Fragmenta.

di Crypto
(/viewuser.php?uid=144022)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Memorie delle mie memorie. ***
Capitolo 2: *** Dàimon. ***



Capitolo 1
*** Memorie delle mie memorie. ***


 

[...] Qualsiasi cosa, del resto, è una perdita e spreco di tempo: tranne fottere di gusto o creare qualcosa di buono o guarire o correr dietro a una specie di fantasma-amore-felicità. tanto tutti finiamo nel mondezzaio della sconfitta: chiamala morte, chiamala errore. io non son bravo con le parole. [...] è possibile peraltro che uno resti per tutta la vita nell'errore, vivendo in uno stato come d'intontimento o di paura. ne avrete viste, di queste facce. io ho visto la mia.

-Charles Bukowski, Storie di ordinaria follia.






Un assoluto senso di pace avvolge la piccola isola.
Il mare che si infrange disperatamente sulla sabbia squarcia il silenzio che vige nell’aria.
Sabbia a perdita d’occhio.
L’aria si infiamma sulle onde, come un piccolo fiammifero che viene lanciato su un mucchio di vecchia carta.
Un gabbiano sorvola il luogo, vigile.
Le immensità si ricongiungono, due pezzi di puzzle finalmente ritrovati e incastonati.
Una palma proietta un’ombra su di me, affievolendo quel calore insopportabile.
Sdraiato su una sedia da spiaggia, guardo assente i granelli di sabbia.
Che contrasto ripugnante: l’infinito del mare, del cielo, dei granelli di sabbia; la finitezza della vita umana.
Ma anche la Natura ha posto i limiti su una sua creatura.
Anche il mare scoprirà i suoi limiti.
Inizia e finisce, come la vita dell’uomo.
Bartleboom e Plasson.



Un libro vuoto aspetta sul tavolino di fianco la sedia a sdraio, affamato, in attesa di cibarsi di parole.
Una penna stilo mi guarda con fare implorante.
Prendo una decisione.
Allungo il braccio per afferrare il libro, un mucchio di inutili pagine.
Lo poso sulle mie gambe.
Impugno la penna.
Guardo la copertina del libro, senza figure, senza scritte.
Solo un pozzo nero in cui perdere le mie memorie.
Solo un pozzo nero in cui gettare la mia anima.
E nasconderla dalla Morte.



Una pagina bianca mi guarda con infiniti occhi che si nascondono dalla luce del sole.
Cerco di dare un senso a quel bianco.
Il senso che non ho dato alla mia misera vita.
Mi sono ritirato in questa piccola isola, come in prigione.
Ignavo, sognatore.
In questa isola senza nome.
Anzi, un nome ce l’ha: NON-VITA.



Comincio a scrivere delle parole: “c’era una volta…”
La Morte non potrà uccidermi, ho raggiunto l’immortalità.
Ho vinto la battaglia.
Né il Tempo, né l’orgogliosa Morte, né lo Spazio potranno sopraffarmi.
In eterno vivrò.
Continuo a scrivere, scrivere, scrivere…



A mescolare la mia vita con la vita.
A dare vita ad un personaggio che avrebbe voluto una vita diversa.
Vita.




Come un guerriero sconfitto dal soldato nemico, mi perdo nelle parole.
Un guerriero lotta per qualcosa.
Ergo la similitudine è inconcepibile.




Diciamo un guerriero sperduto in una terra sconosciuta che non sa dove andare.
Che vuole restare lì, senza intraprendere un sentiero.
Che, all’ombra di un albero, si nasconde per sempre.



C’era una volta…









E' una storia puramente fantastica. Se non vi piace, c'è la bandierina critica.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Dàimon. ***


"Oggi mio nonno è stato malissimo.
E' stato così  male che non riusciva neanche a parlare, non apriva gli occhi.
Ieri, poi, non mi ha riconosciuto. Dio, mi ha fatto un male tremendo!"

 


Le parole del suo amico lo trafissero improvvisamente.
 

Un senso di dispiacere si impossessò del suo animo, stringendolo in una morsa tremenda.
Riusciva a capirlo, eccome.


Condivisione di un sentimento.


Furono necessarie poche parole, pochissime, per risvegliare il demone.
Il demone assopito dentro il suo animo, nel sottosuolo.
Il tempo lo avevo placato, nutrendolo di menzogne.

Ma ora urlava, implorava di dominarmi.
Un grido inumano lacerò l’aria.
Una forza tremenda vibrò nelle sue vene, serpeggiando negli angoli più remoti del suo corpo indolenzito.
Aprì gli occhi, quegli occhi.
Gelidi.
Vitrei.
Persi nel vuoto.
Assetati.
Affamati.

Che smania.

E’ rimasto incatenato per quasi un anno.
Ora il dolore del ricordo è riuscito a spezzare quell’ostacolo.

Dalle sue zanne colava bava.
Spalancò le sue fauci.
E gridò più forte che poteva.
Quella  cacofonia assordante rischiava di far scoppiare il mio cuore debole.
L’intensità del mio battito crebbe smisuratamente: bramava di uscire dal corpo, lo desiderava troppo.
Avevo paura del demone.


La notte scorreva lenta, e nella casa regnava il silenzio. Dormivo, cullato da una forza rilassante: ah,che pace!
Un secondo, ed il mondo si ribaltò. Sentii d’un tratto un suono opprimente, cupo come non mai. Cercai di tapparmi le orecchie, controvoglia, per continuare a dormire, dato che tra poche ore avrei dovuto affrontare un viaggio faticoso e decisamente lungo. Nonostante premessi con tutta la mia forza, quel lamento riusciva ad infiltrassi nei timpani. Allora afferrai violentemente le coperte e sgusciai sotto di esse. Mi misi appollaiato, le ginocchia contro le costole, le mani sudate ed  intrecciate. Una fonte di calore mi investì il volto. Cominciai a sudare copiosamente. Il pigiama di cotone cominciò ad appiccicarsi alla pelle. Necessitavo di stare alla larga da quel fuoco. Respirai profondamente e, sollevando le gambe, strattonai con una spinta il piumone. Un po’ d’aria. La porta della mia camera era chiusa. Un senso improvviso di claustrofobia mi paralizzò e mi tenne inchiodato al materasso. Una terribile ansia attanagliò il mio cuore. Non erano rari quei momenti, ma ormai c’avevo fatto abitudine. La mia immaginazione non tardò a svegliarsi, così fuggì lontano dalla dimensione reale e cominciai a fantasticare. O meglio, scappò a gambe levate dalla mia stanza. Quei lamenti potevano significare una sola cosa.
Una.
Sola.
Cosa.
Erano così fastidiosi, così colmi di dolore, così insopportabili…
Sì, avevo capito da tempo chi stava soffrendo così brutalmente. E avrei dato qualsiasi cosa pur di vederla serena. Ma lei, la serenità, non l’aveva mai conosciuta. Le era del tutto estranea.
Completamente estranea.
E forse quel Dio non era così buono da mandarle una dose di quel farmaco definito tranquillità, anche una piccolissima porzione.
Anche solo un granello.
Uno.
Per vedere sul suo volto un sorriso.


Mi vestii velocemente, ero troppo nervoso per badare a simili sciocchezze. Mi rinfrescai la faccia gettandomi acqua gelata, e avanzai verso la stanza. Era buia. Dalla serranda filtravano piccoli bagliori di luce arancione. Troppo piccoli per illuminare il suo volto.
La stanza era pregna, traboccante, colma di dolore.
Quel lamento, Dio come fu straziante! Mi accostai al suo letto e le presi la sua mano tremante e fredda, coprendola con la mia, quasi a proteggerla. Non riusciva neanche a respirare, tanto era morbosa la smania di quel parassita di indebolirla, di svuotarla.
Era una reazione a catena.
-Nonna, io devo andare. Riprenditi subito.-
E  le diedi un bacio sulla mano.
E le diedi un bacio sulla sua fronte rugosa.
E le diedi un bacio sulla sua guancia smorta.
-Di..-. Ansimava. –ver…­-. Ansimava. –ti…-. Ansimava. –ti…-. Ansimava.
La lasciai così, con il suo dolore che le stringeva il cuore, con quel mostro che all’improvviso era entrato nelle sue ossa.
La lasciai.
Per sette giorni.


Quanta ilarità c’era sul pullman. I miei amici presero  velocemente a parlare ad alta voce, a fare i cretini cafoni esibizionisti del cazzo. Ma a me non importò un fico secco. Volli essere sopraffatto dal dolore, dall’ansia, volli ascoltare quegli ansimi; volli farmi fracassare la testa da quei demoni, fino a farla scoppiare. Attaccai le cuffie al cellulare e decisi di chiudermi nella musica. Nel mio lettore musicale c’era solo una canzone. Una sola, perché quel telefono era un catorcio con una memoria davvero piccola. Cliccai col tasto sul segno “play” e la melodia partì.
Ascoltai quella canzone per sette ore. Sette intere ore. Ininterrottamente.
Accostai la tendina vicino al mio volto, avvolgendolo. E lasciai che le lacrime sgorgassero senza freni, senza interruzioni .
Lacrime amare.
Piansi, e piansi, e poi piansi più che mai, dopodiché piansi, infine piansi.

Mentre la melodia scorreva.


Sta per grandinare (no, già grandina, nel mio cuore, aggiunsi nella mia mente.)
ed io non so tremare più
stamattina cercavo qualcosa di te
e volavo lontano, immobile

Guarda quante case
sono tutte storie  d'aggiungere
nella gente speravo i ricordi di te
e mi facevo cullare, immobile

Lasciami sognare
lasciami dimenticare
lasciami ricominciare a camminare
a passi più decisi
e fammi immaginare
quanto ancora c'ho da fare
forse crescere e invecchiare
quanto ancora ho d'amare
quanto ancora ho d'amare.

Oggi è già Natale
Tutto è un carnevale  di polvere
Nei negozi compravo regali per te
E a pensarci mi gelo immobile

Lasciami sognare
Lasciami dimenticare
Lasciami ricominciare a camminare
a passi più decisi
Fammi immaginare
quanto ancora ho da fare
Forse crescere e invecchiare
Quanto ancora ho d'amare
Quanto ancora ho d'amare


Fammi immaginare
quanto ancora ho da fare
Forse crescere e invecchiare
Quanto ancora ho d'amare
Quanto ancora ho d'amare

Quanto ancora ho d'amare


Quanto ancora ho d’amare TE, NONNA.



I ricordi vorticarono velocemente nella mia mente.
La mia metamorfosi cominciò.
Divenni Mr. Hyde. Il mio demone si rigenerò, pronto.
Il suo volto era la cosa più brutta e deplorevole del mondo.
Un nero, come il colore del carbone, brillava nei suoi occhi, ora iniettati di sangue.
Era pronto ad uccidere, a sterminare tutto a costo di trovare risposte.

Mentre il mio demone vagava, io ribollivo di rabbia.
Ero in un bagno di lacrime.
Ero in un bagno di sudore.
Gridavo, gridavo come un pazzo.
Senza misura.
Senza contegno.

“Capisci, lo imploro ogni notte…imploro uno spettro ogni notte...”.

Sul mio letto mi divincolai, come oppresso da una forza invisibile.
Implorai mia nonna.
La implorai di tendermi la mano.
Di venire qui di fianco a me, a parlare un po’.
La implorai di scendere sulla terra, e di raggiungermi, affinché potessi recuperare il tempo perso con lei.
Affinché potessi viverla davvero. Ciò che non avevo fatto in sedici anni della mia vita.

Non ricevetti nessuna risposta. Il suo spettro non si fece vivo.

Il demone camminava a grandi passi sulla strada.
Il cimitero non era così lontano.
Lo raggiunse. Con un colpo del piede, distrusse il cancello ben fatto.
Era inquietante, con quei lumini accesi nel ricordo dei defunti, ma nulla lo spaventava. Nemmeno la morte.
Arrivò alla tomba di sua nonna.
Tutto giaceva nel silenzio più assoluto.
-Nonna, ti voglio qui con me, e ora. ORA!-, gridò furiosamente. Prese a pugni la lapide di marmo rosa salmone. Era così bella, con i fiori colorati.
La foto della sua nonna scivolò ai suoi piedi.
Finalmente era giunto il momento.
Prese con le sue mani il sarcofago e lo attirò a sé.
Lo aprì.
Il viso incolore della nonna gli si parò davanti.
Lui la prese e la accosto a sé, abbracciandola.
Sperava che il suo cuore non si fosse ancora raffreddato, non del tutto.
Ma non fu così.
Allora si avvicinò al suo petto, e ne tirò fuori il suo cuore.
E aspirò con le narici il suo profumo.
E così volò via in una dimensione inaccessibile, dove poté vivere con lei,
finalmente.
Per sempre.








E così il sonno intorpidì le mie membra, e scivolai nel regno di Morfeo, mentre nella mia mente rimbombava qualcosa, tre domande. Semplici.

Perché?
Perché mia nonna è morta?
Troverò mai una risposta?



E non seppi se lei fosse in Paradiso, o nell’Inferno, a soffrire eternamente, o in Purgatorio, ad espellere le sue colpe.
O semplicemente stesse riposando in un sarcofago, aspettando la putrefazione, trepidante.
Per diventare polvere.
E sbiadire per sempre.


La mia è una battaglia continua, ogni giorno. Ma non mi lascerò sconfiggere così facilmente. Combatterò, combatterò ogni giorno e vincerò quel nemico.,
mi disse un giorno, con un sorriso debole.
Ma con un sorriso.



Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1914423