Trilogia del Cimitero

di Cheonefer86
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. I morti non sorridono ***
Capitolo 2: *** 2. Il sorriso di un agnello ***
Capitolo 3: *** 3. Ad irae diem ridere ***



Capitolo 1
*** 1. I morti non sorridono ***


Severus Snape era morto

Questa è la prima storia di quella che io ho definito la “Trilogia del Cimitero”, quindi ce ne saranno altre due, diverse ma legate.

L’input per questa storia è un discorso complicato in cui c’entrano concerti sacri, canti gregoriani, l’amore per cose oscure e un po’ macabre e via discorrendo, e spero che sia comunque una buona lettura, come sempre qualsiasi opinione, commento o critica costruttiva sono sempre ben accetti ;)

 

 

1. I morti non sorridono

 

 

Severus Snape era morto.

Tutti adesso lo consideravano un eroe che aveva sacrificato la propria vita per proteggere gli altri, subendo l’odio e il disprezzo di gran parte del Mondo Magico, ma questo non cambiava il fatto che fosse morto.

La sua tomba era lì, un bianco che non era più candido come quando avevano posato la lastra immacolata sulla terra, a ricordare la sua pelle cerea colorata dai vapori delle innumerevoli pozioni che aveva preparato nel corso della sua vita; quei caratteri di fattura semplice erano di un nero così corposo da sembrare realizzate da poco, una tintura forte e luminosa com’erano stati i suoi occhi a lungo nascosti da un velo di dolore.

C’erano anche dei fiori che qualcuno osava porre su quella pietra fredda che proteggeva il corpo di Snape come niente e nessuno era stato in grado di fare per la sua vita.

Fiori di diverse specie e colori, come diverse erano le mani che li deponevano a terra.

 

Ronald Weasley quella mattina era disperato.

Non solo era stato costretto a tornare a scuola – nemmeno l’aver sconfitto Lord Voldemort era un’argomentazione favorevole a supporto dell’inutilità di proseguire gli studi – lamentandosi per giorni insieme a Harry mentre Hermione non la smetteva di parlare, parlare e parlare.

Cominciava a capire l’esasperazione del loro professore di Pozioni nei confronti di quell’ammasso di capelli castani, molte volte non sapeva dargli torto.

Severus Snape però era morto.

E questo nessuno poteva cambiarlo.

Il secondo quesito che lo aveva fatto disperare era: perché sarebbe dovuto andare fino a quel cimitero a mettere dei fiori che gli avevano già irritato il naso?

Ronald Weasley non lo sapeva, ma lo sguardo truce della madre era stato un motivo più che sufficiente per evitare di fare domande e andare dove, in ogni caso, la signora Weasley lo avrebbe spedito a calci.

Perché lui? Cosa c’entrava con Severus Snape?

Ronald Weasley non sapeva nemmeno questo.

 

Era arrivato da poco al cimitero e già aveva i brividi, non tanto perché era un cimitero e c’erano dei morti, dei cadaveri, delle ossa o dei fantasmi, ma perché c’era lui, Severus Snape e benché fosse morto gli incuteva ancora timore.

Ronald Weasley sapeva che era una cosa da stupidi, avrebbe dovuto guardare una lapide e dei caratteri incisi su di essa, non il viso del suo, ormai ex – anche se “ex” non era propriamente la parola esatta – professore.

Tra le dita teneva un mazzo di fiori di cui non sapeva assolutamente nulla, tantomeno quali nomi avessero o a quali specie appartenessero, era una cosa che non gli interessava, voleva solo poggiarli sulla tomba e andarsene di corsa da lì.

Avrebbe preferito tutto a quella “visita”.

 

«Sei solo una lapide, non mi fai paura. Solo delle lettere e non mi fate paura.» ripeteva per cercare di convincere se stesso, ma Ronald Weasley sapeva che bastava anche solo il nome del mago che giaceva sotto terra, per trasalire al ricordo di tutto quello che lui e i suoi amici avevano passato tra le grinfie di Severus Snape. «Non mi fai paura!» urlò alla pietra.

«Bu!» una voce da dietro le spalle gli gelò il sangue, immobilizzandolo con gli occhi spalancati più di quanto una persona normale potesse spalancare, sentiva il respiro freddo sulla pelle, gli si fermò il cuore e pensò che stesse per avere un infarto nonostante la giovane età. Gli si drizzarono tutti i peli del collo.

Si voltò lentamente verso la fonte di quella voce e non appena scorse un pallido viso così familiare incastonato da lunghi capelli neri, fece un passo indietro e urtò contro la lastra di pietra perdendo l’equilibrio. Si ritrovò a terra a fissare il fantasma di un uomo che era morto da alcuni mesi.

«Tu sei morto.» disse spaventato mentre cercava di rialzarsi.

«È diventato intelligente, signor Weasley.»

«Lei è morto!» ripeté un Ronald Weasley visibilmente turbato che stava assumendo la colorazione tipica di un fantasma. E ne stava guardando uno.

Indietreggiò come se avesse paura, anzi, ne aveva e come, inspiegabile visto che era cresciuto con fantasmi che sbucavano da ogni angolo del castello di Hogwarts, ma quella vista, quell’uomo, non erano normali.

«Tu… lei… i colori sono sempre gli stessi! Non è un fantasma, puzza di pozioni e i fantasmi non puzzano di pozioni! I fantasmi non puzzano!»

Severus Snape non sapeva se lasciarsi andare in una grossa risata oppure Schiantare quell’idiota di un Grifondoro, così magari si sarebbe svegliato fra un paio d’ore, in un cimitero, e avrebbe pensato di aver soltanto sognato.

Per quanto riteneva che nel sonno sarebbe stato più che altro un incubo.

Severus Snape si limitò a sorridere, per la prima volta stirando entrambi i lati della bocca verso l’alto. L’aria sembrò spostarsi e farsi fresca sotto quel sole caldo che si nascose dietro una nuvola, invidioso della luce che emanavano quelle labbra.

Invidioso e felice egli stesso che subito dopo scacciò quella nuvola per accarezzare quel sorriso che per la prima volta aveva scaldato quel mondo.

«Tu sei morto.»

«Ha finito di dire sempre le stesse cose?»

«Ma lei sorride! Snape non sorride!»

Severus Snape continuava a sorridere sebbene cominciava a spazientirsi, incurante del sole che continuava a stringere e sciogliere quell’abbraccio con la nuvola, incurante del pallore spaventoso che stava via via assumendo il viso di Ronald Weasley.

Avrebbe davvero voluto ridere, ma era veramente chiedere troppo alle sue labbra.

Ronald Weasley continuava a mettere un passo dietro l’altro, mentre Severus Snape avanzava verso di lui, pian piano, lo vedeva impaurito e pallido con i fiori ancora stretti tra le mani.

Quei dannati fiori, avrebbe dovuto capire che non gli si sarebbe prospettato nulla di buono, al primo segno d’irritazione.

«Snape sorride, quando vuole. Vorrebbe ridere, ma si limita al sorriso. Snape vorrebbe anche Schiantarla al momento.»

«Ma Snape è morto!» urlò nuovamente il ragazzo, così forte che avrebbe fatto ridestare tutti gli ospiti del cimitero.

«Evidentemente Snape non lo è.» rispose con tutta la calma di questo mondo. «Non posso credere che sto avendo questa conversazione, in questo modo idiota, con un tipico Grifondoro idiota, appartenente al trio idiota salvatore del Mondo Magico. Ed io parlo come un idiota.» in tempi passati si sarebbe limitato a guardare in malo modo il povero malcapitato di turno e a mandarlo via oppure ad andarsene lui stesso, invece adesso, in quel cimitero, davanti a quel cespuglio di capelli rossi, non poteva far altro che sorridere.

Gli veniva naturale e questo lo stava spaventando perché non era da lui.

«Se dirà a qualcuno che sono vivo, cosa cui nessuno crederà, verrò a cercarla, signor Weasley e sulle mie labbra non vedrà l’ombra di un sorriso.» questo era più da Severus Snape.

«Chiarissimo. Cristallino. Ho capito. Arrivederci. Anzi, no, addio, qualunque cosa lei sia.» titubante si avvicinò nuovamente a Snape e gli allungò il mazzo di fiori con le mani che gli tremavano visibilmente.

Era Severus Snape, il dannato Severus Snape, vivo o morto che fosse, incuteva sempre turbamenti.

«Questi sono per lei. Se li riporto a casa, mi vedrà morto prima di pensarci da solo.» ricevere dei fiori destinati a una tomba tra le proprie dita avrebbe fatto ridere chiunque, ma Snape si limitò nuovamente a sorridere, stavolta alzando solo un angolo della bocca.

Ronald Weasley se ne andò di corsa lasciandolo da solo a sogghignare verso la sua lapide che gli ricordava inesorabilmente che su questa terra c’era stato davvero e nessuna data di morte avrebbe potuto cancellare tutto il peso e il dolore della vita che aveva trascorso.

 

Severus Snape non era morto.

E sorrise tristemente a quella verità.

 

Si era nascosto per tutto questo tempo?

Severus Snape non si nascondeva mai, l’aveva chiamata “meritata lunga vacanza”, ma adesso aveva delle questioni irrisolte da sistemare e lui non lasciava mai un disegno incompleto.

 

Severus Snape non era morto, i morti non sorridono.

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Capitolo 2
*** 2. Il sorriso di un agnello ***


Trilogia del Cimitero

 

2. Il sorriso di un agnello

 

 

A quell’ora la chiesa era deserta e quasi completamente al buio, se non per alcune candele ormai consumate che facevano una fioca luce verso l’altare spoglio, tranne che per una pala di legno che doveva essere abbastanza antica. Da lì non riusciva a vedere bene cosa vi fosse raffigurato, ma le ombre che intravedeva gli fecero pensare ad una lotta tra un angelo e un demone.

Severus Snape sentiva di averla dentro di sé quella lotta, nonostante gli anni passati e nonostante fosse addirittura creduto morto.

E avrebbe preferito che tutto restasse tale, ma la sua dannata curiosità lo aveva portato verso il cimitero che avrebbe dovuto accogliere il suo corpo freddo sul quale ancora si sentiva l’odore del sangue e dell’aria stantia della Stamberga Strillante, poteva percepirlo anche adesso.

«I fantasmi non puzzano!», di nuovo le sue labbra si stirarono in un sorriso, stavolta più ampio perché nessuno era lì a osservarlo.

Severus Snape non era un fantasma, puzzava di morte, di sangue, gli aromi che tuttora lo nauseavano erano il dolore e la colpa che non si erano ancora dissolti nell’aria, ma erano rimasti con lui come fedeli compagni, e ringraziava che nessuno potesse sentire quegli odori che sarebbero stati soltanto per lui.

L’acuto suono di una campana lo aveva spinto all’interno di quella piccola chiesa accanto al cimitero, celata da alcuni alberi e buia, proprio come sentiva la sua anima: oscura e nascosta da un fitto intrico di rami.

Camminò lentamente lungo la stretta navata centrale, i suoi passi si udivano appena sulla pietra consumata da anni e anni di preghiere e canti.

Man mano che si avvicinava all’altare, una dolce litania si faceva via via più forte, anche se piuttosto tenue rispetto a un normale livello di voce, si voltò per cercare la fonte di quelle parole, ma non vide nessuno.

Non era mai stato dentro una chiesa e pensò che fosse la suggestione a fargli sentire simili voci.

Durante la sua vita aveva letto numerosi libri riguardanti la religione, ma nessuno lo aveva fatto accostare a essa, credeva che fosse una mera consolazione inventata dai Babbani per sopportare meglio la cruda realtà della vita.

E se c’era una cosa che la Storia aveva insegnato, era che Religione e Magia non andavano per niente d’accordo.

Allora perché era entrato lì dentro?

Severus Snape non seppe dare una risposta, voleva soltanto vedere com’era addentrarsi in un posto simile, inginocchiarsi e pregare un’entità invisibile.

Si fermò davanti la pala d’altare a osservare quelle figure che finalmente gli apparivano nitide: un’ombra nera ricopriva una parte del legno, sprigionata dalle ali di un demone, e inghiottiva un agnello che urlava straziato alla madre morta accanto a esso.

Ripensò a quella notte a Godric’s Hollow e si sentì di colpo un agnello straziato che urlava alla morte e un demone nero che si era macchiato le mani del sangue della sua Lily.

Come potevano dire che fosse un eroe?

Sulle sue labbra si dipinse un aspro sorriso che gravava più di un macigno sulle spalle, si piegò per un attimo sentendo le gambe pesare e dovette stringere con forza le dita pallide sul marmo dell’altare per non cadere sul pavimento.

Era quello il peso che ti spingeva a inginocchiarti a terra?

Severus Snape si sarebbe piegato e avrebbe pregato per tutta la vita se solo gli fosse concesso un solo giorno senza quelle lame a tormentargli l’anima.

Sapeva però che questi privilegi erano riservati ai giusti, e lui non lo era.

Era il demone che con la sua ombra inghiottiva ogni cosa e il suo aspro sorriso era l’urlo atroce di un agnello, poteva sentirlo farsi agghiacciante e tagliente nella sua testa.

La luce dell’angelo che combatteva quell’oscurità la notò appena, forse perché aveva sempre pensato che in lui non vi fosse neppure il frammento di un bagliore.

Cercò di mantenere l’equilibrio fissando la raffigurazione sull’altare, ma all’improvviso quella sembrò prendere vita e animarsi davanti ai suoi occhi che guardavano sconcertati la scena che pian piano mutava.

Le ali del demone si mossero, spostando l’aria con il loro battito, poi si disciolsero in una nube cupa, densa, che quasi si poteva toccare, ma le dita di Severus passarono deformandola appena, e in un attimo si condensò intorno alla nera creatura avvolgendola completamente.

Sembrava una lugubre veste, sembrava la sua lugubre veste.

Non riusciva a capire il senso di tutto quello e non riusciva a capire perché semplicemente non se ne andava lontano da lì, ma le gambe non rispondevano, rimasero immobili, così come gli occhi non erano in grado di distogliere lo sguardo.

L’angelo cadde a terra, le ali strappate da una spira verde fuoriuscita dalla bocca del demone, il cui urlo terrificante echeggiò per le spesse pareti della chiesa, guardò il sangue che invece di colare lungo la schiena, risalì sulla pelle fino a raggiungere i capelli dorati della creatura celeste che in un attimo si tinsero di rosso.

Il rosso della sua Lily.

Severus non riusciva a trovare una spiegazione a ciò che stava vedendo, riteneva che fosse tutto frutto della sua immaginazione, un’immaginazione crudele che non faceva altro che mostrargli quel dolore e quella colpa radicati nel profondo della sua anima.

Il piccolo agnello voltò il muso per guardare negli occhi Snape, gli sorrise, un sorriso malvagio che presto si trasformò in una bocca spalancata urlante, un urlo disperato che lo fece rovinare a terra sotto il peso di tutti quegli anni che improvvisamente gli si rovesciarono addosso.

Inginocchiato sul freddo pavimento, non riusciva più a sostenere quella vista, ma l’improvviso trasformarsi di quell’agnello lo spinse a guardare di nuovo: il bianco del suo manto stava mutando, si sciolse e si addensò fino a prendere le sembianze di un bambino, una piccola creatura piangente con gli occhi di un verde così luminoso che gli accecò la vista.

Il verde della sua Lily.

E pianse, pianse tutte le lacrime che aveva in corpo, pianse guardando il suo dolce amore che spariva nell’ombra lasciando solo il piccolo agnello, pianse tutto il dolore che aveva causato con le proprie mani.

Pianse pregando invano che tutto quello finisse.

«Ti prego, basta.» furono le uniche parole che riuscì a pronunciare tra le lacrime, ma la rappresentazione continuava a muoversi e a urlare in maniera orribile.

Eia, mater, fons amóris, me sentíre vim dolóris fac, ut tecum lúgeam.[1]

Sentì una voce carezzargli il viso, ma non c’era nessuno che avesse potuto pronunciare quelle parole di cui non riusciva a comprendere il significato.

Che cosa voleva dirgli quella voce così effimera?

Lui voleva soltanto che tutto finisse, che quelle creature tornassero al loro posto con le loro sembianze originali, voleva uscire da lì e continuare a sorridere sotto il caldo sole.

C’era un motivo per il quale aveva deciso di tornare, e non era di certo rivivere ogni tormento, non in quel modo, sapeva che quei dolori e quegli errori avrebbero sempre fatto parte di lui accompagnandolo fino alla fine dei suoi giorni, erano le numerose spine conficcate nella carne delle molte rose di sangue che aveva piantato.

L’angelo e il demone si staccarono dalla pala d’altare e volarono verso il volto di Snape, con forza lo spinsero a terra, costringendolo a spalancare le labbra per potervi entrare, e le flebili fiamme delle candele esplosero in fuoco rovente e abbagliante mentre il piccolo agnello gli si conficcò nel cuore, poteva sentirlo penetrare lentamente e dolorosamente come una spada.

L’urlo che proruppe dalla sua gola scosse le pareti di pietra, facendolo tremare mentre le lacrime ancora sgorgavano come un fiume in piena.

Sentì quelle creature entrargli fino in fondo, e poi tutto cessò. La chiesa tornò avvolta dal silenzio e le candele tornarono a illuminarla debolmente.

Severus Snape si alzò da terra rapidamente e uscì correndo per allontanarsi da quella scena pietosa, incurante di quella nenia che ancora risuonava nel buio di quella chiesetta, muovendo appena le flebili fiamme delle candele consunte.

Si ritrovò a respirare nuovamente l’aria fresca che c’era fuori, sebbene il suo respiro fosse ancora spezzato dal dolore e dalle lacrime, ma quella frescura e i raggi del sole riuscirono ad acquietare un po’ il suo animo squassato da una tetra tempesta.

Volse nuovamente i passi verso la sua tomba e si fermò per qualche istante a osservare uno a uno i caratteri che vi erano vergati, come se ognuno gli raccontasse un pezzo della sua storia, come se ognuno fosse una parte della sua anima che si era riunita lì, sul freddo e immobile marmo che avrebbe dovuto accogliere le sue spoglie per sempre.

Sorrise ancora e ancora a quella vista, mentre le lacrime sgorgavano pian piano dai suoi occhi, la sua bocca gli mostrò di nuovo l’ironia di tutta quella situazione: lui che in carne e ossa osservava la sua tomba.

Le immagini che aveva visto muoversi sulla pala d’altare sembravano svanire dalla sua mente, ma sapeva che dal suo cuore non sarebbe mai stato in grado di rimuoverle, e non avrebbe mai voluto, a ricordo di tutto ciò che era stato e di ciò che aveva fatto.

I fiori che Ronald Weasley gli aveva portato giacevano ancora lì, sulla lastra di pietra, a memoria di qualcuno che teneva a lui, ma chi avrebbe potuto tenere a un simile mostro?

«Eia, mater, fons amóris, me sentíre vim dolóris fac, ut tecum lúgeam.», questa volta la voce era nitida, fuoriuscita da delle labbra reali, e ruotando appena il viso, vide un’anziana signora che veniva verso di lui, con passo malfermo avanzava sorretta da un bastone.

Le ricordava Minerva, con tutta la sua fierezza e la sua forza, ma questa donna era minuta, curvata sotto il peso degli anni, dei bianchi capelli raccolti in una crocchia, sporcati da un po’ d’argento le delineavano il volto coperto da rughe che segnavano il tempo passato, e sulle mani aveva vene così sporgenti che avrebbe potuto vedere lo scorrere del sangue.

«Cosa significa?» chiese Snape all’anziana donna. Conosceva il latino, ma il significato di quelle parole riferite a lui, gli era oscuro.

«Permettimi di piangere insieme a te.» gli rispose la donna con tutta la fierezza dei suoi anni, poteva sentire l’odore dei campi che aveva lavorato per tutta l’esistenza, della terra che gli aveva sporcato le mani, il profumo della farina.

Sorrise a quell’anziana signora, un sorriso caldo, sincero, e lei ricambiò con uno dei più bei sorrisi che avesse mai visto, sapeva di vita e di amore, aveva l’aroma della speranza e della gioia.

Gli invase il cuore.

«Nessuno può piangere insieme a me.» un soffio rassegnato di dolore fuoriuscì dalle sue labbra, ma la donna continuava a sorridergli.

«Era un suo amico? Qualcuno a cui voleva bene?» domandò la donna rivolgendo lo sguardo alla tomba.

Snape non capì subito a chi si riferisse, ma poi vide la mano indicare il suo sepolcro e sorrise di nuovo, era buffo, chiunque lo avesse trovato lì con gli occhi lucidi avrebbe pensato che stesse piangendo per l’anima sepolta sotto quel cumulo di terra, e questo lo trovava ironico.

«Era un amico col quale ho condiviso tutta la vita, ma non so se gli volevo bene, anzi, credo che non gliene abbia mai voluto e tuttora lo odio.»

«È strano venire a piangere sulla tomba di qualcuno che si odia.»

«Lo so.» stavolta nessun sorriso accompagnò le sue parole, si odiava, odiava tutto ciò che era stato e tutto ciò che aveva fatto, si odiava perché la sua vita era stata un completo disastro e si odiava perché tutti lo consideravano un eroe che non era.

«Perché ti odi?» quella domanda lo sconcertò. Chi era realmente quella donna?

Snape non rispose, si limitò a fissarla con gli occhi sbarrati per l’incredulità.

«Cuius ánimam geméntem, contristátam et doléntem pertransívit gládius.[2] Sento il tuo animo afflitto e vedo cosa ti tormenta, e questo mi trafigge, proprio qui,» e si portò una mano rugosa sul petto, «una lama nel cuore.» le dita le tremavano mentre parlava.

«Chi è lei, esattamente?» chiese turbato Severus che cominciava a vacillare sotto lo sguardo di quella donna così forte e sofferente al contempo.

«Sono il tuo demone, il tuo angelo e il tuo agnello. Sono quello che nascondi.» Snape continuava a guardarla senza capire, mentre uno stormo di corvi adombrò per qualche istante il sole prima di posarsi ognuno su una tomba diversa come se ciascuno di essi fosse il custode.

«Io non nascondo nulla, in me non c’è niente, soltanto ombra.»

«Dentro di te c’è un demone, ma c’è anche un angelo, solo che in realtà sei quel piccolo agnello che piange addolorato per le numerose perdite e per le colpe che non riesce a buttare fuori neppure con il suo canto straziato.»

«Io non sono un agnello innocente.»

«No, non lo sei, c’è molto in te, ed io riesco a vederlo, chiamala saggezza dell’età, chiamala che in questo stadio della mia esistenza posso scorgere parecchie cose che a molti sfuggirebbero, ma so quello che ho visto, so quali sfumature emana la tua anima.» Severus avrebbe voluto gridarle che nessuno poteva vedere quello che si sprigionava dall’ultimo brandello della sua anima, persa ogni volta che si macchiava di un’atroce colpa, nessuno avrebbe potuto scorgere il sangue di ogni innocente che aveva ucciso, colorargli il cuore.

«Io sono soltanto un demone.»

«Sei anche un angelo che ha pianto e si è redento con sacrificio ed espiazione.»

«Lei si sbaglia.»

«E sei anche un piccolo agnello indifeso e il tuo sorriso ne è la prova. Sai distruggere come un demone, sai essere giusto come un angelo e il tuo sorriso è quello di un piccolo agnello innocente che ancora deve avere qualcosa dalla vita.» poteva ancora vedere dei piccoli pezzi di quell’assurdo e dolente spettacolo cui aveva assistito in quella piccola chiesa. Che cosa, in realtà, aveva significato vedere tutto quello? Cosa avrebbe dovuto mostrargli quella rappresentazione?

Severus Snape aveva moltissime domande, ma ben presto dovette rassegnarsi al fatto di non avere nessuna risposta.

«Lei si sbaglia.» ripeté Snape più per cercare di convincere se stesso che l’anziana donna.

«Sai sorridere, Severus.»

«Come… come fa a conoscere il mio nome?»

«Ti ho già detto chi sono, e per questo conosco il tuo nome.»

«Cosa vuole da me?»

«Sorridi come un piccolo agnello, e prenditi finalmente ciò che la vita ha riservato per il tuo futuro.»

Un piccolo lume adagiato sulla tomba cadde facendo spegnere la tenue fiamma, Severus si abbassò per rimetterlo al suo posto, era caldo e il rosso della cera gli colorò le mani, per un attimo gli parve di nuovo di vedere del sangue scorrere tra le dita.

«Io non sono un…» alzò gli occhi dalla tomba, ma l’anziana signora era scomparsa, non c’era nessuna traccia di lei, delle sue rughe e dei suoi anni. Neppure del suo sorriso.

Quae moerébat et dolébat, et tremébat, cum vidébat nati poena ínclyti.[3]

Il flebile alito di quella nenia lo colpì dritto nell’anima con una fresca folata di vento, aveva capito che si trattava di una preghiera, un’invocazione che non c’entrava nulla con lui e si sentiva blasfemo anche solo per esservi stato accostato.  

La preghiera per qualcuno che non era, poteva vedere l’ombra del demone che aveva fatto scorrere sangue sulla terra e la luce dell’angelo che aveva sacrificato la sua vita.

Rimase in quel cimitero ancora a lungo, sorridendo amaramente alla sua vita, ai suoi dolori e ai suoi tormenti.

E a quei fiori che ancora erano lì.

 

Severus Snape sapeva sorridere.

Il suo però non era il sorriso di un agnello.



[1] Orsù, Madre, fonte d’amore, dammi la forza nel dolore perché possa piangere con te (Stabat Mater – Stava la Madre).

[2] E il suo animo afflitto, inconsolabile e dolente, era trafitto da una spada. (Stabat Mater – Stava la Madre)

[3] Era afflitta e addolorata, e tremava al vedere le pene del Figlio sofferente. (Stabat Mater – Stava la Madre)

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Capitolo 3
*** 3. Ad irae diem ridere ***


Trilogia del Cimitero

*Sigla di apertura Super Quark” XD

La parte corsiva sulla destra è il  Dies Irae”, ovvero una sequenza liturgica cristiana scritta in latino che si canta durante la Messa di rito romano per i defunti (Messa da Requiem) ed è stato composto nella prima metà del XIII secolo, e attribuito a Tommaso da Celano, ma probabilmente è autore solo della parte conclusiva.

È considerato una delle le maggiori poesie religiose del Medioevo ed è cantata basandosi su un’antica melodia gregoriana (io li amo! *-*) e narra in modo parecchio drammatico la fine dell’umanità, ovvero il Giudizio Universale.

*Sigla di chiusura Super Quark” XD

Giusto per chiarire cos’è la parte in corsivo a destra ;)

Come sempre, recensioni, critiche costruttive, appunti e quant’altro sono sempre ben graditi ;)

 

 

 

3. Ad irae diem ridere

 

Dies Irae, dies illa

solvet saeclum in favilla:

teste David cum Sybilla.

 

(Il giorno dell'ira, quel giorno che

dissolverà il mondo  in cenere:

come testimoniato da Davide e dalla Sibilla.)

 

Severus Snape era rimasto a guardare la sua tomba fino a quando il sole non era scomparso pian piano dietro quella piccola chiesa che ancora custodiva quell’incubo, il suo personale incubo che gridava da dentro la sua anima, ancora poteva vederne qualche frammento sfuggire al suo corpo e perdersi lassù, dove la luna era grande e pallida e illuminava le lapidi allineate sulla terra che risplendevano tristi a essa. Riusciva a scorgere qualche ombra muoversi davanti alla luna, danzare e combattere con quella luce.

Eri un agnello che sorrideva all’amara vita.

Sentiva quell’urlo agghiacciante farsi forte e debole tra le tombe.

Il bianco e il nero si confusero di fronte al pallido satellite, muovendosi intorno ad un invisibile asse, si condensarono lentamente in un rosso che divenne man mano più vivace, così come intenso si fece l’odore nell’aria.

Odore di sangue.

Quel porpora colorò la luna e scese, goccia dopo goccia, sulla terra, ai piedi di Severus che continuava a osservare sconcertato quelle immagini, scese sulle tombe lambendone le basi; una piccola lacrima scarlatta cadde sul suo sepolcro e discese lungo la pietra fino a incontrare le lettere che una a una iniziarono a sudare sangue.

Severus si avvicinò per toccarle, per toccare quel liquido, ma sulle sue dita non sentì nient’altro che il freddo della lapide.

Il sangue cadeva e toccò i fiori che ancora giacevano lì, in un attimo presero fuoco, un fuoco alto, caldo, splendente e vivo che durò qualche secondo fino a estinguersi lasciando nient’altro che cenere.

Un urlo agghiacciante spezzò il silenzio del cimitero e Severus si guardò intorno sbigottito per cercare la fonte di quelle grida, ma ben presto si rese conto che era stato lui a provocarlo, gli era uscito dall’angolo più profondo della sua anima.

Si gettò a terra sulle ginocchia, stringendo con forza quel sangue che vedeva, ma non c’era, e si ritrovò a ridere, una risata isterica alla luna piena che lo guardava in silenzio.

Il giorno del giudizio sta arrivando e trasformerà il tuo corpo in nient’altro che cenere, perché niente potrà redimere i tuoi sbagli e niente potrà cancellare questo sangue che ti sporca le mani.

E sorrise, sorrise amaramente al giorno dell’ira che lo avrebbe portato via, stavolta per sempre.

Sorrise mentre quell’urlo mutò in un canto inquietante che veniva da lontano.

 

Quantus tremor est futurus,

Quando judex est venturus,

Cuncta stricte discussurus.

 

(Quanto terrore verrà

quando il giudice giungerà

a giudicare severamente ogni cosa.)

 

Severus vide un piccolo verme che si muoveva tra la terra – tra il sangue – cercando di nascondersi ai corvi che da lontano lo osservavano aspettando il momento migliore per afferrarlo e portarlo lontano; tremava e timoroso attendeva il suo destino, sapeva che non poteva sfuggire alla nera e affilata scure che con un sorriso sinistro lo avrebbe portato via.

Snape si sentiva allo stesso modo, aspettava e desiderava che quel destino si abbattesse anche su di lui, nel modo più crudele possibile - che sapevi di meritare.

E sorrise al destino giudice che avrebbe giudicato la sua vita.

 

Tuba, mirum spargens sonum

per sepulcra regionum

coget omnes ante thronum.

 

(La tromba, diffondendo un suono mirabile

tra i sepolcri del mondo

spingerà tutti davanti al trono.)

 

Arriverai, arriverai davanti al destino

e ti piegherai al suo terribile volere,

le tue lacrime saranno solo motivo di risa

e saranno vano rumore perso nel turbine

che richiamerà a sé i cadaveri del cimitero

che ti afferreranno per portarti lassù,

dove sarai l’unico vivo tra i morti e

aspetterai la lama trapassarti il petto.

 

Sorriderai, sorriderai alla falce d’ombra

che ti uscirà dal petto strappandoti

l’ultimo brandello d’anima dalle ali

dell’angelo caduto in quella chiesa,

tra le fiamme della tua colpa e il

sorriso d’agnello che giace ormai

morto tra i riflessi del tuo cuore,

perso nel lago d’impalpabile sangue.

 

Mors stupebit et natura,

cum resurget creatura,

judicanti responsura.

 

(La Morte e la Natura si stupiranno

quando risorgerà ogni creatura

per rispondere al giudice.)

 

Severus continuava a sentire quella nenia, gli sembrava così terrificante e così adatta a quella che era stata la sua vita e a ciò che avrebbe trovato lungo quel ripido sentiero ad attenderlo.

Ancora inginocchiato davanti alla sua tomba, vide il sangue ritirarsi pian piano come il mare passata la marea, lo vide assorbito lentamente dal suo corpo, risalire la sua veste nera sporcandola di rosso e addensarsi in un unico piccolo punto: il suo cuore.

Un dolore acuto gli fuoriuscì dalle labbra quando sentì qualcosa di appuntito farsi strada tra la sua carne fino a lacerargli il petto.

Un fiore era nato dal suo cuore, scarlatto, vitale, profumato. Non appena lo prese tra le dita, avvizzì e i suoi petali caddero a terra, neri, mortali, fetidi.

Rinascere per morire, rinascere per rispondere del sangue versato.

Sorridi alla morte, sorridi alla vita, sorridi al dolore. Sorridi al giudizio che sarà.

 

Liber scriptus proferetur,

in quo totum continetur,

unde mundus judicetur.

 

(Sarà presentato il libro scritto

nel quale è contenuto tutto,

dal quale si giudicherà il mondo.)

 

Verrà il giorno che le tue labbra

smetteranno di sorridere alla luna

che si tinge di sangue, si colora

di rosso che crolla a terra in lettere

e lettere che parleranno di te e della

tua vita, dei dolori e dei rimpianti,

racconteranno le grida nella notte

di un cuore errante ed errato.

 

Verrà il giorno che il tuo sorriso

morirà tra le dita di coloro che

hai ucciso, delle vite che hai sciolto

tra la terra e i vermi che ti guardano,

e anche loro giudicheranno la tua

anima lacerata e ormai logora,

persa tra lampi verdi di disperazione

e suppliche nel freddo di una collina.

 

Judex ergo cum sedebit,

quidquid latet, apparebit:

nil inultum remanebit.

 

(E dunque quando il giudice si siederà,

ogni cosa nascosta sarà svelata,

niente rimarrà invendicato.)

 

Severus Snape non sapeva per quale motivo ancora si trovasse in quel cimitero, come nella chiesetta non conosceva il motivo che lo tratteneva lì, a subire tutto quello, per quanto ritenesse di meritarselo.

Si limitò ad alzarsi nuovamente in piedi, ma rimase ancora e ancora a guardare la tomba.

Avevi sorriso ai fiori, avevi sorriso al demone, all’angelo, all’agnello, avevi sorriso al sangue, avevi sorriso alla morte, alla vita. Sorridevi alla verità.

Severus Snape non era morto e avrebbe lavato con dignità ogni goccia di sangue sulle sue mani e avrebbe finalmente sorriso alla sentenza che lo avrebbe condannato come il mostro qual era.

 

Quid sum miser tunc dicturus?

quem patronum rogaturus,

cum vix justus sit securus?

 

(In quel momento che potrò dire io, misero,

chi chiamerò a difendermi,

quando a malapena il giusto potrà dirsi al sicuro?)

 

Non ci sarà paradiso per l’uccisore,

ma fiamme d’inferno t’avvolgeranno

tra le tue grida e le risa degli uccisi,

e le tue preghiere saranno vane

perché ci sarà salvezza soltanto per i giusti

e tu sei dannato, dannato e maledetto

dal veleno di un serpente che grida

e lacera ancora quel che rimane di te.

 

Non sorriderai al supplizio atteso

dalla schiera di coloro che ti volteranno

le spalle al grido d’aiuto triste

e fragile, scandito dal volo dei corvi

che ti guarderanno e aspetteranno

il tuo corpo avvizzito sul quale

banchettare e saziarsi della tua

oscurità tra i brandelli di carne.

 

Rex tremendae majestatis,

qui salvandos salvas gratis,

salva me, fons pietatis.

 

(Re di tremendo potere,

tu che salvi per grazia chi è da salvare,

salva me, fonte di pietà.)

 

«Il mio cuore non ha mai voluto credere all’idea che tu fossi morto.» conosceva quella voce, sapeva a chi apparteneva, ma era così tanto tempo che non la sentiva che gli sembrò fosse anche quello un tremendo sogno che voleva ricordargli ciò che aveva perso.

«Sei salvo, dopo tutto quello che hai passato, la vita ha avuto pietà di te e del tuo dolore e ti ha donato un’altra possibilità per vivere. Per vivere finalmente quella vita che non ti è mai stato possibile vivere.»

La vita non avrebbe dovuto avere pietà di te, la pietà apparteneva ai buoni di cuore e tu non lo eri, non ti eri mai ritenuto tale. La vita non era per te, tu appartenevi alla morte, all’oscurità. Al male.

Severus Snape non seppe perché, ma sorrise a quel viso stanco e segnato dalle rughe dell’età.

 

Recordare, Jesu pie,

quod sum causa tuae viae

ne me perdas illa die.

 

(Ricorda, o pio Gesù,

che io sono la causa del tuo viaggio;

non lasciare che quel giorno io sia perduto.)

 

Tu, peccatore che cammini su questa terra

sporcando di rosso ogni tuo passo,

ti confondi nella schiera degli scheletri

danzanti e piangenti ai piedi dei demoni

che frustano i brandelli di carne rimasti

a proteggerti l’anima, distrutta, calpestata,

divorata dai corvi che sbattono le ali

d’ombra nefasta e addolorata.

 

Tu, vile assassino che osservi la luna

che crolla sotto il peso dell’ingiustizia

e del dolore di ogni verme strisciante

tra la terra e il sangue, costretto a cibarsi

di te e di ogni malvagio che fa piangere

il cielo, azzurro, nero, e acre scarlatto,

urlante mentre i suoi pezzi cadono giù,

dove la redenzione potrà iniziare.

 

 

Quaerens me, sedisti lassus,

redemisti Crucem passus:

tantus labor non sit cassus.

 

(Cercandomi ti sedesti stanco,

mi hai redento con il supplizio della Croce:

che tanto sforzo non sia vano!)

 

Severus guardò quei petali morti un’ultima volta prima che una leggera folata di vento li portasse via, lontano, dove magari sarebbero rinati in un nuovo e profumato bocciolo, bianco e puro come lui non lo era da tempo. Li vide sfiorare la luna senza mai toccarla e poi sparire per sempre dai suoi occhi, così come ogni cosa bella era scomparsa dalle sue dita.

Minerva McGonagall lo osservava con sguardo severo ma pieno di tenerezza che poteva comporre solo una madre per un figlio, una dolce melodia che s’irradiava dalle labbra piegate in un sorriso che avrebbe voluto scaldarlo.

Un sorriso di perdono.

A cosa è servita tanta sofferenza se ancora ti trovi a camminare su questa terra?

Il disegno celeste ha per te un destino diverso, un sorriso, un perdono. Una vita.

 

Juste judex ultionis,

donum fac remissionis

ante diem rationis.

 

(Giusto giudice di retribuzione,

concedi il dono del perdono

prima del giorno della resa dei conti.)

 

«Se non perdoni te stesso, nessuno potrà farlo al tuo posto, Severus.»

«Non merito il perdono di nessuno ed io non potrò mai perdonare ciò che ho fatto.» rispose Snape voltandosi a guardare i corvi che volavano verso la luna, una scia nera sporcava quel bianco, e lui avrebbe voluto trovarsi lassù, tra il vento e la pallida luce.

«Devi farlo, prendi questa vita come un dono e lasciati ogni peso che hai portato fino ad ora alle spalle, lascia che le persone che ti vogliono bene ti aiutino a portarli e ad abbandonarli man mano che camminerai sul sentiero dell’esistenza.» Minerva si avvicinò a Severus, con passo deciso, anche se stanco. «Non pensi di aver pagato abbastanza? Quello che hai passato è stata la resa dei conti, crudele, triste, dolorosa, ma adesso sei qui, ed è venuto il momento di finirla. Basta, Severus!»

 

Ingemisco, tamquam reus,

culpa rubet vultus meus

supplicanti parce, Deus.

 

(Comincio a gemere come un colpevole,

per la colpa è rosso il mio volto;

risparmia chi ti supplica, o Dio.)

 

Severus Snape si gettò a terra sedendosi sulla pietra della sua tomba e si fermò per un istante a osservare Minerva, quella donna che ancora amava come una madre, quella donna che lo aveva odiato e lo aveva amato e nonostante sapesse di quali colpe si fosse macchiato, era lì, davanti a lui e sorrideva, un sorriso caldo, amorevole. Materno.

Davvero si meritava tutto quel calore?

No, non te lo meritavi. Avevi ucciso, avevi tradito, e lei era lì che sorrideva a un figlio come se avessi solo fatto qualche bravata.

Eri colpevole di tutto e avrebbe dovuto scorrere il tuo sangue. Non aspettavi altro e forse sarebbe finalmente giunto quel momento.

 

Qui Mariam absolvisti,

et latronem exaudisti,

mihi quoque spem dedisti.

 

(Tu che perdonasti Maria di Magdala,

tu che esaudisti il buon ladrone,

anche a me hai dato speranza.)

 

Severus si chiese se davvero la vita gli avesse dato un’altra possibilità di essere felice e per un secondo il suo cuore si fermò, contento anche solo al pensiero, ma velocemente riprese a battere, più furioso che mai, spingendo con forza sul petto, a ricordargli ogni dolore che aveva subito e che, quella speranza, lui non l’aveva, neanche se avesse pregato per tutta una vita.

Gente peggiore e più crudele di te, stava lì, a sorridere alla vita che gli era stata concessa, al perdono che forse nemmeno meritavano, eppure quelle persone continuavano ad andare avanti, felici per ciò che gli era stato dato. Non erano una speranza anche per te?

 

Preces meae non sunt dignae,

sed tu bonus fac benigne,

ne perenni cremer igne.

 

(Le mie preghiere non sono degne;

ma tu, buon Dio, con benignità fa'

che io non sia arso dal fuoco eterno.)

 

«Non sono sopravvissuto per continuare a vivere. Sono sopravvissuto per chiedere perdono dei miei peccati, per sciogliere la mia anima da quest’oppressione prima di essere finalmente libero.»

«Allora perché sei sparito per tutto questo tempo?»

«Perché non avevo il coraggio di guardare nessuno negli occhi.»

«Tu sei la persona più degna di questo mondo di essere guardata e di guardare tutti.»

Severus Snape sorrise a quelle parole, le trovava così assurde che le sue labbra si piegarono istintivamente.

Non rispose a Minerva, si gettò in ginocchio ai suoi piedi, straziato e rassegnato, ombra dell’uomo fiero e forte che era stato.

«Perdonami, Minerva. Perdonami per aver ucciso Albus, per aver tradito la tua fiducia, per aver tradito tutti. Perdona queste mani», alzò le braccia tremanti e insicure verso la strega, «colme di sangue.» che senza pensarci strinse quelle dita tra le sue.

Minerva McGonagall sorreggendosi a Severus si piegò fino a trovarsi di fronte al mago, fissò il suo viso e sorrise, sorrise a quelle parole, sorrise a quel volto, sorrise a quegli occhi.

«Brucerei all’inferno se servisse a cancellare il male che ho fatto.»

 

Inter oves locum praesta,

et ab haedis me sequestra,

statuens in parte dextra.

 

(Assicurami un posto fra le pecorelle,

e tienimi lontano dai caproni,

ponendomi alla tua destra.)

 

«Hai bruciato per anni tra i vivi, Severus. È il momento di bruciare la vita che hai dentro.»

Severus poteva ancora udire quel canto così tragico, era lontano, appena udibile, ma alcune parole gli battevano con forza la testa entrandogli dentro con dolore. Gli sembrava di sentire quella stessa sensazione che aveva provato nella chiesa quando quelle creature gli erano entrate nel petto.

Tremò al ricordo e istintivamente si portò una mano in quello stesso punto.

Il sorriso dell’agnello.

No, il tuo era il sorriso di un demone.

 

Confutatis maledictis,

flammis acribus addictis,

voca me cum benedictis.

 

(Una volta smascherati i malvagi,

condannati alle fiamme feroci,

chiamami tra i benedetti.)

 

Dormi, dormi, agnello accanto alla madre,

lontano dal mostro che urla alla notte,

che strappa quel cuore fermo dal petto

immobile e ormai morto delle anime

dannate e marchiate, supplicanti alle

fiamme che ardono i piedi sciolti

nella terra che non aspetterà altro

che accogliere il tuo spirito in eterno.

 

Dormi, dormi, ombra persa nel buio

più oscuro che gridi alla luce del sole

che in silenzio ti afferra le mani

portandoti con sé, tra i respiri delle

nuvole e i sorrisi delle madri

che t’osservano e t’attendono

nell’abbraccio del loro grembo

dove potrai sorridere libero.

 

Oro supplex et acclinis,

cor contritum quasi cinis:

gere curam mei finis.

 

(Prego supplice e in ginocchio,

il cuore contrito, come ridotto a cenere,

prenditi cura del mio destino.)

«Perdonami, Minerva. Per tutto.»

«Io ti ho già perdonato, Severus, lo abbiamo fatto tutti e ti aspettiamo a braccia aperte.» Minerva allargò le braccia come se fosse la cosa più naturale del mondo, voleva solo dimostrargli quelle parole con un piccolo gesto, sapeva che Severus non l’avrebbe stretta a sé come un figlio abbraccia la madre, lo sapeva e la sua speranza era una piccola gioia nascosta nel suo cuore.

Severus Snape rimase inginocchiato davanti a lei, non la sfiorò neppure, non ci riusciva, forse un giorno o in un’altra vita avrebbe ricambiato quell’abbraccio, ma non ora, non lì. Quella tomba vuota reclamava il suo corpo.

La tua questione irrisolta.

Severus Snape prese la bacchetta e le sorrise.

Un’ultima volta.

 

Lacrimosa dies illa,

qua resurget ex favilla

 

(Giorno di lacrime, quello,

quando risorgerà dalla cenere)

 

Minerva McGonagall non si rese conto di nulla, era tutto accaduto così velocemente che non aveva visto il gesto di Severus, ma poteva sentire quell’acre aroma di sangue diffondersi nell’aria.

I corvi erano tornati e di nuovo avevano occupato il loro posto sulle tombe e tutti guardavano il corpo di Snape dal quale pian piano si disperdeva la vita in ruscelli rossi e densi che iniziarono a solcare la terra del cimitero.

«Severus… ma che…» Minerva non seppe spiegarsi il perché di quel gesto, era così incredula che un uomo come Severus Snape potesse arrivare a tanto, adesso che era finalmente libero e perdonato, adesso che il peso sul cuore poteva dissiparsi, adesso che la sua anima poteva ricomporsi pezzo dopo pezzo.

Adesso…

Minerva pianse, pianse tutto quel dolore che aveva trattenuto, pianse mentre le lacrime andavano a incastonarsi tra le labbra che non riuscivano a non sorridere.

Sorridevano al Severus finalmente libero.

Pianse al Severus finalmente morto.

L’anziana strega dovette scegliere tra il desiderio di vederlo finalmente in pace come agognava da tempo e il sogno di vederlo felice dopo una vita di sofferenza.

Guardò per un istante la luna mentre stringeva a sé il corpo di Severus, così rilassato e leggero da ogni colpa, osservò i corvi che ancora erano lì.

Severus le sorrise, un sorriso impercettibile, affettuoso. Caldo.

E Minerva fece la sua scelta nel pianto.

 

Judicandus homo reus.

huic ergo parce, Deus:

 

(il peccatore per essere giudicato.

perdonalo, o Dio:)

 

«Perdonami tu, adesso, Severus, perché egoisticamente ti riporto alla vita.» e prese la bacchetta nascosta nella sua lunga veste verde come gli alberi che nascondevano la chiesetta.

Non dovrebbe farlo, vero? Non lo vuoi, non vuoi che ti salvi ancora, non adesso che eri finalmente libero, non hai le forze per ricominciare una vita che non meriti.

Vuoi solo andartene, libero da tutto, dove sarai giudicato per il sangue versato, dove attenderai la giusta sentenza.

 

Pie Jesu Domine,

dona eis requiem. Amen.

 

(Pio Signore Gesù,

dona a loro la pace. Amen.)

 

Severus Snape giaceva inerme sulla sua tomba che lo abbracciava, ma non lo accoglieva, il sangue continuava a fuoriuscire dal suo corpo e a colorare la pietra bianca. Il nero steso sulla pietra marmorea, candida, dove il rosso le dava vita.

Un incantesimo, una voce persa in un canto crudele.

Il sorriso dell’angelo.

Forse avrebbe davvero trovato la pace.

 

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