Diario di una falsa anoressica

di giraffetta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** #1 ***
Capitolo 3: *** #2 ***
Capitolo 4: *** #3 ***
Capitolo 5: *** #4 ***
Capitolo 6: *** #5 ***
Capitolo 7: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


                                               Diario di una falsa anoressica

 

                                                                                                                                     Essere guardato e non soltanto visto…
                                                                                                                                     Essere ascoltato e non soltanto udito…
                                                                                                                                                                   -Khaled Hosseini-




Mi chiamo Elisabeth, Lis per gli amici, e non sono anoressica.
Esatto, avete letto bene.
Io non sono anoressica.
Sono sempre stata magra, longilinea, alta e via dicendo. Fisico slanciato da modella di riviste di moda, costituzione esile ed eterea da ballerina, lineamenti leggeri e delicati da fata.
Non ho mai avuto problemi col cibo. Il mio metabolismo è talmente perfetto che mi concede di mangiare quello che voglio e non farmi aumentare nemmeno di un grammo.
Una fortuna, direte voi.
Invece no, è una condanna.
Essere così perfetta, prigioniera di un corpo perfetto, è stata la mia più grande condanna. E la mia più grande colpa agli occhi della gente.
Non potevo esistere in questo modo, doveva esserci qualcosa di sbagliato in me.
Ho vissuto per anni una vita perfetta, serena, tranquilla.
Poi, in un giorno apparentemente normale ti svegli e il mondo ti crolla addosso.
È bastata una frase e il mio mondo si è fatto a pezzi, frantumato da bugie e cattiverie e distorto da una menzogna che non ho capito in tempo.
Una semplice frase.      
“Sei…anoressica.”
Una piccola, subdola parola di dieci lettere ha frantumato le mie certezze e mi ha fatto cadere in un abisso di incertezza e paura.
Io che ero sempre stata fiera del mio corpo, perfetto sì ed in salute, dovevo difendermi come una colpevole per quello che non ero. Dovevo inventare scuse per giustificare ciò che ero, coprire la mia verità con una falsa bugia.
Ho urlato  e urlato e urlato a gran voce che quella che gli altri vedevano, non ero io. Io non ero anoressica, io ero sana.
Ma nessuno mi ha ascoltato. Nessuno mi ha capito.
Ed io ho ceduto.
Ho deciso di diventare come mi vedevano gli altri.
Mi sono spinta al limite, sono arrivata ad un passo dalla totale distruzione, ma sono tornata indietro in tempo, come un naufrago che si aggrappa all’ultimo pezzo di legno trovato in mare.
Sono tornata indietro e ho vinto. Ho vinto da sola.
Ed oggi continuo a dire che, no, non sono anoressica.
La verità è che non lo sono mai stata!



NOTE:
Questa sorta di storia/diario in pochi capitoli è ispirata a una mia vicenda personale. Lis è una piccola parte della mia anima, una proiezione di me stessa, che mi ha permesso di mettere le distanze tra ciò che è stato e ciò che è.
Ritornare indietro con la memoria, riflettere sul passato, mettere le parole nero su bianco, mi ha consentito di mettere un punto e andare avanti. Definitivamente.
Adesso, voglio solo condividere tutto questo con voi.

Giraffetta

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Capitolo 2
*** #1 ***


                                                    Diario di una falsa anoressica



                                                                                                             “Non c'è niente di più profondo di ciò che appare in superficie.”
                                                                                                                                                                                        -Georg Hegel-


 



Me lo ricordo, quando è cominciato.
È come scorgere nella mente una linea sottile che separa il prima dal dopo, un orizzonte preciso che spezza in due passato e presente.
Non è stato un temporale improvviso, di quelli che arrivano in estate con pesanti scrosci di pioggia e si spengono nel giro di poco tempo, lasciando il cielo di un colore azzurro e un timido arcobaleno che balena nell’atmosfera.
Non è stato nemmeno un fulmine a ciel sereno, di quelli che ti fanno sobbalzare col cuore in gola e stringere nelle spalle, che ti rimbombano dentro anche dopo che il loro eco si è placato.
No, è stata una cosa graduale, a tratti indefinita, ma ben presente nella mia testa.
Prima, ci sono stati gli sguardi, rapide occhiate inquisitorie, penetranti, taglienti.
Non ci ho fatto subito caso. Il mio mondo, il mondo di Lis, continuava a girare tranquillo, spinto dalla solita forza armonica di tutte le sue parti.
Non mi accorgevo che intorno a me, tra le persone che mi erano sempre state accanto, stava crescendo una muraglia di risentimento, leggera e impalpabile.
Le prime volte ho dato la colpa di quegli sguardi a come ero vestita. Magari il mio jeans un po’ largo o la mia felpa rosa confetto potevano destare qualche perplessità, per questo non ci ho badato. Credevo che gli occhi della gente si posassero sui miei colori sgargianti, sui miei codini sbarazzini o sul filo di matita nera che vezzosamente e molto maldestramente mi delineava gli occhi.
Invece, mi sbagliavo.
Quelle occhiate erano sì scagliate contro la mia esteriorità, ma mi stavano scavando dentro, mi stavano analizzando alla ricerca di una colpa, di uno sfregio, di una risposta. Mi vagliavano per trovare cicatrici invisibili, peccati mai compiuti, cadute inesistenti.
Erano i primi anno del liceo, non ero ancora sicura di me stessa e non sapevo come fare a spiccare quel piccolo balzo che divide la fanciullezza dalla prima giovinezza.
È stato con un’amica che ho scoperto la moda, le riviste di gossip e il trucco. Io e Tara abbiamo passato insieme interi pomeriggi, io a studiare per le interrogazioni di biologia e letteratura del giorno dopo e lei a prendere appunti sull’ultimo mascara super allungante o sulla minigonna di tessuto jeans più corta.
È stato facile tenderci una mano.
Io aiutavo lei negli esercizi di matematica e nelle traduzioni di spagnolo e lei aiutava me a capirci di moda e maquillage. È stata una scoperta interessante e un divertimento fresco quello di passare qualche sabato pomeriggio in giro per negozi, attente a comprare cose carine a poco prezzo.
Piano piano ho capito che potevo valorizzarmi di più, che potevo aiutare la natura laddove era già stata generosa con me. Ho cambiato look, iniziando ad abbinare i colori giusti e a farmi una treccia piuttosto che i due codini da bambina. Tara invece non è mai migliorata in matematica e spagnolo, è stato un vero combattimento perso in partenza.
Forse le occhiate c’erano anche prima, così acute e taglienti. O forse lo sono diventate solo in seguito, quando sono uscita fuori dal mio bozzolo caldo. Fatto sta che è allora che me ne sono accorta.
La gente non guardava la mia camicia di jeans o il lucidalabbra alla fragola che avevo messo su, così come prima non guardava le mie felpe multitasche o le mie scarpe da ginnastica con i pallini colorati.
Guardava oltre. Guardava dentro.
All’inizio, li ho ignorati.
Erano poche persone a guardarmi così, e allora non mi sono preoccupata. Non si può piacere a tutti, no? Evidentemente ad alcuni stavo antipatica e questo era il loro modo per farmelo notare, per sottolinearlo. A ciò si univa il fatto che erano quasi tutti sconosciuti, persone guardate di sfuggita nei corridoi durante la pausa tra una lezione e l’altra.
Perché dovevo preoccuparmi di alcuni estranei?
Poi, però, le occhiate sono arrivate da qualcuno vicino a me. Dagli amici. Dalle amiche.
Un giorno, nella prima pausa di metà mattino sgranocchiavo un pacchetto di crackers. Avevo lo stomaco sottosopra per essermi abbuffata la sera prima e cercavo di tamponare i danni. Stavo ascoltando il gruppo parlare di una prossima festa, quando notai due occhi scuri fissarmi con un sorrisetto enigmatico.
Era Leonor, e tra me e lei c’era sempre stato qualche attrito e qualche incomprensione. Purtroppo, a pelle non mi era piaciuta e, anche conoscendola, era rimasta una traccia in sospeso nell'aria, che mi faceva diffidare di lei almeno un po’. Ma eravamo amiche, se così potevamo definirci.
Al suo sguardo insistente, risposi con un’occhiata interrogativa, ma lei si limitò a scuotere le spalle e a voltarsi dall’altro lato.
Non ci ho pensato più. Ed ho fatto male, perché quello era il primo sintomo di una malattia che si sarebbe abbattuta su di me nel giro di poco tempo.
Allora credevo che ci fossero delle stranezze nel mondo, che spesso non si possono capire. Invece, non esistono cose strane. Esistono cose che non vengono capite. O ignorate. O minimizzate.
La mia vita è continuata normalmente, mi sono chiusa nel mio mondo e ho lasciato il resto fuori.
Avevo tanti interessi che mi occupavano le giornate e quando uscivo con le amiche non stavo a notare come mi guardavano o mi scrutavano. Uscivo e basta. Mi divertivo e basta.
Ma i segnali c’erano ed ero io che non sapevo coglierli.





NOTE:

Primo capitolo di questo mio percorso nella mia memoria. Grazie a tutti coloro che hanno letto il prologo e a Kary91 per il suo commento! <3

un bacio, Giraffetta

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Capitolo 3
*** #2 ***


                                                  Diario di una falsa anoressica




                                                                                                                                                     Nulla è più terribile dell’ignoranza attiva.
                                                                                                                                                                   -Johann Wolfgang von Goethe-




                                                                                                                                                             

“Mangi solo quella pizza?”
Cosa c’è di strano in questa domanda? Apparentemente nulla. Ma se ci uniamo un tono inquisitorio e uno sguardo eloquente, con tanto di sopracciglio alzato, allora la cosa cambia.
È cominciata così la seconda fase, quella dopo le occhiate. Piccole domande da detective, battutine lasciate a metà, insinuazioni pungenti.
Non capivo cosa stava accadendo, ma sentivo che qualcosa si stava incrinando e che mi trovavo al centro di un vortice senza capire come avevo fatto ad entrarci. La mia vita non poteva essere sconvolta da niente, avevo sempre navigato su acque tranquille e questo minimo cambio di direzione mi destabilizzava. Non riuscivo a gestirlo.
Sulle prime, ho ignorato anche questi nuovi segnali.
Cosa importava alla gente, o meglio alle mie amiche, cosa mangiavo o cosa non mangiavo? Ero una persona indipendente e matura, sapevo io come regolare il mio benessere fisico. Evidentemente, per gli altri non era così.
Durante le uscite iniziò una piccola indagine sui miei modi di mangiare, condotta da Leonor. Secondo lei mangiavo poco. Troppo poco. Troppo troppo poco.
E la cosa più assurda, quella che non riusciva a comprendere nella sua testa, era il fatto che io rifiutassi quasi sempre di mangiare fuori dai pasti. Che fosse stato un gelato o un pacchetto di patatine, era raro che accettassi. Preferivo conservare l’appetito e mangiare ai pasti soliti.
E non era per mantenere la linea, non ne avevo bisogno. Semplicemente non mi andava, punto. Ecco, questo non sono mai riusciti a capirlo. Non comprendevano che una persona può fare a meno di mangiare fuori orario per il semplice fatto che non ne ha voglia.
Ovvio che anche io avevo i miei periodi “abbuffata”. Quando studiavo troppo saccheggiavo la scatola dei biscotti come una ladra e mi concedevo mega panini farciti da far invidia a un cuoco professionista. E mangiavo quantità industriali di caramelle alla liquirizia fino a farmi venire mal di pancia.
Ma, questo non bastava.
Solo dopo ho capito che se la gente vuole vedere del marcio in te lo vede comunque, anche se il marcio non esiste. È un sottile gioco perverso che ti spinge a farti domande e a crearti dubbi semplicemente sul nulla. Io non avevo nessun problema, ma gli altri me ne stavano creando uno.
E io ci sono cascata.
Avvertivo una sorta di disagio, ma non capivo da dove venisse. O meglio, sapevo che era Leonor a mettermi in difficoltà, ma non lo accettavo. E non accettandolo, il più delle volte non sapevo difendermi e resistevo impassibile alle domandine di dubbio gusto e alle frecciatine velenose, cercando nella mia testa una risposta efficace che non arrivava mai.
Ma come potevo rispondere alle menzogne in maniera veritiera e sagace? Era impossibile.
Sulle prime scuotevo la testa, facevo una risatina affettata e cambiavo argomento. Questo è durato finchè le insinuazioni erano fugaci e labili, pungenti come la puntura di una zanzara, che si avverte lieve. Ma anche le zanzare lasciano dei segni, delle bolle, e così Leonor stava lasciando segni su di me, dentro di me. Mi stava contaminando e io rimanevo ferma a lasciarla fare.
Un giorno, distrattamente, mi sono guardata allo specchio per osservare come mi stava un vestito comprato da poco. Ma non ho guardato come le pieghe della gonna scendevano morbide sulle gambe, né come la vita stretta mi fasciava bene i fianchi. Ho guardato le braccia magre che emergevano dalle delicate maniche a sbuffo dell’abito e le gambe esili e sottili, come le zampe di una gru.
Mi son guardata qualche minuto e ho richiuso l’armadio, dimenticando in un angolo della mia mente quella strana impressione che avevo avvertito all’altezza dello stomaco, come un nodo.
Purtroppo, quella era la secondo incrinatura nel mio animo ed io l’ho accantonata.
Ho continuato a far finta di niente. In fondo, non c’era niente di importante di cui preoccuparsi. Qualche battutina o domanda indiscreta capitava a tutti e i miei campanelli d’allarme continuavano imperterriti a rimanere muti, silenti.
Solo adesso mi chiedo se qualcun altro, qualche altra amica, si sia mai accorta di qualcosa, di tutta questa fase preparatoria alla mia sconfitta. Possibile che solo io trovassi strano questo micro accanimento nei miei confronti? Eppure, nessuna ha mai parlato, nessuna mi ha mai difeso anche dopo, quando ero al centro esatto della tempesta. Nessuna mi ha teso una mano e non per cattiveria, semplicemente per stupidità.
Nessuna ha mai compreso come la mia anima stesse naufragando, scomponendosi in una miriade di pezzi. Per loro ero sempre uguale, non c’era niente che non andasse. Forse non ero la sola a non saper cogliere i segnali, ma anche dopo che ho preso coscienza di ciò che stava accadendo nessuna ha capito.  Ed io non ho mai chiesto perché.
Questa parola, perché, è sempre stata sulle mie labbra, anche quando ho finito di farmi del male. Cercavo di tirarla fuori, di porgerla con garbo o schiaffeggiarla in faccia a chi era stato accanto a me solo col corpo, ma con la mente altrove. Eppure, non è mai uscita e ancora oggi mi rimane incastrata nella gola, muta.
Forse, avevo paura di non essere capita, di essermi immaginata tutto. Forse temevo di vedere gli occhi della persona interrogata farsi larghi per lo stupore o minacciosi per le accuse. Non lo so.
È una questione sospesa che mi porterò dentro per sempre.

 

NOTE: 

Ecco a voi il secondo capitolo. Grazie a tutti coloro che hanno letto e a Eowyn_ per le sue recensioni! :)

un bacio, Giraffetta

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Capitolo 4
*** #3 ***


                                                     Diario di una falsa anoressica




                                                                                                                                           Per chi è solo, il rumore è già una consolazione.
                                                                                                                                                                                    -Friedrich Nietzsche-

 

                                                                                                                                                           

Ho passato il terzo anno del liceo in maniera altalenante. Dopo l’estate, il ritorno a scuola mi sembrava nuovo, rinnovato. Mi ero lasciata alle spalle le frecciatine di Leonor, le mie domande irrisolte, i miei dubbi.
Mi sentivo bene con me stessa, felice, in pace. Sembrava che il mio mondo fosse tornato alla sua antica armonia, che non ci fosse nessun problema, nessun segno di crisi.
Invece, andò tutto a rotoli.
Le occhiate ricominciarono, prima di nuovo fugaci poi sempre più insistenti. Le battute di Leonor mi colpivano continuamente, come una pioggia battente a cui non sapevo sottrarmi. Ero stanca, demoralizzata e arrabbiata.
Ma, non reagivo.
Fingevo che prima o poi tutto sarebbe smesso così come era iniziato, che sarebbe tornato tutto alla normalità e avrei catalogato il tutto sotto la voce “ricordi da cancellare.” Mi preoccupavo di sorridere e mostrarmi allegra, ma dentro qualcosa si era rotto.
L’anno stava passando velocemente, ma la tempesta che avevo dentro non sembrava calmarsi. A volte mi sentivo talmente giù da fingere di stare male pur di rimanere a casa. Continuavo a coprirmi col mio bozzolo, non volendo vedere che ormai si era ridotto a pochi miseri brandelli.
La verità fa paura a volte, ed io avevo paura.
Mi sentivo colpevole di un qualcosa che non avevo fatto, ma non sapevo cosa fare. Chi mi avrebbe ascoltato? Chi mi avrebbe difeso? Ero sola, ed ero convinta di potercela fare anche da sola.
Non sapevo che avrei dovuto combattere contro i mulini a vento e che mi sarebbe servito qualcuno al mio fianco, anche un’amica. Non so perché mi tenni tutto dentro: ancora adesso molte cose le tengo nascoste, piegate con cura nei meandri del mio essere, inaccessibili a tutti. Invece, sarebbe meglio tirarle fuori, offrirle a qualcuno in modo da avere un appoggio, anche se fa male o fa paura o fa imbarazzo.
Durante quell’anno, con la pressione alle stelle e la fatica della scuola, continuai a nascondermi, ad evitare il confronto…inconsapevolmente stavo permettendo a qualcuno di mettermi i piedi in testa.
Sarebbe stato solo il primo passo verso una manipolazione vera e propria.
Ecco, se ci penso adesso, immagino che sia propria questa la parola adatta: manipolazione. Non pensavo si potesse esercitare un tale controllo su una persona, anche se le si da il permesso. Forse è questo il problema: affidiamo la chiave di noi stessi a chi ci sembra meritevole di ottenerla, ma quanto siamo sicuri di aver fatto bene?
Ho lasciato che l’idea degli altri, che le parole degli altri, che le opinioni degli altri mi influenzassero interamente. Ecco, gli altri: ma chi sono gli altri per ragionare al posto mio? Pensavo di essere capace di farmi scivolare tutto addosso, sono sempre stata brava in questo: una critica, un consiglio, un rimprovero, un insulto, facevo scivolare tutto sul mio amato bozzolo.
Niente poteva scalfirmi.
Ma, dal momento che c’erano crepe nella mia magica corazza, era facile che le parole altrui mi entrassero dentro invece di scivolare a terra come sempre. Ci ho messo tempo a ricostruire tutto, ma adesso so come tenere fuori il resto del mondo, so come proteggermi. Anche se a volte qualcosa passa, filtra, penetra, non fa più così male.
Ma, a quel tempo, ero in una situazione nuova, destabilizzante. Era il mio primo confronto contro qualcosa di più grande di me.
Ogni mia azione nei confronti del cibo era valutata attentamente quando mi trovavo in compagnia delle amiche.
“Non fai pausa con un panino? Non mangi quella barretta di cioccolato? Non vuoi un cornetto, un gelato, una pizza?”
Era un continuo bombardamento a tutto spiano e io non reagivo. Stupidamente sorridevo, scuotevo il capo e lasciavo che le occhiate di vittoria si stampassero sul volto di Leonor come una smorfia. Non capivo perché ci tenesse a inferire su di me, non capivo da cosa derivasse tutto il suo astio, e la sua cattiveria. All’inizio pensavo lo facesse per me, perché era davvero interessata a me, genuinamente. Ma quando è diventata insistente e invadente, ho dovuto ammettere a me stessa che quella era una sua battaglia personale nei miei confronti. E che non ammetteva trattati di pace o armistizi.
No, lei voleva vincere. Distruggendo me.
Ho provato ad allontanarla, ma non ci sono riuscita. Avevo paura che il gruppo si sciogliesse, che anche le altre si sarebbero accanite contro di me, che sarei rimasta sola. La solitudine mi spaventava, la vedevo impossibile per me. Avevo bisogno di parlare, di stare tra la gente, di divertirmi.
Ho solo allentato i fili che ci tenevano legate, fili vecchi e sdruciti che sarebbe stato facile strappare, ma che ho tenuto insieme con ostinazione. Non potevo farmi annientare così, non potevo farla vincere.
E ho continuato a sopportare e sopportare e sopportare, mentre gli altri assistevano e non parlavano.
Sono passati altri due anni, sono arrivata alla fine del mio percorso liceale, costantemente in conflitto con me stessa, ma ero ancora io, non ero finita nella terra di mezzo, non ero caduta dal filo su cui mi reggevo in equilibrio.
Sapevo ancora mettere una barriera tra me e il mondo, sapevo ancora scegliere di chiudermi nella mia corazza sbrecciata.
Ma mancava poco alla fine. Perché prima o poi anche i migliori combattenti cadono. Ed io, che non ero mai stata una grande combattente, sono andata giù, dritta al fondo.
In una giornata estiva, invece del sole ho visto il buio.
E stupidamente l’ho abbracciato.

 



 

NOTE:

Terzo capitolo del mio viaggio. Ho deciso di condensare in esso i miei tre ultimi anni di liceo, perchè sono trascorsi in maniera quasi uguale. Non volevo dilungarmi troppo, nè volevo ripetere gli stessi concetti. Ho preferito arrivare dritta al nocciolo del problema, che affronterò nel prossimo capitolo.
Grazie a tutti i lettori silenziosi e non.

un bacio, Giraffetta

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Capitolo 5
*** #4 ***


                                                  Diario di una falsa anoressica





                                                                                                                                          In cima ad ogni vetta si è sull'orlo dell'abisso.
                                                                                                                                                                              -Stanislaw Jerzy Lec-





Il passo verso il baratro che mi era stato così meticolosamente costruito da Leonor è avvenuto d’estate. A luglio esattamente. Me lo ricordo perché tutto è coinciso con il mitico esame di maturità.
Pensavo che superato lo scoglio dell’orale, mi sarebbe aspettata un’estate di riposo e preparazione per la nuova avventura universitaria che mi attendeva.
Sbagliavo, di nuovo.
Mi attendeva un dirupo, da cui mi sarei gettata a braccia aperte.
Ma, quale è la prima cosa a cui si pensa dopo aver faticosamente terminato la bolgia degli esami? Una festa, ovviamente!
Avevamo deciso di vederci tra noi ragazze, prima di festeggiare tutti insieme. Una serata di sole donne, una serata tra amiche a ridere e a ricordarci le stupidaggini di quegli anni, le figuracce, i momenti più pazzi.
Quando Tara ha bussato alla mia porta nel primo pomeriggio di quella giornata estiva mi sono stupita. Mancavano ore al nostro appuntamento e non mi aspettavo una sua visita. In più mi sembrava strana, quasi assente.
Ho cercato di scherzare e ridere come mio solito, ma sapevo che non era lì per caso. Voleva dirmi qualcosa.
Doveva dirmi qualcosa.
Quando ha sputato fuori la bomba, non ho capito. Ho continuato a bere il mio bicchiere di tè freddo, sbattendo le palpebre. Mi ci sono voluti cinque secondi esatti per elaborare il significato di quelle parole, sputare il tè che avevo in bocca e sbattere il bicchiere sul tavolo.
“Non serve che tu venga stasera. Leonor…non vuole. Non vuole che ci sia anche tu.” La frase mi è vorticata in testa come un ritornello stonato, mentre gli occhi di Tara si abbassavano imbarazzati.
Non ricordo cosa ho detto, o forse cosa ho urlato. Ma in due minuti ho messo Tara alla porta e mi sono diretta come un fulmine a casa di Leonor.
Dovevo sapere. Dovevo parlare. Dovevo affrontarla.
Naturalmente, erano tutte lì, a prepararsi. Quando mi hanno visto entrare, ho capito. Loro sapevano, ma nessuno aveva protestato.
Quello che diceva Leonor era legge e non ho mai capito perché.
Mi sono seduta composta e ho fatto finta di niente, fingendo di trovarmi lì per caso. Ma ci ho messo poco a scoppiare, le parole mi sono uscite fuori forti e veloci, le domande si sono accavallate come in un girone infernale. Volevo risposte, subito. Non potevo più aspettare.
È bastata una frase, piccola ed innocente, scagliata con noncuranza come un sassolino in un laghetto.
“Sei troppo perfetta, non ti sopporto. Sei quella più carina, più intelligente, più spiritosa. La verità è che ti odio.” Ecco cosa mi ha detto Leonor, continuando a smaltarsi le unghie.
Sono scoppiata a ridere, sul serio. Ho fatto una risata di quelle che sembrano slogarti la mascella e spezzarti il respiro. Credevo davvero che fosse uno scherzo.
Poi, è arrivata la doccia fredda. La stoccata finale che avrebbe decretato la vittoria della mia avversaria.
“Secondo me, non sei poi tanto perfetta. Sei talmente magra…sei anoressica, ammettilo.”
La mia risata si è smorzata e avrei tanto voluto darle uno schiaffo, forte, deciso, tagliente. Non l’ho fatto e sinceramente oggi me ne pento, senza vergogna. Forse uno schiaffo ci sarebbe voluto, le avrebbe procurato lo stesso dolore che sentivo io in quel momento, o almeno credo.
Mi è bastato un momento per collegare tutto: occhiate, frasi, domande, sorrisetti. Tutto combaciava.
Leonor aveva preparato il territorio con cura, aveva usato una vera e propria guerra di logoramento per poi sparare il colpo finale.
Ovviamente, ho urlato e urlato che si sbagliava, che era pazza, che non stava bene. Ma lei continuava a sorridere e le altre a tacere. Cosa avrei potuto fare?
Sono andata via.
Mi sono chiusa in casa ferita e delusa. Ho passato giorni a piangere e ad analizzare quegli anni di finta amicizia, di falso perbenismo, di bene fasullo. Mi sono sentita come se fossi caduta dal cinquantesimo piano di un palazzo dritta al suolo.
È sconvolgente come ci si senta quando perdi tutto in un istante. È vero, avevo perso poco e forse era anche meglio così, ma non cambiava come mi sentivo.
Quando tutta la rabbia e la delusione sparirono, mi rimase addosso solo amarezza. Amarezza e voglia di rivincita.
Prima di tutto mi documentai su questa anoressia. Lessi di tutto e arrivai a capire che, no, decisamente non ero anoressica. Io mangiavo perché avevo fame, non rifiutavo il cibo, non vedevo la mia immagine distorta allo specchio e non mi procuravo il vomito per paura delle troppe calorie ingerite. Ecco, non ero anoressica.
Ma, il vero problema non risiede mai nel fisico. È nella testa che succede qualcosa. E quando mi guardai bene allo specchio pensai per un microsecondo che forse ero un filino troppo magra.
Bastò quello e si incrinò tutto.
Nella mia testa si crearono una serie di dubbi, di domande a cui non trovavo risposta. E se fino a quel momento mi ero sempre ritenuta perfetta, qualcosa si era spezzato. Quella perfezione sana non la vedevo più. Non volevo vederla più.
Ma, siccome avevo cercato di dimostrare che non ero come mi dipingevano, che ero sana e non soffrivo di anoressia e nessuno aveva mai detto niente per appoggiarmi, decisi di provare la strada alternativa.
Se gli altri mi vedevano anoressica anche se non lo ero, allora lo sarei diventata, in modo da trasformare la menzogna in verità. Avrei incastrato in un’unica immagine come mi vedevano gli altri e come mi vedevo io, come in un gioco di puzzle. E poco importava se l’idea era sinistra quanto sciocca.
Mi fissavo allo specchio e pensavo che sarebbe stato facile arrivare a confermare le accuse di tutti. Avrei dato loro quello che loro volevano da me.
Così, coscientemente firmai la mia condanna e caddi volontariamente nella tana del lupo.

 

NOTE: 

Sono giunta già al quarto capitolo, e credo che ce ne saranno soltanto altri due. Grazie a tutti coloro che leggono e che lasciano un segno del loro passaggio.

baci, Giraffetta

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Capitolo 6
*** #5 ***


                                                  Diario di una falsa anoressica



 

                                                          Per amarti non devi dimagrire di fisico, devi dimagrire di insicurezze.
                                                                                                                                                                                             -Anonimo-



L’autodistruzione non arriva subito. È un processo lento, costante, meticoloso, richiede tempo.
Non smisi di mangiare da un giorno all’altro, non potevo e non sapevo come fare. Avevo dei genitori attenti, come avrei spiegato loro il mio rifiuto del cibo?
Mi serviva un piano da applicare con precisione, per eludere tutti e farla franca. Mi sentivo come in un grande gioco, in cui la vittoria non mi sarebbe sfuggita.
Prima di tutto, decisi che non mi sarei mai indotta volontariamente il vomito. Mi rifiutai categoricamente anche solo di provare a ficcarmi due dita in gola e accasciarmi sulle piastrelle del bagno scossa da spasmi allo stomaco.
Ma se non potevo usare quel metodo, allora avrei dovuto ridurre il cibo che ingurgitavo.
E così feci.
Numero uno: eliminare la colazione. Questo era abbastanza semplice, bastava correre in cucina di mattina presto, ficcarsi qualche biscotto in bocca e sputare tutto nella spazzatura. Poi, fingere di aver mangiato, magari con un bel sorriso sulle labbra.
Ho iniziato così.
I biscotti, le torte, le merendine sono finite nell’immondizia senza distinzione, a volte non passando nemmeno per la fase di masticazione. Sbriciolavo tutto in qualche fazzoletto di carta e poi gettavo il cartoccio nel cestino, felice.
Esatto, felice. Mi sentivo euforica, come se stessi infrangendo chissà quale regola. La verità è che stavo semplicemente facendomi del male senza capirlo davvero.
Sono andata avanti così per qualche settimana, ma sentivo di dover fare di più. Ormai ero entrata in un meccanismo di lenta progressione e non vedevo l’ora di superare quanti più livelli possibili, come in un videogioco.
Il secondo passo fu eliminare qualsiasi voglia di cibo fuori dall’ordinario. Fu semplice, dato che mangiavo pochissime cose e raramente fuori dai pasti. Ma eliminai comunque le caramelle, quelle alla liquirizia che adoravo, ed evitai di comprare qualsiasi cosa potesse essere uno sfizio.
Mi sentivo grande, autonoma, invincibile. Ero io a comandare me stessa, ero io ad impormi le cose, ero io, solo io a ferirmi senza accorgermene.
Per i primi tempi non ci furono cambiamenti. Nonostante saltassi la colazione ed evitassi chissà che sfizi gastronomici fuori dai pasti, rimanevo sempre uguale. I vestiti continuavano a starmi a pennello, il mio corpo continuava a rimanere normale.
Un giorno pensai di rinunciare a tutta questa pantomima. Insomma, non c’erano risultati, significava che nonostante tutto stavo bene e non avevo nessun problema. Ma, qualcosa dentro di me mi diceva di continuare, che presto ciò per cui stavo lottando si sarebbe realizzato.
È buffo lottare per la propria distruzione. Non capivo che stavo andando incontro al male, piuttosto che al bene. Ma lo accettavo. Sceglievo da sola la strada cattiva, infischiandomene del lupo. Volevo essere divorata, anche se sapevo che non c’era nessun cacciatore pronto a uccidere il lupo e trarmi in salvo.
Iniziai così a immaginare qualche altro trucco per evitare il cibo. Magari, ridurre le porzioni mi avrebbe aiutato, mi avrebbe portato dove volevo arrivare.
Iniziai piano. Una cucchiaiata di pasta in meno,  un filo d’olio mancante, una fetta di pane evitata.
Giorno dopo giorno, mangiavo sempre meno e inventavo sempre più scuse.
Un giorno era perché la pasta cucinata in quel modo non mi piaceva; un altro perché non mi sentivo bene; un altro ancora perchè avevo esagerato a colazione. Inventare, inventare, inventare era diventata la parola d’ordine!
Man mano che le porzioni diminuivano, la mia ansia cresceva. Quanto ci avrei messo a vedere i segni del mio progresso?
Ogni sera mi guardavo allo specchio, alla ricerca del cambiamento. Lo attendevo come una sorta di magia, di miracoloso accadimento: avrei voluto svegliarmi un giorno e trovarmi cambiata.
Oggi non capisco quale cambiamento desideravo vedere: pensavo che mi sarei alzata dal letto come uno scheletro nel giro di una notte? Quale cambiamento auspicavo? Sì, avevo deciso di essere anoressica, ma non riflettevo mai su come devesse compiersi questo desiderio.
In che modo sarei cambiata? Ecco, questo non me lo sono mai chiesta, volevo solo diventare quello che volevo, non mi importava come.
Meno mangiavo e meglio stavo. Divenne una spirale colorata che mi inghiottiva sempre più.
Tutto ciò si univa alla solitudine, quella solitudine che avevo sempre temuto. Le amiche non c’erano, troppo distanti o troppo prese dai loro problemi per accorgersi di me e del mio problema. Se avessi parlato, se avessi urlato, mi avrebbero ascoltato? O avrebbero fatto finta di niente, continuando la loro vita e lasciando me al di fuori? Non ci ho mai riflettuto abbastanza, così come all’epoca non chiesi, non parlai, non urlai.
Rimasi zitta, chiusa in me stessa, convinta così di poter ricucire la mia corazza, il mio bozzolo perfetto. Ma dal bozzolo esce sempre una farfalla, io invece stavo tornando bruco.
Continuai e continuai la mia personale battaglia contro me stessa. Non volevo aiuto da chi mi stava intorno, il mio non era un grido di aiuto rivolto a chi mi amava. Il mio era un grido di aiuto per me stessa, anche se ero io stessa a tapparmi le orecchie.
È questo che ricordo con maggior chiarezza: la lucidità che non mi ha mai lasciata durante tutta la mia discesa in quel baratro nero. Non ho mai perso la bussola, ho sempre capito cosa stavo facendo, anche se non ci pensavo. Era una sensazione sfuocata, nascosta in un angolo della mia mente come un vecchio ricordo.
Non volevo pensare, non volevo capire. Volevo andare avanti con la mia opera e sapevo che se mi fossi fermata a farmi le domande giuste, avrei abbandonato il mio progetto. E non potevo.
Gli altri mi avevano sempre calunniato e io mi ero sempre difesa, provando a salvarmi dalle accuse come un’innocente. Adesso non avrei avuto più bisogno di difendermi né di proteggermi: sarei stata quello che loro volevano.
E poco importava se questo mi avrebbe condotta all’inferno. Ero pronta ad accettare il buio dentro di me.


 

NOTE:

Penultimo capitolo di questa mia storia. Questo è stato il più difficile e il più liberatorio, ma sono contenta di come mi sia uscito. Grazie ancora a tutti coloro che passano di qui :)

Bacioni, Giraffetta

 

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Capitolo 7
*** Epilogo ***


                                                  Diario di una falsa anoressica




                                                                                       
                                                                                            E' meglio essere odiati per ciò che si è che essere amati per ciò che non si è.

                                                                                                                                                                                                  -André Gide-






C’è un momento nella vita in cui le cose ti appaiono chiare come non le avevi mai viste prima.

Una mattina ti svegli e capisci che il mondo  non è diverso, semplicemente sei tu che lo stai guardando con altri occhi, con altre prospettive.

Prima di vedere il mondo cambiato, però, io ho dovuto vedere me stessa con altri occhi e con altre prospettive.

È successo all’improvviso.

Il cambiamento che stavo aspettando si è manifestato con forza tale da lasciarmi senza fiato.

Mi sono guardata allo specchio e l’ho visto. Ho visto i segni della mia battaglia sul mio corpo.

La faccia magra e pallida, le braccia sottili con le venuzze in rilievo, le gambe magre da far schifo, le ossa del bacino sporgenti, la colonna vertebrale in vista.

Mi sono guardata attentamente e mi sono sentita male, mi sono spaventata. Quella non ero io, non ero affatto io. Che diavolo stavo combinando? Che diavolo avevo combinato?

Ho capito così di aver toccato il fondo e adesso volevo solo risalire.

Ma se la strada per la distruzione è facile e veloce, quella per la salvezza è irta e piena di buche. Non potevo credere di tornare normale, di tornare me stessa, nel giro di una notte. Sapevo già che non funzionava così.

Dovevo impegnarmi. Così come avevo creato un piano per annientarmi, così dovevo creare un piano per salvarmi.

Non è stato facile.

Riprendere a mangiare come prima non è avvenuto in modo naturale, spontaneo. Dovevo forzarmi, dovevo ricordare come ero prima che tutto iniziasse.

L’ho fatto a piccoli passi, poco alla volta. Mi sentivo una formica che accumula provviste per l’inverno, giudiziosa e attenta. Ho imparato a rieducarmi al cibo, da sola.

I giorni passavano e io continuavo ad aggiungere cibo e calorie. Mi sentivo rinata.

Quando guardavo indietro vedevo solo buio e oppressione e non capivo come avevo potuto lasciarmi andare così, come avevo potuto arrendermi con estrema facilità e leggerezza.

È stato come risvegliarsi dopo un black out, come riprendere coscienza di se stessi. Ho rivisto la mia vita attraverso una lente di ingrandimento e ho valutato i miei errori con la precisione di un giudice.

Avevo sbagliato, ma mi ero tirata indietro in tempo. Potevo ritenermi fortunata, dopotutto.

Non so cosa sarebbe successo se avessi perso la cognizione di me, se avessi permesso al male di entrare totalmente nella mia testa, di sopprimermi. Forse mi sarei salvata comunque, forse no.

La mia distruzione è durata lo spazio di qualche mese, ma è stata profonda  e violenta. È stato uno tsunami che si è abbattuto su di me senza che l’avessi programmato, come una vera calamità naturale.

Questa volta, più mangiavo più mi sentivo in pace con me stessa. Vedevo il mio corpo reagire, trasformarsi di nuovo in quello che era un tempo, riprendere le sue antiche forme.

Quando sono salita sulla bilancia, solo molto tempo dopo, e ho visto che ero tornata nel mio peso forma, ho pianto. Ho lasciato scivolare fuori tutta la gioia, e il dolore, e la tristezza e ho pianto per minuti interi.

A quel punto sapevo di aver vinto la mia battaglia. Ero tornata me stessa, ero tornata ad essere Lis.

Mi sono perfino riappropriata del mio bozzolo, ma ho lasciato deboli spiragli aperti qua e là. Niente più chiusure estreme. Niente più corazze di cemento. Niente più muri opprimenti.

Ho rivisto le mie amiche, quelle buone, e sono uscita, ho riso. Mi sono ripresa la mia vita, conservando dentro di me la mia sconfitta e la mia vittoria. Quella era stata una sfida con me stessa, e non aveva senso condividerla con chi non aveva visto, con chi non si era accorto di nulla.

Le persone sono troppo concentrate su loro stesse per capire cosa accade loro intorno. Capita anche a me. Anzi, capitava. Perché ho imparato a leggere i segnali, i piccoli indizi che ciascuno di noi lascia nel suo passaggio.

Ho capito che tutti lanciamo segnali, ma pochi riescono a coglierli. E pochi vogliono che vengano colti realmente.

Pensandoci ora, forse io non volevo che qualcuno si accorgesse della mia lotta. Era la mia battaglia e toccava a me risolverla. Era un cambiamento che dovevo affrontare io, da sola.

Ho continuato a stare zitta, lasciando questa mia esperienza in fondo al cuore. Fino ad ora.

Forse è adesso che ho davvero maturato il cambiamento iniziato una manciata di anni fa, perché è adesso che ho sentito il bisogno di scrivere la mia avventura.

Alle amiche, a loro no, non racconterò niente. Forse capiteranno per caso qui, su questa pagina e leggeranno queste righe ma non sapranno che esse mi appartengono. È giusto così, anche se lascio aperto un piccolo foro, una piccola porta nel futuro nel caso decidessi di parlare.

E Leonor?, vi chiederete. Non l’ho più sentita. Ho dimenticato la sua voce, il suo volto, la sua aria da ragazza viziata e le ho dato il posto che merita. L’ho messa tra i morti del mio cimitero personale, tra le ombre del mio passato.

Ho pensato tante volte di rincontrala, per un faccia a faccia chiarificatore. Ma lei non aveva bisogno del mio perdono e io non avevo bisogno delle sue scuse. Siamo a posto così.

Ma, forse una cosa avrei voluta dirgliela: grazie.

Grazie perché con la sua cattiveria e la sua invidia ha fatto di me una persona nuova, una persona che cammina sulle proprie gambe e che si lascia scivolare tutto addosso, senza più accumulare  cicatrici.

Adesso, la mia vita me la gestisco io.

Adesso, la mia anima e il mio corpo li tratto bene.

Adesso, posso uscire come una farfalla dal mio stupendo bozzolo.

Adesso, non ho più paura di volare.
 




                                                                                                                                      

Secondo alcuni autorevoli testi di tecnica di aeronautica, il calabrone non può volare, a causa della forma e del peso del proprio corpo in rapporto alla superficie alare. Ma il calabrone non lo sa e perciò continua a volare.
                                                                                                                                                                                              -Igor Sikorsky-





NOTE:
Scrivere questa storia mi è servito, tanto. Mi ha permesso di maturare pienamente cosa mi sono lasciata alle spalle, mi ha permesso di chiudere definitivamente col passato, mi ha aiutato a liberarmi.
Se è vero che la carta è più paziente degli uomini, allora devo dire grazie a questi fogli per avermi ascoltato senza interrompermi. E devo dire grazie a voi che avete letto e condiviso con me questa battaglia.
Un grazie infinite.
Giraffetta



 

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