Cronache di una Favola

di Glory Of Selene
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mai, mai aprire Oscuri Scrigni delle Meraviglie ***
Capitolo 2: *** Prima carta: l'Illusionista ***
Capitolo 3: *** Seconda carta: la Sirena ***
Capitolo 4: *** Veggente, Illusionista e Menestrello ***
Capitolo 5: *** Quando un uomo su una barca incontra un uomo su un veliero... ***
Capitolo 6: *** Terza Carta: Il Corvo... ***
Capitolo 7: *** ...Il Gufo... ***
Capitolo 8: *** ...E la Colomba ***
Capitolo 9: *** Capitano ***
Capitolo 10: *** La Perfezione ***
Capitolo 11: *** Stupore, Paura e Gelosia ***
Capitolo 12: *** Il Giusto e lo Sbagliato ***
Capitolo 13: *** Maschere, inganni e tradimenti ***
Capitolo 14: *** Il Fiume Fantasma ***
Capitolo 15: *** Quarta Carta: il Ricordo ***
Capitolo 16: *** La Spedizione ***
Capitolo 17: *** Emphatica ***
Capitolo 18: *** Casa. ***
Capitolo 19: *** I Vichinghi ***
Capitolo 20: *** Sesta Carta: Inchiostro Nero ***



Capitolo 1
*** Mai, mai aprire Oscuri Scrigni delle Meraviglie ***


Era un pomeriggio tranquillo, pigro e placido, come pigri e placidi erano gli uomini che si trovavano nella stanza, ormai persi nelle acque viscose del lago della pigrizia senza più alcuna possibilità di tirarsene fuori, e senza nessuna voglia di farlo.
«Ehi gente! Indovinate cos’è questa»
La porta si spalancò,  lasciando entrare nel salotto tutta l’abbagliante luce del sole estivo, insieme con l’imponente figura di un vichingo biondo con tanto di barba pittorescamente intrecciata, che agitava in una mano una busta bianca.
«E se noi non volessimo saperlo?» lo rimbeccò subito Jukka, senza neanche alzare gli occhi dallo schermo del Nintendo con cui stava consumando un’accanita lotta virtuale contro uno dei mostri proposti dal gioco di ruolo.
Inutile, il tentativo di portare un po’ di vita all’interno del salotto era fallito miseramente, ma a Marco non importava più di tanto, infatti ignorò il commento del compagno sfoggiando una vaga aria di superiorità.
«Ah, tanto scommetto che riguarda Tuom!» gli fece eco Emppu, emerso dagli abissi di una terribile concentrazione, con la quale stava tentando di finire il sudoku che molto masochisticamente si era messo in mano, pur sapendo benissimo di essere negato per quel tipo di cose.
«Indovinato! Ehi, bell’addormentato, si parla di te»
Marco si era avvicinato al divano sul quale era scompostamente sdraiato il tastierista, con la testa penzolante all’indietro giù dal divano nascosta da un enorme pacchetto di patatine.
«No, non è in casa» replicò subito il bell’addormentato in questione, versandosi poi direttamente in bocca buona parte delle patatine rimaste.
«Beh, dovrebbe, dato che questa lettera è il cortese invito della nostra casa discografica a sbrigarci a presentare le bozze del nostro prossimo album. E ricordo a voi, pessima gentaglia, che il nostro bell’addormentato non ha ancora prodotto una canzone che sia una!»
Tutto ciò che ricevette in risposta fu un mugolio da sotto l’enorme montagna di patatine con cui si era riempito la bocca.
«Aggiungo che la traduzione di “cortese invito” sarebbe: se non ti sbrighi prima ci fanno un culo così e poi perdiamo il lavoro» furono le parole del batterista, tranquillo e sereno dietro il suo Nintendo.
«Che noia…» fu l’unico commento che uscì dalla bocca – piena – di Tuomas.
Passarono diversi minuti di silenzio, minuti che impiegò per finire del tutto il suo pacchetto di patatine, e pentirsene poi subito dopo.
Almeno la mancanza di cibo lo indusse ad alzarsi a sedere, e osservare poi tutti i presenti con il volto paonazzo per essere stato tutto il tempo a testa in giù.
«Ho fame.»
«E ha appena finito di ingozzarsi di patatine»
Sembrava che Jukka si divertisse molto a commentare ironicamente ogni cosa, e dal canto suo stava prendendo molto sul serio il suo ruolo di commentatore.
«Non dovrebbe essere ora di pranzo?»
Lo sguardo di Tuomas si rivolse, supplicante, a Marco.
«Dovrebbe essere, ma per noi non lo è, dal momento che l’ultima cosa commestibile rimasta in casa era quel pacco di patatine. E a meno che qualcuno di voi non decida gentilmente di andare a fare la spesa, qui non si mangia.»
«Com’è che tu sai cosa c’è nel mio frigo e io no?» gli chiese un esterrefatto Tuomas.
«Ottima domanda; ora te ne pongo una migliore: dato che il frigo è tuo e quello che ha fame sei tu, non dovresti andarci tu a fare la spesa?»
La risposta che ricevette Julius, essendosi così tranquillamente messo in mezzo nella loro conversazione, fu una cuscinata in testa, che gli fece cadere il Nintendo di mano, generando l’urlo disperato del proprietario.
«Questa me la paghi!»
Ignorando con un sorrisetto sadico la disperazione del batterista, Tuomas alzò di nuovo lo sguardo su un Marco estremamente divertito.
«Comunque, io credo che il nostro Jukka abbia ragione.»
Il sorrisetto scomparve subito, per riapparire poi sul volto soddisfatto del batterista.
Lo sguardo del tastierista passò su tutti i presenti, passando dallo sconfortato all’inorridito, e quando finalmente decise eroicamente di alzarsi e uscire l’orrore aveva raggiunto l’apice.
«Suono con un gruppo di traditori. Traditori! Dov’è Anette quando serve…lei è l’unica che mi capisce, ecco.»
Spalancò la porta, si girò per riavere il salotto a portata di vista e fece un offesissimo inchino, molto scenografico.
«Arrivederci.»

Si incamminò nervoso con le mani nelle tasche dei jeans, sbuffando, dopo aver scoperto di non avere per niente fame in realtà.
Il fatto era che, nonostante il menefreghismo ostentato davanti agli altri con una certa maestria, era ben preoccupato per le scadenze che gli avevano dato da rispettare e che ora gli sembravano irraggiungibili. Certo, l’ispirazione l’aveva abbandonato proprio nel momento in cui aveva maggior bisogno, e non sapeva più con chi prendersela, se con lei o con sé stesso per non essere stato capace di inseguirla.
Sicuramente rimanere in casa non era il modo migliore per sfogare l’irritazione, con Marco che non perdeva occasione di rammentargli la sua precaria situazione o Jukka che si ostinava a fare ironia anche su quella.
Persino Emppu lo infastidiva, con quel buonumore e quel sorriso sempre sulle labbra.
«Oh, ma che bel ragazzo che incrocia la mia strada. Per caso questo ragazzo, baciato da tanta fortuna, può avere una monetina da offrirmi?»
Interrotto nel seguire il cupo filo dei propri pensieri, Tuomas si fermò di colpo, si girò, per trovarsi davanti una donna che protendeva una mano verso di lui, sorridendogli ammiccante.
Si concesse un istante per stupirsi, avrebbe giurato che persone del genere esistessero solo nelle favole o nei cartoni della Disney.
Si era indecisi su che cosa si notasse per prima di lei, se la ribelle massa di lunghe onde color della pece, se la lunga gonna sudicia una volta stata di mille colori diversi o se lo sguardo, di un insolito colore viola, affascinante ed ammiccante. E sembrava proprio uscita da un romanzo di zingari, con quel colore scuro di carnagione e quei grossi cerchi dorati alle orecchie.
Ma dopo la prima reazione, tutto puntualmente gli ritornò alla mente, e allora riprese la sua camminata cupa.
«No, non ho nulla.»
Ma fu di nuovo fermato.
«Su, bel ragazzo, una monetina, che cosa può significare per te una monetina in più o in meno?»
Perfetto.
Aveva appena trovato qualcosa su cui sfogarsi.
«Dannazione, se ti ho detto che non ho niente! E se anche avessi qualcosa non verrei certo a darla a te, è inutile che insisti! Vattene.»
E subito dopo averla trattata così male, subito dopo si sentì terribilmente in colpa.
Ma i suoi problemi gli sembravano troppo importanti per permettersi di sprecare tempo a pensare ad una risposta sgarbata data ad una mendicante, così si girò, senza sprecarsi neanche in una scusa, e continuò la sua camminata.
E se l’avesse guardata un’ultima volta, l’avrebbe vista sorridere.
«Che bel caratterino che ho trovato... Eeh, temo che oggi tu abbia commesso un errore ancora più bello. Mai letto La Bella e la Bestia, dolcezza?»

Un altro giorno passò, un altro giorno senza lo straccio di un’idea.
Tuomas cominciava a farsi prendere dall’ansia, sapeva che non sarebbe riuscito a presentare nemmeno una canzone per il giorno stabilito, per quanto si sforzasse non gli veniva in mente ancora nulla.
I compagni,  dopo i primi momenti in cui avevano preso in giro la sua situazione, capirono che era davvero grave ed iniziarono a tentare di aiutarlo seriamente, in ogni modo possibile.
Quel pomeriggio gli avevano persino proposto di fare un salto al nuovo Luna Park appena fuori Kitee.
L’idea era stata di Emppu, e Tuomas aveva il vago sospetto che quella scelta non fosse stata del tutto disinteressata, conoscendo quanto piacessero quel tipo di cose al compagno.
E forse era proprio per quel motivo che, nonostante non avesse la minima voglia di andarci, accettò con entusiasmo l’invito.

Il Luna Park riusciva a risplendere anche sotto gli insistenti e petulanti raggi del sole, e soprattutto si distingueva per la quantità di marmocchi urlanti che lo popolavano, categoria nella quale si poteva tranquillamente collocare anche Emppu, il quale saltellava da un’attrazione all’altra con gli occhi di un bambino trasportato nel paese dei balocchi.
Ben presto il gruppo si disperse in mezzo alla folla, e Tuomas si ritrovò a curiosare da solo tra alcuni banchetti e tendoni un po’ più defilati rispetto agli altri, gironzolando senza meta alla ricerca di qualcosa che lo attraesse per davvero.
Manco a farlo apposta quel qualcosa arrivò subito, talmente palese ch’egli stesso si domandò come avesse fatto a non averlo visto prima, talmente affascinante che non poté ignorare il suo richiamo.
Era piccolo tendone rosso, la cui brillantezza si era ormai persa negli anni, eppure sfoggiava ancora con un certo orgoglio i suoi ghirigori dorati passati di moda da tempo. E a differenza degli altri non usava frecce luminose o altre fastidiose luci al neon per chiamare i visitatori; le uniche scritte che esibiva erano nere, stampate su un cartello dorato in tanti riccioli sontuosi e ghirigori complicati.

Maga, Indovina ed Incantatrice, entrate se desiderate essere Stupiti”, recitavano.

Accanto alla tenda v’era un cartellino più piccolo con scritto “Libero” nella stessa, complicata grafia.
Tuomas si avvicinò, girò il cartellino – ora recava la scritta “Occupato” – ed entrò nella tenda, senza particolari esitazioni.
Sì, lui desiderava ardentemente essere stupito.
All’interno la luce era molto poca, data solo da qualche candela sparsa qua e là; ce n’era una anche sul tavolino, unico vero arredamento.
C’erano due piccoli sgabelli, uno dietro al tavolo e uno davanti al tavolo, Tuomas vi si sedette e aspettò che la Maga, l’Indovina e l’Incantatrice, colei che s’era vantata di poterlo Stupire, si facesse avanti.
E non ebbe da aspettare che pochi istanti perché il lembo di pesante stoffa rossa dall’altra parte della tenda si smuovesse e ne entrasse una snella figura femminile, per andare a sedersi dietro al tavolino, davanti a lui.
Gli sorrise, e lui rimase pietrificato, nel ritrovarsi davanti di nuovo quegli strani occhi viola.
Si era completamente dimenticato di lei.
«Sono due euro per la seduta, puoi lasciarli pure sul tavolo. Oppure vuoi rifiutarmi anche questi? Oh, prometto che se la lettura non ti soddisferà ti verranno rimborsati»
Lo canzonava, con il suo sorriso ironico – ma cosa, in fondo a quell’ironia? Forse una velata minaccia? –.
Lui si affrettò a tirare fuori i soldi e a metterli sul tavolo, vergognandosi di sé stesso.
«Senti, non so come scusarmi…»
Venne interrotto dalla forte risata di lei.
«Non devi preoccuparti! Ti stai forse chiedendo se io sono un tipo vendicativo? Ebbene, la risposta è sì. Vediamo, quindi, quali sono le disgrazie che ti attendono nel tuo prossimo futuro.»
Di nuovo quell’espressione divertita mentre posava sul tavolo uno scrigno dorato con una grossa pietra rossa nel mezzo.
Eppure si era subito fatta seria, ora lo scrutava con quei magnetici e misteriosi occhi viola.
«Bene, ora non si scherza più. Vedi questo scrigno? Dentro qui si trova il tuo futuro. Lo vuoi conoscere?»
Tuomas annuì, nonostante la situazione imbarazzante era terribilmente affascinato da quel tipo di cose, non poteva farci nulla.
«D’accordo, allora»
Lo aprì. Ne tirò fuori un logoro mazzo di carte, lo posò con cura al centro del tavolino, mentre in un angolo lasciò lo scrigno, aperto.
Lo mischiò, abile e veloce, come se nella vita non avesse fatto null’altro, poi gli porse il mazzo a ventaglio e gli fece scegliere sette carte, che infine dispose ordinatamente una a fianco dell’altra davanti a lui, coperte.
Poi incrociò le braccia al petto e lo guardò, come lui guardava lei.
«Vedi, questo non è un mazzo di normali tarocchi, sono i miei tarocchi personali, i più efficaci che esistano, contengono figure che non si sono mai viste. Tu credi nella magia?»
La domanda lo spiazzò, ma nel pensarci fu costretto a fare un gesto di diniego con la testa.
«Beh, no, se intendi magia tipo… abracadabra, Mago Merlino, no, ovvio che no»
E ancora lo squadrava, senza dire una parola, e lui si sentiva sempre di più a disagio.
«Mh. È un gran peccato, Tuomas. Perché qui di magia ce n’è tanta.» e indicò le carte.
Puntò il dito sulla prima, la girò, v’era un uomo con in mano un alto cappello a cilindro, un rosso tendone da circo a fare da sfondo.
E così girò tutte le altre, e tutte le altre erano carte ignote, mai viste prima.
Una sirena seduta su uno scoglio, intenta a pettinarsi i lunghi capelli biondi.
Quattro uccelli stilizzati volare a cerchio in un cielo azzurro.
L’anima di un fantasma che vagava senza pace lungo una strada di campagna.
Un grosso libro aperto su una pagina macchiata di inchiostro.
Un vecchio al timone di un grosso veliero incagliato nelle rocce.
Una giovane donna inginocchiata per terra a piangere.
Queste erano le sette carte scelte dal fato per lui, e lui le scrutò, senza trovarci nessun significato particolare.
¬«Che cosa significano?»
Per tutta risposta lei si girò e prese un altro scrigno, che appoggiò anch’esso sul tavolo.
Era nero, tutto nero.
«Presente, passato, futuro; sono tutti collegati, davvero non riesci a comprenderlo? Il futuro è una conseguenza del presente, il presente non può andare avanti senza il passato, il passato si rispecchia nel futuro. Il tuo presente è bloccato, Tuomas, e qua sul mio tavolo c’è il tuo futuro. E tale futuro si compirà solo se sarai capace di riscoprire il tuo passato.»
Gli porse lo scrigno nero, lui ne fu terribilmente attratto, lo prese in mano, nonostante la sua ragione gli urlasse con tutte le proprie forze di non farlo. Ma era ovvio, aveva smesso di ascoltarla da tempo.
«Raccontami della tua infanzia…» gli sussurrò lei, con il suo tono suadente e ammaliatore.
«Una volta avevo un sogno… ed è questo…»

Once I had a dream, and this is it

Inutile, ogni parola era ormai inutile, ormai stava già aprendo lo scrigno.
«C’era una volta il sogno di un bambino. Una notte l’orologio scoccò la mezzanotte, la finestra spalancata… C’era una volta il cuore di un bambino. L’età in cui imparai a volare e feci un passo fuori…»

Once there was a child`s dream.
One night the clock struck twelve, the window open wide…
Once there was a child`s heart.
The age I learned to fly and took a step outside…


Lei lo guardava soddisfatta, e nell’aria c’era una canzone, che entrambi conoscevano molto bene, ma che nessuno dei due stava cantando, ma risuonava lo stesso, come proveniente dallo scrigno stesso.
«Una volta conoscevo tutte le storie; è ora di riportare indietro il tempo, seguire la pallida luce della luna. Una volta desideravo questa notte. La fede mi ha portato qui: è tempo di tagliare la corda e di volare.»

Once I knew all the tales; it`s time to turn back time, follow the pale moonlight.
Once I wished for this night.
Faith brought me here: it`s time to cut the rope and fly


«Volare verso un sogno, lontano attraverso il mare, tutti i fardelli andati via. Apri lo scrigno ancora una volta! Oscuro scrigno delle meraviglie, visto dagli occhi di chi ha un cuore puro, una volta, tanto tempo fa…»

Fly to a dream, far across the sea, all the burdens gone.
Open the chest once more!
Dark chest of wonders, seen through the eyes of the one with pure heart, once, so long ago…


E la luce che, una volta aperto lo scrigno, invase la stanza, non fu affatto naturale.
E quando lo scrigno, vuoto, cadde a terra, Tuomas era scomparso.
E, mentre sorrideva, poche parole uscirono dalle labbra della zingara.
«Vai, vai, bellezza, il viaggio alla riscoperta del tuo passato comincia ora. E, chissà, magari imparerai anche qualcosa.»










Ciò che dice l'Autore

Ciao gente, spero che il primo lunghissimo capitolo di questa fic vi sia piaciuto ^^ Pensare che erano due righe nello schemino che mi sono fatta, e invece ne son saltate fuori un casino...spero di non avervi annoiati xD
Un po' di presentazione alla storia!! Allooora, mi trastullavo a pensare ogni membro della band in un contesto fantasy/medievale (che mi piace tanto come contesto), e poi, diciamocelo, i nostri cari vecchi NW sono il gruppo più adatto per essere fantasizzato! E così eccoli qui alle prese con una bella favola...ho cercato di rispettare tutte le regole (regola numero uno: se tratti male una mendicante misteriosa è una strega nel 98,9 periodico % delle possibilità; regola numero due: in ogni Luna Park che si rispetti c'è un'indovina :P)
Aahahah, bene, in questa storia ci sarà un po' meno "TuomasTuomasTuomas" e un po' più "GruppoGruppoGruppo"...spero vi piaccia! Baci baciosi :) (PS: Per chi non lo sapesse, la canzone citata era Dark Chest Of Wonders e non mi appartiene - magari! -, è stata composta Tuommi che non mi appartiene - magari!!!!!!!! - ed è eseguita dagli NW che non mi appartengono)













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Capitolo 2
*** Prima carta: l'Illusionista ***


…Vai, compositore, fai un buon viaggio… E non pensare di scampare alla mia condanna… Sei condannato ad inseguire le tue canzoni. Insegui, afferra, affronta, supera i tuoi capolavori, solo allora potrai tornare…

Tuomas aprì un occhio, aprì un occhio sul buio più totale che riuscisse ad immaginare.
Come diavolo faceva a sapere il mio nome?, fu l’unico pensiero che gli attraversò la mente, l’unica cosa che dopo il torpore del sonno riuscì a sfiorarlo.
Ma la domanda fu subito accantonata, ed etichettata come non importante, quando si rese conto di non sapere neanche dove si trovasse.
Si alzò a sedere – ora riusciva a capire, si era sdraiato su qualcosa di morbido, una brandina forse –, tastò in giro cercando delle pareti, cercando febbrilmente un interruttore. Ma non trovò nulla del genere, se non una piccola porticina, che spinse con tutte le proprie forze.
Tutta quella violenza però non servì a nulla, perché il legno della porticina si aprì docile al primo tocco, forse un po’ scricchiolante, e andò a sbattere contro le pareti esterne della sua piccola prigione. All’istante si scaraventò fuori, scappando dal buio claustrofobico che l’aveva aspettato al risveglio.
E tutte le imprecazioni, scurrili o meno che gli stavano salendo alle labbra, gli si bloccarono di colpo in gola, lui chiuse la bocca, deglutì, guardandosi intorno.
Non si era precipitato fuori da una prigione, si era precipitato fuori da un carretto di legno, colorato di brillanti tonalità di blu e di rosa.
Non riusciva a non avere gli occhi sbarrati, fece un paio di giri su sé stesso, stava sognando, era certo di star sognando.
Il piccolo carretto che l’aveva ospitato era solo uno dei tanti, si trovavano sul retro di un rosso, enorme, tendone da circo.
Cominciò a indietreggiare, senza riuscire a riprendersi dallo shock, dov’era finita Kitee, erano mura medievali quelle che intravedeva in lontananza, oltre le recinzioni in ferro battuto dello spiazzo del circo?
Nell’indietreggiare però andò a sbattere contro qualcosa, così fu costretto a girarsi, guardando il bambino che aveva travolto come se fosse il diavolo in persona.
«Oh, buongiorno, ben svegliato, messer Tuomas! Vi stavo cercando, dovevo ridarvi il cappello, l’avevate lasciato nel tendone come al solito»
Lo salutò, con un piccolo inchino, e poi gli porse una lunga tuba nera.
Lui la prese in mano, la osservò come se fosse un oggetto demoniaco, e solo allora si accorse di che cosa avesse addosso.
Indossava una camicia bianca dalla foggia straordinariamente antica sotto una logora giacca nera, e degli spessi pantaloni, anch’essi neri, infilati negli stivali più ridicoli che avesse mai visto, che gli fasciavano la gamba fino al ginocchio per terminare poi in una tesa molto larga. Ma la cosa più assurda era la cintura, alla quale era appeso il sottile fodero di un fioretto, con la larga elsa in argento che si distingueva per complicati ghirigori.
Tornò con lo sguardo al ragazzino – dieci, undici anni appena, non di più – mettendosi in testa il cappello con cautela.
«Io… grazie?»
«Di nulla, di nulla messere! Ma siete sicuro di sentirvi bene?»
Ora lo stava guardando interrogativo, con la stessa irritante curiosità dei bambini, e Tuomas si costrinse ad annuire, nonostante la sua capacità di ragionare fosse stata del tutto neutralizzata.
«Sì… sì benissimo. Dove posso trovare il… direttore, del circo?»
«E’ sempre nel suo carretto»
Ormai aveva acquisito abbastanza lucidità per maledire la propria stupidità, e l’impertinenza del ragazzino.
«E sai dirmi qual è il suo?»
Il bambino gliene indicò uno vicino, il più grosso, tutto dipinto con colori del rosso e dell’oro.
«D’accordo, grazie di nuovo»
E si allontanò in quella direzione sotto lo sguardo sempre più perplesso del piccolo.

Prima di bussare, Tuomas si concesse un istante di esitazione per riflettere, anche se era la cosa che meno gli riusciva di fare.
Sapeva che aveva incontrato di nuovo quella donna, quella maledetta donna, e lei le aveva predetto il futuro, un futuro che non capiva, nel quale aveva riconosciuto alcune delle proprie canzoni. E poi lo aveva ammaliato a tal punto da indurlo ad aprire uno scrigno nero, quello che lei aveva definito “del suo passato”.
Ricordava solo una grande luce.
E il terribile risveglio in un luogo dove non avrebbe dovuto trovarsi.
Sospirò e si costrinse a bussare alla porticina del carretto, anche se la familiarità con la quale l’aveva trattato quel bambino non gli era piaciuta affatto.
«Chi è? Entrate, forza!»
La voce che lo aveva accolto era limpida e profonda, la voce di un uomo che era abituato a parlare davanti al pubblico.
Lentamente, Tuomas aprì la porta e si affacciò all’interno.
La stanza era poveramente arredata, una brandina e uno scranno tutto quello che vi si poteva trovare, dietro il quale stava seduto un uomo con due lunghi baffi neri arricciati all’insù.
Ecco un altro personaggio saltato fuori da un cartone animato…
«Ooh, Tuomas, che bella sorpresa!» esclamò il direttore uscendo a fatica dal carretto e raggiungendolo all’esterno.
Era un uomo basso, che però compensava tutti i centimetri persi con l’ampia larghezza. I radi capelli castani erano nascosti da un’altra tuba, molto più bassa e tarchiata rispetto a quella di Tuomas, come d’altronde lo era il proprietario.
«Ti abbiamo cercato dappertutto, ragazzo, dove diavolo eri finito? Ti vogliamo in forma per stasera, sei la stella del nostro circo! Aah, no, non voglio sapere nulla di quello che hai preparato, non dirmi nulla! Voglio gustarmi i tuoi grandi numeri come lo farà il pubblico, voglio stupirmi con loro! Dannazione, sei il miglior illusionista che questo povero direttore abbia mai visto, a volte penso che le monete che guadagni siano davvero troppo poche.»
Se prima Tuomas era confuso ed esterrefatto, ora lo era cento volte di più.
Le informazioni erano troppe e gli erano giunte troppo velocemente, illusionista, spettacolo?
«Ma…» fu infatti tutto ciò che gli uscì di bocca.
«No, non provarci neanche, non avrai nemmeno un soldo in più da me, chiaro?»
«Non avete di che preoccuparvi, direttore, non sono venuto per un aumento.» riuscì a rispondere a fatica Tuomas.
L’altro gli rivolse un sorriso soddisfatto.
«Bravo, bene. Perché mi cercavi, allora?»
Lui deglutì, e rifletté.
Ora le cose stavano cominciando ad acquistare un’agghiacciante chiarezza. E in quella chiarezza, cosa mai avrebbe potuto chiedere, se gli era stata data la possibilità di capire già tutto?
«Sono venuto per chiedervi conferma dello spettacolo di questa sera»
Il direttore si perse in uno sproloquio di lodi riguardo alla bellezza del programma preparato, e a fargli l’elenco delle persone importanti che ci sarebbero state, elenco che non fece che metterlo a disagio.
Lui avrebbe dovuto esibirsi come la stella del circo, senza aver mai fatto un solo gioco di illusionista in vita propria?
C’era una sola cosa che avrebbe potuto tirarlo su di morale.
«C’è una… ehm… locanda in città?»
L’altro non ne venne a male quando fu interrotto nel suo insopportabile fiume di parole, gli rivolse un sorriso bonario invece.
«Ma certo, certo, ragazzo, ce n’è una proprio a ridosso delle porte della città.»
Tuomas ringraziò con un cenno del capo, miseramente rincuorato dalla possibilità di andare in un posto dove poter bere, e fece per incamminarsi lungo la strada di terra battuta, segnata dagli zoccoli dei cavalli e dai solchi delle ruote dei carretti.
«Non vuoi prendere il tuo cavallo?»
Oh, splendido, avrebbe dovuto aspettarselo di possedere anche un cavallo.
«No, vi ringrazio direttore, oggi preferisco camminare un po’» rispose senza neanche voltarsi.
Quella zingara sarebbe anche riuscita a fargli fare una pessima figura quella sera, ma non le avrebbe mai dato la soddisfazione di farsi beffe di lui vedendolo in sella ad uno stramaledetto cavallo.

La vista della locanda fu come quella di un sogno ad occhi aperti, la strada per arrivare dal tendone alla città non era stata affatto corta come gli era sembrata e lui ora era stravolto.
Aprì la porta, con l’espressione di un uomo che ucciderebbe volentieri qualcuno, si sedette al bancone ignorando tavoli e avventori come se non avesse mai fatto altro in vita propria.
Ma non era così.
Nulla di quella nuova vita gli era familiare, e non aveva idea di come riuscire a tornare indietro.
«Cosa posso portarvi, messere?»
Lui alzò lo sguardo, non si sarebbe mai abituato a quella storia del ‘voi’ e dei ‘messeri’.
«Una birra.» rispose, lo sguardo scuro, dentro quel locale si sarebbe davvero scatenato il finimondo se avesse scoperto di non poter avere neanche quella.
La locandiera però, una donna energica dai lineamenti induriti dal mestiere – sempre a contatto con energumeni e risse, risse ed energumeni –, non mostrò alcun segno di stupore alla sua richiesta e dopo pochi minuti si ritrovò davanti un enorme boccale di birra.
La prese in mano, cominciò a sorseggiarla, e pian piano riuscì a rilassarsi e a ragionare lucidamente. Una domanda sorse subito nella propria testa, la più immediata, quella con maggior importanza.
Era stato trasportato da solo in quello strano mondo, a metà tra una fiera medievale ed una fiaba per bambini, oppure anche gli altri suoi compagni erano caduti vittima dell’incantesimo di quella zingara?
«OSTE!»
L’urlo che proruppe dall’entrata, e che fece voltare tutti gli avventori all’unisono, fu la provvidenziale risposta.
Era entrato un uomo alto, indossava un rigido corpetto di cuoio da combattimento, come d’altronde i pantaloni e gli spessi stivali. Sfoggiava un largo sorriso, i lunghi e scompigliati capelli biondi ondeggiavano ad ogni suo passo, così come le treccine che gli spuntavano dal mento al posto della barba.
Marco.
I suoi occhi azzurri analizzarono velocemente tutti i commensali; anche Tuomas, che ormai si era abituato a quella sconcertante sensazione di stupore, ma non si soffermarono su di lui più di quanto non si fossero soffermati sugli altri.
«Il sottoscritto qui viene da un glorioso combattimento, dannazione, voglio il miglior boccale di birra di tutta la città, voglio il più grande! Anzi, bisogna festeggiare, pago un giro a tutti!» gridò nuovamente, e le sue ultime parole furono subito accompagnate da un boato di consenso da parte di tutti gli avventori, certo a loro non interessava chi mai fosse, ne contro chi avesse fatto il suo famoso combattimento, se con sconosciuti o con le loro stesse madri: a loro interessava solo poter bere e mangiare a spese d’altri.
Tuomas era ammutolito, non riusciva a smettere di fissarlo, sconvolto, dal vederlo lì, così a proprio agio, con quegli abiti assurdi addosso, mentre si beava dell’improvvisa popolarità.
Purtroppo per lui, però, il suo sguardo fisso fu colto quasi subito, e non fu ben interpretato.
Marco si districò dalla folla, interrompendo l’accorato racconto della sua battaglia, per avvicinarsi a lui.
«Beh, tu che hai da guardare, non hai mai visto un guerriero vittorioso?»
Tuomas si guardò in giro, a disagio, ora tutti gli occhi erano puntati addosso a loro.
Quel pomeriggio stava per diventare una manna per gli avventori, alcool e spettacolo gratuiti.
«Marco, cosa stai facendo, sono io, Tuomas...» gli sussurrò tra i denti.
Ma quella frase fu interpretata ancora peggio del suo sguardo, tant’è che Marco s’erse in tutta la propria altezza, torreggiando su di lui.
«Come diavolo fai a sapere il mio nome?» poi si girò, rivolgendosi ora al loro folto pubblico. «Sia chiaro, io non frequento attori, damerini o checche che siano!» esclamò, scoppiando poi in una risata, nella quale fu seguito da tutti gli altri.
E dopo quello, anche Tuomas fu costretto ad alzarsi in piedi.
«Piantala»
Ma l’amico non lo ascoltò, ora che gli aveva dato ciò che voleva.
«E’ una sfida? È una sfida! D’accordo, tira fuori la tua arma, avanti! Oppure i damerini circensi non sono capaci di farlo?»
E contro ogni logica Tuomas, provocato, ferito nell’orgoglio, senza riflettere molto sull’assurda situazione nella quale si era cacciato, afferrò l’elsa del fioretto con convinzione e la estrasse per puntarla poi verso il compagno. Le sue gambe, le sue braccia si misero in posizione, e allora scoprì di sapere tutto sull’arte del fioretto, sebbene non ne avesse mai preso in mano uno prima d’ora.
Ma Marco si stava divertendo, e ben presto lui capì anche perché, lo capì quando lo vide sollevare una grossa scure, che avrebbe spezzato in due la sua sottile lama al solo sfiorarla.
«Oh, cazzo…» mormorò, abbassando il fioretto.
«No, questa decisamente non è la tua giornata fortunata.» gli disse il compagno prima di calare un colpo che l’avrebbe centrato in pieno se non si fosse spostato immediatamente.
E quando vide il tavolo che fu sfasciato al posto della sua testa, Tuomas si rese conto che non si stava scherzando. Ringuainò l’inutilizzabile arma, cominciò a scappare per tutta la locanda, con il vichingo dietro che lo inseguiva demolendo tutto ciò che si trovasse sulla sua strada con la pesante ascia. Sarebbero stati pronti a continuare così fino al calar del sole, finché…
«Basta!»
I due si bloccarono, così come tutti gli altri avventori, che si erano messi a fare un tifo concitato per l’uno o per l’altro.
Dalle cucine era comparsa la locandiera, rossa in viso dalla rabbia.
«Uscite immediatamente da qui se non sapete fare altro che sfasciarmi il locale, non voglio rivedervi mai più nella mia locanda!»
Calò un silenzio imbarazzato tra i due.
«FUORI!»
Entrambi si affrettarono ad uscire per evitare che la donna con la sua ira attirasse tutte i soldati delle città, e quando si ritrovarono soli, in un vicolo maleodorante sul retro della locanda, sbattuti fuori con la coda tra le gambe, si osservarono bene in viso e non poterono fare a meno di scoppiare a ridere.
«Dai, dopotutto mi sei simpatico.» commentò Marco rinfoderando soddisfatto la propria ascia dietro la schiena. «Come hai detto che ti chiami?»
Lui fece una smorfia, trovava inconcepibile l’idea che si fosse dimenticato tutto.
«Tuomas»
«Ma… sai, non mi suona nuovo come nome.»
L’illusionista non osò dir nulla, guardò l’amico pensare, nella speranza che si ricordasse, che gli venisse in mente qualcosa…
«Comunque sia, è stato divertente. Spero che ci rivedremo per qualche altro pomeriggio in locanda, damerino.»
E neanche allora Tuomas disse nulla, lo guardò allontanarsi, con un amaro senso di delusione profonda.
Non gli restò che incamminarsi, tornare al suo carretto, l’unico posto che in quel mondo sbagliato avrebbe potuto chiamare ‘casa’, e prepararsi per uno spettacolo del quale non sapeva assolutamente nulla.

Era notte.
La luna era alta in cielo, le stelle erano migliaia, davvero migliaia, e il buio era il vero buio, e non il surrogato di tenebra proposto nelle città moderne, inquinato da quella irritante luce giallastra data dai lampioni e dalle luci artificiali. All’interno del tendone, tutto era illuminato con grandi fuochi, fuochi che gettavano strane ombre tra i tanti spettatori, giunti per assistere al grande spettacolo itinerante.
“Tu sei l’attrazione che aprirà le esibizioni di tutti gli altri, farai i tuoi numeri mentre suonerà la musica, che è il nostro marchio, e che ci rende il miglior gruppo di acrobati itineranti che esista.”, gli aveva spiegato il direttore.
Ed ora Tuomas era dietro le quinte, sbirciava nervosamente l’esterno, l’agitazione e la paura provate prima dei concerti erano nulla in confronto a quello che provava ora.
Durante i concerti sapeva esattamente che cosa avrebbe dovuto fare, ma ora…
Ma non ci fu più tempo per le esitazioni, quando cominciò la musica, e lui dovette entrare in scena, introdotto dalle tonanti parole del direttore.
«Damigelle, messeri, che senso ha una presentazione? È l’ora dell’Illusionista, è lui che vi stupirà, che vi farà capire che cosa potrete trovare stasera.»
Ed ecco, entrò in scena, era un bravo attore, questo sì, riuscì a recitare bene la parte dell’illusionista potente e misterioso.
“Mostra la musica che sentirai”, gli era stato detto, ma lui non aveva capito, e continuava a non capire il significato di quelle parole.
Eppure… eppure era come se quella musica fosse… fosse…
Scaretale.
Stupito, si ritrovò a viaggiare sulle note della sua stessa canzone, e poi arrivò il momento, il folle momento in cui dovette cantare.
«C’era una volta in un incubo diurno… ‘Muoio dalla voglia di incontrarti, piccolo bimbo; entra, entra in questa galleria…’ E’ tempo di andare a letto, la culla dondola ancora; tredici rintocchi sull’orologio di un uomo morto: tick-tock, tick-tock, tick-tock!»

Once upon a time in a daymare…
Dying to meet you, little child; enter, enter this slideshow…
Time for bed, the cradle still rocks; 13 chimes on a dead man's clock: tick-tock, tick-tock, tick-tock.


Si tolse il cappello, e allora quello che accadde fu davvero una follia, fu davvero qualcosa di inspiegabile: perché senza che facesse nulla, le sue parole si erano tramutate immagini, in illusioni, con le quali stava stregando il pubblico.
Stupefatto, lui continuò cantare la sua canzone, ad esibirsi, e a creare le sue illusioni.
Lui era un mago.
Lui era davvero un illusionista.
«La sposa ti ammalierà, ti cucinerà, ti mangerà! La tua cara innocenza, bollita per nutrire il male in cerca di paura! Fattorie che bruciano e maiali che urlano, una vasca di serpenti con cui nuotare, oh dolce veleno, mordimi, mordimi…»

The bride will lure you, cook you, eat you!
Your dear innocence, boiled to feed the evil in need of fear!
Burning farms and squaling pigs, a pool of snakes to swim with, oh sweet poison, bite me, bite me…


Il direttore si affiancò a lui ed alle sue illusioni, pronto a concludere la magnifica introduzione con il meglio di sé. Gonfiò il petto, preparandosi a cantare a sua volta.
«Signore e signori, siate i benvenuti al Cirque De Morgue! E che spettacolo abbiamo per voi stanotte! Anime senza pace metteranno le loro scarpe da ballo, stupidi demoni con molte membra da perdere, illusionista, contorsionista, camminatori sul filo che stringono la corda!»

Ladies and gentlemen, be heartlessly welcome to Cirque De Morgue!
And what a show we have for you tonight!
Restless souls will put on their dancing shoes, mindless ghouls with lot of limbs to lose, illusionist, contortionist, tightrope-walkers tightening the noose!


E i veri artisti del circo cominciarono  ad arrivare, e le sue illusioni non servirono più.
Ne nacque uno spettacolo magistrale, senza precedenti, uno spettacolo che nella sua bellezza poteva esistere solo in una favola.
E quando tutto finì, Tuomas si ritrovò seduto sul tetto del proprio carretto, a guardare le stelle, e riflettere su tutto ciò che era successo, ancora non gli sembrava vero, ancora gli sembrava di vivere in un sogno, forse quello era davvero un sogno.

«Damerino!»
Si girò, interrotto nel bel mezzo dei propri pensieri e delle proprie riflessioni, e si stupì nel vedere Marco chiamarlo ai piedi del veicolo improvvisato.
Subito scese dal carretto, e si ritrovò davanti a lui.
«Ho assistito allo spettacolo. Ho sentito quella musica… che razza di musica era? Io la conosco! Io conosco questa musica! Com’è possibile?»
Un impercettibile sospiro di sollievo per Tuomas, allora non si era dimenticato tutto…
Lo guardò negli occhi; se c’era lui, allora dovevano esserci tutti gli altri. Li avrebbe ritrovati, e poi con loro avrebbe trovato un modo per tornare a casa.
«Vantandoti di essere un guerriero vittorioso mi hai quasi ammazzato, accidenti a te! Ora dimostralo e seguimi. Domani partiremo alla ricerca di non so bene che cosa. È abbastanza avventuroso questo per un guerriero come te? Ah, e un’altra cosa: mi chiamo Tuomas. Chiamami damerino un’altra volta e ti strappo le treccine che hai al posto della barba»










Ciò che dice l'Autore
Eccoci qui al secondo capitolo! Come vola il tempo U.u (A proposito: la canzone citata era Scaretale composta da Tuomas eseguita dai Nightwish e loro non mi appartengono ci mancherebbe altro ecceteraeccetera)
Tra l'altro questo (manco a farlo apposta) mi è persino venuto più lungo dell'altro! Che ci devo fare, io non sono capace di contenermi quando scrivo ^^ Ammetto di essermi divertita come una matta nello scrivere dell'incontro con Marco ihih il nostro vichingone è perfetto per il ruolo!! Lo adoro xDD....
Ecco, è ovvio che nel medioevo non esisteva ancora il circo come noi lo intendiamo con il tendone rosso e tutte le altre cose che lo contraddistinguono, ma ormai penso si sia capito che ho rinunciato da tempo a rendere questa fanfic anche verosimile: è una favola e molto spesso le parole "favola" e "verosimile" non sono compatibili ^^ Beh, spero che vi sia piaciuto, un bacione a tutti quanti e un grazie ai lettori e a chi ha commentato :D











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Capitolo 3
*** Seconda carta: la Sirena ***


Tuomas si svegliò, nuovamente, nel dormiveglia riusciva solo a scorgere vaghe figure nella penombra.
Sotto di sé sentiva un letto, intravedeva le imposte chiuse di una finestra dalle quali penetrava un sottile velo di luce…
Vide la alta figura di un uomo vicino al suo letto, si muoveva nella stanza radunando chissà cosa, in lui riconobbe la familiare sagoma di Marco, il tastierista lanciò un mugolio assonnato.
«Per piacere… non dirmi nulla stamattina Marco, non ho ancora scritto nessuna canzone… prometto…prometto che questo pomeriggio mi ci metto…adesso lasciami dormire dai…»
Era troppo assonnato per pensare a quello che stava mormorando, si girò dall’altra parte nel tentativo di rincorrere lo sprazzo di un sogno notturno, ma tutti i suoi sforzi furono vani quando il compagno spalancò le imposte e i fastidiosi raggi mattutini andarono a svegliarlo, ridendo del suo smarrimento.
«Scrivere canzoni? Non mi dire, sei anche un menestrello»
…Menestrello?
Tuomas si alzò di scatto a sedere, si guardò intorno allarmato, no, non era a Kitee, era una piccola e graziosa stanza medievale quella che lo aveva osservato dormire per tutta la notte.
E Marco, Marco non era in jeans e felpa come al solito, esibiva una corta cotta di ferro dietro alla quale spuntava il manico della sua temibile ascia.
Che orribile risveglio.
«Dove siamo?»
Domandò, guardandosi intorno. Era contento di non aver passato un'altra notte in quel piccolo carretto che gli ricordava tanto una tomba, dal quale d’altro canto era stato immediatamente cacciato da un infuriato direttore, quando questo aveva scoperto dell’intenzione dell’illusionista di lasciare il circo.
«Casa mia! Eh, sì, ammetto, non è un palazzo nobiliare, ultimamente le paghe per i mercenari fanno piuttosto schifo, ma cosa posso farci, non ho altro modo per guadagnare denaro e mai mi vedrai andare in giro a saccheggiare villaggi, mai, parola mia!»
L’amico si era parecchio scaldato, si vedeva che l’argomento gli stava a cuore.
Tuomas notò anche il piccolo giaciglio improvvisato che si era costruito per terra, aveva deciso di lasciargli l’unico letto dell’unica stanza da letto della casa.
Sospirò.
Avrebbe potuto cambiare epoca, vestiti, mestiere, mondo persino, ma Marco non avrebbe mai potuto abbandonare il proprio cuore d’oro.
Con un enorme sforzo fisico, l’illusionista decise di uscire dal proprio bozzolo di coperte e vestirsi, litigando con i lacci dei pantaloni e con gli alti stivali, sotto lo sguardo dell’amico, sempre più divertito nel vederlo così impacciato dentro il suo abbigliamento arcaico.
Per ultima si mise la tuba sulla testa, alla quale in fondo si era affezionato, gli piaceva, forse l’unica cosa che lo soddisfaceva del proprio aspetto in quel momento. Cercò anche il fodero del fioretto, ma invano.
«Ecco, qui c’era una piccola sorpresa.» gli disse infine Marco, aprendo le ante di un armadio.
Ne tirò fuori un fodero, molto più grosso rispetto a quello della sua precedente arma sottile, dal quale spuntava l’elsa di una spada magistralmente decorata con incisioni d’edera e rose.
Tuomas la prese in mano, la impugnò per sguainarne una parte ed osservare sé stesso nel riflesso della lama lucida e mortale.
Era meravigliato, non aveva visto nulla di più bello in vita propria.
«Era mia, l’ho presto abbandonata in favore dell’ascia, mi piace molto di più in combattimento. Sì, in effetti volevo regalarti una delle mie vecchie scuri, ma tu non sei tipo da scure, si vede al primo sguardo! Lei è la spada più bella che ho… trattala bene o ti ammazzo.»
E tutta quell’aria da guerriero dal cuore grande si era infranta con quell’ultima frase, chissà, forse pronunciata apposta per non fare troppo la figura del sentimentale.
Tuomas gli lanciò un’occhiata mentre se la allacciava al fianco, a metà tra il divertimento e l’inquietudine, sapeva che scherzava, ma la brutta esperienza con la sua ascia lo lasciava ancora un po’ perplesso riguardo alla sua capacità di scherzare.
«Allora, da dove parte la nostra ricerca?»
Marco si era appoggiato con la schiena all’armadio, lo guardava con l’impazienza negli occhi.
Tuomas si sedette di nuovo sul letto e rifletté.
Se tutta quella storia, assurda e stupefacente, era cominciata con un circo e un’illusionista…
La prima carta.
Tutto ora gli sembrava perfettamente logico, quella zingara l’aveva gabbato, lei non possedeva alcuna capacità di prevedere il futuro, quelle carte rappresentavano solo un percorso già da lei scritto.
E cos’altro gli restava da fare, se non seguire l’unico sentiero sbiadito che gli era stato concesso di vedere?
Quindi, a rigor di logica, la seconda carta era…
Tuomas alzò di scatto lo sguardo sull’amico, come se gli fosse improvvisamente venuta un’illuminazione.
«C’è un porto da queste parti?»

Il maggior pregio, forse l’unico, di quelle affollate e maleodoranti stradine medievali era la loro piacevole cortezza, dovuta alle dimensioni della cittadina, così deliziosamente piccole.
Per questo i due non impiegarono molto tempo ad arrivare al porto, guidati dai passi abili e sicuri di Marco, e presto davanti a loro poté stagliarsi un’incredibile fioritura di navi e velieri, che Tuomas non avrebbe mai avuto la possibilità di vedere a Kitee o in qualunque altro luogo del mondo contemporaneo.
Durante quel viaggio non avrebbe mai smesso di stupirsi, se ne rendeva conto ora che non riusciva a staccare lo sguardo meravigliato dall’imponenza e dalla bellezza di quegli antichi velieri.
Si riscosse solo quando si sentì tirato per i vestiti dal compagno, e lo trovò che scuoteva la testa con un sorrisetto.
«Sapevo che eri straniero, ma non aver mai visto una nave in vita tua! Forza, vieni, il capitano di quella vela è mio amico e per lui imbarcarci non sarà un problema»
Indicava una delle barche più piccole, minuta ma ben costruita, dalla costruzione aerodinamica che ne faceva una nave capace di toccare elevate velocità. Il capitano era appoggiato al fianco della nave, e come essa era di corporatura alta e sottile, ci si chiedeva come un uomo così esile fosse riuscito a diventare un buon marinaio, ma era chiaro che solo lui avrebbe potuto rispondere a tale domanda, e non ne aveva alcuna intenzione. Il suo sguardo era posato a terra, mentre un filo di fumo si levava dalla pipa che fumava con tranquillità.
«Capitan Haigsley, ho il piacere di presentarvi il mio amico, sir Tuomas, illusionista e menestrello.»
Il capitano alzò su di loro uno sguardo acuto attento in fondo al castano dei suoi occhi. Salutò il guerriero con un cenno del capo  per dedicarsi completamente a colui che accompagnava.
Lui sostenne il suo sguardo con fierezza, forse si stava adattando a quelle epiche regole medievali che parlavano di formalità ed onore.
«Molto lieto, sir. Tuomas…»
«Holopainen.»
Un altro silenzioso confronto di sguardi, nessuno dei due aveva intenzione di cedere per primo.
«Un forestiero… beh, come sir Hietala, dopotutto. Menestrello e illusionista?»
«Così dicono. Compongo ballate e posso anche cantarne, ma non suono» rispose Tuomas, il quale sapeva perfettamente che trovare lì un pianoforte o una tastiera sarebbe stato assai difficile.
Cominciava a divertirsi recitando la sua parte, sebbene lo sguardo freddo, diffidente e calcolatore del capitano non gli piacesse molto.
«…Singolare.» fu l’unico commento del marinaio, che si concesse un attimo per staccare gli occhi da quelli grigio azzurri di Tuomas e puntarli ora su Marco.
«Mi avete portato un intrattenitore, peccato che non ci sia più nessuno da intrattenere.»
Marco si fece ora serio, aveva notato l’assenza dell’equipaggio all’interno della nave.
«Che fine hanno fatto i vostri uomini, capitano?»
Gli occhi di Haigsley, se possibile, si fecero ancora più affossati all’interno del suo volto magro e affilato.
«Tutti arrestati, difficile da credere ma è così, tutti arrestati. Sono sempre stati degli stupidi, non si vanno a urlare certe cose in una taverna. E non oso neanche pensare a che cosa abbiano fatto loro; ma pensare che siano ancora vivi sarebbe solo un’utopia. Siamo rimasti io e la mia barca.»
Marco s’incupì a dismisura, come se le notizie date non gli fossero nuove alle orecchie, notizie che però a quelle di Tuomas non avevano il minimo significato.
«Noi stiamo cercando semplicemente un passaggio per attraversare questo braccio di mare e raggiungere la più vicina cittadina portuale» s’intromise così l’illusionista, per rompere il silenzio teso che era calato, fatto di sguardi gravi e spaventose notizie prive di significato.
«Questa bagnarola è abbastanza piccola perché possa manovrarne le vele da solo, ma non riuscirei contemporaneamente ad essere al timone.» gli rispose il capitano.
«Posso farvi io da timoniere, sir Haigsley, ho una discreta esperienza alle spalle.» si offrì Marco, attirando nuovamente su di sé lo sguardo freddo e impenetrabile del marinaio.
Altri minuti di silenzio, chissà, forse il signor Haigsley si divertiva a tenerli sulle spine, finché accettò con un cenno d’assenso.
«E sia.»
Detto questo spense definitivamente la pipa, se la rimise in tasca e salì sulla barca.
«Però vi consiglio di sbrigarvi, prima molliamo gli ormeggi e meglio è; il mare quest’oggi è infido. Per fortuna la cittadina portuale più vicina si trova a meno di un giorno di viaggio.» disse un’ultima volta, per poi scendere sottocoperta.
«Da quand’è che sai manovrare una nave?» domandò Tuomas salendo per la passerella di legno.
Quali altre sorprese avrebbe avuto in serbo l’amico per lui?
«Un mercenario che si rispetti deve saper fare un po’ di tutto.» fu la risposta, detta con una tale convinzione e naturalezza che l’illusionista non osò replicare nulla.

E così la piccola barca salpò, e navigò a lungo quel giorno, tanto che il mattino divenne pomeriggio molto rapidamente.
Quel pomeriggio si stava avviando alla sera, quando gli sbuffi di nuvola appena abbozzati che si erano intravisti nel cielo si trasformarono in grosse nubi grigie cariche di pioggia.
Il capitano scrutò il cielo, così come Tuomas, nessuno dei due aveva un buon presentimento a riguardo.
Eppure, nonostante la situazione climatica andasse peggiorando, le onde del mare si placarono, si distesero, l’oceano divenne una liscia e piatta tavola grigia come il piombo.
Tutto, tutto era in silenzio, un silenzio così mortificante e paralizzante che aveva il potere di ammutolire tutti e tre con la propria imponenza.
E proprio quando stavano per impazzire nella tensione di quel terribile silenzio, ecco che fu rotto dalle prime note di una lontana canzone.
Perché era comparso uno scoglio qualche metro più avanti, perché?
E il capitano aveva gli occhi sbarrati, si era alzato in piedi, si guardava intorno con un indicibile terrore negli occhi.
«…Siamo perduti…» mormorò, come un pazzo che sussurra i propri deliri al vento.
Tuomas si alzò anch’esso in piedi, dietro di loro Marco continuava a manovrare il timone, l’illusionista aguzzò la vista, ma prima degli occhi arrivò l’udito, perché la canzone s’era fatta più forte.
L’aveva riconosciuta...
E lo stesso strisciante terrore che aveva preso il capitano, ora prese anche lui.
Perché sullo scoglio c’era anche qualcun altro.
Era una figura femminile.
Anche se lontana, Tuomas poteva coglierne la bellezza senza pari, una bellezza inumana, i lunghi capelli biondi che s’inabissavano poi nel mare in una cascata d’oro erano la preziosa cornice di uno splendido corpo, che avrebbe desiderato qualsiasi uomo.
Non fosse stato per la coda di pesce, che si mangiava demoniaca quello splendido corpo dai fianchi in giù…
Lei li guardava, sorrideva loro, era il sorriso più bello che un uomo potesse mai desiderare di ricevere.
«Io… io… oh, che Dio mi perdoni, io devo averla!» esclamò improvvisamente il capitano.
Veloce, preso da un impeto irrefrenabile, prima ancora che Tuomas si rendesse conto di ciò che voleva fare e che potesse fermarlo, si tolse la giacca, gettò il cappello e si tuffò in mare, nuotando con foga per raggiungere il suo scoglio.
Inutili furono gli angosciati richiami dell’illusionista, il marinaio giunse allo scoglio, la sirena ancora gli sorrideva benevola…
Ne emerse un’altra, alle spalle di lui, questa aveva una lunga massa di riccioli castani, e lui andò da lei, e la castana lo abbracciò, sorridendogli anch’essa, e il loro bacio fu bellissimo e terrificante insieme…
E si concluse sott’acqua, dove lei lo trascinò, e le loro due figure si persero rapidamente negli abissi marini.
Più nulla venne a galla.
Ma la bellissima sirena bionda non si era tuffata con loro, lei ancora guardava la nave. Erano loro che lei voleva.
Cominciò a cantare.
«Una dama con un violino suona alle foche; presta ascolto al suono del richiamo»

A lady with a violin playing to the seals; hearken to the sound of calling

La sua voce era ancora più splendida del suo viso, era così bella che anche Tuomas suo malgrado si commosse, e asciugandosi le lacrime dal volto maledisse con tutto sé stesso il giorno in cui, insieme ad Emppu, aveva composto quella canzone.
Ora rischiava di morirne.
Chissà perché, lui era immune al richiamo della sirena, forse perché era stato lui stesso a scriverne la canzone.
Ma non Marco, che rimaneva al timone, con un sorrisetto beato in viso e gli occhi fissi su quelli della sirena.
«Marco! Vira! Vira, ti scongiuro, andremo a sbattere contro quello scoglio!» gli urlò Tuomas, ma Marco non lo ascoltò.
«Lascia il timone!» insistette, disperato.
«Tuomas, io… non posso.»
E quella fu l’ultima frase lucida che il guerriero riuscì a pronunciare.
E sotto lo sguardo compiaciuto della creatura del mare, anche Marco si mise a cantare, sì unì a lei nel suo canto confuso e disperato.

«Chi ha legato le mie mani al timone?! Lo zodiaco gira intorno a me!»

Who tied my hands to the wheel?!
The zodiac turns over me!


«…Vieni da me…»

…Come to me…

«Là da qualche parte il mio futuro sarà rivelato… Io sento, ma come vedrò?»

Somewhere there my fate revealed…I hear but how will I see?

E la nave continuava a navigare, sballottata dal vento e dalle onde, che ora avevano ricominciato a farsi sentire, e Tuomas decise che non avrebbe potuto morire ucciso da una stupida sirena.
Si mosse, finora paralizzato dalla paura e dallo stupore, corse fino al timone e cercò il ogni modo di gettar via Marco dal luogo di comando.
Seguì una breve colluttazione, durante la quale Tuomas ebbe la meglio con la forza della disperazione e riuscì a prendere il mano il timone, spingendo a terra il compagno.
Fece in tempo a virare all’ultimo, una pesante sterzata e la nave evitò per un pelo lo scoglio della sirena, sfiorandolo con la fiancata.
Ma lei li aveva seguiti, e ora nuotava a fianco a loro, e si rivolgeva ancora a Marco, sempre cantando.
E il guerriero si mise a fatica in piedi, la vide, andò verso di lei sporgendosi dalla nave.

«Io ho legato me stesso al timone! I venti parlano alle mie vele, non a me…»

I tied myself to the wheel!
The winds talk to my sails, not me…


«…Vieni da me…»

…Come to me…

«Là da qualche parte il mio futuro sarà rivelato… Io sento, ma come vedrò?»

Somewhere there my fate revealed…I hear but how will I see?

E si sporse ancora di più, e le sue labbra stavano per sfiorare quelle della sirena, e stava per cadere nell’incanto delle sue meravigliose braccia ingannevoli…
Un lampo, un lampo velocissimo, Tuomas si era precipitato sul ponte e aveva interrotto il loro contatto con un rapidissimo colpo di spada, che aveva fatto rotolare lontano il compagno.
La canzone era finita.
Loro avevano vinto.
La sirena, riconosciuta la sconfitta, si lasciò andare ad un acuto urlo di rabbia che di umano aveva ben poco, e al suo urlo se ne unirono cento, un coro che fece rabbrividire Tuomas di terrore.
Ma quando lei si tuffò nuovamente, tornando negli abissi, tutto si placò.
Il mare, il cielo, le nubi.
Tuomas tornò al timone, tanto per tenerlo in mano, senza sapere in realtà che cosa farsene, tanto per avere una parvenza di controllo sulla nave.

E mentre Marco si riprendeva, stordito, come da uno stato di incoscienza, l’illusionista vide in lontananza, tra le ombre violacee del crepuscolo, la rassicurante luce di un faro.

















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Capitolo 4
*** Veggente, Illusionista e Menestrello ***


Era buio.
Era buio, era tutto, completamente buio, Tuomas cercava invano una via d’uscita, si disperava muovendosi a tentoni nell’oscurità, ma nulla gli veniva alle mani.
E proprio quando cadde in ginocchio, arrendendosi al panico che gli stava divorando famelico lo stomaco, intravide del chiarore qualche metro più avanti, sì, era una vera e propria chiazza di luce.
Era una lanterna, galleggiava sola?
No, certo che no, era sorretta dalla bianca mano di una figura incappucciata, che si allontanava, Tuomas si rimise subito in piedi, non voleva perdere quella luce, cominciò a correre, raggiunse il fantasma ammantato di nero e lo afferrò per una spalla.
E quando si girò, e lui poté vederlo in viso, lo stupore lo lasciò a bocca aperta.
Tarja.
Si, era proprio lei, sotto il cappuccio nero come l’oscurità stessa spiccava il suo bianco volto, lo guardava senza dire una parola, sul suo viso malinconico però viveva ancora una profonda tristezza nel ricordo di come, anni prima, si erano lasciati.
Lei lo prese per mano, lo condusse con sé attraverso quel buio corridoio, finché non sporse una mano e, afferrando le tenebre, non le tirò di lato come il nero sipario di un palcoscenico.
Aperto il sipario, ora si trovavano in una piazza, era una piazza medievale, deserta ma così reale!
Lei lo osservò – sempre con il suo sguardo struggente, triste e malinconico – gli mostrò la piazza con un gesto del braccio.
E lui non ebbe tempo neanche per dirle nulla, per chiederle del suo ritorno o domandarle che cosa fosse quel luogo che gli veniva mostrato.
Non ebbe tempo di fare nulla, perché la nitidezza del sogno fu squarciata dalla sua coscienza che si liberò all’improvviso dalle sue catene oniriche.

Tuomas si alzò seduto sul letto, ansimante, ancora non riusciva a scrollarsi di dosso l’inquietante angoscia che si era portato dietro dal sonno.
Si asciugò la fronte, madida di sudore, si prese la testa tra le mani, che cosa poteva significare quel sogno? C’era anche Tarja in un quel carosello di assurdità? Se sì, dove si trovava?
Sospirò.
La verità era che non riusciva a cancellare dalla mente il ricordo del suo triste sguardo, impresso a  fuoco nel suo cuore, la ferita per il suo allontanamento ancora bruciava, dopo anni.
Si concesse qualche minuto per calmarsi prima di levare lo sguardo a guardare la piccola stanza che erano riusciti ad affittare nella locanda della città, appena dopo aver gettato l’ancora nel porto della cittadina.
Tuomas lasciò che gli occhi vagassero fuori dalla finestra, stava sorgendo una nuova alba sui tetti delle umili casette di pietra, quei piccoli agglomerati di antiche villette gli parevano tutti uguali, tutti disordinati, stretti e caotici. L’unica cosa per la quale quella nuova cittadina – della quale s’era già dimenticato il nome – si distingueva dalla precedente era la presenza di una grossa piazza del mercato, molto caratteristica, molto medievale…
E molto simile a quella sognata, constatò sorpreso Tuomas, identica a dire il vero.
Si alzò dal letto, cominciò a vestirsi senza minimamente pensare all’abbigliamento, ora i suoi pensieri galoppavano a velocità irraggiungibili, domande ed ipotetiche risposte si susseguivano nella sua mente come lettere impazzite al limite della comprensione.
Era dunque lì che Tarja aveva voluto indirizzarlo? Perché? Era forse nella piazza che l’avrebbe trovata?
Era stata proprio lei a raggiungerlo in sogno, o era stata solo una visione datagli dalla zingara?
E se così fosse stato, come avrebbe fatto a sapere se le indicazioni della zingara fossero per aiutarlo o per metterlo in difficoltà?
Si sentiva giocatore di un gioco nel quale era costretto ad essere sempre in svantaggio, quella sensazione era la cosa più irritante tra tutte le altre di quel viaggio.
Così, l’unica maniera che aveva per trovare delle risposte alle sue domande era quella di andare avanti a giocare, del tutto alla cieca.
Si avvicinò a Marco, che aveva dormito nell’altra brandina presente nella stanza, il suo viso era crucciato anche nel sonno, si era davvero arrabbiato quando aveva saputo di essere stato abbindolato come un ingenuo dal canto di una “stupida donna pesce”, come lui l’aveva definita.
Senza dire una parola, Tuomas spalancò le imposte e lo privò molto crudelmente delle coperte, ricambiandogli il favore del giorno prima con una certa sadica soddisfazione.
«Avanti, alzati, oggi so dove andare e non è una cosa che capita spesso, non vorrai perderti questa occasione, spero.»

Quando i due uscirono dalla locanda e si incamminarono lungo le strette stradine dissestate era ormai mattino inoltrato, il sole stava prendendo corpo e colore, presto sarebbe diventato il leone infuocato del pomeriggio; tutto perché Marco aveva passato la mattinata a farsi bello e a lucidare la propria ascia, sotto l’insofferente sguardo del compagno.
Sì, Tuomas era nervoso, aveva già perduto quel briciolo di pazienza conservata con fatica, non sapeva che cosa avrebbe trovato nella piazza, non sapeva se ci avrebbe effettivamente trovato qualcosa.
Forse fu per il suo sguardo teso e il suo atteggiamento irritabile che Marco non osò dir nulla, il loro cammino proseguì silenzioso e veloce, e giunsero in fretta al loro obiettivo.
Furono però subito bloccati da un incredibile affollamento, persone e persone tutte calcate intorno alla stessa piazza, sembrava quasi che stesse per scoppiare.
«E’ normale che ci sia così tanta folla?» domandò, nervoso, al guerriero, il quale si guardava in giro con una faccia che già da sola poteva rispondergli.
«No, affatto»
Una sensazione di gelo s’impossessò del corpo di Tuomas, l’illusionista non sapeva perché, tutta quella faccenda poteva anche non riguardarlo, ma era come un presentimento che gli vagava nel petto.
Sperò di non avere anche la veggenza come potere, oltre all’illusionismo, era certo che non sarebbe riuscito a sopportare d’esser chiamato ‘Sir Holopainen, Veggente, Illusionista e Menestrello’. Allora gli sarebbero mancati solo i titoli di ‘Contorsionista’ e ‘Clown’, e avrebbe potuto metter su da solo una compagnia di saltimbanchi ambulanti.
Cominciò a farsi strada tra la folla, sfoggiando una smorfia sul viso per via delle indesiderate tracce del proprio amaro umorismo.
Fu una lotta dura ed estenuante, fatta di gomitate, spinte, anche sputi a volte, sempre stando attenti a non calpestare il bambinetto o la bambinetta di turno, ma i due riuscirono comunque ad uscirne vittoriosi, e si ritrovarono rigettati in prima fila, come se una volta attraversato l’ammasso di gente ora questo li respingesse.
La prima cosa che notò Tuomas, appena ripresosi dalla fatica e dalla sensazione di claustrofobia – stretto a tal modo tra spalla e spalla, gomito e gomito –, fu una donna, trattenuta da due soldati, sul suo volto imperava un’angoscia soffocante, gli occhi lucidi erano sul punto di scoppiare in tutte le proprie lacrime.
E poi, poco lontano, al centro della folla, altri cinque uomini se la prendevano con qualcosa, con qualcuno, nascosto dai loro corpi, dai loro calci e dai loro pugni.
«Fermatevi! Vi scongiuro, smettetela, lui non c’entra nulla, voleva solo difendermi!» urlava la donna, le sue grida sembravano piacere ancora di più ai loro aguzzini, le ascoltavano solo per riderne e non per esaudire le sue suppliche.
«Voleva solo difendere una strega, bellezza. E come tu finirai presto sul rogo, anche lui verrà a farti allegramente compagnia sulla forca»
Era stato un altro a parlare, se ne stava in piedi con le braccia conserte ad osservare la scena con un sorrisetto compiaciuto, non aveva ancora alzato un dito sulla donna né sull’uomo che i suoi compagni invece si stavano divertendo a maltrattare.
«Su, ragazzi, fermatevi un attimo! Non lo sapete che il nostro nanerottolo è bardo di mestiere?» aveva poi aggiunto.
E subito, come ottusi cani pronti ad obbedire ad ogni comando del proprio padrone, smisero di massacrare la loro vittima, che si accasciò a terra, senza emettere un solo suono, e tutti capirono che non era un uomo qualunque, aveva sopportato quel trattamento senza fare nulla, per non aggravare la posizione della ragazza che aveva difeso, e senza dire nulla, non un gemito di dolore si era sentito, non avrebbe mai dato loro questa soddisfazione.
«E pare che sia anche piuttosto bravo. Avanti, suonaci qualcosa, per l’ultima volta, prima di venire trasportato alla forca!»
I cinque suoi scagnozzi si spostarono, e quello che era chiaramente il loro capo gli lanciò addosso una chitarra, la chitarra che inizialmente erano stati loro a sottrargli.
L’uomo si alzò a fatica a sedere, i capelli biondi che in lunghezza gli superavano le spalle erano macchiati di sangue all’altezza della cute, il labbro inferiore era tumefatto e sanguinante, da una narice scendeva un sottile rivolo rosso scuro, gli abiti erano sporchi e lacerati in diversi punti.
Si aggrappò alla chitarra nel tentativo di rialzarsi, ancora senza proferir parola, ma questo suo silenzio non piacque al capo dei soldati, che lo afferrò per i capelli.
«Ti ho detto di suonarci qualcosa.»
Il pugno che gli fu dato, all’altezza dello zigomo, lo fece ricadere pesantemente a terra.
«Abbiamo arrestato l’unico criminale sordo e stupido della contea!»
E gli altri cinque si affrettarono a ridere, sotto gli sguardi impauriti e incuriositi delle persone attorno a loro.
Tuomas non riusciva muoversi, era come paralizzato.
Gli sembrava di accusare lui ogni colpo, di sentire sul proprio corpo ogni ferita riportata da Emppu.
Il chitarrista rialzò a fatica, lo zigomo ora anch’esso sanguinante, rimase a terra inginocchiato, riafferrò il proprio strumento e le sue abili dita cominciarono ad intonare, delicate, una canzone impressa nella propria memoria.
Ah, quanto avrebbe voluto ci fosse Tarja a cantare, e non lui, che rischiava di rovinarne la magia…
«Solo una volta ho potuto vedere il mio sogno, non ho provato la sensazione di essere piccolo sotto le stelle. Un tempo avevo delle sbarre nella mia culla: come un prigioniero scrivo una lettera da lì.»

Kerran vain haaveeni nähdä sain
En pienuutta alla
tähtien tuntenut
Kerran sain kehtooni kalterit
Vankina sieltä kirjettä kirjoitan


Le malinconiche note della sua canzone, della quale solo Marco, Tuomas ed Emppu potevano sapere il significato, gettarono un velo ovattato sulla piazza, nemmeno i soldati fiatavano più.
E Tuomas, che avrebbe voluto fare qualcosa, avrebbe voluto aiutarlo, avrebbe voluto picchiare quei cani fino a far loro rimpiangere di essere nati, rimase invece fermo, immobile, a fissarlo come sconvolto.
Ed Emppu, Emppu suonava sapendo che sarebbe stata l’ultima volta in cui avrebbe preso in mano una chitarra.

«Mio Dio, a te, fammi diventare ciò che mio figlio pensa che io sia»

Luojani, luoksesi anna minun tulla siksi miksi
lapseni minua luulee


L’incantevole bellezza delle sue dita che volavano sulle corde, e del loro suono, fu però interrotta dal gemito di un soldato, che era caduto a terra come un vestito vuoto.
No, non era un soldato, era il capo del gruppo dei soldati, giaceva a terra con gli occhi riversi.
La folla fece simultaneamente un passo indietro, spaventata, gli altri armigeri si guardarono intorno sconvolti.
Dietro di loro stava Marco, stringeva l’ascia in mano in maniera a dir poco sinistra.
«La festa è finita, luridi bastardi. Ora mi diverto un po’ io.»
Nei suoi occhi ardeva una rabbia che a chiunque avrebbe fatto paura, e i soldati non furono da meno, indietreggiarono nel vederlo avanzare verso di loro a scure alzata.
Emppu lo guardava come se avesse visto un fantasma.
«Marco?» chiese, incredulo, non osava sperare.
Non ricevette però risposta, i suoi aguzzini avevano fatto presto a riprendersi dal timore iniziale e si erano avventati addosso all’uomo che si era permesso di colpire il loro capo.
«Tuomas, ti assicuro, questo è il momento meno adatto per fare il pavido damerino, sguaina quella maledettissima spada, non te l’ho regalata per farti bello con le ragazze!» urlò il guerriero, tra un fendente e l’altro.
E per Tuomas quelle parole furono come una secchiata d’acqua gelida in faccia, fu come risvegliato, gli ci volle qualche secondo per comprendere la situazione.
Ma quando lo fece, tutta la furia e la rabbia provate nel vedere l’amico umiliato in tal modo esplosero in una volta sola, corse verso i due che tenevano ferma la donna, dovettero lasciarla andare per difendersi dalla furia omicida che aveva preso l’illusionista.
Tuomas non urlava, non insultava, bastavano i suoi occhi ora grigi ad incutere timore, erano pervasi da una tale ira, gelida, che i nemici ne erano spiazzati.
«Messere, li conoscete?» domandò la donna, che era corsa subito da Emppu.
Lui li osservava con un sorriso sconvolto, temeva d’essere impazzito, aveva sempre creduto d’essere solo in quel mondo da incubo.
Intanto, i due soldati che avevano osato affrontare l’illusionista giacevano ora a terra, morti o svenuti, e lo stesso erano caduti gli altri sotto i potenti colpi dell’ascia di Marco.
Era finito, era tutto finito in una frazione di secondo.
Nella piazza calò il silenzio, i quattro si osservarono bene, ormai senza più badare alla folla riunitasi lì per assistere allo spettacolo.
Tuomas, lentamente, ringuainò la propria spada, la rabbia e l’adrenalina del momento si stavano affievolendo, solo allora si rese conto d’aver ucciso due uomini.
L’ipotesi lo sconvolgeva, anche se si trattava di vermi e non di uomini, e preferì non soffermarcisi più di tanto.
Andò invece verso Emppu, lo aiutò ad alzarsi, i due si guardarono senza dir nulla, la gioia d’essersi ritrovati era più forte di qualunque altra cosa.
E si spiegò soltanto con un abbraccio, un abbraccio fraterno, un abbraccio che può avere significato solo tra veri amici.
«Sono contento di vederti.» fu tutto ciò che a parole poté aggiungere l’illusionista.
Il bardo, raccogliendo la chitarra da terra e mettendosela a tracolla, gli sorrise, ora era davvero lui, senza quel sorriso sul volto era a dir poco irriconoscibile.
«Non dovrei essere io a dirlo, Tuom?»
Tuomas aveva mille domande in testa, come faceva Emppu a ricordarsi tutto, chi era quella ragazza, perché si era tirato addosso un’intera squadra di soldati?
Ma i suoi sforzi di fare ordine tra tutti quei punti interrogativi furono interrotti dall’arrivo di Marco, li osservava con una sfumatura grave nello sguardo.
«Voi due, non vorrei interrompere l’idillio, ma qui abbiamo: un condannato a morte, una presunta strega e due tizi che hanno appena fatto fuori otto guardie cittadine, non ci converrebbe farli sulla nave tutti i convenevoli vari?» 
«Avete una nave?» fu tutto quello che replicò Emppu.
«Credo che avremo tante cose da raccontarci» rispose Tuomas, cominciando a camminare con l’amico a fianco.
La folla si stava già disperdendo, non ve n’era alcuno che avesse abbastanza voglia di assicurare i trasgressori alla giustizia, si erano lì riuniti solo per assistere al gustoso spettacolo che era stato loro gentilmente offerto, delle sorti dei protagonisti di tale spettacolo non interessava a nessuno.
Marco si diresse verso la ragazza, solo ora aveva la possibilità di guardarla bene, i lunghi capelli castani incorniciavano un volto grazioso, impreziosito dalle due gemme verdi che erano i suoi occhi, ancora turbati e scossi dall’accaduto.
Le rivolse un profondo inchino, per prenderle delicatamente una mano e sfiorarne il dorso con le labbra.
«Chiedo scusa per l’orribile spettacolo, milady. Spero che vogliate imbarcarvi con noi, presto questo posto non sarà tanto allegro per chi ha avuto dei problemi con la giustizia. Quegli uomini vi hanno fatto del male?»
Lui la guardava negli occhi con il proprio sguardo azzurro, e lei non abbassò i propri, nonostante fossero ancora velati di lacrime voleva mostrarsi forte, nella propria adorabile fragilità.
«Sto benissimo, sir, vi ringrazio. E vi seguirò volentieri»

Lui le sorrise, le fece strada, e insieme s’incamminarono verso il porto.










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Capitolo 5
*** Quando un uomo su una barca incontra un uomo su un veliero... ***


Il grigio agitato di un mare irrequieto, il dolce sorriso infuocato del tramonto, null’altro all’orizzonte, solo una minuscola barchetta osava interrompere la straordinaria bellezza della loro semplicità.
E proprio su quella piccola nave – null’altro che un puntino nell’immensità dell’oceano –, che navigava incerta per ora senza meta alcuna, si trovavano tre persone estremamente diverse, eppure uguali nell’indole, legate dagli incorruttibili fili del destino e del passato.
Marco si stagliava in alto, al timone, gli occhi azzurri erano concentrati sull’orizzonte davanti a sé, era un’imponente figura contro il profilo rosso del sole morente, le dita della brezza marina giocavano con i suoi lunghi capelli biondi.
Sul ponte si trovavano Tuomas ed Emppu, il bardo aveva posato la propria chitarra in un angolo sicuro della nave ed ora si puliva il volto ferito con un secchio d’acqua di mare, l’unica cosa su quella maledetta vela che potesse servire allo scopo, una smorfia di dolore sul viso nel sentire i propri tagli stuzzicati dal sale marino.
E l’illusionista, lui giocava con il proprio lungo cappello, avrebbe tanto voluto poter tirarne fuori un qualche prodigio, una guida, qualsiasi cosa, chissà come e chissà perché si sentiva responsabile dei propri compagni e il ruolo che si era auto assegnato veniva costantemente deluso dalla sua mancanza di senso dell’orientamento, di idee, di vere azioni.
Avrebbe voluto rivedere Tarja. Era stata lei a fargli trovare Erno in quel modo, era stata lei stessa a salvare il loro chitarrista, non Marco, né tantomeno l’illusionista.
Si sentiva inutile ed amareggiato, era la stessa, patetica sensazione d’impotenza che lo invadeva durante i suoi cali d’ispirazione.
E ora, ora navigavano per mare, per l’oceano sconfinato, senza la minima idea di cosa andare a cercare. Senza la minima idea di dove andare a cercare Jukka ed Anette, gli unici ancora dispersi in quella sconcertante realtà, avrebbero potuto essere dovunque, avrebbero potuto essere chiunque.
«Dato che le circostanze nelle quali abbiamo avuto modo di conoscerci sono state alquanto turbolente, non ho ancora potuto presentarmi in maniera rispettabile. Sono molto lieto di avervi a bordo, messere, il mio nome è sir Marko Tapani Hietala, mercenario e guerriero di professione.»
La voce bassa e sicura di Marco aveva interrotto i rabbiosi pensieri di Tuomas, e forse era meglio così; l’illusionista sospirò, osservando l’espressione interdetta di Emppu nel sentirsi definito ‘messere’ proprio dall’amico bassista.
E lo sconcerto, com’era ovvio, sfociò presto in una lunga risata, il chitarrista non riusciva a smettere di ridere, continuò e continuò finché i crampi allo stomaco non divennero insopportabili, sotto lo sguardo vagamente offeso del guerriero.
«Dio, ‘sir Marko Tapani Hietala’, ‘molto lieto di avervi a bordo’, giuro che queste me le segno! Ti prego, mi spieghi perché ti esprimi come se fossi appena uscito dal Signore degli Anelli
Gli occhi azzurri di Marco passarono, nervosi, da Tuomas ad Emppu, e poi di nuovo, da Emppu a Tuomas.
«…Da cosa sarei uscito?»
Erno non gli rispose, era troppo impegnato a ridergli in faccia una seconda volta.
«Tuom, è preoccupante, devono averlo picchiato peggio che a me!»
L’illusionista gli rivolse il sorrisetto furbo di chi, a proprie spese, ha già imparato tutte le regole del gioco.
«Fossi in te non ci scherzerei sopra più di tanto, il novello Frodo qui presente mi ha quasi staccato la testa ad asciate. Si da il caso, infatti, che non si ricordi assolutamente nulla del mondo reale. È fermamente convinto di essere un guerriero mercenario»
Le risate di Emppu s’interruppero di colpo, il chitarrista lanciò uno sguardo incredulo al timoniere, che ricambiò fulminandolo.
Marco non aveva capito una sola parola del discorso, ma qualunque cosa avessero detto si sentiva profondamente offeso, a prescindere.
«No! Non ci credo!» esclamò poi, sfoggiando un sorriso degno d’una pubblicità di dentifrici, con il quale voleva nascondere gli ultimi focolari di un raptus di risata convulsa.
«Alloora… io sono Erno, ma la gente mi chiama Emppu, io e te siamo amici, suoniamo in un gruppo che fa musica, tu suoni il basso, io suono la chitarra, lui scrive le canzoni ed imita la bambina di The Ring durante i concerti»
Aveva preso a parlare lentamente, scandendo bene ogni parola, con gesti lenti e ampi. Lo sguardo di Marco si faceva sempre più offeso ed irritato.
Tuomas si nascose il volto con una mano, ma non poteva frenare i movimenti incontrollati del proprio petto, era un grosso sforzo per lui ridere silenziosamente senza essere notato.
«Tu, a volte, ti metti anche a cantare» continuò, finché non si ritrovò addosso la tuba di Tuomas, che gli era stata lanciata proprio dal tastierista, ora nemmeno lui riusciva più a frenare le risate.
«Ma piantala, idiota che non sei altro, ha perso la memoria non è diventato scemo!»
E ad interrompere la cascata di risa che stava per travolgerli nuovamente, ci fu solo l’esclamazione arrabbiata del loro compagno.
«Adesso basta!»
I due si bloccarono, avevano forse superato il limite?
«Io vi ho salvato la vita, sir “Erno”, voi mi ripagate prendendovi gioco di me? Vi consiglio di stare attento, potrei pentirmi della mia decisione, la professione dell’uccidere non mi è affatto estranea. Ora, voi due, spiegatemi subito il significato delle vostre parole. Cosa vuol dire che ho perso la memoria? Ma soprattutto, cos’è The Ring
Ora era sceso il silenzio, il tempo delle risate era finito, mentre la loro barchetta andava alla deriva era giunto il momento di ammettere la propria disastrosa posizione.
«Dov’è la ragazza?» fu la prima cosa che uscì dalla bocca di Tuomas, non voleva che una fanciulla nata e cresciuta in quel contesto ascoltasse dei discorsi riguardo alla realtà del ventunesimo secolo.
«Sta dormendo… era sconvolta, riposare non può che farle bene» rispose prontamente Marco.
Non era passato un solo istante senza che le sue mani avessero stretto il timone, nonostante le emozioni forti e tutti quegli interrogativi aveva preso molto sul serio il suo compito di guidarli, guidarli verso il nulla.
«Marco… so che è difficile da credere, ma noi tutti veniamo da una realtà diversa, completamente diversa da questa, una realtà dove per vivere noi suoniamo insieme» tentò di spiegargli Tuom, misurando bene ogni parola.
Inaspettatamente, il guerriero non ebbe reazioni negative, annuì lasciando che lo sguardo concentrato vagasse all’orizzonte, stava tentando di capire.
Intanto, il viola del crepuscolo si stava lentamente chiudendo a cupola su di loro, e sulle creste di spuma bianca di un mare lievemente agitato dal vento.
«Siamo un bel gruppo, siamo in cinque. E io sto cercando di trovare gli altri due, senza avere idea di dove andare a cercarli» continuò.
Emppu lo osservava, approvando ogni parola, e Marco rimaneva in silenzio, ancora nessuna reazione da parte sua, forse perché dentro di sé si stava combattendo un’accanita battaglia.
Se tutto quello che in lui era razionale rigettava con tutte le proprie forze quell’assurda versione dei fatti, doveva d’altro canto ammettere che per lui stare con loro era semplice come respirare, era come se si conoscessero da sempre, da anni. E le canzoni che da loro aveva sentito, erano chissà come incise anche nel suo cuore, pur non avendole mai ascoltate in tutta la propria vita.
«E come avete… come abbiamo fatto a passare da una realtà all’altra?» chiese quindi, Tuomas era stupito, era convinto di dover combattere molto prima di farsi credere.
«Giusto, questa è una domanda intelligente, la risposta me la sono persa anch’io; come abbiamo fatto?»
Ora entrambi guardavano l’illusionista, lui portò gli occhi al cielo ora indaco e viola con un certo imbarazzo.
«Credo sia colpa mia… devo aver suscitato l’ira di una strega, o qualcosa di simile»
Entrambi annuirono compresivi, e quello era davvero pazzesco, Emppu trovava impossibile l’idea che Marco si esprimesse con il “voi”, ma di fronte ad una dichiarazione del genere riusciva a non battere ciglio.
«A posto, direi. Devo ancora abituarmi a tutta la faccenda, e non ho ancora capito cosa sia The Ring, ma la cosa nell’insieme non mi dispiace. E prima o poi riusciremo a trovare anche gli altri due che ci mancano all’appello. Ma… anche la fanciulla suona insieme a noi?»
Era sorprendente come ora lui parlasse con naturalezza della cosa.
Ora toccava a Tuomas guardare interrogativo il bardo.
«No, io non l’ho mai vista, mi dici perché ti sei quasi fatto ammazzare per difenderla?»
Lo sguardo dell’amico si rabbuiò nel rispondere.
«E’ una delle poche persone che, quando sono arrivato qui, diceva di conoscermi. Mi ha molto aiutato ad ambientarmi. È una ragazza dolcissima, l’accusa di strega che pende sulla sua testa è la cosa più ingiusta che abbia mai sentito, le è stata affibbiata dopo i ripetuti screzi avuti con le guardie cittadine. Non potevo lasciare che la portassero a morire, magari davanti ad una folla di persone, umiliata ed insultata, non potevo.»
«E così hai pensato bene di farti uccidere anche tu, più umiliato ed insultato di lei?»
Ora era un confronto di sguardi tra Marco ed Emppu, un confronto di sguardi serio, troppo serio, uno dei pochi.
«Che cos’altro avrei potuto fare?»
Marco scosse la testa.
«Non si va disarmati contro le guardie dell’Imperatore, non si fa, è un suicidio! La vedi questa nave? Tutto il suo equipaggio è stato ucciso da quegli stessi soldati, tutto.»
Emppu tacque, abbassò lo sguardo, ora era calato un grave silenzio tra di loro.
«Chi è questo Imperatore?» fu tutto ciò che Tuomas osò dire, sembrava che l’amico sapesse molto bene di cosa stava parlando.
«E’ uno che non vorresti mai che si trovasse sulla tua strada, fidati. È pazzo, è completamente pazzo, chissà come questa sua follia gli assicura una furbizia ineguagliabile. L’intero paese è costretto a piegarsi a lui e ai suoi soprusi, e l’intero paese non ha null’altro da fare; l’Imperatore è invincibile.»
Tuomas fu colpito dallo sguardo scuro del guerriero, e dalle sue parole impressionanti; soprattutto perché l’illusionista sapeva bene che Marco, Marco proprio no, non era affatto tipo da subire in silenzio.
Passarono diversi minuti, nessuno dei tre aveva più domande da fare, e tutti erano stati contagiati da quell’atmosfera cupa che aleggiava spettrale tra le vele della nave.
Ormai s’era fatta notte, e una delicata falce di luna brillava argentea sfoggiando il proprio abito stellato.
La barchetta continuava a navigare pacificamente, a volte Marco diceva loro  cosa fare su questa vela o sull’altra, cosa con quella fune o con quello strano gancio, nessuno del suo equipaggio improvvisato d’altronde aveva voglia di addormentarsi.

E le ore passarono così, viaggiando a lungo attraverso il mare, a loro ignoto, con l’unico obbiettivo quello di scappare dalle coste, dove l’influenza dell’impalpabile Imperatore era ormai diventata una persistente aura demoniaca.
Complice dei dubbi e delle paure di Tuomas era la luna, gli sorrideva perenne, rassicurandolo.

Ma venne l’istante in cui, nel buio della notte ambigua, la luna scomparve.

Tuomas lasciò momentaneamente il timone, era lui ad aver dato il cambio a Marco, dopo che questo gli aveva spiegato le nozioni fondamentali; dopotutto, il viaggio era stato così tranquillo che nemmeno un principiante come lui avrebbe dovuto aver dei problemi.
In effetti, fin troppo tranquillo…
L’illusionista chiamò l’amico, scuotendolo per una spalla, con gli occhi puntati fissi sul buio sopra di loro.
E quando Marco si svegliò, e guardò dove il compagno guardava, sbiancò.
«Oh, dei. In terra scappiamo dall’Imperatore, e navigando ne troviamo la versione marittima.»
Tuomas non fece neanche in tempo a realizzare quanto quell’affermazione fosse terribile, che già dall’enorme veliero che aveva oscurato la luna fiorirono delle corde, tante, altrettanti uomini si gettarono così sulla piccola nave.
In quell’istante usciva Emppu dalle cabine, la prima cosa che vide fu lo schieramento di uomini grandi e grossi che brandivano ogni tipo di arma possibile e immaginabile.
«Tu guarda, i pirati. Sapete che da piccolo mi travestivo sempre da pirata?»
Si era avvicinato ai due con noncuranza, e venne fulminato da entrambi.
«Ma dai!» fu l’ironica risposta di Tuomas.
«Tra poco ci travestiremo da cadaveri.»
E la pessimistica frase del guerriero fu quella che troncò ogni altro discorso.

Non poterono neanche incominciare a fare resistenza, pareva ovvio. Tre uomini, di cui uno del tutto disarmato, e una ragazza appena fuggita dal rogo potevano davvero pensare di far qualcosa contro l’intero equipaggio di veliero pirata?
E così, con un’aria di vera, sconfortata rassegnazione, i quattro si lasciarono condurre sul veliero, l’enorme, imponente veliero a tre alberi; sul più alto, nascondendosi tra le ombre notturne, svolazzava ridacchiante la classica bandiera nera con il teschio.
La fanciulla ormai non obiettava più nulla, sballottata così da un pericolo di morte all’altro, stringeva angosciata il braccio di Marco, che invano le sussurrava alcune frasi, cercando di calmarla, mentre salivano, issati su alcune scialuppe.
Appena misero piede sulla nave furono accolti da dei bassi, continui brontolii.
«…Una persona si sta godendo l’unica notte tranquilla dopo giorni e giorni e giorni di attività frenetiche, e invece no, compare una nave all’orizzonte. Ma è una nave piccola, io dico… ma no, bisogna per forza attaccarla, il capitano vuole che si attacchi la nave e noi attacchiamo la nave. Quando, io mi chiedo, quando si potrà mai riposare su questo dannatissimo vascello?»
E quando furono portati al cospetto dell’incallito brontolatore, toccò a Tuomas sbiancare.
Si erano preoccupati di dove andare a cercarlo?
Davanti a loro stava Jukka, un paio di pantaloni logori e null’altro, solo la sua inconfondibile bandana, così sinistramente adatta al contesto.
Si stava punzecchiando il mento con la punta di uno spesso pugnale ricurvo, li guardava con uno sguardo annoiato ed irritato insieme.
«Dunque, per quanto riguarda le presentazioni, io sono Jukka e questo è più che sufficiente, sono il vicecapitano della Dark Passion, che senza alcuna modestia è la nave pirata più temuta di questi mari (e anche degli altri). Potevate benissimo starvene a casa per questa notte, ed evitare di rovinarmi la serata, ma tranquilli che farvi rimpiangere la vostra decisione per ora è compito mio. Benvenuti a bordo»






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Capitolo 6
*** Terza Carta: Il Corvo... ***


Almeno, Jukka ebbe la grazia di aspettare i raggi mattutini per renderli partecipi della sua dimestichezza con l’uso dei coltelli, più per un irresistibile e malcelato desiderio di riposo che per l’arrivo di una strana forma di compassione.
E così, senza aver avuto la possibilità di replicare alcunché – non che sarebbe servito poi molto –, si ritrovarono gettati nell’angolo più buio ed umido della cambusa della nave, ad attendere la venuta del sole, e la loro molto probabile morte.
Sia Tuomas che Emppu avevano stancamente accettato quella loro nuova condizione, entrambi riponevano le speranze nei ricordi e nella coscienza di Julius, forse ben nascosti, ma sicuramente presenti.
Di certo, il più irrequieto era Marco, era diventato del tutto isterico quando li avevano separati dalla povera ragazza che avevano invano tentato di proteggere, e nonostante il vicecapitano li avesse rassicurati riguardo alle sorti della fanciulla il guerriero aveva quasi rischiato di farsi gettare fuoribordo.
«Ma vuoi startene un po’ tranquillo?» gli aveva detto Emppu, dopo una buona mezz’ora di borbottii e colorite imprecazioni.
«Tranquillo? Tranquillo? Secondo voi, là fuori, che cosa le stanno facendo che noi non possiamo vedere?»
Sul volto di Tuomas si delineò una smorfia disgustata, molto esagerata dalla penombra dello scafo.
«Sei pazzo?! Jukka non farebbe mai una cosa del genere!»
Marco stava per prendersela anche con l’illusionista, ma s’interruppe proprio mentre stava per esplodere in tutta la propria rabbia.
Si bloccò, riflettendo sulle parole del compagno.
E quando riuscì finalmente a comprenderne il significato, lasciò che tutta la propria frustrazione e il proprio disappunto venissero a galla reclinando il capo, una mano sulla fronte a sorreggerlo.
«Santo cielo. Non ditemi che lui è…» mormorò, ma trovò nei loro volti solamente la tanto temuta conferma alle proprie ipotesi.
«Ah, meraviglioso. Tra tutte le persone esistenti in queste maledettissime terre, proprio il vicecapitano della Dark Passion dovevate andare a scegliervi, come compagno. Suppongo che questo voglia dire che non posso picchiarlo a sangue, qualora ne avessi l’occasione»
Emppu gli rivolse un sorriso soddisfatto.
«Esattamente. Hai visto che, se ti applichi, riesci a comportarti come una persona normale?»
Marco si rintanò nel proprio angolino buio, troppo mal disposto per accogliere la provocazione dell’amico.
Passarono diversi minuti, minuti di silenzio, di bruciante attesa; e avrebbe dovuto passare tutta la notte.
«…Nemmeno un pugnettino, piccolo?»
«Al massimo una cuscinata.»
Tornò a calare il silenzio, sui tre e sulla faccia tutta imbronciata di Marco, il quale aveva ormai rinunciato a far valere le proprie ragioni.

Gli uomini che aprirono con forza la porticina della loro prigione improvvisata li trovarono ovviamente svegli, indolenziti e stravolti per la notte passata in bianco.
Vennero bruscamente afferrati e gettati fuori, sul ponte, sotto gli occhi di un equipaggio ridacchiante che li scherniva con battutine stupide, e quelli del sole forte che per un attimo ebbe il potere di accecarli.
«Allora. Sbaglio o avevamo un discorso in sospeso? …Dio, quanto odio lavorare di prima mattina»
Era stato Jukka a parlare, si avvicinò sbadigliando e stiracchiandosi, Emppu non riusciva ancora a credere che lui stesse seriamente prendendo in considerazione la possibilità di far loro del male.
«Qui abbiamo: un biondone barbaro con la faccia incazzata, un nanetto appena uscito da una rissa e un tizio inquietante vestito da satanico. Non oso immaginare quale mestiere possiate mai fare conciati in questo modo, ma evidentemente non paga bene, non abbiamo mai abbordato una barca che facesse così schifo… con tutto il dovuto rispetto, ovviamente. E, altrettanto rispettosamente, devo informarvi del fatto che ci risultate completamente inutili, e quindi verrete uccisi. Qualche obiezione?»
Sia Tuomas che Emppu erano rimasti senza parole, era riuscito ad effettuare tutto il discorso con quel suo tono svogliato, come se fossero le affermazioni più abituali che si potessero fare.
«...Come sarebbe a dire “satanico?”» fu l’unica obiezione che al tastierista venne in mente.
«Dov’è la ragazza?» chiese invece Marco, fulminando il pirata con lo sguardo.
«E’ al sicuro con il capitano. A lei la morte verrà risparmiata» fu la risposta di Jukka, che aveva ignorato completamente la domanda di un Tuomas a metà tra l’offeso e lo sconvolto.
Il guerriero aveva digrignato i denti, si sarebbe subito gettato addosso a quell’uomo così irritante, non fosse stato per le promesse fatte la notte precedente.
Così, la sua smorfia si trasformò a fatica in un sorriso tirato, troppo caricaturale e forzato per essere credibile, con il quale si avvicinò ai compagni, la furia che bruciava nell’azzurro dei suoi occhi strideva con il suo tentativo di mantenere la calma.
«Spero che voi due non abbiate intenzione di dire a lui la verità come l’avete detta a me, desidererei avere ancora un po’ di tempo da vivere, quel tanto che basta per toglierla dalle grinfie di quello schifoso capitano» sussurrò loro, il suo tono voleva in qualche modo risultare gentile e vellutato, ma ottenne soltanto l’effetto di renderne più sinistre le parole tinte di rabbia.
E infatti queste non ricevettero risposta, certo nessuno dei due aveva voglia di canzonare un uomo a capo di un’intera nave pirata, uomo che peraltro aveva appena ammesso l’intenzione di ucciderli con tanta scandalosa tranquillità.
«Ehm, metterci tutti a morte, grandiosa decisione, davvero splendida, non vorreste prenderne in considerazione una migliore?» si fece allora avanti Emppu, sfoderando il suo sorriso più largo ed incoraggiante.
«Prima scuoiarvi per saggiare i miei coltelli, e poi uccidervi? Sì, si può fare»
Era un confronto di sorrisi, il bardo rimaneva a fatica nella sua espressione amichevole, davanti a quella del pirata che trasudava della sua macabra ironia.
«Possiamo barattare la nostra vita con una canzone?»
L’attenzione di tutti passò ora all’illusionista, era intervenuto a favore del compagno brandendo le uniche parole che gli fossero venute in mente, certo, suonare era tutto ciò che loro sapevano fare e tutto ciò che avevano da offrire.
Sperò che fosse anche tutto ciò che potesse in quel momento toccare la coscienza dell’amico, forse si sarebbe ricordato, forse avrebbe almeno desistito nella tanto radicata intenzione di ucciderli.
«Tu guarda, abbiamo pescato un gruppo di suonatori» fu l’unico commento di Jukka, che Tuomas interpretò come un commento positivo, in qualche modo avevano acceso quella sua sopita curiosità, infrangendo la quotidianità della noiosa vita di bordo che tanto lo stancava.
Sì, solo Julius avrebbe avuto il coraggio di definire ‘noiosa’ la quotidianità di un pirata.
«Sono i suonatori più strambi che abbia mai visto» intervenne un altro, osservandoli in cagnesco dall’alto del suo unico occhio castano, pareva ovvio che non erano giudicati interessanti dagli altri membri dell’equipaggio come lo erano da Jukka.
Erano perfettamente consapevoli d’avere la vita appesa ad un filo, l’unico motivo per il quale non erano ancora stati gettati fuoribordo con una zavorra al collo era solo il divertimento del vicecapitano.
Strano come quei temibili fuorilegge, che a nessuno dovevano la propria fedeltà, fossero così rispettosamente devoti ad un nome e ad un grado.
«Beh, peggio di quell’idiota di Steven non potrebbero fare. Dio mio, quando suona è un insulto all’intero genere umano.» fu la replica del batterista, appoggiato con la schiena al bordo della nave in una posa rilassata, come durante una conversazione tra amici, come se non dovesse decidere della vita o della morte di tre persone.
Eppure, il suo piglio tranquillo non si modificò, né quando si concesse qualche istante per riflettere, né quando finalmente prese fiato per esprimere la propria sentenza, la propria fatale sentenza.
Il sorriso di Emppu era scomparso, Tuomas stava involontariamente trattenendo il respiro, Marco nella sua pessimistica visione della cosa stava osservando con occhi esperti lo spazio che aveva attorno a sé, calcolando quante persone avrebbe potuto ferire, mordicchiare o tramortire prima di venire riacciuffato e infine ucciso. Lo sguardo cupo nei suoi occhi parlava di cifre molto basse.
Ma la presa decisione riguardo alla loro sorte non uscì mai dalle labbra di Jukka, perché in quell’esatto momento la porta della cabina del capitano si stava aprendo.
«Falla finita, Julius, scansafatiche nullafacente, maledetto il giorno in cui ho affidato a te l’incarico di essere il mio secondo, non hai neanche voglia di vivere, figuriamoci di gestire un veliero!»
Così, quella tanto bramata e tanto odiata sentenza morì nella gola stessa del suo giudice, così gelidamente rimbrottato.
«E’ sempre così bello sentirti parlare, dolcezza. Finito con le scartoffie, hai deciso di cominciare a fare il vero pirata?»
Il ghigno divertito sul volto del batterista incorniciava le sue parole provocatorie, aveva risposto senza nemmeno spostare lo sguardo dal mare poco mosso che li circondava.
«Nevalainen, se usi un’altra volta quella tua lingua irritante per parlare a sproposito, giuro che te la taglio. Il che vuol dire che non durerà più di dieci minuti. E voi, inutile equipaggio di uomini pettegoli come vecchie comari, filate a dare una regolata alla rotta della Dark Passion, altrimenti andremo ad incagliarci contro il primo scoglio che incontriamo.»
E così, il tanto temuto capitano di quell’enorme e imbattibile nave pirata raggiunse il proprio vice con un abile salto, mentre il piccolo affollamento che si era andato a creare attorno a loro già si disperdeva.
Il pirata si posizionò di fianco a Jukka, li scrutava con lo sguardo duro e pratico dei suoi occhi chiari.
I comodi vestiti da combattimento avvolgevano piacevolmente il suo corpo formoso, le sue curve erano curve femminili, e femminile era il volto, un volto molto particolare, ma di certo femminile, con quel naso all’insù e quegli zigomi marcati.
«Porca miseria. Ti prego, Tuom, dimmi che quella non è Anette. Non è Anette, vero?»
Il tastierista preferì non rispondere ad Emppu, stava ancora cercando di dare un senso a ciò che i suoi occhi stavano dicendo al suo cervello, un’Anette vestita da pirata, con qualche decina di armi sparse lungo tasche, taschine e segreti risvolti degli abiti, a capo di un’enorme veliero, regina del più fiorente degli imperi illegali.
«Porca miseria.» ribadì il bardo, nell’ascoltare il suo silenzio.
«Una donna!» esclamò invece Marco, la sorpresa spiccava palese sul suo volto.
«Sai una cosa, Nevalainen, penso che questi tre non dureranno molto di più della tua lingua.» fu l’unico commento di quella che una volta era la loro cantante.
Il batterista ridacchiò, per nulla scalfito dalla maniera sinistra con la quale Anette si riferiva alla sua lingua.
«Noi… stavamo per suonare una canzone, An… capitano.»
Tuomas aveva ancora gli occhi spiritati, increduli, fissi sulla figura della piratessa, e lui stesso si era stupito di essere riuscito a mettere insieme una frase di senso compiuto nello stato in cui si trovava.
Si vide squadrato da capo a piedi da uno sguardo al confine tra il divertimento e lo scetticismo.
«Pittoreschi, gli amici. Dunque, siete intrattenitori? E tu, ti sei conciato da satanico per esigenze artistiche o perché non hanno ancora trovato una cura alla tua malattia mentale?»
Il commento del capitano lo avvilì, cosa che almeno lo aiutò a superare lo shock di poco prima. Si girò verso Emppu con un’aria estremamente infastidita e lamentosa.
«Ma perché tutti dicono che sembro satanico?»
Il chitarrista gli mise una mano sulla spalla, come per consolarlo, ma non gli rispose.
Il suo sguardo era posato su Anette, ed era lo sguardo di un rapace che riesce ad avvistare il primo topolino della giornata… era lo stesso sguardo, per inciso, di quando egli stesso riusciva ad avvistare una ragazza in un luogo affollato.
Si fece subito avanti, pronto a sfoderare le sue (discutibili) doti di ammaliatore sciupafemmine. Si esibì in un inchino esagerato, mentre intanto allungava una mano – per un attimo ebbe timore di vedersela tagliata di netto – a prendere delicatamente quella di Anette, e vi posava le labbra in un immancabile baciamano.
«Concedeteci una canzone, una canzone sola, vi prego, mia signora. Dopo potrete legarci agli alberi e fare tutte quelle cose cruente fate voi pirati, promesso.»
Nel sentire quelle parole, Marco incrociò le braccia con uno sbuffo e roteò gli occhi.
«Eh certo. Fai pure con comodo, Erno, muoio dalla voglia di sperimentare “tutte quelle cose cruente che fanno i pirati”»
Il bardo non lo degnò d’uno sguardo, impegnato com’era a fissare il capitano con un sorriso incoraggiante e sperare con tutto sé stesso  che concedesse loro una possibilità.
Lei gli sorrise e si piegò verso di lui per poter ricambiare il suo sguardo con un’occhiata dolce dritta nei suoi occhi. 
Quello che uscì dalle labbra di lei, poi, fu solo un languido sussurro.
«Se non ti allontani immediatamente da me e dalla mia mano, giuro che tra qualche attimo non avrai più molto per cui pregarmi. Sono stata chiara?» mormorò, melliflua.
Il sorriso di Emppu gli si congelò su viso, e non poté che indietreggiare e tornare a fianco dei compagni sotto i loro sguardi vagamente sconsolati.
La situazione non era cambiata, anzi, forse erano passati dalla padella alla brace: l’espressione sul volto di Anette non prometteva nulla di buono, e loro (almeno, Tuomas ed Emppu) sapevano bene quello che lei era capace di fare quando era infuriata. Sperarono solo di non averla fatta arrabbiare, perché la loro vita era appesa ad un filo, e più precisamente il filo della volontà di quella donna.
Dopo qualche attimo di bruciante attesa, lei sospirò. In un primo momento, sembrò che qualcosa la addolorasse; ma qualsiasi cosa fosse, sparì in fretta, troppo veloce per essere identificata.
«Basta, mi avete già portato via troppo tempo. Siete il gruppo di persone più strambo che abbia mai visto, forse se ci fossimo incontrati in qualche altro modo mi sareste stati anche simpatici… ma io sto lavorando. Comunque sia, non preoccupatevi per la donna che viaggiava con voi, a lei non sarà torto un capello. È il vantaggio di essere il capitano donna di una nave pirata, cercare di salvaguardare il proprio sesso, almeno per mare.»
Passò lo sguardo su ognuno di loro, un ultima volta.
«Mi dispiace gente. Spero che l’acqua non sia troppo fredda oggi.»
Si raddrizzò, staccandosi da dov’era stata appoggiata tutto il tempo a fianco a Jukka, e si allontanò dando loro le spalle. La sentenza era stata emessa.
«No!» ruggì Marco mentre tentava di scagliarsi su di lei, e veniva bloccato prontamente da due enormi ammassi di muscoli sbucati da chissà dove.
Emppu si guardava intorno, smarrito, si rendeva conto di essere una seconda volta destinato alla morte.
Incrociò gli occhi di Julius, ma lui distolse lo sguardo e se ne andò a sua volta, scuotendo piano il capo. Il chitarrista era riuscito a scorgervi qualche traccia di dispiacere, ma evidentemente non era sufficiente da esortarlo a disobbedire agli ordini del proprio capitano.
Tuomas era sconvolto.
Non riusciva a comprendere ciò che stava succedendo. Sto per morire, era quello che il suo cervello continuava a ripetersi meccanicamente, ma erano quattro parole, solo quattro parole, erano ammassi di lettere ai quali non riusciva a dare un significato.
Eppure, era così, lui stava per morire.
Stava per morire, per ordine di Anette. Quella stessa Anette che aveva riso con loro, che aveva pianto dietro le quinte di un palcoscenico. Quella stessa Anette che era riuscita a tirarlo su di morale dopo il litigio con Tarja, che aveva sfoggiato una delicatezza e una comprensione che sono le donne possono avere. Quella stessa Anette così dolce, eppure tosta, fragile, eppure straordinariamente forte, che si era guadagnata l’amicizia di tutti, con la sua simpatia. Quella stessa Anette, ora, l’aveva mandato a morte.
Erano forse questi i concetti che più di tutti non riuscivano, non volevano trovare un significato nella sua testa.
Si rese improvvisamente conto di quanto fossero stati inutili i suoi sforzi. Le sue speranze di convincere Marco a ricordarsi di lui, i tentativi di resistere al fascino mortale della sirena, il sogno dove aveva incontrato Tarja, la rabbia e la frustrazione di quando aveva visto Emppu insultato e malmenato.
Tutto era stato inutile, e si ritrovò a pensare che inutili erano stati anche i gesti della strega.
A che scopo, catapultarlo in una realtà tanto surreale e crudele? Per una sorta di sadico divertimento?
A che scopo gli scrigni, a che scopo quella stupida messinscena delle carte?
Un paio di mani, forti, ruvide, lo afferrarono bruscamente per i polsi e glieli legarono dietro la schiena. Lui non oppose neanche resistenza.
Non avrebbe mai scoperto ciò che la zingara voleva dirgli. Non avrebbe mai conosciuto la fine di quella favola misteriosa ed avvincente. Non avrebbe mai neanche scoperto il significato delle altre carte…
La terza, ad esempio. Quattro uccelli stilizzati, volavano in cerchio. Erano forse avvoltoi, giunti a preannunciargli quella macabra fine?
Sarebbe stato beffardo.
Ma avvoltoi in mezzo all’oceano? Forse erano gabbiani…
Lui li aveva sempre odiati, i gabbiani. Non come le colombe. Le colombe erano così belle ed aggraziate, così candide, così straordinariamente poetiche… aveva anche scritto una canzone riguardo ad una colomba.
Alzò la testa di scatto; fu come se fosse uscito da uno stato di trance.
Guardò gli amici: Marco ancora lottava selvaggiamente, ed Emppu non era stato nemmeno legato – forse tutto quel giro complicato di pensieri e riflessioni non era durato così tanto come a lui era sembrato.
Notò che Emppu lo stava fissando, e Tuomas ricambiò lo sguardo, finché qualcosa non passò volteggiando fra di loro e si posò dolcemente ai piedi dell’illusionista.
Era una piuma nera come la pece.
Si sentì un lieve gracchiare in lontananza…
«Il Corvo, il Gufo e la Colomba» mormorò tra sé, osservando sbalordito quella piccola piuma rilucente di riflessi blu e viola.
Tornò di scatto con lo sguardo sul chitarrista, che annuì impercettibilmente e si affrettò ad imbracciare il suo strumento, che era sempre prontamente rimasto dietro la sua schiena.
Le prime note di quella canzone echeggiarono nell’aria, rimbalzando sulle vele della grande nave pirata e paralizzando tutti in ogni loro gesto.
Marco era sepolto sotto un ammasso di capelli, arti scomposti e brutte facce da pirata, ma riuscì a liberare la testa e un braccio per tendersi verso il bardo ed ascoltarne la canzone. Non poteva ricordare di averla composta lui stesso… eppure, qualcosa dentro di sé lo sapeva meglio di chiunque altro.
Con ritrovato slancio, si scrollò di dosso tutti gli uomini che erano aggrappati, aggrovigliati o abbarbicati a lui, liberandosene quel tanto che bastava per mettersi in piedi ed arrivare di fianco all’amico, che stava suonando.
Stava nascendo un istinto, in lui, un istinto primordiale, molto più importante e radicato di quello di spaccare la faccia ad un ammasso di criminali ubriachi e puzzolenti.
«…Non darmi amore. Non darmi fede, né saggezza, né orgoglio. Dammi l’innocenza, invece.»

Don`t give me love
Don`t give me faith
Wisdom nor pride
Give innocence instead


Guardava verso Anette, che si era fermata, ma i suoi occhi furono attratti da qualcos’altro.
Dall’alto della cabina del capitano, il viso di una donna faceva capolino dall’oblo. Appena si accorse di essere stata notata arrossì appena, ma non si ritirò, gli fece un cenno di incoraggiamento con la testa.
Marco le sorrise, fu un sorriso talmente gioioso e spontaneo da illuminargli gli occhi azzurri, che erano sempre stati cupi e pessimistici da quella mattina. Fu guardandola, e sorridendole, che intonò nuovamente la canzone.
«Non darmi amore (ne ho avuto la mia parte), né bellezza, né riposo… dammi, invece, la verità.»

Don`t give me love
I`ve had my share
Beauty nor rest
Give me truth instead


La musica cessò di colpo.
Marco si girò di scatto verso Emppu.
Era stato fermato da altri due uomini dell’equipaggio, ora lo tenevano fermo, lui non poteva che osservare il ponte con sguardo infuriato ed impotente. Uno di loro gli aveva rubato la chitarra, e l’aveva lanciata dall’altra parte della nave.
Il guerriero strinse i denti… come avevano potuto interrompere una musica così bella? Come avevano potuto interrompere la sua musica?
Fece per gettarsi nuovamente tra di loro, ma i suoi avversari precedenti non intendevano più spender troppo tempo con lui e riuscirono presto a sedare il suo tentativo di ribellione. Si ritrovò immobilizzato e costretto in ginocchio, talmente amareggiato da rinunciare a fare resistenza.
Nessuno parlava più; tutto ciò ch’egli riusciva a sentire era il rumore della propria rabbia.
Alzò gli occhi, sull’oblo, e vi trovò il volto della fanciulla, ora teso in un’espressione d’angoscia quasi insopportabile.
Tuomas si girò amaramente verso i flutti, che presto lo avrebbero inghiottito. Aveva avuto una speranza… forse, proprio per questo, la delusione e la consapevolezza di ciò che li aspettava sembravano ancora più brucianti nel suo cuore.
Un lampo nero passò sopra la sua testa.
Era un corvo, un grande corvo, che si posò su una balaustra di legno e rimase a guardare l’intera scena dall’alto, con i suoi occhietti neri piccoli e superbi.
«Un corvo volò da me, mantenne le sue distanze. Una così prode creazione! Vidi la sua anima, invidiai il suo coraggio. Ma non avevo bisogno di nulla che lui avesse.»

A crow flew to me
Kept its distance
Such a proud creation
I saw its soul, envied its pride
But needed nothing it had


Non era stato Marco a cantare; era stata una voce alta e cristallina.
Anette si voltò verso di loro. Aveva l’espressione di una persona che cerca di capire, che si sforza, ma non ci riesce.
Sicuramente, aveva visto quel grande corvo, nero e regale.
«Liberate questi uomini, gente. Oggi non ci saranno funerali.» mormorò ad un equipaggio sempre più stranito, che però fu costretto ad eseguire i suoi ordini, ormai contraddittori.
Tuomas sentì tagliate le corde che gli bloccavano i polsi, gli ci volle qualche istante per realizzare che non tutto era perduto. Vide il corvo che si alzava in volo e si allontanava, andando per la propria strada, ma i loro sguardi fecero in tempo ad incrociarsi un’ultima volta e il tastierista poté solo muovere le labbra in un muto ringraziamento.
Si lasciò andare ad un sospiro, prima di venire sgarbatamente spinto al centro del ponte insieme agli altri due suoi compagni.
Si osservarono bene, tutti e tre, senza riuscire a dirsi nulla. Era successo così in fretta, che ora l’idea di essere salvi risultava loro strana come quella di dover morire per mano di un’amica.
«Julius, portali alle loro cabine e da’ loro i pochi effetti personali che abbiamo trovato sulla nave, comprese le armi. Poi, voglio vedervi tutti e quattro nella mia cabina. E in fretta.»
Anette era ancora turbata, il suo stato d’animo quasi tormentato non poteva non saltare all’occhio. Non aggiunse nient’altro a quei pochi ordini impartiti con durezza, e si ritirò velocemente sottocoperta.
L’equipaggio era confuso, ma fu costretto a tornare al lavoro quando arrivò il vicecapitano a portare l’ordine.
«Ahia… quando mi chiama per nome, la situazione è davvero grave.» commentò Julius inserendosi nel terzetto.
«Sono contento che non vi abbiano ucciso, ragazzi.»
A nessuno dei tre sfuggì il suo tono, sincero e sollevato, e Tuomas non poté che rivolgergli un largo sorriso. Era lui il Jukka che ricordavano.
«Sono contento di averti trovato, Jukka.» gli rispose, guardandolo con un affetto che ci può essere solo tra amici.
Era uno sguardo talmente accorato che Jukka si sentì come se l’avesse già conosciuto. Come se avesse già conosciuto quell’espressione sugli occhi grigio-azzurri di Tuomas, come se avesse già conosciuto le espressioni negli occhi di tutti.
E ricambiò anche lui il sorriso, per una volta senza ironia, senza divertimento.
Era un sorriso vero, caldo e felice.









Ciò che dice l'Autore
L'autore è assolutamente costernato.
Ho impiegato mesi a postare questo capitolo, non so come scusarmi! Davvero, scusate scusate scusate per il ritardo nella pubblicazione...>.< :S In un modo o nell'altro mi farò perdonare, giuro!
Spero comunque che non vi sia passata la voglia di seguire le loro vicissitudini all'interno della mia fiaba, e che questo capitolo vi sia piaciuto come....no, più degli altri! ^^ Baci a tutti quanti!







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Capitolo 7
*** ...Il Gufo... ***


Era arrivata la notte.
Era arrivata la notte, che con il suo nero mantello vellutato avvolgeva ed incoronava la luna, splendida regina delle tenebre. Lei, argentata e bellissima, saggia e affascinante, volgeva lo sguardo in basso ad osservare le complicate, eppure semplici, vicende mortali.
Quella notte soprattutto ne si poteva trovare una singolare; su un vascello pirata si incrociavano i fili dei destini di sei esistenze, sei persone che mai si erano incontrate ma che sapevano di essersi sempre conosciute.

Marko era seduto a poppa, con i lunghi capelli biondi che svolazzavano in balia della brezza notturna, e gli occhi azzurri che, insieme ai suoi pensieri, vagavano irrequieti lungo le creste spumeggianti delle onde d’inchiostro del mare notturno.
Il rollio della nave lo cullava dolcemente, ma nonostante la delicatezza e sicurezza del suo tocco, quasi materno, lui non riusciva a sentirsi tranquillo.
Tutti, in quel viaggio, sembravano sapere esattamente quale fosse il loro obiettivo: Anette e Jukka erano i due gloriosi comandanti del veliero pirata più temuto di tutti i mari, e Tuomas ed Emppu erano legati da un passato incredibile e da una ricerca per la quale sarebbero morti.
Ma lui?
Lui non era un pirata – era solo un mercenario – e, per quanto si sforzasse di immaginare ed accettare il racconto dei suoi due compagni di viaggio, era estraneo a quella realtà che loro cercavano di spacciare per vera. Tra l’altro, quello era un concetto che ancora non riusciva a mandare giù.
In base a quale criterio loro stabilivano cosa era reale, e cosa invece fittizio? In base a quale criterio loro potevano dire che tutta la sua vita era stata una falsità, un’illusione, uno specchio creati da una strega in vena di divertimenti?
Perché i suoi ricordi non potevano essere veri, mentre i loro sì?
Si concesse un lungo respiro profondo, inspirando l’odore del mare mischiato a quello della notte, in una miscela di dolcezza e mistero che lui adorava.
Non avrebbe mai esposto i suoi dubbi ai suoi compagni di viaggio. Non aveva cuore di abbandonarli. E poi, per quanto surreale potesse sembrare, era evidente che lui li avesse già conosciuti, l’affetto che provava per loro era troppo grande. Era un affetto per il quale sarebbe morto volentieri.
«Non riuscite a dormire?»
Una calda voce femminile, morbida ed acuta – bellissima, si ritrovò a pensare –, fu quella che lo salvò dal vortice infernale dei propri pensieri. Si voltò verso la propria salvatrice, ed un sorriso gli sorse spontaneo sul volto nel riconoscerla.
Era la donna che avevano tolto dalle grinfie dei soldati imperiali, e che avevano irrimediabilmente trascinato in un’avventura che non avrebbe mai dovuto coinvolgerla. Si sentì invadere da un bruciante senso di colpa, ma lo mascherò bene con il proprio sorriso e le fece spazio per invitarla a sedersi di fianco a lui.
Era ancora più bella di come si ricordava. I capelli castani erano raccolti in due trecce, ma due lunghi ciuffi ribelli le incorniciavano sciolti il viso e danzavano insieme al vento come quelli biondi di Marko. Lo fissava con i suoi grandi occhi verdi, e con le gote arrossite appena. Adorava il modo in cui lei arrossiva – l’aveva già fatto, affacciata a quell’oblo, mentre lui cantava…se lo ricordava bene –, e adorava il modo in cui la sua lunga veste bianca da notte ondeggiava al vento e delineava le sue splendide curve femminili.
Si scrollò presto di dosso quei pensieri, per evitare di continuare a sorriderle senza fare nulla, come uno scemo.
«No… purtroppo no.»
Lei ricambiò il suo sorriso, e si sedette aggraziata dove le aveva indicato.
«Non siete l’unico, messere.»
«Mi chiamo Marko, milady. Vi prego, non siate formale con me, datemi pure del tu»
Lo guardo come stupita, ma gli sorrise.
«E’… strano. Nessuno in questo mondo assurdo rinuncerebbe all’etichetta.» gli rispose lei.
Le sue parole lo fecero riflettere. Forse era vero che lui non apparteneva a quel mondo assurdo.
«Comunque, il mio nome è Lisanna, chiamami sempre così, d’ora in poi.»
Il loro sguardi s’incrociarono per una frazione di secondo, ma lui si affrettò a distogliere il proprio. Rimasero così, fermi, ad osservare l’oceano che sfilava davanti a loro in tutta la propria grandezza, senza avere il coraggio di dirsi null’altro nonostante i milioni di cose che si sarebbero state da dire tra di loro.
«Mi dispiace di averti trascinato in questa follia.»
Era stato lui ad interrompere il silenzio.
«Mi hai salvato la vita.» fu la replica di lei.
«Ti prometto che quando troveremo un luogo sicuro e accogliente, ti lasceremo in pace. Non ti porterò con me nella ricerca di qualcosa che non so neanche cosa sia.»
Lo sguardo le si fece duro, e graffiò con la sua intensità il viso del guerriero di fianco a lei.
«Sono in debito con voi. Sono in debito con te, con messer Erno. Non sarò un peso, posso aiutare, conosco molto bene queste terre»
Marco scosse la testa, e si decise a guardarla in volto con uno sguardo accorato almeno quanto quello della donna.
«Nessuno pensa che tu sia un peso, Lisanna. Mi preoccupo per la tua incolumità.»
«Non sono debole come sembro.»
«No, non lo sei.»
Anzi, probabilmente, era molto più forte di lui.
Sospirò, guardando i suoi occhi verdi e determinati. Sapeva che avrebbe perso il controllo se le fosse successo qualcosa, e sapeva che sarebbe stato inevitabile che le accadesse qualcosa, in un viaggio come quello. Ma chi era lui per impedirle di compiere una scelta? Sarebbe stato egoista, privarla della libertà a causa di una propria debolezza.
In effetti, lui per lei non era nessuno. Viaggiavano insieme da qualche giorno appena, e solo quella sera aveva saputo il suo nome; era bene che lui lo ricordasse. Era bene che ricordasse che lei era ancora un’estranea – e lui era ancora un estraneo per lei –, nonostante quello che provava gli suggerisse il contrario.
Odiava quella situazione.
Nella sua vita era sempre stato tutto ben saldo, nella sua vita era sempre stato tutto una certezza. Ora, non riusciva neanche più a distinguere il vero dal falso.
«Fai attenzione.» fu il suo sussurro.
Per un attimo anche lui, il guerriero, il temibile mercenario, il barbaro sempre energico e sempre arrabbiato… anche lui sembrò vulnerabile.
«Hai paura?» le chiese poi dopo qualche momento.
Lei non lo guardò in faccia mentre rispose.
«Sì.»
Fu invaso da un tornado di emozioni, che lo pugnalarono tutte insieme, senza neanche lasciargli tempo per respirare, senza neanche lasciargli tempo per indentificarle, talmente forti e veloci da fargli male al petto e allo stomaco.
Lentamente, si avvicinò a lei, la cinse con le braccia e la attirò al proprio petto. Fu l’abbraccio più lungo della sua vita.
«Finchè sarai con me non ti accadrà mai nulla. È una promessa.»
Lui dubitava delle proprie parole – anche se avrebbe fatto del proprio meglio per renderle vere –, ma lei no.
Lei si sentiva assolutamente al sicuro, circondata dalle braccia forti e muscolose di quel vichingo dal cuore d’oro.

Tuomas era nella cabina di Emppu, stava seduto sulla brandina tenendo in mano la chitarra dell’amico, che si era chiuso in una piccola stanzetta adiacente armato di una tinozza di legno, un secchio d’acqua dalla provenienza discutibile e una ruvida spugna di chissà quale materiale.
Aveva posato la tuba in un angolo della stanza, si era tolto la giacca e gli stivali, e tentava di concedersi un attimo di riposo, forse il primo dall’inizio di quel viaggio delirante.
Osservava lo strumento, solido e liscio, dalle forme morbide, e lo accarezzava.
Sospirò, e lo posò a terra con aria sconsolata. A causa sua invidiava Emppu. L’amico poteva avere il suo strumento, e lui no.
Avrebbe dato qualsiasi cosa per avere un pianoforte.
Era confuso, spaventato, e orribilmente consapevole di essersi ficcato in qualcosa di più grande di lui. Certe sensazioni si potevano lenire solo con la più forte di tutte: quella che lui provava quando esercitava la propria arte. Voleva suonare, voleva comporre, voleva sentire la musica nell’aria e sapere che era stato lui a darle vita.
«Wow, notevole.»
Alzò di scatto lo sguardo verso Emppu, che aveva appena fatto capolino dalla stanzetta dove si era lavato, con addosso un paio di pantaloni e nient’altro. Aveva i capelli fradici che gocciolavano dappertutto, ma lui non pareva curarsene.
In effetti, nella stanza c’era qualcosa di estremamente più sorprendente di qualche goccia d’acqua; Tuomas se ne accorse solo allora, e sgranò gli occhi, più sorpreso dell’amico.
In mezzo alla piccola cabina era apparso un pianoforte tremolante, nero e lucido, i cui tasti di bianco avorio si muovevano da soli sulle tracce di una melodia fantasma.
«Allora Marko non mentiva! Sei davvero un illusionista!» esclamò Emppu con un sorriso meravigliato, mentre afferrava uno straccio pulito e lo usava per asciugarsi i capelli in maniera molto approssimativa.
Tuomas non parlò, troppo impegnato a fissare la sua creazione. Era bellissimo. Allungò una mano per toccarlo, ma non appena le dita sfiorarono l’immagine questa vacillò e scomparve.
Il tastierista sbatté più volte le palpebre.
Non una sola cosa aveva avuto un senso da quando era stato catapultato lì.
«Incredibile.» sussurrò a sé stesso. «Ma, a quanto pare, sono solo illusioni»
Il chitarrista non aveva mancato di notare quella lieve nota di amarezza nelle sue ultime parole, e si sedette accanto a lui sulla brandina.
Per qualche attimo osservarono la stanza in silenzio. Era il bello di quell’amicizia così intima e profonda: i silenzi non erano mai imbarazzanti, e si conoscevano abbastanza da sapere quando uno dei due non avesse bisogno di parlare.
«Sai, Tuom? Ce l’abbiamo fatta.» mormorò Emppu, senza staccare gli occhi dal punto nel muro in cui erano posati.
«Sì. Ce l’abbiamo fatta.»
Si guardarono. A nessuno dei due sembravano vere, quelle parole. Come se da un momento all’altro qualcuno dovesse irrompere nella cabina e dir loro che c’era stato uno sbaglio, che le loro vite dovevano essere portate via, perché era così che il destino voleva. Perché era questo che il destino lasciava intendere.
«Sono fuggito dalla morte per ben due volte… entrambe le volte per merito tuo. Mi sembra strano non dover temere per la mia vita, adesso.» continuò il chitarrista.
Erano parole che potevano contenere mille significati diversi, mille emozioni diverse, e Tuomas li colse tutti.
«Adesso è tutto strano.»
Emppu sorrise, e si osservò le mani. Era convinto che quel momento di confessioni e cameratismo facesse un gran bene ad entrambi, come se Tuomas per lui fosse l’unico punto fermo nel bel mezzo di un sogno surreale, l’unica unità di misura da cui partire, e viceversa.
«Ti manca Kitee?»
Il tastierista sospirò.
«Da morire.»
Senti una calda stretta all’altezza della spalla. Si girò ed Emppu gli sorrideva, gli occhi azzurri appena velati da un sottile strato di lacrime.
«Ci torneremo presto, vedrai, Tuommi. Basta che mi salvi la vita ancora una volta o due.»
Entrambi si lasciarono andare ad una breve risata liberatoria, felici di poter contare l’uno sull’altro, felici di potersi fare da fratelli e da guardie del corpo.

Anette era al timone, con lo sguardo attento degli occhi chiari puntato alla linea dell’orizzonte, e i capelli neri che svolazzavano al vento. Poco distante c’era Jukka, appoggiato alla balaustra di legno, e l’osservava.
«L’equipaggio è irrequieto.» le disse.
Lei alzò gli occhi al cielo, ed emise un verso a metà tra uno sbuffo ed un sospiro.
«Lo so. E so anche che quell’idiota di Willson vuole un ammutinamento.»
Il vicecapitano si avvicinò a lei a passi lenti, lo sguardo serio e la fronte aggrottata.
«E’ un’accusa pesante, Anette.»
«Se non è quello che vuole, allora è un deficiente, perché lo lascia intendere in maniera più che palese.»
«Vuoi che lo uccida?»
Il capitano si portò una mano alla fronte, per poi passarsi le dita su una tempia e massaggiarla piano, con aria stanca.
«No. Non posso eliminarlo, è uno dei miei uomini migliori, ed è popolare sulla nave. Ho le mani legate, Julius.»
Il pirata le si avvicinò, con uno sguardo preoccupato negli occhi verdi, e posò una mano sul suo braccio. Lui la conosceva meglio di chiunque altro e odiava quando lei faceva così.
«Che cosa c’è, An?»
Lei gli scoccò un’occhiata a metà tra la rabbia e l’esasperazione.
«Cosa c’è?! Li hai sentiti, quei pazzi, che parlavano di cose assurde, nella mia cabina? Che cosa significano le loro parole, Jukka? Cosa significa la canzone che mi sono ricordata, e che adesso mi perseguita? Non riesco a capire, non riesco a capire cosa sta succedendo, e questo mi angoscia.»
Lasciò andare il timone con un gesto rabbioso e amaro, e si mise a camminare avanti e indietro come un’anima in pena.
Il suo vice si affrettò a prendere le redini della Dark Passion, quel tanto che bastava per aggiustarne la rotta, poi tornò con lo sguardo a lei.
«Perché non li ho uccisi?» si domandò la cantante, sconfortata.
«Perché era la cosa giusta da fare.» fu la risposta, immediata, del batterista. «Senti, neanche per me è una cosa facile da accettare. Io e te abbiamo sempre vissuto in un certo modo, siamo diventati grandi con la pirateria. Ma io sento che questi uomini, chiunque siano, abbiano ragione, non puoi non averlo capito anche tu. Sei sempre stata spietata con i nemici, ma mai crudele, né ottusa. Sei sempre stata giusta nelle tue decisioni, qualsiasi fossero.»
Lei abbassò lo sguardo, non voleva incontrare quello di Jukka, perché sapeva quanto fossero esatte e sagge le sue parole.
«A volte mi domando… perché lo faccio. Io sono solo una donna.» mormorò amaramente.
Si sentiva come se a volte i suoi abiti le stessero stretti, come se le armi che portava bruciassero a contatto con il suo corpo. Si chiedeva a che scopo conduceva quella vita, si chiedeva se aveva preso le decisioni giuste.
A quel punto, Julius abbandonò definitivamente il timone e si piantò davanti a lei, osservandola dolce e severo allo stesso tempo.
«Sì, è vero, sei una donna. Ma sei la donna più tosta, intelligente e coraggiosa che abbia mai conosciuto. Tu hai più qualità di molti omoni grandi e grossi su questa nave, e non dirmi di non saperlo, perché è proprio per questo che quegli stessi omoni grandi e grossi ti ubbidiscono come cagnolini. Sei una donna, e sei migliore di tanti uomini.»
Lei scosse la testa, e gli lanciò una fugace occhiata di sbieco.
«Tu saresti un grande capitano per la Dark Passion»
Il pirata le sorrise, sistemandosi la bandana in testa con un gesto esperto.
«Sì, sì, indubbiamente sarei un grande capitano.»
La sua totale mancanza di modestia riuscì a strapparle un mezzo sorriso e il principio di una risata, ma lui tornò serio quando lei lo colpì con un pugnetto giocoso alla spalla.
«Sarei un grande capitano, ma non sarei il più grande. E non sarei mai il migliore. Oh, sciocca, sciocca piratessa! Come fai a non capire che sei tu, tu la più grande, e tu la migliore?»
Gli occhi di lei si fecero grandi, stupiti, scrutarono a fondo quelli del pirata alla ricerca di qualche traccia di scherzo o menzogna, ma non ne trovarono.
Si lasciò andare ad un sospiro, ma trovò le braccia di lui a consolarla.
«Jukka… grazie.» mormorò, la testa affondata nel suo petto.
Lui le accarezzava la testa con fare fraterno. Non c’era amore, nel suo sorriso e nei suoi gesti: solo uno straordinario affetto.
«Di nulla, dolcezza. Questa nave sarebbe una noia mortale senza di te, lo sai.»
Entrambi sorrisero, insieme.

Marko era ancora seduto sul ponte della nave, ancora insonne, ancora silenzioso osservatore del moto delle onde del mare. Ma era più tranquillo, più felice, più in pace, e allo stesso tempo più tormentato di prima.
Lisanna era ancora rannicchiata contro di lui, ancora la sua testa trovava un comodo appoggio nel suo petto, ancora le sue mani affusolate e delicate gli stavano stringendo dolcemente il braccio.
Non sapeva perché, ma sentirla così vicina a lui lo emozionava. Avrebbe voluto che quella notte durasse per sempre.
«Mh… Marko… come faceva quella splendida canzone che hai cantato oggi…?»
Nel sentire i suoi bisbigli capì che doveva essere in procinto di addormentarsi, e le sorrise dolcemente, anche se lei non poteva vedere il suo sorriso dietro le palpebre socchiuse.
Non le rispose, ma intonò le note di quella magica canzone che aveva avuto il potere di salvar loro la vita.
«Un gufo venne da me, vecchio e saggio: trafisse la mia giovinezza. Imparai i suoi modi, invidiai la sua saggezza… ma non avevo bisogno di nulla che lui avesse.»

An owl came to me
Old and wise
Pierced right through my youth
I learned its ways, envied its sense
But needed nothing it had


Anche sul volto di lei si delineò un sorriso, assonnato. Si sistemò meglio sul suo petto, sussurrando parole incomprensibili, finché non si spensero anche quelle e non rimase che il suono regolare del suo respiro.
Lui rimase ad osservarla dormire ancora per qualche minuto, e quando fu sicuro che si fu addormentata la prese delicatamente in braccio e si alzò con cautela.
La portò fino alla sua cabina a passi lenti, per non svegliarla, per non rovinarle il sonno, e la posò dolcemente sulla brandina, coprendola con quelle poche coperte ruvide che c’erano sul materasso con la stessa cura con cui avrebbe coperto il suo tesoro più grande. Non volle soffermarsi oltre, non volle approfondire il sentimento che provava per lei…
Era troppo presto per provare qualcosa, lo sapeva.
Tornò sul ponte leggermente turbato. Si appoggiò all’albero centrale della Dark Passion, volgendo gli occhi alla linea dell’orizzonte.
Avrebbe tanto voluto che un gufo venisse da lui. Perché lui, a differenza del testo della canzone, aveva tanto bisogno della sua saggezza.
Il lieve suono delle piume scrollate dal vento lo riscosse dai suoi pensieri.
Alzò gli occhi, ma appena vide cosa era atterrato sul ponte della nave, gli venne quasi un infarto.
Un paio di grandi occhi gialli, a palla, fosforescenti nella notte, rimasero ad osservarlo mentre si metteva le mani tra i capelli e gironzolava in tondo ripetendosi che tutta quella storia era pura follia.
Il gufo non si scompose mai, aspettò calmo e paziente che il guerriero si riprendesse, e non fu cosa da poco; dovette passare qualche minuto, perché il vichingo si calmasse e riuscisse a guardare l’uccello notturno senza avere un attacco di panico.
«Beh, che vuoi?» domandò bruscamente.
Rivolgersi ad un volatile gli sembrò la cosa più stupida che avesse mai fatto, ma evidentemente quel volatile non la considerava tale, dato che la sua risposta fu un lungo bubolo. Con un artiglio, il gufo spinse verso di lui qualcosa rilucente di bianco, con una dignità che stupì il guerriero. Poi, senza mai staccare gli occhi da lui, il gufo aprì le ali e si levò in volo, abbandonando la nave e i suoi strani e controversi abitanti.
Marko raccolse il biglietto di carta che gli aveva portato l’uccello, con lo sguardo ancora scioccato che saettava dal messaggio all’oscurità in cui era scomparso il rapace, e poi ancora, dall’oscurità al messaggio.
Quando decise di darsi pace, il mercenario spostò la propria attenzione sul foglietto.
Al tatto sembrava un frammento di pergamena, ma non si prese tanto tempo per esaminarlo il bassista, perché quella fugace visita notturna l’aveva incuriosito troppo per permettersi altre esitazioni.
Spiegò velocemente il pezzo di carta, ma rimase quasi deluso nel vedere che recava scritte solo poche parole.

Io sono ciò che è morto, ma che vive ancora.

Ah, splendido, un indovinello.
Ma che cosa diavolo voleva essere, una specie di caccia al tesoro?
Marko strinse il biglietto nel pugno, e si avviò a grandi passi sottocoperta.
Sapeva esattamente chi andare a cercare: Tuomas.









Ciò che dice l'Autore

Ho voluto scrivere questo capitolo per farli staccare un po' ^^ Vengono da una serie di avventure, corse e combattimenti frenetici, e si troveranno davanti nei prossimi capitoli dei periodi di vero "stress" sotto questo punto di vista, perciò prima che vengano sottoposti a questo durissimo trattamento (ehehe), volevo creare un capitolo che fosse un po' riflessivo per tutti...e, soprattutto, volevo mettere a nudo le debolezze e le paure di ognuno :D Spero di non avervi annoiato!

PS: Un ENORME ringraziamento ai lettori e ai recensori! Ai recensori vecchi e a quelli nuovi....grazie mille!!!!!!

Un grande bacio
















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Capitolo 8
*** ...E la Colomba ***


«E’ una caccia al tesoro, mi ci gioco la chitarra»
La cabina del capitano era più grande delle altre, riusciva addirittura a contenere una scrivania in legno dove svettava un caos di documenti, fogli e cartine geografiche, e una piccola libreria contenente dei volumi rilegati e delle pergamene sciolte e abbandonate a sé stesse, senza alcuna distinzione.
Nel complesso, era una stanzetta gradevole, anche se del tutto preda del disordine più totale, e faticava a contenere le sei persone che si erano lì riunite.
Anette era in piedi, dava le spalle agli altri quattro ma ascoltava ogni parola che aveva il coraggio di uscire dalle loro labbra, gli occhi persi fuori dall’oblo, sul mare e sui marinai che si davano da fare sul ponte.
Sia Marko che Jukka erano in piedi, appoggiati l’uno di fronte all’altro a due pareti opposte, uno a destra e uno a sinistra, osservavano i compagni senza proferire una sola parola.
Emppu, Tuomas e Lisanna erano seduti sulle uniche tre sedie che arredavano l’ambiente, al centro della cabina.
Sembrava che le emozioni, le parole, i gesti vissuti la notte precedente non fossero mai accaduti; ora, tutta l’attenzione era al fogliettino che aveva portato Marko e che Emppu continuava a leggere e rileggere, come se imprimersi nella mente quelle poche lettere fino a scordarsene il significato potesse permettergli di arrivare alla soluzione più facilmente.
«Ora che ci penso, forse la chitarra me la tengo.» aggiunse poi, passando il foglietto a Tuomas.
L’illusionista vece scorrere lo sguardo sul testo in una frazione di secondo, per poi alzare gli occhi e guardare ognuno di loro.
«Potrebbe essere un fantasma. Un fantasma è una persona morta, che però vaga ancora nelle terre dei vivi» disse.
«Impossibile. I fantasmi non esistono.» fu la risposta immediata di Jukka.
Emppu gli lanciò uno sguardo sorpreso.
«Come, no? Voi siete pirati, Tuom ha beccato una sirena, e non esistono i fantasmi? Pensavo fossero ordinaria amministrazione, come – chessò – folletti, fate, spiritelli»
Il batterista lo guardò come se la sua domanda fosse la più stupida che avesse sentito, e la risposta solo un’ovvietà.
«Certo che ha beccato una sirena! Anzi, deve ancora dirmi come diavolo ha fatto a sopravvivere… ah, e ti auguro di non incontrare mai un folletto, una fata o uno spirito, e di non trovarti mai in una foresta da solo di notte. Ma i fantasmi, che idea assurda…»
Il chitarrista rimase senza parole. Lui stava scherzando… ma il vicecapitano sembrava drammaticamente serio.
«La risposta sarebbe sbagliata lo stesso.» intervenne Lisanna, così che tutti gli sguardi furono puntati su di lei. Si guardò intorno, a disagio… non le piaceva essere al centro dell’attenzione. «Beh… I fantasmi vivono su un confine.  Un fantasma è non un essere vivo né un essere morto, nessuna delle due cose. Mentre la creatura che stiamo cercando lo è entrambe.» spiegò.
Tuomas si accorse della validità del ragionamento, e ammutolì sconfortato. Era tutto ciò che gli era venuto in mente… tolti i fantasmi, cos’altro poteva avvicinarsi alla descrizione di quel maledetto bigliettino? Si prese la testa tra le mani, sconsolato.
E anche se avesse trovato quello che stavano cercando – qualsiasi cosa stessero cercando –, che cosa avrebbe fatto poi? Quell’essere sarebbe stato la soluzione a tutti i loro problemi, li avrebbe riportati a casa?
Se ci fosse stata questa possibilità, allora lui l’avrebbe cercato in capo al mondo, finché avesse avuto forza in corpo. Sarebbero tornati a Kitee, tutti e cinque, insieme. A qualunque costo.
«ANETTE OLZON!»
Il grido che si levò dal ponte strappò dai loro pensieri tutti i presenti, che si voltarono simultaneamente di scatto verso l’oblo.
Solo lei, solo Anette era rimasta impassibile.
Si girò lentamente verso Jukka, e gli scoccò uno sguardo indecifrabile.
«Dovresti aver imparato che io ho sempre ragione, Nevalainen» gli disse, con un mezzo sorriso sul volto.
Il vicecapitano sorrise a sua volta, ma non riuscì a cancellare la preoccupazione che gli si leggeva negli occhi.
«Vuoi un aiuto?»
Lei rise.
Si sistemò meglio il fodero della sciabola al fianco, aprì la porta della cabina del capitano ed uscì sul ponte con tranquillità.
Sul ponte si era formato un grande spiazzo, un cerchio quasi perfetto delimitato da corpi e corpi di marinai curiosi ed estremamente seri.
Al centro dello spiazzo c’era un uomo alto e muscoloso, con un paio di orecchini dorati all’orecchio destro e due treccine sudicie di un colore rossiccio che gli partivano dalla base del collo e gli terminavano alla fine della schiena; il resto del capo era completamente rasato. Portava una camicia bianca sporca e sbrindellata, a coprire – o almeno tentare di farlo – gli evidenti muscoli della sua corporatura imponente. Stringeva nelle mani grosse come badili le spade più grandi che Tuomas ed Emppu avessero mai visto, e lo faceva come se fossero fuscelli.
«Almeno non sei un vigliacco, Willson.»
La folla si aprì in due al passaggio di Anette, e si richiuse alle sue spalle non appena fu entrata nello spiazzo, esattamente di fronte al proprio avversario. Ora che erano così vicini si poteva notare benissimo la differenza di altezza, ed era impressionante, come impressionante era la corporatura esile del capitano in confronto alla muscolatura prominente di quello che era stato uno dei suoi luogotenenti.
«Oh, no, anzi: presto imparerai che sono cento volte migliore di te.»
Sghignazzò, mostrando i buchi nelle file storte dei suoi denti, mentre passava lo sguardo degli occhi piccoli e castani su tutto l’equipaggio.
«Io ho smesso di prendere ordini da una donna, gente!» gridò, alzando le braccia per incitare la folla.
Nessuno osò urlare con lui, ma alcuni annuirono.
Anette si lasciò andare a qualche imprecazione mentale; erano più numerosi di quanto pensasse. Eppure, non mostrò mai alcun segno di esitazione.
Incrociò le braccia invece, ignorando completamente l’impugnatura della sciabola che le spuntava al fianco, quando l’uomo di fronte a lei le aveva già in mano entrambe.
«Penso seriamente che la tua stupidità sia uguagliata solo dalla tua bruttezza. Però non posso esserne ancora sicura: è una lotta ardua.» sibilò gelidamente, dietro al sorrisetto che si era stampata in viso.
«La nostra non lo sarà.» fu la replica di lui, che non aspettò oltre a gettarsi su di lei.
Lento. Decisamente lento.
Con un’agilità fuori dal comune, Anette si abbassò e compì una veloce capriola laterale, con la quale schivò il primo fendente dell’avversario, reso impacciato dal troppo impeto dato dalla rabbia.
Prima regola: la freddezza. Dilettante.
Nell’alzarsi, Anette sguainò la spada e si portò alle spalle del nemico, in posizione di difesa.
«Non avrei voluto ucciderti, sciocco. Mi stai obbligando, e non amo essere obbligata a fare qualcosa.» dichiarò mentre saltava di lato per schivare un altro fendente, ma lui non le diede ascolto.
Ecco, era quello il momento del contrattacco: l’intervallo tra un impeto di furia e l’altro, l’avversario sbilanciato da un colpo potente andato a vuoto.
La cantante ne approfittò subito; scattò in avanti, la spada tesa, la punta indirizzata dritta la cuore.
Il rumore assordante della lama che cozza contro la lama, il contraccolpo che si trasferisce dolorosamente sul suo braccio, lo slancio che la porta a superare il pirata e fermarsi nuovamente dietro le sue spalle.
Ah, due spade. Giusto. Guerriero ambidestro e bla, bla, bla. Anette alzò gli occhi al cielo e si preparò ad attaccare.
Odiava la teoria.
Lui tornò a girarsi verso di lei. Certo, aveva una difesa eccellente; lei era sempre stata molto brava nello scegliere gli uomini migliori.
Altri due fendenti, in rapida sequenza. Il secondo non poté evitarlo, così dovette deviarlo con un movimento fluido della sua sciabola. Fece attenzione a colpire di striscio la lama del nemico, per non dover risentire totalmente del contraccolpo sul braccio – non si era ancora ripreso benissimo dalla parata di poco prima –.
Colse l’attimo giusto e gli sfrecciò alle spalle, ma era la terza volta che lei provava il giochetto e lui aveva deciso di non rischiare più. Non avrebbe fatto in tempo a voltarsi del tutto, così allargò le braccia e delineò una circonferenza mortale con le proprie spade grazie ad una rotazione del busto.
Le sue lame fendettero solo l’aria: Anette aveva previsto la sua mossa. Si era infatti rannicchiata in basso, all’altezza delle sue ginocchia, con la stessa agilità di un felino.
E mentre lui tranciava a metà il busto di un nemico immaginario alle sue spalle, lei gli piantava la sciabola nel polpaccio con tutta la forza che aveva.
Il pirata vacillò e cadde, con un grido di rabbia e dolore.
Lei gli fu subito addosso.
Alzò la spada, in modo da potergli dare il colpo di grazia prima che lui sfruttasse la sua fisicità per ribaltare la situazione e dare inizio ad una colluttazione a terra, ma fu bloccata a metà del gesto da una scia di fuoco che gli si propagò dal braccio sinistro fino alla spalla.
Lì si era appena conficcato un pugnale.
Non urlò. Non subito.
Si tolse un coltello dallo stivale e lo conficcò nella mano di Willson, in modo da averlo immobile; avrebbe dovuto aspettare.
Gettò a terra la spada per prendere un pugnale da lancio, girarsi e lanciarlo con forza e con una mira perfetta verso l’uomo che era dietro di lei. Fu allora che urlò.
«Io sono destrorsa, idiota!» fu il suo grido.
Il pugnale che lei aveva lanciato gli si conficcò esattamente al centro del petto, e lui si afflosciò a terra, senza un solo gemito.
Si girò poi verso il luogotenente che aveva lasciato a terra con un polpaccio disfatto e sanguinante, senza degnare d’uno sguardo il cadavere del codardo che l’aveva presa alle spalle, pronta per completare l’opera.
Raccolse la spada, poi con un calcio fece rotolare Willson per terra per poterlo vedere supino.
¬«Io non colpisco mai un uomo alle spalle.» gli disse, prima di conficcargli la lama nel cuore.
Sul ponte calò il silenzio.
Anette si scostò una ciocca dei capelli dal viso, si estrasse il pugnale dal braccio e lo gettò a terra.
«Questo è quello che succede a chi ha smesso di prendere ordini da una donna.» Il suo tono era gelido, come i suoi occhi di ghiaccio, che analizzavano una ad una le facce del suo equipaggio. «Ora, se a qualcuno di voi non va bene il sesso del vostro capitano, o se qualcuno di voi ha una mira penosa come quella del cretino che ha accompagnato Willson nella tomba, non ha che da dirlo e io sarò felicissima di ucciderlo. Chiaro?»
Annuirono tutti.
«Stupendo. Murray, Stevens, voi occupatevi dei cadaveri di questi due, voglio per loro tutte le degne cerimonie del caso. Chiamate anche qualche mozzo che pulisca tutto questo schifo e no, non ho alcun bisogno di un dottore. Tutti gli altri si occupino della rotta: oggi è una giornata come le altre.»
Voltò le spalle a tutti e si incamminò tranquillamente verso la propria cabina, incurante del sangue che gli gocciolava dalla ferita al braccio.
Quando aprì la porta, trovò tre persone che la fissavano attonite, una ammirata e un’altra molto divertita.
Chiuse la porticina dietro di sé e sospirò.
«Casa dolce casa» esordì, non senza la sua buona dosa d’ironia.
«Stai perdendo colpi» replicò Jukka, indicando la ferita al braccio.
«Nevalainen, dammi le medicazioni e stai zitto, sono stata presa alle spalle da un tizio che non era stato invitato alla festa.»
«Che episodio seccante» commentò lui porgendogli un’ampolla con dentro un liquido trasparente e un rotolo di garze.
Lei annuì, srotolando le bende e strappandone un pezzo per poi imbeverla del liquido e posarsela sulla ferita.
Sentirono il respiro di lei accelerare, e la videro strizzare gli occhi, ma non un suono uscì dalle sue labbra.
Sia Tuomas che Emppu erano scioccati; eppure, l’illusionista era convinto di aver visto tutto, ormai.
Il problema era che non si sarebbero mai abituati a vederla combattere, vincere, uccidere, dare ordini. Dovevano ammettere che tutto questo le gettava addosso un’irresistibile aura di sensualità, ma anche d’inquietudine.
Marko, invece, sembrava quasi a proprio agio e, dopo l’iniziale sgomento, trovò positivo il fatto di poter parlare da guerriero a guerriero… o meglio, da guerriero a guerriera.
«Che cos’è?» domandò infatti il mercenario, indicando la bottiglia.
«Non ne ho idea, ma fa maledettamente male» fu la risposta di lei.
Julius si schiarì la gola.
«Modestamente, è una mia creazione. Forse è un po’ fortino, ma nulla è migliore di quello per disinfettare una ferita.»
Era evidente che fosse orgoglioso delle proprie doti di alchimista.
«“Un po’ fortino”? …Ricordami di rovesciartelo in testa, questo coso, dopo che avrò finito di agonizzare» lo rimbeccò Anette mentre si fasciava il braccio con gesti esperti.
Quando terminò con le medicazioni, si mise ad osservare tutti i presenti con aria quasi stanca.
«Sentite, vi dispiace se rimandiamo la nostra riunione a dopo? Ho bisogno di parlare con il mio vice.»
Le sue parole gettarono su Tuomas un velo di amarezza. Erano come la dimostrazione del fatto che lei ancora non si fidava di loro, del fatto che lei non li considerava suoi compagni, non ancora.
Per Marko era stato facile, aveva accettato quasi subito di seguirlo, e non gli aveva mai dato la sensazione di pensare che loro fossero ancora estranei, sebbene ne avrebbe avuto tutti i motivi; in effetti, Tuomas cominciava a sospettare che Marko, per buon cuore, recitasse.
La cosa lo addolorava.
Voleva il suo gruppo, li voleva uniti, voleva che tutti si affidassero a tutti, come avevano sempre fatto. E lui, lui proprio non sapeva che cosa fare per farli tornare com’erano una volta. Si sentiva stupido e impotente.
«Non c’è problema, figurati» le rispose, alzandosi.
Ebbe l’impressione che lei avesse capito che il sorriso che si era a forza stampato sul volto fosse falso, ma comunque fosse lei non gli disse niente, e lui uscì dalla cabina e si avviò sottocoperta con il resto dei suoi compagni al seguito, portandosi dietro anche il suo immancabile senso d’amarezza.
«Pensi che ci saranno conseguenze, dopo oggi?» chiese lei, dopo che tutti se ne furono andati.
Jukka scosse la testa.
«Li hai messi del tutto in riga, An, hai ribadito la tua autorità. Non ci saranno altri colpi di testa.»
Le sue parole la confortavano. Lo sperava tanto.
«Sei stata fortissima.» aggiunse poi.
Lei sorrise.
«Ordinaria amministrazione.»
«Vuoi che ti lascio sola?»
Incredibile come, a volte, fosse in grado di leggerle nel pensiero. Annuì.
«Sì, grazie mille Nev»
Lui le fece l’occhiolino, prima di uscire e chiudersi la porta alle spalle.
Finalmente sola…
Si lasciò cadere su una sedia, massaggiandosi le tempie. Non l’avrebbe mai ammesso davanti a nessuno, ma cominciava a sentirsi davvero stremata. E le difficoltà non erano neanche iniziate, se lo sentiva.
Dall’oblio della stanchezza, emersero alcune parole, che la fecero sorridere.
Chissà perché, quella canzone, in quel preciso istante…
In altre condizioni l’avrebbe bloccata. Era una canzone che la confondeva, e per questo era irritante. Ma in quel momento non aveva la forza per combattere contro sé stessa, e la lasciò fluire dolcemente in un sussurro vibrante.
«Una colomba venne da me…» le note scemarono. Com’era il seguito? …Ah, sì: «…non ebbe paura: si riposò sul mio braccio. Io toccai la sua calma, invidiai il suo amore… ma non avevo bisogno di nulla che lei avesse.»

A dove came to me
Had no fear
It rested on my arm
I touched its calm, envied its love
But needed nothing it had


Smise di cantare, per poi lasciarsi andare ad un sospiro liberatorio.
Chissà se, adesso, sarebbe venuta da lei una bella colomba bianca?
L’idea la fece sorridere.
Sarebbe stata una cosa alquanto impossibile. Anche perché l’oblo era chiuso, e non sarebbe mai riuscita ad entrare.
Ticchettio.
Beh, certo, avrebbe potuto fare un ticchettio con il becco, per farsi notare e farsi aprire… Ma no, che cosa assurda. Assurda almeno quanto un gufo che portava indovinelli.
Ticchettio?
Si voltò verso l’oblo, per poi scoppiare in una lunga risata.
Si alzò e aprì la piccola finestrella, lasciando entrare il bellissimo volatile, che si posò aggraziato sulla sua scrivania. Solo quando lei tornò a sedersi sulla sedia la colomba decise di avvicinarsi e appollaiarsi sul suo avambraccio destro.
Le unghiette delle zampe le graffiavano lievemente la pelle, ma non era una sensazione spiacevole.
«Sai una cosa, colomba? Sei assurda. Almeno quanto una donna che si mette a fare il capitano di una nave pirata.» sussurrò all’uccello mentre ne accarezzava la testolina.
Di sicuro quell’animaletto grazioso dal piumaggio candido non aveva capito le sue parole, ma sembrava aver gradito molto le carezze, tanto da tubare tutta soddisfatta.
«Sei venuta per dirmi qualcosa? Per darmi dei consigli?» le domandò dolcemente.
Questa volta sembrò aver capito, perché fece un cenno col capo terribilmente simile ad un cenno d’assenso.
Anette sorrise.
«Dimmi, allora. Ma ti prego, sii più esplicita del gufo, lui non ha fatto altro che confondermi le idee»
La colomba gonfiò il petto, come se fosse orgogliosa della fiducia che Anette sembrava riporre in lei, e indicò con la testina bianca l’oblo dal quale era entrata.
Anette guardò fuori: proprio in quel momento la linea dell’orizzonte era oscurata da una striscia nera.
Terra.
Il capitano aggrottò la fronte. La rotta della Dark Passion non prevedeva alcun approdo, e dopotutto per una banda di criminali sarebbe stato un suicidio: terraferma significava Imperatore, in qualunque lingua esistente.
In effetti, sarebbe stato un suicidio anche per una persona che non aveva commesso alcun reato.
La donna osservò la colomba con un’espressione non troppo convinta.
«Sei sicura? Vuoi davvero che noi torniamo sulla terra? È davvero quella la risposta alle nostre domande?»
Non appena fatta la sua domanda, la colomba si alzò in volo, fece un giro in tondo sul soffitto della stanza del capitano e poi puntò dritto verso la terraferma.
Un frullio d’ali, un tubare lontano, e Anette fu lasciata sola nella sua cabina, in preda ai dubbi.
Terraferma.
Da quanto tempo non la toccava?
Era il posto più pericoloso del mondo conosciuto, tra le foreste infestate da creature sovrannaturali e l’Imperatore che imperversava terrorizzando le città e i borghi abitati. Una decisione sbagliata avrebbe comportato la morte.
C’era anche da dire che lei poteva anche decidere di non seguire quello strano gruppo di suonatori fino ad una molto probabile morte: lei su quella nave aveva tutto quello che aveva sempre desiderato, tutto quello per cui aveva sempre combattuto.
Sospirò, si alzò e a grandi passi si avviò sottocoperta.
Una sola cosa era certa: la Dark Passion avrebbe dovuto continuare a solcare i mari, qualsiasi cosa fosse accaduta.
E in questa situazione, mai avrebbe potuto abbandonare la nave in quanto capitano, si sarebbe subito scatenato il finimondo. Anche perché avrebbe dovuto portare il vicecapitano con sé.
Assorta nei suoi pensieri, non si accorse di essere già arrivata alla cabina che stava cercando: quella di Holopainen.
Era un ragazzo strano, così magnetico, così affascinante. C’era qualcosa in lui che le ricordava qualcuno, ma non riusciva a capire chi.
Quando aprì la porta, si ritrovò davanti tutta la combriccola al completo, Julius compreso.
Tutti le sorrisero; Marko era paonazzo, e si accorse in ritardo che Jukka aveva provveduto a far loro conoscere il contenuto dei barili di rhum che erano incautamente tenuti in cambusa.
Sospirò, scuotendo piano la testa, mentre le saliva alle labbra un sorrisetto divertito.
«Annuncio a tutte le persone sobrie che si trovano in questa stanza – so perfettamente che nessuno di voi lo è, ma almeno provate a fare finta –: nessuno di voi è specializzato in piani complicati, diabolici e molto probabilmente suicidi?»









Ciò che dice l'Autore
Mia madre ha passato tutto il pomeriggio a urlarmi addosso perchè sono stata al computer a scrivere da quando mi sono svegliata fino ad adesso (alle 22.02)...a stento mi sono alzata per mangiare xD
Comunque! A parte questo aneddoto che non importerà a nessuno xDxD
Volevo giustificarmi per un paio di cose: ehm, penso che sia palese che io non so assolutamente nulla nè di come si dirige una nave (non sono mai neanche salita su un gommone O.O Però il pedalò lo so guidare U.U'') nè di come si combatte con la spada, spero che nessuno che sia competente in questi due ambiti decida di condannare la mia ignoranza....navi e spade mi servivano per scopi artistici, chiedo venia :S
Un bacione a tutti e un grande ringraziamento a chi legge e a chi recensisce ^^ Spero che vi sia piaciuto il capitolo! Le danze cominciano ora ;P


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Capitolo 9
*** Capitano ***


Anette si svegliò, disturbata da un raggio di sole che penetrava clandestino nella sua cabina e si posava dolcemente sulla sua guancia.
Si lasciò andare ad un mugolio mentre si stirava, ed apriva lentamente gli occhi.
Sarebbe stata una giornata importante. Dolorosa. Terribile. Ma inevitabile.
Si mise a sedere, guardandosi intorno con gli occhi azzurri ancora assonnati. La cabina era esattamente come l’aveva lasciata la sera prima. Sempre caotica. Sempre così deliziosamente piccola.
Si passò una mano sul volto. Ma davvero aveva intenzione di farlo? Davvero aveva intenzione di prendere una decisione così drammaticamente definitiva?
Si alzò, si avvicinò e prese in mano un piccolo specchietto – eco di una ormai dimenticata femminilità –, osservandosi per sistemarsi la massa informe dei suoi capelli neri. Perfetto, quella mattina erano ancora più selvaggi del solito…
Rinunciò a dar loro una forma, per dedicarsi all’abbigliamento. Sì, era abbastanza presentabile… e, per il momento, l’essere “abbastanza presentabile” ancora le bastava. Rabbrividiva al pensiero di poter diventare una di quelle donne perennemente agitate a causa di un orlo sgualcito o di un colore abbinato in modo sbagliato.
Si sedette dietro la scrivania, tentando di stamparsi sul volto la sua solita espressione dura, convinta, sicura di sé. Come se in quel momento sapesse cosa stesse facendo; come se in quel momento conoscesse le conseguenze delle proprie azioni. O forse, queste ultime le conosceva fin troppo bene; per questo tentava di ignorarle.
Un comportamento simile non era una comportamento ammissibile per un capitano; un’altra cosa che lei sapeva molto bene. C’era anche da dire che mai, mai la sua vita era stata sconvolta in modo simile.
Era sempre stato tutto così chiaro.
Gran bella faccia tosta, quei tre, spuntare da chissà dove e rovinarle ogni cosa. Loro avevano la minima idea di tutti i sacrifici che lei aveva fatto per arrivare fino a dov’era arrivata?
Eppure, sebbene in circostanze normali avrebbe staccato loro la testa con molta gioia, quella volta sentiva invece il folle bisogno di assecondarli e accompagnarli. Roba da matti.
«Capitano?»
La voce, giovane e insicura, le giunse distante da dietro la porticina di legno della sua cabina. Poteva anche sentire un flebile bussare.
Anette sospirò.
«Per l’amor del cielo, entra, Kian.»
Una simpatica zazzera color castano chiaro fece capolino dalla porta, ed un paio di timidi occhi nocciola si guardarono intorno intimoriti.
Ecco: l’unica speranza di riuscita per il suo brillante piano, l’unico salvatore della sua nave e della sua reputazione. Un ragazzino. Nient’altro che un ragazzino.
«Quando deciderai che qui dentro non ho intenzione di sbranare nessuno ti sarò eternamente grata. Vieni. Sono altri che dovrebbero avere paura di me» …e non ne hanno, aggiunse tra sé con un velo d’amarezza e disappunto.
Il ragazzino si affrettò ad entrare dentro. Rimase in piedi, impacciato, nel bel mezzo della cabina, prima di cogliere lo sguardo esplicito del suo capitano e crollare seduto su una sedia, con le guance in fiamme.
«Sissignore, capitano. Cioè, sissignora, capitano. Chiedo scusa, capitano.» balbettò, gli occhi puntati fissi sulle tavole di legno sotto i suoi piedi.
Anette alzò gli occhi al cielo. Sì, il suo piano era decisamente un piano suicida.
«Ti vuoi calmare?» chiese, e contro la sua volontà la sua voce si fece più calda e più morbida.
Maledizione.
Inutile: il suo istinto da donnicciola davanti a quel ragazzino veniva pericolosamente a galla.
Il problema era che faceva così tenerezza, con quell’aria intimorita e quei ciuffi di capelli eternamente dritti in testa, e il suo corpo magro e scattante a metà tra quello di un uomo e quello di un bambino.
Doveva avere poco più di diciassette anni, ma a volte ne dimostrava anche meno.
Quel cambiamento di tono però in qualche modo gli fece bene, gli donò un po’ di forza, così che riuscì ad alzare lo sguardo e guardarla finalmente negli occhi.
«In… ehm… in cosa esattamente posso esservi d’aiuto, capitano?»
Anette appoggiò i gomiti alla scrivania, incrociò le dita davanti a sé e vi appoggiò il mento con fare pensoso.
«Kian.» esordì poi. Lo sguardo nei suoi occhi azzurri era così intenso da spaventare il ragazzo.
«Tu sei il mago della Dark Passion. Sei una figura fondamentale all’interno della nave, lo sai questo? Sei quello che ogni giorno ci protegge dalle sirene e dalle altre creature sovrannaturali, sei quello che confonde i nemici durante gli arrembaggi. Abbiamo vinto molti velieri grazie alla tua superiorità rispetto agli altri maghi di bordo.»
Tutta quella pioggia di elogi lo esaltò, ma prima di tutto lo confuse e lo allarmò. Non sapeva dove lei voleva andare a parare, ma sicuramente non si trattava di nulla di conveniente. Decise così di mantenersi sulla difensiva.
«Svolgo solo il mio compito. Sono contento che il mio lavoro venga apprezzato» mormorò, incerto.
La cantante si prese qualche attimo per osservarlo, intensamente. Sì, era veramente un ragazzo prodigio; e a vederlo non gli avrebbe dato un soldo.
«Come te la cavi con le illusioni e il burattinaggio?» domandò.
A quella domanda, lui sussultò.
«Capitano, illusioni e burattinaggio sono proibiti
La voce di lui si era abbassata di parecchio.
Lei sbuffò, e gli scoccò un’occhiata aspra.
«Ti ho chiesto come te la cavi, non quello che ne pensa l’Imperatore.»
Kian si guardò ripetutamente intorno prima di parlare. Quando tornò con lo sguardo a lei, però, aveva gli occhi che brillavano.
«Sono più semplici di quello che mi aspettavo. Riesco a creare qualsiasi tipo d’illusione, e le immagini più semplici riesco anche materializzarle. In quanto al burattinaggio, modellare l’argilla mi riesce facile, ultimamente mi vengono risultati sempre più particolareggiati… poi, muovere il burattino è in sé una passeggiata.»
Anette annuì.
«Riusciresti quindi a coprire l’assenza di due persone…?»
«Beh sì, sì, non sarebbe affatto una cosa impossibile, basterebbe…» si interruppe proprio quando stava per lanciarsi in un’entusiastica e particolareggiata descrizione dei metodi.
Aggrottò la fronte.
«Perché questa domanda, capitano?»
Lei prese un respiro profondo. No, non poteva più tornare indietro, adesso. Avrebbe dovuto andare fino in fondo.
«Tu sei l’unica persona, su questa nave, di cui mi posso fidare.»
Aveva lo sguardo puntato su di lui, ed era uno sguardo straordinariamente grave.
Kian sobbalzò all’indietro. Non capiva il senso di quelle parole, e l’osservava atterrito.
«C’è… il vicecapitano…»
«Julius dovrà venire con me.»
Il senso di quella frase lo colpì dritto al cuore, Kian scuoteva la testa fissandola con gli occhi sbarrati, non voleva crederle.
«Non potete abbandonare la nave!» urlò, sconvolto.
«Per carità, abbassa la voce!» esclamò Anette.
Lui ammutolì, ma l’espressione sul suo viso non mutò. Lei sospirò.
«Hai ragione, non posso. Per questo mi serve il tuo aiuto: nessuno dovrà saperlo, altrimenti si scatenerà il finimondo a bordo.»
Inspiegabilmente, Kian si calmò. Si portò una mano alla fronte, deglutì più volte. Sembrava una statua di sale, ma Anette poteva benissimo notare il suo petto, quasi ansimante, sicuramente un riflesso del ritmo frenetico del suo cuore.
Infine, alzò lo sguardo color nocciola su di lei.
Era così giovane… con che coraggio lo stava trascinando in questo? Disobbedire deliberatamente ad una delle Regole D’Oro Imperiali era un reato atroce.
Atroce, perché atroci erano le pene per i trasgressori…
Ah, al diavolo.
Era giovane, ma era un pirata; erano i rischi del mestiere.
Cercò con la sua pallida giustificazione di sentirsi meno in colpa, ma sapeva perfettamente che non ci sarebbe riuscita.
«Dunque, dovrei muovere due burattini raffiguranti voi e Jukka? Dovrei gestire io la nave? Per quanto tempo?»
Giusto, ottima domanda. Per quanto tempo? No, non lo sapeva quanto tempo sarebbe durata quella follia.
E se non fosse ritornata affatto?
Se fosse morta, o risucchiata in quella realtà alternativa di cui i suonatori farneticavano?
«Ho capito.» disse lui, nel notare il suo silenzio. Prese un respiro profondo; una nuova consapevolezza nasceva nei suoi occhi castani da ragazzino. «Dovrò organizzare un’enorme illusione.»
Lei alzò lo sguardo pensoso su di lui, e trovò un largo sorriso ad accoglierla.
«Per giustificare l’assenza dei tre cantastorie. Prevedo un tuffo nel mare…»
Inizialmente, un’ombra di sorpresa le attraversò gli occhi: come aveva fatto a capire che i tre uomini che avevano catturato l’altro giorno sarebbero venuti con loro?
Poi, però, il suo volto si distese.
Il sorriso spensierato e divertito del ragazzo si rifletté anche sul volto di Anette, che si protese a sfiorargli un braccio.
«Grazie Kian… sapevo che avrei potuto contare su di te»
Lui si alzò e si avvicinò alla porta.
«Potrete sempre contare su di me, capitano.» fu la sua risposta.
«Partiremo questa notte.» aggiunse lei.
Lui si azzardò a farle un occhiolino, salvo poi arrossire e distogliere lo sguardo.
«Le danze cominceranno domani, allora.»
Un ultimo sorriso, prima di uscire nel bel mezzo dei raggi del sole mattutino che avevano invaso il ponte.
Anette sospirò, afflosciandosi sulla sua sedia.
Ammirava quel ragazzo. Non le aveva posto una sola domanda, anche se ce ne sarebbero state miliardi da fare, solamente per fiducia, devozione, lealtà… ancora non si capacitava di come aveva fatto a finire in un giro malfamato come quello. Non era il posto per ragazzi come lui.
Oh, andiamo. Doveva smetterla di pensarci. Doveva smettere di lasciare che lui con quei suoi modi di fare da ragazzino risvegliasse il suo sopito istinto materno.
Non aveva bisogno di altre preoccupazioni, quelle per il suo prossimo futuro le bastavano già.
Il suo prossimo futuro. Quella notte.
Che cosa avrebbe trovato sulla terra?
Nulla di buono, sicuramente.
Si prese la testa tra le mani, tentando di trovare dentro di sé la forza per compiere quel passo così importante.
Eppure, tutto era già stato fatto. Ora, non le restava che aspettare.

Fu così che passarono le ore.
In tutti – Jukka, Tuomas, Marko, Emppu, Anette, Lisanna, Kian – viveva inquieta la trepida consapevolezza di ciò che sarebbe presto accaduto. La cosa terribile, e ironica, di tutto ciò era che si trattava di una consapevolezza solo parziale. Sapevano che cosa avrebbero fatto… ma cosa sarebbe accaduto? Quello ancora era loro ignoto.

Arrivò infine la notte.
Verso l’una, cinque fuggitivi si trovarono clandestinamente in un angolo buio del ponte, nascosti da una pila di cassoni, una scialuppa di quelle di salvataggio era stata già calata ed ora ondeggiava placida in balia delle acque d’inchiostro che si agitavano sotto di loro.
Nessuno parlava; tutti erano preda di un nervosismo quasi incontrollabile, ed erano costretti a tenerlo a bada finché non fosse arrivato chi stavano aspettando.
I quattro uomini sfoggiavano quattro mantelli neri identici, che portavano con i cappucci tirati sul capo a nasconderne i volti. Lisanna si era incollata alle casse, forse la più impaurita di tutti, con il suo abito verde scuro e il mantello nero simile a quello dei suoi compagni. Mancava solo Anette.

Era il momento.
Anette si sistemò il cappuccio sul capo e prese un lungo respiro profondo.
Lei era il capitano. E stava per abbandonare la nave. Teoricamente, avrebbe dovuto seguirla anche nell’affondare. E invece…
Cercò di non pensarci. Ci sarebbe stato Kian a mantenere il controllo per lei; non poteva rimandare quel viaggio, era troppo necessario. Per schiarirle la mente, per toglierle ogni dubbio.
E dopo, dopo sarebbe tornata dalla sua nave, e più nulla – solo la morte – l’avrebbe separata dalle sue travi e dalle sue vele.
Controllò per l’ennesima volta il proprio armamento. Quattro pugnali da lancio dietro la schiena, altri sei coltelli negli stivali – tre per gamba –, una lama uncinata nella manica sinistra e l’immancabile sciabola al fianco.
Sì, c’era tutto.
Deglutì, strinse con tutta la propria forza la maniglia della porticina della propria cabina, poi l’aprì e si affacciò fuori.
Si guardò intorno con aria furtiva, per capire se era stata vista da qualcuno.
Ecco, quello che aveva temuto: un’ombra appoggiata al muro.
Sobbalzò, osservando il profilo dell’uomo sinistramente nascosto dalla penombra della notte, ma si rilassò nel riconoscere il naso dritto e la bocca dalle labbra sottili del mago di bordo.
«Kian!»
La sua voce era un lieve sussurro nella notte, un soffio quasi impercettibile.
«Che cosa ci fai qui? Dovresti essere nella tua cabina, non erano questi i piani!»
Nessuna risposta.
Si avvicinò lentamente alla sua figura, in modo da poterlo osservare meglio.
E quando lo vide in volto, sbiancò, portandosi le mani alla bocca.
Quello che aveva davanti era solo il cadavere del ragazzo, un cadavere per il quale nessuno aveva avuto il minimo rispetto.
All’altezza della gola si apriva un raccapricciante taglio orizzontale, che doveva aver versato molto sangue, ma che ora rimaneva orribilmente asciutto. La testa era reclinata di lato in una posa innaturale, come se avesse spezzato l’osso del collo, ed era costretto in quella penosa posizione eretta da un sistema di funi e coltelli conficcati in molti punti. Persino le mani, quelle mani ancora da bambino, erano state trapassate da due grossi spuntoni di ferro e bloccate così allo scafo della nave.
Gli occhi nocciola erano aperti, orrendamente vacui.
Anette aveva perso la voce.
Non riusciva a staccare lo sguardo da quello spettacolo raccapricciante, non voleva staccare lo sguardo, perché un’insopportabile vocina nella sua testa le stava urlando disperata che quella morte tremenda era dovuta solo a lei, e al suo egoismo.
Allungò una mano dalle dita tremanti verso il suo volto, per poter almeno chiudergli le palpebre ed evitare di incontrare il suo sguardo perso nel vuoto, ma non riuscì mai a compiere quel gesto.
Un uomo l’aveva afferrata alle spalle, e si ritrovò a rotolare con lui lungo il ponte della nave.
L’adrenalina la svegliò dallo shock della vista del cadavere del ragazzino, ma ogni suo sforzo di liberarsi fu vano: l’aggressore era parecchio più forte di lei, e la sua presa era eccellente. Doveva essere un vero esperto di lotte corpo a corpo.
Con la coda dell’occhio, lei fece in tempo a scorgere altre tre figure di uomini imponenti dirigersi verso di lei, e fu allora che capì di essere in serio pericolo.
«Sorpresa, capitano
L’alito del pirata era un soffio di puro alcool, che invase in pieno con il suo fetore il volto della donna tenuta ferma sotto di lui. Aveva pronunciato il grado come se fosse una battuta molto divertente, e lei non poté che serrare i denti.
La rabbia le stava montando in corpo come un incendio affamato ed indomabile.
Prima la morte di un ragazzino innocente, e poi questo.
Aveva riconosciuto la voce del suo aggressore: Jeremy Webb, uno a posto, uno che aveva sempre combattuto bene, che mai si era esposto, mai le aveva dato da pensare.
Una sola parola le trillava nella testa.
«Perché?» domandò tra i denti.
Quell’alito disgustoso ondeggiò in una risata roca, che per poco non la fece svenire.
«Perché questa nave è mia, bellezza. È sempre stata mia. Mi è stata promessa, ed ora ho finalmente intenzione di prendermela. E non sarà una puttanella che gioca a fare la guerriera a fermarmi.»
Anette sorvolò sull’insulto, prendersela per una cosa simile in una situazione del genere sarebbe stato davvero stupido. Erano state le altre sue parole a preoccuparla. Che cosa significava che gli era stata promessa la nave? Chi gli avrebbe mai potuto fare una tale promessa?
«Vuoi impadronirti della nave e liberarti di me. D’accordo. Ma Kian? Kian cosa c’entrava?»
Un momento di bruciante attesa, un momento in cui lei temette di vederlo cambiare idea, e piantarle una lama nella schiena, senza spiegarle nient’altro. Non avrebbe mai sopportato di morire così, nell’ignoranza, come uno stupido burattino.
Per fortuna quella sera Webb aveva un’evidente voglia di sprecar fiato.
«Dovresti saperlo. Burattinaggio e illusionismo sono pratiche proibite.»
Le si gelò il sangue nelle vene.
L’Imperatore.
Era stata così sciocca a pensare di potergli sfuggire vivendo in mare… l’Imperatore era ovunque, si era persino infiltrato nel suo equipaggio.
Un cieco terrore le attanagliò le viscere, paralizzandola pateticamente sul pavimento di legno.
Lei non poteva combatterlo: l’Imperatore era invincibile.
«La Dark Passion era l’unica nave pirata a non essere ancora sotto il controllo del Divino. Ironia della sorte, era anche la più forte; questa cosa lo infastidiva parecchio.»
Il Divino. Uno dei tanti appellativi che si era auto conferito. Rabbrividì.
«E Willson?»
Aveva improvvisamente perso la voce, era diventata debole e roca, come debole e roco era il suo coraggio di fronte alla terribile figura del Divino.
Quella domanda provocò un’altra breve risata, ovvero un’altra ventata di alcool dritta in faccia.
«Willson! Hah! Lui era solo un gran pezzo di idiota, anche se la sua stupida ribellione ci è stata molto utile. Credevi che, eliminato lui, non ci sarebbero più stati problemi, vero?»
Lei si rifiutò di rispondere, anche perché era una domanda drammaticamente retorica. Era stata giocata, ma quel che era peggio era il modo in cui si era lasciata giocare. Come una stupida, come una dilettante.
Ma non sarebbe morta in questo modo.
Sarebbe morta combattendo.

«Oh, insomma, a quest’ora avrebbe dovuto essere già arrivata!»
Tuomas camminava avanti e indietro, inquieto. Il suo tono di voce, per quanto basso, tradiva il nervosismo che gli stava rodendo dentro e che lui non riusciva a tenere a bada.
Non era un piano facile, l’aveva sempre saputo. Ci sarebbero stati milioni di difficoltà, miliardi, e non c’era bisogno che Anette decidesse di complicare ulteriormente le cose con uno stupido ritardo.
«Scommetto che tra meno di cinque secondi una decina di pirati sarà qui.» decretò Marko, appoggiandosi tranquillamente con la schiena ad una delle casse ed incrociando le braccia.
Nessuno lo ascoltò, ma a lui più di tanto non importava.
«Anette non è mai in ritardo.» ribatté Jukka, nervoso almeno quanto l’illusionista.
Il suo sguardo continuava ad andare dalla scialuppa sotto di loro allo spiazzo di ponte vicino alla cabina del capitano, nel vano tentativo di scorgere qualcosa nel buio totale della notte.
«Quattro…»
Tuomas si fermò di bottò nella sua camminata isterica, per scoccare al batterista uno sguardo di fuoco.
«Ma davvero? Beh, si dà il caso che stavolta lo sia!»
«…tre…»
Il tastierista tornò a muovere i suoi passettini scattosi in cerchio, scuotendo la testa ed agitando le mani,
«Impossibile! Mi sembra di essere come quella volta… a quel concerto da incubo… dov’era, Emppu?»
Si girò verso il chitarrista, seduto con aria sconfortata sul bordo della nave, sembrava il più calmo di tutti insieme a Lisanna, che non aveva detto una parola ma che continuava a fissare angosciata il buio attorno a loro, e a Marko che non desisteva nel suo solitario conteggio.
«…due…»
«Quella volta non era in ritardo, era il furgone che aveva avuto un guasto.»
Malgrado la situazione, Emppu si stampò in volto un ghigno divertito e lanciò a Tuomas un’occhiata di striscio.
«Mi ricordo, eri isterico più o meno come adesso, perché su quel furgone viaggiava la tua tastiera.»
Ridacchiò, ripescando la scena nella propria memoria.
«Sembravi una primadonna capricciosa.» aggiunse, sghignazzando.
«…uno…»
Tuomas frenò il divertimento dell’amico con un’occhiataccia.
«Beh, ti informo del fatto che adesso non c’è solo una tastiera in ballo, c’è la vita
Il tono acido dell’illusionista non piacque molto ad Emppu, a cui scomparve in fretta il sorriso sul volto.
«Oh, andiamo! Davvero pensi che staremo molto meglio in qualche palude putrescente piuttosto che su questa nave?»
«Può darsi che nelle paludi putrescenti riusciremo ad andare da qualche parte, mentre rimanendo qui non faremmo altro che vagare per il mare come cinque idioti! E poi, scusa, cos’hai contro le paludi putrescenti?»
A quel punto, anche Julius sbottò.
«E voi due, vi rendete conto del fatto che state litigando per delle cretinate mentre Anette ancora non si fa vedere?!»
Calò il silenzio.
Tuomas ed Emppu si guardarono l’un l’altro, sentendosi più che mai colpevoli. Jukka aveva ragione: An ancora non arrivava, ed era seriamente il caso di preoccuparsi.
Marko, incurante del resto, si sporse da dove si era appoggiato per guardarsi insistentemente intorno.
«Ma come, non sono arrivati?»
Questa volta, il suo borbottio fu sentito perfettamente da tutti, che involontariamente si voltarono verso di lui, che ricambiò con uno sguardo rilassato.
Il batterista stava per avere qualche parola buona anche per lui, ma non fece in tempo ad aprire bocca che vide lo scintillio delle lame brillare tutto intorno a loro, e sbiancò.
«Voi quattro non andrete da nessuna parte.» esordì una potente voce maschile. Il tono era lo stesso di un felino che ha già notato una facile preda.
«Ah, ecco, mi sembrava.» aggiunse tranquillamente Marco, mentre sguainava con calma la propria ascia come se non avesse mai fatto altro in vita propria.
In effetti, forse lui davvero non aveva mai fatto altro in vita propria.
«Tuomas, dai la tua spada ad Erno. Tu te la caverai sfoderando quelle tue diavolerie magiche – spero –.»
«Come, “speri”?» domandò allarmato l’illusionista mentre passava la propria arma al compagno, ma Marko non l’ascoltò.
Fece invece per girarsi, e dire qualcosa a Jukka, ma il vicecapitano era scomparso.
Il guerriero si guardò intorno, nel tentativo di scorgerlo nel buio, ma un grido lo distolse immediatamente dalla sua ricerca.
Com’era tipico dei codardi, avevano deciso di prendersela con Lisanna, la più debole, l’unica disarmata.
La calma negli occhi azzurri del bassista di trasformò in una cupa minaccia che prometteva morte.
«Ah, pessima mossa. Davvero pessima. Lei non si tocca.» sussurrò lui mentre si lanciava all’attacco con la pesante lama della scure che brillava mortale nella notte.

Un grido di donna.
Anette alzò gli occhi, ansimando, verso il buio del ponte che si estendeva sotto di lei.
Era riuscita ad uccidere due dei tre uomini che avevano accompagnato Webb, ma lui e quello che rimaneva erano davvero difficili da contrastare, e lei cominciava a perdere le forze.
Era stata appena gettata contro una delle pareti dello scafo, e non era ancora riuscita a rialzarsi.
Una ferita alla gamba destra continuava a sanguinare e a farle perdere l’equilibrio, il braccio colpito il giorno prima dall’uomo di Willson era tornato a crearle problemi – già si aspettava di vedere la benda nuovamente inzuppata di sangue – e le si era appena formato un grosso livido sullo zigomo destro, sotto l’occhio.
Ed ora, quel grido.
Sapeva esattamente che cosa stava a significare: l’equipaggio aveva trovato gli altri, li aveva colti di sorpresa.
Si diede della stupida.
Davvero, quella sua decisione li avrebbe portati tutti alla morte? Prima Kian, poi loro…
No. Non doveva abbandonarsi ai sentimentalismi. Doveva combattere. Doveva morire. Con onore, come un vero capitano avrebbe fatto.
Tentò di mettersi in piedi, ma un forte calcio all’altezza dello stomaco la rispedì da dov’era venuta.
Non riuscì nemmeno a frenare i violenti colpi di tosse che le impedivano convulsamente di respirare, per recuperare quel minimo di dignità di cui aveva bisogno.
I due uomini torreggiarono su di lei; i loro volti sadici e sorridenti si confondevano e si sovrapponevano, e allora lei lo capì.
Era perduta.
Gettò la sciabola, pronta ad affrontare il proprio destino: sapeva riconoscere una sconfitta, e sapeva accettarla.
Non vide molto.
Lo scintillio del metallo alla luce della luna, e dopo si costrinse a chiudere gli occhi.
Udì un lancinante grido di dolore.
Ma non era il proprio.
Anette riaprì gli occhi stupita, e vide un uomo giacere a terra davanti a sé, morto, un lungo spillone di metallo gli trapassava il cranio. Abbassò lo sguardo, e notò una scia di sangue che si allontanava. Webb era fuggito… ma da chi?
La cantante si rialzò, impugnando nuovamente la sciabola.
Una bandana nera emerse dal buio, e un paio di occhi terribilmente preoccupati sotto di essa.
«Dio mio, Anette!» esclamò Jukka, correndo verso di lei.
Il sollievo di vederlo lì, al suo fianco, fu un’emozione talmente forte da travolgerla e stordirla. Ringuainò l’arma, ma non riuscì a sorridergli, come sempre faceva dopo essersi ritrovata in pericolo di morte.
«Cos’è successo?» domandò lui, soffermandosi con lo sguardo sul livido che le si allargava sotto l’occhio e sul sangue che le sporcava gamba e braccio.
Stava per chiederle qualcos’altro, ma ammutolì quando i suoi occhi caddero sul cadavere di Kian poco lontano.
«L’ha presa, Jukka. L’Imperatore. Mi ha preso anche la nave.» gli disse, in sussurro.
Nei suoi occhi si mischiavano dolore e determinazione, cosa che lui non mancò di notare.
«Dobbiamo andarcene. Tutto l’equipaggio è con lui!»
Lei scosse violentemente la testa.
«Vai tu. Io devo rimanere qui.»
«Ma che cosa diavolo stai dicendo?» esclamò Julius.
La afferrò per un braccio, costringendola a guardarlo.
«Vuoi batterti contro l’intero equipaggio, adesso, in queste condizioni, da sola? Sei impazzita? È morte certa!»
Il tono della sua voce rasentava la disperazione, ma a lui non importava.
«Non mi interessa. Questa è la mia nave, l’Imperatore pagherà un alto prezzo per averla, non gliela concederò su un piatto d’argento dandomi alla fuga!»
Per poco il batterista non scoppiò in una risata isterica.
«Ma tu davvero credi che all’Imperatore importi qualcosa di quanti uomini riuscirai a trascinare con te all’inferno?! Dai, Anette, non essere ridicola! Entrambi sappiamo perfettamente che lui della vita umana se ne infischia.»
Lei non rispose nulla, ma non lo guardò. Osservava l’orizzonte, con la stessa grave tranquillità di chi ha deciso del proprio destino.
«An, ascoltami, ti prego. Ti prego. Noi non siamo eroi. Noi siamo solo pirati. Ti prego, vieni via.»
A quelle parole, lei annuì.
«Hai ragione, noi siamo pirati. Ed io sono il capitano.»
Julius abbassò la testa. I suoi pugni erano serrati, tremavano.
«D’accordo. Come vuoi.» mormorò tra i denti.
E quando tornò a guardarla, l’espressione che brillava nei suoi occhi era glaciale e terribile.
«Alza quella sciabola e difenditi, Anette.»

Sul ponte della nave, la battaglia infuriava.
Emppu se la cavava come meglio poteva con in mano la splendida spada di Tuomas – anzi, si era stupito di essere riuscito a respingere e ferire così tanti pirati senza mai essere sfiorato da una sola lama, nonostante la sua assoluta incapacità nell’arte di tirar di spada.
Marko combatteva come un demonio, la sua ascia grondava sangue eppure ne voleva ancora, e ancora, e ancora, e ancora, e lui era felice di assecondarla con un sorrisetto di soddisfazione ed esaltazione stampato in volto. Non si allontanava mai più di un metro e mezzo da Lisanna, che aveva preso da chissà dove una lunga asta di legno dalla punta acuminata e lo aiutava come poteva.
Tuomas… beh, Tuomas aveva appena fatto comparire un enorme calamaro, i quali tentacoli stavano annichilendo la maggior parte dei pirati che si erano accorti dell’accaduto.
«E quello cosa sarebbe?!» gli urlò un Emppu molto spaventato dall’altra parte del ponte.
«E’, ehm, la prima cosa che mi è venuta in mente» fu la sua risposta.
Non sapeva da dove mai potesse essere venuta una trovata simile, ma l’idea cominciava a piacergli. Forse avrebbe dovuto inserirlo in una delle sue canzoni.
Si appuntò l’idea in un angolo della mente, per poi dimenticarsene e cercare di renderlo corporeo.
Si concentrò, ma l’unico effetto fu che l’immagine proiettata dalla sua mente tremolò appena.
Ah, fantastico.
Aveva creato un calamarone inutile, incorporeo e tremolante.
Fece per rinunciare, e magari andare a nascondersi dietro Marko mormorando qualsiasi preghiera di qualunque religione gli venisse in mente, ma non fece in tempo a sfiorare l’idea che un tentacolo si abbatté sulla nave e strinse nelle proprie ventose una manciata di pirati, che urlarono come mai avevano fatto nella propria vita.
Tuomas si girò, con gli occhi talmente sbarrati da far temere che gli potessero schizzare via da un momento all’altro.
Altro che inconsistente, quel coso era consistentissimo. E sembrava pure che si stesse divertendo come un matto.
«Come hai detto che si chiama?» chiese Marko mentre faceva cadere la propria scure sul cranio di un poveretto che passava di lì, rompendoglielo in due.
«Kraken» rispose, osservando il calamaro gigante che afferrava e uccideva manciate di pirati urlanti.
«Comodo» fu il commento del guerriero.
L’illusionista sorrise e si appoggiò ad una cassa, rilassato.
Non l’avesse mai fatto.
Davanti a lui comparve un uomo enorme, sanguinolento e molto molto arrabbiato.
Il suo pugno lo colpì in pieno viso, e fu così forte da fargli compiere una specie di piroetta prima di crollare pesantemente a terra. Quando rialzò lo sguardo, cercando intanto di fermare con una mano il flusso di sangue che gli stava sgorgando da una narice, vide la sua bellissima creazione tremare talmente violentemente da scomparire.
Tuomas si fece prendere dal panico. Ora era del tutto disarmato, e non aveva idea di come fare a richiamare una cosa simile. Si concentrò più che poté sull’immagine della propria spada, magari nella speranza di vedersela spuntare in mano, ma il suo maldestro tentativo fu interrotto da un acuto grido di rabbia che squarciò la notte con il suo impeto.
Si fermarono tutti, allarmati; temevano per l’arrivo di qualche creatura sovrannaturale… non sarebbero stati preparati a fronteggiarla, così impegnati a massacrarsi tra di loro.
Ma dopo qualche attimo spuntò Jukka, mentre trascinava con sé un’Anette decisamente sconvolta, che tentava in ogni modo di prenderlo a pugni. E a quanto sembrava c’era anche riuscita, dati i lividi che il vicecapitano esibiva sul viso e sulle braccia, e il lungo taglio superficiale che gli attraversava il fianco.
«Ma che è successo?» domandò Marko, osservandoli con uno sguardo talmente perplesso da risultare quasi buffo.
«Non è il momento di parlarne, credo. Tagliamo la corda, alla svelta.» fu la risposta di Julius.
Tuomas annuì, serio.
«Seguitemi.» disse, e gli altri non ci pensarono su due volte ad ubbidirgli.
Tutti e sei corsero così verso la balaustra, la scavalcarono con agilità e si tuffarono negli abissi del mare notturno.
Tutti i pirati rimasti accorsero a guardare cosa ne era stato di loro, ma invano.
Mai più nulla venne a galla.

Marko aveva preso per sé i remi della scialuppa ed ora li manovrava con tutta la forza che aveva, tentando di allontanarsi il più in fretta possibile dalla enorme e terribile nave pirata, che però rimaneva stranamente immobile, placida, come se non avesse appena perso sei dei loro prigionieri più importanti.
Il merito di tutto questo disinteressamento era dovuto solo a Tuomas: era stato lui a schermare la loro fuga, a creare l’illusione del loro tuffo, della loro morte, mentre invece loro stavano scappando su una scialuppa, dalla parte opposta della nave.
Quando furono abbastanza distanti da sentirsi al sicuro, Marko si concesse un attimo di riposo e rallentò il ritmo.
Calata l’adrenalina, ora potevano guardarsi in faccia, riconoscersi l’un l’altro, sorridersi. Quella partenza avrebbe dovuto essere molto meno movimentata, lo sapevano, ma il risultato era lo stesso. Loro, da soli, su una scialuppa, verso l’ignoto.
La più sconvolta era Anette, rannicchiata in un angolo, tremante, aveva rifiutato l’aiuto e lo sguardo di tutti.
Jukka la osservava con sguardo grave, come se si sentisse responsabile del suo stato d’animo; nessuno aveva più capito cosa fosse accaduto tra loro quando li avevano persi di vista, ma ebbero il buon gusto di non fare alcuna domanda.
Almeno, finché la cantante non alzò uno sguardo pieno d’odio sul batterista, e non tentò di scagliarsi su di lui e prenderlo a pugni.
Per fortuna, ci fu Tuomas ad afferrarla e trattenerla prima che lei gettasse l’ex vicecapitano fuori bordo, ma lei si divincolava con una veemenza che lo sorprese.
«Tu!» urlava. «Come hai potuto! Come hai potuto!»
«Ti ho salvato la vita.» fu la risposta di lui.
Neanche Tuomas fu più in grado di tenerla, così che lei poté raggiungere Jukka e afferrarlo per il bavero. Lui non oppose resistenza mentre lei lo tempestava di pugni, sempre più deboli, mentre le lacrime nei suoi occhi si accumulavano come muri d’acqua che rendevano liquido e distorto il mondo che la circondava.
«Non è vero! Non è vero! Quella nave era la mia vita!»
E quando lei si afflosciò su di lui, scossa dai singhiozzi, arrivò il tastierista a portarla via e prenderla tra le braccia, dove lei si rifugiò. Si aggrappò al suo petto con tutte le sue forze, piangendo una disperazione che non poteva avere nome.
«Quella nave era la mia vita… era tutta la mia vita…» continuava a ripetere tra le lacrime, senza pace. «Io ero… ero il capitano… era mio dovere morire con lei…»
E allora, tutti capirono.
Jukka si raddrizzò, pulendosi la guancia da un rivoletto di sangue, e guardò a terra con aria colpevole, ma trovò la mano di Emppu a stringergli la spalla. Si guardarono negli occhi per un attimo. Emppu sorrideva, incoraggiante. Hai fatto la cosa giusta, gli diceva lo sguardo sincero degli occhi azzurri, e Julius lo apprezzò, ricambiò il sorriso.
«Anette, ascoltami.» aveva sussurrato Tuomas all’orecchio della cantante, che tremava e si scuoteva come un albero al vento, rannicchiata contro di lui. «Io so quanto vali. Noi tutti sappiamo quanto vali, e tu non hai bisogno di nessuno, di niente, per dimostrare il tuo valore. Tu sei incantevole, bravissima, e molto più forte di chiunque tra noi. È per questo che ti abbiamo scelta.»
Nel sentire i suoi sussurri, lei si calmò. Alzò la testa verso di lui, e lo guardò smarrita con i suoi grandi occhi chiari, ora arrossati dal pianto.
«Tu mi hai già detto queste parole» mormorò tra sé.
Lui le sorrise, accarezzandole i capelli.
«Sì. Quando piangevi, perché non credevi di poter reggere il confronto con Tarja.»
Lei continuò a osservarlo senza capire.
«Davvero non ricordi?»
La cantante scosse stancamente la testa.
Un lampo di delusione attraversò lo sguardo grigio del tastierista, ma fu solo un lampo, e fu talmente veloce da non essere notato da nessuno.
«Non fa nulla. Oh, vieni qui, riposati. Domani saremo a terra.»
Rimasero così, abbracciati, su quella scialuppa che navigava piano verso qualcosa di inaspettato e spaventoso.
Si resero conto, guardandosi, di essere il gruppo di persone più eterogeneo che avesse mai avuto il coraggio di riunirsi e viaggiare.
Si resero conto, guardandosi, di essere il gruppo di persone più unito che avesse mai abitato il mondo – qualunque mondo, e qualunque dimensione –.
Si resero conto, guardandosi, di provare un affetto così profondo l’uno per l’altro da essere impossibile da spiegare a parole. Pur senza essersi mai conosciuti.








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Capitolo 10
*** La Perfezione ***


Palazzo Imperiale

La perfezione
.
Che cos’era la perfezione? Qual era la sua definizione?
La perfezione.
Poteva davvero esistere qualcosa di perfetto?
L’Imperatore non conosceva le risposte a queste domande, ma se mai fosse esistito un canone per decidere la perfezione, il suo impero e il suo potere sarebbero stati senza dubbio definiti tali.
Non poteva nascere nulla di più bello, nulla di più squisitamente solido.
Il suo Impero non sarebbe crollato mai, no, lui ne era convinto. Era una sicurezza incontestabile. E lui sarebbe stato il Divino per sempre.
Per sempre.
Due semplici parole, ma che cosa esprimevano in realtà?
Potevano avere un significato reale in un mondo in cui tutto era corruttibile?

Altrove

Erano appena spuntati i primi raggi del sole mattutino, e già il fondo della scialuppa riusciva a toccare il torbido fondale della costa che durante quelle lunghe, lunghissime ore aveva rappresentato al contempo la salvezza e l’ignoto.
Ora, però, sui loro volti non c’era spazio per la paura, o l’esitazione, soffocate dall’immensa felicità di veder terminato quel loro viaggio massacrante, che era durato tutta la notte.
Marko si afflosciò sfinito sul terreno, benedicendo la terraferma con dei muti movimenti delle labbra mentre ansimava.
Lui aveva passato la maggior parte della nottata a remare, non aveva permesso a nessun altro di prendere il suo posto, se non quando era arrivato Jukka a trascinarlo via di peso e aveva continuato per lui.
Persino Anette, ad un certo punto, aveva voluto tentare, aveva remato con una maestria e un’energia che aveva sorpreso tutti – tutti, tranne Julius –, ma fu costretta ad interrompersi a causa della ferita alla spalla che, anche dopo le cure di fortuna che aveva realizzato il batterista con le poche medicazioni che erano riusciti a portarsi via, si era riaperta e continuava a sanguinare.
A quel punto, Tuomas ed Emppu avevano insistito per rendersi utili. Entrambi avevano remato per una buona mezz’ora, ma poi avevano dovuto lasciare il comando della scialuppa a chi più esperto di loro. Si erano sorpresi nel constatare quanto poteva essere difficile e faticoso il semplice atto del governare una piccola barca a remi, e ancor di più nell’osservare Jukka e Marko farlo con così tanta scioltezza e tranquillità.
Eppure, nonostante tutti i vari cambi che erano stati fatti per concedere ai rematori un attimo di riposo, nessuno era riuscito ad addormentarsi e così, verso le tre di notte, Emppu aveva deciso di imbracciare la chitarra – miracolosamente rimasta illesa anche dopo il combattimento sul ponte – e suonare qualcosa. Con sua grande irritazione però era stato subito bloccato da Anette, che gli aveva spiegato che la musica avrebbe potuto attirare qualche sirena.
Così, il viaggio era proseguito, tranquillo, e mortalmente silenzioso.
E quando giunse l’alba, finalmente eccola, la terraferma.
Jukka si inginocchiò di fianco alla figura sdraiata del vichingo, toccò più volte il terreno, come se non lo vedesse da anni – e forse era proprio così. Nessuno riusciva a capire, dalla sua espressione, se fosse felice di tornare a terra dopo tanti anni o se la cosa gli facesse orrore.
Lui si voltò verso Anette, l’unica persona che poteva appieno comprendere il suo stato d’animo, e infatti lei ricambiò con un’occhiata indecifrabile e stordita quanto la sua.
La terraferma l’aveva sempre terrorizzata, ma fu costretta ad ammettere che, colpite dai raggi dorati del giovane sole, anche le fronde verdi degli alberi che li avevano accolti allo sbarco sembravano belle ed innocenti, non sadiche e crudeli come si presentavano di solito di notte.
Eppure, la piratessa non si lasciò incantare nemmeno per un attimo dalla loro bellezza, dall’apparente tranquillità dei canti degli uccelli che sentivano in lontananza. Sapeva che i tranelli si nascondevano apposta nei luoghi più invitanti.
Lisanna aveva appena messo piede fuori dalla barchetta, le lunghe gonne arrotolate nelle sue mani per non inciampare, e quando finalmente fu scesa si lasciò andare ad sospiro di sollievo crollando a sedere.
Marko voltò la testa verso di lei, e le sorrise, anche se ancora non se la sentiva di alzarsi dalla sua posizione supina, così comoda.
«Come stai?» le chiese.
Lei rise.
«Sono distrutta. Ma almeno siamo sbarcati»
Lui annuì, ricambiando il sorriso, ma non ebbe la forza di replicare nulla. Chiuse gli occhi, lasciando che i raggi del sole lo colpissero, lo scaldassero, lo cullassero, gli donassero nuove energie. Era solo l’inizio del loro viaggio, non poteva sentirsi così stanco proprio in quel momento.
Per ultimo era sceso Tuomas, ed ora aiutava Emppu a portare la barca a riva e nasconderla tra la vegetazione. Se mai ai pirati – o a qualsiasi altra persona – fosse venuto in mente di perlustrare le coste, non avrebbero dovuto trovarla molto facilmente. Armeggiarono con cespugli e sottobosco per qualche minuto, e quando si ritennero soddisfatti del loro lavoro decisero di tornare dagli altri.
Si sedettero per terra in mezzo a loro, ad osservare l’angolo di mare ed orizzonte che ancora si intravedeva attraverso gli alberi, senza dire una sola parola.
Solo dopo diversi attimi, Tuomas osò interrompere il silenzio.
«Ci serve un piano.» disse, quasi a sé stesso.
Jukka si lasciò andare ad una risata sommessa, priva di divertimento.
«Oh, sì, un piano! L’ultimo ha funzionato così bene…»
Il suo tono trasudava ironia.
Il tastierista non poté che farsi sfuggire una mezza risata insieme a lui, in effetti, il loro primo tentativo di pianificare il futuro si era disfatto in maniera quasi comica.
«Penso che capire dove siamo sarebbe un buon inizio» intervenne Marko, riluttante ad alzarsi seduto ma costretto a farlo. Quella aveva tutta l’aria di essere diventata una vera e propria riunione di guerra, ed affrontarla da sdraiati non era professionale.
«Mh, beh, se durante la notte la rotta della Dark Passion non è stata mutata, dovremmo trovarci sulle coste della Regione Centrale, non molto lontani dalla capitale.» aggiunse Anette.
Tutti si voltarono a guardarla, nella speranza che potesse dire di più, nella speranza che potesse far loro da guida, nella speranza che potesse essere il loro capitano anche lontani dalle vele della Dark Passion… ma lei alzò le mani, come a dichiararsi “innocente”.
« È inutile che mi guardate così, io posso conoscere solo la rotta che stavamo mantenendo. Non ho mai visto questi boschi, come non li avete mai visti voi: vi ricordo che fino a ieri io vivevo in mare, ed ero felice di farlo.»
Tuomas annuì.
«Beh, almeno abbiamo qualche riferimento. Ovviamente, io non ho idea di come sia fatta la Regione Centrale, né di cosa sia la capitale – mi auguro che sia una città –, ma a voi dirà sicuramente qualcosa.»
Passò, speranzoso, gli occhi su ognuno di loro.
«Io ho compiuto qualche studio… conosco la geografia. C’è solo un bosco, vicino alla capitale, uno solo che si affaccia sul mare. È possibile che ci troviamo lì.»
Era stata Lisanna a parlare, le sue dita erano portate pensosamente alla bocca.
«E’ molto esteso, questo bosco?» domando Jukka.
Lei annuì.
«Sì, non so quanto di preciso, ma dovrebbe inghiottire praticamente tutta la costa della Regione Centrale fino al confine con le Contee.»
Il pirata si lasciò andare ad una smorfia di disappunto.
«Odio i boschi.» fu il suo unico commento.
«Comunque, questo non risolve molto la situazione. Non sappiamo dove andare.» aggiunse Tuomas.
«Abbiamo il suggerimento del gufo» intervenne Emppu.
« “Io sono ciò che è morto e ciò che vive ancora”. Gran bel suggerimento…» ribatté Marko.
Lui ancora non era riuscito a digerire quella storia del messaggio del gufo: che senso poteva avere un suggerimento, se poi nessuna delle persone alle quali era destinato era in grado di decifrarlo?
«In realtà, a me è venuta in mente una soluzione.»
Ancora una volta, Lisanna si guadagnò la meravigliata attenzione di tutti.
«Potrebbe trattarsi di un ricordo.»

Palazzo Imperiale

La sala del trono era enorme e terribilmente sontuosa. Statue, oro, pietre preziose, i colori accesi del mosaico sul pavimento, tutti capricci dell’Imperatore, che ora riuscivano solo a stancarlo e fargli sorgere le prime avvisaglie di un’emicrania.
I raggi del sole pomeridiano penetravano dorati attraverso le grandi vetrate che davano sui giardini, fioriti e rigogliosi, ed era lì che lo sguardo del Sovrano era posato, assorto.
Avrebbe voluto essere un’ape. Volare di fiore in fiore, conoscendo solo la bellezza delle corolle e il profumo dolce del polline…
L’immagine che si era costruito in testa si incrinò e cadde infine in mille pezzi.
No, lui non avrebbe mai voluto essere un’ape.
Lui avrebbe voluto essere la regina.
«Mio Signore?»
La voce, flebile, veniva dall’altro capo della stanza, dove una testa spuntava dalla fessura aperta nei massicci portoni dorati e decorati con sculture e intarsi di leggende soprannaturali, che in altezza giungevano fino al soffitto affrescato.
L’Imperatore fu costretto a distogliere lo sguardo dai giardini bagnati dal sole, cosa che lo infastidì non poco.
«Vieni avanti. E bada bene, portami notizie che possano compiacermi, altrimenti troverò un altro modo per rallegrarmi, oggi, e un’impiccagione è esattamente quello che mi ci vorrebbe.»
Il vassallo deglutì, ma cercò comunque di stamparsi in volto un’espressione impassibile e professionale mentre avanzava verso il trono.
Non osò mai alzare lo sguardo sul volto del Divino, e si prostrò fino a toccare il pavimento con la fronte quando giunse ai piedi dell’enorme seggio dorato.
«O Glorioso Imperatore, la mia vita è servirVi e morire con onore per Voi.» recitò, per poi raddrizzarsi timidamente dall’inchino.
Il Sovrano sorrise, compiaciuto. Sì, quella di istituire un saluto ufficiale era stata proprio una bella idea.
«Parla.»
Il vassallo prese un respiro profondo.
«Ci sono notizie dal mare. La nave pirata nota con il nome di Dark Passion è appena passata dalla Vostra parte. Il nuovo capitano Jeremy Webb, Vostro fedele servitore, ha portato felicemente a termine l’operazione di conquista del veliero questa notte stessa.»
L’Imperatore scoppiò in una fragorosa risata, in maniera così repentina da spaventare l’araldo, che sobbalzò.
La risata, però, fu veloce ad andarsene come lo era stata ad arrivare, e lo sguardo del Sovrano tornò ad essere del tutto serio.
«Che fine ha fatto l’altro capitano? Mi avevano detto che era una donna.»
«E’ morto, mio Altissimo Sovrano.»
Di nuovo quella risata isterica ed inaspettata.
«Ma è una notizia meravigliosa! Meravigliosa! Bisogna festeggiare. Organizzerò un banchetto»
Congedò il messaggero con un gesto della mano, pregustandosi già la fastosità della festa che avrebbe preparato, ma con suo grande disappunto il servitore non si mosse di un passo.
«Puoi andare, ora.» aggiunse, sforzandosi di essere gentile.
«E’ che… mi è stata riferita un’altra notizia… o Divino.»
Una smorfia infastidita si disegnò sul viso del Sovrano.
Una volta i vassalli erano molto meno sfacciati, sì… forse qualche impiccagione di massa avrebbe schiarito loro le idee.
Prese seriamente in considerazione l’idea, mentre intanto annuiva sorridente.
«E allora dimmela, ometto irritante.»
L’araldo cercò di inghiottire il terrore prima di rispondere. Era considerata una vera disgrazia la prospettiva di risultare irritanti all’Imperatore.
«A quanto pare, sulla nave viaggiava anche un mago.»
Si aspettò un qualche scatto d’ira, un urlo, un insulto, uno dei soliti sintomi del pessimo autocontrollo del Re, ma non arrivò nulla di tutto ciò.
Il Sovrano rideva – ancora –. Eppure, era una risata diversa dalle altre, non divertita ma sprezzante, canzonatoria.
«Su tutte le navi viaggia un mago, stupido!»
Ah, ecco perché l’Imperatore ancora non si era arrabbiato. Credeva si stesse riferendo al mago di bordo… il messaggero sospirò, sconsolato. Cominciava a pensare che non sarebbe mai riuscito a tornare a casa con la testa ben attaccata al collo.
«No, ecco, il rapporto del capitano Webb non parlava del mago di bordo. Parlava di un altro uomo, che il giorno prima avevano catturato dopo un arrembaggio in mare.»
Nello sguardo dell’Imperatore si accese una scintilla di interesse.
«Dunque, hanno incontrato un mago? Un mago vero? …Credevo non esistessero più.»
«I…infatti, Mio Signore. È quello che… ci siamo detti tutti. Non è possibile. Però… dicono così. Dicono che abbia evocato una terribile creatura dal fondo degli abissi.»
L’interesse nello sguardo del Divino ora era un vero proprio fuoco, che ardeva scoppiettante.
«Un evocatore? Webb mi ha pescato un evocatore
Il vassallo scosse la testa, tentando di non rendere evidente il suo tremare.
Ogni secondo passato al cospetto dell’Imperatore era un secondo che poteva potenzialmente mettere a rischio la sua vita, e a lui faceva paura l’improvviso interessamento che il Re sembrava avere per quelle sue nuove notizie.
«Mi hanno detto che il mostro è scomparso non appena il mago è stato colpito.»
Il Sovrano annuì, strofinandosi il mento con aria pensosa.
«Ma certo, certo, un illusionista… E, dimmi, che fine ha fatto questo tizio? Si trova ancora sulla nave?» gli chiese, speranzoso, strofinandosi le mani.
L’araldo si sentì morire mentre rovinava inevitabilmente i piani del suo Imperatore.
«Non… non esattamente. C’è scritto che è morto insieme al capitano. Sembra che si siano buttati insieme in mare, e che non siano più riemersi.»
Il Divino ridusse gli occhi a due sottili fessure.
«Mio ingenuo servitore, noi stiamo parlando di un illusionista. Hai mai incontrato un illusionista?»
Quella domanda spiazzò il messaggero, che scosse la testa.
«Solo Voi, Mio Signore.»
L’Imperatore si sporse pericolosamente verso di lui e lo costrinse a guardarlo negli occhi.
Erano occhi neri, neri e profondi come due oscuri pozzi che si affacciavano sul nulla.
«Bene, allora devi sapere una cosa, sciocco ometto.» gli sussurrò, prima di scomparire.
Il messaggero spalancò gli occhi, si guardò intorno allarmato, ma non trovò nulla di anomalo nella sala del trono, solo quel sontuoso seggio stranamente vuoto.
Un attimo dopo, gli enormi portoni dietro di lui si spalancarono.
L’Imperatore entrò da lì, camminando tranquillamente, con un sorrisetto compiaciuto in viso. I lunghi capelli castani erano raccolti in una coda estremamente tirata, un pizzetto signorile e ben curato gli avvolgeva il mento e i soliti abiti regali con tanto di mantello rosso gli fasciavano le spalle larghe e il corpo muscoloso e scattante.
Non fosse stato così terribilmente inquietante – e del tutto pazzo –, sarebbe anche risultato attraente agli occhi delle donne.
«Non si può mai sapere quale sia la realtà, e quale l’illusione, davanti ad un illusionista. Ora dimmi, messaggero: chi era il vero Me, quello che ti ha ricevuto o quello che ti sta davanti in questo preciso momento?» gli chiese il Divino, tornando a sedersi sul suo scranno.
Il vassallo dovette ammettere di non conoscere la risposta, e abbassò la testa.
«Potrei mostrarti mille altri esempi molto più convincenti, ma oggi non ho voglia di impegnarmi. Dunque. Tornando al nostro misterioso mago marittimo, sono pronto a scommettere qualsiasi cosa sul fatto che sia ancora vivo. Ma questo è un problema che devo risolvere da solo. Tu vattene, mi hai già stancato abbastanza.»
L’araldo non se lo fece ripetere due volte, si affrettò ad inchinarsi e a mormorare le parole del saluto di congedo, prima di voltarsi e giungere, quasi di corsa, fino all’uscita.
Quando finalmente fu lasciato solo, l’Imperatore si alzò dal trono. Passeggiò pensosamente avanti e indietro davanti alla grande parete delle vetrate, a volte lanciando uno sguardo ai fiori rigogliosi che ornavano i suoi bellissimi giardini, ma chiaramente la sua attenzione era altrove.
All’improvviso, la sua camminata lenta si tramutò in una corsa.
Il Sovrano corse in fondo alla sala, afferrò un lungo cordone di fili rossi e dorati intrecciati tra loro e lo tirò con forza.
Le grandi e pesanti tende di velluto rosso ricaddero rumorosamente a coprire le finestre; la stanza piombò all’istante nel buio più totale.
E così, dall’oscurità, emerse una risata scomposta ed animalesca.
«Un illusionista… un illusionista! Devo conoscerlo… devo prenderlo… sì, dev’essere mio.»
Mormorò tra sé l’Imperatore.
Una fiamma azzurra si accese al centro della sala del trono. La sua luce tremolante gettava delle ombre spettrali sulle pareti e sugli oggetti: i volti delle bellissime statue bianche sembravano ora ghigni gutturali, le incisioni sui portoni dorati erano trasformate in angoscianti rappresentazioni di gironi infernali e i lineamenti dell’Imperatore parevano quelli di un folle satiro.
«Ma dove sei? Dove ti nascondi?»
Un’alta fiammata, che illuminò tutto lo spazio intorno a sé a giorno come un lampo, poi il fuoco si aprì in due e mostrò un’immagine agli occhi bramosi del Sovrano.
«Oh, oh-ho, una foresta!» esclamò lui, nel riconoscere lo scorcio, battendo le mani come un bambino eccitato.
Si avvicinò allo Squarcio nello Spazio, osservando curioso tutti i presenti.
Erano due donne e quattro uomini.
Le donne non avrebbero potuto essere più diverse. Una vestita con i lunghi abiti che più si addicevano alle fanciulle, l’altra con le gambe fasciate da un paio di pantaloni maschili ed aderenti, e che portava al fianco un’inquietante sciabola ricurva.
Certo, quella doveva essere il vecchio capitano della Dark Passion. Altro che morta.
Avrebbe presto fatto impiccare quel messaggero inetto, per il suo grosso errore. Se fosse stato un re come tutti gli altri, non si sarebbe mai accorto di essere stato ingannato… e lui odiava, odiava con tutto se stesso essere ingannato.
Gli uomini erano i più strani ch’egli avesse mai visto. Uno era chiaramente un pirata, con quella sua bandana nera e i pugnali ai fianchi; quello seduto vicino a lui era un barbaro vichingo dai lunghi capelli biondi, con uno sguardo non troppo rassicurante e il manico di un’ascia che gli spuntava da dietro la schiena. Ce n’era anche un altro biondo, ma era molto più basso di lui, aveva la classica faccia da “gran simpaticone” e al posto delle armi si portava appresso una chitarra inutile ed ingombrante.
Ma quello che più lo interessava era l’ultimo: il suo abito nero, la sua massa di lunghi capelli scuri e scarmigliati, lo sguardo indecifrabile negli occhi grigio-azzurri, la lunga tuba che portava sul capo. Non c’erano dubbi, era lui il mago.
Dunque eccolo.
Ora che l’aveva visto, ardeva ancora di più dalla voglia di conoscerlo.
Sì. Doveva prenderlo.
Abbiamo il suggerimento del gufo
Stava dicendo uno.
“Io sono ciò che è morto e ciò che vive ancora”. Gran bel suggerimento…
Aveva risposto il vichingo dallo sguardo minaccioso.
In realtà, a me è venuta in mente una soluzione.
Per la prima volta, l’altra donna che li accompagnava attirò seriamente l’attenzione del Sovrano.
Era graziosa, con quei grandi occhi verdi da bambina e i lunghi capelli castani che le accarezzavano femminili il viso dai lineamenti dritti e regolari.
Potrebbe trattarsi di un ricordo.
L’Imperatore sorrise. Era una donna intelligente. Era una fortuna che fosse una fuorilegge ed una nemica del regno; vederla bruciare sul rogo sarebbe stato uno spettacolo deliziosamente interessante.
Comunque fosse, erano chiaramente un gruppo male assortito e organizzato in maniera a dir poco disastrosa. Ucciderli non sarebbe stato affatto divertente, sarebbe stato… facile. Purtroppo.
L’Imperatore sospirò, e con un gesto del braccio disperse la visione del bosco, che tornò ad essere una fiamma ardente d’azzurro.
Si sarebbe aspettato di più dall’ultimo mago rimasto in circolazione.

Bosco sconosciuto nei pressi della capitale, molte ore dopo

Marko e Jukka, che si giudicavano due esperti nel campo delle creature sovrannaturali, avevano circondato il loro modesto accampamento con tanti piccoli falò scoppiettanti. Erano piuttosto orgogliosi del loro lavoro, e avevano assicurato che in quel modo nessuna creatura avrebbe avuto il coraggio di avvicinarsi; gli altri compagni di viaggio non erano sicuri al cento per cento dell’efficacia della loro trovata, ma almeno tutti quei fuochi garantivano una protezione contro il freddo pungente che era giunto con le tenebre a torturarli.
«Stabiliremo comunque dei turni di guardia: i fuochi devono rimanere sempre accesi, per tutta la notte.» disse Jukka, sistemando per bene gli ultimi rametti.
«Oh accidenti… io non riesco a dormire con le tapparelle alzate.» fu il commento di Emppu, che osservava tutta quella luce con aria sconsolata.
Nessuno gli diede ascolto, anche se Marko avrebbe tanto voluto sapere che cosa fossero le “tapparelle”.
«Eh sì, i turni di guardia saranno indispensabili, soprattutto perché vedremo piombarci addosso tutti i pirati, i soldati e i morti di fame che girano nei dintorni, con tutta questa luce. Dire che siamo visibili è un eufemismo… e meno male che la nostra dovrebbe essere una fuga.»
Le parole di Anette trasudavano di un’ironia tagliente velata di disappunto. Lei odiava la terraferma; per mare non avrebbero dovuto nascondersi da nessuno. Tranne, forse, che dal proprio equipaggio.
«Ma chi gira nei dintorni, qui, a quest’ora, An?» ribatté il batterista, osservandola con un sorriso indecifrabile.
In effetti, quella volta la cantante fu costretta a dargli ragione. Solo un gruppo di pazzi incoscienti come loro si sarebbe mai fermato in quel bosco per la notte. E il fatto che quel bosco fosse il posto migliore in cui loro potessero andare non era affatto rassicurante.

Eppure, nonostante i suoi timori – timori che si rispecchiavano nei pensieri e negli sguardi gravi di tutti–, il resto della serata passò in maniera tranquilla.
Lisanna era stata l’unica ad aver avuto il buonsenso di pensare alle cose utili, come il cibo, che si era presa la briga di rubare dalla cambusa della nave poco prima della disastrosa partenza. Era cibo povero e al limite del commestibile, ma chissà come quello sembrò loro il miglior pasto che avessero mai mangiato, dopo le terribili giornate che si erano lasciati alle spalle.
Dopo cena, nessuno dei viaggiatori ebbe voglia di parlare, anche perché sapevano di condividere tutti le stesse preoccupazioni, e che non sarebbero riusciti a trovare conforto parlando con nessuno. Pian piano, uno dopo l’altro, gli occhi di ognuno si chiusero, trascinati nell’oblio del sonno da una profonda stanchezza della quale loro per primi si stupirono, un attimo prima di sprofondare nell’incoscienza.
Solo Tuomas si era costretto a tenere gli occhi aperti: era stato lui ad offrirsi per il primo turno di guardia, quella notte.

Stava seduto a gambe incrociate, osservava le stelle e si chiedeva se cercare di far apparire un pianoforte sarebbe stata una buona idea.
Sospirò, e lanciò un sassolino da qualche parte verso l’oscurità.
No, sarebbe stata una pessima idea.
Si passò stancamente una mano tra i capelli corvini, tentando inutilmente di districarseli.
Gli sembrava fossero passati secoli da quando si era svegliato nel carretto di quel circo – quando invece erano passati solo pochi giorni –, ma soprattutto aveva la sensazione di dover aspettare altri secoli prima di rivedere Kitee, casa sua, la Finlandia…
La Finlandia.
Gli mancavano i suoi paesaggi. Gli mancavano i suoi boschi, i suoi inverni, la sua neve… tutte quelle bianche distese di sempreverdi.
Si prese la testa tra le mani. Non sapeva neanche se sarebbe sopravvissuto a quella sfilata di assurdità, figurarsi sperare di tornare a casa.
Volse gli occhi alle stelle, osservando costellazioni a lui sconosciute.
«Perché mi hai fatto questo? Solo perché ti ho rifiutato i soldi, quel giorno? …Se vuoi le mie scuse, te le ho già fatte. Ma ti prego, aiutami. Ti prego, portami indietro…» sussurrò, al cielo.
Mettersi a parlare da solo gli sembrava la cosa più stupida che potesse fare, ma anche l’unica che avrebbe potuto aiutarlo. Eppure, sapeva bene che la strega non l’avrebbe ascoltato.
Quando tornò, sconfortato, con lo sguardo al buio di fronte a lui, vide un gufo osservarlo interrogativo qualche metro più lontano.
La prima cosa che gli venne in mente, e che gli fece immediatamente trillare in testa un angosciante campanello d’allarme, fu di trovarsi faccia a faccia con una delle tanto temute creature sovrannaturali.
Il tastierista deglutì, cercando di non farsi prendere dal panico e di pensare a quello che gli avevano detto Jukka e Marko.
I fischi. Giusto.
Secondo loro due, le creature maligne non riuscivano a sopportare il suono dei fischi.
Lentamente, Tuomas si portò due dita alla bocca, sperando con tutto sé stesso che funzionasse.
Intanto, il gufo continuava a guardarlo.
Il tastierista soffiò, e un lungo suono acuto riempì la notte per qualche secondo.
Quando smise di fischiare si guardò intorno, aspettandosi di assistere a qualcosa di straordinario. In realtà, non sapeva bene che cosa sarebbe dovuto succedere, ma sicuramente l’avrebbe sconvolto, come sempre, com’era la routine in quella nuova dimensione.
E invece, non accadde nulla.
Marko si rigirò e mormorò qualcosa nel sonno, forse infastidito dal rumore, ma non si svegliò. E il gufo era ancora lì.
L’illusionista sospirò. Le ipotesi erano due: o Marko e Jukka gli avevano dato un’informazione totalmente sbagliata, oppure quello non era uno degli incubi di cui tutti parlavano.
In effetti, non sembrava poi così minaccioso; si limitava ad osservarlo dal fondo dei suoi occhi luminosi nella notte.
D’un tratto, si ricordò del corvo, di come era venuto da loro, di come li aveva fatti ricongiungere. Forse, quello era l’uccello visto da Marko due notti prima.
«Allora, hai deciso di venire anche senza che io abbia cantato nulla?» mormorò al rapace.
Il gufo rispose con un frullio delle penne.
«Beh, hai fatto bene, perché io a cantare sono un vero disastro» aggiunse il tastierista con un sorriso.
Sono venuto a congratularmi con la donna.
Il sorriso di Tuomas si spense, e lui sobbalzò all’indietro.
«Tu… parli?»
Lo scintillio giallo nei grandi occhi del volatile si fece severo.
Mi vedi parlare?
L’illusionista ammutolì. In effetti, il gufo non aveva mosso il becco nemmeno per un istante.
«E’ telepatia…» realizzò dopo qualche attimo.
Assurdo… ne aveva sentito parlare solo nei libri, nelle favole.
Non dovrete più preoccuparvi per il vostro futuro.
Sentire una strana voce nella sua testa lo fece rabbrividire. Non poteva esserci sensazione più strana… Eppure, le parole erano rassicuranti.
Lei ha risolto il mio indovinello. D’ora in poi, voi avrete il diritto di essere aiutati da me. E io conosco la strada, Tuomas.
La potenza del sollievo che provò fu quasi come un pugno, che lo lasciò stordito ma felice.
Non era sicuro di potersi fidare delle parole di un inquietante animale telepatico, in quei giorni non era sicuro di nulla, ma non gli importava più della prudenza, non davanti alla prospettiva di avere una guida in quella pericolosa realtà labirintica.
Finalmente una mano tesa, dopo tanti pericoli, dopo tanta angoscia.
Aveva avuto paura, non era un problema per lui ammetterlo, aveva avuto tanta paura, perché si era ritrovato perso e senza poter riconoscere la strada di casa. Aveva avuto paura, quando gli amici erano diventati nemici, quando era stato costretto a uccidere degli uomini pur di preservare la propria vita.
Forse, finalmente, la zingara aveva deciso di essere meno crudele con lui. Forse aveva udito le sue preghiere.
«Grazie.» sussurrò. «Grazie di cuore.»










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Capitolo 11
*** Stupore, Paura e Gelosia ***


La zingara sbuffò.
Quel viaggio stava diventando veramente una noia mortale.
E l’Imperatore, sul quale lei aveva riversato molte delle sue aspettative, fino a quel momento era riuscito solamente a deluderla.
Certo, la sua ultima mossa era stata sorprendente ed inaspettata, ma non era abbastanza per poterla far divertire sul serio.
Toccava sempre a lei il compito di movimentare le cose, che seccatura.
Rigirò nelle mani il proprio mazzo di carte, osservandolo intensamente. Che cosa ne avrebbe tirato fuori?
L’unico fatto davvero interessante di tutta quella vicenda era che nemmeno lei poteva sapere che cosa le carte decidessero per il destino dei suoi aitanti protagonisti.
Chiuse lentamente gli occhi, mentre mescolava le carte con gesti rapidi, resi dall’abitudine così straordinariamente fluidi.
Un attimo di esitazione, solo un attimo, prima di pescarne due alla cieca. Sì, due sarebbero bastate.
Riaprì le palpebre con impazienza ed un sorriso sulle labbra. Posò il mazzo in un angolo del tavolo, prima di riprendere in mano le prescelte e guardarle una per una, trepidante, come una bambina in procinto di scartare i regali sotto l’albero di Natale.
La prima la deluse.
Sarebbe stata, sì, qualcosa che li avrebbe sconvolti, ma sarebbe stata semplice da contrastare, veloce, e non avrebbe mutato quelli che erano i progetti precedenti.
Ma quando arrivò a riconoscere la seconda, uno scintillio si accese nel suo sguardo, e un largo sorriso rimpiazzò il precedente, irrimediabilmente rovinato dalla sua delusione. Quella era una carta stupenda.
Si sarebbe divertita… oh, se si sarebbe divertita…
Tutto quello che doveva fare era attendere.


Il risveglio di Tuomas fu spontaneo, e silenzioso.
L’illusionista sbatté più volte le palpebre, tentando di mettere a fuoco tutte le immagini e i colori che si presentavano ai suoi occhi. La luce – un mare di luce gialla – illuminava tante chiazze verdi e marroni che roteavano e si sovrapponevano davanti a lui in una folle danza confusa. Poi, lentamente, cominciò a distinguere l’ambiente intorno a sé, e a ricordare.
Un bosco… certo, si trovava in un bosco. Le chiazze marroni erano foglie cadute, zolle di terra, corteccia degli alberi. Il verde era tutto il resto. Sopra, un tetto di foglie e rami; sotto, l’erba soffice e brillante di rugiada; intorno, cespugli e arbusti a perdita d’occhio.
La prima sensazione che provò, dopo lo smarrimento iniziale, fu lo stupore. C’era troppo silenzio.
Nessuno l’aveva svegliato, non c’era stato alcun vociare, nessun commento ironico di Jukka o di Marko, non una nota strimpellata da Emppu per dare il buongiorno al sole appena sorto, neanche un suono della voce acuta e melodiosa di Anette o di quella incerta ma vellutata di Lisanna.
Spalancò gli occhi e si alzò di scatto a sedere, allarmato, ma vide solo l’assurda conferma dei suoi sospetti: l’accampamento era deserto.
Lui era sgomento.
L’avevano davvero abbandonato lì? Non riusciva a crederci.
Stava per gridare qualcosa – un richiamo, una parola qualsiasi –, ma non fece in tempo ad emettere un solo suono che un paio di braccia lo afferrarono violentemente e lo trascinarono con sé nel folto degli alberi.
Tuomas avrebbe voluto urlare, ma aveva una mano premuta sulla bocca e, per quanto selvaggiamente si dimenasse, non riuscì a liberarsi se non quando lo decise il misterioso aggressore, che mollò la presa solo dopo averlo condotto qualche metro lontano dalla radura da dove l’aveva assalito.
Non appena fu libero, il tastierista scattò in piedi e sferrò una potente gomitata all’uomo che l’aveva catturato, senza neanche guardarlo in faccia, e fu con una nota di sottile soddisfazione che sentì il suo gemito mentre cadeva pesantemente a terra.
La spada era rimasta all’accampamento, ma non gli importava. Avrebbe fatto alla vecchia maniera.
Si gettò sul rapitore, che era ancora a terra, e gli sferrò sul naso un pugno da manuale, del quale si sentiva segretamente fiero.
«Adesso basta!» esclamò l’aggressore, infuriato, mentre si scrollava di dosso l’illusionista con un violento spintone.
Tuomas ruzzolò per qualche metro, ma quando rialzò gli occhi sul suo nemico, si paralizzò, riconoscendolo.
«Oddio…» balbettò.
«No ma, dico, sei impazzito?!» gli urlò Marko in risposta, mettendosi a sedere e tamponandosi con il pollice una narice, dalla quale scendeva un sottile rivoletto di sangue.
Il tastierista era senza parole, gli sembrava di non capire più nulla.
«Tu mi hai rapito!» ribatté, cercando di discolparsi, ma venne trafitto da un’occhiata infuriata del bassista.
«Ti ho salvato la vita, invece!»
Tuomas lo guardò a bocca aperta, ed in risposta ricevette un’occhiata alquanto truce degli occhi azzurri di Marko.
Dal bosco uscirono gli altri, tutti con la faccia di chi si è svegliato da poco e malissimo.
«Sì, ecco, l’intenzione era portarti via dalla creatura sovrannaturale che si è beatamente addormentata vicino a te, possibilmente senza svegliarla, ma non credo che funzionerà dopo tutto il casino che avete fatto voi due.» spiegò Anette, parlando a bassa voce.
Su Tuomas calò il gelo. Aveva dormito tutta la notte di fianco ad una creatura sovrannaturale? L’idea lo fece rabbrividire.
«Quale creatura?» domandò, in un sussurro.
«Sembra un ragazzo. È incredibilmente bello…» gli rispose Lisanna.
Marko grugnì qualcosa, le sopracciglia aggrottate e lo sguardo puntato a terra. Gran bella mattinata, quella, davvero.
«Già, peccato per quelle ingombranti ali che gli spuntano dalla schiena, altrimenti anch’io ci farei un pensierino.» la schernì Jukka.
A Tuomas si seccarono le labbra. Ali? Sperò che stesse scherzando.
Emppu stava per aggiungere qualcosa, con aria estremamente assonnata – oppure aveva solamente aperto la bocca per sbadigliare –, ma si bloccò a metà del gesto e deglutì, con gli occhi sbarrati.
Da un albero era spuntata la creatura dalla quale erano scappati, che si appoggiò al tronco con la schiena e li osservò uno ad uno con l’inquietante sguardo dei suoi occhi gialli.
«Perché siete andati via così precipitosamente?» chiese la creatura, senza mai smettere di scrutarli.
Ognuno di loro si sentì lo stomaco schiacciato dal terrore: quel ragazzo non era certamente umano.
Aveva i capelli castano scuro striati di mèches color caffelatte che gli giungevano sinuosi in lunghezza fino ai fianchi del corpo asciutto. La sua stessa pelle sembrava dello stesso colore del cappuccino, ed era sulle braccia segnata da dei ghirigori marroni che gli si avviluppavano su per gli arti come degli splendidi e maestosi tatuaggi. Gli occhi, di un giallo vivido e sconcertante, erano cerchiati di nero e sul volto portava disegnata una sorta di maschera chiara, che si apriva a cuore dall’attaccatura del naso – dritto e sottile –, colorava di chiaro gli zigomi alti  e terminava appena sotto il broncio del labbro inferiore. Dietro le sue spalle si aprivano un paio di grandi ali, anch’esse color marrone chiaro e puntellate da tante piccole macchie dello stesso colore della corteccia degli alberi.
Nel complesso, appariva esotico, tatuato e decisamente sovrannaturale, eppure Lisanna aveva detto il vero: risultava lo stesso straordinariamente bello.
«Sta’ lontana da noi, creatura. Non cadremo nei tuoi tranelli.» ringhiò Marko, che era scattato in piedi.
«Tranelli?» domandò l’altro, serio.
«Sì, esattamente, tranelli. Non fare l’ingenuo, non puoi ingannarmi, io so cosa sei: sei un essere infido e crudele.» gli rispose il bassista, pronto ad estrarre l’ascia ad un solo gesto dell’ “uomo” che non gli fosse piaciuto.
Eppure, egli non si scompose a quelle accuse. Rimase immobile, a guardarli, per poi scuotere impercettibilmente il capo.
«No. Io sono ciò che è morto e ciò che vive ancora.»
Lo stupore colpì tutti i presenti, che rimasero senza parole. Ma l’uomo-gufo continuò ad osservarli con il proprio sguardo indecifrabile.
«Chi sono?»
La domanda cadde nel vuoto.
Passarono alcuni trepidanti attimi, in cui parve a tutti che il battito frenetico dei loro cuori fosse talmente forte da poter essere udito. Poi, alla fine, un leggerissimo mormorio ruppe la tensione del loro silenzio.
«Un ricordo» sussurrò Lisanna, con il cuore in gola.
Non sapeva che cosa sarebbe successo se avesse dato una risposta sbagliata, ed aveva paura di queste sconosciute conseguenze, ma era sicura della sua tesi.
La creatura sorrise. Era un sorriso sincero e bello, bianco, splendente, quasi innaturale tant’era stupendo. Ed era tutto rivolto a Lisanna, che arrossì e abbassò lo sguardo.
«L’ho già spiegato al vostro mago, questa notte.» esordì poi l’uomo-gufo, trafiggendo con lo sguardo la figura meravigliata dell’illusionista, che si guadagnò l’attenzione di tutti.
«Ha… ha ragione. Ho ricevuto la visita del gufo.»
«Io sono il gufo.»
La sua dichiarazione riportò un silenzio tombale nel gruppo. Marko ancora lo guardava in cagnesco, ma gli altri cominciavano a credergli, e a fidarsi di lui.
«La damigella ha risolto il mio indovinello. Ora il mio compito è guidarvi e assistervi…» scoccò un’occhiata penetrante al vichingo, che ricambiò con aria di sfida. «…se accetterete il mio aiuto.»
Si guardarono tutti l’un l’altro.
«Io non mi fido.» dichiarò il bassista in un sussurro.
«E’ la nostra unica possibilità di salvezza. Ammettilo: senza non sappiamo dove andare.» replicò Jukka.
«L’ho incontrato anche io, il gufo. Sono pronto a scommettere che non era questo qua. Da quando i gufi se ne vanno in giro con le sembianze di giovani ragazzi avvenenti?»
«E da quando le colombe suggeriscono ad un capitano di abbandonare la propria nave? Da quando i corvi solcano i mari? Se dobbiamo guardare le cose secondo dei criteri razionali, allora l’intera nostra storia non ha il minimo senso.» ribatté Tuomas.
Per un attimo Marko e Tuomas si osservarono. Potevano sentire la tensione che si formava attorno alla linea dei loro sguardi: si erano chiaramente schierati su linee di pensiero opposte, e nessuno dei due aveva intenzione di concedere all’altro qualcosa.
Sembrò che fossero destinati a rimanere così per ore, finché non intervenne Lisanna.
«Io penso che… dovremmo dargli una possibilità»
Marko la guardò come se gli avesse confessato il più terribile dei tradimenti, ma lei fu irremovibile nella propria decisione, e lui s’incupì sempre di più. Si rivolse ad Emppu ed Anette con una smorfia.
«Scommetto che sia inutile tentare di ottenere il vostro appoggio»
«Senti, mi dispiace.» gli rispose Emppu, al quale dispiaceva veramente. Non gli piaceva vedere il gruppo spaccato a quel modo, non gli piaceva prendere posizioni. Ma quella gli sembrava la più ragionevole.
Anche Anette era della stessa idea.
«Abbiamo troppo bisogno di lui» gli disse infatti la cantante.
Marko annuì, scuro in volto.
«E va bene, come volete.»
A quel punto si voltarono tutti verso l’uomo-gufo, che era sempre rimasto appoggiato al suo albero, immobile ed imperturbabile.
Fu Lisanna ad annunciare la decisione, con un gran sorriso.
«Accetteremo con gioia il vostro aiuto.»

Si erano subito messi in marcia.
Il gufo aveva spiegato loro che c’era un vecchio, un vecchio viaggiatore che conosceva la strada per qualsiasi luogo – anche se immaginario –, e che avrebbe saputo indicare loro il modo per tornare nel loro mondo.
La sua dimora era lontana, e per raggiungerla avrebbero dovuto attraversare l’intero bosco, così spaventoso e sconfinato, per questo lui aveva suggerito loro di mettersi in cammino al più presto, consiglio che avevano seguito con molto entusiasmo.
Tuomas ed Emppu già vedevano all’orizzonte la possibilità di tornare a casa, e gli altri invece si sentivano un passo più vicini alla scoperta di tutti i misteri e le domande che avevano accompagnato l’arrivo del bardo e dell’illusionista; tutto questo gettava sul gruppo un’aria carica di eccitazione e aspettativa, che li spronava a camminare senza curarsi delle lunghe ore di marcia o degli inquietanti rumori che popolavano le fronde degli alberi.
Non c’erano state più discussioni in merito al discorso del gufo, il quale d’altronde si era rivelato una guida gentile, sicura ed affidabile. Non mancava mai di rispondere alle loro domande riguardo a questa o a quell’altra pianta, spiegava delle creature che avrebbero potuto incontrare e di come difendersi dai loro sortilegi, qualche rara volta scoppiava anche a ridere, di gusto, e allora sembrava quasi un uomo come tutti gli altri.
Eppure, Lisanna non riusciva a staccargli gli occhi di dosso, e Marko si faceva sempre più cupo e irritabile ogni secondo che passava.
L’intera giornata si svolse così, in cammino, seguendo il passo deciso del loro affascinante nuovo compagno, e ascoltando ogni sua parola.

Quando giunse la sera, lui li condusse fino ad una nuova radura, più piccola della precedente ma molto più graziosa, che si affacciava sulle rive di una piccola polla di acqua limpida e fresca.
Tutti furono felici di quella sistemazione, e si sedettero a terra esausti. Mentre marciavano non avevano sentito la fatica, ma ora cominciavano ad accusare il peso delle tante ore passate a camminare, con l’unica pausa di una mezz’ora per il pranzo.
Si era fatto buio: si riusciva ad intravedere un brandello di cielo stellato da sotto quell’eterno tetto di fronde, fitte ed incombenti.
Il gufo accese il fuoco con maestria, portandolo a diventare un bel falò scoppiettante, e i viaggiatori gli si accomodarono intorno. Persino Marko accettò di sedersi, senza mai smettere di lanciare occhiatacce alla loro guida sovrannaturale.
«Dì un po’, ci sono brutte sorprese ad aspettarci in quello specchio d’acqua, gufaccio?» domandò infatti dopo qualche minuto, badando bene ad essere il più sgarbato possibile.
«C’è una comunità di ninfe, se è questo che intendi. Ma devi stare tranquillo, loro sono innocue.» rispose l’altro, senza curarsi minimamente del tono brusco di Marko, del suo sguardo di sfida o del nomignolo dispregiativo con cui l’aveva apostrofato.
«Sì, innocue. Disse quello che il giorno dopo morì affogato.» ribatté il vichingo con un tagliente sorriso canzonatorio.
Nel sentire il suo commento, il gufo alzò il proprio sguardo giallo e lo puntò in quello azzurro del mercenario.
«Ti sbagli.» gli disse infatti.
Gli occhi di Marko si accesero.
«Hai ragione: probabilmente tu rimarresti illeso, saremmo noi a morire sotto i tuoi occhi.»
Gli altri compagni di viaggio si guardarono l’un l’altro, a disagio. L’atmosfera si stava facendo un po’ troppo tesa per i loro gusti… anche se, per fortuna, l’uomo-gufo non sembrava voler raccogliere nessuna delle provocazioni di Marko.
La più infuriata era Lisanna: non capiva perché il guerriero dovesse essere così scortese con lui, quando aveva offerto loro il suo aiuto e la sua sconfinata conoscenza.
«Non dire queste cose ad alta voce, per piacere.» lo redarguì il gufo.
Un ghigno si delineò sul volto del vichingo.
«Cos’è, cominci a scaldarti un po’ anche tu, adesso?»
L’uomo-gufo scosse la testa.
«Non è questo: se le ninfe ti sentissero mettere in dubbio la loro buona fede, si arrabbierebbero e ti aggredirebbero sul serio. Sono molto permalose.»
Non ci fu più risposta da parte di Marko. Non sapeva cosa replicare, anche se l’idea di essere stato battuto da quello stupido coso alato non gli andava proprio giù. Tornò a rinchiudersi dietro al suo silenzio tombale e al suo sguardo cupo.
L’uomo-gufo scrollò le penne delle ali, senza essere minimamente toccato da quella “vittoria” che, poi, lo era solamente agli occhi del bassista.
Ci fu qualche minuto di silenzio imbarazzato. A nessuno piaceva la conflittualità che Marko si ostinava a voler creare per forza.
«Non ci hai… ehm… ancora detto il tuo nome.» disse infine Lisanna, con le guance in fiamme e lo sguardo che andava frenetico dall’espressione dell’uomo-gufo al terreno. «Se… sempre che tu abbia un nome.»
Anche gli altri – escluso il bassista, ovviamente– si erano fatti attenti: non sapevano nulla di quella strana creatura che era giunta ad offrire loro un aiuto. Per un attimo, temettero di averlo offeso; ma poi lui sorrise radioso, e si capì che quella domanda gli aveva fatto piacere.
«In realtà, non sono abituato a rispondere ad uno dei vostri nomi.»
Il sorriso di lui si allargò nel vedere la delusione di tutti gli altri.
«Però, una volta, me ne è stato dato uno… Dominic, mi sembra.» aggiunse infatti.
I viaggiatori si stupirono. Sembrava strano associare un nome comune ad una figura misteriosa e sorprendente come la sua.
«…Dominic.» ripeté Jukka, assaporandone bene il suono sulla lingua, e confrontandolo con l’uomo che aveva davanti. No, non ci stava nemmeno un po’, ma si rese conto che nessun nome sarebbe mai stato in grado di descriverlo. Lui era indescrivibile.
Il pirata tese la mano, aggirando le vivaci fiamme del fuoco, e gli sorrise.
«Beh, piacere, e benvenuto.»
Il gufo osservò per un attimo la mano protesa verso di lui con uno sguardo indecifrabile negli occhi gialli, ma la sua esitazione durò solo una frazione di secondo, perché subito dopo la stava già stringendo.

Anche la cena passò veloce, e serena.
Marko non aveva più detto una parola, e senza le sue frasi trasudanti sarcasmo e ostilità sembrò quasi loro di essersi ritrovati a mangiare insieme per piacere, e non per necessità.
Con il passare dei minuti, Dominic si sciolse sempre di più e abbandonò progressivamente quell’aura d’innaturalità che l’aveva sempre avvolto prima di allora. Chiacchierava, scherzava, rideva insieme a loro, e cominciò a sembrare solamente una persona normale con un aspetto quanto mai bizzarro.
Quando tutti ebbero finito di consumare il loro pasto, però, e non si trovarono più argomenti su cui scherzare, calò il silenzio sul gruppo, sui pensieri e sulle emozioni di ognuno, e un’aura di grave consapevolezza e malinconia si abbatté su di loro. Paure, aspettative, riflessioni, che prima erano state bloccate dall’inarrestabile e fulminea corrente degli eventi, ora erano liberi di affollare le loro menti e incrinare le loro volontà e le loro poche sicurezze.

Il primo ad esternarle fu Tuomas, che si decise a porre la domanda che stava assillando lui ed Emppu da giorni ormai.
«Parlatemi di questo Imperatore. Chi è? Com’è salito al potere?»
Emppu annuì, facendosi interessato.
«Esatto. Né io né Tuom sappiamo nulla di questo tizio spaventoso.»
Le loro affermazioni suscitarono la meraviglia generale. Tutti avevano sentito parlare dell’Imperatore, tutti conoscevano la sua storia, che l’avessero studiata, che l’avessero sentita raccontata o che avessero assistito di persona ai terribili eventi che la incorniciavano.
«Beh… strana domanda. Tu come definiresti l’Imperatore?» domandò Anette, rivolgendosi a Jukka.
Quello si accarezzò la barba con aria pensosa, tentando di trovare delle parole che potessero descriverne la crudeltà e l’inumana follia.
«Dunque, direi… pazzo, potente, assolutamente invincibile, molto impaziente e straordinariamente sadico.»
Anette annuì. La descrizione calzava a pennello.
«Questo è l’Imperatore.»
«Ma che cos’ha di tanto speciale? Perché è riuscito a diventare così potente, perché è riuscito ad arrivare fino a terrorizzare e ridurre all’impotenza un paese intero?»
Fu allora che emerse Marko dal suo silenzio irato.
«L’Imperatore sa padroneggiare la magia meglio di chiunque altro.» mormorò, lo sguardo tetro posato a terra.
«In effetti, adesso è anche l’unico a saper padroneggiare la magia.» lo corresse Jukka con un sorrisetto ironico.
«Beh, in realtà, non più.» si azzardò a dire Lisanna, scoccando uno sguardo intenso a Tuomas.
Il tastierista abbassò gli occhi, per una volta era lui ad essere imbarazzato.
Lui non sapeva padroneggiare la magia. Lui non era un mago. Era bene che anche gli altri lo capissero, prima di affidargli responsabilità che non potevano essere sue.
Ci fu un’indesiderata pausa, colma di aspettative, durante la quale lui si barricò dietro ad un ostinato e irremovibile mutismo.
Si aspettavano forse che dicesse qualcosa? No, non avrebbe detto nulla. Lui non era un mago, continuava a ripeterselo tra sé come se la sua convinzione potesse diventare anche quella degli altri.
«Aspettate, aspettate un attimo. Magia vera? Io credevo che solo queste famose creature sovrannaturali potessero usare la magia.» disse Emppu.
Tuomas lo ringraziò mentalmente con tutto sé stesso per aver interrotto quella penosa cappa di silenzio carica di significati.
«Anche gli uomini sono in grado di compiere degli incantesimi. Certo, non tutti.» intervenne Dominic.
L’attenzione si spostò tutta su di lui, e lasciarono che fosse il gufo a continuare nella spiegazione, anche perché di certo era molto più esperto di chiunque tra loro.
«Un tempo, nascevano alcune persone che erano diverse. Di solito differivano per l’intelligenza: i giovani maghi erano molto più precoci dei bambini normali, ed iniziavano ad esternare il loro talento già ai primi anni. Per le loro famiglie, far nascere un mago era motivo di felicità ed orgoglio.»
Tuomas era affascinato. Gli sembrava una di quelle storie adatte ad essere raccontate le sere, quando fuori pioveva e tutto ciò di cui si aveva bisogno era un po’ di cioccolato e le parole di un buon narratore.
Di certo, non era una storia in cui lui potesse ritrovarsi… nessuna di quelle bellissime favole avrebbero potuto vedere lui come protagonista. Sarebbe stato come profanarle, e lui non l’accettava.
«Ovviamente, alla nascita un mago manifestava solo l’origine del suo potere, in realtà sconfinato. Un po’ come una sorgente che mostra appena poche gocce dell’impetuoso fiume che si nasconde in realtà sottoterra. Soltanto dopo anni e anni di studio era dato loro di controllare le proprie potenzialità, e cominciare ad eseguire con successo gli incantesimi.»
Più andava avanti ad ascoltare, più Tuomas si convinceva del fatto che non poteva essere lui una delle persone di cui si stava parlando. Lui non aveva mai studiato nulla, non aveva mai neanche sentito parlare di quelle cose prima di allora. Era ingiusto che tutti lo credessero qualcosa che non era, qualcosa che non si sentiva di essere.
Dominic prese un lungo respiro, e la sua aria si fece grave.
«Dovete sapere che le vie della magia sono quattro – tra cui l’illusionismo –,…» scoccò un’occhiata penetrante al tastierista, che cominciava ad infastidirsi «…più una quinta, segreta ed infinitamente potente. Ebbene, la forza dell’Imperatore sta proprio in questo: egli riesce a padroneggiarle tutte e cinque in maniera impeccabile.»
Calò il silenzio sull’accampamento.
Sia Tuomas che Emppu furono afferrati dalla gelida consapevolezza di ciò a cui stavano andando incontro, consapevolezza che prima gli era sempre mancata. Certo, non sapevano nel dettaglio in che cosa consistessero queste cinque vie, ma a giudicare dagli sguardi mortalmente seri dei loro compagni dovevano essere molto potenti, e anche ai loro occhi ignoranti parve un’enormità l’idea di qualcuno che riuscisse ad eccellere in tutte quelle discipline.
«Ma… non si può formare una lega di maghi, ognuno specializzato in una delle vie, e scatenarglieli contro?» domandò Emppu, con voce flebile. Si rifiutava di non vedere neanche un barlume di speranza all’orizzonte.
Anette scosse la testa.
«Non esistono più i maghi, Emppu.» gli rispose lei, con amarezza.
Marko annuì, e puntò sul chitarrista l’azzurro del suo sguardo cupo.
«E’ così. La prima cosa che fece, appena prese il potere, fu ucciderli tutti. Tutti. Tutti, hai idea di cosa voglia dire?»
Emppu si ritrasse, agghiacciato.
Gli occhi di Tuomas erano colmi d’orrore, e nemmeno lui riuscì a dire nulla. Come si poteva concepire una cosa simile? Come si poteva concepire lo sterminio di così tanta gente?
«Non ne rimase in vita neanche uno, e per essere sicuro di non vederne nascere altri fece trucidare anche chiunque fosse in qualche modo imparentato con loro.» continuò il guerriero, senza pietà.
«A volte salta fuori qualche strega, ma sono solo pretesti per prendere delle povere donne che hanno avuto problemi con la giustizia – o meglio, con le guardie imperiali – e buttarle a bruciare sul rogo.» aggiunse Jukka, e Lisanna rabbrividì al solo ricordo.
Cercò istintivamente con gli occhi lo sguardo rassicurante di Emppu, e quando lo trovò lui le rivolse un debole sorriso.
«In quel modo, però, le persone rimasero in balia delle creature sovrannaturali, che cominciarono ad imperversare sui territori. Morì tanta gente, sbranata da questa o da quell’altra creatura, le terre cominciarono a spopolarsi e l’Imperatore si trovò inaspettatamente senza un popolo da governare.» intervenne Dominic.
«Un vera seccatura, capite? Che divertimento poteva mai esserci, senza avere qualcuno da torturare, spaventare a morte o ammazzare?» commentò Jukka con una mezza risata dal sapore amaro.
«Fu così che rimise in circolazione le poche pergamene che parlassero degli incantesimi di difesa e di guarigione, gli unici che potessero essere utilizzati anche da chi non avesse il talento della magia. I maghi che si trovano a bordo delle navi nascono da questo: solo pallide imitazioni dei maghi di un tempo.» concluse Anette, e non poté non tornare con il pensiero al povero Kian, quel ragazzino così talentuoso, ucciso in maniera così raccapricciante. Forse lui avrebbe potuto diventare di più di una pallida imitazione… era così studioso.
La cantante bloccò bruscamente il flusso dei propri pensieri, imponendosi di non pensare più a lui. Non poteva permettersi malinconie, esitazioni o sentimentalismi.
Eppure, il ricordo del suo viso giovane e della sua corta zazzera di capelli castani continuava a bruciare in un angolo del proprio cuore, indelebile.
«E’ terribile.» fu tutto ciò che riuscì ad uscire dalle labbra di Tuomas, che si era fatto cinereo.
Alzò lo sguardo sui suoi compagni, smarrito, nella speranza di trovare in loro un po’ di conforto. Aveva paura. L’avevano tutti.
«Noi dovremmo combattere contro un nemico così?» domandò, il terrore che gli attanagliava lo stomaco.
Lui non era un eroe, perciò si sentì legittimato ad essere spaventato a morte.
Per fortuna ci fu Anette a donargli un sorriso. Lei era molto più forte di lui, e lui lo sapeva.
«No, voi dovete solamente tornare a casa. Nessuno vi chiede di combattere contro nessuno.» gli disse dolcemente.
Ovviamente, quelle parole non lo rassicurarono neanche un po’. C’erano troppi “voi” nel discorso.
Anette lesse l’esitazione nel suo sguardo, e si affrettò a ritrattare.
«E noi verremo con voi, ovviamente.» aggiunse, anche se non ne era affatto convinta. E non ne era convinto neanche Tuomas, anche se non lo diede a vedere. Le era grato per quel suo tentativo.
Nessuno disse più nulla, e d’altronde nessuno aveva più bisogno di sentire altro. C’erano state troppe parole per quella sera, troppe informazioni che invece di sollevare i loro animi li avevano resi ancora più appesantiti di paure e preoccupazioni.
Si coricarono in silenzio, e in silenzio osservarono angosciati il buio che li avvolgeva come una soffocante cupola.
Avrebbero subito attacchi, quella notte? Dominic avrebbe mantenuto le sue promesse, li avrebbe protetti durante il sonno? E il giorno dopo, cosa sarebbe successo?
Le domande si susseguirono una dietro l’altra attraverso le menti stanche dei viaggiatori, ma l’oblio dell’incoscienza giunse veloce a prenderseli prima che potessero tentare di trovarne le risposte.









Ciò che dice l'Autore
Di solito sono molto loquace, ma oggi sarò sorprendentemente sintetica....Questo perchè, oltre ai ringraziamenti che sono d'obbligo (un grandissimo GRAZIE ai lettori e ai recensori, che mi fanno tanto tanto felice e contenta), ho solo una curiosità da segnalare: l'immagine del gufetto a cui mi sono appoggiata per costruire la descrizione di Dominic! Ebbene, se ve ne frega qualcosa, questo è il link: http://www.solopallone.it/wp-content/uploads/2007/12/gufo_1.jpg ^^ (è troppo teneroso *w*)
Bacissimi!






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Capitolo 12
*** Il Giusto e lo Sbagliato ***


Più i viaggiatori si ostinavano ad inoltrarsi nel bosco, più le fronde s’infittivano, i rami diventavano adunchi e i tronchi neri e contorti. I raggi del sole erano sempre oscurati da quelle loro grandi foglie, così scure da sembrare nere, ma non riuscivano a tingerle d’oro com’era successo con i germogli verdi del limitare della foresta. Erano costretti così ad avanzare in una penombra tesa, carica di suoni e strani scricchiolii che sicuramente non provenivano dal loro incedere lento e timoroso.
Ora tacevano tutti.
Si erano svegliati presto quella mattina, nessuno di loro aveva intenzione di rimanere a lungo dentro l’inquietante macchia d’inchiostro che era diventata la foresta, perciò avevano cominciato a camminare sin dalle prime luci dell’alba.
C’era stata qualche parola, qualche breve chiacchierata, persino una o due risate a mezza voce, ma dopo le prime ore di marcia era calato un silenzio sinistro sul gruppo, rotto a volte dall’echeggiare di qualche risa innaturale che giungeva dagli angoli più remoti della vegetazione.
In testa a tutti c’era Dominic: avanzava spedito e straordinariamente silenzioso, nonostante le grosse ali chiuse dietro la schiena minacciassero di minarne l’agilità. Sul bellissimo volto concentrato non era mai emersa una sola traccia di difficoltà, paura o indecisione, neanche quando il vago sentiero di terra battuta che stavano fiduciosamente percorrendo si restrinse fino a diventare soltanto una sottile strisciolina chiara sepolta tra le erbacce del sottobosco. Sembrava l’unico che sapesse esattamente che cosa stava facendo e che cosa avrebbe fatto in futuro, e seguendolo pareva che nessuno di loro avesse il diritto di essere spaventato o esitante, anche se era esattamente così che la maggioranza dei viaggiatori si sentiva.
Subito dopo l’uomo-gufo facevano strada Jukka ed Anette, sempre fianco a fianco, sempre inseparabili. Lei si sentiva decisamente “un pesce fuor d’acqua” – ironico come il detto si adattasse così bene alla sua situazione – e lui cercava invano d’infonderle coraggio, pur sapendo perfettamente tutti e due che il pirata era spaesato quanto lei. Nonostante questo, però, non lasciavano che il disagio che cresceva dentro di loro intaccasse quell’aria da duri filibustieri che si erano con tanta fatica costruiti intorno: avanzavano entrambi come se da un momento all’altro dovessero andare all’arrembaggio, lei con la sciabola sguainata in una mano e lui con i due inseparabili pugnali stretti in pugno, pronti ad essere capitano e suo secondo anche in quel bosco dove risultavano così palesemente fuori posto.
Seguiva poi Lisanna, procedeva in un silenzio tombale e con lo sguardo puntato a terra. Le lunghe gonne ingombranti la rendevano piuttosto goffa nell’incedere sul terreno insidioso della foresta, ma lei non se ne era mai lamentata, si impegnava a tenerle raccolte nelle piccole mani e camminava con gli occhi fissi a terra e la fronte appena aggrottata. Chiunque l’avesse vista avrebbe pensato che l’origine di quel turbamento fosse senza dubbio dovuta alla concentrazione di continuare a marciare senza inciampare da nessuna parte, ma in realtà erano altre le cause del suo sguardo serio e del silenzio in cui si era confinata da quando si era svegliata. La presenza di Dominic e i modi di fare di Marco la mettevano a disagio, nello stesso modo.
Si era sentita così bene, così a casa quando Marco l’aveva stretta a sé, quella notte sul ponte della nave, si era sentita come se l’avesse conosciuto da sempre, come se l’avesse aspettato per tutta la vita.
Ma poi, Dominic, la sua gentilezza, la sua bellezza, la sua sicurezza, lo sguardo imperscrutabile in fondo al giallo delle sue iridi… Dominic la guardava e sorrideva, e allora un grande calore le pervadeva il petto e lei non sapeva fare altro se non arrossire e sorridere insieme a lui.
E poi, il comportamento di Marco la infastidiva. Non le piaceva la nota tetra che aveva sporcato l’azzurro limpido dei suoi occhi, non le piaceva l’ostilità che non mancava di lasciar trapelare ogniqualvolta che si parlasse di Dominic. Ma, soprattutto, non riusciva a comprenderne il motivo. Il gufo era sempre stato così disponibile, era persino andato da lui per primo! Inoltre, aveva accettato di aiutarli, aveva deciso di condurli attraverso quella foresta spaventosa piena di nemici e pericoli senza chiedere nulla in cambio.
Se Dominic fosse stato un uomo qualunque, non avrebbe esitato un attimo a rispondere alle provocazioni del vichingo e soddisfare la sua sete scontri, di litigi. E invece non aveva fatto nulla, era rimasto tranquillo e garbato.
Stava in quello, forse, la differenza tra lui e Marco.
Dietro di lei v’erano Emppu e Tuomas, entrambi con un’espressione in viso a metà tra il meravigliato e l’atterrito. Inutile pensare di trovare dei boschi del genere in Finlandia: per quanto la Finlandia potesse essere priva di tutto tranne che di boschi, il suo era un genere di foresta completamente diverso. Gli alberi finlandesi, nel loro candore, erano dolci e rassicuranti, non mancavano mai di cullare Tuomas con la loro bellezza, le volte in cui lui andava a trovarli perché in cerca di ispirazione. Non mancavano mai di farlo sentire a casa, in mezzo ai loro bianchi merletti di neve.
Allo stesso modo, Emppu ritrovava il proprio sorriso nell’osservarne le foglie assumere gli splendidi colori aranciati dell’autunno, quelle rare volte in cui lo perdeva.
Il bosco che stavano attraversando, invece, non avrebbe potuto essere più diverso. Non aveva nulla di fraterno, nulla di amichevole. Sembrava quasi che volesse scacciarli oppure, se non fosse riuscito nel proprio intento di vederli fuggire via, inghiottirli e divorarli nelle più atroci delle maniere. E le risate spettrali che a volte si udivano appena tra le fronde parevano quelle degli alberi stessi, li deridevano per la loro paura e la loro stupidità.
A chiudere la coda c’era Marco. Il suo sguardo si era fatto ancora più cupo del giorno precedente, odiava essere costretto a seguire uno stupido damerino del quale non si fidava nemmeno un po’.
Sosteneva di essere il gufo? Ebbene, lui non ci credeva. Non sapeva per quale motivo idiota gli altri suoi compagni si affidassero così ciecamente ai suoi modi affettati e ai suoi passi insopportabilmente sicuri, ma di certo avrebbe fatto ogni cosa in suo potere per distoglierli dalla sciocca idea che quell’uccellaccio potesse conoscere le risposte a tutti i loro punti interrogativi.
A lui, personalmente, sembrava tutto troppo artefatto perché potesse essere vero. Insomma, qual era quella persona che non esitava mai? Solo qualcuno che avesse già in principio predisposto tutto.
E poi, quella specie di creatura mezzo uomo mezzo rapace che cosa poteva mai significare? L’unica volta in cui lui aveva incontrato il gufo – quello vero, naturalmente – gli era sembrato una creatura troppo orgogliosa e dignitosa per potersi mettere a giocare ai travestimenti.
Sì, tutta la sua storia non lo convinceva nemmeno un po’, e lui si rifiutava di nasconderlo.

Nonostante tutti i loro disagi, e l’inquietudine che aleggiava maligna attorno ai tronchi neri degli alberi per accompagnarli beffarda nel loro viaggio, non venne nulla a disturbarli nel silenzio della loro marcia e poterono proseguire tranquilli fino all’ora di pranzo, quando Dominic li fece fermare e propose loro una pausa.
«Come siamo messi a provviste?» domandò Emppu lasciandosi cadere a terra, contento di potersi finalmente riposare dopo l’estenuante mattinata di viaggio.
Jukka fece una mezza smorfia mentre controllava il contenuto della sacca di cuoio dov’erano tenuti i pochi approvvigionamenti che erano riusciti a portarsi via. Inutile dirlo, non erano certo state preparate in vista di lunghi viaggi, né di così tante bocche da sfamare. La svuotò, mostrandone la povertà con un certo imbarazzo. Quattro mele, due striscioline di carne essiccata e tre borracce – di cui una tristemente vuota – rotolarono nell’erba davanti agli occhi sconsolati dei sette viaggiatori.
«Ah, al diavolo questa robaccia. Non ho fame, sia chiaro.» dichiarò Anette, anche se tutti capirono che lo stava facendo solo per lasciare ai compagni il poco cibo che era rimasto.
«No, no, aspettate. Io non ho fame; tu, Anette, ne hai tantissima invece.» obiettò Jukka.
Anette lo fulminò con lo sguardo.
«Scommettiamo che non ho fame?»
«Oh, andiamo, sono sicuro che un buchino nel tuo stomaco lo riusciamo a trovare.»
«Mh. Solo i cretini sono assolutamente certi di qualcosa… Dio non voglia che io abbia scelto un cretino come vicecapitano, Nevalainen.»
Lui le scoccò un’occhiata divertita.
«Questo non lo so, anzi, è molto probabile, ma almeno ti sei tirata dietro un cretino inappetente.»
«Tu mangerai tutta quella roba; io non ne toccherò neanche mezza.» stabilì lei, minacciosa. «E’ un ordine, Nevalainen.»
Un sorrisetto strafottente si delineò sul viso del pirata.
«Niente nave, niente gerarchie da rispettare. Gli ordini non valgono più, dolcezza.»
Si scambiarono qualche occhiata di fuoco; lui era ironico, lei molto seria, eppure nessuno dei due voleva permettere che l’altro digiunasse per spirito di sacrificio.
«Un pacchetto di patatine su Anette» aveva sussurrato Emppu a Tuomas. Il chitarrista si divertiva un mondo, e non a torto: erano sempre terribilmente spassosi i battibecchi tra i due pirati.
Il tastierista ridacchiò.
«Ci sto, ma spiegami dove hai intenzione di trovare un pacchetto di patatine qua in giro.»
L’osservazione, fin troppo ragionevole, cadde nel vuoto, e d’altronde nemmeno Tuomas voleva insistere sul concetto. A nessuno dei due piaceva ricordare quanto la loro realtà fosse lontana e irraggiungibile.
«Tu non hai un’idea, Dominic?» domandò Lisanna, tesa verso di lui in un’espressione speranzosa. In fondo, lui aveva sempre saputo cosa fare.
Eppure, quella volta dovette scuotere la testa.
«Non posso aiutarvi, mi dispiace ragazzi. L’unica cosa che ci rimane da fare è spartirci le poche provviste che ci rimangono e rimetterci in cammino, nella speranza di raggiungere al più presto il villaggio che si trova appena fuori il lato ovest di questa foresta.»
A quel punto, Marco scattò in piedi.
«Smettetela di comportarvi come se lui fosse la soluzione ad ogni nostro problema!»
Il suo sfogo attirò l’attenzione di tutti, persino Anette e Jukka smisero di guardarsi in cagnesco per rivolgergli un’occhiata stupita.
«Insomma, siamo o non siamo in un dannatissimo bosco? Qui, l’unica cosa che non manca è la selvaggina. È tutto il giorno che ascoltiamo passetti e fruscii!»
In effetti, i viaggiatori dovettero ammettere che il guerriero aveva ragione. Quello che li preoccupava era che, forse, i fruscii erano generati di qualcosa di più intelligente e – soprattutto – più pericoloso di una lepre o un cerbiatto.
«E vorresti cacciare con quella?» fece Tuomas, indicando l’ascia che gli spuntava da dietro la schiena. Lui non si riteneva certo un esperto di caccia, anzi, però la scure gli pareva piuttosto scomoda e assai poco plausibile come arma per quel tipo di attività.
Marco non rispose, perché in effetti lo strumento gli mancava, ma invece che darsi per vinto si guardò intorno con lo sguardo di chi non ha intenzione di arrendersi tanto facilmente.
I suoi occhi si posarono su uno strano oggetto che pendeva dalla cintura di Jukka, e un sorriso trionfante gli illuminò il volto.
«Julius?» lo chiamò, mellifluo, scoccandogli un’occhiata eloquente.
Il pirata si affrettò a coprire l’oggetto con una mano, stringendolo come un uomo che vede scoperto il nascondiglio del proprio tesoro più prezioso.
«Preferisci morire di fame?» gli chiese il vichingo, per convincerlo.
Il batterista sbuffò e glielo porse, insieme ad un piccolo astuccio di cuoio.
«Trattala bene o ti faccio rimpiangere di averla sfiorata.» intimò Jukka, osservandolo minaccioso.
«Cos’è?» domandò Emppu, gli occhi che brillavano di interesse.
«Una balestra!» esclamò Marco, tutto soddisfatto. Non capitava tutti i giorni di trovarsi fra le mani un’arma del genere, e lui intendeva gustarsi ogni singolo attimo di quel suo raro privilegio.
«Non è “una balestra”.» intervenne il pirata, stizzito. «E’ veloce, piccola e più precisa di qualsiasi altra arma balistica. È la regina, la dea di tutte le balestre!»
«In poche parole, è identica alle altre, solo che è in miniatura e al posto delle frecce permette di tirare le lunghe spine d’acciaio contenute in quell’astuccio.» spiegò Anette, divertita di come si fosse offeso il compagno nel sentir sminuire in tal modo la propria arma preferita.
Sia Tuomas che Emppu osservarono quello strano oggettino con occhi completamente diversi. Doveva essere davvero micidiale.
«Bene, ora che ho tutto l’occorrente, io andrei. Tornerò quando vi avrò procurato almeno un coniglio, un cervo o uno scoiattolo.» concluse il bassista, soddisfatto. La luce tetra nel suo sguardo era quasi scomparsa, quasi si poteva dire che fosse tornato quello di pochi giorni prima.
Provò a voltarsi e muovere il primo passo verso il folto oscuro degli alberi, ma fu fermato dalla presa ferma di Dominic.
Il guerriero si irrigidì.
L’uomo-gufo si era alzato e l’aveva afferrato per un braccio, che ancora stringeva. In altezza lo eguagliava, e quando Marco puntò il gelo del proprio sguardo azzurro sul volto del rapace incontrò immediatamente la calma risolutezza che brillava nelle sue iridi gialle.
«Non andare. Lo dico per il tuo bene, davvero.»
Il bassista si divincolò rabbiosamente, sottraendosi con furia al suo tocco, e si girò per poterlo fronteggiare faccia a faccia.
«Mi dispiace, io non eseguo i tuoi ordini con il sorriso sulle labbra. Sai, sto cercando di impedire che muoiano tutti di fame, ma certo, a te cosa importa. Non mangerai mica il cibo di noi poveri umani… tu te ne vai a caccia, di notte. Oppure, ancora meglio, tu non mangi affatto. La fame, che stupida debolezza, non sia mai che tu ne venga sfiorato!»
Lisanna fremette.
Lo scintillio giallo negli occhi di Dominic si fece severo, ma l’uomo-gufo ignorò le parole colme di rabbia e ironia del guerriero e continuò a parlargli con il suo tono pacato.
«E’ una follia abbandonare la strada, adesso.»
«So badare a me stesso.»
I modi di Marco erano gelidi, ma nel fondo del suo sguardo chiaro ardeva feroce una rabbia inarrestabile.
«Ci sono cose molto più potenti di me, là dentro.»
«Sì, sono d’accordo, ma non è una novità.»
«Nemmeno io oso addentrarmici!»
«Questo perché sei un codardo.»
«Il coraggio non c’entra.»
«Valla a raccontare a qualcun altro.»
Rimasero a fronteggiarsi in silenzio per qualche bruciante attimo, immobili come due statue, l’onda del furore di Marco che andava a infrangersi contro lo scoglio della calma di Dominic.
Poi, senza aggiungere una sola parola, il bassista si girò e scomparve nel folto della foresta, senza essere più fermato da nessuno.
Dominic sospirò e tornò a sedersi, scuotendo impercettibilmente il capo.

Marco si muoveva a passi decisi e silenziosi tra il fitto fogliame della foresta. Le orecchie tese a captare qualsiasi suono che potesse avvertirlo di un possibile pericolo, gli occhi attenti ad esaminare ogni singola foglia nella ricerca della pelliccia o della coda di qualche animale commestibile e un largo sorriso di trionfo stampato sul volto.
Quel pomeriggio era riuscito a tenere testa all’impeccabile Dominic, era riuscito a dimostrare davanti a tutti chi era nel giusto, e chi nello sbagliato. Inutile dirlo, si sentiva vincitore, era orgoglioso di sé stesso.
Uno strano scalpiccio lo distolse dai propri pensieri, e allora si costrinse a catalizzare tutta l’attenzione di cui era capace al compito che si era dato da svolgere. Non avrebbe deluso i suoi compagni, avrebbe portato loro una bella preda. Strinse nella mano la balestra, incoccando intanto una delle spine per precauzione, per averla già pronta nel caso gli servisse.
Si fermò, tutti i sensi all’erta.
Sì, lo scalpiccio c’era ancora; era debole, ma c’era. All’orecchio sembrava un passo animale, non aveva nulla a che fare con i suoni innaturali che li avevano tormentati per tutta la mattina, perciò il guerriero prese coraggio e si decise a seguirlo inoltrandosi ancora di più nell’oscurità che la pesante cappa di quelle spesse foglie nere generava. Non temeva di perdere la via, sapeva di possedere un eccellente senso dell’orientamento, che l’aveva aiutato spesso nei momenti di difficoltà durante le tante battaglie vissute.
Dapprima il rumore dei passi dell’animale sembrò allontanarsi inesorabilmente, fino a diventare solo un lieve sussurro, ma il bassista non volle darsi per vinto e continuò a seguirlo ostinatamente, finché il suono che aveva seguito così fiduciosamente non si avvicinò sempre di più. Stava quasi per raggiungerlo quando andò a sbattere contro qualcuno, troppo concentrato sul proprio obiettivo per accorgersi della figura che si era parata davanti a lui.
Caddero insieme sull’erba, ma il guerriero fu rapido a mettersi in piedi e puntare la propria arma verso lo sconosciuto; nonostante l’aria spavalda e sicura di sé che aveva voluto mostrare a tutti i costi perché lo lasciassero andare via da solo, aveva paura di ciò che di sovrannaturale si poteva nascondere tra quei tronchi oscuri e contorti. Aveva sentito delle leggende terribili, da bambino, che ancora popolavano i suoi incubi notturni, e non aveva proprio voglia quel pomeriggio di entrare anche lui a farne parte.
Con suo grande stupore, però, non aveva nulla di innaturale l’uomo che aveva travolto.
«Tuomas!» esclamò il bassista, interdetto.
Ed era proprio lui, per terra, con i suoi abiti scuri ed eleganti, i lunghi capelli corvini scarmigliati che gli scendevano intorno alle spalle e lo sguardo intenso degli occhi grigio-azzurri.
Eppure, c’era qualcosa che non andava.
«Che cosa ci fai qui?»
La risposta che ricevette fu uno sguardo terrorizzato. Il tastierista lo guardava, senza parlare, lo implorava di aiutarlo, di portarlo via da quello che lo stava spaventando a tal modo.
Fu allora che Marco si accorse della gamba destra dell’illusionista: era abbandonata sull’erba a peso morto, dove tingeva il terreno di fiotti di sangue.
Il bassista sbiancò.
«Oddio… oddio, Tuomas, cos’è successo? Dove sono gli altri?»
Il tastierista scosse la testa – era sul punto delle lacrime – e tese una mano verso l’amico, una muta e disperata richiesta d’aiuto che il guerriero non ebbe cuore di rifiutare. Gli diede la mano, che l’amico strinse con una forza sorprendente.
Poi, tutto accadde molto velocemente.
Tuomas si alzò e cominciò a correre, trascinandosi dietro il bassista, senza che quest’ultimo potesse fare nulla. Corsero, corsero a perdifiato e senza mai fermarsi, corsero così veloci che presto Marco perse quel senso dell’orientamento di cui si era tanto vantato e non seppe più distinguere il nord dal sud, la destra dalla sinistra, sapeva solo che intorno a lui sorgevano maligni i tronchi contorti degli alberi e che davanti a lui c’era la figura di Tuomas che correva.
Quando si accorse che si stavano addentrando ancora di più nel folto della foresta, verso destinazioni a lui sconosciute, Marco cercò di divincolarsi dalla presa del compagno, nel tentativo di fermarlo e farlo ragionare, ma Tuomas non volle ascoltare ragione e continuò a portarlo chissà dove, gli occhi ancora pieni di quella paura potente e indescrivibile. Dopo qualche metro, però, Marco decise di mettere fine alla loro fuga folle e si fermò di botto, sfruttando tutta la propria forza per liberarsi della stretta dell’amico, che era stato anche fin troppo energico per essere uno ferito a tal modo.
«Basta, calmati! Dove sono gli altri? Da cosa stiamo scappando?»
Ovviamente, il compagno non soddisfò le sue nuove domande, come non le aveva soddisfatte prima. Si bloccò, invece, dandogli le spalle, e un inquietante silenzio cadde su di loro.
L’unica cosa che Marco vide, prima di essere scagliato violentemente contro un tronco d’albero, fu il sorriso crudele che segnava il volto di Tuomas come una brutta cicatrice.
Prima venne la schiena. Una sensazione di vuoto nei polmoni, il desiderio di respirare ma un nodo all’altezza della gola che lo costringeva a risputare indietro con dei violenti colpi di tosse tutta l’aria che cercava disperatamente di ingoiare.
Dopo, la testa. Un dolore sordo all’altezza della nuca, il mondo attorno a lui che si tingeva prima di rosso e sfumava poi lentamente in un oblio nero al confine con l’incoscienza.
Una vaga consapevolezza si stava facendo strada nella sua mente, a fatica, giungeva ovattata dai meandri della coscienza che però lui era così ansioso di abbandonare.
Tuomas lo aveva colpito. Tuomas ferito, Tuomas terrorizzato, Tuomas che aveva chiesto così angosciosamente il suo aiuto.
Dove diavolo aveva trovato tutta quella forza?
Marco si costrinse ad aprire gli occhi, a rifiutare la pace che l’incoscienza gli stava generosamente offrendo.
Sapeva che se ne sarebbe pentito, ma doveva capire.
Un bosco fitto, una radura, circondata dagli occhi maligni di migliaia di alberi neri ed opprimenti.
Non gli era nuovo, come paesaggio; sì, sapeva dove si trovava. Era già un inizio.
Dietro di lui, la ruvida corteccia di un albero. Dolore, forte dolore alla testa.
Ricordava anche cosa aveva causato quelle sensazioni. Brutti ricordi.
Ma Tuomas? Dov’era? Perché aveva compiuto un gesto simile? Il guerriero cercò febbrilmente lo sventolio dei suoi capelli neri, lo scintillio dell’elsa finemente cesellata che gli spuntava dalla cintura, ma non fu difficile incontrare la figura del compagno: era lì, si stagliava al centro della radura, esattamente come quando Marco l’aveva costretto a fermarsi.
No, un attimo, c’era qualcosa di sbagliato. Perché si stava contraendo? Perché stava lentamente cambiando forma? Cos’erano quelle inquietanti protuberanze che gli stavano spuntando dalla schiena?
Il bassista scosse la testa, come a scrollarsi di dosso qualcosa di indesiderato, e allora si riprese completamente dallo stordimento della botta ricevuta.
Sgomento, rabbia. Terrore.
Non era Tuomas il mostro che l’aveva condotto fin lì. Si era lasciato ingannare.
Il guerriero scattò in piedi e saltò di lato, appena in tempo per evitare un colpo degli artigli della creatura che era comparsa davanti a lui al posto dell’amico. Tre solchi profondi si delinearono sul tronco, esattamente nel punto in cui un attimo prima si era trovato Marco, e la creatura lanciò il proprio disumano grido di rabbia.
Il bassista ebbe un tremito di paura, ma si costrinse a sguainare l’ascia e a portarsi in posizione di difesa, gli occhi fissi sul suo nemico, il cuore che gli martellava terrorizzato in petto.
Aveva sconfitto eserciti – la guerra era il suo mestiere –, ma mai aveva provato tanta paura nell’impugnare la propria arma.
La creatura si girò verso la propria preda, e puntò su di lui l’ombra nera del suo sguardo.
Era una figura umanoide, sottile e longilinea eppure immensamente più forte di Marco. Gli arti superiori terminavano in cinque dita in realtà dure ed affilate come pugnali, ed il viso dalle proporzioni umane era segnato dalla sinistra presenza di due grandi occhi vitrei, completamente neri. Alle sue spalle si apriva un paio di immense ali dalla membrana sottile, che la creatura a volte sbatteva provocando forti spostamenti d’aria.
Doveva essere un demone, almeno secondo le poche confuse descrizioni che gli avevano fatto di quegli esseri spaventosi sempre affamati di carne umana.
In effetti, la maggior parte delle creature maligne seguiva quella simpatica dieta.
Marco digrignò i denti e strinse il manico della propria arma. Era stato sciocco, ma era pronto a pagare il prezzo del proprio errore. Comunque fosse, avrebbe venduto cara la pelle.
Il demone si scagliò verso di lui, ma il guerriero lo stava aspettando e schivò con una maestria dettata dall’esperienza. Fu allora che calò il colpo d’ascia, mirato a tranciare una delle lunghe braccia della creatura, ma naturalmente fu un fendente che non andò a segno, il suo avversario possedeva una velocità fuori dal comune e così la scure si conficcò pesantemente nel terreno.
Mentre la estraeva, lasciando un solco profondo nell’erba della radura, il bassista desiderò ardentemente una spada. Solitamente, lui giocava di forza, ma era una cosa che non poteva fare contro un nemico come quello; avrebbe tanto avuto bisogno dell’agilità che la spada gli avrebbe conferito.
La creatura attaccò una seconda volta, ma allora Marco fu più lento a spostarsi e subì il colpo direttamente sul corpetto che gli proteggeva il ventre. Le dita mortali del demone rimasero incastrate nel cuoio, e sulla sua pelle si delineò solo qualche graffio leggero. Purtroppo, però, non ebbe tempo per il sollievo, perché il mostro lo scaraventò lontano per la seconda volta, strappandogli la protezione di dosso e lanciandola lontano.
Il guerriero si ritrovò a rotolare scompostamente per terra, finché la sua corsa non fu interrotta da uno dei tanti, maledetti alberi, dove lui si schiantò di nuovo con un gemito di dolore.
Aveva ancora sbattuto la testa; poteva sentire il sangue scorrergli caldo sulla cute e imporporare i suoi capelli biondi.
Tentò di rimettersi in piedi, ma la schiena gli mandò una lunga e lancinante fitta di dolore non appena provò a piegarla, e allora si lasciò andare contro il tronco e volse gli occhi verso il demone, che si avvicinava.
La sua ascia giaceva a terra, a qualche metro di distanza, ma gli era rimasta la piccola balestra di Jukka. La impugnò, mirò con cura verso il petto del demone e scagliò poi il suo proiettile, con il cuore in gola.
La spina fendette l’aria, fulminea, impossibile da schivare. Fu un tiro perfetto: l’arma andò a conficcarsi esattamente al centro del torace nero del suo nemico.
Eppure, quello non ebbe reazioni: la tolse, la gettò via e continuò ad avanzare verso di lui. Allora Marco capì di essere perduto, e si diede dello stupido.
Già se lo vedeva, un gruppo di ragazzini incoscienti e spauriti allo stesso tempo; uno di loro avrebbe fatto lo spaccone, avrebbe tentato di inoltrarsi da solo in una macchia d’alberi, e gli amici l’avrebbero fermato raccontandogli di quella volta che un guerriero mercenario abbandonò il sentiero per andare a cacciare, e fu brutalmente trucidato da un demone di passaggio. “Non rimase nulla di lui”, ecco come finivano tutte le leggende di quel tipo, e la fine della sua non sarebbe stata diversa.
Il braccio alzato del demone, pronto a colpire, a colpire per uccidere; lo spietato luccichio dei denti della creatura, che presto si sarebbero macchiati di sangue. E poi, un frullio di ali, un gemito di fatica, un irato urlo di sorpresa che aveva un che di sovrumano.
Marco spalancò gli occhi, sgomento, ed incontrò un paio di occhi gialli fin troppo conosciuti.
Dominic era piegato verso di lui, lo osservava preoccupato, le grandi ali piumate spalancate dietro di sé e il petto ansimante.
«Come stai?»
Il bassista ebbe una smorfia. Tra tutte le persone che potevano venire a dargli una mano…
«Sto benissimo.»
Chissà perché, la preoccupazione nello sguardo dell’uomo-gufo non si placò, e il guerriero provò un senso di bruciante irritazione. Odiava la sua compassione; ma soprattutto, odiava la prospettiva di dover ammettere che Dominic aveva sempre avuto ragione.
Il gufo stava per chiedergli qualcosa, ma non fece in tempo a dire nulla che un lungo grido squarciò la sinistra quiete del bosco.
Dominic si girò, vide la creatura che lo osservava con i grandi occhi neri ardenti di una rabbia feroce. Poi, si gettò verso il suo nuovo nemico.
Fu uno scontro epico.
Da una parte il gufo, fiero e bellissimo, dall’altra il demone, una vera e propria macchina di morte dal volto crudele. Il secondo attaccava, si muoveva rapido e letale, distruggendo tutto ciò che si trovava tra lui e il suo avversario con le lunghe dita mortali e affilate. Il primo usava la magia: controllava gli alberi attorno a sé, era un tutt’uno con la foresta, la foresta lo salvava dai colpi del nemico ed arrivava per lui dove non riusciva a colpire.
La battaglia finì in cielo: sfinito, Dominic tentò di portare la creatura in un luogo a lui più congeniale. Tese le ali, le batté più volte e infine schizzò oltre le fronde scure che si chiudevano sopra di loro come un tetto. Ovviamente, il demone lo seguì subito, dimentico della propria precedente preda, la quale non poté fare altro che confidare con tutto sé stesso nelle capacità dell’uomo-gufo.
Era vero che lo odiava, ma non abbastanza da desiderare la sua morte, anche perché non avrebbe sopportato l’idea di averlo sulla coscienza.
Passarono i minuti. Minuti di angoscia, di flebili speranze, di terribili pensieri pessimistici.
Poi, i rami che gli sbarravano la strada si aprirono violentemente e una figura alata eseguì il proprio goffo atterraggio nella radura.
Marco quasi esultò, nel riconoscere i lunghi capelli castani della sua guida, ma subito dopo inorridì nel vederne le condizioni. La sua gamba sinistra strisciava inerme sul terreno, dove vi stava lasciando una piccola pozza di sangue, e una delle grandi ali color caffelatte era piegata in una terribile posa innaturale.
«Riesci ad alzarti, Marco?» gli domandò il gufo dopo qualche istante, la voce profonda rotta dal dolore.
Il guerriero annuì, ignorò le atroci fitte alla schiena e mosse qualche passo incerto verso il suo salvatore.
Raccolse la propria ascia e se la appese alla cintura – non sarebbe mai riuscito a rinfoderarla, dietro di sé –, poi tornò dall’uomo-gufo e lo sollevò piano, facendo in modo che si appoggiasse a lui con tutto il peso.
«Vai verso nord» mormorò Dominic, mentre zoppicava addosso al bassista.
Marco osservò per un attimo i tronchi degli alberi attorno a loro, poi annuì e mosse qualche passo deciso alla propria sinistra.
Sarebbe stato un viaggio sfiancante, lo sapeva. Sentiva il sangue colargli caldo lungo il collo, la schiena gli bruciava infernale ad ogni passo e già attorno agli occhi cominciavano a danzargli quegli insopportabili puntini colorati che lo coglievano sempre al momento sbagliato.
Ma non poteva lasciare che le forze lo abbandonassero, ne era ben consapevole. Si era fatto carico di un compagno ferito – compagno che tra l’altro gli aveva salvato la vita –, ed era deciso a portare a termine con successo almeno quell’ultimo compito.

Arrivarono all’accampamento in uno stato di semi incoscienza. Marco crollò a terra, svenuto, e Dominic cadde rovinosamente insieme a lui, benché l’uomo-gufo fosse ancora lucido.
Ormai si era fatta sera, e comunque nessuno avrebbe mai voluto mettersi in cammino con due compagni in quelle condizioni. Così, tutti si diedero da fare per preparare il campo in vista delle tenebre e aiutare in qualche modo ad assistere i feriti nella guarigione.
Jukka si prodigò nel cercare erbe, radici e medicamenti vari; si scoprì che era un eccellente guaritore, e che fungeva lui da medico di bordo tra le vele della Dark Passion. L’unica difficoltà che incontrò fu nel curare l’ala di Dominic: non aveva mai sperimentato le proprie tecniche di guarigione sugli animali, e dovette farsi spiegare dall’uomo-gufo quale fosse, a grandi linee, la conformazione di un’ala d’uccello. Alla fine, però, riuscì a rimetterla in assetto – dopo una serie di lunghe e dolorosissime manipolazioni – e a steccargliela alla bell’è meglio con i pochi strumenti di fortuna che era riuscito a raccattare.
Quando si risvegliò, Marco non volle dire nulla. Incontrò gli sguardi preoccupati di tutti, ma non ebbe la forza di guardare in faccia Lisanna e si ritirò in silenzio in un angolo del campo.
Sia Jukka che Emppu avevano ritenuto che fosse meglio lasciarlo solo, e non dirgli nulla, ma Anette volle lo stesso andare da lui e potergli parlare.
Gli si accovacciò di fianco e lo scrutò intensamente per qualche minuto; il bassista la ignorò, ma sapeva che prima o poi avrebbe parlato e che le sue parole l’avrebbero irritato.
«Odio dovertelo dire, Marco.» esordì poi lei.
«E io odio doverlo sentire. Non è meglio per entrambi, quindi, lasciar perdere questo discorso?»
«Sei stato uno stupido.»
Lo sguardo di Marco, se possibile, s’incupì ancora di più. Perché glielo veniva a dire? Credeva forse che lui non lo sapesse?
«Se sei venuta a dirmi cose che so già…»
«Sai qual è quello che mi preoccupa?»
«Che con un altro colpo di testa vi mandi a morte tutti quanti?»
«Che tu non sei affatto stupido.»
Calò un silenzio stupito e lui, per la prima volta dall’inizio della loro indesiderata discussione, la guardò in faccia. C’era una grande serietà, nel fondo dei suoi occhi azzurro ghiaccio.
«Io ti capisco, sai? Siamo entrambi guerrieri. Entrambi ci siamo trovati strappati dal nostro contesto abituale, dalla nostra vita, e siamo stati costretti a seguire i deliri di due pazzi abbandonando tutte le nostre sicurezze e tutti i nostri punti fermi.»
Il bassista sorrise, e levò lo sguardo verso Tuomas ed Emppu, intenti ad accendere i fuochi che circondavano l’accampamento sotto la supervisione di Jukka. Facevano quasi tenerezza, sapevano di non poter essere d’aiuto ma si ostinavano sempre a voler dare una mano, pur non conoscendo nulla di quel mondo selvaggio e crudele che era chiaro non essere il loro.
«Sono sicuramente due folli visionari, ma io credo in quello che dicono.»
Anette sorrise insieme a lui.
«Anch’io. E questa è la cosa peggiore.»
Lui tornò a guardarla, e allora si accorse di quanto era vero quello che lei gli aveva detto. Avevano realmente in comune molte più cose di quanto potessero immaginare.
«Nemmeno a me Dominic sta granché simpatico.» aggiunse poi la piratessa. «Però dobbiamo imparare a sopportare alcune cose, se ci possono aiutare quando siamo in difficoltà.»
«Tu credi davvero che lui possa esserci d’aiuto?»
«Ti ha salvato la vita, Marco. E per farlo si è rotto un’ala e ha rischiato di farsi staccare una gamba. Ancora ti ostini a dubitare di lui?»
Il bassista non rispose, ma rimase ad osservare pensoso l’oscurità attorno a sé. Capiva il discorso della cantante, ma c’erano ancora troppi interrogativi che lo tormentavano riguardo alla loro guida. Certo, non avrebbe mai potuto dimenticare quello che era successo quel pomeriggio con il demone, e lui non era un ingrato, non lo era mai stato. Eppure, ancora qualcosa non quadrava, ancora aleggiava quell’aura di artefatto intorno alla figura di Dominic.
«Sai, Anette, adesso so perché sei diventata capitano.»
Lei gli rivolse un largo sorriso, e si alzò.
«Pensaci.» gli disse prima di allontanarsi e tornare dagli altri.
Marco sospirò, si passò una mano sul volto stanco e rifletté su ogni singola decisione che l’aveva infine portato fino a lì.
Dopo qualche minuto, venne Tuomas.
Lui si sentiva particolarmente in colpa, aveva saputo che il demone aveva preso le sue sembianze per condurre Marco nel folto della foresta e in qualche modo si sentiva responsabile delle ferite che Marco e Dominic avevano riportato.
Arrivò con una delle due mele rimaste, la lanciò all’amico e si sedette di fianco a lui, in silenzio.
Marco lo guardò di striscio, seppe che il compagno non aveva mangiato per potergliela dare, ma dovette ammettere di essere mortalmente affamato e la accettò con gratitudine.
Si era aspettato che l’illusionista cominciasse a parlare, e invece non era stato così.
Rimase in silenzio, di fianco a lui, ad osservare le poche stelle che si potevano scorgere attraverso le foglie delle fronde chiuse sopra di loro. E il bassista apprezzò quel gesto più di mille discorsi.

Dominic era dall’altra parte del campo rispetto a Marco, anche lui in disparte, anche lui in silenzio, anche lui a guardare le stelle. Davanti a lui c’era Lisanna, gli stava cambiando le fasciature alla gamba, mentre tentava di non soffermarsi troppo sulla brutta ferita o sul sangue di cui le bende erano impregnate.
Marco era stato uno stupido, un incosciente, e questo la faceva soffrire. Non voleva che lui si comportasse così, non avrebbe mai voluto essere costretta a considerarlo come un pericolo. Eppure, alla fine dei conti, rimanevano i fatti; il peggio era che anche Dominic aveva rischiato la vita, per colpa sua.
«Non devi essere arrabbiata con lui. Voleva solo aiutare.»
Nel sentire la voce bassa dell’uomo-gufo, Lisanna non riuscì ad impedirsi di arrossire.
«Non è vero, sapeva che i rischi che avrebbe corso sarebbero stati di gran lunga superiori ai benefici che ne avrebbe ricavato. L’ha fatto per spavalderia. È solo che non capisco come mai si comporti in questo modo. Lui… non è così.»
Lo sguardo che Dominic le scoccò fu indecifrabile.
«Lo devi conoscere davvero bene.»
Lei aggrottò la fronte e scosse la testa.
«…No.»
In effetti, non lo conosceva affatto. Eppure, quel vichingo dal cuore d’oro aveva un che di familiare, ogni sua parola o gesto erano in qualche modo impressi in una memoria che lei non avrebbe dovuto avere. Si erano incontrati solo pochi giorni prima.
Dominic sorrise, eppure c'era qualcosa di triste nella sua espressione.
«Sarà l’amore, allora. Siete promessi da molto?»
Lisanna avvampò.
«Assolutamente no! Non siamo proprio niente!»
Lui si stupì.
«Ma io… credevo…»
Lei gli fece cenno di no con veemenza.
«Non c’è nulla da credere! Lo conosco appena.»
Un impercettibile sorriso si delineò sul volto dell'uomo-gufo.
«So che non dovrei, ma ne sono felice.»
Le mani di Lisanna si bloccarono, tutto in lei divenne pietra, tranne il suo cuore, che prese a battere all’impazzata.
Levò il proprio sguardo, sconcertato, su Dominic. Sperò di aver frainteso le sue parole.
«Non sarebbe stata una bella notizia… per me… sapere che il tuo cuore appartiene già a qualcun altro.» mormorò lui, l’intensità dei suoi occhi gialli posata altrove.
Un nodo le si formò in gola, un nodo indistricabile, le impediva di respirare e di pensare lucidamente.
Dominic? Quella creatura così perfetta, così saggia, così… inumana… che affermava una cosa simile?
«…Scusami. Ho osato troppo, scusami.»
E lei? Lei cosa voleva?
«No. Non è vero.»
Ma perché, perché quelle quattro parole erano state le uniche che le fossero venute in mente?
Lui le sorrise.
Una volta, quel sorriso l’avrebbe fatta emozionare, ma ora la spaventava soltanto.
Lui avvicinò una mano alla sua guancia, lei non si spostò d’un millimetro – benché desiderasse molto di sottrarsi a quel tocco –, le dita color cappuccino dell’uomo-gufo le bruciarono sulla pelle come una ferita.
E dopo, vide il bellissimo viso di Dominic avvicinarsi al suo, vide i suoi occhi gialli farsi sempre più vicini, finché una forza misteriosa non la costrinse a chiudere le palpebre. Sentì la morbidezza delle sue labbra, sentì il suo dolce sapore, le sue braccia calde avvolgerla e stringerla al petto scolpito.
E lei, lei ricambiò il bacio, con il terrore che le serrava le viscere.
Non provava felicità, né calore, né amore. Neppure indifferenza o apatia.
Provava la paura più cieca che fosse mai riuscita ad immaginare.

A Marco si mozzò il fiato.
Rimase così, ad osservare con occhi interdetti e addolorati il lungo bacio appassionato che si stavano scambiando il suo peggior nemico e quella che una volta aveva voluto fosse la sua donna.




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Capitolo 13
*** Maschere, inganni e tradimenti ***


Marco si svegliò con la sensazione di aver ingoiato litri e litri di fiele, senza sosta, per tutta la notte.
Si alzò a sedere, strofinandosi la faccia con una mano nel tentativo di eliminare l’annebbiamento che si era trascinato via dal sonno, e si guardò intorno smarrito.
Gli alberi, le sagome degli altri addormentati, il fumo dei falò ormai spenti, tutto era mortalmente silenzioso e buio. Era notte fonda, e lui sentiva il disperato bisogno di sgranchirsi un po’ le gambe, invece che di rimettersi a dormire e riposarsi in vista del cammino estenuante che l’avrebbe aspettato all’alba.
Rimase ancora un attimo a pensarci – riposare sarebbe di certo stata la decisione più saggia –, ma alla fine il malumore ebbe la meglio sul buonsenso e il guerriero si ritrovò a vagare per il campo, come un fantasma alla ricerca della pace eterna.
Vide Jukka, incaricato al turno di guardia, appoggiato ad un albero che russava leggermente. Marco sorrise tra sé e lo raggiunse a passi leggeri. Rimase ad osservarlo per qualche attimo, quasi divertito, poi gli poggiò una mano sulla spalla e lo scosse leggermente.
Il pirata spalancò subito gli occhi e si lanciò via dal tronco, con il cuore in gola.
Quando riconobbe la figura scura del vichingo e decise che non si trattava di un pericolo, tirò un sospiro di sollievo e i suoi occhi tornarono di dimensioni normali.
«Merda.» sussurrò, tornando a sedersi accanto al tronco. «Se tu fossi stato un nemico sarei morto senza neanche accorgermene.»
Lo sguardo di Marco si fece comprensivo, memore delle lunghe veglie tese quando ancora esercitava la propria professione negli eserciti.
«Dai, stacca, Jukka. Ci penso io qui.»
Il pirata lo guardò, combattuto tra il sonno e il riguardo nei confronti dell’amico, ma il guerriero lesse la sua esitazione e lo esortò ad addormentarsi.
«Tanto io non riesco a dormire, quindi il tuo sacrificio sarebbe inutile.»
A quel punto, Jukka si alzò per andare al proprio posto accanto agli altri, mormorandogli qualche parola di sincera gratitudine.
Per la prima mezz’ora, tutto quello che fece Marco fu osservare la notte attorno a sé, veglio, vigile, nonostante i suoi pensieri vagassero in tutt’altre direzioni. E poi, quella sera le tenebre erano talmente tranquille da far venire una mezza idea di sonno persino ad un iperattivo come lui.
Pensò al combattimento contro al demone, mentre si accorgeva del ronzio soffuso che gli si propagava in testa, eco di un dolore ben più lancinante. Si portò cautamente le dita alla ferita che aveva sulla nuca, ma una fitta improvvisa lo fece trasalire e si affrettò a togliere la mano.
Sospirò. 
Ricordava bene anche chi lo aveva salvato. Dominic.
Un dolore completamente diverso da quello che aveva provato alla testa si allargò nel suo petto, e lui lasciò che la sua lenta agonia lo pervadesse in silenzio.
Era stato sciocco ad affezionarsi a quella ragazza, Lisanna. Era così logico che lei desiderasse qualcuno migliore. Qualcuno che non fosse così impaziente o così inquietante, qualcuno che non maneggiasse un’ascia come se fosse uno stuzzicadenti e che non sorridesse mentre uccideva in battaglia. Qualcuno che non portasse lunghi capelli biondi e una barba intrecciata ad inneggiare un’antica discendenza vichinga. Qualcuno che invece di mostrare orgogliosamente rughe e cicatrici le nascondesse. E qualcuno che, al contempo, fosse anche abbastanza forte da proteggerla meglio di quanto un mercenario imperfetto era stato in grado di fare.
Imperfetto.
Sorrise.
Una parola di cui un tempo era andato orgoglioso. Ma in quel momento, di fronte alla concorrenza del bellissimo uomo-gufo, Marco si accorgeva della sua irrimediabile fragilità.
Piccola Lisanna…Nemmeno lui, così abituato a cedere alla bruciante tentazione della vendetta, riusciva ad essere arrabbiato con lei. Dopotutto, lei che colpa ne aveva se non era stato in grado di competere? Era costretto ad ammettere che, oggettivamente, Dominic era una scelta molto più sensata. Forte, bello, abile, sicuro, gentile, bravo a combattere così come ad orientarsi. Forse Marco avrebbe potuto dire di sé stesso solo le ultime due cose, ignorando tutto il resto.
Prese un respiro profondo, e si rese conto che continuare a pensare al suo fallimento l’avrebbe portato alla pazzia. Meglio mettersi il cuore in pace, andare avanti, per quanto possibile.
Si amavano? Ebbene, lui li avrebbe lasciati ad amarsi, tenendosi per sé qualsiasi emozione.
Fosse pure il rimpianto, la rabbia o il dolore.

Appena gli altri si svegliarono cominciarono a marciare, e non smisero più. Continuarono a camminare, con la sensazione di dover andare avanti così per l’eternità. Un passo seguiva l’altro, meccanicamente, gli alberi scorrevano lentamente ai lati del sentiero mostrando ai viaggiatori sempre lo stesso deprimente paesaggio, lasciandoli privi di forze e di qualsiasi vaga forma di speranza.
L’unica cosa che li salvava dall’apatia dello stremo più totale era il terrore; sapevano che, nelle condizioni in cui si trovavano, sarebbero morti tutti se fossero stati attaccati da un’altra delle creature spaventose che popolavano la foresta.
Jukka era riuscito a fabbricare una stampella a Dominic, il quale però era lo stesso costretto a procedere a fatica, cosa che rallentò notevolmente il gruppo e gettò un velo di sconforto tra di loro. Era come se l’aura d’invincibilità che si era sempre portato dietro fosse svanita nel nulla – ora zoppicava, ferito, come avrebbe potuto essere chiunque tra loro –, e come avrebbero fatto a superare le insidie che li aspettavano, senza l’aiuto di un dio immortale dalla forza sovrumana?
Nonostante la condizione precaria, però, l’uomo-gufo non mancava mai di incoraggiarli, e di sorridere a coloro che volgevano i propri sguardi demoralizzati verso di lui.
«Manca poco: ancora un’oretta di cammino, poi dovremmo incontrare il corso d’acqua di cui vi parlavo.» diceva, ma ormai, chi credeva più alle sue parole? Il sentiero s’inoltrava tra gli alberi come miglia e miglia prima, nulla sembrava cambiare attorno a loro e  tutto ciò che faceva capire ai viaggiatori di non star girando in tondo erano i sassi irregolari disseminati lungo la striscia di terra battuta che stavano percorrendo.
A un certo punto, sfinito, Emppu imbracciò la chitarra e si lanciò in qualche sommesso giro di note, nel tentativo di distrarsi, di spezzare la claustrofobia che li stava stritolando, e questa volta nessuno glielo impedì.
Per un tempo indefinibile andarono avanti così, trascinandosi attraverso il sottobosco, i passi scanditi dalla musica di Emppu e gli occhi stanchi posati sul terreno. Le fronde degli alberi coprivano il cielo, talmente fitte da gettare il bosco in una penombra soffocante, tanto da rendere impossibile capire se il sole brillasse ancora alto nel cielo, o se fosse stato rimpiazzato dal manto nero di luna e stelle.
Nemmeno la fame, che solitamente era un buon metodo per scandire il tempo, poteva fornire loro un aiuto, tanto era forte ed insistente già quando si erano svegliati la mattina, come vendetta per una serata passata praticamente a digiuno.
Solo quando la musica di Emppu s’interruppe di colpo, e si ritrovarono immersi in un silenzio sinistro colmo di suoni sconosciuti a cui non erano più abituati, i viaggiatori ebbero la forza di alzare gli occhi da sotto di loro ed osservare la figura del bardo immobile, in ascolto.
«Cos’è successo?» domandò Tuomas, gli occhi pieni d’ansia al pensiero di incontrare uno dei leggendari abitanti dei boschi.
«Shhh» mormorò l’amico, e allora tutti si zittirono. «Non lo sentite, questo rumore?»
Di nuovo sprofondò tutto nel silenzio, e in quel silenzio ogni membro della loro strana compagnia tese le orecchie per afferrare il suono lontano che aveva catturato l’attenzione di Emppu.
Fu Jukka il primo a capire, e un largo sorriso – a metà tra la felicità, il sollievo e l’incredulità – gli si dipinse in volto.
«Acqua!» esclamò.
Allora, uno ad uno, sorrisero tutti.
«Acqua!» ripetevano, concitati, mentre riprendevano la marcia con un’energia di cui loro stessi si stupirono per primi.
«È questo? È questo il fiume di cui parlavi?» chiedeva senza sosta Tuomas a Dominic.
Quasi l’illusionista non ci credeva; dunque, il loro viaggio era davvero giunto alla fine?
L’uomo-gufo annuiva, zoppicando in maniera quasi buffa sulla sua stampella, nel tentativo di seguire il passo degli altri che si era fatto frenetico.
«Sì, sì, è questo, è questo per forza, non ce ne sono altri nei paraggi!» rispondeva.
Il paesaggio del bosco, però, non andava migliorando come avevano sperato, anzi, peggiorava: i tronchi si facevano più fitti e più scuri, i loro ghigni erano più beffardi, e ben presto alcuni sottili grumi di nebbia cominciarono ad avvilupparsi come tentacoli attorno alle caviglie dei viandanti.
Quando finalmente giunsero sulla riva del fiume la nebbia era cresciuta ed aleggiava sopra a qualunque cosa: sopra le foglie, sopra i rami e sopra le rocce, tingendo tutto della sua spettrale sfumatura di grigio pallido.
Persino le acque lente e placide davanti a loro erano grigie, grigie ed opache, tanto che era impossibile per il gruppo tentare di scorgere il letto di sassi sotto di esse.
Lì i viaggiatori si fermarono, e lì il loro entusiasmo morì del tutto; più che la salvezza, quel corso d’acqua sembrava l’ennesima strada senza via d’uscita.
Gli alberi oltre alla riva opposta non si vedevano neppure, avvolti dal grigio opalescente della nebbia sempre più fitta, e il fiume stesso pareva portare verso il nulla. Persino la tranquillità delle sue acque risultava sinistra.
L’unico ad avere il coraggio di esporsi per primo fu Marco, che si staccò dal gruppo per avvicinarsi cautamente alla riva sassosa davanti a sé e osservare l’acqua da vicino. Con un certo disappunto notò di non riuscire a distinguere nulla nelle acque torbide; eppure, poteva vedere perfettamente la piccola barchetta di legno ormeggiata a riva che ondeggiava in balia della corrente.
Tornò dagli altri con la faccia scura.
«Non mi piace.» esordì. «Intravedere il fondale è impossibile, e non saprei stimare ad occhio quanto possa essere profondo: non consiglio di guadarlo. Ho paura persino ad immergerci un braccio, non si può sapere che cosa ci sia lì dentro.»
Le sue parole furono accolte da un silenzio tombale.
«Il dettaglio più inquietante di tutto questo è che c’è una barca ormeggiata lì. Sembra quasi che ci stia aspettando.»
Dominic annuì, serio.
«Dovremo imbarcarci.» decise.
Marco strabuzzò gli occhi.
«Cosa?»
L’idea di solcare quell’acqua opaca e sconosciuta pareva al guerriero del tutto inconcepibile. Anche agli altri non piaceva, perciò l’uomo-gufo si ritrovò accerchiato dagli sguardi interrogativi di tutti – e da quelli sconvolti di Marco –.
«Non lo faremo se voi non siete d’accordo con me.» si affrettò subito a dire «Ma ho pensato che la barca sarebbe stata una buona idea. Siamo sfiniti ed affamati, ed io non faccio che rallentarvi con questa ferita: se ci lasciassimo trasportare dalla corrente del fiume potremmo riposarci, ed arrivare a destinazione più velocemente. Senza contare che il villaggio che stiamo cercando di raggiungere sorge proprio su queste rive.»
Le sue argomentazioni vennero accolte dal gruppo con un silenzio pensoso. In effetti, non facevano una piega, ma questo non servì a rassicurarli.
«Mi domando a quale uomo possa mai venire l’idea di costruire lungo le rive di questo fiume» mormorò Anette gettando un’occhiata alla placida corrente, quasi come se parlasse a sé stessa.
Dominic le sorrise, bonario.
«Può sembrare davvero incredibile, ma è così.»
«Ma come facciamo a sapere che nel fondale non si nasconde chissà cosa?» domandò a sua volta Emppu, sempre più terrorizzato all’idea di dover sostenere una battaglia contro chicchessia. Gli erano bastati i pirati, di gran lunga.
«Non percepisco la presenza di niente di maligno sott’acqua e, nel guidarvi attraverso la foresta, il mio istinto non mi ha mai ingannato.»
Sulla sua ultima affermazione nessuno poteva dire niente: era tutto stato sorprendentemente tranquillo, tra gli alberi, e l’unico incidente che c’era stato con una creatura sovrannaturale non era certo da imputare al gufo.
Calò un silenzio teso, sapevano di dover decidere delle proprie vite in quell’esatto momento, ed era un peso che non erano sicuri di poter sopportare. Solo Marco pronunciò la propria sentenza, subito, uno sguardo sicuro negli occhi azzurri.
«D’accordo. Va bene. Voglio concederti una possibilità.» ignorò le occhiate sbigottite degli altri, la sua attenzione era tutta per Dominic. «Dici che per salvarci la vita dobbiamo salire su questa barchetta? Voglio crederti. Io ti seguirò.»
Per un attimo, persino nei solidi occhi gialli di Dominic lampeggiò la sorpresa, ma fu talmente veloce a brillare da essere appena appena distinguibile. Poi, però, in loro si accese di nuovo la sicurezza, e fu quella ad ardere tra loro quando i due si strinsero la mano con forza.
Tuomas annuì.
«D’accordo allora, proviamoci.»
Lanciò uno sguardo ad Emppu, in cerca d’approvazione, e trovò uno dei suoi sorrisi caldi ed incoraggianti, che fu impossibile non ricambiare.
Ridacchiando, l’illusionista si chiese se l’amico avrebbe mai smesso di sorridere e, tra sé, si augurava che non lo facesse mai.
Jukka si protese a scrutare la barchetta.
«Quali sono gli ordini, capitano?»
«Tutte le strade portano al mare!» disse lei in risposta. «Di sicuro saremo molto più d’aiuto tra le acque di un fiume che incespicando tra tutte queste maledette foglie.»
Anche Lisanna si dichiarò d’accordo, perciò il gruppo si mise in fila indiana e si preparò, con cautela, a salire sull’imbarcazione che all’improvviso sembrava fin troppo piccola per poterli contenere tutti e sette.
Fu Anette a posare il primo passo sul legno scuro e marcito dall’umidità, ma il tocco di Marco alla spalla la indusse a fermarsi.
«Lascia andare me per primo.»
Per qualche bruciante attimo i loro sguardi si sostennero, ghiaccio dentro al ghiaccio, parlandosi in una lingua silenziosa che solo loro due potevano capire. Poi, lei annuì piano e il guerriero prese posto a prua.
La barchetta gemette e ondeggiò sotto il peso del vichingo – e della sua ascia –, ma non diede alcun segno di cedimento e, anzi, vista da vicino sembrava molto più sicura di come non era parsa a riva, distorta dalle ombre contorte della nebbia.
«Posso parlarti?»
Tuomas trasalì e si girò di scatto.
Gli occhi gialli di Dominic lo stavano scrutando, profondi e indecifrabili, Tuomas tentò di tranquillizzare i frenetici battiti del cuore anche se quelli non avevano la minima intenzione di ascoltarlo.
Perché Dominic gli doveva parlare? E perché proprio in quel momento, con tutte le sofferenti ore di cammino passate nel loro silenzio sconfortato? Forse non voleva che gli altri assistessero alla conversazione. Tentò di trovare degli argomenti tra lui e Dominic che dovessero essere trattati all’insaputa del gruppo, ma non ne trovò nessuno.
«Certo.»
La curiosità ebbe la meglio sulla diffidenza.
Il gufo gli riservò un largo sorriso, e anche quello apparve all’illusionista molto strano, pur senza una ragione razionale.
Sentì la mano forte di Dominic che gli si stringeva intorno all’avambraccio, e che lo trascinava ancora verso il folto della foresta.
Tuomas era sempre più perplesso, anche se uno strano presentimento cominciava a farsi strada verso il suo cuore impazzito.
Gettò uno sguardo preoccupato dietro di sé, dove i suoi compagni ancora si affaccendavano sulla riva, e non si erano accorti del breve scambio tra di loro.
«Forse non dovremmo allontanarci troppo.» mormorò Tuomas, mentre si lasciava condurre nuovamente in mezzo agli alberi.
«Oh, loro ci aspetteranno» gli rispose il gufo, senza accennare minimamente a rallentare il passo.
Dov’era finito il bastone?
Il presentimento, ancora indefinito, divenne un unico blocco di ghiaccio che gli si piazzò gelido proprio in mezzo al petto. D’un tratto, gli venne in mente il concitato racconto di Marco, dell’illusione in mezzo al bosco, della presa ferrea del demone che, sotto false sembianze, l’aveva attratto in una trappola mortale.
Il gelo nel suo petto divenne più spesso, le sue gambe si muovevano da sole mentre la sua volontà veniva immobilizzata da un terrore irrazionale.
Rimase con gli occhi fissi sulle soffici ali color caffelatte del gufo, così rassicuranti, e tra sé si aspettava di vederle contorcersi e mutare, perdere le piume e assottigliarsi, diventare nere e artigliate.
Eppure, nonostante le paure gli facessero venire in mente scene su scene di scempi orribili, non mutò un solo lembo della pelle chiara e tatuata della sua guida, che lo lasciò solo quando giunsero ai limitari di un quadrato d’erba, talmente piccolo da non poter essere definito “radura”.
Tuomas si massaggiò il braccio, dov’era rimasto il segno rosso della presa dell’uomo-gufo, e si guardò intorno.
Il suo cuore si era un po’ calmato e il terrore stava sbiadendo, ma il gelo dentro di sé era rimasto e stava per essere raggiunto dalle lunghe dita ossute dell’inquietudine. Cos’era quello scintillio febbrile negli occhi di Dominic?
«Finalmente soli.» mormorò la sua guida. «Sai, dopo un po’, tutte quelle persone intorno diventano sfibranti. Non trovi?»
Tuomas contrasse le labbra, e decise di mantenersi sulla difensiva.
Quell’esordio non gli piaceva. Era certo un’anima solitaria – decisamente –, ma Marco, Emppu e gli altri erano una cosa totalmente diversa, soprattutto in una circostanza così disorientante come quella in cui si erano ritrovati.
«Può darsi. Dipende dai punti di vista.» rispose infatti. «Io non penso di condividere questo. In fondo, siamo tutti sulla stessa barca.»
Si accorse dell’involontario gioco di parole con la loro attuale situazione solo un attimo dopo di averlo proferito, ma evidentemente il suo interlocutore lo giudicò come chissà quale sottile allusione e gli scoccò uno sguardo penetrante quanto indecifrabile.
Tuomas incrociò le braccia davanti al petto.
«Mi hai portato qui solo per lamentarti di quanto il gruppo sia affollato?»
All’improvviso sentiva una gran voglia di sbrigarsela in fretta, tornare dagli altri e scrollarsi di dosso tutta l’inquietudine che stava accumulando.
Eppure, il gufo ignorò le sue parole, lo squadrava e basta, senza dire nulla. Alla fine, pronunciò solo il suo nome, indugiando sul suo suono e sulla sua cadenza, assaporandolo.
«Tuomas.»
Tuomas rabbrividì, senza una buona ragione per farlo.
«Tuomas l’Illusionista. Sai? A me piacciono tanto i giochi di prestigio…»
Il tastierista venne scosso da un altro brivido, che gli corse lungo la spina dorsale, e sperò con tutto sé stesso che Dominic non se ne accorgesse.
Ma lui era concentrato su ben altro.
«Perché non mi fai vedere una delle tue magie?»
Fu allora, che Tuomas capì.
La strana scintilla negli occhi di Dominic, il suo sorrisetto sotto lo sguardo indecifrabile, la sua presa ferrea, la sua insofferenza nei confronti del resto del gruppo.
Che stesse solo in quel momento gettando una maschera portata perfettamente sino ad allora?
Di una cosa Tuomas era sicuro: chiunque fosse in realtà, la loro guida di certo non era la creatura gentile e disinteressata che si era sempre spacciata. Marco aveva ragione.
Marco.
Un’idea terrificante gli folgorò la mente, e l’illusionista non si curò di nascondere l’imprecazione che gli salì alle labbra mentre sguainava la spada.
«Merda. Dove diavolo hai portato gli altri?!»

***

Per permettere a tutti di prendere posto sulla barca si erano dovuti stringere un po’, ma alla fine ognuno era riuscito a ritagliarsi un posticino quasi comodo e, quando ebbero appurato che il legno vecchio non avrebbe ceduto, Anette tagliò la corda che li assicurava a riva e l’imbarcazione si lasciò trascinare dalla corrente.
Tirarono tutti un sospiro di sollievo, un lusso che da troppo tempo non potevano concedersi. Approfittarono della situazione per far riposare i piedi doloranti, Marco si fasciò la testa che aveva ricominciato a procurargli qualche fastidio, e poterono iniziare a rilassarsi sul serio.
La corrente scorreva lentamente sotto di loro, e la nebbia si era quasi diradata, tanto che per Marco non era difficile scorgere i cespugli che si protendevano verso l’acqua, e i sassi che sparivano oltre le curve del letto erano ben nitidi davanti ai suoi occhi.
Ma solo dopo, quando il luogo da dov’erano partiti sparì dietro un’ansa del fiume, Emppu ebbe un tuffo al cuore e alzò la testa di scatto, con l’angoscia negli occhi.
«Dov’è Tuomas?»
Un silenzio sconcertato calò tra di loro, mentre anche gli altri si rendevano conto della gravità della sua domanda.
Poi, il fiume esplose in una marea di imprecazioni, di frasi sconnesse, di sfoghi rabbiosi.
«Torniamo indietro!» disse Lisanna quando si furono un po’ calmati, ma si accorse della stupidità della propria proposta nell’esatto momento in cui le dava fiato.
«La corrente si è fatta troppo forte.» replicò Marco tra i denti, l’ansia e la rabbia che ancora brillavano nell’azzurro dei suoi occhi.
Ed era vero: il fiume non era più placido com’era parso all’inizio, e la barca cominciava a prendere velocità, tanto che la sola idea di poterne fermare l’incedere sembrava pura fantascienza.
«Ma come diamine hanno fatto a perdersi?! Eravamo tutti lì!» sbottò Jukka, e si trattenne appena in tempo dal dare un pugno all’acqua che li conduceva beffarda verso destinazioni che non si erano scelti loro.
«Magari non si sono persi.»
Le fredde parole di Anette gelarono anche il resto della barca. La sua freddezza, in qualche modo, riuscì a placare anche il panico degli altri, ma non l’angoscia che stava già iniziando a soffocarli. Tuomas, da solo, in quella foresta? Quante probabilità avrebbe avuto di sopravvivere?
«Che intendi?» domandò Lisanna.
«E’ solo un’ipotesi.» spiegò Anette. I suoi occhi erano duri come l’acciaio, e guardavano dritti davanti a sé mentre lei parlava. Jukka conosceva molto bene quel suo comportamento: era lo stesso che adottava quando la nave nemica era troppo grossa o troppo ben armata, o quando l’orizzonte si tingeva di nero e non c’era possibilità di scappare dalla tempesta in arrivo. «Non vi siete accorti che manca anche Dominic?» continuò.
Emppu si accasciò sul bordo della barca come una bambola di pezza. Aveva perso un grande amico e una guida eccellente, nel giro di pochi minuti. Entrambi i suoi punti di riferimento, scomparsi, inghiottiti dai rami adunchi di quegli alberi malvagi. Ed ora? Come avrebbe fatto a tornare a casa? Ma avrebbe davvero voluto tornare a casa, senza Tuomas?
«Comunque sia,» intervenne Jukka «faremmo meglio a preoccuparci della nostra situazione, piuttosto che della loro.» la sua voce era calma e controllata, sembrava aver riacquistato lucidità, ed ora anche il suo volto era una maschera di freddezza. Lisanna non poteva fare a meno di ammirare i due pirati. Nemmeno con mille anni a disposizione lei sarebbe riuscita ad imparare ad affrontare i pericoli con la stessa forza e furbizia di Jukka, o con la stessa grazia e freddezza di Anette. «Tuomas è un mago e Dominic è la migliore guida che esista sulla faccia della terra: probabilmente arriveranno a destinazione anche prima di noi, se decidono di farlo. Noi, invece, siamo su un fiume sconosciuto che ci sta portando dio sa dove, e non abbiamo idea né di dove sia esattamente il villaggio di cui Dominic parlava, né di che cosa potremmo incontrare lungo la strada.» continuò il pirata.
Marco, che finora era stato in silenzio ad ascoltare, annuì. «Jukka ha ragione.» disse. «In questa situazione la cosa migliore da fare sareb…»
Ci fu un violento scossone, e il guerriero per poco non ruzzolò in braccio ad Emppu, senza riuscire a finire la frase.
«Cos’è stato?!» domandò quando riuscì a rimettersi dritto, allarmato.
La barca oscillava maldestramente lungo il fiume, sbattendo contro le rocce che le sbarravano il passo, la corrente che la sospingeva prepotentemente incontro alle loro punte acuminate.
«Siamo troppo veloci!» esclamò Emppu, che si aggrappava al suo pezzetto di legno con tutta la forza che aveva.
«Rapide.» realizzò Anette, pallida in volto.
Per un attimo, sul viso provato di Marco si lesse solo lo sgomento, ma il guerriero si riprese subito e una dura determinazione s’impossessò dei suoi lineamenti, pietrificandoli. Si scambiò un’occhiata con la cantante, che annuì ed imbracciò il proprio remo.
«Jukka, prendi l’altro! Cerchiamo di dare una direzione a questa bagnarola, altrimenti ci schianteremo subito!»
«Sissignore, capitano.»
Per una volta, non c’era traccia d’ironia nel suo tono di voce, serio e concentrato.
Marco strinse i denti, si sistemò bene sulla prua della nave, e cominciò a fornire istruzioni su dove dirigere la barca, in base a quello che la nebbia gli concedeva di vedere.
La barchetta sfrecciava velocissima lungo il fiume, gemendo e scricchiolando come se volesse avvertirli della morte annidata dietro ognuna delle rocce che superavano a fatica. I due pirati digrignavano i denti, lottando contro l’impeto del fiume, che si era fatto stretto e tortuoso, e costellato di pietre e massi. Alcuni erano talmente alti da superare un uomo adulto, si ergevano come furiosi guardiani di luoghi dove loro non avrebbero dovuto inoltrarsi. Sotto di loro, le acque ribollivano, la loro placida tranquillità rimpiazzata da un’ira profonda e totalizzante.
Emppu, d’un tratto, si sentì piccolo e incapace. Il volto di Anette era sfigurato dalla fatica mentre lei lottava contro i flutti, sferzata da secchiate e secchiate d’acqua che le si riversavano addosso, come se volessero renderle il compito ancora più difficile. Il cantastorie sapeva che lei, con quella ferita alla spalla, non avrebbe dovuto prendersi un incarico così pesante, ma sapeva anche di non poterla aiutare in alcun modo. Abbracciò la propria chitarra, ma non osò suonare, pietrificato dal terrore.
Nel guardarla, maledisse se stesso per la propria imbarazzante inutilità. Maledisse il suo cuore pavido, mentre Marco si sporgeva verso la nebbia e le rocce senza curarsi della folle velocità che avevano raggiunto, e maledisse la sua stupida chitarra, perché era l’unica cosa che lui sapesse maneggiare con maestria.
Un enorme scoglio spuntò dal nulla proprio davanti a Marco, che gridò un’imprecazione, ma le sue indicazioni si persero insieme al ruggito dell’acqua intorno a loro. Anette piantò decisa il proprio remo in acqua e tentò di manovrarlo, ma a Jukka gli ordini del vichingo non erano arrivati, e non riuscì a mettere a posto la coordinazione prima di raggiungere lo scoglio. Con un grido, il pirata strinse il proprio remo e virò con tutte le proprie forze, un attimo prima che andassero a schiantarcisi tutti. La barchetta girò tanto violentemente da dare l’impressione di ribaltarsi, e centrò la roccia con il fianco. Il contraccolpo fu straordinariamente forte, e Marco si vide sbalzato fuori dalla barca. Cercò disperatamente di aggrapparsi a qualcosa, prima che il pirata si lanciasse verso di lui ad afferrarlo per la cotta di maglia e issarlo di nuovo a bordo.
«Ma ti sembra questo il momento di indossare vestiti di ferro?!» gli gridò addosso Jukka, mentre Marco tentava di riprendersi dallo spavento.
«Jukka! Il remo!» urlò Anette. Il pirata sbiancò quando si accorse di averlo gettato via per andare ad aiutare il vichingo. Si precipitò a riprenderlo, ma ormai era irrecuperabile, inghiottito dagli spruzzi e dai tumulti del fiume.
«Oddio…» mormorò, le pupille dilatate dal terrore.
Di nuovo un colpo, più forte, molto più forte, tanto da sbattere Anette contro la poppa della barchetta e toglierle il fiato.
Ormai la barca roteava, priva di controllo, sbattendo contro tutti i massi che costeggiavano il corso del fiume.
Si rannicchiarono tutti al centro della barca, stringendosi e tenendosi l’un l’altro, nel tentativo di attutire la violenza dei colpi che scuotevano la loro piccola barchetta. Tremavano tutti, annientati dalla paura, e pregavano che il fragile legno della loro imbarcazione resistesse.
«Moriremo.» mormorò Lisanna. La sua voce era poco più di un soffio tremolante.
«Smettila. Non moriremo affatto. Non moriremo. Io devo trovare Tuomas.» le rispose Emppu, ma si accorse che la sua voce tremava più di quella della ragazza, e si morse un labbro. Stupido codardo.
«Emppu.» insistette lei. «Guarda là. Moriremo!»
Il chitarrista alzò la testa, e seguì con lo sguardo dove indicava la compagna.
Il fiume svoltava. Era una curva repentina, troppo stretta, e non sarebbero mai riusciti a compierla, senza remi, senza alcun modo di controllare la folle corsa della loro barca. Sì, veloci com’erano si sarebbero di certo schiantati, contro quella roccia grossa e larga che sorvegliava la curva come un tozzo usciere, o contro un albero, o contro qualsiasi altra cosa. E sarebbero morti.
Il cantastorie saltò in piedi. Stava ancora abbracciando la propria chitarra. Rocce, rocce, rocce… vedeva solo rocce, e acqua, e alberi che assistevano alla loro disfatta pregustandosi la loro morte.
Come odiava quegli alberi.
Chissà che cosa si era risvegliato dentro di sé. Come un istinto primordiale, una scarica di pura elettricità, una voce potente, eppure flebile, un urlo, oppure un sussurro, qualcosa che copriva tutto il resto, gli annebbiava il cervello – o forse lo rendeva più lucido? –, e gli ordinava: non morire, non morire, non morire, non morire, non morire, non morire…
Rocce. Sì, rocce! Ecco quello che ci voleva!
Nemmeno dopo seppe dire come fece a prendere il tempo giusto, ma ci riuscì, incastrò la chitarra in una fessura tra due massi di fianco a loro, e vi si aggrappò.
Il legno dello strumento protestò, ma non cedette, ed Emppu si sentì spezzare il cuore. Buttare via una chitarra così bella…
I muscoli gli si tesero, e lui, unico tramite tra la barca impazzita e la terraferma, credette quasi di spezzarsi ad un certo punto, quando il fragore dell’acqua intorno a sé aumentò, quasi come se il fiume urlasse di rabbia per essere stato gabbato da un piccolo cantastorie.
Ma, forse, non tutto era andato secondo i suoi piani. Tutta quella tensione, e quella fatica, non erano certo fatte per essere sopportate da un povero ed innocente strumento musicale, tanto che la chitarra si ruppe in quell’esatto momento, ed Emppu si ritrovò sbalzato via, verso il fiume, verso la barca. Sperava davvero di essere riuscito a superare la curva.
Sentì un paio di braccia che lo tiravano a bordo, ma lui non aveva voglia di aprire gli occhi per scoprire a chi appartenessero. Ogni singolo muscolo del suo corpo gli doleva, anche quelli di cui non conosceva l’esistenza, e voleva solo rimanere sdraiato ad ansimare.
Poi, qualcos’altro. Una calma ovattata tutto intorno a sé. Era dunque morto così, in fretta? Senza neanche accorgersi dello schianto rovinoso che molto probabilmente l’aveva ucciso? Beh, se era così, era facile la morte. Molto più facile di come non la decantassero in giro. E non gli dispiaceva affatto.
Ma c’era ancora rumore di acqua attorno a lui. Solo che questa volta era un rumore dolce, quasi una ninnananna, e il legno sotto di lui oscillava piano.
Come diavolo faceva, il fiume, a cambiare volto tanto velocemente?
Si impose di alzarsi, di aprire gli occhi, e dare una sbirciatina al mondo intorno a sé.
Quello che lo accolse era solo grigio, grigio, grigio dovunque; la nebbia era talmente fitta da nascondergli anche il fiume sotto di lui, così tornò a sdraiarsi, contrariato.
Evidentemente, non era morto.
Gli altri erano sfiniti quanto lui. Tutti provati, tutti pallidi, tutti ansimanti. Ancora non sembrava vero di essersi lasciati alle spalle l’inferno delle rapide, ma non c’era sollievo nei loro occhi, no: si chiedevano che cos’altro avrebbero dovuto affrontare, a bordo di quella barca maledetta.
«Dio mio, Emppu.» esordì sommessamente Jukka. «Ci hai salvato la vita.»
Solo allora il cantastorie si accorse di stringere ancora nella mano un pezzo della sua chitarra, e rimase ad osservarlo con la fronte aggrottata.
«Oh, accidenti. Mi si è rotta la chitarra.»
Il pirata reclinò la testa all’indietro e chiuse gli occhi, ridendo piano.
Anche Anette sorrise, un raggio di sole sul pallore del suo volto stanco.
«Ehi ragazzi» disse Marco. Nessuno avrebbe mai creduto che la sua bella voce, bassa e potente, potesse diventare così flebile. «Quello non è un villaggio?»
Lisanna spalancò gli occhi, stupita, e si tese in avanti per cercare di vedere quello che vedeva il guerriero.
In effetti, le ombre scure che spuntavano dalla nebbia sembravano proprio degli edifici.
La speranza provò timidamente ad accendersi di nuovo in fondo ai loro occhi. Un villaggio significava gente, significava fuoco, letti, riposo, medici. Significava sicurezza, quel poco di sicurezza che avevano perduto.
La corrente scorreva sotto di loro lenta come lo era stata all’inizio del viaggio, e fu così che loro entrarono nel villaggio, lentamente. Troppo lentamente.
C’era un silenzio spettrale ad accoglierli.
Non si udiva una sola voce, né il chiacchierare ciarliero delle comari davanti al pozzo, né gli schiamazzi dei giochi dei bambini, né il rumore degli uomini che si mettevano al lavoro come facevano tutti i giorni.
Le porte cigolavano piano, fuori dai cardini, mosse da un vento fantasma che solo loro riuscivano a sentire. I buchi delle finestre erano voragini nere come l’abisso, le strade erano abitate solo da alte erbacce infestanti e i muri degli edifici ormai invasi dall’edera da anni.
Ai viaggiatori parve di sentire il suono di parole sconosciute, di una risata di bambino… ma perché si era poi subito tramutato nel pianto di una donna?
Improvvisamente, sentirono il suono dei loro cuori battere all’impazzata, e sembrò loro un rumore assordante, e sbagliato, in mezzo a tutto quello. Mentre l’inquietudine li ricopriva con i suoi sussurri, gelida come brina, impalpabile come la nebbia eppure affilata come l’acciaio.
«Che l’uomo-gufo sia maledetto.» sussurrò Marco.
Il suono delle sue parole sembrava provenire da un altro mondo, e giungeva ovattato alle loro orecchie. Ed era un bene che lui desse loro spalle, perché altrimenti avrebbero visto la cieca paura nei suoi occhi.
«Ci ha portati sul Fiume Fantasma.»









Ciò che dice l'Autore


Come sono contenta di poter essere di nuovo qui, a postare capitoli! Mi è mancato tanto efp ç.ç Dunque! Anche se ho avuto parecchi problemi con il pc, adesso sono qui, perchè non vi libererete mai di me! Muahah!
Ahem. Dicevamo. Ecco il mio capituzzolo! In realtà, in questo la verità su Dominic è stata scoperta solo a metà, perchè sono stata costretta a dividere il capitolo in due per questioni di lunghezza (non riesco mai a contenermi :S), spero che vi piaccia comunque!
Allora, che dire, grazie per essere venuti a leggere questo capitolo nella depressione della fine delle vacanze... un periodo davvero orribile, in cui spero di avervi un po' intrattenuto, almeno per consolarvi del rientro! ^^ Un bacione a tutti






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Capitolo 14
*** Il Fiume Fantasma ***


Come poteva, il silenzio più assoluto, essere così pieno di voci e rumori?
Emppu cominciava a credere che non fosse solo suggestione. Le case vuote, sulle rive grigie e sassose, sussurravano, e la nebbia rispondeva.
C’erano risa, intorno a loro, risa e pianti, tanti pianti.
Oh, sì, lui sapeva cos’era quel posto. Fiume Fantasma. Quella strega non aveva avuto un minimo di fantasia, nell’assegnare i nomi ai luoghi del suo mondo da incubo. E si chiese chi sarebbe andato a fondo, chi sarebbe annegato, annegato, sempre più giù…
Era quella calma ovattata attorno a loro ad essere insopportabile, più della paura, più della voce dei fantasmi. Era l’attesa della morte ad essere terribile, più che la morte stessa.
Ma poi, d’un tratto, la calma si frantumò, e un inspiegabile senso di sollievo s’impossessò di loro, prima di essere nuovamente offuscato dal terrore.
Qualcosa si era mosso, sott’acqua.
Emppu si sporse cautamente dalla barca, nel tentativo di vedere in mezzo al grigiore dell’acqua che cosa avesse potuto far rumore.
Dapprima non si rivelò nulla ai suoi occhi. Poi, piano piano, miriadi di ombre resero più scura la superficie del fiume, e si mostrarono al cantastorie, spettrali. E sorridenti.
Il chitarrista si tirò indietro di scatto, con l’orrore negli occhi.
«Ci sono dei volti lì sotto!» esclamò.
Nessuno ebbe il tempo di avere alcuna reazione, tanto fu veloce il sottile tentacolo che schizzò fuori dall’acqua e si attorcigliò intorno al braccio di Jukka.
Il pirata urlò, era un urlo di dolore e di spavento, sul suo viso si rispecchiava l’orrore visto negli occhi di Emppu mentre prendeva uno dei suoi pugnali con mano tremante e tentava di usarlo per liberarsi.
«Bruciano!» esclamò, e quando riuscì a toglierselo di dosso, gli altri videro che la sua manica era stata lacerata dal veleno del tentacolo, e che sul suo braccio erano rimaste impresse le impronte di tante sottili righe violacee.
Uno dei volti che aveva intravisto il chitarrista emerse dall’acqua, si mostrò bene alle proprie prede, che indietreggiarono, terrorizzate.
Forse, quello che li spaventò di più era la sua straordinaria somiglianza a un viso umano. Completamente privo di capelli, e putrescente, nei suoi occhi vacui e bianchicci non brillava nessuna scintilla, ma sotto di essi c’era quel sorriso, largo, orrendo, perché era proprio l’aria spenta dei suoi occhi a renderlo tale.
Era attaccato ad un corpo esile ed ossuto, una pelle lucida e verdognola tirata su uno scheletro che assomigliava fin troppo a quello di un essere umano.
Poi, la creatura rise.
Il suono tintinnò argenteo tra i muri spenti delle case, e fu quello a paralizzare i viaggiatori, ad immobilizzarli a bordo della loro fragile barchetta.
Era la risata di un bambino.
La creatura si immerse di nuovo, lasciandoli da soli con la loro stessa inquietudine.
Si guardarono negli occhi. Erano sguardi sfiniti, demoralizzati, terrorizzati. Lasciarsi uccidere non sarebbe stato forse più facile? Non sarebbe stato più comodo smettere di lottare?
«No.» ringhiò Marco, come se sapesse che le domande che avevano sfiorato la sua mente erano state in quelle di tutti.
Si tolse in fretta e furia la cotta di maglia, e la gettò lontano, prima di impugnare la sua ascia e stringerla con tutte le proprie forze.
«Io non voglio morire, dannazione.»
«Sono stanca, Marco.» sussurrò Anette, puntando lo sguardo a terra.
«Allora non puoi più essere il capitano. Da adesso il capitano sono io.» replicò duramente il guerriero. «E io ti ordino di combattere per la tua schifosissima vita. Mi hai capito?»
Lei lo fissò per un attimo, ma non c’era tempo per attendere. L’acqua già ribolliva.
Allora lei sorrise, ed estrasse la sua sciabola. La piantò esattamente davanti ad Emppu, che la fissò esterrefatto.
«Allora vorrà dire che toccherà combattere a tutti.» decretò la piratessa.

***

Dominic si prese qualche attimo per fissare la spada sguainata dell’illusionista, ma non batté ciglio nel vedere la sua lama affilata, pronta ad uccidere.
Davvero Tuomas aveva pensato di spaventarlo con così poco?
«Suvvia, non c’è bisogno di essere così ostili. Io voglio solo vedere la tua magia.» si avvicinò di un passo.
Aveva ancora quella terribile scintilla di follia nello sguardo, e Tuomas indietreggiò. «Fammi vedere la tua magia, Tuomas. Fammela vedere.»
«Io non ti faccio vedere proprio niente!»
Oh, come suonava nervosa la sua voce mentre gridava! Quella di Dominic invece, quasi sussurrata, risultava cento volte più minacciosa.
Il gufo si fermò, e tornò a squadrarlo in quel modo così irritante, come se cercasse di frugargli nell’anima per scoprire tutti i suoi segreti. Eppure, c’era qualcosa di diverso nella sua espressione. Forse scetticismo?
«Dimmi dove sono gli altri.» riprovò il tastierista, questa volta a voce più bassa, stringendo forte la spada.
Dominic increspò le labbra in una smorfia delusa, e reclinò la testa verso il basso, sorreggendosi la fronte con una mano con aria sconsolata.
«Ma guardalo. Un mago che brandisce una spada. Che tristezza…»
Sospirò, e scrollò le spalle. «E va bene. Mostrami almeno che cosa sai farci, con quell’arma con cui mi minacci.»
Tuomas non fece in tempo a capire che cosa significassero le sue parole, che improvvisamente gli alberi e i rami intorno allo spiazzo presero vita, e si allungarono adunchi verso di lui.
Il tastierista indietreggiò, ma si accorse presto di non poter scappare dalla magia del gufo: perché gli alberi e i cespugli erano dappertutto, intorno a lui e sotto di lui.
Quanto ci aveva pensato, durante tutte le sue angosciose ore di marcia, a come quei tronchi neri e contorti sembrassero volerli aggredire! Ed ora, l’incubo si era trasformato in realtà, e Tuomas non riuscì a immaginare nulla di peggiore.
Quasi rimpiangeva di non aver incontrato il demone.
E poi, c’era la costante preoccupazione per la sorte degli altri, che gli martellava in petto accompagnando il suo cuore, e non faceva che alimentare il senso di panico e claustrofobia che lo stava ghermendo.
Il primo attacco fu di un ramo dalla corteccia scura, che gli si abbatté addosso nel chiaro tentativo di rompergli il cranio. Il tastierista benedisse con tutto sé stesso l’adrenalina che all’improvviso gli stava scorrendo nelle vene per la parata fulminea che eseguì, salvandosi la vita.
Balzò al centro dello spiazzo, il suo obbiettivo era solo Dominic: non voleva certo lasciarsi malmenare da quegli alberi odiosi, mentre lui se ne stava a guardare.
Quando si accorse delle sue intenzioni, l’uomo- gufo sorrise e si protese verso di lui. La sua totale mancanza di timore per un attimo fece vacillare la volontà di Tuomas, ma si riprese subito e continuò a puntarlo con la propria lama.
«A suo tempo, illusionista.» gli sussurrò Dominic, fissandogli addosso il giallo magnetico dei suoi occhi. Ormai erano abbastanza vicini perché il tastierista potesse trafiggerlo, solo allungando di un poco il braccio, ma chissà come quello sguardo folle e imperscrutabile lo annichiliva e lo immobilizzava. «Arriverà il momento anche per questo.» continuò il gufo. Poi, una scintilla di divertimento guizzò nei suoi occhi. «Ora, non dovresti guardarti alle spalle?»
Non appena Tuomas capì il significato delle sue parole si voltò di scatto, ma ormai il cespuglio di rovi dietro di lui gli aveva già lanciato contro tutte le sue spine – erano sempre state così lunghe e affilate? –, e dovette gettarsi a terra per evitare di essere trafitto.
Ma perché Marco non gli aveva regalato anche uno scudo?
Avrebbe potuto farlo apparire, ma non c’era tempo per la concentrazione. I fili d’erba si erano già allungati e stavano cercando di avvinghiarglisi attorno alle caviglie, ma per fortuna almeno quelli non erano particolarmente robusti e non ebbe problemi a toglierseli di dosso.
Si rimise in piedi e volse lo sguardo, speranzoso, verso Dominic (forse le spine che per poco non avevano trapassato la sua testa avevano colpito lui), ma il gufo ancora gli sorrideva, illeso. Gli si era parato davanti un ramo, proprio al momento giusto…
Ecco, un altro ramo sottile avanzare verso di lui, schioccava e si dimenava come una frusta, era talmente repentino che Tuomas poteva solo indietreggiare e pregare di riuscire ad evitarlo.
Ma poi, improvvisamente, tutti gli alberi presero vita contemporaneamente, tutti si gettarono contro di lui, lo colpivano, lo afferravano, e lui non poteva che menare fendenti a destra e a manca con il cuore che batteva all’impazzata e una  luce inorridita negli occhi.
Una radice gli si attaccò alla gamba, talmente forte da fargli perdere l’equilibrio per un attimo, e mentre tentava di togliersi di dosso un intrico di foglie che gli si stava attorcigliando attorno al collo un albero alla sua destra protese il tronco verso di lui e lo colpì allo stomaco con una forza sovrumana.
Lui sbarrò gli occhi e crollò a terra, gli sembrava che tutti i suoi organi interni si fossero ridotti in poltiglia e tentassero ora di mischiarsi insieme. Neanche i polmoni aveva più, infatti non riusciva a respirare, tossiva e basta, mentre la radice che l’aveva tenuto stretto sino ad allora sgusciava via silenziosamente.
Quando riacquistò un attimo di lucidità – e capì che tutti i suoi organi erano ancora interi e al loro posto –, la prima cosa che fece fu cercare la spada con lo sguardo. La trovò a pochi passi da sé.
Tentò di allungare una mano per riprenderla, ma dovette bloccarsi perché un terribile dolore acuto gli si propagò lungo tutto il braccio, e dovette mordersi un labbro per non dare a Dominic la soddisfazione di vederlo urlare.
I viticci di spine che gli avevano stretto il braccio ora risalirono lungo tutto il suo corpo, gli si conficcarono impietosi lungo tutti gli arti, li bloccarono nella loro invincibile morsa senza che lui potesse fare nulla, se non sopportare il dolore e pregare che non fosse troppo palese la sofferenza sul suo volto. Lo avevano trafitto dappertutto: sulle braccia, sulle gambe, sulle mani, sul busto. Non poteva neanche fare resistenza, altrimenti quelle spine l’avrebbero scorticato, e non ci sarebbe più stato molto da liberare.
Aveva perso, in così poco tempo. Non era proprio adatto a fare l’eroe, lui.
Alzò gli occhi in direzione dell’uomo-gufo – l’unico movimento che ancora non gli facesse male –, ma l’espressione nel suo viso lo raggelò.
Si era aspettato trionfo, divertimento. Forse sarebbe riuscito ad accettare anche lo scherno. Ma tutto, in lui, trasudava il disprezzo più profondo che si potesse mai immaginare.
«Sei patetico
Dominic si avvicinava, gli occhi socchiusi, come se con quelli potesse centellinare goccia per goccia l’odio e il disprezzo che lo stavano dominando.
Era come se ogni suono, ogni lettera pronunciata dalla sua bocca fosse un pugnale affilato, che aveva l’unico compito di ridurre in brandelli l’orgoglio di Tuomas.
E, quando se lo ritrovò in briciole, il tastierista si stupì di quanto fosse doloroso, e umiliante, perderlo definitivamente.
«Mi aspettavo un mago potente, mi aspettavo un paladino che incutesse timore con la sola nobiltà del proprio sguardo, mi aspettavo una dimostrazione di magia e illusionismo senza pari. E invece?» Dominic si fermò, solo per sputare contro il suo avversario. «Mi ritrovo questo!»
C’era un limite all’umiliazione, si chiedeva Tuomas?
«Un debole!» urlava. «Un pavido, uno sperduto! Che si nasconde dietro una spada che non è neanche in grado di usare!»
Chissà, forse quelle parole erano state l’unica arma che fosse mai riuscita davvero a raggiungere il suo cuore.
Perché sì, era esattamente così che si sentiva, che si era sempre sentito da quando si era risvegliato nel piccolo carretto di un circo. Ed era così, che era sempre stato.
Un debole, un pavido e uno sperduto, che si nascondeva dietro una spada che non era neanche in grado di usare.
Il gufo lo afferrò per i vestiti e lo strattonò, e lui dovette sforzarsi per non gridare mentre i bruschi movimenti che era costretto a fare allargavano le ferite provocate dalle spine, che ancora lo tenevano stretto.
«Mostrami la tua grande magia, illusionista. Mostrami che sei all’altezza di ciò che ci si aspetterebbe da un eroe! Fammi tremare di paura!»
Perché il suo orgoglio aveva deciso proprio in quel momento di ricomporsi?
E perché la rabbia aveva deciso di cominciare a bruciargli in corpo solo ora?
Tuomas non lo sapeva, ma non gli interessava neanche. Aveva semplicemente deciso che era troppo. Troppo. Troppo!
E, sì, c’era un limite all’umiliazione.
«IO NON SONO UN MAGO!»
Il suo grido era stato talmente forte da pietrificare quella foresta così sinistra, e persino Dominic indietreggiò di scatto, il timore negli occhi.
Il tastierista non sentiva neanche più i viticci spinati lungo il corpo tant’era cieca la sua rabbia, e perciò si alzò, e avanzò verso il gufo. Sentiva il furore ribollire dentro di sé.
«E tantomeno sono un eroe! Perché diamine nessuno lo capisce, qui intorno?!»
Ma Dominic non prestava ascolto alle sue parole, il suo sguardo era posato su qualcosa sopra di lui, e il tastierista capì che non poteva essere stato il suo scatto d’ira ad averlo spaventato.
Si guardò intorno, e solo allora vide le fiamme che lo avvolgevano e lo circondavano: scoppiettavano, feroci, si alzavano verso il cielo come un’unica, enorme colonna di fuoco.
Tuomas sobbalzò, ma in quell’esatto momento le fiamme si dissolsero, e lui tornò ad essere quello che era, un poveretto con le braccia e il corpo coperti di sangue.
Una risata proruppe nel folto degli alberi, e il tastierista si accorse che era quella di Dominic. Aveva fatto in fretta a riprendersi dallo spavento, notò con un certo disappunto.
Forse l’uomo-gufo stava per dire qualcosa, una presa in giro di certo, riguardo alle sue discutibili doti da illusionista, ma Tuomas non aveva proprio voglia di sentirsi deriso e umiliato una seconda volta, e fu con un moto di grande soddisfazione che gli sferrò un pugno dritto in volto, talmente forte da farlo cadere a terra.
Dominic lo osservava interdetto.
«Te lo chiederò un’ultima volta. Dove sono gli altri?»
Di nuovo il gufo socchiuse gli occhi, con quell’atteggiamento superbo e sprezzante così diverso da quello che aveva avuto durante tutto il viaggio.
«Davvero pensi di essere nella posizione di poter dettare tu le condizioni?» domandò, mentre si rimetteva in piedi. «Comunque sia, ho deciso di accontentarti.»
Il sorriso che aveva fatto non prometteva nulla di buono, e a Tuomas venne l’idea di correre a recuperare la spada nel momento in cui vide le gambe del suo avversario cambiare aspetto.
Aveva appena raggiunto la sua arma, rannicchiata in mezzo ad un paio di cespugli come se volesse nascondersi, quando un’ombra si gettò su di lui dall’alto e lo ghermì con un paio di enormi artigli rapaci.
Il tastierista si sentì sollevato verso l’alto, sempre più velocemente, e ben presto la vista della radura divenne solo un punticino lontano in mezzo ad un mare di foglie scure.
La presa degli artigli, scuri come la notte, era ferrea, e bruciava contro le innumerevoli ferite che le spine gli avevano provocato. Alzò gli occhi, e vide che era Dominic il rapace che l’aveva rapito: bello come sempre, le ali spiegate contro l’azzurro del cielo, eppure quella luce crudele negli occhi gialli e le gambe animali lo rendevano più mostruoso di quanto la sua bellezza non lo facesse sembrare angelico.
Lui non era il gufo della sua canzone. Non poteva esserlo. Ma allora, chi era? Perché stava cercando di ucciderli tutti?
La sua angosciosa serie di domande senza risposta venne bruscamente interrotta dalla risata del gufo, che risuonò tra gli alberi quando Dominic planò verso terra e lasciò andare Tuomas a qualche metro dal suolo.
Il colpo contro il terreno fu devastante.
Rimase lì, a terra, il dolore che gli si propagava lungo tutto il corpo e lo immobilizzava sull’erba.
Forse sarebbe stato meglio arrendersi.
Non aveva neanche capito come aveva fatto a ricevere tutto quel dolore. Che cos’era successo? La loro unica speranza si era trasformata in un pazzo schizofrenico che godeva nel vedere gli altri agonizzare? Aveva perso tutti i suoi affetti? Si era ritrovato sperduto in un mondo alternativo, dove vestiva i panni di qualcuno che non era lui?
Ma perché continuare a sopportare? Non voleva fare l’eroe, lui. Sapeva di non esserlo.
«Rialzati. Non volevi rivedere i tuoi amici?»
Nessuna voce gli era mai risultata così odiosa all’orecchio come quella melodiosa e vellutata dell’uomo-gufo. Però, quella volta, aveva ragione. Il gruppo era l’unica cosa per cui si sarebbe rialzato, e avrebbe lottato di nuovo.
Trovò la forza per mettersi a sedere, calmare i giramenti di testa e tentare di alzarsi in piedi.
Quando riuscì a stare diritto senza aver bisogno di essere sorretto da nessun albero, cominciò a guardarsi intorno alla ricerca del fiume, della barca e degli altri.
C’era tanta nebbia intorno a lui, nebbia e alberi, e non fu facile individuare la barchetta che galleggiava nelle acque calme di un fiume grigio.
Le rive erano circondate da case, case vuote e morte.
Tuomas inorridì. Stavano combattendo.
«Benvenuto sul Fiume Fantasma»
La voce di Dominic gli arrivò lontana, e quando riuscì a scorgerlo lo vide sulla riva opposta del fiume, protetto dalle sue acque torbide, sotto le quali si intravedevano alcune ombre inquietanti.
«Oh, Dio… Ghost River…» realizzò il tastierista, e si diede dello stupido per non aver riconosciuto subito lo spettrale corso d’acqua.
Il suo sguardo angosciato corse di nuovo alla battaglia che si stava consumando a bordo della piccola barca, ogni fibra dolorante del suo corpo premeva per raggiungerli e dar loro una mano, ma sapeva che Dominic non l’avrebbe lasciato andare.
Era lui il nemico da battere, e Tuomas sentì all’improvviso questa responsabilità gravargli pesantemente sulle spalle.
Si guardarono negli occhi, un imperscrutabile giallo intenso in cui scintillavano furia e pazzia insieme, che annegava nelle onde grigio azzurre di un mare in tempesta.
Dominic sorrise. E cominciò a cantare.
«E’ stato un lungo cammino attraverso il fiume profondo e selvaggio. Ogni ansa ed ogni curva sono una collina di meraviglie.»

It’s been a long road down the river deep ‘n wild
Every twist and turn a wonder-dale


Tuomas sentì qualcosa frusciare dietro di sé, ma questa volta non ebbe da stupirsi, sapeva bene che cosa avrebbe trovato alle sue spalle: un’intera foresta viva e assetata del suo sangue.
E si chiese come avrebbe fatto a contrastarla, ora che aveva anche perso la sua arma.
Ma quella canzone… Tuomas aveva una gran voglia di chiudere la bocca all’uomo-gufo, e farlo smettere per sempre.
«E’ un viaggio spaventoso, per cui daremmo qualsiasi cosa.» gli rispose infatti.

It’s a scary ride we’d give anything to taste

«Lasciati dissanguare! Lascia un’impronta su ogni isola che vedi.»

Let yourself bleed
Leave a footprint on every island you see


Dominic si sporse verso di lui, come se volesse realizzare a mani nude il proprio proposito, ma il tastierista sapeva che non ne avrebbe avuto bisogno perché un albero stava già cercando di afferrarlo al posto suo.
La rabbia che Tuomas aveva accumulato nei confronti di quei tronchi era tale che decise di affrontarli anche disarmato. Si gettò contro il ramo che l’aveva attaccato, così ferocemente che il legno fu costretto a cedere di fronte alla sua furia e si ruppe, scricchiolando in maniera quasi stupita.
La vista della corteccia divelta mandò il gufo su tutte le furie.
«Ehi tu!» urlò. «Figlio di uno stupro, il letto del fiume attende!» si avvicinò alla riva, come se volesse scavalcare con un passo il nastro d’acqua plumbea che li separava. «Biancaneve, dipinta di nero, la tua vita è come una battaglia. Distesa di paradiso, più in profondità, ti mostrerò certe vedute! Credici, viviamo mentre gridiamo.»

Hey you, child of rape, the riverbed awaits
Snow white, pitch-black, your life such strife
Heavenward, deep down, I’ll show you such sights
Believe it, we live as we scream


Era incredibile come la sua voce vellutata facesse sembrare le profondità del fiume un luogo buono e desiderabile. Se lui decideva, nel giallo dei suoi occhi brillava ancora l’innocenza più pura, ed era difficile non esserne ingannati.
Ovviamente, per Tuomas il discorso non valeva: la sua pelle scorticata dalle spine bruciava ancora, così come il fuoco della rabbia che aveva in corpo.
Ma poi, nel bel mezzo delle sue cupe considerazioni, fu come se qualcuno gli avesse strappato il cuore, e l’avesse sostituito con uno di ghiaccio.
Si era voltato appena in tempo.
Appena in tempo per vedere la testa bionda di Marco essere inghiottita dall’acqua ambigua del fiume, e non tornare più a galla.

***

Quando sentì le fiamme avvolgergli anche il polso e il torace, Marco capì di essere perduto.
Non sapeva più da quanto tempo andasse avanti così, a dimenare l’ascia con la sola forza della disperazione, mentre l’angoscia per la propria sorte e per quella dei suoi compagni gli divorava il petto rendendo il suo respiro più affannoso.
La testa aveva cominciato a girargli, quanto l’aveva maledetta, quella traditrice!
Ma lui aveva continuato a combattere, nonostante un paio di quegli schifosi tentacoli gli si fossero avvinghiati attorno alle gambe, e lui se le sentiva bruciare, e tirare verso il fiume.
Aveva cercato di resistere.
Ma se il dolore arrivava anche alle braccia e al busto, allora basta, poteva dichiararsi vinto. Sarebbe comunque svenuto di lì a poco, preda dei deliri dell’emicrania, e allora il risultato non sarebbe stato lo stesso?
Gli bastò un attimo di esitazione, perché quei mostriciattoli schifosi fiutassero il suo sfinimento e strattonassero con più forza. E ci volle solo un altro attimo, perché lui si sentisse trascinare fuoribordo.
«MARCO!»
L’acqua gli arrivava già al collo, quando udì il grido. Si aggrappò al bordo della barca, per guardare un’ultima volta i suoi compagni.
«Non state a perdere tempo con me.» fece in tempo a dire. Il legno era viscido e scivoloso, e quei tentacoli velenosi maledettamente forti. «Se vi distrarrete anche solo un secondo dalla vostra battaglia, verrete a farmi compagnia sul letto del fiume. E sarebbe stupido.» Sorrise. «Salutatemi Tuomas. Mi sarebbe piaciuto vedere la realtà di cui lui farneticava tanto.»
E l’ultima cosa che vide, prima che l’acqua lo sommergesse del tutto, fu Lisanna che tentava di gettarsi verso di lui, trattenuta dalle braccia salde di Emppu.
Erano lacrime quelle che si addensavano in fondo agli occhi del cantastorie?
Ah, ma che importava…

***

Gli occhi di Dominic si accesero di gioia, mentre si gustava la morte di Marco e un ramo colpiva Tuomas proprio nel momento di suo maggior dolore e sgomento.
L’illusionista si sentì sbattere per terra, ma questa volta non erano le ferite a fargli male, era la consapevolezza di ciò che aveva visto, erano i ricordi di un amico. Erano le immagini del suo volto allegro, e di come diventava paonazzo quando esagerava con le birre nei pub…
Ma, ormai, quel viso era destinato a diventare solo una foto sbiadita conservata gelosamente dalla sua memoria.
Marco era morto.
Dominic rise.
«Lui andrà a fondo, annegherà, annegherà, sempre più giù… il fiume selvaggio si prenderà il tuo unico figlio! Lui andrà a fondo, annegherà, annegherà, sempre più giù… i mulini macinano lentamente nella città fantasma sulle rive del fiume.»

He will go down, he will drown, drown, deeper down
The river wild will take your only child
He will go down, he will drown, drown, deeper down
The mills grind slow in a riverbed ghost town


Tuomas si mise in piedi.
No, non poteva permettere che Dominic deridesse anche la morte di Marco. La morte di un guerriero, che guerriero era stato fino alla fine.
Non poteva permettere che Dominic lo schernisse con le parole di una canzone che gli era tanto piaciuto interpretare, in vita.
Il gufo lesse tutti i suoi pensieri nella rabbia che ardeva nei suoi occhi, e gli rivolse un sorrisetto.
«Lui andrà a fondo, annegherà, annegherà, sempre più giù…» allargò le braccia, come a fare da bersaglio. «Se mi vuoi, allora attraversa.»

He will go down, he will drown, drown, deeper down
If you want me, then do come across


Che vigliacco. Come poteva attraversare, con quel fiume pieno di ombre in mezzo a loro?
Tuomas si sentiva impotente. Poteva anche sradicare tutti gli alberi della foresta, ma non sarebbe mai arrivato a lui, non avrebbe mai cancellato quel sorriso irritante dal suo viso.
«Qual è il tuo sogno, figlio mio?» continuò imperterrito il gufo. «Il magico viaggio, la baia delle sirene? Non ho mai incontrato un cuore gentile come il tuo…» un sorriso feroce, folle, sadico si allargò sul suo volto. «Lascialo dissanguare. Lascia un’impronta su ogni isola che vedi.»

What is it your dream of, child of mine?
The magic ride, the mermaid cove?
Never met a kinder heart than yours
Let it bleed
Leave a  footprint on every island you see


Le radici che spuntarono dal terreno erano semplicemente troppo grosse perché Tuomas potesse anche solo pensare di contrastarle senza nessuna arma a disposizione. Provò a fuggire, ma era inutile, le radici spuntavano dal terreno dove metteva in piedi e ben presto gli si avvilupparono intorno alle gambe.
Furono veloci, ad immobilizzarlo, e della rabbia cieca che lo pervadeva rimase solo quella fiamma ardente nel grigio cupo dei suoi occhi.
«Ma chi diavolo sei?» sussurrò, chiedendolo quasi a sé stesso, forse perché aveva paura della risposta.
«Io sono le facce dipinte, il seme del dubbio. Il bacio velenoso, il troll sotto il ponte!»
Spalancò le ali, superò in volo l’infido fiume che li separava e si appollaiò a pochi centimetri da lui.
«Io sono il paesaggio del deserto, la sabbia nella tua clessidra. Io sono la paura e l’abuso, il bambino appestato… ogni occhio chiuso, cucito!»

I am the painted faces, the toxic kiss
Sowing of doubt, troll beneath the bridge

I am the desert-scape, the sand inside your hourglass
I am the fear and abuse, the leper children
Every eye sewn shut


Odiava essere ancora alla mercé dell’uomo-gufo. L’espressione dei suoi occhi gialli gli suggeriva che non l’avrebbe lasciato in vita una seconda volta, e il tastierista si rese conto di avere paura della morte.
Dominic tirò fuori un lungo pugnale ricurvo, e ne avvicinò la punta al petto di Tuomas, là dove batteva il suo cuore, così veloce, come se volesse recuperare in quei pochi attimi che gli rimanevano tutti i battiti che la morte gli avrebbe rubato.
«Sai perché non ho lasciato che il demone divorasse quello stupido del tuo amico nella foresta, illusionista?»
La sua voce vellutata non era che un soffio.
Tuomas continuò a trafiggerlo con il suo sguardo pieno di astio – gli era rimasto solo quello per ferirlo, ormai –, ma non rispose.
«Perché volevo avere la soddisfazione di sapere di essere stato io ad ucciderlo.»
Per un attimo, l’odio e l’ira negli occhi dell’illusionista si congelarono; era un’affermazione troppo terribile per essere accolta con l’indifferenza.
«E adesso avrò anche la tua vita.»
Sorrise, e affondò il coltello nel petto di Tuomas.
Poi, l’illusione sparì.
Dominic si ritrovò solo, sulla riva del fiume, e prima che si accorgesse dell’inganno in cui era caduta la sua mente il vero Tuomas si gettò su di lui da dietro un tronco e lo colpì in viso più forte che poté.
L’uomo-gufo stramazzò a terra, e il tastierista si augurò di avergli rotto la mascella.
Si accorse del pugnale, caduto insieme al suo possessore, e poi il resto fu solo un’accozzaglia di immagini rese confuse dall’adrenalina.
Lui che si lanciava verso il coltello, lo impugnava e, velocissimo, lo conficcava nella schiena del suo nemico.
Una, due, tre volte, finché le sue mani non si coprirono di sangue e tutta la rabbia, l’odio, il dolore e la paura non furono scomparsi, lasciando dietro di sé solo il vuoto e un vago senso di nausea.
Buttò via l’arma, osservandola schifato, e si lasciò cadere accanto ad un tronco, sfinito e tremante.
Rimase così, per un tempo indefinito, finché un’ombra non attirò la sua attenzione.
Alzò lo sguardo, e vide una figura incappucciata che gli faceva cenno di seguirla.

***

Chissà perché, proprio quando le quattro persone rimaste a bordo della barca stavano per cedere al dolore e alla stanchezza, i tentacoli si erano ritirati e le repellenti creature fluviali erano nuotate via.
Così Jukka, Anette, Lisanna ed Emppu si erano ritrovati soli, sperduti in mezzo al legno marcio e scricchiolante della loro imbarcazione, e si erano stupiti di vedersi ancora vivi.
Con cautela, immersero le mani nell’acqua gelida sotto di loro e remando alla bell’è meglio guidarono l’imbarcazione fino a riva, dove caddero a terra, stremati.
Erano vivi, eppure non c’era sollievo nei loro occhi. Solo tanto dolore.
Emppu si rannicchiò vicino ad un cespuglio e tentò di non mostrare agli occhi vacui di Jukka ed Anette le lacrime che gli stavano all’improvviso solcando le guance.
Lisanna era china sull’acqua grigia, e per quanto provassero a farla ragionare lei non voleva spostarsi neanche un centimetro da lì.
«E’ qui da qualche parte» ripeteva. «Qui da qualche parte.»
Nessuno le credeva. Nessuno voleva crederle. A che scopo, riempirsi il cuore di una speranza maligna, che avrebbe solo alimentato il loro dolore quando si sarebbero accorti che Marco non sarebbe ritornato mai più?
Ma lei non voleva capirlo. Perché non le interessava nulla dei loro futili discorsi riguardo alla speranza o al dolore. A lei interessava solo ritrovarlo, e fare qualsiasi cosa per riuscire a strapparlo alla morte.
Passarono le ore, e lei rimase sulla riva del fiume, ad attendere e pregare.
I suoi occhi si erano riempiti di lacrime, e aveva quasi deciso di rinunciare, quando una ciocca di capelli biondi le raggiunse la mano che teneva inutilmente immersa nel fiume.
Lisanna ebbe un tuffo al cuore, ma non si preoccupò dei suoi battiti impazziti quando immerse anche la testa nel tentativo di vedere ciò che quei capelli potevano significare.
E infatti, eccolo.
Gli occhi chiusi, i vestiti a brandelli e il corpo martoriato dalle impronte violacee dei tentacoli urticanti, veniva trasportato alla deriva dalla leggera corrente del fiume.
Senza pensarci due volte, Lisanna si slacciò la gonna ingombrante che non avrebbe fatto altro che tirarla a fondo e si tuffò nel grigiore del fiume prima che qualcuno potesse fermarla.
Il corpo di Marco non era molto lontano, ma il gelo fece in tempo a penetrarle nelle ossa e, per un attimo, mentre lo afferrava per le braccia e nuotava verso la superficie, temette seriamente di non farcela.
Ma poi una mano spuntò da nulla, e lei la afferrò piena di riconoscenza.
Jukka li issò entrambi a riva, il viso pallido stravolto dall’angoscia, che però si mitigò subito quando vide che Lisanna stava bene e che era riuscita a riportare indietro il corpo di Marco.
Si chinò su di lui – Dio, com’era freddo! – e lo tastò con mani esperte.
«Non respira» mormorò Lisanna, inginocchiata di fianco a lui.
Lui si girò verso di lei, e vide il panico nei suoi occhi.
«E’ vivo.»
Vide Emppu voltarsi di scatto verso di loro, e anche Anette si alzò dalla pietra dov’era seduta, stupita.
Jukka sentì il sapore amaro delle parole che stava per dire. Era quello il brutto dell’essere un guaritore: constatare per primo le cattive notizie, e doverle poi comunicare a tutti gli altri.
«Ma morirà presto.» aggiunse infatti, la voce roca. Gli si era seccata la gola. «Il problema è che non ho idea di come fare a curarlo.»
Tuomas arrivò di corsa in quel preciso momento.
«Jukka!»
Aveva gli occhi grigio azzurri pieni di sorpresa, e speranza, ed erano uno strano contrasto con le mani sporche di sangue.
«C’è una casa, giù nella foresta! Una casa viva!» gridò.









Ciò che dice l'Autore
Lo ammetto, in questo capitolo sono stata davvero cattiva con i nostri poveri NW. Beh, dopo tanta fatica, adesso non posso che farli riposare un po', prima dell'ultima - dolorosa U.U - parte del loro strano viaggio ^^
Qualche precisazione riguardo a Ghost River: come per tutte le altre, mi sono appoggiata alle traduzioni che si trovano sul sito www.nightwish-italy.com, e l'ho un attimo modificata per darle un senso all'interno della storia (sempre ovviamente attenendomi al testo originale!). Nell'ultima parte ci sarebbe dovuto essere il ritornello in mezzo alle due strofe, ma ho pensato che ripeterlo sarebbe stato abbastanza noioso e allora l'ho omesso... spero che nessuno prenda a male le libertà che mi sono presa nell'usare questo capolavoro!
Dunque, finalmente Dominic è morto! Purtroppo si è portato con sè nella tomba anche tutti i suoi segreti, ma il bello di avere un narratore onnisciente è poter conoscere anche i piani del nemico, quindi i suoi segreti per noi non rimarranno segreti tanto a lungo ^^ In realtà avevo intenzione di far scoprire la verità su di lui già in questo capitolo, ma ho dovuto tagliare la parte per motivi di lunghezza, come al solito xD Penso che accadranno i miracoli quando riuscirò a mettere in un capitolo tutto quello che avevo intenzione di metterci all'inizio xDD
Niente, spero vi sia piaciuto - il mio consulente personale lo ha odiato perchè Marco c'ha quasi rimesso le penne...ups - e grazie ancora per tutto, per averlo letto e per essere arrivati fino al quattordicesimo capitolo della mia storiella!
Baci!!























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Capitolo 15
*** Quarta Carta: il Ricordo ***


Prima c’era solo nero, un buio viscoso e soffocante, di cui lui era cosciente solo a metà.
Poi, pian piano, la sua mente annebbiata cominciò a risvegliarsi, disorientata come dopo un lungo letargo, e Marco finalmente poté porsi delle domande che avessero un senso, al posto degli stralci di frasi e pensieri che gli erano sfrecciati davanti attraverso quell’odiosa nebbia nera, troppo veloci perché lui potesse afferrarli.
Cos’era successo agli altri?
L’angoscia fu la prima emozione che lo invase appena fu abbastanza lucido da riuscire a riconoscerla, forte come quando l’aveva lasciata, e lui si sentì riempire d’amarezza: aveva sperato di poterla abbandonare per sempre, pur sapendo bene che sfuggirle era impossibile.
La seconda emozione che provò fu una sorta di meravigliato stupore, quando capì in che razza di assurda situazione si trovava. Era sdraiato su qualcosa di morbido, e non sentiva la gelida morsa dell’acqua ghiacciata schiacciargli il petto ed entrargli nelle ossa e nei polmoni.
Lui non era morto. Non era morto. Ne era certo. Altrimenti, come spiegare il bruciore acuto che gli si stava propagando lungo gli arti? Solo in vita si poteva provare un dolore così forte ed improvviso.
D’un tratto, capì di stare bruciando vivo, ma la prospettiva non lo sconvolse così tanto come avrebbe dovuto, e si chiese se quell’incosciente freddezza nei confronti della propria sorte fosse in qualche modo dovuta allo shock di aver conosciuto la morte appena in tempo per poterle poi scivolare tra le dita.
Rimase a rimuginare sulla propria attuale situazione ancora per qualche minuto – chi l’aveva tirato fuori dall’acqua? E come aveva fatto a non finire sbranato dalle creature fluviali? E perché colui che l’aveva salvato aveva voluto dargli fuoco? –, poi decise di provare ad aprire gli occhi.
Con sua grande sorpresa, le palpebre risposero subito ai suoi comandi, e si schiusero sopra un mondo di luci abbaglianti, e indemoniate figure geometriche che si divertivano a cambiare posizione ogni volta che lui tentava di metterne a fuoco una.
Tutto quel carosello di assurdità lo spaventò, e lui si affrettò a chiudere gli occhi, immergendosi di nuovo nel suo buio ovattato.
…Che vigliacco. Non riusciva nemmeno ad affrontare gli scherzi dei suoi sensi deboli e disorientati.
Strinse i denti, e aprì gli occhi una seconda volta.
L’incubo era ancora lì, ad aspettarlo, ma lui si costrinse a combattere contro il giramento di testa e dopo qualche attimo di lotta estenuante finalmente riuscì a riconoscere alcune sagome che avessero un senso in mezzo a tutto quel suo mondo sballato.
Travi. Travi di un soffitto.
Travi di legno. Come faceva a non andare in cenere, tutto quel legno, sotto le fiamme del rogo in cui stavano bruciando le sue braccia?
Poi Marco girò la testa e si accorse di un particolare fondamentale. Non c’era alcun rogo all’interno della stanza; solo lui, su un letto. E le braccia erano cosparse di una sostanza verdastra.
Roghi. Roghi! Davvero aveva pensato che in una casa ci potessero essere dei roghi, senza che questa andasse in cenere in meno di un minuto? Si chiese se i litri d’acqua che aveva ingurgitato non avessero anche dato una tragica sciacquata al suo cervello.
In realtà, il vero problema non era quello, ma scoprire come era avvenuto il suo salvataggio. E perché. E di chi fosse quella casetta. L’ultima volta che aveva visto gli altri non erano sicuri nemmeno di riuscire a tenersi stretti la vita, figuriamoci di possedere una casa!
No, il suo salvatore doveva per forza essere qualcun altro.
Cercò di mettersi a sedere, ma il resto del corpo non gli ubbidiva bene come gli ubbidivano gli occhi, e si scoprì infinitamente debole, come se qualcuno avesse provveduto a ridurre in poltiglia ogni singolo muscolo all’interno del suo povero corpo martoriato.
In quell’esatto momento la porta si aprì, e una figura maschile entrò lentamente nella stanza. A Marco ci volle qualche secondo per riconoscere Tuomas in quell’uomo dagli occhi così tormentati e malinconici, in fondo ai quali brillava una scintilla cupa che il guerriero conosceva fin troppo bene: quella che ardeva in tutti coloro che avevano dovuto uccidere per evitare di essere uccisi.
Eppure, lo straordinario colore plumbeo di quelle iridi era rimasto invariato, come anche i suoi capelli corvini e i lineamenti del suo viso, che ormai a Marco risultavano familiari quasi quanto quelli del proprio.
L’illusionista prese una delle sedie di legno che si trovavano attorno al tavolo al centro della stanza, la mise accanto al letto e vi si sedette, strofinandosi il volto stanco con le mani.
«Dannazione, Marco, perché non ti svegli…» sussurrò, quasi per se stesso che per il vichingo sdraiato accanto a lui. Non si era accorto delle sue palpebre socchiuse. «Hai ancora un sacco di cose da fare qui… devi combattere, e proteggerci, e devi farci da capitano. Anette da sola non ce la fa. …Ti ho anche ripescato l’ascia, devi alzarti e continuare ad usarla. Ti prego.» sospirò. Teneva la testa china. «Devi ricordare tutto, e allora ci divertiremo. Faremo a gara a chi beve di più nei pub – so bene che vinci sempre tu, ma mi diverto troppo a vederti così rosso –, e poi suonerai, e canterai. Devi… devi uccidermi perché ho perso la tua spada, devi…» gli morirono le parole in gola, e allora rimase in silenzio, curvo come se il peso di tutte le sconfitte del mondo gli gravasse sulle spalle.
Il guerriero avrebbe voluto dire tante cose. Avrebbe voluto esprimere lo stordimento che provava, provocato dalla felicità più grande che un uomo potesse provare – erano vivi, entrambi, e con lui Marco sapeva che erano vivi anche tutti gli altri, in qualche modo ce l’avevano fatta, non importava come, ma ce l’avevano fatta, ce l’avevano fatta anche per lui.
Ma, in quel momento, c’era qualcosa di più importante che gli premeva in testa.
«Hai… perso la mia spada?»
Marco avrebbe voluto che la sua voce suonasse un po’ più autoritaria, e molto più arrabbiata, ma ottenne solamente un bisbiglio roco che emerse a fatica dal fondo della sua incoscienza, non ancora abbandonata del tutto.
La reazione di Tuomas, però, fu come quella di un uomo che avesse appena udito un grido: alzò la testa di scatto, gli occhi sbarrati pieni di meraviglia, e speranza, e gioia. Si protese verso di lui, e il vichingo sorrise debolmente, nel notare che non riusciva a contenere l’emozione.
Che rammollito, quel damerino da quattro soldi…
«…Marco?»
La sua voce tremava, e il sorriso del guerriero si allargò.
«Non ti risparmierò la vita per questo, sappi» mormorò, ma già non si sentiva credibile, mentre anche i suoi occhi cominciavano a farsi lucidi, nel tentativo di sfogare un’emozione che non poteva avere nome; erano rinati insieme, quel pomeriggio.
Tuomas tentò di nascondere le lacrime, e la risata che gli era salita in gola insieme a loro, ma non ci riuscì e la sua risposta fu un singulto violento di riso e pianto insieme.
Corse alla porta, che spalancò, e si gettò fuori scosso ancora dai singhiozzi, ma con un gran sorriso sul volto.
«Sì è svegliato! È sveglio! Ragazzi!» urlò, urlò di gioia. «E’ sveglio…»
Quando sentì lo scompiglio portato dalle grida dell’illusionista, il guerriero ridacchiò e chiuse gli occhi per un attimo, assaporando la sensazione di essere vivo.

Era sera, e i festeggiamenti per il risveglio di Marco erano già finiti.
Lisanna sospirò, e sorrise, quando vide Jukka ed Emppu dormire profondamente, i volti ancora rossi a causa di tutto l’alcool che si erano ingurgitati a furia di ridere e cantare. In effetti, avevano cantato anche troppo; non aveva mai sentito due persone così stonate distruggere insieme il nome della musica intera nel giro di qualche minuto scarso.
Ridacchiò, ripensando alle scene che aveva fatto Marco quando gli era stato detto che lui non poteva assumere alcolici, ma tornò subito seria nel pensare alla sua voce stupenda. Lui, a cantare, sarebbe stato un angelo in terra… anche da ubriaco.
Entrò nella casetta con cautela, facendo attenzione a non fare rumore, intenzionata a lasciare i panni puliti e uscire di corsa, ma dovette fermarsi, contro la sua volontà, quando vide il viso del guerriero rilassato dal sonno. L’amore le strinse il petto come in una morsa, e lei per poco non si sentì soffocare. Ma dopo, quando si fu abituata alla sofferenza che le provocava l’intensità di quell’emozione, sorrise  e si lasciò invadere dal suo dolce dolore. Sapeva di non poter evitare di subire il potere che la tenerezza – ma anche il terribile fascino – dei suoi lunghi capelli biondi e della sua aria da duro guerriero vichingo, sempre pronto a mettere il bene degli amici prima del proprio, esercitava su di lei.
«Lisanna?»
La giovane donna trasalì, e si affrettò a distogliere lo sguardo dal suo volto.
«Scusa, non volevo svegliarti. Adesso vado a dormire, ecco…» si avviò veloce verso la porta, le guance in fiamme, poi si accorse di aver ancora in mano il cesto di panni puliti e tornò repentinamente sui propri passi. «Sì, ehm… credo di aver dimenticato…»
Posò in fretta e furia il cesto sul tavolo, abbandonandolo lì alla bell’è meglio, e si voltò di nuovo per schizzare verso l’uscita e andare a nascondersi dietro ad uno dei cespugli più vicini.
Il suo piano sarebbe stato perfetto, se lei non avesse sentito la debole stretta di Marco avvolgerle il polso e non fosse stata costretta a bloccarsi, incatenata al terreno dagli stessi battiti frenetici del proprio cuore.
«Che ti prende?»
I loro occhi si incontrarono, e lei davvero non seppe cosa rispondere, mentre lo vedeva scrutarla fino a leggerle l’anima. Sì sentiva inerme, e completamente nuda, davanti allo sguardo penetrante dei suoi occhi azzurri.
«Rimani a farmi compagnia?» le domandò, lasciandola andare.
Per un istante rimase immobile, incapace di fare altro se non di sentire il proprio cuore lottare per saltarle via dal petto, poi abbassò il capo ed annuì impercettibilmente.
«Certo» sussurrò, e si sedette sulla sedia che tanto lei e Tuomas avevano usato durante quei giorni di terribile attesa.
Un silenzio imbarazzante calò tra di loro, lei si studiava le mani fingendo che fossero interessantissime, ma sentiva lo sguardo di Marco bruciarle sul volto, e si chiedeva quali potessero essere, ora, i suoi pensieri.
«Raccontami bene che cos’è successo mentre io ero svenuto. Chi mi ha tirato fuori dall’acqua?»
Lisanna si immobilizzò, ripescando quei ricordi orribili nella sua testa. Il corpo di Marco galleggiare nel fiume, così simile a quello di un uomo senza vita, i segni viola dei tentacoli addosso… si strinse nelle braccia, tentando di scacciare i brividi e il terrore che aveva rievocato dal passato.
«Sono stata io»
Non ebbe il coraggio di guardarlo negli occhi mentre lo confessava.
«Davvero?»
Sentì lo stupore nella sua voce, e allora sorrise lievemente della sua incredulità.
«Lisanna. Vuoi guardarmi?»
Il suo corpo fu percorso da una scarica di pura elettricità, e lei sperò tanto che lui non se ne accorgesse, mentre gli ubbidiva e lentamente alzava la testa incontrando i suoi occhi.
Il suo viso era stanco, provato, invecchiato prima del tempo, eppure lei riusciva vederci qualcosa di profondamente bello senza alcuna difficoltà.
«Mi hai salvato la vita, lo sai questo?»
«E sono ancora in debito con te.»
Lui scosse la testa, la osservò bene, ma non disse nient’altro. Aveva visto, nei suoi occhi verdi, la determinazione di chi era certo delle proprie idee.
«Come vi siete liberati del gufo? E Tuomas? Come avete fatto a trovarli?»
«Erano insieme» rispose lei. «Il gufo ci ha separati e ci ha attirati nelle trappole che aveva preparato per noi.» aggrottò la fronte. «Per qualche strano motivo, lui voleva Tuomas.»
Marco si irrigidì, e ripensò alla scintilla che aveva solo intravisto negli occhi dell’amico. Gli si strinse il cuore. Che cosa aveva dovuto affrontare, da solo? Lui sapeva che non era un combattente.
«Tuomas l’ha ucciso.» continuò. «E ha scoperto questa casa. Qui abbiamo trovato tutto; anche i libri di medicina che hanno permesso a Jukka di curarti.»
Gli occhi del guerriero si riempirono di stupore. Una casa del genere non esisteva nemmeno nei racconti più rosei che si narravano ai bambini per spiegare loro che potevano esserci anche alcune creature soprannaturali benigne.
Ci mise invece di più per metabolizzare la morte del gufo. Per quanto l’avesse odiato in vita, e sebbene sapesse perfettamente che razza di schifoso traditore era stato, gli sembrava strana ora la sua morte, tanto in quei pochi giorni passati insieme si era abituato alla sua presenza.
L’immagine del lungo bacio che si era scambiato con Lisanna lo folgorò per un istante, e lui ne venne colpito come da un pugno.
La guardò, tentando di non lasciar trapelare dal suo sguardo tutto l’affetto che provava per lei. Così bella, e così nervosa… si chiese che cosa la stesse mettendo tanto a disagio. Forse era la sua presenza, e all’improvviso si sentì goffo e indesiderato.
Deglutì, e per una volta fu lui ad abbassare gli occhi.
«E’ tutta colpa mia, Marco.»
Il suo sussurro lo colse completamente alla sprovvista. Tornò a guardarla, e vide che una delle sue mani stringeva nel pugno la sua coperta.
«Mi sono subito così ciecamente fidata di lui…»
«Tutti ci siamo fatti abbindolare»
«Tu no.»
Per un secondo, solo per un secondo lui non seppe che cosa rispondere, poi sorrise e poggiò la propria mano su quella di lei, aprendogliela dolcemente e facendole lasciare la coperta.
«Se ci sono stati errori, allora sono stati errori di tutti. Va bene, Lisanna?» le prese il viso con l’altra mano, per poterla guardare negli occhi, quegli occhi verdi così belli e profondi, eppure troppo spesso nascosti dai mille veli del suo imbarazzo. «E’ così che funziona un gruppo.»

Poco lontano

Tuomas era seduto, con la schiena appoggiata ad un tronco, e guardava la luna.
Gli era sempre piaciuta la luna; ma soprattutto, il manto con cui lei si adornava ogni sera, la notte.
Non per niente, Nightwish gli era sempre piaciuto come nome per il gruppo. Era stato un po’ come dare un nome ad un pezzo della propria anima, e lui non avrebbe saputo definirsi in maniera migliore.
Sospirò, osservando la grazia e la lucentezza di un astro che brillava in un cielo che non era il suo. E pensò, come sempre, alla figura incappucciata che gli aveva permesso di trovare la casa, e di dare una speranza di salvezza a Marco.
Non aveva detto a nessuno di quell’incontro; nemmeno lui sapeva bene perché.
Forse perché sentiva che, qualunque cosa fosse, faceva parte del suo animo, abitava in un luogo troppo profondo dentro di sé perché lo potesse aprire a tutti. Eppure, il segreto di quel mantello non lo conosceva nemmeno lui.
Ma, all’improvviso, eccolo, quel suono inquietante eppure così straordinariamente familiare.
Tuomas balzò in piedi e, con il cuore che batteva, vide il suo fantasma personale ergersi a pochi metri da sé. L’illusionista non poteva vederlo bene, perché era di spalle, ma era certo che fosse lui; e il suo stupore si tramutò subito in determinazione.
Voleva che le domande che l’avevano assillato avessero finalmente risposta.
Lanciò uno sguardo alla figura rassicurante della casa dietro di sé, notò che tutte le luci erano spente e prese coraggio. Si girò – il fantasma era sempre lì, a fluttuare a pochi passi da lui –, si protese verso quel mantello sudicio e nero e appoggiò la mano su quella che avrebbe dovuto essere la sua spalla, per indurlo a voltarsi.
Un pizzicore allo stomaco gli suggerì di star provando paura, paura di quello che avrebbe potuto vedere, ma in quell’esatto momento – mentre la figura incappucciata si girava e gli lanciava un lungo sguardo, malinconico quanto penetrante – lui si rammentò di una cosa, che era rimasta confinata nel più piccolo angolo della sua mente e che non era più uscita, fino ad allora.
Un sogno.
Lui aveva fatto… un sogno.
E se ne ricordò, proprio mentre Tarja lo osservava con la sua espressione struggente, da sotto il cappuccio scuro.
Per un attimo a lui mancò il fiato, e lei indietreggiò, sottraendosi al loro contatto. Fu allora, che lui capì.
Il ricordo.
Avanzò, tese una mano, ma lei di nuovo fece un passo indietro, come se avesse paura di lui.
«Tarja…»
Sorrise, ma in risposta lei scosse la testa, sempre malinconica, quasi spaventata.
Lui si fermò, e la osservò per un attimo.
Non era cambiata in nulla… e anche per questo ebbe un tuffo al cuore nel guardarla in volto. Sentì la ferita riaprirsi, lentamente, come se volesse gustarsi il suo dolore piano piano. Per un attimo si domandò perché, perché l’aveva cacciata in quel modo cancellando con un unico gesto l’amicizia più importante della sua vita.
Ma poi si ricordò di lei, di com’era prima che tutto quel delirio cominciasse, dei suoi capricci e della sua vanità.
E gli si spezzò il cuore una seconda volta, quando riconobbe di aver fatto la scelta giusta.
Ma la donna che aveva davanti in quel momento non era così. Era triste, impaurita, smarrita, a lui faceva tenerezza, e non poteva impedirsi di volerle bene.
«Sei stata tu a mostrarmi la casa?»
Lei annuì, osservandolo con quei suoi occhi tristi.
L’illusionista sorrise, quasi senza accorgersene, e scosse lievemente la testa quando vide che lei era molto più perduta di lui.
«Grazie.» sospirò, tentando di eliminare il groppo che gli si era formato in gola, senza riuscirci. «…Tu non sei Tarja.» aggiunse. «Chi sei?»
Lei lo guardò di sbieco, poi abbassò il capo e i suoi lineamenti vennero nascosti dall’ombra del cappuccio.
Fu allora, che incominciò a cantare…

Palazzo Imperiale

Barricato nell’enorme stanza da letto dei suoi appartamenti, l’Imperatore era in piedi davanti alla finestra, ignorando completamente le pesanti coperte di broccato rosso e i veli dorati del baldacchino che avrebbero dovuto custodire il suo sonno.
Aveva pensato che sarebbe stato facile, ucciderli tutti, e ora era costretto ad ammettere di essersi sbagliato.
E lui odiava sbagliarsi.
Chiuse gli occhi, e cominciò a tremare violentemente, mentre i suoi muscoli scaricavano incontrollati una folle tensione, ovvero quella di aver dovuto controllare un burattino così potente a tante miglia di distanza.
In quell’istante, il corpo di Dominic non si stava decomponendo, ma stava tornando alla terra come argilla, perché dall’argilla era stato generato.
Non era stato per nulla difficile scoprire da che cosa il mago era stato salvato dalla morte, sulla nave e, sebbene non avesse idea di come avesse fatto un pusillanime come quello a tirare dalla propria parte delle creature sovrannaturali così potenti come il Gufo o il Corvo, l’Imperatore aveva subito trovato il modo per servirsi di quell’alleanza per i propri scopi.
Smise di tremare, ma la sua rabbia non si placò, e batté un pugno contro il davanzale della finestra.
Era arrivato così vicino ad ucciderli, ucciderli tutti…
Si girò di scatto, spense tutte le candele della stanza ed evocò la propria fiamma blu con un urlo indemoniato. Poco importava che qualcuno lo sentisse, anzi, meglio, avrebbero avuto ancora più paura di lui.
Una luce azzurra cominciò ad ardere sulle soffici coperte del letto, e lui non esitò ad infilarci dentro le braccia, rabbiosamente.
«Che cosa sta facendo quel figlio di puttana? Eh? Cosa? Cosa?»
Il fuoco si piegò e si contrasse, come se per una volta fosse riluttante ad eseguire gli ordini del suo padrone, e l’Imperatore quasi ruggì per la rabbia e lo sforzo di plasmarlo con la violenza e immergerci la testa per distinguere le ombre che era riuscito ad intravedere da fuori.
Il mondo attorno a sé divenne di un blu tremolante, ma non ci fece troppo caso e preferì invece dedicarsi a quello che vedeva.
Il volto bianco latte di una donna, spuntare dal grigio sudicio di un mantello.
Sul suo viso si dipinse una smorfia inorridita mentre la riconosceva e scattava all’indietro. Cadde dal letto, e la fiamma blu si spense, repentina, lasciandolo nel buio.
Rimase seduto nell’oscurità ad ansimare ancora per qualche secondo, poi riuscì a trovare la forza di schioccare le dita con mano tremante, e tutte le candele della stanza si accesero di colpo.
Si precipitò fuori dai propri appartamenti, urlando: «Tutte le guardie presenti nel castello! SUBITO!»

Poche miglia lontano dal Fiume Fantasma

Solo una volta, Tuomas, era rimasto a bocca aperta davanti al canto di qualcuno, ed era stato quando una sirena era spuntata tra le onde per condurlo nella sua dimora tra gli abissi. Eppure, mentre ascoltava Tarja (o quella che ne era il suo riflesso) cantare, scoprì che al mondo esisteva qualcuno con una voce più bella di quella delle sirene.
E mentre lei si piegava sotto il peso del cappuccio che era costretta a portare per vergogna di sé stessa, alcune note, perfette e vibranti, andarono a conficcarsi nel cuore dell’illusionista.
«Io sono questo per l’eternità: una dei perduti. L’unica senza nome, senza un cuore sincero come guida.»

This is me for forever
One of the lost ones
The one without a name
Without an honest heart as compass


«Io sono questo per l’eternità: una senza nome. Queste ultime righe sono l’unico tentativo di ritrovare la via perduta.»

This is me for forever
One without a name
These lines the last endeavor
To find the missing lifeline


«Oh, come desidero una pioggia rassicurante, tutto quello che desidero è sognare ancora. Il mio cuore devoto, perso nell’oscurità… darei tutto ciò che ho, per la speranza.»

Oh how I wish
For soothing rain
All I wish is to dream again
My loving heart
Lost in the dark
For hope I`d give my everything


Cadde a terra inginocchiata, e per un attimo si soffermò a sfiorare la corolla di un fiore notturno.
Poi, alzò lo sguardo malinconico dei suoi occhi verdi, quasi di ghiaccio, ormai sciolti dalla sua tristezza, e continuò a cantare del proprio dolore mentre Tuomas sentiva i brividi corrergli lungo la spina dorsale.
«Il mio fiore, appassito in mezzo alle pagine due e tre. La fioritura eterna e di una volta, scomparsa con i miei peccati.»

My flower, withered between
The pages two and three
The once and forever bloom
gone with my sins


Si alzò subito e, trasportata dalla canzone che stava cantando, si avvicinò lentamente a Tuomas.
La sua espressione era tormentata, e supplichevole.
«Cammino lungo il sentiero oscuro, dormo insieme agli angeli, chiamo il passato ad aiutarmi.»
Ora erano faccia a faccia, potevano sentire il respiro l’uno dell’altra – quello di Tarja era gelido, eppure aveva un profumo che lui non si sarebbe mai stancato di sentire –, ma tutto quello che lei fece fu appoggiargli una mano candida sul petto, lì dove batteva frenetico il suo cuore.
E le ultime note furono sottovoce, timorose, eppure vibravano accorate, come la luce nel verde degli occhi di lei.
«Toccami con il tuo amore… e rivelami il mio vero nome.»

Walk the dark path
Sleep with angels
Call the past for help
Touch me with your love
And reveal to me my true name


Quando Tarja smise di cantare, Tuomas si riscosse, e scoprì di avere gli occhi pieni di lacrime.
Se le asciugò in fretta, mentre lei lentamente lasciava scivolare via la mano dal suo petto, ma non c’era il rischio che lui se ne dimenticasse, perché la sua impronta era rimasta incisa a fuoco nel suo cuore.
«Ti prego, liberami, Tuomas…» bisbigliò lei.
Era la prima volta che lui la sentiva parlare, e la sua voce gli sembrò distaccata e sovrannaturale, ma al contempo calda e familiare come la propria.
«C’è qualcosa che mi tiene incatenata. E mi fa male.»
Vide il terrore nei suoi occhi.
«Mi fa tanto male. Io… io non so più chi sono…»
A Tuomas si strinse il cuore nel vederla in quello stato, e sentì un’amicizia durata anni pervadergli il cuore, potente come l’aveva lasciata,  e lui si stupì, perché credeva di averla ormai dimenticata. E in quell’esatto momento, lui seppe che per lei avrebbe fatto qualsiasi cosa.
«Ma come farò a liberarti?»
Lei si strinse nel mantello, e indietreggiò fino a diventare una figura appena distinguibile tra i rami.
Stava già per scomparire nella notte, quando parlò, e la sua voce risuonò vicina a lui come se gliel’avesse sussurrata nell’orecchio.
«C’è un palazzo d’oro su una verde collina, e dentro al palazzo c’è un mago crudele. La malvagità dell’incantatore ha creato uno scrigno; e dentro lo scrigno ci sono io.»
Le sue ultime parole aleggiarono impalpabili nell’aria.
«Liberami, Tuomas, e allora libererai anche te stesso»

In un solo istante accaddero molte cose.

Marco e Lisanna smisero di parlare di cose che alla fine non interessavano a nessuno dei due, si guardarono negli occhi, per davvero, per la prima volta.
Poi lui le prese delicatamente il volto tra le mani, le sorrise e la attirò dolcemente a sé, stringendola forte mentre le loro labbra si modellavano le une sulle altre come tessere perfette di uno stesso puzzle.

L’Imperatore stabilì come ricompensa una fortuna in oro, che sarebbe andata a chiunque sarebbe riuscito a catturare Tuomas e a portarglielo nel suo castello.
Vivo.
Rigorosamente vivo.

E Tuomas capì che, se davvero avesse voluto mettere fine a tutta quella terribile storia surreale, avrebbe dovuto penetrare nel castello, ed affrontare faccia a faccia un incubo immortale, e molto, molto più potente di lui.









Ciò che dice l'Autore

Eccoci qui, con il quindicesimo capitolo! Questo chap si è fatto attendere più del solito, ma la ripresa delle attività per me è stata davvero dura e mi scuso se vi ho fatti aspettare più del previsto.
Finalmente la verità su Dominic viene a galla; vi dirò, mi dispiace molto l'idea di aver fatto essere un burattino d'argilla il mio cattivo meglio riuscito... sigh. Ancora Dominic mi fa sospirare... la mia creatura!! ...Ma vabbé.
Marco e Lisanna diventano tanto teneri *w* Finalmente si dichiarano amore eterno e vissero tutti felici e contenti. Anche se la loro storia d'amore in realtà non è ancora finita, per ora mettiamola così!
Taarja :C Altra sorpresa shock: è lei il ricordo! Il mio fantasmino perduto.
Questo capitolo funge da spartiacque tra la prima parte della storia - loro che arrivano in questo mondo alternativo, si ritrovano, capiscono di volersi bene e di fidarsi l'uno dell'altro e capiscono chi sono i loro nemici - e la seconda ed ultima parte - le battaglie con i nemici e il finale -, seconda parte che li farà penare parecchio (se vi sono sembrata crudele in questi primi quindici capitoli, per voi sarà l'inferno quello che farò succedere nei prossimi! Muahahah! Malvagità mode: on).
Seconda parte in cui (tra l'altro) la narrazione tornerà a spostarsi principalmente su Tuomas (:3) che poi diventerà (ovviamente) il figone della nostra storia.
Insieme a Marco, naturale.
Allora, a parte queste piccole spiegazioni, spero tanto che il capitolo sia piaciuto!
Spero di poter pubblicare il prossimo al più presto.
Grandi baci!






















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Capitolo 16
*** La Spedizione ***


Tuomas chiuse gli occhi, e prese un respiro profondo.
Stava per dirlo.
Non poteva crederci, stava per dirlo.
Riaprì gli occhi, raccolse tutto il coraggio che riusciva a trovare e aprì lentamente la porta di casa.
«Dobbiamo entrare nella Capitale.»
Marco si era rimesso in piedi già da qualche giorno, ma gli avevano imposto a forza di rimanere riguardato, pur sapendo benissimo che scalpitava per uscire da quella situazione di finta tranquillità che stava sfibrando un po’ tutti ormai.
Cinque paia di occhi lo fissarono attonite nello stesso esatto momento.
«Che?»
La faccia sconvolta di Emppu sarebbe stata anche divertente, se la situazione non fosse stata così tragica.
Jukka ridacchiò ed infilò nella cintura il pugnale che stava affilando. «Curioso. Pensavo che  la Capitale fosse esattamente il posto che dovevamo evitare.»
Marco e Lisanna entrarono in quel momento, e solo allora Tuomas si accorse del gran sorriso sul volto del vichingo, e delle guance rosse di lei, sotto la luce felice nei suoi occhi verdi. Lui le cingeva la vita, e al tastierista venne un terribile sospetto.
Lanciò uno sguardo allarmato ad Emppu, ma lui era rimasto a riflettere su quello che voleva dire entrare nel covo del nemico e non aveva certo la testa per occuparsi delle questioni amorose dell’amico.
«Ehi, perché quelle facce scure?»
«A quanto pare adesso la nostra meta è La Città.» gli rispose Anette, seduta al tavolo con uno sguardo serio.
Marco s’irrigidì sulla soglia di casa, e tolse lentamente il braccio dai fianchi di Lisanna, come se si fosse ricordato improvvisamente quale dovesse essere il suo posto. «…La Città.» ripeté. Attraversò piano la stanza, prese una sedia e vi si sedette, lo sguardo che gli si oscurava sempre di più. «E come mai?»
Tuomas abbassò gli occhi, a disagio. Non avrebbe voluto trascinarli in quell’assurdità; sapeva che era qualcosa di molto rischioso. E sapeva anche che lo stava facendo solo per egoismo: da solo non ce l’avrebbe mai fatta, a trovare il coraggio per compiere un gesto del genere. «Devo entrare nel castello e…» deglutì «rubare una cosa. Che ci permetterà di tornare a casa.» …o almeno, così sperava. Non sapeva che cosa sarebbe successo, quando avrebbe liberato Tarja.
Forse si sarebbe solo guadagnato la sua gratitudine, lei avrebbe recuperato la memoria e si sarebbe trovato con un’altra persona cara da dover proteggere e riportare alla realtà.
Magnifico.
Anette sospirò e posò lo sguardo altrove, lontano, fuori dalla finestra e dalla foresta che circondava il loro unico rifugio sicuro. «Casa…» mormorò.
«Cioè il luogo da cui teoricamente verremmo tutti quanti.»
Tuomas spostò lo sguardo su Jukka, che aveva parlato, e annuì.
Il pirata lo osservò, e per un attimo un lampo di scetticismo brillò nei suoi occhi, ma venne subito rimpiazzato da quella sua espressione ironica e rilassata che tanto era familiare a tutti. «D’accordo, io ci sto.»
Marco si passò una mano sul viso, guardò fugacemente Lisanna, che era appoggiata al muro e stava ascoltando in silenzio come faceva tanto spesso, poi sospirò. «Sì, si può fare.» concluse.
«Ma come faremo ad entrare in città?» domandò Anette.
La domanda colse l’illusionista del tutto alla sprovvista, e lui fu grato di averla con sé, perché non si lasciava mai scoraggiare da nulla, e sapeva sempre come fare a superare qualsiasi problema.
Lei osservò gli sguardi persi puntati su di lei, e un sorrisetto le si delineò in volto, quando capì che nessuno c’aveva pensato. «Ci saranno delle guardie, e ormai da tempo staranno circolando le nostre descrizioni. Dopotutto, siamo abbastanza appariscenti, non ci vuole un genio dell’identificazione per riconoscerci.» spiegò lei.
Il tastierista si accorse della validità della sua osservazione, ed ebbe un attimo di scoramento.
Perfetto, il suo piano era fallito ancora prima di cominciare.
«A quello posso pensarci io.» intervenne Jukka, con un sorriso largo quanto disonesto.
«Ammettendo anche che riusciremo ad attraversare le porte della città, come diavolo faremo a rubare nel castello?» intervenne Marco. «Nel senso… avete presente il castello, vero? È impossibile entrarci con un plotone di uomini ben addestrati ed armati fino ai denti, figuriamoci se un uomo solo (e ricercato, per di più) può sperare di entrarci impunemente, ed uscirci tranquillo portandosi via qualcosa che apparteneva all’Imperatore.»
«Un uomo solo fa molto meno rumore di un plotone di soldati.» ribatté Lisanna, con quel suo tono basso e pacato.
Per qualche minuto la stanza fu immersa nel silenzio, mentre ognuno si lambiccava per tentare di trovare un buon piano d’azione.
Poi, nello sguardo azzurro di Emppu si accese la scintilla di un’idea.
«L’Imperatore riceve i saltimbanchi?»

«Come sto?» domandò Jukka, facendo una giravolta su se stesso.
«Una favola. Sembri quasi una persona sana di mente.»
Tuomas sorrise nel sentire il commento sarcastico di Marco, ma non poteva dargli tutti i torti, era davvero diverso Jukka senza la sua bandana, con i capelli sciolti sulle spalle e il signorile completo blu che gli dava un’aria persino aristocratica… la sua figura pareva ai limiti della normalità, e lui si comportava come se fosse del tutto a proprio agio nella sua nuova identità. Cosa che non si poteva dire per Tuomas, che invece si sentiva un perfetto idiota nella sua tenuta da pirata, ma evitò di lamentarsi, perché sapeva che sarebbe stato nulla, un semplice cambio d’abito, in confronto a quello che avrebbe dovuto affrontare dopo.
Jukka si avvicinò alla porta della casa; tutti lo guardarono in maniera stranamente seria, con una preoccupazione che non poteva essere lenita dal sarcasmo di quella singola frase di Marco.
Dal Fiume alla Capitale ci voleva un giorno di viaggio, a piedi.
«Tornerò il prima possibile.» disse, prima di scomparire nell’oscurità degli alberi che circondavano il loro rifugio. «Non mi ci vorrà molto a rubare i travestimenti adatti. Tra un paio di giorni sarò di ritorno, e potremo procedere alla seconda fase del piano.»
Anche il suo sguardo era serio, troppo, per uno come lui, e fu con quel disagio derivato dal suo comportamento grave che lo guardarono andare, sperando con tutte le proprie forze che il viaggio andasse bene e che il pirata riuscisse davvero ad essere da loro senza nessun problema, come aveva voluto far loro credere.
Quella notte, la passarono in angoscia.
Ognuno, disteso al buio ad osservare il soffitto, si lasciava annegare dalle proprie ansie in quelle immagini orrende che rappresentavano le loro personali interpretazioni di tutte le disgrazie che avrebbero potuto attendere il pirata lungo una via.
Tuomas, poi, aveva anche un’altra preoccupazione per la testa, o meglio, un fastidio, qualcosa che non quadrava, che si aggiungeva a tutto il resto nel compito di torturarlo durante le sue notti insonni. E decise che, almeno quello, sarebbe riuscito a toglierselo subito di mezzo. Quindi si alzò e si avvicinò in punta di piedi alla branda sul quale era disteso Marco, con quello stesso timore reverenziale che la notte incuteva, con i suoi colori argentati e il suo silenzio, quella paura di disturbare chissà che cosa, pur sapendo benissimo che tutti erano svegli.
Tuomas lo salutò con un cenno del capo quando lo vide aprire gli occhi e lanciargli uno sguardo interrogativo. Marco si tirò a sedere, guardando l’illusionista prendere una sedia e qualche cuscino.
«Non riesci a dormire?»
Tuomas abbozzò un sorriso. «Penso che nessuno riesca.»
Il guerriero annuì.
Rimasero in silenzio per qualche attimo, ognuno ad osservare la penombra della casa; poi, quando si accorse che lo sguardo dell’amico era posato da troppo tempo sulla figura di Lisanna distesa a letto, Tuomas si affrettò a parlare. «E’ una bella ragazza, vero?»
«E’ bellissima.»
Quella risposta, così sicura, eppure intrisa di una lieve ma evidente nota di dolcezza, non fece che allarmare il tastierista, il quale sentiva il proprio presentimento prendere la forma di un unico grosso blocco di pietra incastratosi nella sua gola. Tentò di deglutire per scacciarlo, ma senza nessun risultato.
«Sì.» fu quindi la sua unica risposta. Al guerriero però parve non importare della sua loquacità, perso com’era a contemplarla.
«Da quando l’ho vista nella piazza, io…» sospirò «Per questo sono sceso a combattere. Per questo ho ucciso quei soldati, Tuomas…»
Ed ecco che il macigno si ricordò all’improvviso di essere anch’esso soggetto alla forza di gravità, e precipitò dolorosamente fino a schiantarsi sul fondo del suo stomaco.
Marco si era innamorato.
«Marco… io…» cominciò a sudare. «Tu…»
«Che c’è? Cos’hai?»
«…Tu non puoi essere innamorato di Lisanna.» mormorò, in un soffio.
La notte intera si congelò.
«Come?»
Tuomas deglutì, prima di ripetere la frase a voce un po’ più alta. «Tu non puoi essere innamorato di Lisanna.»
Altri minuti congelati.
«Tuomas.»
Sulle labbra di Marco, in quel momento, il suo nome suonava quasi come una minaccia.
Il tastierista si prese la testa tra la mani, chiedendosi angosciato per l’ennesima volta come diavolo poteva aver fatto ad infilarsi in un casino così gigantesco.
«No, no, no, è impossibile, diamine, è impossibile… dimmi che non è vero… No, non può essere vero! Miseria, tu hai due figli, Marco!»
«Ma di cosa stai parlando?!»
Si guardarono negli occhi, di nuovo in silenzio. Quelli di Tuomas erano sbarrati, e frenetici, come il suo cuore che gli martellava in petto. Quelli di Marco pregavano perché le parole dell’amico non fossero vere, in bilico tra rabbia – rabbia nei confronti di chi mirava a distruggere la sua felicità –, e disperazione – disperazione perché non sarebbe riuscito a sopportare la distruzione dell’unica cosa che desiderava –.
«Tu davvero non ti ricordi più di tua moglie.» non era una domanda, la spaventosa rivelazione di Tuomas.
«Ti riferisci a quella fantasiosa storiella che ci avete raccontato, tu e il bardo, è così?»
Tuomas non aveva mai sentito un tono così aspro e risentito venire sputato fuori dalla bocca dell’amico, e ne fu ferito, dolore il suo, misto ad uno stupore quasi ingenuo. Non replicò nulla.
«Io non sono un cantante! Non sono un musicista, capito? La mia professione è combattere, da sempre. Questo mondo non è un’illusione: io, qui, ci sono nato.» si interruppe, per riprendere fiato, ogni sua frase era stata così, una parola detta dopo l’altra, velocemente, scivolata via come per errore. Eppure, quando riprese la calma, non si rimangiò ciò che aveva detto; evidentemente, quello era un discorso che si annidava sotto la sua lingua da molto tempo, e attendeva solo, rapace, il momento giusto per saltar fuori. «Forse, sono le vostre ad essere solo illusioni.»
In tutto questo, Tuomas non aveva detto niente, la sua bocca era rimasta sigillata, e non sarebbe riuscito a farlo neanche volendolo, annichilito dal suo stesso sconcerto nel vedere quel discorso ferire, farlo in profondità.
«Questo non vuol dire che non combatterò con voi. Ma non puoi chiedermi di rinunciare a lei, ora che l’ho trovata, solo per l’eco di una moglie fantasma.». Ancora nessuna risposta. Marco sospirò. «Buonanotte, Tuomas.»
Solo dopo molto tempo, nel cuore della notte, Marco ben lontano da lì, Tuomas riuscì ad aprire bocca, e lo fece con una semplicissima, brevissima frase.
«Manki non è un’illusione.» mormorò, a se stesso.

Erano nervosi, quando giunsero alle porte della città.
Jukka era tornato senza problemi, e questo aveva riportato una parvenza di serenità, ma la tensione tra Marco e Tuomas in qualche modo si sentiva e si rifletteva anche su tutti gli altri.
Emppu non aveva mai visto delle mura medievali così alte e imponenti. In effetti, aveva visto poche mura medievali nella sua vita, e tutte decrepite, ingrigite dai secoli, dai tanti assedi, corrose dal tempo. Queste, invece, erano grigie, di un grigio brillante, ed era strano come il grigio, un colore opaco per eccellenza, potesse allo sguardo risultare così splendente. Splendevano quindi, splendevano di potenza, e con un muto avvertimento: “pregate di non avere cattive intenzioni, perché se fosse così, dovete sapere che noi vi annienteremo”. In quel momento qualcosa di duro gli picchiettò la spalla, e si accorse che Jukka gli stava porgendo una maschera. La prese in mano, un po’ stupito. Esprimeva felicità, una felicità esagerata e grottesca, ma era perfetta per nascondere il nervosismo.
«Grazie.» gli disse con un largo sorriso.
Non perse tempo e se la mise subito; il mondo appariva ovattato, visto dalle due fessure all’altezza degli occhi. Più lontano. Meno minaccioso. Decise che gli piaceva portarla.
Si voltò a guardare gli altri, opportunamente mascherati anche loro: Marco era spaventoso con il suo nuovo volto rosso fuoco e trasfigurato da una rabbia disumana, e Tuomas impressionante nel suo costume dorato, e nel suo travestimento con le sembianze del Sole. I bambini quando li vedevano strabuzzavano li occhi e tiravano eccitati le gonne delle madri, che li sospingevano avanti con dolce fermezza.
Anette quasi scompariva, accanto a loro; gli abiti sgualciti prestatole da Lisanna erano perfetti per una serva, ruolo che le era stato assegnato in quell’enorme commedia, ed anche il più importante rispetto a tutti gli altri, sfarzosi, che invece dovevano fungere da specchi per allodole.
Jukka sarebbe stato dietro le quinte.
«Non è assolutamente giusto.» aveva obiettato Lisanna quando era stato deciso di non portarla con loro.
«Ci sono già abbastanza persone che rischieranno la vita, oggi. Ci sarai più d’aiuto qui.» le avevano risposto. Così, a lei non era restata altra scelta se non quella di affidarsi alle decisioni del gruppo, e guardarli partire impotente senza poter dir loro null’altro che un “buona fortuna”  che sapeva orrendamente di vuoto. Marco, prima di uscire, le aveva dato un bacio, e poi era scomparso oltre la porta lanciando uno sguardo penetrante a Tuomas, che non era riuscito a sostenerlo né aveva detto niente. Lisanna non aveva capito i sottintesi di quel loro strano scambio di espressioni.
«Suona qualcosa, Emppu. Dovranno vedervi tutti attraversare la città.»
Gli ci volle qualche attimo per riscuotersi dai propri pensieri, mettere a fuoco la figura di Jukka a qualche metro da sé che gli dava il suggerimento, capire che cosa volesse dire e imbracciare finalmente la chitarra.
Strimpellò il primo accordo.
Per fortuna la maschera doveva essere felice per lui…
Senza nemmeno essersi messi d’accordo, i tre saltimbanchi improvvisati entrarono in città all’unisono. In testa a tutti stava Emppu: non la smetteva di esibirsi in virtuosismi e complicate melodie con il suo strumento in mano, saltellando in giro a ritmo della sua musica, era tanto tempo che non si esibiva in pura improvvisazione e si era dimenticato quanto fosse rilassante lasciar andare liberamente le dita sulle corde della chitarra, persino in una situazione di tensione come quella. Dietro di lui avanzavano Marco e Tuomas; il primo si esibiva in acrobazie degne del mercenario tuttofare che si era sempre vantato di essere, che comprendevano capriole, salti mortali, passeggiate sulle mani, tutte cose che l’illusionista in passato non aveva mai visto fargli fare una sola volta, fosse una. Il secondo, molto semplicemente, avanzava a passo (apparentemente) sicuro seguendo i saltelli di Emppu, e limitandosi a reggere con entrambe le mani due grosse torce accese e scintillanti di fuoco.
Di certo gli abitanti dovevano aver pensato ad uno spettacolo mirabolante, giunto fin lì da chissà quali affascinanti territori esotici, e avevano per un istante persino sperato di poter assistere a quelle meraviglie; ma quando videro che i passi e le note di Emppu puntavano ad una meta ben precisa, capirono subito e si rassegnarono al loro destino di poterne gustare solo poche gocce, perché in fondo era ovvio che qualcosa di così spettacolare fosse adatto solamente agli occhi di principi e di re.
E, in quel caso, all’unico paio d’occhi di un Imperatore.
«Identificatevi, forestieri.»
Lo sguardo della guardia incaricata di sorvegliare l’immensa entrata del castello, da dietro le piccole fessure lasciate dall’elmo, non era per nulla amichevole.
Emppu fece scivolare la chitarra dietro la schiena e al contempo si esibì in un profondo inchino con un unico gesto fluido, che aveva provato per ore quella sera.
«Saltimbanchi ambulanti.» disse, e alzò gli occhi speranzoso. Nessuna reazione. Scoraggiato, continuò «I nostri spettacoli hanno fatto il giro di molte contrade ed ora giungiamo al castello per tentare di svagare anche i divini occhi dell’Imperatore.». Sperò, con angoscia, di aver parlato bene.
In quell’esatto momento arrivò un paggio, che sussurrò due parole alle orecchie della guardia, per scomparire subito dopo all’interno dell’immenso castello.
«L’Imperatore vi vuole alla sua corte. Prego.» aggiunse la guardia, e si scostò un po’ rigidamente.
L’eco della domanda “come ha potuto l’Imperatore sapere ciò che abbiamo detto al soldato?”, sorta nella mente di Emppu, si spense subito quando i portoni si schiusero davanti a lui, soffocata dallo sfarzo della sala del trono.
Si era indecisi su che cosa colpisse di più l’attenzione; se gli inserti d’oro sulle colonne candide, se le statue raffiguranti bellissime muse e dee della caccia che costeggiavano le pareti, se il mosaico dai colori accesi sul quale stavano camminando, talmente grande da non riuscire a coglierne la trama generale… o se, più semplicemente, la sconcertante vastità di quell’ambiente. In fondo a tutto, stava un trono, un grande trono dai bordi dorati e dai cuscini di velluto rosso, che Tuomas chissà quante volte aveva visto nei disegni dei libri di fiabe. Eppure, il trono era vuoto.
Lo stesso paggio che era venuto a parlare con il soldato, ora posizionato in piedi accanto allo scranno, si schiarì la voce.
«L’Imperatore assisterà allo spettacolo dall’alto.»
I tre alzarono istintivamente la testa, e videro una balaustra correre tutta intorno al salone. Da quella, stava affacciata la figura di un uomo, troppo lontana perché ne potessero cogliere i lineamenti; quello che colpì Tuomas, però, fu la luce – o meglio, l’assoluta mancanza di qualsiasi luce – nei suoi occhi neri come la notte.
«Prego, prego, miei gentili ospiti. Cominciate pure a mostrarmi le vostre abilità.»
La sua voce, una voce profonda, indecifrabile e affascinante al tempo stesso, risuonò chiara rimbombando sulle pareti della sala del trono.
Emppu sospirò, si impose di calmarsi. Non era poi così diverso da un concerto, dopotutto.
La prima nota risuonò nell’aria. E lo spettacolo ebbe inizio.

Tac. Tac. Tac. Tac. Tac. Tac. Tac. Tac.
Anette contava il suono dei suoi passi frenetici per calmarsi, amplificato dal lungo corridoio deserto che stava percorrendo. Era stato facile tramortire una delle serve e prendere il suo posto; e mentre Emppu, Tuomas e Marco si esibivano per tenere l’attenzione dell’Imperatore concentrata su qualcosa di futile, lei era libera di muoversi a piacimento nel castello, per trovare quello scrigno, aprirlo e distruggere qualsiasi cosa si trovasse all’interno. Il problema era che non aveva idea di dove cominciare la ricerca, dato che i dettagli che le aveva fornito Tuomas erano vaghi e confusionari. Fosse stato un membro del suo equipaggio l’avrebbe immediatamente fatto buttare fuoribordo per la sua inefficienza, ma lui era diverso, era un amico, e avrebbe fatto qualsiasi cosa per aiutarlo. Quindi, non avendo alcuna informazione utile, aveva preferito concentrarsi su quell’ala del castello il cui accesso era malvisto anche ai servitori, ovvero quella che ospitava gli alloggi personali dell’Imperatore. Era logicamente il posto più plausibile in cui una cosa davvero preziosa avrebbe potuto essere nascosta e Anette era certa che l’Imperatore, accecato com’era dal proprio potere e dalla propria invincibilità, non si fosse arrovellato troppo nel cercare un nascondiglio.
Giunse ad un bivio. In quell’ala le finestre erano poche e  non davano certo sull’angusto corridoio, illuminato perciò solamente dalle torce appese alle pareti  e dalla candela che la donna stringeva in una mano. Sembrava quasi di essere in un sotterraneo, non fosse stato per la raffinata moquette che rivestiva il pavimento e la tappezzeria dal motivo quasi identico che proseguiva sulle pareti, ornate da file e file interminabili di quadri dai soggetti più disparati: ritratti, paesaggi, scene di vita quotidiana o di combattimento.
Anette si fermò, e cominciò a ragionare. Un bivio in un luogo tanto sinistro non era certo stato messo a caso; doveva essere la prima avvisaglia di un gioco che l’Imperatore aveva voluto fare con chiunque avesse osato passare per quel luogo proibito. Ed era anche la conferma del fatto che la piratessa aveva scelto la strada giusta.
Ora, quale corridoio imboccare? Quello di destra, o quello di sinistra?
Entrambi si differenziavano per una cosa fondamentale: la luce. Il corridoio alla sua sinistra era molto più illuminato rispetto all’altro, come se ci fosse stata finalmente una finestra, una porta o una qualsiasi apertura, in modo da lasciare sperare di poter davvero vedere la luce del sole alla fine.
Se qualcuno fosse giunto lì per sbaglio, rimuginò tra sé, avrebbe sicuramente imboccato quello più illuminato, nella speranza di trovare un’uscita che lo potesse aiutare ad orientarsi. In questo caso, se anche avesse trovato uno scrigno, non vi si sarebbe soffermato più di tanto avendo come primo pensiero quello di togliersi da una situazione così spiacevole. Se invece, al contrario, fosse arrivato fino a tal punto qualcuno che come lei cercava qualcosa di prezioso e nascosto si sarebbe di certo diretto verso la strada più buia, trovando inconcepibile l’idea che l’Imperatore avesse nascosto una cosa molto importante alla luce del sole; e, comunque, un uomo consapevole del crimine che stava commettendo non sarebbe mai andato verso la soluzione più invitante, pensando a chissà quale tranello celato nelle cose più semplici.
Anche l’Imperatore doveva aver fatto il suo stesso ragionamento.
Anette prese un respiro e imboccò il corridoio più luminoso.
Non fu lungo come se l’era immaginato; appena un paio di curve, ed ecco un grazioso cancelletto dalle sbarre di ferro battuto a impedirle la strada, che sarebbe comunque terminata pochi metri più in là, dove si  apriva una grande finestra della quale Anette aveva visto la luce più in fondo.
Strano. Una strada, che conduceva ad una finestra? E perché chiuderla con un cancello, se era davvero solo una finestra quello a cui portava?
Anette aggrottò la fronte, estrasse il grimaldello di Jukka da una tasca interna del vestito e lo infilò nella serratura. Lo girò, lentamente, con mano esperta, ascoltando uno per uno i gemiti dei vecchi ingranaggi e balzò indietro quando scattarono, aspettandosi una delle tante dimostrazioni della magia dell’Imperatore.
Non accadde nulla.

L’Imperatore ebbe un guizzo di sorpresa negli occhi, ma non era dovuto alla bravura dei saltimbanchi.
Sorrise, e si sistemò meglio sulla propria poltrona.

La piratessa si avvicinò con cautela al cancello ormai aperto, ma nulla le impedì di oltrepassarlo. Si fermò quindi davanti alla finestra, e la osservò più da vicino. Il vetro era solido ma opaco, non lasciava intravedere nulla del paesaggio al di fuori del castello, ma non impediva l’entrata a quella forte luce bianca che per un attimo accecò Anette. Era molto liscio al tatto e… la donna ebbe un moto di stupore. Da un lato era gelido, quasi ghiacciato.
Si girò verso la parete che corrispondeva al lato più freddo. Sembrava perfettamente normale.
Avanzò, e man mano che procedeva si accorgeva del calo di temperatura, finché non arrivò a ridosso della parete e le sembrò di non aver mai toccato nulla di più gelato. Come poteva essere possibile? Continuò a tastare il muro, reprimendo i brividi, nel tentativo di trovare qualcosa che gli occhi non riuscivano a vedere, e dopo qualche minuto le sue ricerche furono premiate; la sua mano si strinse intorno a qualcosa che assomigliava terribilmente al pomello di una porta… peccato davanti a lei non c’erano porte, né pomelli.
Probabilmente era un’illusione.
Per un attimo venne colta da una gran paura. Era magia quella con cui doveva confrontarsi, era un mago il suo nemico. Che cosa avrebbe potuto fare, lei, contro i suoi incantesimi?
Respirò a fondo, nel tentativo di calmarsi. Non era il momento di farsi prendere dal panico. Ormai c’era dentro e non poteva – non voleva – tirarsi indietro. Quel bastardo le doveva una nave e un equipaggio intero.
Girò la maniglia e spinse, pronta a tutto.
L’illusione si disfò in quel momento, e così la porta aperta comparve davanti ai suoi occhi: era di un legno scurissimo, quasi nero, e sembrava che si tenesse in piedi per miracolo. Ma era una la cosa davvero sorprendente: era quasi completamente coperta di ghiaccio. Nuvolette di condensa si levarono da dentro la stanza, nella quale ghiaccio e neve regnavano sovrani. Anette si affacciò alla soglia, a bocca aperta: erano sculture di ghiaccio quelle che vedeva, riproducevano in maniera straordinariamente fedele prati, fiori meravigliosi, alberi da frutto, paesaggi idilliaci. Una campagna meravigliosa all’interno del castello, cristallizzata, immobile, di ghiaccio. In fondo alla stanza, in mezzo a due colonne, stava un piedistallo, anch’esso ghiacciato. E sopra al piedistallo uno scrigno.
Anette si strinse nel vestito ed entrò nella stanza.
Dentro, la temperatura era al limite della sopportazione, ma la piratessa quasi non l’avvertiva, impegnata com’era a rimirare la meraviglie di quelle sculture ghiacciate  avanzando a passi lenti. Tutto era immobile, muto, e le ci vollero pochi minuti per giungere finalmente davanti allo scrigno. Non aveva nulla di speciale: era piccolo, argentato, la serratura era lavorata in maniera tale da rappresentare un sole all’alba – o al tramonto –.
Anette si fermò a pensare. Suonava tutto molto strano. Davvero, le uniche precauzioni che l’Imperatore aveva preso contro le persone che volessero distruggere una cosa importante per lui erano un tranello non molto difficile da individuare, un cancelletto che persino un grimaldello da pirata era stato in grado di scassinare, un’illusione e un po’ di freddo?
Mah. Forse l’Imperatore non era poi così furbo. Forse l’unico motivo per cui era al trono e tiranneggiava su tutta la nazione era il suo straordinario talento per le arti magiche, e basta. Comunque fosse, non le importava. Aveva il suo obbiettivo.
Prese in mano lo scrigno.
Lanciò un grido e cadde a terra, tremante, colta come da una potentissima scarica elettrica.
Rimase a terra qualche minuto, nel tentativo di riprendersi dal dolore e dallo stordimento, e quando rialzò lo sguardo lo scrigno era ancora lì, immutato, come a guardarla beffardo, e godersi la sua rabbia per essere stata tanto sciocca e ingenua.
Un momento. Le colonne. Avevano forse cambiato forma, le colonne?
I suoi occhi si riempirono di terrore, puro terrore quando vide che una delle due colonne, dalle fattezze ora umanoidi, spalancò le palpebre su un paio di occhi trasparenti come il proprio corpo e li puntò su di lei.
Quegli occhi non avevano iridi o pupille. Ma Anette seppe che stavano guardando lei.
Tentò di alzarsi, e barcollare verso l’uscita più velocemente che poteva.
Doveva correre. Doveva correre.

Tuomas, Marco ed Emppu si erano superati.
Emppu aveva esaurito tutte le nozioni, gli esercizi, le melodie, qualsiasi cosa che riguardasse la chitarra; Marco aveva continuato ad eseguire capriole e salti mortali sulla musica del bardo; e Tuomas aveva fatto fare al suo fuoco ogni cosa che fosse impossibile fargli fare.
Fu proprio quando aveva appena finito di ingoiare alcune fiamme e risputarle sottoforma di dragone che l’Imperatore si alzò dalla sua poltrona e batté le mani. Un rumore lieve, piccolo, in confronto alla vastità del salone in cui si trovavano; eppure, ebbe il potere di immobilizzare i tre artisti e far precipitare la sala del trono in un profondo silenzio.
«Lasciateci soli» ordinò l’Imperatore dall’alto, e nessuna delle guardie, per quanto perplessa, ebbe il coraggio di contraddire i suoi ordini. In pochi istanti, furono soli, loro quattro, in mezzo a tutto quello sfarzo, e a tutto quel silenzio.
«Spettacolo sublime, miei cari. Veramente. Ditemi, quanto c’avete messo per prepararlo?»
Era un tono da conversazione, tranquillo e rilassato, ma mise loro addosso  lo stesso una grande tensione, forse perché da così in alto non potevano scorgere le espressioni del suo viso.
Emppu guardò negli occhi gli altri due, lottando contro il panico, che cosa sarebbe stato più saggio dire? Oh, ma perché Anette non si sbrigava? Per quanto ancora avrebbero dovuto sostenere quello sguardo nero e abissale?
«Il Sole, il Sole soprattutto.» aggiunse. Tuomas sobbalzò, e osservò gli altri con occhi se possibile ancor più terrorizzati di quelli di Emppu.  Nonostante questo, però, fece un passo avanti e si inchinò profondamente.
«Per servirvi.» mormorò.
«Oh, il fuoco del Sole è stato meraviglioso. Tu, tu mangiafuoco, potresti farmi vedere una cosuccia? Una cosuccia piccina? Mi farebbe tanto piacere.»
L’illusionista deglutì. Aveva l’impressione che quello fosse un ordine mascherato da invito. Che altro avrebbe potuto rispondere?
«Tutto ciò che desiderate, Mio Signore.»
«E allora…» la sua voce melliflua si mutò all’improvviso in un urlo disumano. «…mostrami se sei capace di ingoiare quelle fiamme senza aiutarti con qualche schifosissima illusione!»
Indietreggiarono tutti, ora si sentivano autorizzati a farsi prendere dal panico.
«Via quelle maschere. Voglio vedervi in viso. Via!»
Senza che potessero fare nulla, una folata di vento attraversò la sala e strappò letteralmente le maschere via dai loro volti. Non potevano più nascondere la paura dietro a nulla.
Il paggetto che li aveva condotti nella sala si mise davanti a loro e li guardò con disprezzo. Il suo sguardo era fisso soprattutto sul bardo.
«Emppu, ti chiamano, no? Uno strimpellatore idiota, ecco cosa sei, uno strimpellatore che non sa far altro che sorridere. Quanto erano irritanti i tuoi sorrisi, stupido nano!»
Emppu era atterrito, non aveva detto una sola parola. Fu Marco a mettersi davanti a lui, e ad affrontare il paggio. «E tu chi cavolo saresti?»
«Qualcuno mi ha già fatto questa domanda.» rispose  il bambino, e scoccò un’occhiata penetrante a Tuomas, che rabbrividì. «Io posso essere tutto.» aggiunse, e senza dire nient’altro mutò il proprio aspetto. Divenne un uomo, i suoi occhi divennero gialli, un paio di maestose ali rapaci gli spuntarono dalla schiena.
«Tu! Tu, maledetto!» gridò il vichingo, fuori di sé, nell’osservare il ghigno di Dominic davanti a sé.
«Non può essere! Io ti ho ucciso!» esclamò Tuomas, puntando un dito tremante verso di lui.
«Sciocco. Tu non hai ucciso proprio niente. Perché per uccidere la marionetta, devi prima uccidere…» d’un tratto divenne rigido, lo sguardo gli si spense nel vuoto e cadde a terra come una normalissima statua d’argilla. La frase fu conclusa da una voce, quella stessa voce profonda e sinistra, proveniente dall’alto. «…colui che ne tiene i fili.»
La rivelazione li colpì tutti e tre, come un pugno. Quasi caddero a terra, gli occhi sbarrati, sotto lo sguardo compiaciuto dell’Imperatore.
«Dobbiamo andarcene di qui…» sussurrò Emppu, senza osare distogliere lo sguardo da quei due puntini d’ebano che brillavano oltre la balaustra in alto.
«Dobbiamo andarcene!» ripeté Marco a voce più alta, strattonando Tuomas per un braccio per riscuoterlo. «Sbrigati. Se vuoi avere una speranza di salvezza, devi farlo ora.»
Per un attimo l’illusionista non rispose, come perso nell’abisso del suo sconcerto. Poi annuì, annuì energicamente, mise una mano sulla spalla dell’amico.
E dopo, la stanza sprofondò nell’oscurità.
L’Imperatore, che si era appena lasciato sfuggire tra le dita i fili delle sue tre marionette più importanti, si alzò di scatto dallo scranno con il viso trasfigurato dalla rabbia.
Corsero a perdifiato, spintonando vassalli e servitori, fino a trovarsi al secondo piano. Qui raggiunsero la finestra che dava sul retro del castello, quella che era stata scelta da Jukka, e che Marco infranse senza molti complimenti.
«Anette!» esclamò Emppu, un attimo prima che il guerriero gridasse il segnale concordato.
Si guardarono tutti e tre con spavento.
«La cerco io.» stabilì Marco, gli occhi azzurri che si vestivano di una nuova determinazione. «Voi andate.»
«Ma…»
«Andate.»
Non ammetteva repliche. E non ci furono repliche. Il vichingo tornò di corsa nei meandri del castello.

Creature delle nevi e dei ghiacci. Creature che si nutrivano degli escursionisti incauti. Degli scalatori sprovveduti.
C’era caduta come una mosca nella ragnatela.
Si avvicinavano. Li sentiva. Erano veloci. D’altra parte, c’era solo ghiaccio intorno a lei; e la porta, chissà dove l’aveva lasciata.
Correva. Ignorava il dolore di un artiglio che le aveva lacerato il fianco. Ignorava la paura. Sapeva che poteva solo correre. E correva.
Ma sapeva anche che correre non sarebbe stato abbastanza.

Afferrò una delle torce che si trovavano attaccate al muro e tornò ad avanzare per i corridoi il più velocemente possibile, dritto alla sua meta.
«Se qualcosa non dovesse andare…» aveva cominciato lui, la sera prima.
«Le cose andranno.» lo aveva interrotto lei.
«Sì, ma se qualcosa non dovesse andare, dimmi dove cercherai lo scrigno. Verrò io a prenderti.»
Lei aveva taciuto per qualche attimo.
«Mi sembra ragionevole. Sei l’unico a cui lo permetterei, in fondo.»
«L’unico abbastanza… soldato da evitare di infilarsi in imprese disperate se sa che lo sono» tradusse lui.
Lei aveva sorriso.
«Esatto.»
Le ali proibite del castello. Banale. Prevedibile. Si augurava con tutto se stesso che lei stesse ancora cercando inutilmente, e che potessero uscire insieme dal castello senza ulteriori intoppi… a parte, forse qualche soldato qua e là.
Non gli interessavano i luoghi che attraversava, gli interessavano i passi che metteva l’uno davanti all’altro, e cercare Anette in ogni angolo di quell’ala remota. Imboccò un corridoio, che si rivelò lunghissimo, quasi infinito, e lui credette di impazzire finché non giunse ad un bivio.
«Al diavolo…» mormorò a denti stretti, e senza neanche guardare prese a caso uno dei due corridoi.
Andò a sbattere contro un cancelletto, che però si aprì subito (evidentemente la serratura era già stata scassinata), e lui ruzzolò a terra finendo a sbattere contro la parete di fronte.
Stava per imprecare in tutte le lingue che conosceva, quando si bloccò di colpo.
Freddo. Faceva troppo freddo.
Raccolse la torcia, e si affacciò alla porta aperta.
Ghiaccio. Solo ghiaccio.
E di nuovo, le storie che gli venivano raccontate da bambino gli tornarono alla mente, le vette delle montagne non erano luoghi sicuri…
«Dio, Anette!» esclamò, sbiancando. Balzò nella stanza, e lì la vide.
Erano in due. L’avevano presa. Il suo fianco sanguinava. Uno stava conficcando i propri artigli di ghiaccio proprio nella ferita. Presto il secondo l’avrebbe finita, con un solo morso, proprio al collo, una morte istantanea, ecco cosa sarebbe stata.
«Allontanatevi!» urlò Marco, con tutta la forza che trovò nei polmoni.
Le creature si voltarono verso di lui. Lanciarono grida acute quando videro il fuoco che lui brandiva, e si allontanarono. Anette ne approfittò per rimettersi in piedi a fatica, e corrergli incontro.
«Marco… per fortuna…»
«Shhh.» intimò lui.
Ora lo stavano osservando. Cercavano di capire chi, tra loro tre, fosse quello che comandava. Nel momento di maggior perplessità, il guerriero li colse di sorpresa e con un altro grido gettò la torcia addosso ad una delle due creature. I versi striduli si fecero insopportabili, ma i due compagni si erano già lanciati oltre la soglia di quella stanza da incubo e avevano chiuso la porta nera dietro di loro.
Il guerriero lasciò Anette seduta a terra a riprendersi dallo sforzo, dal dolore e dallo spavento, per andare davanti a quella grande vetrata luminosa e infrangerla con forza, esattamente come aveva fatto con l’altra. Si affacciò. Dava su un vicolo sudicio. Si accostò le mani agli angoli della bocca, e gridò il segnale. Dopo qualche minuto di puro terrore, un rampino assicurato ad una corda si agganciò al bordo della finestra.
Marco sospirò di sollievo.
«Ce la fai?» domandò ad Anette, tentando di aiutarla a rialzarsi, ma lei non volle prendere la sua mano e preferì accostarsi da sola alla finestra.
«Hai già fatto abbastanza. Grazie.» gli disse, e gli sorrise.
Afferrò saldamente la corda e, con i lineamenti trasfigurati dal dolore e dalla fatica, cominciò a calarsi lentamente a terra.

«I mastini.»
«Ma… Divino Imperatore…»
«Voglio i mastini. Date loro queste.»
Tre maschere da teatranti caddero sul pavimento.

Corsero a perdifiato lungo tutto il tratto che portava alla capitale al loro rifugio. Corsero come mai avevano fatto, fino a non sentire più le gambe, fino a farsi bruciare i polmoni, fino a cadere sfiniti sulla soglia di casa.
Lisanna corse incontro a Marco, il loro fu un abbraccio troppo intenso da poter spiegare a parole, fu solo un abbraccio, non violarono la profondità della loro felicità con un bacio.
«No!»
L’urlo arrivò da lontano.
«Ci hanno seguiti! Ci hanno seguiti! Andiamo via!»
«Non possiamo andare! Dove andremmo?! Era questo il posto sicuro!»
«Non è il momento di discutere, Jukka! Sono già qui!»
Tutto questo accadde troppo in fretta perché potesse scalfire il loro abbraccio.
«Marco! Lisanna! Al riparo!»
Il suono di una freccia scoccata. Il respiro di un uomo che tira per uccidere. Il rumore raccapricciante di un’arma che arriva a destinazione.
Il corpo di Lisanna si afflosciò esanime tra le braccia di Marco.









Le Scuse dell'Autore
Sì, questo capitolo si è fatto attendere più del dovuto, e eper questo vorrei scusarmi tantissimo con tutti quelli che si sono presi la briga di leggere, appassionarsi forse, aspettare un capitolo che c'ha messo troppo ad arrivare. Davvero, scusatemi. Ho avuto problemi miei che mi hanno tolto per molto tempo la voglia di scrivere, ma non è un buon motivo per farvi attendere così tanto ecco :) Spero vorrete perdonarmi.
Ci sarebbero molte cose da dire riguardo a questo. Che è il primo delle Cronache che arriva dopo che Anette se n'è andata. Anche questa è stata una delle cose che mi ha scoraggiata all'inizio, come si può vedere da tutte le cose che ho scritto riguardo alla fratellanza in questa long, ci credevo in loro. Però... è andata così, ci sono rimasta male è vero, ma le Cronache devono continuare e continueranno, consideratele d'ora in poi come un tributo alla spledida e dolcissima cantante che Anette è stata in questi anni con i Nightwish ^^
Ultima cosa: NON UCCIDETEMI! Lisanna è morta, ok, ma vi prego, non uccidetemi!!!

PS: Ringrazio con tutta me stessa tutte (:D) coloro che puntualmente su fb vedono i miei scleri e i miei post senza senso. Grazie. Anche se questo colpo di scena me l'avete sgamato. Uffa. Spero che sia stata shock lo stesso la morte di Lisi U.U

Un Bacione a tutti!

Glory.






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Capitolo 17
*** Emphatica ***


Era così veloce, la morte.
Anni, erano anni che sfumavano via, anni di pensieri, anni di emozioni, anni di esistenza. Persi in un attimo solo. Persi in quel momento in cui il respiro si mozza, gli occhi si sbarrano, il corpo si aggrappa debolmente a quello dell’uomo a cui era abbracciato pochissimo prima, nel disperato tentativo di trattenere tutti quei minuti, quegli istanti, di non vederseli sfuggire via proprio sotto gli occhi, come Marco si vedeva sfuggire via da sotto gli occhi la vita dell’unica donna che aveva amato (o si era ricordato di amare).
«No.»
Quanto terrore ci poteva essere, in un solo soffio?
Un secondo dardo gli sfrecciò a pochi centimetri dalla testa; arrivò una presa forte ad afferrarlo e trascinarlo giù, sul retro della casa.
Le sue mani cominciavano già a bagnarsi del sangue ancora caldo che sgorgava dalla ferita sulla schiena di Lisanna.
Marco levò lo sguardo su Jukka, di fianco a lui, e il pirata ne fu spaventato; non era cosa da tutti i giorni vedere gli occhi di un guerriero vichingo lottare contro le lacrime.
«Salvala.» disse semplicemente.
Il pirata esitò, indeciso. Doveva andare ad aiutare gli altri nel combattimento, o fermarsi lì nel tentativo di compiere un miracolo che, già sapeva, non sarebbe avvenuto?
Lanciò la propria piccola balestra ad Anette, che la prese al volo.
«Tu la sai usare. Fai fuori quegli stronzi. Uno per uno.»
Lei annuì.
Lisanna aveva il respiro spezzato e debole, troppo debole. Jukka la girò delicatamente di schiena e, dopo aver mormorato delle scuse, le estrasse la freccia con un movimento brusco. Lei gemette di dolore, e Marco non poté far altro che accarezzarle i capelli mentre il pirata esaminava la ferita.
«E’ mortale.» dovette dirgli alla fine.
Marco lo sapeva. Ne aveva viste migliaia, di quelle ferite, come avrebbe potuto non saperlo? Ma che cosa avrebbe mai potuto dire, quale mai avrebbe potuto essere la sua reazione, di fronte a quello?
In quel momento Lisanna aprì gli occhi.
«Marco…»
Era più debole del solito, la sua voce. Quasi inafferrabile, una brezza dalle parole troppo lievi, e pure, per essere capite dagli uomini, come quella che soffia tra le fronde degli alberi in primavera.
«Marco, io…»
Ma lui le fece segno di tacere.
«Piccole, dolci parole, fatte per il silenzio. Non parlare.»

Sweet little words made for silence. Not talk

Una lacrima cadde sul pavimento, ma a lui non importava. Le note gli erano uscite così, spontanee, non le conosceva, era sicuro, ma erano la cosa più dolce che gli fosse mai balenata in testa ed erano le uniche, davvero le uniche che, in quel momento, avrebbe potuto dire.
Lei sorrise.
«Continua a cantare… ti prego…»
Un’altra lacrima. Marco ignorò anche quella e prese fiato.
«Capelli scuri per cogliere il vento, non per velare la vista di un mondo freddo.»

Dark hair for catching the wind, not to veil the sight of a cold world

Lei sorrideva. Sorrideva, perché sentiva la vita scivolare via, ma lo faceva lentamente, e dolcemente, accompagnata dalla voce dell’uomo al quale, seppur per breve tempo, aveva voluto donare il proprio cuore.
Lentamente, lui le sfiorò le labbra con le proprie, prima di riprendere a cantare.
«Bacia, finché le tue labbra sono ancora rosse, finché lui è ancora in silenzio… Riposa, finché il petto rimane ancora intoccato, inviolato.» per un momento, solo per un momento, la voce gli si spezzò. Jukka non ebbe cuore di guardare oltre,  e se ne andò ad aiutare Anette, senza una parola. «Stringi un’altra mano, finché la mano rimane ancora senza strumento. Annega negli occhi, finché loro sono ancora ciechi...» si  chinò, ad accarezzarle i capelli. Era una cosa così fragile… come si poteva sopportare l’idea di vederla rotta… e non poterla riparare… «…Ama, finché la notte nasconde ancora un’alba abbagliante.» sussurrò.

Kiss, while your lips are still red, while he`s still silent
Rest, while bosom is still untouched, unveiled
Hold another hand, while the hand`s still without a tool
Drown into eyes, while they`re still blind
Love, while the night still hides the withering dawn


La vita di Lisanna si spense nel momento esatto in cui lo fece l’ultima nota della canzone di Marco.
Il guerriero si chinò su di lei e iniziò a piangere tutte le proprie lacrime.
Non c’era più alcun rumore nella radura.
Solo un vichingo e i suoi singhiozzi.

Marcò riuscì a scavarle una tomba; era sera, quando posò accanto alla terra che custodiva il corpo della sua donna i fiori trovati nel bosco. 
Lì rimase, inginocchiato, per tutta la notte. E il mattino dopo, quando Tuomas venne a trovarlo per dirgli che bisognava partire, e in fretta, perché non ci avrebbero messo molto in città ad insospettirsi per il mancato ritorno dei soldati, il guerriero lo guardò senza tentare di nascondere nemmeno una minima goccia del dolore che gli si leggeva negli occhi.
«Rimango con voi, se ti stai chiedendo questo.» gli disse. Aveva la voce roca di chi l’ha a lungo usata solo per piangere. «E’ solo la vostra amicizia che mi tiene in vita, adesso.»
Tuomas non osò dire nulla. Pochi minuti dopo erano in cammino.
Si fermarono solo quando, sfiniti, semplicemente non sarebbero più riusciti a mettere un piede davanti all’altro senza crollare a terra. Dapprima l’accampamento che montarono alla bell’è meglio nel mezzo di quella piccola radura fu solo un rimedio improvvisato, ma dopo due giorni divenne chiaro che sarebbe stato il loro nuovo rifugio. Un rifugio che, privo  di un tetto che avevano avuto troppo poco tempo sulla testa per poterlo assaporare appieno, vedeva nude e scoperchiate tutte le loro paure.

Jukka lanciò uno sguardo a Marco, e per la quattordicesima volta nella giornata meditò se andare da lui, a dirgli qualcosa, o lasciare perdere. Sembrava così… disperato.
Sospirò, e per la quattordicesima volta nella giornata decise di non andare da nessuno, a dire nulla. Sapeva riconoscere il punto in cui il dolore di un uomo diventava troppo profondo perché qualcuno potesse profanarlo.
Volse così lo sguardo verso Tuomas. Stava parlando con Anette, e lei aveva il volto tremendamente serio, e pallido. Come tutti, in effetti; il pirata ringraziava di non avere uno specchio in cui potersi vedere, perché era certo di avere un aspetto orribile.
Dopo qualche attimo di esitazione, si alzò per raggiungere Emppu. La presenza pacata e silenziosa di Lisanna mancava, mancava terribilmente. Come se si fosse appena rotto un equilibrio che in ogni modo avevano tentato di mantenere.
«Interessante quel tuo strumento, lì.» esordì, indicando la chitarra che il cantastorie imbracciava senza però sfiorarne una sola corda.
Il chitarrista abbozzò ad un sorriso timidissimo e per nulla convinto. «Grazie.»
Silenzio.
Jukka si schiarì la voce.
Silenzio.
«Non è che… così, per diletto… mi faresti vedere come si suona?»
Lo stupore di Emppu attraversò limpido i suoi occhi azzurri.
«Beh… certo» rispose infine il bardo.

Calò infine la notte sulla radura, e tutti andarono a coricarsi; era il terzo giorno che lo passavano lì, senza far nulla, solo a tentare di recuperare quelle forze e quella motivazione che dopo la morte della loro compagna avevano perduto.
Era, sì, una notte terribilmente scura: le nuvole che coprivano il sorriso argenteo della luna sembravano una cupola nera come un abisso, nera come gli occhi dell’Imperatore che non sapevano se li stesse spiando o meno. Quante cose oscure potevano compiersi in una notte così buia…
Anette aprì gli occhi quando sentì che era giunto il cuore delle ore notturne. Non aveva mai dormito.
Si mise in piedi, badando bene a non farsi sentire; i suoi passi avevano la leggerezza della più delicata tra le dame, e la pericolosità di una pantera in caccia.
Tuomas era di guardia. La testa era appoggiata al tronco di un albero vicino a dov’era seduto, doveva essersi assopito, cosa davvero incosciente, quando chiunque avrebbe potuto assalirli. Anette osservò da dietro i suoi capelli neri senza mostrare minimo segno d’emozione sul volto di pietra. Sguainò il pugnale.
Non un baluginio, una scintilla, niente di niente, in quelle tenebre senza luna né stelle anche la lucida lama di un coltello affilato per uccidere riusciva a non gridare la propria sentenza di morte.
La maschera impassibile che Anette si era calata sul volto non si incrinò mai, nemmeno quando la piratessa colpì la nuca del compagno più forte che poté, lasciando che si afflosciasse a terra come un burattino privato dei fili.
La donna ringuainò lentamente il pugnale, che aveva usato dalla parte dell’elsa, e mise mano alle corde che portava alla cintura.

Jukka riemerse dal sonno poche ore prima dell’alba.
La prima cosa che gli venne in mente, fu che Tuomas non l’aveva svegliato per il turno di guardia.
Si strofinò gli occhi, nel tentativo di scuotersi dal torpore del sonno – sapeva che non sarebbe più riuscito a dormire –, ed osservò la radura attorno a sé.
Tuomas e Anette mancavano.
Si alzò, preoccupato.

«Ehi, voi.»
I soldati si girarono, e quello che videro fu uno spettacolo a dir poco singolare. Una donna vestita e armata da uomo, che trascinava di peso qualcuno con le mani legate dietro la schiena e il capo coperto da un cappuccio nero.
Si scambiarono un’occhiata dubbiosa l’un l’altro, poi uno dei due avanzò d’un passo. «Che cosa volete?»
Per tutta risposta lei spinse a terra il prigioniero, che cadde in ginocchio con un gemito strozzato. Poi si avvicinò a loro, e aprì sotto i loro nasi un foglio piegato e ripiegato più volte.
Ricercato, c’era scritto, sopra il ritratto di un uomo dai capelli lunghi e neri, e poi ancora: Due sacchi di monete d’oro a chi me lo porterà. Vivo. Rigorosamente vivo.
Allora si fece avanti anche il secondo. «Vediamo.» il suo fu quasi un ringhio. Strappò rudemente il cappuccio dalla testa dell’uomo che volevano spacciare per il ricercato, e lo confrontò con il ritratto che avevano.
Tuomas non capiva più nulla. La testa gli doleva in una maniera pazzesca e il mondo attorno a lui girava così tanto che avrebbe dovuto reggersi su Anette per camminare anche se lei non avesse deciso di trascinarselo appresso.
«E’ lui.» stabilì la prima guardia, prima di afferrarlo per un braccio con forza, ma venne subito fermata dalla lama di Anette puntata alla sua gola.
«I soldi.» disse lei, solo. Poche parole, molto più esplicite di qualsiasi discorso.
I soldati sogghignarono. «Sta’ calma, bellezza». Alzarono il telo che copriva il carro che stavano scortando, scoprendo una fortuna in oro, dalla quale prelevarono due sacchetti di cuoio per poi lanciarli alla piratessa. «Ti fidi?» chiese uno di loro quando lei li prese al volo.
Anette esitò per un attimo, poi se li appese alla cintura con un cenno d’assenso. «E’ stato un piacere fare affari con voi.»
Le guardie non si persero in saluti; trascinarono Tuomas fino al carro, dove lo tramortirono una seconda volta e lo gettarono insieme ai sacchi d’oro.
«No!»
Si udì un grido da lontano.
Si voltarono tutti verso l’inizio della foresta, e lì videro un uomo dal volto stravolto e angosciato, che correva a perdifiato verso di loro. Anette sbiancò.
«Che cosa state facendo? Che cosa diavolo state facendo?!» gridava Jukka.
«E quello chi è?» domandò uno dei soldati.
«Nessuno, ecco chi è; solo un folle e un vaneggiatore, che vaga per la foresta preda delle illusioni che gli spiriti verdi gli spacciano come vere, per burlarsi della sua mente debole.»
«E’ pericoloso?» chiese l’altro.
«Ma assolutamente! È un povero vagabondo. Ci penserò io a lui.»
«Benissimo.» si affrettò a dire il primo, liquidando la faccenda con un gesto della mano. Evidentemente si erano attardati anche troppo. Spronarono i cavalli, e il carro ripartì lungo il sentiero.
Jukka correva più veloce che poteva; Anette rimaneva ferma ad aspettarlo.
«Anette! Cosa fai! Aiutalo!»
La donna non disse nulla.
Lui la guardò, confuso, disperato, non voleva credere a quello che aveva visto, ma non c’era tempo, la superò, sempre di corsa, inseguì i cavalli, senza volersi fermare, fino a quando le gambe fossero riuscite a reggerlo. Era troppo lento però, e stremato, e solo, non gli ci volle molto per crollare a terra e  lì rimanere, ansimando forte.
Passarono i minuti, lui a terra, lei a guardarlo impassibile.
«Dammi una spiegazione. Ti prego.» disse infine lui.
Tutto quello che fece lei in risposta fu gettargli a pochi centimetri dal viso i sacchetti di monete che aveva guadagnato.
In quell’istante sopraggiunsero, trafelati, Marco ed Emppu.
«Oh, grazie al cielo siete qui!» esclamò il bardo.
«Ma dov’è Tuomas?» chiese Marco, subito dopo.
«Che cos’è successo?» aggiunse il chitarrista.
Jukka si coprì il viso con una mano. Non aveva nemmeno la forza di rialzarsi in piedi. «…Tradito.» fu l’unica cosa che riuscì a dire.

Tuomas fu svegliato da un attacco di mal di mare.
Sarebbe stato impossibile, dopotutto, non farselo venire rinchiuso in quel carretto, che ondeggiava precario lungo la strada, sussultando ad ogni minima irregolarità del terreno; anzi, i soldati sembravano investire apposta tutti i sassi e le buche possibili pur di aumentare la tortura alla quale era sottoposto.
Tralasciando il dolore alla testa quasi insopportabile, le mani legate dietro la schiena le sentiva quasi del tutto atrofizzate e le corde avevano già provveduto a ferirgli i polsi, piccole ferite che non potevano che allargarsi dato che i lacci continuavano a sfregarvisi sopra. Per non parlare del dolore alla schiena che gli si propagava lungo la spina dorsale come una scarica elettrica ogni volta che il carretto sobbalzava bruscamente (cioè sempre), del quale aveva paura a scoprire l’origine.
Chiuse gli occhi, e sospirò. Doveva calmarsi. Aveva paura. Ma doveva calmarsi. Subito, nel buio, gli si materializzò davanti la scena un uomo e una donna seduti l’uno davanti all’altra, a parlare.
«Mi stai chiedendo troppo, Tuomas. Troppo.»
«Ti prego! Devo entrare in quel castello, devo!»
«Lascia allora che organizziamo un altro piano d’attacco.»
«Quello che è fallito era  il migliore che potessimo escogitare. E poi, anche se funzionasse, quale prezzo dovremmo pagare? Abbiamo già perso Lisanna.»
«Appunto!». Lui aveva visto  occhi accendersi di fervore. «Appunto! Ed è stato atroce! È stato atroce perdere lei, non venire a raccontarmi il contrario. Per questo non posso permettere che muoia anche tu.»
«Non morirò». Aveva cercato di metterci tutta la convinzione possibile.
«Sì, invece. Da soli non si esce da quel castello.»
«E’ l’unico modo che abbiamo per andare avanti». Quella volta lei non aveva replicato nulla. Incoraggiato, aveva continuato: «Aiutami, ti prego.»
«Vacci da solo, a morire! Che bisogno hai di me?» aveva sbottato lei.
«L’Imperatore si insospettirebbe se mi autoconsegnassi alle guardie. E poi… io…». Aveva abbassato gli occhi. Gli costava molto ammetterlo. «…Io non so se ne avrei il coraggio.»
C’era stato silenzio per molto tempo.
«Così chiedi a me di averne per te.»
Tuomas non aveva potuto nascondersi davanti a quell’accusa così sinceramente vera. «…Sì.»
Silenzio.
«Chiedilo a qualcun altro. Non posso farlo.»
«Tutti gli altri cercherebbero di fermarmi.»
«Se morirai, sarò io ad averti ucciso, mi capisci?»
«Non morirò! Distruggerò lo scrigno e fuggirò con una magia. Sostieni la recita solo qualche giorno, e poi tornerò.»
«Non sei l’unico a saper padroneggiare la magia. E l’altro in questione lo fa da molto più tempo di te.»
Per alcuni minuti lui non aveva più saputo cosa replicare. «Ce la farò» era stata l’unica cosa che gli era sembrata almeno lontanamente dignitosa.
Anette si era nascosta il volto con le mani.
«Non mi perdoneranno mai.»
«Grazie.»
«Non mi perdonerò mai.»
Un altro violento scossone lo strappò bruscamente ai suoi ricordi.

«Dimmi che non è vero.» mormorava Emppu, una mano sulla bocca, sotto uno sguardo smarrito e confuso.
«Ma come hai potuto, Anette?! COME!»
La furia di Marco era molto simile a quella di una fiera ferita e accecata dal dolore.
«Almeno, parla!» intervenne Jukka. «Nega! Difenditi! Fa’ qualcosa!»
«Oh, non fare lo stupito, adesso, Julius!» sbottò lei. «Noi siamo pirati.» sibilò poi.
Il batterista si alzò, per la prima volta. Per la prima volta lo videro veramente arrabbiato.
«Tu non sei mai stata come gli altri. Ti ho seguita per questo.»
«Forse non mi hai mai conosciuta. Succede, sai?»
«Le Annunciatrici.»
Si bloccarono tutti di colpo.
Marco stava osservando le fronde degli alberi. La sua espressione era strana, un misto tra il disperato e l’intimorito, era quella di una persona che ha già sopportato troppo e si domanda cos’altro le sarà dato da aggiungere alle proprie pene.
Anche gli altri spostarono lo sguardo, e videro emergere dagli alberi quattro eteree figure, che splendevano nel loro candore. Parevano uno strano incrocio tra un cigno e un sottilissimo corpo femminile; le loro ali sprigionavano una luce bianca e il loro volto, troppo umano per essere quello di un uccello, ospitava un paio di occhi liquidi che era chiaro appartenessero ad un altro mondo.
Stavano lì, ad osservarli, senza dire nulla.
«Che cosa sono?» sussurrò Emppu a Jukka.
«Sono creature onnipresenti. Viaggiano in qualsiasi epoca passata e futura in un solo istante del presente, e assistono a qualsiasi fatto che accade, è accaduto o accadrà.»
«Le chiamano Annunciatrici», intervenne Marco, «perché talvolta si manifestano e lasciano dei messaggi. Nessuno sa perché lo facciano, né con quale criterio scelgano le persone a cui apparire. Molti sostengono sia il caso a decidere.»
E, appena lui ebbe smesso di parlare, la prima Annunciatrice aprì la boccuccia stretta. Le altre fecero lo stesso.
Era un coro splendido, eppure mostruoso. Astratto, eppure vicino. E cominciava con due sole parole.
La Fine.

The End.

Il compositore è morto.
La lama si abbatté su di lui,
portandolo nelle bianche lande 

The songwriter’s dead.
The blade fell upon him,
Taking him to the white lands 

Of Empathica…
…Of Innocence…

Il significato era chiaro a tutti. 
 

Empathica…
…Innocence… 

Il coro si spense così. Tempo di un battito di ciglia, e loro erano già sparite. Solo l’eco del loro canto permaneva.
E la consapevolezza, quella consapevolezza gonfia e dolorosa tipica delle cose inevitabili.
Anette si nascose il volto con una mano, per evitare che gli altri vedessero il suo pianto, mentre mormorava: «L’ho ucciso.»
Marco si voltò di scatto e urlò, urlò via tutto quello che provava.
Emppu sobbalzò spaventato. «Ma, perché? Il futuro può cambiare, quello che loro hanno detto… non è certo…»
La sua voce si affievoliva man mano che anche la sua convinzione lo faceva.
«Quello che loro hanno detto è certo. Perché loro sono onnipresenti. Loro… c’erano.» gli occhi di Jukka erano vuoti mentre parlava. «E loro lo hanno visto.»

Com’era diversa l’accoglienza che gli riservavano gli abitanti della Capitale, ora che brandiva catene al posto di un paio di torce infuocate! Riusciva a rimediare solo sguardi di disprezzo adesso, sguardi di paura, persino di odio. “Vieni via”, dicevano le donne ai loro figli.
Il percorso fino alle porte del palazzo non fu certo un trionfo, ma a lui non interessava della popolarità, non era il suo mondo, quello. E poi, uno dei vantaggi della consapevolezza della propria morte imminente era che se ne poteva infischiare di tutto quello che la gente avrebbe detto o fatto.
Rimanevano solo lui, l’Imperatore, quello scrigno. Quel salone enorme, reso grottesco dall’eccessivo sfarzo.
La figura dell’Imperatore comparve, in alto, come la prima volta che l’aveva visto. Non poteva vederne il volto, ma sapeva che stava sogghignando, come in ognuno dei suoi incubi peggiori. Stava per dire qualcosa, ma Tuomas sapeva che non doveva dargliene il tempo. Non poteva permettere che quella voce aumentasse il panico che cercava di attecchire alle pareti del suo cuore impazzito.
Si guardò angosciosamente intorno.
Lo cercava, cercava lo scrigno. Era sicuro che, dopo il tentativo di furto di Anette, l’Imperatore l’avesse spostato, l’avesse messo in un luogo vicino a sé. Non sapeva il perché, ma ne era assolutamente certo.
No, non c’era, maledizione, non c’era!
E se si fosse sbagliato? Se l’avesse messo, invece, all’interno dei suoi appartamenti? Sarebbe stato più logico. Era stato così sciocco! E adesso, sarebbe morto per nulla.
Lanciò l’ultima occhiata all’unico luogo che non aveva guardato, il trono. Troppo eclatante, troppo evidente per essere preso in considerazione.
Il suo cuore perse un battito.
Eccolo.
All’improvviso, i soldati che lo tenevano per le braccia cominciarono a gridare, preda delle sue illusioni, e mollarono bruscamente la presa. Doveva fare in fretta. Individuò subito la lama di una spada spuntare da sopra uno scudo appeso al muro; pochi attimi, e le corde che gli avevano martoriato i polsi giacevano a terra, recise.
L’Imperatore balzò in piedi e puntò una mano verso di lui.
Tuomas accelerò. In un momento era davanti allo scrigno.
Solo un istante, solo un istante di esitazione. Poi lo prese in mano.
Era liscio e freddo al tatto; si era aspettato un qualsiasi tipo di magia, ma quello rimaneva docile nella sua mano, sembrava quasi, anzi, che smaniasse per essere aperto. L’incantesimo dell’Imperatore lo colpì allora, ma s’infranse su un lampo argenteo che comparve a proteggere l’illusionista. E lui non se n’era nemmeno accorto.
Aprì lo scrigno, con facilità.
Dentro c’era solo un lucchetto, piccolo, dorato, in contrasto con l’argento di ciò che lo custodiva. Chiuso.
Si chiese come avrebbe fatto ad aprirlo. Lo rigirò in mano, finché una folata di vento non lo distolse dai suoi pensieri, e non si ritrovò il fantasma di Tarja a pochi centimetri da sé.
Lei ancora non parlava, ma gli posò una mano sul cuore. La tasca del suo abito, che si trovava esattamente in quel punto, si rigonfiò. Tarja sparì in un soffio.
Con il cuore che batteva all’impazzata, Tuomas prese la chiave dalla tasca e fece scattare la serratura del lucchetto.
Un solo clack, e tutto si sciolse nelle sue mani. Lo scrigno, il lucchetto, la chiave, tutto divenne acqua, che si riversò sul pavimento.
Fu allora che tornò con la coscienza al luogo in cui si trovava; e soprattutto, all’urlo di rabbia  che aveva lanciato l’Imperatore.
Il cuore di Tuomas si riempì di spavento. Come uscire?
Vide l’Imperatore saltare giù dalla balaustra per raggiungerlo nel salone. Si sarebbe ammazzato, da così in alto, ma al tastierista non importava. Cominciò a correre, verso il portone che gli sembrava d’un tratto lontanissimo.
L’Imperatore si fece spuntare un paio d’ali e planò rapace su di lui, fino a sbarrargli la strada.
Tuomas si fermò di botto, e lì tutto si congelò. C’era spazio solo per quell’unico confronto di sguardi.
L’Imperatore aveva gli occhi neri come gli abissi del mare, e un pizzetto curatissimo come unico segno di barba sul volto. Aveva lunghi capelli corvini, legati in una coda di cavallo. E i lineamenti del suo viso, uno specchio perfetto di quelli del compositore stesso.
«Tu… tu sei…» balbettò Tuomas, atterrito.
«Io, d’ora in poi, sarò il tuo incubo peggiore.» gli rispose quella terrificante versione di se stesso.
Sì, perché era quello l’Imperatore, Tuomas non poteva sbagliarsi, a parte gli occhi era lui, era completamente lui, dalla testa ai piedi; ma lui solo pareva accorgersene.
Qualcuno lo afferrò per le braccia; lui non li sentì nemmeno.
«Smettila con questa messinscena!» gridò invece, terrorizzato. «Mostrati con il tuo vero volto, non cadrò nelle tue illusioni!»
Sul viso dell’Imperatore si disegnò un ghigno. «Povero Tuomas. Cominci già a delirare, senza essere stato un giorno solo in fondo ad una delle mie prigioni.»
Le guardie lo trascinarono via. Il tastierista continuava però a guardare in quegli occhi neri, così orribili, incastonati nel proprio stesso volto.
«No… non può essere…» continuava a farfugliare.
«Ma ci sarà tempo per questo. Rimpiangerai di avere mai varcato quella soglia, Tuomas.»
Ormai il prigioniero era già scomparso.
«Lo ucciderete, Signore?»
L’Imperatore non guardò l’uomo che gli aveva posto quella domanda. Sospirò, invece.
«Ah, la morte.» rimase per un attimo assorto.
Poi i suoi occhi sfolgorarono. «La morte… Quella arriverà per ultima.»









Ciò che dice l'Autore
Buon Natale!!
Allora, avrei tante cose da dire su questo diciassettesimo, ma tanto so per certo che me ne dimenticherò qualcuna. Ho voluto all'inizio approfondire la morte di Lisanna perchè, pur essendo stata un personaggio marginale, ha lasciato il suo segno indelebile (soprattutto nel cuore di Marco :3) e non avrei mai potuto non renderle giustizia con una morte come Dio comanda. E sono soddisfatta di come sono venuti i suoi ultimi istanti; secondo me, WYLASR è perfetta per quel momento, anche se so che è stata scritta per un contesto ben preciso e suppongo che abbia in realtà un significato completamente diverso... beh, almeno, non così letterale (ebbene no, non ho visto il film, chiedo venia).
Arriva poi lo pseudo-tradimento di Anette! All'inizio ho avuto dei dubbi se metterlo già in questo capitolo, dato che sarebbe venuto molto pesante con due fatti così scioccanti, una morte e il tradimento di un'amica, però poi ho pensato che scrivendo un intero capitolo dedicato solo al dolore di Marco avrei definitivamente ucciso la vostra pazienza e la vostra voglia di continuare a leggere questa storia. Sarebbe stato, in poche parole, una palla colossale xD Spero che vi sia piaciuto lo stesso questo chap.
Ed ecco un altro (il secondo) evento shock della giornata: l'aspetto dell'Imperatore agli occhi di Tuomas. Riguardo a questo non posso dire altro se non che ne sono sempre stata entusiasta (mi esalto con poco io), e che non è possibile che su facebook mi abbiano sgamato anche questo colpo di scena! Ma io dico! A quanto pare sono proprio prevedibile. Ho pensato per questo di accantonare l'idea e lasciare che avesse un aspetto più ordinario diciamo, ma poi mi piaceva troppo e non ho resistito alla tentazione di lasciarlo.
E... mi sono accorta adesso di aver scritto delle note più lunghe del capitolo stesso xD Complimenti, se vi siete letti tutta la spataffiata!
Auguri di buone feste :DD
Glory.

PS: L'immagine, per chi non l'avesse capito, è un mio tentativo di rappresentare l'Imperatore xD Volevo prendere una foto di Tuomas ma è inutile... Non c'è nessuna sua immagine abbastanza cattiva, è sempre troppo dolcioso ** (sono malata e lo so.)















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Capitolo 18
*** Casa. ***


La zingara si sedette, scossa, per un solo istante.
L’ultima carta, quella della fanciulla, le si era sbriciolata in mano; e non aveva bisogno di una palla di cristallo per indovinare il perché di quel fenomeno.
Certo, nulla cambiava il corso degli eventi. Tra loro ci sarebbe stato un addio lo stesso.
Ma cominciò a chiedersi, dubbiosa, se quello che era capitato a Lisanna sarebbe potuto capitare anche a uno di loro, e quali sarebbero state le conseguenze.
I suoi pensieri erano scanditi dal ritmo ticchettante di un pendolo che da poco aveva cominciato il suo moto.


Nella radura, dopo la spiegazione di Jukka, era calato un mortale silenzio, per molti minuti.
Poi Marco aveva voltato le spalle a tutti, e si era incamminato verso la strada più vicina.
«Aspetta! Dove vai?»
Marco si fermò, senza guardare il chitarrista che aveva parlato.
«Mi dispiace, Emppu, mi dispiace davvero tanto. Ma tutto questo era destinato a fallire. Io ho seguito Tuomas, perché…» sospirò, scosse la testa. Il suo orgoglio non avrebbe potuto sopportare di scoppiare a piangere una seconda volta. «Perché era carismatico, dannazione, quell’uomo!» mormorò quindi tra i denti. «Pur senza che se ne rendesse conto. Mi ci ero affezionato. E non riuscirò a sopportare anche la sua scomparsa. Mi dispiace. …Addio.»
Il cantastorie rimase ad osservare il vuoto, sconvolto, anche dopo che lui se ne fu andato.
«E’ vero.» sussurrò Jukka, ma era stato solo un soffio impercettibile, e nessun altro l’aveva sentito. «E’ vero!» urlò, quindi.
Il cuore di Anette batteva all’impazzata.
«Prima Lisanna, poi Tuomas. E’ vero, è chiaro che siamo destinati alla disfatta. Non è mai stato da me abbandonare la nave, ma mi vedo costretto a farlo.»
Non uscì più nulla dalle sue labbra, e lui nell’andarsene si guardò indietro una sola volta, per lanciare un penetrante sguardo, quasi d’accusa, ad Anette.
Dopo qualche minuto di sconcerto, Emppu si lasciò cadere a terra, seduto sull’erba, nel vano tentativo di controllare tutti i sentimenti che gli erano esplosi in petto.
Era rimasto solo.
Era rimasto solo, lui, con Anette. Anette la traditrice. Anette che sembrava distrutta quanto lui; e questa era una cosa che proprio non riusciva a spiegarsi.

***

Plic.
Una goccia.
Plic.
Un’altra goccia.
Plic.
Un’altra dannatissima goccia.
Avrebbero mai smesso di cadere, si domandava lui? Lo spazientivano. Lo spazientivano terribilmente.
Lì dove si trovava, tutte le emozioni parevano amplificate. Qualcosa che l’avrebbe irritato superficialmente, ora gli poteva far montare un’ira della quale non conosceva neppure l’esistenza.
Faceva freddo. Faceva molto freddo. Aveva perso la cognizione del tempo, non sapeva più da quanto si trovasse lì, rannicchiato, la schiena contro la parete umida e gli occhi aperti su un buio profondo ed assoluto. Inizialmente quel buio l’aveva terrorizzato – a quei tempi gli era rimasto ancora l’orgoglio, e questo l’aveva costretto a non urlare –, ma  poi aveva dovuto abituarcisi.
Ah, se quel buio avesse potuto nascondere ai suoi occhi anche le illusioni alle quali era sottoposta la sua mente! Pareva amplificarle, invece.
«Tuomas…»
Lui gemette, e si raggomitolò ancora di più. Era arrivato. Di nuovo. Perché non lo lasciava in pace?
«Tuomas, guardami.»
Lui tremava. Non voleva alzare la testa, non voleva. E non sapeva perché sentiva ancora il bisogno di rispondere a quel nome – Tuomas –, non era neanche più sicuro di avercelo, un nome.
«Tuomas, se non mi guardi, sarò io a guardare te.»
Non era un tono minaccioso, sembravano piuttosto le parole rivolte ad un bimbo cocciuto, ma riuscirono lo stesso a fargli nascere in corpo un terrore profondo. E il pericolo, quello di essere guardato, che in apparenza poteva sembrare privo di senso, agli occhi del prigioniero ne assumeva uno ben preciso, e orribile.
Alzò gli occhi.
Davanti a lui c’era il viso di un uomo. La sua mente era confusa, non era sicuro di averlo già visto o meno, qualcosa in lui gli diceva che un tempo gli era stato famigliare, ma non riusciva proprio a rammentarsene, nemmeno sforzandosi. In quel momento, l’unica cosa che attirava la sua attenzione era il nero di quegli occhi.

***

Che schifo.
Se avesse dovuto descrivere la situazione nella quale si trovava, Marco non avrebbe saputo trovare due parole migliori. Che schifo.
La locanda era semivuota. Popolata solo da ubriachi nullafacenti e nullafacenti ubriachi. Il guerriero rientrava ampiamente in entrambe le categorie.
Il sognatore, e il vino. Che chosa triste.
Un poeta senza rime. Ecco cosa si sentiva, sì, un poeta senza rime; uno scrittore vedovo spezzato in due da catene d’inferno.

The dreamer and the wine
Poet without a rhyme

A widowed writer torn apart by chains of hell


Ancora due, tre, quattro, cinque, infiniti sorsi – perché contarli? –, e un’altra bottiglia poté considerarsi finita. La gettò a terra con un grugnito di fastidio; una bestia, era diventato una bestia, altro che scrittore.
Beh, in effetti, un poeta non lo era mai stato, aveva sempre preferito le armi alle parole, eppure in quel momento si sentiva non un guerriero, ma un poeta. Cose fragili, i poeti, facili da spezzare; e lui non si era mai sentito più spezzato di così.
L’unico pensiero lucido che gli sfiorò la testa quella sera fu: oh, Cristo… come odio quello che sono diventato!

Oh Christ how I hate what I have become!
 

***

«Riportami a casa!»
fu l’urlo disperato che riecheggiò per le segrete del castello.

Take me home!

***


«Eccoli!» gridavano i soldati.
Emppu e Anette si vedevano scoperti nel momento di loro maggior sconforto e smarrimento.
Non avevano più le forze per combattere, non avevano più il coraggio per lasciarsi uccidere. Così corsero.
Fuggi, corri, vola via – erano i pensieri concitati di Anette, che s’inoltrava tra gli alberi con le lacrime agli occhi, seguendo Emppu, quell’uomo così simpatico e premuroso che, tuttavia, non aveva ancora fatto cenno di volere anche lei nella sua fuga.
Fuggi, corri, vola via, conducimi smarrita al nascondiglio dei sognatori.

Getaway, runaway, fly away
Lead me astray to dreamer`s hideaway


Le lacrime le impedivano la vista; per lei fu quasi impossibile accorgersi della buca prima di appoggiarci sopra il piede. Una sola fitta alla caviglia, e cadde rovinosamente a terra. Non sarebbe riuscita a mettersi in piedi.
Già se li sentiva addosso, già si sentiva addosso il freddo delle loro armi.
«Sbrigati Anette, sbrigati!»
Arrivò una mano dall’alto.
Emppu la incalzava con lo sguardo; anche lui piangeva.
Lei sentì il proprio cuore sciogliersi, e liberarsi per la prima volta dal ghiaccio che l’avvolgeva, ma non c’era tempo.
Non posso piangere perché chi mi sostiene piange di più – pensava. Non posso morire, io, una puttana per il freddo mondo…
«Perdonami» mormorò. Non era sicura che Emppu la sentisse, ma dopotutto non le importava, era come una conversazione con se stessa. «Non ho che due facce. Una per il mondo, una perché Dio mi salvi.»
Non posso piangere perché mi sostiene piange di più. Non posso morire, io, una puttana per il freddo mondo.

I cannot cry `cause the shoulder cries more
I cannot die, I, a whore for the cold world
Forgive me
I have but two faces
One for the world
One for God
Save me
I cannot cry `cause the shoulder cries more
I cannot die, I, a whore for the cold world


Emppu continuava a fuggire, sostenendo Anette. Non voleva morire; non voleva lasciare che Tuomas morisse. Non poteva credere alle parole delle Annunciatrici, non poteva.
Non poteva pensare di aver perso Tuomas in quel modo.
Ancora si rivedeva davanti agli occhi le immagini del sogno che quella notte aveva fatto…
La mia casa era là e poi… quei campi di paradiso! Giorni pieni di avventura, uno con ogni viso sorridente.
Altre lacrime.
La realtà era cosi dura, invece…

My home was there `n then
Those meadows of heaven
Adventure-filled days
One with every smiling face


***

Jukka bussò alla porta più volte.
Sembrava non ci fosse nessuno.
Sbuffò, spazientito, e picchiò sul legno corroso dal tempo con più forza.
Ancora nessuna risposta.
«Dio santo, lo so che ci sei, apri!» sbraitò.
La porta si socchiuse di pochissimo.
«Coda di paglia?» domandò Jukka all’occhio che lo stava scrutando dalla fessura tra la porta e il muro.
«Non si è mai troppo previdenti, di questi tempi.» rispose l’altro, che appurato il cessato pericolo si decise ad aprire finalmente la porta. «Accidenti, Julius… troppo tempo che non ci vediamo.»
Un abbraccio fraterno tra i due.
«Cosa ti porta sulla soglia di casa mia?»
Lo sguardo del pirata si adombrò; l’ometto – un uomo basso, tarchiato e perennemente sudato – non mancò di notarlo.
«Brutti affari.»
L’altro annuì e lo invitò ad entrare in casa.
Jukka prese una sedia e si versò nel bicchiere senza tanti complimenti il primo alcolico che l’amico gli mise in mano.
«Ma tu non ti eri mica imbarcato con i pirati? Com’è andata con… aspetta… Dark Passion, si chiamava?»
Un’occhiataccia del pirata lo indusse a lasciar cadere la domanda e non tornare più sull’argomento.
«Voglio imbracciare le armi. Voglio vendetta.»
L’ometto aggrottò la fronte.
«Dimmi tutto.»
Ci volle una buona mezz’ora per spiegare tutta la situazione. Alla fine, l’omuncolo era visibilmente scosso; aveva gli occhi strabuzzati, e stava sudando persino più del solito.
«Accidentaccio, Julius. È davvero… nobile.» pronunciò la parola con cautela. «Davvero nobile da parte tua.»
«Per favore, basta parole. Basta lodi. Dimmi se si può fare, dimmi… per una volta, che il mio cuore ha ragione.»

Please, no more words
[…]
No more praise
Tell me once my heart goes right


Un confronto di sguardi lungo molti minuti.
Poi l’omuncolo annuì.
«Hai deciso di morire. Ma di farlo con stile. Approvo. Posso aiutarti.»
Entrambi sorrisero; i sorrisi di due vecchi squali, che alla marea non vogliono arrendersi.






















 

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Capitolo 19
*** I Vichinghi ***


Il prigioniero strinse i denti, nel vano tentativo di controllare i singulti che gli scuotevano il corpo. Non poteva permettere che lo sentissero piangere. Non perché qualche sparuta briciola di orgoglio fosse sopravvissuta alla strage fatta da quelle visioni spaventose, ma perché se loro n’erano appena andate e, chissà, forse se l’avessero sentito piangere sarebbero tornate, per coglierlo mentre era più vulnerabile.
Non ce la faceva più. Non ce la faceva più. Se in quel nulla nero in cui lo avevano gettato avesse trovato qualsiasi cosa che fosse servita allo scopo, si sarebbe già tolto la vita senza pensarci due volte.
La morte era un sollievo. La morte esibiva un sorriso ammaliante che gli risultava impossibile ignorare e che, tuttavia, non poteva raggiungere.
Nella stanza comparve un puntino di luce.
Il prigioniero non riuscì più a nascondere il proprio dolore e scoppiò in violenti singulti; non era servito a niente tutto quello. Erano tornati. Lo sapeva.
La luce divenne forte, e il puntino si ingrandì sempre di più.
Pian piano, i singhiozzi s’acquietarono. Osservò sbalordito quella luminescenza aranciata prendere la forma di una figura femminile, che poi si mostrò  a lui in tutto il suo splendore. Era bellissima, e lo osservava dall’alto. Poi, si chinò su di lui.
Venne scosso dai brividi quando sentì il suo tocco, un tocco caldo e confortante – ma anche distante in qualche modo.
Si inginocchiò accanto a lui, lo abbracciò. Lui chiuse gli occhi e si appoggiò a lei, beandosi del calore e della luce che sapeva infondergli. E mentre erano così, stretti l’uno all’altra, e lei gli accarezzava la testa con la grazia propria delle donne e delle madri, cominciò a cantare dolcemente.
«Scintilla, il mio scenario, di cascate turchesi, di bellezza nascosta. L’eterna libertà.» gli sussurrava.
Il prigioniero chiudeva gli occhi, e quasi riusciva a vederli. Il cuore gli si riempì di commozione, gli incubi e gli orrori dell’oscurità sembravano lontani anni con quella voce meravigliosa a fianco.

Sparkle my scenery
With turquoise waterfall
With beauty underneath
The Ever Free


La voce del prigioniero era roca, ed era più di un bisbiglio. Ma questo bastava, per trasmettere il suo messaggio. «Fammi passare al di sotto del blu. Sotto il dolore, sotto la pioggia…».
Si strinsero più forti; lei arrivò anche a baciarlo sulla fronte, con delicatezza, solo un soffio lieve sulla sua pelle. Bacio della buonanotte a un bambino nel tempo.

Tuck me in beneath the blue
Beneath the pain, beneath the rain
Goodnight kiss for a child in time
[…]


Infine, lei tornò davanti a lui.
«Ti ringrazio. Tuomas.» disse.
Di colpo, quel nome.
La nebbia che oscurava la sua mente si diradò pian piano, Tuomas si asciugò le lacrime, davanti a quella luce racquistò un’identità e una ragione, riacquistò un volto, dei ricordi.
Lei sorrise.
« Sulla riva sedevamo e speravamo, sotto la stessa pallida luna la cui luce guida vi scelse». Parlava ancora per enigmi, quella donna. «…Scelse voi tutti.»

On the shore we sat and hoped
Under the same pale moon
Whose guiding light chose you
Chose you all


Tuomas la osservava, rapito e sbalordito. Sembrava così celestiale… Era, sì, indiscutibilmente diversa dalla Tarja che aveva sempre conosciuto.
«…Tarja…?»
Lei scosse la testa.
«Ti sei già risposto a questa domanda.»
Lui deglutì. «Ma allora, dimmi chi sei.»
Lei annuì. «Ora posso risponderti. E posso farlo grazie a te.» gli sorrise. «Qui mi chiamano Dama del Crepuscolo.»
Tuomas si sentì mancare il fiato. «Sei una creatura sovrannaturale.»
«Sì». Lo sguardo della Dama si fece imperscrutabile, mentre attendeva la reazione del suo interlocutore. «E sono anche la nemica… diciamo, naturale… di colui che ti ha rinchiuso in questa segreta, e contro al quale hai voluto incoscientemente metterti contro.»
Il tastierista arrossì; si sentiva un bimbo che era stato appena beccato dai genitori a giocare a fare l’adulto.
«Puoi farmi uscire di qui?» domandò lui. Il suo cuore batteva all’impazzata, di terrore, alla sola idea di una risposta negativa.
Lo sguardo di lei si adombrò. «No.»
Tuomas sentì il mondo cadergli addosso. Chinò il capo, chiuse gli occhi, raccolse i pensieri. Sentiva il suo cuore lottare per saltargli via dal petto, e l’angoscia incitare a gran voce quella folle corsa.
Ho paura. Ho tanta paura. Di essere violato ancora, e ancora, e ancora. So che morirò solo. Ma amato., pensava.

I`m afraid. I`m so afraid.
Being raped again, and again, and again
I know I will die alone.
But loved.


La Dama si chinò su di lui, e gli porse diversi fogli insieme ad una penna.
«So che è poco.» gli disse.
Tuomas li prese in mano, li osservò attentamente. Si stupì, per un solo istante, però dopo sorrise.
«E’ perfetto per me, grazie». Si sistemò nella posizione più comoda che riuscì a trovare, e tracciò il primo scarabocchio. «Se solo avessi le mie Korg…» sospirò.
La luce cominciò ad affievolirsi.
Tuomas alzò lo sguardo di scatto, e vide la Dama allontanarsi sempre di più.
«No!» gridò.
Lei si bloccò.
«Rimani, ti prego.»
Si guardarono, per molto tempo. I suoi occhi erano disperati, la supplicava, non sembrava affatto diverso rispetto a come l’aveva trovato poco prima, in balia della magia dell’Imperatore.
Sospirò.
«D’accordo». Gli fluttuò di fianco. «Ma, poco prima della fine, io me ne dovrò andare.»
Tuomas abbassò lo sguardo per non farle notare che si stava ancora riempiendo di lacrime, anche se sapeva benissimo che le sei ne sarebbe accorta lo stesso.
«Va bene.» sussurrò, prima di tornare a scrivere.

La Capitale, periferia.

Jukka strinse in pugno il foglietto che l’amico gli aveva lasciato.
«Ehi, ti ringrazio immensamente.» si congedò, mollando all’ometto un’energica pacca sulla spalla.
«Non posso garantirti assolutamente niente. Il loro capo mi odia.» rispose l’altro accompagnando il pirata alla porta. «…Accidenti, Julius, me l’hai rotta ‘sta spalla.» mormorò subito dopo.
Jukka ignorò con un sorriso le sue ultime parole, per rispondere invece: «Dubito che esista qualcosa che a lei piaccia. A parte l’oro, ovviamente.»
L’ometto sorrise e annuì, per poi guardarlo mentre si allontanava lungo il vicolo sudicio e defilato che ospitava la sua casa da quattro soldi. Accidenti, gli auguro davvero di potercela fare, pensò.
Jukka svoltò un angolo e scomparve, e allora anche lui si decise a tornare in casa, scuotendo amaramente la testa. Ma no, non credo riuscirà a sopravvivere. Peccato.
Il pirata non ci mise molto a trovare la locanda. Ovviamente, nessuno gli aveva detto dove sarebbe andato Marco per passare il resto dei suoi giorni, ma Julius aveva visto nei suoi occhi una resa che poteva trovare appagamento solo in alcool di pessima qualità.
L’interno era piccolo, sporco e male illuminato, l’oste sonnecchiava dietro al bancone e il locale era drammaticamente vuoto. Il batterista fece una smorfia, ed entrò. Fosse stato nel proprietario di quella bettola, non si sarebbe certo sentito così serafico.
Accanto ad uno dei tavoli addossati alla parete destra sorgeva una piccola montagnetta di cocci di bottiglie di vino. Su quel tavolo, un uomo riverso che russava rumorosamente, i capelli biondi sporchi e scompigliati coprivano quasi con pudore la sua schiena e il suo volto, che tuttavia non riusciva a rimanere sereno nemmeno nel sonno.
Jukka gli mise una mano sulla spalla e lo scosse con forza. «Avanti, Marco. Forza.»
Il guerriero aprì gli occhi di scatto, balzò in piedi ed estrasse con energia la propria ascia, prima di accorgersi che la sua ascia l’aveva seppellita insieme al corpo di Lisanna, e cadere quindi rovinosamente a terra, del tutto sbilanciato. Una volta ripresi dallo spavento, però, i suoi occhi tornarono spenti.
«Chiunque siate, lasciatemi in pace.» biascicò, la voce impastata, e si lasciò ricadere di schiena.
«E’ disgustoso.» replicò duramente Jukka. «Non avrei mai creduto che un uomo come te, un vichingo, una persona dalla così forte volontà si potesse ridurre in questo modo.»
«Stronzate.» rispose l’altro.
«Alzati.»
A quel punto il guerriero alzò lo sguardo su di lui. Si osservarono per molto tempo, ognuno a testare la determinazione dell’altro. «Prova a costringermi.» disse alla fine Marco, con un sorrisetto provocatorio in volto.
Jukka rise. «Lo vedi? La tua natura è sfidare e combattere. Non riesci ad impedirtelo neanche volendo.»
Marco non trovò nulla di altrettanto valido con cui poter controbattere, perciò si mise a sedere con un grugnito. Si stropicciò gli occhi.
«Che cosa vuoi da me? Non facciamo più parte dello stesso equipaggio, mi pare.»
«E invece siamo sulla stessa nave da molto tempo.»
Finalmente, qualcosa si accese nello sguardo del guerriero, qualcosa di molto simile alla meraviglia. «No, non dirmelo, hai finalmente recuperato quei fantomatici ricordi di cui blaterava Emppu?». Evitò apposta di pronunciare anche il nome di Tuomas.
«No.» rispose tranquillamente Julius.
«Ma… allora come fai ad affermare una cosa simile con tanta certezza?»
Jukka abbassò lo sguardo, ma non ebbe paura di nominare il loro amico, che presto sarebbe caduto. «Io credo che Tuomas non morirà per un’illusione. Non ha senso; nemmeno il più stupido dei bugiardi arriverebbe a tanto.»
Marco s’irrigidì, e sprofondò nuovamente in quell’apatia ovattata che aveva cercato così disperatamente nell’alcool. «Tuomas è morto. Non mi interessa per che cosa l’abbia fatto; alla fine, tutto conduce sempre alla morte. Per qualsiasi cosa tu mi voglia con te, sono affari che non mi riguardano. Non voglio starci in mezzo.»
«Questo è il discorso più idiota che io abbia mai sentito. E Tuomas non è ancora morto.»
«Ma morirà.»
«Sì, morirà». Lo sguardo di Jukka era più duro del solito. «E per questo c’è bisogno di qualcuno che gli faccia avere la vendetta che merita, e cerchi di porre fine a questa storia delirante.»
Silenzio.
Una mano tesa. Marco la osservò a lungo.
Voleva veramente abbandonare la comodità di una vita vissuta nella resa? Davvero voleva buttare via l’apatia che aveva così tanto cercato, e tornare a soffrire di nuovo?
Prese un lungo respiro profondò, e poi lasciò che il pirata lo aiutasse a rialzarsi. Sapeva che se ne sarebbe pentito.
Quando l’oste si riprese dal suo torpore, e si accorse che quello schifo di ubriacone che gli aveva riempito la locanda per tutto il giorno se n’era andato senza pagare le innumerevoli bottiglie che si era scolato, i due erano già lontani.
«Avrai bisogno di un’arma.» diceva Jukka mentre si muovevano veloci per le strade della Capitale.
«Non faresti meglio prima a spiegarmi dove dobbiamo andare?»
Il pirata gli porse il biglietto senza neanche smettere di camminare.
Marco lesse in fretta e furia, e quando ebbe finito si fermò di botto.
«Ma sei pazzo?!»
«E perché? Guarda che è una delle migliori armerie della città!»
Il guerriero alzò gli occhi, e vide alcune armi esposte su un banchetto di legno, fuori da quella che aveva tutta l’aria di essere l’entrata di una fucina.
«Non mi riferivo alla bottega, ma a questo!». Glielo sbatté in faccia.
Jukka sorrise. «Che ti ho detto? Avrai bisogno di un’arma.»

Marco uscì soppesando la propria ascia nuova di zecca.
«Sai, è veramente una fortuna che quell’armaiolo fosse tuo amico, altrimenti non avrei avuto un soldo con cui pagarla.»
Camminarono in silenzio per un po’ di tempo. Ora il guerriero non seguiva e basta, perché sapeva dov’erano diretti i passi del suo compagno.
«Hai un amico anche tra di loro?» domandò alla fine.
Julius scosse la testa. «No, no, per nulla. Non li ho neanche mai visti da vicino.»
«Io sì, una volta. Vennero nel bel mezzo di una rovinosa ritirata e sterminarono tutti i nemici. Credo che mi abbiano salvato la vita, ma forse avrei preferito una sconfitta, rispetto a quella profonda ferita nell’orgoglio.»
Di nuovo silenzio. Davanti a loro si stagliavano le uscite della città.
Il pirata si avvicinò ad un uomo e gli chiese qualcosa. Pochi minuti dopo i due uscirono di città in groppa a due cavalli; Jukka non volle rivelare a Marco dove aveva preso le monete con cui li aveva pagati, ma era cristallino che non si era trattato di soldi di sua proprietà.
«Mi servi tu, da qui in poi. Tu sai dov’è il loro quartier generale, vero?»
Marco annuì e spronò il cavallo. Per qualche tempo procedettero ad un galoppo sfrenato, e spensierato, per scaricarsi, distrarsi dall’incubo che stavano vivendo e che li aveva entrambi colpiti duramente, poi preferirono tenere i cavalli riposati e continuarono ad un andatura normale fino a sera.
«Raggiungeremo quelle alture  per domani pomeriggio. Là in mezzo si nascondono loro.» disse Marco smontando da cavallo.
Prepararono un piccolo accampamento improvvisato ai lati della strada, sistemandosi attorno ad un falò piazzato alla bell’è meglio e mangiando le provviste che Jukka era riuscito a farsi dare dal suo amico informatore, giù in città. Lì, tra i campi, allo scoperto, non avevano paura del sovrannaturale, confinato solitamente tra i fitti alberi dei boschi; potevano avere paura soltanto di se stessi.
«Perché non hai chiamato anche Emppu?» gli domandò il guerriero ad un tratto.
Jukka abbassò lo guardo. «…Emppu.» ridacchiò «Ma dai, ce lo vedi a fare una cosa del genere?»
Marco sorrise tra sé, e scosse la testa. No, quel simpatico cantastorie non sarebbe durato un secondo nel posto in cui stavano andando.
«Jukka, sappi che io non ti prometto niente. Quella donna è davvero spaventosa; non penso riuscirei a resistere un secondo solo in un confronto armato contro di lei. E di sicuro non mi vede di buon occhio, sono uno dei suoi principali rivali.»
Il pirata annuì. «Non ti preoccupare. È tremenda, ma non stupida. Non butterà via un’occasione del genere; se non lo farà per generosità, allora sarà l’avidità a spingerla.»
Il fuoco si stava spegnendo, entrambi erano già coricati, ed osservavano le stelle sopra di loro, ognuno perso nelle proprie preghiere personali. Passò molto tempo prima che Marco si decidesse a fare un’ultima domanda.
«Noi, non… non faremo in tempo a liberare… Tuomas, vero?»
Silenzio. Per alcuni minuti Marco sperò davvero che Jukka si fosse addormentato, sarebbe stato meglio, sarebbe stato più facile non trovare risposte a quella domanda.
«Non credo.»
Il guerriero non rispose. Chiuse gli occhi, ormai abituato al dolore di quel peso sul petto.

Il resto del viaggio si svolse com’era cominciato, ovvero con calma e senza intoppi; era pomeriggio inoltrato quando giunsero ai piedi delle montagne, dove si fermarono.
«Accidenti…» mormorò Marco,  osservando l’imponenza dei monti a bocca aperta. Di sicuro, era un luogo molto scenografico dove mettere l’accampamento per un gruppo di mercenari.
«Impressionanti, vero?»
«Tu ci sei già stato?» chiese il guerriero all’amico.
Il pirata si strinse nelle spalle. «Io sono stato un po’ dappertutto.»
Marco lo osservò a lungo, ma badando a non farsi notare. Durante tutto quel viaggio e quell’avventura loro due non avevano mai avuto occasione di interagire più di tanto, e lui in fondo l’aveva sempre visto come il vicecapitano che aveva minacciato di scuoiarli con i propri coltelli. Solo allora si accorgeva di quanto in realtà fossero simili. Era qualcosa che lo faceva pensare.
«Proporrei di proseguire in quella gola.» aggiunse il batterista, ignaro dei pensieri del compagno, indicando una fessura che si inoltrava nella roccia davanti a loro.
Il guerriero si riscosse e guardò dove indicava l’amico. Era un passaggio stretto, buio, fendeva la montagna come una ferita provocata da un’enorme spada e incisa a fondo nel cuore di quei monti possenti.
«Non mi piace molto, ma è l’unica via.» convenne lui.
Spronarono i cavalli, e con qualche rimpianto abbandonarono la sicurezza della via per addentrarsi nel cuore della roccia.
Proseguiva Jukka per primo, redini in una mano e pugnale nell’altra, e Marco subito dietro, circospetto e irrequieto. La strettoia, dopo quasi un’ora di cammino, pareva voler continuare ancora per miglia e miglia.
«Io credo che sarebbe meglio…» aveva cominciato il guerriero, ma venne subito interrotto.
C’era odore di morte; alzò lo sguardo, e vide la punta di una freccia puntata proprio sopra la sua testa.
Imprecò a mezza voce, e cominciò allora ad accorgersi dei nemici che spuntavano dalle rocce. Sembravano migliaia, e tutti li puntavano, e li osservavano con una luce spietata negli occhi.
«Imboscata.» lo informò Jukka. Il suo non era nemmeno un tono sorpreso; Marco si chiese se la sua totale assenza di emozione fosse dovuta a quella strana forma di sarcastica apatia che il pirata amava ostentare di solito, o semplicemente  a una sua precedente previsione di come si sarebbero svolti i fatti.
In effetti, quel luogo pareva assolutamente perfetto per un’imboscata.
«Beh, senza dubbio, li abbiamo trovati.» mormorò il guerriero.
«Chi siete?». La voce spuntò dai massi.
I due si lanciarono un’occhiata.
«Io mi chiamo Jukka Nevalainen e il mio amico è Marko Tapani Hietala.» rispose Julius con sicurezza.
Marco approvò. Non si poteva compiere errore peggiore di dire il proprio nome completo ad una creatura maligna, ma era di sicuro la mossa migliore da fare di fronte ad un branco di uomini armati del quale si sta cercando l’alleanza.
Si udì un brontolio tutt’intorno; poi, la voce proseguì: «Marko Tapani Hietala, colui che si fa chiamare la Mano di Ferro del Nord?»
Marco sorrise e drizzò le spalle, gonfiando il petto tutto orgoglioso.
«Io, in persona.»
«Che cosa volete?»
«Parlare di affari con il vostro capo.»
Ci fu un momento di silenzio attorno a loro.
Poi, ebbero solamente il tempo per stupirsi del forte dolore alla testa, e afflosciarsi esanimi sulle selle dei loro cavalli.

Voci. Tante voci confuse intorno a loro.
«Oh, guardate! I nostri ospiti si stanno svegliando!» gridava uno.
Marco digrignò i denti, con fastidio. Non potevano fare più piano? Ogni urlo, alle sue orecchie, era come un chiodo ben piantato nel cervello.
Aprì lentamente gli occhi, e la prima cosa che vide furono le ombre rossastre gettate dal fuoco sulle pareti di roccia. Dopo, gli arrivò alle narici la puzza di alcool e di sudore, e l’odore del cuoio e del metallo appena lavorati. Sensazioni che conosceva molto bene. E infine uomini, tanti uomini, che sputavano, imprecavano, ridevano sguaiatamente, affilavano o forgiavano armi, si ubriacavano giocando a dadi.
Si rialzò a fatica, appoggiandosi alla parete accanto alla quale era stato sdraiato.
«Sempre così ospitali, voi guerrieri del nord?» domandò Jukka in quel momento, che si era svegliato con lui.
Il vichingo si esibì in un’espressione che era a metà tra una smorfia e un sorriso. «A volte sappiamo essere un tantinello rudi, te lo concedo.»
«Hietala!» si sentì esclamare. Un attimo dopo il bassista si ritrovò schiantato a terra da un terribile colpo inflittogli proprio al centro della schiena.
La manona che l’aveva colpito l’aiutò anche a rialzarsi, e gli mollò un altro spataffione, stavolta nella maniera più delicata possibile che riuscì a trovare.
«Orjon», boccheggiò Marco, «felice di vederti vivo.»
Orjon era un omone alto praticamente due metri, dalle mani grosse come badili e i muscoli d’acciaio. Portava la testa rasata e una barba corvina, nera come le sopracciglia cespugliose che gli nascondevano in parte un taglio d’occhi gentile, nonostante tutto.
«Gracilino come sempre, eh?». Una grassa risata e un’altra manata alla schiena.
Jukka rimase il più defilato possibile, terrorizzato all’idea che a quel gioviale vichingo potesse balzare in testa di salutare anche lui.
«Non sapevo che ora combattessi con lei.» gli disse Marco.
«Ed è stata la decisione migliore della mia vita: la paga è una meraviglia. Con tutte le imprese e le razzie che riusciamo a compiere! Ah, guarda, è un gran peccato che tu non sia dei nostri. Non ho mai capito perché hai rifiutato.»
«Te l’ho già detto, non distruggo villaggi per profitto personale.»
«Dovresti stare attento, Mano di Ferro, altrimenti cominceranno a chiamarti Cuore Tenero e scambieranno le treccine della tua barba per quelle di una bimba che va a coglier fiorellini nei boschi.»
L’intera sala piombò nel silenzio. La voce che aveva parlato era stata inconfondibilmente femminile, il che poteva significare soltanto una cosa.
Orjon chinò la testa in segno di rispetto e fece un passo indietro, gli occhi castani colmi di timore riverenziale.
La donna che aveva fatto la sua comparsa era incredibile. Superava sia Marco che Jukka in altezza, e vestiva di un’armatura d’acciaio che si modellava attorno alle sue curve femminili e le proteggeva le gambe e il torace. Portava un lungo mantello di pelliccia marrone, sul quale si appoggiava la treccia castana dei suoi capelli. Al capo, un elmo, dal quale spuntavano un paio di corna affusolate ma non per questo meno temibili; e sotto di esso, le lame infuocate del suo sguardo.
Jukka fischiò, e fu l’unico suono che ebbe il coraggio di attraversare la caverna.
La donna, capo dell’esercito di mercenari vichinghi più terribile che potesse esistere al mondo, lo trafisse con lo sguardo; e lui lo sostenne, senza battere ciglio.
«Notevole. Chi sei?» gli chiese.
«Un pirata.» rispose lui.
Si scatenò uno scroscio di risate. «Un pirata?!» dicevano. «E che cosa ci fa, un pirata, in una montagna?» «Ti sei perso, per caso?»
Le bastò un solo gesto della mano per mettere a tacere tutti.
«Ho navigato a lungo con la Dark Passion. Ci sono abituato.» spiegò lui.
Gli occhi le si accesero di interesse. «L’unica nave pirata mai comandata da una donna?»
Jukka annuì. La sua voce ebbe solamente un lieve tremito mentre diceva: «Anette Olzon era una grande guerriera.»
La donna aggrottò al fronte. «Era? È morta?»
Lo sguardo del pirata si adombrò definitivamente. Non rispose.
Lei chinò il capo. «Le mie condoglianze. La rispettavo.»
Un brusio di sconcerto si propagò lungo tutta la sala. Era considerata un’impresa molto ardua (e per questo molto ambita) quella di guadagnarsi il suo rispetto.
Lei si girò poi verso Marco, che era rimasto fermo a guardarla. «E’ un piacere poterti conoscere. Sei conosciuto, sul campo di battaglia, e temuto quasi quanto noi.» Sorrise. «Il mio nome è Floor Jansen.»
«Difficile non conoscerlo. È diventato leggenda, ormai.» replicò lui, sforzandosi di sostenere il suo sguardo come aveva fatto Jukka, ma il compito divenne ben presto molto più difficile di quanto si fosse aspettato.
Fu costretto ad abbassare gli occhi, mentre un lampo di compiacimento attraversava quelli della sua rivale.
«Allora.» disse lei. «Hai detto che vuoi parlarmi di affari.»

La Capitale, Palazzo Imperiale. Prigioni.

La Dama del Crepuscolo se n’era andata proprio quando il suo coraggio stava cominciando a venire meno, e lui sentiva di aver bisogno del suo tocco consolatore e del suono angelico del suo canto.
Per molto tempo non aveva saputo darsi pace, ma poi si era imposto di calmarsi. Non poteva assolutamente ritornare ad essere la larva che era prima che lei arrivasse a liberarlo dalla catene della follia delle segrete.
Ci volle poco, perché l’Imperatore tornasse a tormentarlo.
«Tu vivi abbastanza da sentire il suono degli spari. Abbastanza da trovarti a gridare ogni notte. Abbastanza da vedere i tuoi amici tradirti.»

You live long enough to hear the sound of guns,
long enough to find yourself screaming every night,
long enough to see your friends betray you.


Tuomas stringeva i pugni, e resisteva. Chiudeva gli occhi, e andava a recuperare ogni singolo brandello della sua mente che minacciava di sgretolarsi davanti alle parole del suo incubo personale.
Era qualcosa di terribilmente faticoso.
«Io le sento le tue grida, Tuomas. Ogni notte. Ogni santa notte.»
Il tono dell’Imperatore era diventato più basso, ora, sembrava quasi delicato, pareva addolorato per quello che era costretto a rivelargli.
«Io vedo i tuoi incubi. La tua solitudine. È triste la solitudine, il buio, vero? Fanno paura… Ma non quanto gli amici… Sì, gli amici fanno più paura, non è vero? Guarda cosa ti hanno fatto…»
Tuomas stringeva i pugni. Non doveva ascoltare. Non doveva.
Sentì una mano che gli accarezzava i capelli; ma sapeva che non era la Dama. Una gelida morsa di panico gli si serrò attorno allo stomaco, ma si impose di rimanere immobile.
«Ma non devi preoccuparti». Ora la voce era poco più di un sussurro, soffiato dolcemente al suo orecchio. «Non devi preoccuparti, perché tra poco morirai.»
L’Illusionista sentì il sangue che gli si gelava nelle vene; e il mormorio dell’imperatore divenne un grido di pazzia.
«Hai sentito, Tuomas? Morirai! Tra poco morirai! MORIRAI, TUOMAS!»
Altre grida, altre infernali grida.
Tuomas si rannicchiò su se stesso e si coprì le orecchie con le mani, aspettando che tutto quello finisse.
Lo lasciò con una grandissima paura a divorarlo dall’interno.
Gli vennero in mente poche righe di quella sua canzone… Cercò a tentoni, tra le lacrime, i fogli della Dama, e se le appuntò, chissà perché, scrivere i versi di una canzone già composta.
“Per anni sono stato frustato su questo altare.
Ora ho solo tre minuti, e conto;
Vorrei solo che la marea mi raggiungesse prima e mi desse la morte che ho sempre desiderato.”

For years I`ve been strapped unto this altar.
Now I only have 3 minutes and counting.
I just wish the tide would catch me first and give me a death I always longed for.

Quartier Generale dei mercenari


«E così, è questo che avete intenzione di fare. Una ribellione alla vecchia maniera. Una bella scazzottata con le guardie imperiali». Gli occhi di lei scintillarono. «L’occasione per strappare la corona a quel prestigiatore da strapazzo.»
Sia Jukka che Marco non osavano fiatare mentre la vichinga pensava. Sobbalzarono, quando lei sbatté con forza un pugno sul primo tavolo che trovò.
«Ci sto, diamine, ci sto!» urlò, con un gran sorriso. «Ma ad una condizione.»
I due si sentirono crollare il mondo addosso.
«Non abbiamo soldi con noi.» si azzardò ad obiettare Julius.
«Ne dubito, caro il mio pirata. Voi lupi di mare avete sempre dell’oro nascosto da qualche parte, non so come diavolo facciate, ma lasciare al verde uno di voi sembra praticamente impossibile! Ma, comunque, sappi che non è il denaro che voglio. È qualcosa di più semplice.»
Ecco. Ora erano davvero preoccupati.
«Voglio che Hietala mi batta ad un duello.»
Sconcerto.
Sconcerto per tutti; per i mercenari, che non avrebbero mai potuto sperare in un privilegio simile nemmeno nei loro sogni più rosei, e per il povero Marco, che tutto avrebbe voluto tranne che combattere contro una delle poche persone di cui aveva sinceramente paura.
Sollievo.
Sollievo per Jukka; il pirata si esibì in una delle sue solite espressioni rilassate, appoggiò mollemente la mano sulla spalla dell’amico e gli disse un “Buona fortuna” che sapeva molto di “Grazie dio ha scelto te e non me, ora te la smazzi da solo e  io rimango a guardare”.
Marco si guardò intorno circospetto, pensando a come rifiutare senza perdere definitivamente la faccia. Concluse che non c’era modo.
Sospirò. Probabilmente sarebbe morto così.
«E sia.» disse.
Tutti i mercenari urlarono ed esultarono, e lui li odiò profondamente. Ma cosa diavolo c’era da festeggiare?
Floor socchiuse gli occhi e ed estrasse la propria arma; un’enorme palla chiodata, attaccata ad un manico di legno da una lunga catena robusta. «Difenditi, allora!» esclamò, e gli si lanciò contro.
Il guerriero, colto del tutto alla sprovvista, accusò il colpo – per fortuna si trattava solo di una gomitata piantata in mezzo alle costole – e venne sbalzato all’indietro.
Sguainò l’ascia e si rimise subito in piedi.
I due rimasero per un attimo a studiarsi, senza tentare di portare a termine alcun attacco. Il guerriero sentiva già il sudore imperlargli la fronte; per quanto si sforzasse, non riusciva a trovare punti deboli nella difesa dell’avversaria, né nel suo modo di attaccare. Non poteva nemmeno, essendo lei femmina, tentare di impostare un combattimento basato sulla forza fisica, perché era certo che anche in questo equivalessero. E poi, in uno scontro del genere, l’altezza avrebbe potuto avvantaggiarla.
Floor attaccò all’improvviso, e lui si ritrovò a dover evitare i suoi colpi mirati ad ucciderlo senza la più pallida idea di come fare a contrastarli. Lo scontro si risolse in parità, e Marco si ritrovò ad ansimare dall’altra parte della sala, sfinito.
Non era più abituato al combattimento, e l’alcool che aveva ingerito a fiumi le ore prima di certo non contribuiva a migliorare le sue condizioni fisiche.
«Già stanco?» chiese lei con un sorriso quasi feroce, e di nuovo gli si avventò addosso, senza nemmeno lasciargli il tempo di riprendere fiato.
Via via che il combattimento proseguiva, Marco perdeva sempre più lucidità, e il tarlo della paura cominciò pian piano a picchiettargli nel cervello quando si spostò per un pelo e la mazza della sua avversaria si abbatté contro il pavimento. Il guerriero ebbe tempo di guardarsi indietro, e vide un profondo solco dove pochi attimi prima si trovava la sua testa.
Digrignò i denti, e strinse la propria arma. Non era ancora riuscito ad attaccare una volta sola.
«Ora basta!». Questa volta fu lui a correre verso Floor, e a menare un potente fendente d’ascia dritto alla sua spalla sinistra.
Un assordante rumore, di ferro che cozza contro ferro.
Erano vicinissimi, ora, l’ascia contro il manico della mazza, gli occhi azzurri di Marco in quelli verdi di Floor, e la terribile sensazione di aver fatto un passo falso.
Dolore lancinante ad un fianco; il guerriero si lasciò sfuggire un urlo di dolore, e cadde a terra. Un lago di sangue imporporò il pavimento di roccia.
Jukka strabuzzò gli occhi. Aveva affrontato il confronto di forza con Marco con un braccio solo, e con l’altro l’aveva colpito al fianco con la lama di un pugnale. Chi diavolo era quella donna?
Il pirata corse dal vichingo, che tentava di rialzarsi tenendosi la ferita con le mani sotto le risate di scherno di tutti gli altri.
«Va tutto bene?» gli chiese.
«Cazzo.» fu la risposta che ricevette.
Gli tolse la mano dal fianco e gli osservò la ferita. Floor avrebbe potuto ucciderlo, era evidente, ma aveva colpito con la precisa intenzione di non farlo. Perché?
«Bene.» disse lei, pulendo la lama del coltello nell’abito del primo vichingo che trovò. «Questo duello mi ha soddisfatta.»
Entrambi alzarono lo sguardo a guardarla; torreggiava su di loro, ma non aveva l’aria di qualcuno che infieriva sui vinti.
«Avrete il mio aiuto, e la vostra vendetta.»









Ciò che dice l'Autore

Ciao a tutti! In questo capitolo ho inserito la carissima Floor, la cui presenza nella storia non era assolutamente programmata ^^ Però, alla luce degli ultimi fatti avvenuti all'interno della band (e dopo essermi venuta in mente una scenetta troppo comica tra lei e Marco - forse quelle di fb sanno di cosa parlo xD -), ho deciso di renderla partecipe xDDDD Spero vi sia piaciuto questo  chap.
(Sì lo so, di solito sono molto più loquace e mi perdo in chiacchiere futili, però oggi sono in partenza e devo fare di fretta :D)
Baci!
Glory.

PS: Per chi non se ne fosse accorto, ieri presa da un raptus ho cominciato a mettere immagini in tutti i precedenti capitoli della storia, per colorarli un po' :) Spero vi piacciano!




















 

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Capitolo 20
*** Sesta Carta: Inchiostro Nero ***


«Emppu… non andare.»
Lui non rispose. Si asciugò le lacrime invece, e continuò a guardare verso la strada.
«Ti potrà solamente causare altro dolore.»
Anette parlava con il cuore in mano.
«Non posso rimanere indifferente. È uno degli amici migliori che abbia mai avuto. Ho passato una vita con lui.»
«Ed è per questo che sarà una tortura!»
Emppu la guardò negli occhi, e per un istante lei ne fu spaventata. Era così profonda, la disperazione che vi si leggeva…
«Se ci fosse un modo per salvarlo?» mormorò lui, in un soffio. Aveva paura a dirlo.
Lei scosse la testa. «Erno, non sei un guerriero. Il tuo unico modo di combattere è suonare, ed è la cosa più bella che io abbia mai visto, un uomo che per farsi valere usa l’arte. È una cosa… pura. Non lasciarti distruggere in questo modo.»
«Ma tu che ne sai, eh, Anette?!»
Lei tacque. Sapeva benissimo dove sarebbero andate a parare le sue parole, e avevano già cominciato ad inciderle nel petto il segno dell’ennesima ferita impossibile da cancellare.
«Che ne sai di amicizia, e di arte, e di… di purezza? Tu l’hai tradito. E sono certo che l’Anette che cantava con noi non aveva il cuore freddo come il tuo.»
Silenzio, per molto tempo.
«Non ne so nulla, infatti.» ammise lei dopo aver abbassato lo sguardo e taciuto a lungo. «Ma è proprio perché conosco l’odio e l’orrore e la corruzione posso dirti senza sbagliare in che modo mali del genere s’insinuino negli animi della gente. E non vorrei che lo facessero anche con te.»
Per pochi, pochissimi attimi, Emppu ci credette, e fu persuaso.
Poi, quegli attimi passarono.
«Mi dispiace.»
E anche lui se ne andò. Quando la guerriera alzò lo sguardo, vide che la sua chitarra era rimasta lì, appoggiata ad un masso, come un relitto di chissà quali meravigliosi tempi passati.
 
La Capitale, Palazzo Imperiale. Prigioni.
 
La porta si aprì, e Tuomas fu costretto a chiudere gli occhi per non rimanere accecato. Pazzesco. Anche la tenue luce delle torce, dopo quel periodo passato nel buio più totale, riusciva a fargli del male.
«Ciao, illusionista». E poi, risate.
Quando riuscì a socchiudere gli occhi, il tastierista riconobbe le sagome nere di due uomini, che lo afferrarono per le braccia con le loro risate sguaiate. Mentre lo mettevano in piedi, e si accorgeva di aver dimenticato come si camminasse, si chiese se per caso l’Imperatore non gli avesse trasformato le gambe in gelatina con uno dei suoi diabolici incantesimi.
«Ma guardalo,» borbottava quello che lo stava sorreggendo mentre l’altro gli legava le mani dietro la schiena. «l’ultimo dei maghi. Non riesce nemmeno a rimanere in piedi da solo.»
«E qua?» aggiunse l’altro quando ebbe finito e lo ebbe scaricato completamente a quello che lo stava tenendo. Recuperò la torcia e si avvicinò al pavimento. Raccolse i fogli che Tuomas aveva lasciato per terra. «Che cosa scrivevi? Le ultime memorie? O una lettera alla mamma?». Rise, ma l’altro si fece pallido in volto.
«Zitto. Forse sono formule magiche.»
Quando il soldato comprese, digrignò i denti e prese Tuomas per il bavero. «Volevi trasformarci in topi, non è così?!»
«Lascialo stare.» lo fermò l’altro. «Avanti, leggici quello che c’è scritto.» ordinò poi, piazzandogli i fogli davanti al naso.
«Non posso», ansimò il tastierista, «vedi? Sono cancellati.»
Il soldato sorrise. «Fai il furbo. Ma l’Imperatore non può essere ingannato quando si tratta di incantesimi; questi li faremo vedere a lui, illusionista.»
Anche l’altro ghignò, di riflesso, e insieme lo trascinarono fuori dalla cella, fino al corridoio sotterraneo e claustrofobico, che aveva l’odore della muffa e dell’anima dei prigionieri che pian piano si sgretolava fino a diventare il più sottile rivolo d’acqua. Quel luogo, illuminato dalle rade torce appese alla parete, metteva più paura delle celle stesse.
«Dove mi portate?» domandò alla fine Tuomas.
«Ad incontrare il Creatore», gli venne risposto. E non ci fu più nessuna risata.
Lui abbassò la testa, chiuse gli occhi. Non aveva più senso opporre resistenza, ormai. I suoi piedi strisciavano sul terreno, le gambe incapaci di sorreggerlo per più di qualche attimo, mentre veniva trascinato via dalle guardie.
Non aveva mai pensato molto alla morte – strano questo, per uno come lui, che spendeva intere giornate a pensare, e basta. Non aveva mai pensato molto alla morte, perché era tra le cose che avevano il potere di terrorizzarlo.
Aveva paura di molte cose. Delle vespe, per esempio, così veloci a pungere e a far male. I ragni gli facevano schifo. Sapeva di aver temuto il buio, tante volte, da bambino. Ma per la morte era diverso. Silenziosa, inevitabile, era un nemico che sapeva attendere con il sorriso, perché consapevole di essere imbattibile.
Era sempre notte quando i suoi pensieri arrivavano a sfiorarla. E allora lui apriva gli occhi, li spalancava, sul nero attorno a lui, e vedeva come sarebbe stata. L’annientamento. La scomparsa. Un’intera identità, persa, svanita in un istante, e lui non se ne sarebbe neanche accorto, perché allora avrebbe già smesso di esistere.
Un profondo senso di claustrofobia si appropriava di lui, allora – la consapevolezza di non avere una via d’uscita –, e gli ci voleva sempre un po’ di tempo per riprendersi, darsi dello stupido, chiudere gli occhi, dormire.
Contava i respiri, per calmarsi.
Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque. Sei. Sette. Otto. Nove. Dieci. Undici. Dodici. Tredici. Quattordici. Quindici.
Li ripeteva a mezza voce, ad occhi chiusi, quei numeri, adesso, che la morte era vicina più che mai. Lo accompagnava lungo il corridoio, poteva sentirla, oltre il rumore dei passi pesanti delle due guardie, oltre il suono dei suoi piedi abbandonati inerti sul pavimento, oltre il suo respiro, oltre il battito stesso del suo cuore.
Quarantacinque. Quarantasei. Quarantasette.
Strano, perché la sua morte, per quanto terribile, non se l’era immaginata così. Nelle sue fantasticherie, aveva scelto per sé qualcosa di molto più ordinario. Si era rivisto vecchio, aveva trovato nel suo volto un reticolato di rughe – come se qualcuno avesse deciso di dipingergli sulle guance cadenti o intorno agli occhi incavati la storia stessa della sua vita passata –, i capelli ingrigiti dagli anni, gli occhi appena offuscati da quella patina liquida che si nota di solito sulle pupille delle persone molto anziane. Si era immaginato steso su un letto di ospedale, un ospedale bianco e sterilizzato, tubi e medicinali intorno a lui – una donna, forse, seduta su una sedia, a tenergli la mano. In questo modo avrebbe accettato di abbandonare la vita. Sarebbe stato dolce, alla fine. Giusto, in qualche modo. Una resa silenziosa del suo cuore, semplicemente troppo stanco per continuare a battere.
Centocinquantadue, centocinquantatré, centocinquantaquattro.
Quanto sembrava grottesca la sua situazione invece, se confrontata con quel sogno bianco e malinconico!
Un’esecuzione, un imperatore pazzo, un mondo assurdo. Non c’era traccia, lì, della delicatezza di un paio di lenzuola immacolate, del tocco lieve della mano di una donna che avrebbe lasciato vedova, di un ultimo sguardo lattiginoso al mondo per poi decretare, con serenità, che in fondo andava bene così.
Duecentoquattordici. Duecentoquindici.
Stava cominciando a calmarsi. Si era rassegnato, dopotutto. La presenza della morte a seguirlo, in attesa che arrivasse il suo momento, non gli metteva più angoscia, ma uno strano vuoto, una serenità propria soltanto delle cose davvero inevitabili.
Forse era impazzito sul serio, in quella cella.
Fu quello l’ultimo pensiero concreto che gli attraversò la mente, tutto il resto furono sensazioni, da quando decise di abbandonarsi ai suoi aguzzini, e non pensare più.
Il freddo dei corridoi e delle scale accarezzargli il corpo fino a fargli venire la pelle d’oca, ad esempio. Cercava le sue ossa, quel freddo, strisciando sulla sua pelle e infilandosi in ogni poro, aggredendo vorace i suoi abiti nel tentativo di sorpassare anche quell’ultima difesa, penetrando pian piano sempre più in profondità.
Oppure le goccioline di umidità stagnante che gli si posavano sul collo e sui capelli, che gli si condensavano sulla fronte e sulla punta del naso, sulle ciglia delle palpebre abbassate.
Il loro cammino s’interruppe bruscamente.
«Sei pronto?»
Si sentì dire, e solo allora si accorse di quanto i suoni gli giungessero distanti.
Prese un respiro profondo. Pronto – sì, pronto lo era davvero.
Mettiti in piedi. Alza la testa. Apri gli occhi. È così che si affrontano gli ultimi istanti della propria vita.
Non seppe dire chi gli avesse instillato questi pensieri in testa, era stato forse ciò che rimaneva del suo orgoglio, un ultimo fantasma creato dall’Imperatore perché avesse un imputato degno della sua attenzione, o la morte stessa, che s’era stancata di assistere in silenzio a quella vicenda che aveva il sapore della sconfitta e della rassegnazione.
Obbedì, non importava a chi, dopotutto.
Schiuse piano le palpebre, le sbatté, mentre sollevava il capo, guardava le macchie di umidità sulle pareti di roccia e il legno scuro della porta che si trovava davanti a lui. Si appoggiò alle guardie per poter usare le gambe, che lo ressero più per forza di volontà che per reale capacità.
«Questo sarà l’ultimo spettacolo della tua vita, illusionista.» 
Tuomas non fece nemmeno in tempo a pensare tra sé quanto quelle parole fossero vere, e amare, che le porte vennero aperte, e la luce del sole inondò il cunicolo.
 
Da qualche parte, intorno alla Capitale.
 
Correre.
Cuore che pulsava nel petto, muscoli che protestavano ad ogni metro guadagnato, fiato che non era mai abbastanza, bocca spalancata ad inghiottire quanto più ossigeno possibile, gambe che si facevano sempre più pesanti man mano che passavano i minuti.
Emppu non doveva smettere di correre.
Si lanciò fuori dal bosco a tutta velocità, franò a terra a pochi metri dalla fine dei rami e delle sterpaglie, gli ansiti che sembravano veri e propri singulti d’asma, lo stomaco che gli si contraeva e le gambe che tremavano per la fatica accumulata. Alzò lo sguardo, ma vide soltanto una strada davanti a sé. Non ce l’avrebbe fatta.
Strinse i denti. Doveva farcela.
Prese un respiro profondo, raccolse tutte le proprie forze, prima di rialzarsi. E tornare a correre.
Non doveva pensare al dolore e alla fatica, altrimenti sarebbe crollato, e se fosse caduto un’altra volta sapeva che non sarebbe più riuscito a rimettersi in piedi. Doveva focalizzare tutte le proprie attenzioni nel gesto meccanico che la corsa richiedeva, estraniandosi da tutto il resto, solo così sarebbe riuscito a sopportare lo sforzo che stava compiendo.
Flettere il ginocchio, poggiare la punta del piede al terreno, spingersi via con quello che era rimasto indietro, e ripetere poi la cosa all’infinito. Centinaia e centinaia di volte.
Certo, l’aria stava diventando un problema crescente,  il suo corpo ne chiedeva sempre di più, mentre per contro i suoi respiri a lungo andare si facevano corti e strozzati. Credette di soffocare, a un certo punto, ma continuò imperterrito a correre.
Non aveva mai provato a portare il suo corpo allo sfinimento; d’ora in avanti, invece, avrebbe potuto dire senza sbagliare di aver conosciuto la fatica, e la disperazione di chi vorrebbe ma non può, incatenato dentro un corpo limitato.
Si sarebbe ucciso. Sicuramente.
Se non avesse incontrato un sasso sulla sua strada.
Bastò quello, un sasso più grande degli altri, ad intralciare la sua folle corsa, a prendersi gioco delle sue gambe distrutte, a farlo cadere a terra come lui stesso non aveva avuto il coraggio di fare per tutto quel tempo.
Si bloccò ogni cosa.
I suoi ansiti erano così forti che a volte diventavano dei colpi di tosse, le sue gambe tremavano, incontrollate, sulle mani e sulle braccia il sangue delle ferite che si era riportato nella caduta,  il suono del suo cuore impazzito a pulsargli assordante nelle orecchie, lacrime calde e salate a solcargli le guance.
Si sarebbe ripreso. Era salvo.
Ma quali sarebbero state le conseguenze di quella sua salvezza? La morte del suo migliore amico?
No. Non l’avrebbe permesso.
Strinse i denti, puntò le mani al terreno, riempiendolo di sangue.
«Rialzati.» fu l’ordine strozzato che gli giunse da se stesso.
«Ehi, ehi, ehi. Fermati un po’, ragazzo.»
Alzò di scatto la testa, e vide sopra di sé la faccia rugosa di un vecchio contadino. Non si era neanche accorto di non essere solo.
«Non… posso» fu la sua unica risposta.
Il vecchio rimase a guardarlo con un’aria pensosa.
«Dì un po’, quanto ti danno?»
L’espressione del chitarrista si fece confusa. «Prego?»
«…Mai visto un messaggero darsi così tanto da fare per recapitare un dannatissimo biglietto. Devono proprio pagarti tanto.»
Emppu si tirò a sedere. «Il fatto è che io n…»
«Stai andando alla Capitale?»
Speranza, quando vide che dietro il vecchio c’era un carretto.
«Sì!»
«Oh, che caso, credo proprio che sia anche la mia destinazione.» squittì quello in risposta, con un largo sorriso sdentato, che il cantastorie ricambiò all’istante.
 
La Capitale
 
La luce era talmente forte da fargli lacrimare gli occhi, fu costretto a tenerli chiusi mentre si sentiva strattonare e portare su qualcosa che aveva tutta l’aria d’essere un carro. Gli sciolsero le corde ai polsi, solo per potergli assicurare le braccia al palo contro il quale era stato spinto. Poi cominciarono a muoversi.
All’inizio tutte le attenzioni e le energie di Tuomas erano dedicate nel controllare le proprie gambe, che continuavano ad essere poco stabili, e a fronteggiare gli scossoni ricevuti senza sentirsele cedere. Quando provava a socchiudere gli occhi il sole tornava ad aggredirlo con più forza, e allora si rassegnò a tenerli serrati.
Le cose cambiarono quando arrivarono le voci.
Cominciò con il tocco di un paio di artigli rapaci, piccoli e ricurvi, tra i suoi capelli, a ghermirgli la testa; non aveva bisogno di vedere, Tuomas, per capire che era lui.
«Osservate, gente di queste terre, osservate l’Ultimo tra i Maghi!»
Certo, non si era aspettato che fosse l’uccello stesso, sopra di lui, a deriderlo.
Fece in fretta, l’umiliazione, a nascere infuocata dai più bassi meandri delle sue viscere, e ruggire tutta la propria vergogna, gli rodeva lo stomaco e gli accendeva il viso di un calore rabbioso. Si costrinse allora ad aprire gli occhi, e nonostante gli bruciassero e lacrimassero volle tenerli ben fissi, volle vedere, il legno del carro sul quale era trasportato, le nuche dei due soldati che l’avevano prelevato dalla cella, il boia camminare poco più indietro, cappuccio nero in testa e sciabola assicurata ai pantaloni.
La gente si scostava al loro macabro passaggio, ma era lui che fissavano, lui, l’Ultimo dei Maghi, l’ultimo sconfitto, l’ultimo a morire.
«Ciao, Tuomas». Sentì sussurrare a pochi centimetri dal suo orecchio. «Hai paura?»
Respira, si disse. Continuò a guardare davanti a sé, ma non rispose.
«Certo che hai paura. La vedo. La sento. A me non puoi mentire, Tuomas.»
Ormai il becco dell’animale gli sfiorava l’orecchio.
Si ricordava, con quel sapore un po’ strano proprio delle immagini e dei frammenti di vita molto remoti, che una volta parole del genere l’avevano atterrito, annichilito, annientato. Ma adesso, adesso che era così vicino alla fine, ne poteva scorgere la chiara menzogna. Perché lui non aveva paura, ed era certo di questo.
«Nemmeno tu a me.» mormorò infatti, a mezza voce.
La risposta mandò su tutte le furie il rapace, che conficcò con forza gli artigli sulla sua testa e lanciò un verso acuto.
Sentiva il sangue colargli caldo tra i capelli, sulla fronte, sulla nuca, ma sorrideva. Di un sorriso lievissimo, appena accennato, ma sereno; il sorriso dei vinti. Fu con quel sorriso in volto che entrò nella piazza che avrebbe visto la sua morte.
Il rapace si levò in volo a quel punto, e il tastierista lo guardò una volta sola – era un avvoltoio. Poi venne slegato e fatto scendere dal carro per essere portato alla forca che lì trionfava su tutto, sotto il sole, come una solida e inevitabile sentenza.
La maggior parte delle persone che si erano riunite lì si scostavano al suo passaggio con sguardi gravi o spaventati, ma c’era anche chi ne godeva e lo insultava, gli sputava addosso, gli lanciava dei sassolini.
Tuomas giunse alla forca che aveva imparato la cattiveria degli uomini.
«Il mondo gioirà oggi! Sì, mentre i corvi fanno banchetto sul poeta putrescente.» urlò l’avvoltoio,  tra le risa, mentre volava in cerchio su di lui.
Tuomas chiuse gli occhi con dolore. Riconosceva quei versi.
 
The world will rejoice today
As the crows feast on the rotting poet
 
I passi del boia sul legno della forca erano rumorosi; impossibile confondersi.
Teneva gli occhi chiusi, il tastierista, ferito da quella canzone, scelta dal suo più grande – e ultimo – nemico come colonna sonora della sua disfatta, mentre le mani gli venivano legate dietro la schiena una volta per tutte, e gli veniva calato intorno al collo il cappio che avrebbe messo fine alla sua vita.
Era ruvido, al tatto.
Tuomas deglutì, e si accorse del proprio cuore vigliacco che batteva all’impazzata. Avrebbe fatto male?
«Qui muore Tuomas Holopainen.»
Fu questa l’ultima cosa che udì, prima che il boia afferrasse quell’orribile leva, la tirasse, e a lui mancasse il terreno sotto i piedi.
Andò a sua madre, la dolce Kirsti, il suo ultimo pensiero.
 
«NO!»
L’urlo che squarciò il mortale silenzio che aveva seguito l’orribile schiocco del suo collo.
 
L’uccello rise e si levò in volo, ma non era più un avvoltoio, si era mutato piuttosto in una fenice, dalle piume nere come la notte.
«Ora lui è a casa all’inferno, ben gli sta! Ucciso dalla campana, che adesso suona per il suo addio.»
 
Now he`s home in hell, serves him well
Slain by the bell, tolling for his farewell
 
Emppu si faceva largo tra la folla, che già cominciava a disperdersi nella gravità dello spettacolo al quale aveva assistito, ma non c’era più nulla da fare ormai.
«No! Tuomas!»
Continuava a offrire in pasto alla fenice le sue grida strazianti, il volto una maschera di dolore, perché non era stato sufficiente uccidersi su quella strada, era arrivato tardi, appena in tempo per vedere quella corda tendersi, e la luce abbandonare lo sguardo del tastierista ora aperto sul nulla.
Sparivano tutti, uno a uno, davanti a lui, disgustosi spettatori di quello spettacolo ripugnante, provavano ribrezzo per se stessi, per la loro indifferenza nel guardare morire un uomo, ucciso da un pazzo che presto si sarebbe preso anche le loro vite, pian piano, giorno dopo giorno. Tutti se ne andavano alla vista di Emppu, perché il suo dolore era vero, era profondo, era di quelli che lasciano segni indelebili del proprio passaggio.
Riuscì ad arrivare a qualche metro dalla forca, ma fu abbastanza. Abbastanza per convincersi della realizzazione di tutte le sue peggiori paure. Lui, da solo, disperso in quella terra da incubo. E gli occhi vacui di Tuomas che lo guardavano senza vederlo.
Non avrebbe mai dimenticato quegli occhi.
«TUOMAS!» il suo grido definitivo, mentre il dolore lo vinceva, gli annebbiava il cervello, rendeva tutto il mondo un luogo annacquato e ondeggiante – o forse era colpa delle lacrime che avevano preso a solcargli il volto?
Si lanciò verso la piattaforma di legno, ma fu bloccato da due guardie che lo afferrarono prontamente per le braccia e lo trascinarono via, mentre lui si dimenava con tutte le proprie forze, ruggendo tutto il suo dolore.
Non era più Emppu Vuorinen, non era più un chitarrista nato a Kitee nel ’78, era una bestia, un animale selvatico in preda alla più cieca sofferenza.
«Toglietelo di lì! Toglietelo! Mettetelo giù!» era quello che ripeteva, tra i singulti del pianto, mentre lottava contro i soldati che lo tenevano. Risparmiategli questa umiliazione, era il pensiero che aveva la priorità su tutti gli altri.
Furono costretti a tirargli un pugno in pieno stomaco per farlo tacere e smettere di ribellarsi. Spalancò gli occhi a quel punto, si piegò in due, nel tentativo di respirare.
La prima cosa che gli uscì dalla bocca fu un singhiozzo, e ben presto si ritrovò inginocchiato per terra, di fronte al cadavere impiccato di uno dei suoi più grandi amici, a piangere tutte le lacrime che gli erano rimaste.
Solo il suono di un paio di ali che sbattevano davanti a lui lo indusse ad alzare gli occhi, e a piantarli sull’uomo incappucciato che gli era apparso davanti. L’unica cosa davvero visibile di lui era il luccichio malvagio in fondo al buio gettato dalla stoffa, ed Emppu non dubitò neanche per un secondo della sua identità. Rimase inchiodato al suolo mentre quello si abbassava per avvicinarsi a lui, troppo disperato, terrorizzato, sfinito per reagire.
«Il mattino s’annunciava sul suo altare, vestigio dell’Oscura Rappresentazione della Passione.» sussurrò, a pochi centimetri dal suo orecchio, con fare quasi confidenziale. S’interruppe, si leccò le labbra, come se stesse dicendo qualcosa di davvero delizioso, di imperdibile, che s’era pregustato in ogni sua più piccola sfumatura. «Compiuta dai suoi amici che, senza vergogna, sputavano sulla sua tomba mentre passavano.»
 
The morning dawned, upon his altar
Remains of the dark passion play
Performed by his friends without shame
Spitting on his grave as they came
 
Emppu rimase paralizzato, gli occhi sbarrati davanti a sé, le lacrime congelate sulle guance.
«D… Dark Passion… Play…»
L’Imperatore sorrise nel rialzarsi. Gli rivolse un ultimo sguardo, trionfante, prima di sorpassarlo e andarsene, lasciandolo in piazza insieme al suo compagno morto.
Non appena il mantello del suo nemico vittorioso svolazzò a pochi centimetri da lui, e vide il cadavere di Tuomas già più livido di prima, il chitarrista non riuscì più a dominarsi e sentì il suo stomaco contrarsi dolorosamente.
Si piegò e vomitò tutto quello che gli rimaneva in corpo, mentre l’Imperatore tornava al castello ridendo e cantando.
 
Nell’esatto momento in cui Tuomas cessò di respirare, il Pendolo interruppe il suo costante ticchettio.
La zingara bevve un sorso di tè e andò a controllare il mazzo di carte.
Da qualche parte, negli appartamenti dell’Imperatore, su mille pagine che contenevano nient’altro che testo cancellato si allargò una macchia d’inchiostro, nero, che all’oblio le condannò per sempre.
 
Era sera, quando un Emppu tremante si accorse di esistere.
Alzò il viso dalla culla che le sue mani erano diventate, avvertì il terribile sapore del vomito in bocca, e si rese conto che lui esisteva ancora. Cominciò a prendere coscienza di ogni suo respiro, e per prima cosa si impose di calmarsi. Ricapitolò dove si trovasse, cosa fosse successo – era un modo per riprendere il controllo su se stesso.
Si asciugò le lacrime che ancora gli scorrevano incontrollate lungo le guance e si alzò, evitando di guardare verso il corpo di Tuomas. Sapeva che avrebbe dovuto toglierlo da lì, dargli una sepoltura degna di lui, ma in quel momento non si fidava per nulla del suo stomaco.
Sentì i muscoli e le articolazioni delle gambe protestare animatamente quando diede segni di voler muovere qualche passo, e con un sospiro zoppicò come riuscì verso la parete più vicina.
Anette aveva avuto ragione. Era una tortura.
Si appoggiò al muro con una mano, nel tentativo di contenere sia il dolore fisico che quello per la morte di Tuomas. Era liscio, al tatto, e gli ci volle qualche attimo per capire che era la pergamena di un manifesto quella che stava toccando.
Osservò stupito il sigillo imperiale, poi si allontanò di qualche passo per poter leggere ciò che l’Imperatore aveva voluto affiggere in tutta la Capitale.
 
 

“Oggi, nell’anno 2005 di Nostro Signore,

Today, in the year of our Lord 2005

Tuomas ha lasciato questo mondo.

Tuomas was called from the cares of the world

Ha smesso di piangere alla fine di ogni splendido giorno.

He stopped crying at the end of each beautiful day

La musica che ha scritto non conosce silenzio da troppo tempo.

The music he wrote had too long been without silence



Ciò che dice l'Autore

Non so davvero da dove cominciare con queste note. Appena penso al ventesimo capitolo appena concluso mi vengono in mente un sacco di cose, troppe cose, e alla fine non riesco a esprimerne nessuna.
Dell'enorme blocco che ho avuto che mi ha tenuta lontana per mesi da questa storia è meglio che non parli.... la mia ispirazione è la cosa più volubile del mondo e questa volta aveva deciso di abbandonarmi a tal punto che io ho pensato che non sarei mai più riuscita a recuperarla. Ho pensato veramente di lasciare questa storia nel dimenticatoio, anche se ne sarei stata davvero dispiaciuta, perchè le Cronache sono un viaggio vero e proprio, dei miei personaggi ma mio soprattutto, e lasciarlo incompiuto sarebbe stato un peccato...
Mi rendo conto che per i lettori è difficile sopportare i miei sbalzi d'ispirazione e non, più che porgere in ginocchio le mie scuse non posso fare T_T
Spero che il capitolo sia piaciuto, anche se forse mi è venuto un attimino cupo <.<'' Però credo che sia proprio il caso di dire che il peggio sia passato :D (Forse.... U.U)
Un bacio e un'enorme scusa a tutti voi!
Glory.

 


 

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