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dhran e Gaia
erano lì quando le due ragazze arrivarono, mandate dal loro villaggio nella
speranza di scambiare del pesce con un po' di grano. La città di Vienne distava
solo poche miglia, inoltre molti dei paesani erano amici delle ragazze che
venivano spesso da loro su ordine della loro superiora. Con molta speranza,
Keitha e Shawnae avrebbero portato a casa anche qualche pagnotta morbida appena
sfornata.
Erano le cinque del mattino e l'aria era
ancora buia e tersa di rugiada, e quel venticello corto ma forte smorzava a
poco a poco l'umore delle ragazze. Keitha aveva previsto sarebbe stata una
mattinata fredda, perciò aveva indossato un coprispalle di pelle di daino sopra
la leggera armatura. Questa era sapientemente costituita da sottili fasce
metalliche sporgenti sul torace in due coppe, che i seni avrebbero riempito,
per poi piegarsi nuovamente verso l'interno fino all'ombelico. Il tutto
rivestito di morbida cote, dentro e fuori. Sotto il coprispalle non indossavano
altro se non la loro tunica di tessuto grezzo grigio tendente al marrone. Shawnae
emise un lungo sospiro una volta che il vento ebbe finalmente cessato il suo
turbinio mattutino, si voltò verso l'amica e si sporse dalla fitta boscaglia da
cui provenivano. Erano arrivate alle porte della città.
«Entrate e fate silenzio» disse Odhran, il
fornaio, «Siete fortunate che non vi abbiano viste»
Keitha fece una smorfia distratta «Perché?
Che male c'è, siamo qui per commerciare»
«Vorrei ben vedere, sarà anche buono ma non
possiamo andare avanti a pane tutti i giorni» continuò Odhran. «Quanti sacchi?»
«Quattro»
«Come sarebbe quattro?»
«Calmati bello, sono molto più grossi di
quelli dell'altra volta» asserì Shawnae, facendo riposare i piedi sullo
sgabello posto di fianco la sedia su cui si trovava.
Il fornaio grugnì all'inizio, poi prese i
sacchi e li lasciò cadere vicino alla moglie, poco distante da loro, che
preparava l'impasto in un enorme catino, girando con un mestolo di legno enorme
il miscuglio di latte, uova, grano e lievito.
«Ad ogni modo, come mai non avremmo dovuto
farci notare?» chiese Keitha.
«A quest'ora del mattino le guardie tendono
a sonnecchiare, ma se ti vedono e capiscono che non sei cittadino di Vienne
rischi di essere arrestata e portata al foro l'indomani, processata come nemica
di Roma e giustiziata pubblicamente in mezzo ad una folla urlante, bramosa di
sangue e odio»
Keitha si lasciò sfuggire un leggero
gridolino di paura, la sua amica invece sospirò e scosse la testa violentemente
«Dovevamo aspettarcelo dai romani, dopotutto...»
«Shawie non parlare così ti prego... Odhran
e Gaia sono cittadini romani a tutti gli effetti ma sono pur sempre nostri
amici»
Shawnae si volse a guardare la giovane e le
sorrise «Si, si, lo so... era per dire...»
«In realtà io sono solo mezzo romano, il
mio nome dice tutto!» il fornaio esplose in una sonora risata che coinvolse
tutti i presenti.
Finita la visita erano già passate le
sette. Mezzora di marcia e sarebbero giunte a Lutnag, il loro villaggio di
amazzoni con due grandi sacchi di grano e due di pane.
La loro superiora, Ide, fu molto contenta
di vederle tornare. Da quando i romani avevano iniziato a invadere le terre
della Gallia transalpina, procacciarsi il cibo diventava sempre più difficile.
La comunità di Lutnag era piccola e pacifica, e soprattutto era considerata una
vera e propria tribù di amazzoni. I pochi maschi presenti erano adibiti a
compiti preclusi alle donne, come costruire edifici, fabbricare armi, lavorare
nelle segherie e nelle miniere. L'uomo era al servizio delle donne a Lutnag, le
quali avevano una loro guida, una condottiera in grado di eccellere sia in
quanto a coraggio sia in quanto a forza fisica. Il suo nome era Teleri. Non
arrivava alle spalle del più basso degli uomini, tuttavia quando passava tra le
persone molti si chinavano di fronte a lei. Keitha e Shawnae l'avevano vista
solo un paio di volte, scortata dalle sue due ancelle predilette; la folta
chioma rossa, i deliziosi boccoli pendenti e l'enorme treccia fluttuavano con
grazia nel vento mentre questa proseguiva.
«Oh come vorrei diventare un giorno come
lei» sospirò Keitha.
L'amica la lasciò sognare per qualche
secondo prima di riportarla alla dura realtà della vita «Si Kei, un giorno
forse... ma per ora siamo semplici allieve»
Keitha se ne risentì un po' ma qualcosa
dentro di lei le fece accettare la situazione.
Le due amiche fecero colazione appena
rientrate, erano le sette e mezza esatte, e si chinarono sul fuoco appena
acceso, mettendoci sopra una larga marmitta di metallo. Fecero bollire l'acqua
e versarono del grano all'interno, mescolandolo con un po' di latte cagliato
del giorno prima. Eliminata l'acqua rimaneva solo il latte e il grano bollito.
La miscela non sembrava avere un bell'aspetto, in compenso il sapore era
soddisfacente. Dopo aver finito la zuppa d'avena le ragazze gettarono di lato
la marmitta sporca e uscirono dalla loro modesta capanna. I fili di paglia si
legavano armoniosamente con le fasce di legno che la mantenevano stabile. Lo
strato di paglia e di legname utilizzato si intensificava via via che le piogge
rendevano friabile l'intero edificio, aggiungendo nuove assi di rinforzo e
nuova paglia per il tetto. Queste operazioni valevano per tutte le abitazioni
del villaggio, che differivano solo per grandezza e non per tipo di
costruzione.
Finalmente uscite, Keitha e Shawnae
s'incamminarono verso l'area est del villaggio, la cui costruzione più
imponente spiccava per grandezza e altezza. Era una versione in miniatura di
ciò che i romani chiamavano Colosseo, ma invece di essere adibita a giochi e intrattenimento
questo edificio racchiudeva l'area in cui le guerriere amazzoni erano solite
allenarsi. Ide era già lì, aspettava che tutte le sue allieve arrivassero.
Quando anche l'ultima ebbe raggiunto il campo vennero tutte spedite dal fabbro,
di modo che le ragazze si armassero di archi, frecce e lance mentre Ide avrebbe
disposto una serie di bersagli rudimentali con fisionomia umana.
Ronan, il fabbro, fu molto contento di
incontrare le ragazze. I suoi occhi lampeggiarono di gioia specie quando salutò
Keitha e Shawnae.
«Buongiorno
mie nobili signorine. Come posso esservi utile?»
«E dai Ronan... lo sai che non sei
obbligato a usare questi toni salamelecchi con noi» disse Keitha, cercando di
nascondere l'imbarazzo.
«Nessun obbligo, lo faccio volentieri e poi
lo sapete che vi voglio un gran bene. A tutte le donne di questo villaggio»
concluse Ronan, seriamente contento, scacciando via l'amaro ricordo di essere
stato uno schiavo romano trattato come merda da chiunque. «Dunque, archi e
frecce o lance questa volta?»
«Arco e frecce per me» rispose Keitha
gentilmente, mentre l'amica stava già arraffando una lancia bella appuntita. Ronan
le porse l'arco e la faretra da venti frecce, impennaggio di piuma d'oca con
cuspidi metalliche aguzze incastonate in punta.
Si salutarono, e una volta raggiunto il
campo di addestramento Ide le ordinò per gruppi. Avrebbero fatto a turni,
arcieri prima, lancieri dopo. Keitha osservò il corpo robusto della superiora,
pur sempre molto avvenente, e poi il proprio. Non c'erano paragoni, non c'erano
muscoli su quel tenero petto colmo di sensibilità. Solo qualche vaga venatura
nelle braccia e nelle gambe. Si mise una mano sul petto e si tastò, cercando
una vaga forma di pettorali ma l'unica cosa che strinse a sé fu un morbido
seno. Guardò Shawnae e vide invece che la sua amica già iniziava ad avere un
fisico più tonico, ampie spalle e braccia muscolose, come le gambe stesse. Si
sentiva sminuita e provò invidia, non che potesse farci niente dopotutto. Non
poteva fare altro che dare il massimo e migliorarsi. Un'altra giornata era
appena iniziata e lei non si sarebbe di certo arresa lì.
Chiuso nella sua piccola stanza, Quinto
Severino era chino sui libri di storia. Il suo maestro personale Caio Marzio lo
stava appena interrogando sulla nascita della Repubblica, ottenendo però ben
poche risposte.
«Quinto, Quinto... quante volte te lo devo
ripetere, la Repubblica romana inizia dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo,
ultimo re latino di origine etrusca».
«Sì,
maestro... sono solo un po' distratto»
«Si vede. Non dirò nulla a tua madre per
stavolta, ma lo sai che ci tiene a te»
Quando il maestro si congedò Quinto tornò a
sedersi sullo sgabello dove stava studiando poco prima, le braccia a sostegno
della testa completamente assorta da mille pensieri. La scrivania era situata
proprio nei pressi della finestra e là Quinto immaginava di poter giocare
libero con gli altri ragazzi senza dover stare gran parte del giorno a studiare
gli annali e l'opera di Tito Livio Ab Urbe Condita.
Preferiva di gran lunga dilettarsi con la genesi della letteratura antica come
le scene di Plauto, da sempre applaudite per la sua grande forza dirompente sia
nella comicità sia nell'autoironia, portando all'estremo episodi quotidiani
attraverso trame burlesche e intricate.
Sua madre, Severa Severino, disapprovava
molto spesso i gusti e le scelte del figlio, cercando di fargli apprendere
soltanto ciò che per lei veniva ritenuto adeguato. Per una questione di fato il
nome le calzava perfettamente.
E intanto Quinto continuava a guardare
fuori dalla finestra, vedendo i ragazzini poveri divertirsi tirando calci a una
palla di pezza o giocando a nascondino tra di loro. Avrebbe tanto voluto essere
lì, ma la sua posizione sociale glielo impediva. Vivendo in una domus, benché
non grande e appariscente come molte altre, doveva seguire rigide regole che la
madre gli impartiva. Suo padre era morto in guerra durante una delle varie
campagne militari a seguito dell'espansione romana nel Mediterraneo, dunque
Severa aveva di fatto ereditato tutti i possedimenti del marito. La sua unica
consolazione era il fatto di essere ormai entrato nell'età in cui i giovani
come lui avevano il diritto di iniziare a scegliere per sé alcune cose come,
per esempio, uno schiavo personale.
Quinto fissò con aria sorniona una bella
ragazza dai capelli sporchi ma con un viso stupendo, rovinato dalla sporcizia,
che giocava con la sorellina. Non aveva idea del perché ma qualcosa nel suo
perizoma sembrò prendere vita. La cosa non lo sconcertò più di tanto, erano due
anni che aveva iniziato a sentire delle strane fitte ai genitali ogni volta che
si concentrava troppo su una persona che gli piaceva.
«Quinto!» La voce della madre si fece largo
dabbasso mentre il ragazzo si affrettò a sistemarsi il perizoma.
«Sì, mamma. Eccomi» disse lui, abbandonando
la sua stanzetta piena di libri e ritratti, nel quale era conservata la spada
del padre protetta da un contenitore in vetro.
Quando scese al piano di sotto Quinto vide
la madre affaccendarsi per poter uscire.
«Vieni con me»
«Dove?» Quinto aggrottò le sopracciglia.
«Nei populares di
Vienne» disse la madre facendo una breve pausa, «ormai è tempo che tu abbia uno
schiavo tutto tuo, non puoi continuare a usare quelli che tuo padre ci ha lasciato»
Un sorriso
solitario ma del tutto genuino si stampò sulla faccia del ragazzo, finalmente
chiamato ad avere qualcosa di veramente suo e personale. Gli dispiaceva per Tertia
e Licilius, che lo avevano curato e obbedito per anni, ma ormai Severa era
irremovibile. Quinto si sistemò la toga bianca con una piccola striscia
decorata in porpora e seguì la madre uscire dalla domus e infilarsi nei vicoli
a nord della città.
Keitha aveva colpito quasi perfettamente
almeno tre bersagli quella mattina. Ne era orgogliosa. La sua amica invece
aveva continuato a caricare il manichino di legno e paglia con infissi
metalliche, scagliando prima la lancia da lontano e poi impugnandola per un
corpo a corpo da distanza ravvicinata. L'ultimo colpo inferto al manichino
trafisse l'asse di legno là dove sarebbe dovuto essere il cuore pulsante di un
uomo.
Ide annuì, un leggero sorriso comparve sul
suo volto sempre torvo e cupo, vedendo le sue ragazze sudare e impegnarsi al
massimo. Quando aveva loro mostrato come usare sia una lancia sia un arco le
ragazze erano rimaste a bocca aperta per lo stupore. Piegare un arco lungo
circa cinque piedi non era cosa da tutti, richiedeva grande forza fisica. Lo
stesso dicasi per lanciare una lancia con giusta potenza e capacità di
penetrazione; tant'è che quando ne aveva lanciata una a dimostrazione, questa
colpì uno dei bersagli così forte da spaccarlo in due.
Keitha e Shawnae erano tornate finalmente
alla loro capanna dopo due interminabili ore di addestramento. Prima di tutto
avevano riempito un grande contenitore con dell'acqua e una dopo l'altra
entrarono all'interno per lavarsi. Keitha usò un unguento speciale preparato
dalle maghe del villaggio, se lo spalmò sui seni, sulle gambe e genitali,
rilassandosi una volta seduta all'interno del contenitore. Dopo toccò a Shawnae,
e l'amica si offrì di lavarla con lo stesso unguento. Shawnae annuì e lasciò
che la giovane glielo applicasse sul suo corpo, non vergognandosi di mostrarsi
completamente nuda davanti a Keitha. Quest'ultima sorrise e continuò a massaggiare
l'altra ragazza prima di sciaquarla. Questi piccoli gesti erano consuetudini
ormai tra di loro. Molte amazzoni del villaggio vivevano semplicemente da sole;
altre come Keitha e Shawnae condividevano una forte amicizia e dunque non era
vietato per loro vivere sotto lo stesso tetto; altre ancora si spingevano oltre
il normale rapporto di amicizia, non solo abitando insieme ma condividendo
anche il letto. Queste ultime facevano parte dell'ala più reazionaria delle
amazzoni ed erano quelle che erano anche più propense ad umiliare l'uomo e a
sottometterlo, che si trattasse del villaggio di Lutnag o meno.
Keitha si guardò le dita, la pelle viva le
doleva, così come pure l'intero braccio destro. Di tutte le ragazze di Lutnag
era una tra le più gracili. Shawnae lo sapeva, ma non si azzardava a frenarla
se il suo desiderio era quella di impegnarsi a tirare con l'arco. Era un suo
desiderio e l'avrebbe sostenuta sempre.
«Che
dolore! Avrò tirato una trentina di frecce oggi.»
«Sei andata benissimo. Non tutte sono
riuscite e fare tre centri come te, visto?»
Keitha arrossì e fece cenno di si con la
testa. «Sì, però adesso ho il braccio a pezzi.»
Shawnae rise, facendo imbronciare l'amica,
ma in realtà era una risata di compassionevole affetto. «Su fammi vedere,
adesso ti faccio passare la bua» disse Shawnae, prendendo in giro la giovane
seduta di fronte a lei.
Keitha fece una smorfia e si tolse la
tunica, rivelando il petto nudo, i seni ancora piccoli e sodi da ragazzina, poi
allungò il braccio verso l'amica che intanto era andata a prendere una crema idonea
per ferite e infiammazioni.
Shawnae le sorrise, sistemandosi accanto a
lei e le massaggiò a lungo il morbido braccio.
In un certo senso sapeva bene che per Keitha
lei era come una sorella maggiore. Nessuno nel villaggio era in grado di
affermare con certezza la propria età, ma Shawnae era certa di avere diversi
anni in più rispetto alla giovane di fianco a lei, ancora così piccola e vulnerabile.
Questa continuò finché l'altra non diede
qualche segno di sollievo, sentendo il dolore affievolirsi man mano che ogni
dolce massaggio dell'amica permetteva alla pelle di assorbire la crema ricavata
da piante e arbusti, poi composta e alimentata da un'aura benefica grazie ad
alcuni riti magici.
Una volta finito il processo Keitha indossò
nuovamente la tunica, mentre lo faceva diversi piccoli pendagli a forma di
zanne e teschi si scossero tra loro pendendo dal collo, risuonando gli uni con
gli altri; era una collana ricevuta in regalo dalla madre ormai morta, così
come il resto della sua famiglia.
Rimasero
in silenzio per qualche minuto, Keitha ormai non più dolorante, aspettando con
ansia l'ora del pranzo.
Quinto, al seguito di Severa, percorse con
eccitazione le brulicanti strade che popolavano Vienne. Le persone andavano e
venivano senza sosta, portando con sé quella sensazione di freneticità seconda
solo a quella dell'Urbe. Nonostante fosse piccola, Vienne contava almeno
duemila anime; una volta giunti in prossimità dei quartieri popolari era
possibile sentire il brulichio delle persone affaccendate nel proprio lavoro.
Raggiunta la piazza principale Severa si fermò, così fece Quinto a sua volta,
avendo tempo a sufficienza per guardare in alto e ammirare con orgoglio la
grande statua d'oro raffigurante una creatura celestiale: questa portava la
toga e pareva suonasse l'arpa, reggendosi in perfetto equilibrio con un solo
piede sul pilastro marmoreo che la sosteneva.
Quinto fu strattonato bruscamente dalla
madre, che lo costrinse a voltarsi e a seguirla fin oltre la piazza, situata
poco prima del fiume, là dove era più facile trovare mercanzie esotiche
importate da Roma e non solo. Tra i vari banchi c'era un enorme vespaio di persone
che qua e là comperavano oggetti particolari delle popolazioni assoggettate a
Roma come bracciali, anelli, tessuti, così come armi e armature. Quinto non era
molto interessato a questi generi di merce tipo i bracciali d'osso, tuttavia
non avrebbe negato di non desiderare avere un'armatura e una spada nuova.
Poco più in fondo, verso le porte della
città, c'erano i mangones, ovvero i mercanti di schiavi,
intenti ad attirare con ogni mezzo chiunque capitasse a tiro. Uno di questi
intercettò lo sguardo di Severa che annuì e le venne incontro.
«Buongiorno mia signora, come posso
servirla? Abbiamo dei pezzi rari e deliziosi che le potrebbero farle veramente
comodo» disse affabile il mercante, prima di mostrare quella che era la sua
fila di schiavi, chi grossi, chi minuti, chi magri, chi così stupidi da non poter
evidentemente eseguire nessun tipo di ordine se non quello di azzuffarsi con
qualcuno.
Il mango se la cavava
bene a parole; a suo dire ognuno dei suoi schiavi erano perfetti e capaci di
fare qualunque cosa. «Lo vede questo? Mi creda mia signora, è un vero stallone,
in grado di tenerla sveglia la notte fino all'alba!»
Severa studiò a lungo lo schiavo possente,
la barba incolta e mal rasata. Allungò le mani e ne tastò i testicoli, grossi e
duri come rocce. Per quanto ne apprezzasse ogni parte Severa fece un cenno di
diniego, cancellando il sorriso soddisfatto del mercante di schiavi.
Quinto nel frattempo si era allontanato di
poco, incuriosito dalle schiave in vendita da altri mangones.
In particolar modo una brunetta dalla pelle scura con i capelli lisci e spettinati.
Quando il mango se ne accorse strizzò l'occhio al ragazzo
e spogliò la schiava fino alla vita, mostrandone i seni grossi e morbidi che
penzolavano a ogni respiro.
«Mi spiace tesoro, non è ancora il momento
per certe cose» disse sua madre, accortosi che il figlio stava letteralmente
impazzendo di gioia per quella ragazza mora.
«Ma mamma... sei stata tu a dirmi che era
necessario che io avessi uno schiavo tutto mio.»
«Appunto, ho già acquistato il tuo nuovo
schiavo, a te basta scegliergli un nome»
Quinto rimase a bocca aperta; la madre ne
aveva già acquistato uno al posto suo. Alla faccia dell'indipendenza! Severa
aveva fatto praticamente tutto da sola.
«Mostramelo per favore» chiese rassegnato
alla madre.
«È qui vicino a me... fatti avanti, su!»
ordinò al giovane che aveva scelto per il figlio.
Questo era alto e magro come Quinto, forse
di qualche anno poco più grande, ma per il resto erano completamente diversi.
Quinto era moro e aveva una carnagione olivastra tipica dei romani, lo schiavo
invece aveva tratti decisamente nordici: pelle chiara, occhi azzurri e lunghi capelli
biondi spuntati e sciupati dalla sporcizia.
Il ragazzo fisso le catene che lo schiavo
portava alle mani e ai piedi, poi lo studiò a lungo, e si accorse di perdersi
così facilmente in quegli occhi azzurro cielo. Gli si avvicinò, gli ripulì la
faccia dallo sporco nero ormai incrostato sul suo viso e gli sorrise. Non aveva
la più pallida idea del perché ma quel giovane gli procurava la stessa
sensazione che solo una bella ragazza poteva fornirgli.
«Mi piace» disse rivolto alla madre. Gli
piaceva davvero, prova che una piccola piega si stava rendendo visibile nella
zona sud dell’ombelico.
Questa annuì e sorrise a sua volta.
«Da oggi ti chiamerai Trebonio» disse
Quinto, sfoggiando un sorriso tenero e affettuoso al suo nuovo schiavo.
Lo schiavo ricambiò con un lieve sorriso e
annuì, affascinato a sua volta dal suo nuovo signorino.
uinto era
seminudo nel proprio letto, rotolandosi lentamente di lato mentre le coperte
gli si torcevano attorno, strusciando al contatto con la pelle e formando delle
pieghe. Il sole era già alto in cielo, avvisando tutti che era mattina
inoltrata; tuttavia lui non aveva voglia di alzarsi. Aprì gli occhi e vide la
propria stanza ormai quasi del tutto spoglia: solo polvere dove prima c’erano
mobili antichi, aveva dovuto vendere persino la spada arrugginita del padre per
poche centinaia di monete d’argento. La verità era che Quinto non sapeva più
che fare dal giorno della morte della madre, avvenuta molti mesi prima.
Quinto non
sapeva neppure come amministrare i beni di famiglia, perciò, essendo male
esperto, decise di cercare qualcuno in grado di svolgere questa funzione. Che
purtroppo per lui andò male. Un certo Attilio Fabio, notaio di professione (o
almeno così diceva di essere), aveva risposto all’appello del giovane, ma
questi si era preso buona parte dell’eredità che i genitori avevano lasciato al
figlio ed era scappato via improvvisamente.
Il ragazzo
aveva quattordici anni e ormai viveva solo con il suo schiavo in una piccola
domus quasi completamente vuota.
Quinto
strizzò gli occhi con le dita per svegliarsi e vide Trebonio, il suo schiavo,
sdraiato sul pagliericcio nell’angolo della propria stanza da letto. Anche lui
era seminudo, ma al posto del subligar, perizoma indossato solo da
membri dell’alta società romana, aveva una sorta di straccio avvolto attorno
alla vita.
Provò un moto di affetto per
quel giovane che gli era stato vicino per tutto il tempo senza mai lamentarsi,
imparando sempre meglio il latino ogni giorno in più che passava. Lo aveva
assistito durante i funerali della madre Severa, per cui il figlio aveva speso
una fortuna. Funerali molto famosi per la loro magnificenza a cui prendevano
parte un gran numero di persone, specie alcune donne pagate profumatamente per
inscenare un folle dispiacere, urlando, piangendo e disperandosi, creando
un’atmosfera ancora più funerea durante la lunga e lenta processione, che
attirava anche estranei come mosche attaccate a una ragnatela. Severa venne
sepolta nel cimitero dei ricchi, dietro al Tempio Massimo della città, situato
a pochi passi dalla piazza centrale. Una volta finita la cerimonia Quinto si
asciugò gli occhi e s’impose di non piangere oltre, non riuscendo tuttavia a
tener fede alla promessa. Trebonio gli restava sempre accanto, anche se in
silenzio. A un certo punto lo abbracciò da dietro, cosa che non sarebbe stata
concessa ad alcuno schiavo, e tuttavia Quinto gli voleva un gran bene ed era
felice di sentire del calore umano scorrergli attraverso ogni fibra del suo
corpo.
«Mi dispiace signorino» disse
piano lo schiavo nordico «Mi dispiace ancora di più se penso che è grazie a sua
madre se noi ci siamo incontrati»
«Già» rispose il suo
padroncino «Non riesco ancora a crederci. Ormai non mi resti che tu»
Trebonio lo strinse più forte
ma Quinto lo scostò con fare circospetto «No. Non davanti a tutti.»
Trebonio annuì e lo seguì a
casa, dove Quinto lasciò che egli lo coccolasse finché non avesse versato fino
all’ultima lacrima di dispiacere.
Adesso che erano passati sei
mesi il dolore si era attenuato, e tuttavia il solo pensiero lo spingeva a sentirne
ancora. Finalmente si alzò dal letto, così fece pure il suo schiavo biondo.
Quinto lo abbracciò, accarezzandogli il petto nudo e glabro, proprio come il
suo, prima di dargli un bacio sulle labbra, cosa che lo schiavo gradì molto.
«Preparami i vestiti adesso,
ho bisogno di prendere un po’ d’aria e soprattutto di mettere qualcosa sotto i
denti»
«Subito padroncino» disse
Trebonio, e corse via portandogli la toga bianca con ricami porpora e i
sandali.
Dopo aver mangiato un po’ di
pane intinto nel vino, Quinto decise di fare un giro della città, pian piano
ripercorrendo molte vie a lui già conosciute. A un certo punto si ritrovò a
seguire la strada che circa sei mesi prima aveva percorso con la madre quando
avevano comprato Trebonio dai mangones. L’emozione fu forte ma decise di
proseguire, portando con sé l’amaro sapore del dispiacere.
Quinto, che portava con se
qualche manciata di monete d’oro e d’argento, una piccola parte di ciò che gli
restava, notò che la piazza e le strade che si incrociavano a formare un trivio
(prima del ponte che conduceva alla zona a sud del ponte) erano sempre
brulicanti di gente, impegnata e affaccendata col proprio lavoro. Quinto decise
di prendere la via orientale, che correva parallela a nord del fiume, e un
timido sorriso comparve sul suo volto quando vide altri mercanti di schiavi che
cercavano in tutti i modi di invogliare la gente a comprarne qualcuno.
Un mango si fece avanti
e lo fermo con una mano, indicando una splendida ragazza egizia dalla pelle
scura dal seno florido completamente scoperto. Quinto sorrise al mercante ma
fece cenno di non avere abbastanza denari per potersela permettere, benché
fosse veramente bellissima. Il mercante si strinse nelle spalle e tornò al suo
lavoro, ignorandolo e pensando agli altri potenziali compratori che invece
potevano permettersi la sua mercanzia.
Pure Quinto si strinse nelle
spalle e si volto bruscamente quando inciampò senza volere sulla tunica di una
donna sulla trentina, causando la caduta di entrambi.
«Ehi giovanotto! Sta un po’
più attento!»
«Mi scusi signora. È colpa
mia, sono così distratto ultimamente»
«Questo non ti vieta di tenere
gli occhi aperti» rispose gelida la signora. Questa chiamò due dei suoi schiavi
maschi grossi e muscolosi per aiutarla a tirarsi su, mentre due delle sue
schiave femmine ripresero a farle ombra grazie a rozzi parasole di tessuto.
Quinto si chinò in una riverenza un po’ goffa, cercando di farsi perdonare
avendo notato che la donna era una delle poche ricche matrone di Vienne. Questa
continuò a fissarlo sprezzante, poi un mezzo sorriso si stampò sulle sue labbra
sensuali e carnose quando notò che il giovane non era affatto un semplice
plebeo ma un nobile. I boccoli mori di Quinto tradirono la sua natura, oltre
che la tunica e i sandali.
«Chi sei ragazzo?»
«Mi chiamo Quinto Severino
signora»
«Oh, adesso ricordo! Sei il
figlio di Severa. Povera donna; è venuta a mancare così presto.»
Quinto sospirò e annuì,
incapace di dire altro.
La matrona lo fissò a lungo,
squadrandolo da capo a piedi, iniziando a trovarlo a dir poco interessante.
«Dimmi Quinto Severino. Cosa ci sei venuto a fare nel quartiere dei mangones
invece di preoccuparti di gestire il tuo patrimonio?»
«L’ultimo notaio a cui ho
affidato questo compito è scappato con più della metà dell’eredità che mi
spettava di diritto.» Il giovane si strinse nelle spalle, tirando un sospirone
carico d’ansia. «Fuggito chissà dove e non so cosa potrei fare per ritrovarlo.
Ormai mi sono rassegnato.»
La donna rimase a dir poco
allibita, ma non a tal punto da non sapere che gente del genere esisteva già da
molto tempo. Diede nuovamente una rapida occhiata al viso dolce e dai lineamenti
morbidi del giovane e pensò che fosse veramente bello. Talmente bello che le venne
in mente un’idea per averlo tutto per sé.
«Che ne diresti di vendere la
tua domus e venire a vivere nella mia? Ho sempre desiderato avere un figlio
mio, senza mai riuscirci quando mio marito era vivo. Ah che sciocca! Quasi
dimenticavo: il mio nome è Pomponia.»
Quinto sgranò gli occhi e si
grattò la testa incredulo «Piacere signora Pomponia, ma… Dite sul serio? Come
potrei chiederle questo?»
«Oh ma non me lo stai
chiedendo infatti, sono io che lo desidero. Sarei felice di aiutarti ad
amministrare i tuoi bene insieme ai miei, diverremo di fatto una famiglia»
Quinto era sempre più confuso,
non sapeva cosa rispondere, ma la proposta l’allettava e anche la donna era
affascinante, vestita con un bella tunica rossa e bianca dalla scollatura molto
generosa, attraverso la quale si potevano scorgere due seni belli grandi e
sodi.
«Io… non saprei… va bene»
concluse il giovane, accettando, catturato più dalla bellezza della donna che
dalla proposta.
La matrona sorrise compiaciuta
e condusse con sé il giovane, finendo con lui il giro che lei avrebbe dovuto
fare prima di tornare a casa, sempre scortati dal gruppo di schiavi sia maschi
sia femmine.
Lutnag serpeggiava di
attività, le luci delle torce brillavano nella notte mentre le guerriere
galliche erano riunite attorno a un falò, seguendo scrupolosamente i riti delle
druidesse. Stavano in cerchio, tenendosi per mano; la maga del villaggio pregava
in gaelico antico affinchè i frutti della terra fossero abbondanti, i campi
fertili, i pascoli gremiti di animali e la loro salute ottima. Comunicando
direttamente con gli spiriti della natura, le druidesse ringraziarono gli dei
per l’abbondanza di cibo e acqua, e soprattutto per aver donato alla loro
comunità figlie amazzoni forti e in gamba, capaci di difendere quel piccolo paradiso
nel quale nascevano e continuavano a vivere.
Keitha sollevò lo sguardo al
cielo, scrutando le stelle, scoprendosi a sorridere per quello spettacolo così
meraviglioso.
Shawnae la vide rapita
guardando il cielo e sorrise a sua volta; lentamente le strinse la mano più
forte mentre partecipavano al rito. «Non sapevo ti piacessero le stelle.»
«Nemmeno io» ammise la
ragazza. «Mi fanno sentire malinconica.»
Keitha abbassò lo sguardo,
fissando la maga dare ordini alle druidesse. Il fuoco scoppiettava sopra la
catasta di legno e carbonella, mentre le druidesse formavano un circolo più
piccolo, lasciando che le ragazze formassero cerchi concentrici più grandi. La
maga agitò il bastone; alla luce delle fiamme era possibile notare le rughe che
le scavavano la fronte e le guance, i capelli lunghi fluttuanti color argento e
l’espressione sofferente stampata sul viso. A un certo punto gettò nel fuoco
una polvere grigiastra e, non appena a contatto, una grande fiammata divampò
sopra le loro teste.
La mattina successiva fu
un’altra maratona di compiti per le guerriere. Ide fischiò rumorosamente
all’alba, svegliando le prime ragazze che avrebbero dovuto inoltrare quel
brusco risveglio alle altre, nelle capanne disposte disordinatamente per tutto
l’accampamento. Erano le sei del mattino e il cielo si tingeva d’oro a mano a
mano che il sole sorgeva; in quel momento Lutnag brulicava di donne assonnate
che facevano fatica a reggersi in piedi.
Keitha immerse la testa
nell’acqua gelida del fiume Rhône: era uno dei metodi più rapidi per svegliarsi
a quell’ora. Shawnae si limitò a sciacquarsi il viso; era più abituata della
sua amica a quei ritmi spartani.
«Forza, muovete quei culetti
sodi e venite qui!» ringhiò Ide al centro del minuscolo Colosseo. Ronan, come
sempre, distribuì le armi alle amazzoni prima di tornare al suo lavoro. Si
sentiva fortunato a vivere a Lutnag, sotto quella barba rossa ispida pulsava un
grande cuore.
Ide quel giorno impose a tutte
di maneggiare una spada. Poiché era solo un addestramento avrebbero usato spade
di legno, tuttavia sempre mortali nel caso in cui fossero state adoperate
malamente. L’obbiettivo di quello specifico addestramento era di saper fronteggiare
qualsiasi tipo di avversario si fossero trovate davanti.
Le ragazze vennero disposte in
modo che le rispettive abilità si equivalessero, dunque Keitha e Shawnae si
sarebbero dovute separare per diverse ore. Poiché la seconda era già piuttosto
forte e robusta le venne assegnata Sìne, una guerriera esperta con un fisico mascolino
dai possenti bicipiti. La leggera cotta di maglia che indossava sembrava voler esplodere
sopra quei muscoli possenti che, ormai, nascondevano quasi ogni traccia dei
seni. Shawnae dal canto suo era sveglia e scattante, pronta a parare e a
colpire con decisione la sua avversaria. Al contrario della gigantessa, lei era
snella e atletica, con muscoli vigorosi in tutto il corpo; tuttavia la sua
femminilità restava intatta e molte erano le donne – ma anche gli uomini – di
Lutnag a cui faceva girar la testa.
Keitha, dal canto suo, non
poteva ancora vantare di una muscolatura tonica. Tuttavia, durante i sei mesi
trascorsi, aveva iniziato a sentirsi più forte, e quando contraeva i muscoli
delle braccia ne notava una sottilissima fascia che si stava formando sotto la
sua pelle abbronzata. Era ancora impercettibile, ma passandosi una mano sul
petto le pareva di avvertire quelle curve che già erano visibili sul petto
della sua amica. La sua avversaria era una bellissima ragazza bionda, proprio
come Keitha, che, anch’essa alle prime armi, impugnava goffamente la sua spada
di legno. Heledd sorrise alla sua avversaria, che ricambiò dolcemente, i capelli
color dell’oro di entrambe si colorarono di un giallo intenso nel momento in
cui il sole spuntò in alto sopra le montagne.
Le ragazze rotearono le spade
in aria, come per scaldarsi, compiendo movimenti veloci e saggiando la tensione
dei propri polsi. Tutte guardarono Ide che, con un lieve cenno di assenso,
appoggiò indice e pollice sulle labbra, in prossimità dei denti, e, con un
fischio, diede inizio agli allenamenti.