di non averla fatta piangere/arrabbiare con questo capitolo.. spero tu possa perdonarmi! <3
Ma Grazie anche a tutte voi che leggete <3
A presto
Nanek
 

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Capitolo 10
*** 21 guns ***


Capitolo 10

21 guns
 

(questa canzone merita ;) http://www.youtube.com/watch?v=-6xEqHUDC80 )
        

 
Un mese dopo.

-Charlie, mi puoi dare una mano? Questa cravatta la odio- chiese il Caporale James, davanti allo specchio.

Le mani di sua moglie Charlie arrivarono subito, all’altezza del suo collo, e fecero il nodo a quella cravatta nera.
Charlie indossava un vestito scuro, lungo fino alle caviglie, un velo nero sui capelli, l’espressione persa nel vuoto; James indossava un completo scuro, gli occhi fermi sulle mani di sua moglie.
Ashley sedeva su una sedia, mentre li aspettava, anche lei priva di vitalità quel giorno.
In casa Phillips regnava il vuoto.
Anche il tempo sembrava essere in sintonia con loro: la primavera si era come trasformata in gelido inverno, il vento soffiava forte, le nuvole grigie erano protagoniste, un temporale si nascondeva dietro l’angolo.
Charlie prese per mano la bambina, accennando un lieve sorriso, mentre James, andava a prendere la macchina, in garage.
Era passato un mese dal suo ritorno dal Vietnam, era passato un mese dalla morte di Billy White, e il funerale, si sarebbe celebrato quel giorno, dopo un mese.
Arrivarono al cimitero di Naperville dopo un’ora di strada, il cimitero dove si sarebbe svolto quel funerale.

La famiglia Phillips si avvicinò, James teneva sua figlia in braccio, mentre con l’altra mano, stringeva a sé sua moglie.
Si sedettero nei primi posti liberi, e dopo una quindicina di minuti, la cerimonia iniziò.
Donne che piangevano, i suoi stessi soldati che fissavano la bara di legno vicino alla fossa già pronta ad accoglierla, i Generali, il Tenente, Robert, tutti c’erano, non mancava nessuno all’appello, c’era anche Paul, quel giorno, che piangeva appoggiato al tronco di un albero.
Fu il momento dei saluti finali, e uno ad uno, qualcuno raccontò qualcosa del giovane White: i suoi fratelli, sua madre, suo padre, lo stesso Paul, tutti sembravano aver qualcosa da dire, qualcosa da ricordare di quel giovane soldato semplice, morto nel momento sbagliato, quando tutto era finito, quando tutto era concluso.
James si alzò in piedi, e dopo aver lasciato un bacio sulla tempia alla sua Charlie, si avvicinò: anche lui aveva qualcosa da dire.
Tossì, cercando di schiarirsi la voce, tossì, per mandare indietro un singhiozzo che si stava impadronendo di lui.

-Il giovane Billy.. Billy Elliot lo chiamavo- cominciò.
-Credo di dovergli dire tante di quelle cose, che non so da che parte cominciare- abbassò lo sguardo, e fu la fine per i suoi occhi azzurri: pieni di lacrime, che si lasciarono andare a singhiozzi più forti, che lo devastarono, tanto da non riuscire a farlo parlare.
Sua moglie Charlie gli si avvicinò, e lo portò lontano, James non era ancora pronto a dirgli addio, a dire addio a quel giovane, quel giovane che aveva lottato per lui, per loro, che era morto tra le sue braccia, per salvargli la vita.
 

Passò un’ora e mezza, prima che tutti se ne andassero, e la tomba di Billy si ritrovasse deserta.
Charlie ed Ashley lo aspettavano in macchina, mentre lui, James, si presentò di nuovo davanti alla foto di Billy: i capelli castani, più lunghi, non rasati, gli occhi grandi e verdi, gli occhi di un ragazzo fin troppo giovane per essersene già andato, il viso che sorrideva all’obiettivo, che sorrideva a James, che lo stava fissando.
Si sedette davanti a lui, con le gambe incrociate, e sospirò a lungo, prima di cominciare a parlargli.

-Scusami per prima, ti giuro non so che mi sia successo, soldato- cominciò James, accennando un sorriso.
-Billy.. cosa ti devo dire Billy? Credo che le mie parole siano davvero scontate in questo momento sai?- continuava ad interpellarlo, come se Billy potesse essere davvero lì a rispondergli.
-La verità è.. che non riesco ancora a capacitarmi di questa cosa, Billy, non riesco ancora a credere che tu sia morto davvero- confessò a quella foto, cercando di far indietreggiare le nuove lacrime da versare.
-Sai soldato? Io e Charlie vogliamo un altro figlio- annunciò, come cambiando discorso.
-Vogliamo che sia un maschio, voglio chiamarlo come il mio salvatore, voglio chiamarlo Billy-continuò –e voglio che abbia gli occhi grandi e verdi, voglio che ti assomigli, giovane White, che sia esattamente come te- una lacrima.
-Voglio che sappia lottare, voglio che sia coraggioso, come lo sei stato tu, voglio che sappia essere l’amico perfetto che tutti cercano, voglio che sia come te Billy- rimase in silenzio, mentre si asciugava la guancia.
-Io.. io non lo so Billy, io.. non so che parole usare per ringraziarti Billy, tu.. tu mi hai salvato, soldato, per due volte.- un singhiozzo lo bloccò.
-Hai salvato la mia vita, proteggendomi da quelle pallottole, che ti hanno portato alla morte- lacrime che rigavano il viso, lacrime calde.
-Ma tu, hai salvato la parte di me che più mi è cara: il mio rapporto con mia moglie- confessò velocemente, deglutendo a fatica.
-Ho letto le lettere che le scrivevi, Billy, le ho lette tutte, e mi è mancato il coraggio di dirle che sei stato tu, perché, sono perfette, sono esattamente come le avrei scritte io, tu eri la copia esatta di me- si portò le mani agli occhi.
-Billy, perché tutto questo? Perché a te? A te così simile a me? Tu meritavi di vivere, meritavi di incontrare la tua “Charlie”, come era successo a me; perché, invece, eri così convinto di non tornare vivo da quella guerra? Dimmelo Billy, perché io non so darmi pace, non so pensare ad altro, non riesco a darmi una spiegazione, è tutto così sbagliato- e un singhiozzo più forte lo bloccò definitivamente.

James piangeva sulle sue mani, sentiva gli occhi bruciare come non mai, le mani tremavano, il petto sobbalzava troppo violentemente ad ogni singhiozzo.
Cominciò a piovere.
James rimase immobile sotto la pioggia, sembrava che il cielo stesse piangendo per quella giovane anima, appena salita al cielo, la giovane anima di un ragazzo sensibile, un ragazzo che si era battuto per il valore dell’amicizia, e che aveva perso la vita quasi per sbaglio.
Il giovane Billy White si era sacrificato per salvare la vita a quell’uomo, per salvare la sua vita già formata a Chicago, dove ad aspettarlo c’era la donna della sua vita, insieme a sua figlia: Billy si era sacrificato, Billy aveva rischiato per poterli vedere insieme, di nuovo, e quella volta per sempre, Billy aveva fatto della sua missione una ragione di vita, l’aveva intrapresa mettendoci anima e cuore, ad ogni costo, pur di far tornare James a casa, dove ad accoglierlo c’era la sua famiglia, la sua casa, l’amore di cui tutti sentono bisogno.

-Non l’abbandoni di nuovo, Caporale-
Una voce.
James alzò lo sguardo di soprassalto.
Da dove veniva quella voce? Cos’era stato?
-Non l’abbandoni-
Ripeteva quella voce, che lo spaventò.
Forse è solo la pioggia. Pensò James tra sé.
Ma quella voce, flebile, sussurrata, continuava a ripetergli quelle parole.
-Non l’abbandoni, non merita di esser lasciata sola.-

James si guardava attorno, non c’era nessuno vicino a lui, era solo lui e la pioggia, nessun altro.
La pioggia si fece più lieve, fino a smettere di scendere.
Un raggio di sole, si fece spazio tra le nuvole, e illuminò la mano di James, facendogli sentire il calore, come se un’altra mano si fosse posata su di lui, la mano di quel soldato.
James alzò lo sguardo, verso il cielo, verso quello spiraglio di luce.
Gli parve di scorgere la sua presenza, la presenza di quel giovane soldato.
Ricordi di ogni tipo gli balzarono alla mente.

Il primo giorno che lo vide, la sua strana assomiglianza con Charlie, il suo essere fragile,  magrolino, inesperto, pauroso, l’ultimo arrivato, l’ultimo da proteggere.
Gli parve di scorgere la presenza di quel giovane, sentire il suo calore, che trasmetteva in ogni istante, la sua voglia di dare una mano, la sua voglia di stare ad ascoltare, la sua pazienza, il suo essere così immaturo, il suo strano modo di credere alle favole e all’amore vero.
Sentiva la presenza di quel soldato, che l’aveva salvato due volte, che aveva preferito la vita di un suo superiore alla propria.
Il cuore batteva forte, al pensiero di Billy che rispondeva a Charlie, il cuore batteva forte mentre se lo immaginava nella sua stanzetta, con la sua macchina da scrivere, mentre pensava a come fare per tirarla su, mentre pensava a come avrebbe reagito lui.
Il cuore batteva al ricordo di loro due e dei loro momenti da soli, mentre la loro amicizia aveva libero sfogo: quando si lavavano la divisa nell’acqua di un fiume, quando si raccontavano le loro esperienze con le donne, anche se Billy, di esperienze ne aveva davvero poche, o quei momenti di fratellanza, quando Billy voleva essere abbracciato, in un momento di panico, di paura, di timore, timore della morte, timore della sofferenza, o semplicemente: paura di dimenticare cosa significasse provare affetto.

La mano di Charlie si appoggiò alla spalla di James, riportandolo alla realtà.
Lo incitò ad alzarsi in piedi, per poi avvolgerlo in un abbraccio.
Ashley era dietro di loro, e appena li vide abbracciati, si avvicinò, avvolgendo le sue piccole braccia alle loro gambe.
-Coccole!- esclamò la bambina, facendo sorridere i genitori.
-Chi è lui, papà? Non mi ricordo il nome- chiese rivolgendosi a James.
-Si chiamava Billy, piccola mia, era.. un mio amico-
-E adesso è in cielo papà? Insieme agli angeli?- chiese ingenuamente.
James le sorrise, e annuì –Sì, ora lui è un angelo- concluse, facendole cenno di correre in macchina: l’avrebbe portata al parco giochi.
La bambina spalancò gli occhi, incredula, e corse verso la macchina.

Lui e Charlie restarono nuovamente soli, a guardarsi negli occhi.
-Non abbandonarmi- si lasciò sfuggire dalla bocca James, abbracciando sua moglie.
Le mani di Charlie lo strinsero ancora più forte, per poi passare sul viso di lui.
-Jamie, io ti amo, non ti lascio, mi sono marchiata la pelle di te- recitò lei, ricordando una delle tante lettere scritte da Billy.
-Non oso chiederti un bacio, mia Charlie- sorrise lui –ma credo di averne davvero bisogno.- concluse il Caporale Phillips, avvicinandosi alle labbra della sua piccola Charlie.

Labbra che non aveva mai dimenticato in quegli anni di guerra, labbra che avrebbe potuto perdere, labbra che sapevano di lei, labbra che portavano un po’ di quiete al suo animo tormentato.
Baciava sua moglie con la stessa voglia di quando era adolescente, baciava sua moglie e il suo avvenire non sembrava più così buio e incerto.
Sorrideva in quel bacio, con le mani che la stringevano in vita; sapeva che Billy, in qualche posto nel cielo, tra le nuvole, lo stava guardando, sapeva che stava sorridendo alla vista, sapeva che quell’immagine di loro due, insieme, uniti, gli faceva battere il cuore.
Billy non esitò a farsi sentire in quel momento, confermando le idee di James, che quando sentì quei colpi, non fece altro che stringersi ancora di più a Charlie, come per sentirsi protetto.

In lontananza, provenivano dei colpi.
Per la precisione spari.
Sparavano in aria, altri soldati.
Sparavano ma non ad altre persone.
Puntavano al cielo.
Verso le nuvole.
Sparavano.
Ventuno colpi di fucile sparati al cielo.
Per onorare un soldato morto in guerra.
Per onorare il suo coraggio.
Per onorare la sua devozione nei confronti della propria patria.
Ventuno colpi sparati al cielo.
Fumo, bianco, che si perdeva nell’aria.
E rompeva il colore naturale del cielo.
Questi spari sono per voi, per ricordarvi tutti, soldati.
Questi spari sono solo per voi, per ringraziarvi, soldati.

Tutto questo è per ricordarti un’ultima volta..
Mio giovane amico,
unico e speciale,
difficile da trovare,
difficile da dimenticare:
Billy White.
 

 
THE END

 

Note di Nanek
Posso dire che ho i brividi da sola? Cioè, non per quello che ho scritto, che magari è abbastanza sciocco quello che scrivo, ma ho i brividi perché: 1- ascoltare 21 Guns e fare questo capitolo è da lacrimoni 2- è finita pure questa storia.
Ci tengo a fare una piccola precisione: mi hanno detto che i 21 spari di solito non sono per i soldati semplici, di solito sono per persone con un grado più alto, ma.. boh, io sono trasgressiva e ho dedicato 21 spari a tutti i soldati.. perché io sono come James e ci tengo ad ognuno di loro u.u
Altra precisione da fare.. no era solo questo..

Bene, ho i lacrimoni agli occhi a immaginarmi questa ultima scena, di James e Charlie e Billy che in qualche modo è lì presente T.T
Mamma mia questa storia.. ricordo ancora come mi è saltata in mente *mi sento una nonna*, e devo dire che.. sì, mi mancherà un casino; mi mancherà il nostro Billy che scrive lettere per Charlie, mi mancherà Charlie e il suo amore per James, mi mancherà James e il suo essere così.. unico, sì ho una cotta per James, non so se si era capito, mi mancherà anche Paul però!! Io amo quel postino. E anche il medico Robert mi mancherà.. sì insomma mi mancheranno tuttiiii

Beh che dire ancora? Passiamo a voi, poche ma buone, che hanno seguito, messo in preferite/ ricordate, o che hanno recensito questa storia <3
Tomma e Malika, voi in primis assolutamente, per tutto, per aver recensito ogni singolo capitolo, per avermi fatto continuare questa storia, per aver apprezzato tutto (o quasi) quello che ho scritto, spero che.. boh, sì insomma, vi sia piaciuto tutto questo, e spero sempre mi possiate perdonare per aver fatto quel piccolo torto a Billy <3 vi voglio bene <3
elelove98  kikketta4ever Mrs_Moony  ChiccaGump elspunk93 myllyje  Panna Montata grazie di cuore a tutte voi <3 per aver seguito questa storia, per averla ricordata, per averla messa in preferite, sì insomma, grazie di cuore per tutto <3
Vi lascio qui sotto delle foto, ossia: questi sarebbero i visi che ho scelto per Billy e James =) poi se voi avevate già in mente altro, non sarò di certo io a farvi cambiare idea ;) sì, ho scelto solo loro due XD ma non perché mi sono dimenticata degli altri, ma semplicemente perché appena le ho viste ho detto “Sono loro!” =)
Vi ringrazio ancora per tutto <3
E dedichiamo pure questa storia, come sempre, a lui, il mio Nek, la mia fonte principale d’ispirazione <3
Un abbraccio a tutte =)
Nanek


 

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