Ricominciare a vivere

di HisLovelyVoice
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


okay, premetto fin da subito che le pagine di diario della protagonista non saranno tantissime, e spesso non avranno molto senso. La maggior parte delle volte saranno solo dei pensieri accostati. se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate e se vale la pena continuare
A questo punto vi auguro una buona lettura c:


 

Caro diario,
è da tanto che non ti scrivo, precisamente un mese.
Ho finalmente detto addio alla mia vecchia vita. Ho finalmente cambiato aria. Lì mi sentivo soffocare, non riuscivo più a vivere. C’erano troppe cose che mi ricordavano i miei genitori e la mia sorellina. Non ce l’avrei fatta ad andare avanti. Cambierò scuola, ma non mi importa. Ho detto per sempre addio ai miei vecchi amici, ma non mi importa. Voglio solo ricominciare a vivere. Sarà dura, lo so, ma ce la farò. Ma è ovvio che non ce la farò. Perché la gente giudica, critica, esclude. Starò ancora male, ne sono consapevole. Per me, non è ancora arrivato il momento della felicità. E sicuramente non arriverà mai. Ma devo andare avanti. E anche se non potrò mai dimenticare e non potrò mai passare sopra a ciò che è successo, devo imparare a convivere con questa tristezza. Ci riuscirò. Ci devo riuscire.

(Carino l’infinito, vero? Beh, nulla dura per sempre, solo il dolore. Quello si che è infinito…)
Mi taglio, potrò mai ricominciare a vivere?
Sto male, qualcuno se ne accorgerà mai?
Sto morendo lentamente, qualcuno mi salverà?
Tutte domande a cui non so dare una risposta. So solo che non sopporterei una risposta negativa.
Mamma, papà, Elizabeth, mi mancate.
Mi mancate veramente tanto, avrei voluto essere con voi in macchina quella sera. Avrei preferito andarmene con voi. Ora sono sola. Sola con il mio dolore. Perché mi avete lasciata? Soffro troppo in questo mondo che non mi vuole. Soffro troppo, ma ora non c’è più nessuno pronto a consolarmi. Vorrei avervi qui al mio fianco.
Mamma, perché si soffre così tanto? Cosa ha fatto l’uomo per meritarsi tutto questo dolore?
Io non ce la faccio più. Spero solo di riuscire a vivere di nuovo nella vita che mi aspetta. Spero solo di non soffrire ancora di più, perché non reggerei il colpo.
Addio mamma.
Addio papà.
Addio Elizabeth.
Addio amici.
Addio professori.
Addio vecchia vita.
Benvenuta nuova me.

 
Chiudo la penna e la poggio sopra il diario. Prendo un respiro profondo. Ora che ho scritto alla rinfusa su quel pezzo di carta come mi sento, sto meglio. Di poco, ma meglio di niente.
La nonna aveva ragione: scrivere un diario aiuta ad andare avanti.
Guardo il mio polso destro. Lentamente accarezzo le cicatrici viola e i tagli ancora freschi rossi.
Sembrano chiamarmi.
Lo so che vuoi farlo.Sembrano volermi dire. E io, io lo voglio. Voglio assolutamente farlo. Devo farlo, ormai ne sono dipendente.
Così, senza nemmeno rendermene conto, mi alzo in piedi con in mano il mio diario.
Sono sola in casa, nessuno se ne accorgerà.
Poso il diario sotto il cuscino della mia camera.
Poi arrivo come un automa al bagno. Mi avvicino all’armadietto e apro il primo sportello. Tolgo le creme antirughe di mia nonna, il deodorante e l’acetone e tiro fuori una scatoletta. Sopra c’è un bigliettino che scrissi io un mese fa. Non aprire, roba personale, c’è scritto. Sorrido. A volte la nonna non si accorge proprio di nulla. La apro. Dentro c’è tutto ciò che mi serve. Tiro fuori una lametta e, dopo aver chiuso per sicurezza la porta a chiave, mi siedo sul bordo della vasca.
E ricomincio. Ricomincio a farmi del male. Abbasso quella lametta che per un po’ mi da sollievo e incido la mia pelle. Formo una “X” al centro del polso. La stessa “X” che vorrei incidere su me stessa per porre fine alla mia vita. E il sangue inizia ad uscire. È di un rosso intenso, mi piace; sono attratta da quel sangue. Vorrei che tutto il sangue che ho in corpo esca, lasciandomi morire. Ma la mia ora sembra non essere ancora arrivata.
Incido di nuovo la mia pelle, mentre il sangue inizia a mischiarsi alle mie lacrime amare. La mia carne è lacerata nel profondo, come ormai lo è il mio cuore.
Non mi rendo nemmeno conto del tempo che passa, fino a quando non sento la voce di mia nonna.
«Sono tornata!» La sua voce è seguita dal rumore della porta che si chiude. Devo smettere subito di tagliarmi, ma è così difficile… «Tesoro, ci sei?» Prendo un respiro profondo prima di rispondere.
«Si nonna, sono al bagno!» Urlo per farmi sentire. La mia voce esce abbastanza neutra, senza emozioni. Non è scossa dal pianto, e non posso fare a meno di complimentarmi con me stessa per questo.
«Okay.» La sua voce è lontana, arriva con molta difficoltà alle mie orecchie.
Devo smettere, o si insospettirà.
Mi alzo dalla vasca e mi dirigo al lavello. Apro il rubinetto d’acqua e sciacquo la lametta, mettendola subito dopo nella scatola. Poi infilo sotto il getto freddo il mio polso. Inizialmente ne risente, poiché è bollente per via del mio sangue. Ma dopo si abitua e mi sento bene. Mi piace la sensazione di caldo e freddo insieme.
Prendo dal mobiletto dietro il lavandino un asciugamano e asciugo il mio polso. Aspetto qualche istante e, vedendo che il sangue continua ad uscire, copro i tagli con della garza, presa dalla scatola contenente anche la lametta. La benda si tinge immediatamente di rosso, allora la copro velocemente con i miei adorati braccialetti. Non si vede nulla, così chiudo la scatola e la rimetto a posto, insieme a tutto ciò che avevo tirato fuori. Mi sciacquo anche il viso, così da mascherare in parte le lacrime, e pulisco la vasca. Poi esco dal bagno.
«Ciao nonna.» La saluto appena entro in cucina. Sta sistemando la spesa in frigo, così decido di aiutarla.
«Come stai?» Mi chiede preoccupata. Le sorrido falsamente, come ormai faccio da un mese.
«Tutto bene.» Rispondo tranquillamente, incurante del dolore che provo al petto ogni giorno e che in questo momento sta aumentando. Mia nonna mi sorride di rimando, felice della mia risposta.
«Bene. Sono andata a parlare con il preside della scuola dove dovrai andare. Mi ha detto che da lunedì sarai ammessa in classe.»
Oggi è giovedì. Quindi ho ancora tre giorni di libertà. Considerando che la scuola è iniziata da più di una settimana, inizierò nella terza settimana. Va bene, verrò sicuramente esclusa, ma va bene.
«Perfetto.» Rispondo, anche se preferirei rimanere a casa. La scuola mi ricorda troppo mia madre…
«Eleanor, lo so che vorresti non andarci, ma è meglio così, lo sai.» Abbasso lo sguardo e annuisco, consapevole che quella è la pura e semplice verità. «Perché non esci con qualche amico? È da un mese che sei chiusa qui dentro.»
Abbasso lo sguardo. Amici? Cosa sono gli amici? Non so più cosa sono. Ormai non ne ho più, con chi dovrei uscire?
«Nonna, non ho più amici.» Ammetto, mentre delle lacrime premono per uscire. Ho diciassette anni e nemmeno un amico. Tutti quelli che avevo, sono rimasti nella città dove abitavo prima. Adesso che mi sono trasferita ho tagliato i ponti con tutti coloro che conoscevo. Nessuno sa della mia situazione, ed è meglio così.
«Oh.» Mormora mia nonna fermandosi per qualche istante a guardarmi. Poi ricomincia a sistemare la spesa.
Però in effetti mi sono stufata di rimanere in casa. Tutto mi ricorda ancora i miei genitori e mia sorella qui…
«In effetti potrei uscire.» Penso ad alta voce. Gli occhi di mia nonna si illuminano. «Si, credo proprio che uscirò.» Concludo guardando mia nonna.
«Ne sono molto felice. Dai, lascia stare qui, continuo io.» Le sorrido. È veramente la donna più buona del mondo.
«Grazie.» Le do un bacio sulla guancia e salgo in quella che da ormai un mese è la mia camera. Non è male, alla fine. È un po’ spoglia, come lo sono io. C’è solo lo stretto indispensabile: un letto, un armadio, una scrivania e una mensola per i miei numerosissimi libri.
Mi siedo sul letto e tiro fuori da sotto il cuscino il mio diario. Lo guardo per qualche istante, indecisa se portarlo o no. Poi alla fine lo metto dentro una borsa a tracolla, insieme a cellulare, Ipod e una penna.
Sono pronta. Do una rapida occhiata al mio polso. No, non si vede nulla. Sorrido, soddisfatta di ciò che ho fatto, e mi dirigo alla porta.
Esco di casa e subito il sole mi colpisce in pieno viso, giocando con i miei capelli ricci, rendendoli ancora più dorati. I miei occhi color smeraldo si devono abituare alla luce intensa, così metto una mano sulla fronte per farmi ombra. E subito il panorama davanti a me si rende più nitido. Riesco a vedere il parco difronte casa mia, pieno di bambini che giocano allegramente. Riesco a vedere la strada asfaltata che dalla mia destra arriva vicino casa mia e le gira dietro. E poi noto in lontananza, con mia grande felicità, il boschetto dove, fino a un mese prima, giocavo a nascondino con Elizabeth. È proprio lì che voglio andare. Così mi sistemo meglio la tracolla e mi avvio verso quel luogo per me tanto malinconico quanto cupo.
Quel luogo mi è sempre piaciuto.
Forza Eleanor, sbrigati! Non voglio fare tardi anche oggi!
La voce di mia sorella rimbomba nelle mie orecchie sempre più forte man mano che mi avvicino al bosco. Sono sempre stata lenta a prepararmi, e lei me lo rinfacciava sempre ridendo. Era bello vederla sorridere.
Entro nel bosco, e il cinguettio degli uccelli riempie l’aria silenziosa.
Tanto non mi prendi, sei troppo lenta!
Mi mordo il labbro inferiore, per impedire a delle lacrime amare di rigarmi il volto. Ce la posso fare, mi ripeto. Ce la devo fare.
Senza rendermene conto inizio a correre, come per raggiungere mia sorella.
Sei una lumaca!
Sento la sua voce così vicina, sto forse impazzendo?
Corro ancora più velocemente, voglio raggiungerla. Voglio abbracciarla e impedirle di andarsene lontano da me per sempre.
Non vorrei piangere, ma in quel momento è l’unica cosa che riesco a fare. La vista mi si appanna e cado un paio di volte. Ma non mi importa, devo raggiungere Elizabeth.
Corro mentre dei rami mi graffiano il volto e mi rovinano i jeans e la maglietta. Ma non mi importa nemmeno di quello. Corro fino ad arrivare in uno spiazzo molto grande.
Sono qui, non mi vedi?
«No, non ti vedo più!» Urlo disperata, accasciandomi a terra. Il mio petto è scosso da enormi singhiozzi e non riesco a smettere di piangere.
Non sono forte.
Non lo sono mai stata.
Avrei voluto esserlo, ma non ci riesco.
La tristezza riesce sempre a prendere il sopravvento.
Piango per molto, non so nemmeno io per quanto.
Poi mi allungo a terra e tiro fuori dalla tracolla il mio Ipod, il diario e la penna. Infilo le cuffiette e inizio a scrivere, devo sfogarmi.

 
Caro diario,
lo so, è già la seconda volta che ti scrivo, ma ne ho bisogno.
Sanguino.
Si, sto sanguinando.
Il mio cuore sta sanguinando
Sanguino e nessuno se ne accorge.
Nessuno mi salverà. Sono sola con il mio dolore.
Ora sento anche la voce di Elizabeth. Sto impazzendo, lo so.
Forse la pazzia mi porterà alla morte. È allettante come possibilità, molto allettante. Potrò raggiungere mamma, papà, Elizabeth. Sarebbe veramente fantastico.
Ma ho paura, sono troppo codarda.
Oppure sono solo una persona che spera ancora in un po’ di felicità.
Si, ci spero veramente tanto.
Chissà se mai sarò felice. Ora come ora la mia risposta sarebbe senza dubbio un no.
Ma forse con il passare del tempo diventerà un si.
E sicuramente non diventerà mai un si.

 
Chiudo la penna e la rimetto insieme al diario dentro la borsa.
Prendo un respiro profondo. Devo assolutamente calmarmi, altrimenti impazzirò veramente.
Alzati, sfaticata!
Mi tappo le orecchie con forza per non sentire ancora la sua voce. Non riesco ad ascoltarla, mi fa soffrire troppo.
«Non ce la faccio…» Sussurro.
Ce la puoi fare, non è difficile…
La sua voce è troppo forte, la sento lo stesso.
«Si che è difficile…» Mormoro, sedendomi e portando le gambe al petto.
...Basta mettere un piede davanti all’altro…
«Fosse facile...» Delle lacrime ricominciano a rigarmi il volto.
...E poi devi andare avanti. Io lo sto facendo, vedi?
Scuoto la testa per far andare via quella voce.
«Perché mi stai facendo soffrire così tanto?» Chiedo al vento, sperando che possa portare quelle parole ad Elizabeth.
Ti voglio bene, lo sai.
«Si, lo so…».
Sei la mia sorellona. Non smetterò mai di volerti bene. Anche quando litighiamo ti voglio bene. Perché so che se avrò qualche problema tu sarai sempre vicino a me, non te ne andrai mai.
Mi lascio andare all’indietro, mentre quelle parole continuano a rimbombarmi nella testa.
«Sono ancora qui, infatti. Perché tu te ne sei andata?» Sussurro, mentre le lacrime continuano a scendere a piede libero.
Chiudo gli occhi.
Sono stanca.
Stanca di ciò che mi circonda.
Stanca di questa maledetta solitudine.
Stanca di piangere.
Stanca dell’assenza di Elizabeth e dei miei genitori al mio fianco.
E pensare che non torneranno mai mi fa stare ancora più male.
Il bosco è molto silenzioso. Anche gli uccelli hanno smesso di cantare, l’unico rumore presente è il fruscio del vento, interrotto dai miei singhiozzi irregolari.
Rimango allungata per un po’ per terra, sperando di vedere Elizabeth uscire da dietro un albero urlando buco nero! perché sono rimasta troppo tempo ferma in tana.
Ma questo non accade.
Così mi alzo in piedi e, dopo essermi pulita i pantaloni e la maglietta, mi dirigo fuori dal bosco.
Non lasciarmi.
Il vento mi sussurra quelle parole, facendomi ripensare a quando facevo finta di tornare a casa lasciando mia sorella seduta sopra il tronco tagliato di un albero quando si faceva male alla caviglia.
Se avessi saputo che se ne sarebbe andata via da me a soli sette anni, avrei fatto di tutto pur di non lasciarla mai sola, nemmeno per finta.
«Non ti lascerò mai, sei sempre nel mio cuore.» Mormoro, per poi iniziare a correre verso casa. Non ce la faccio, voglio solo abbracciarla un’ultima volta e dirle addio.
Arrivo velocemente a casa e, appena entrata, mia nonna mi viene in contro sorridendo.
«Eleanor, come è andata la passeggiata?» Mi chiede dolcemente.
«Tutto bene. Ora sono stanca, credo andrò a dormire.»
«Va bene. Ti sveglio quando è pronta la cena?» Mi domanda. Scuoto la testa.

«No, non ho fame.» Dico, per poi andare in camera mia senza darle la possibilità di ribattere.
Poso la borsa sulla sedia della scrivania e mi tolgo le scarpe. Poi mi allungo sotto le coperte ancora vestita.
Voglio dormire.
Voglio solo dormire e svegliarmi da questo incubo che sta durando troppo per i miei gusti.

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Capitolo 2
*** 2 ***


Caro diario,
un’altra schifosa giornata è iniziata.
Ma perché continuo a scriverti?
Tanto farlo non potrà alleviare il dolore immenso che provo.
Non ricucirà la voragine nel mio petto.
Non guarirà le cicatrici sui miei polsi.
Perché allora continuo a farlo? Non lo so.
Sono in lacrime. Non c’è nessuno qui pronto a consolarmi. Non c’è nessuno che tiene veramente a me.
Sto piangendo silenziosamente e fa male, perché è come se tentassi di comprimere tutto questo dolore dentro il mio fragile cuore.
Sono già passati due giorni da quando sono andata nel bosco e non ho il coraggio di andarci di nuovo. Sentire la voce di Elizabeth mi ha fatto solo male. Ha riaperto le poche ferite che si erano rimarginate, facendo entrare nuovamente quel freddo pungente dentro di me. Ha colpito le ossa, e poi è entrato sempre più dentro, fino a raggiungere il cuore. Ed è lì che ora stanzia, insieme a tutta questa maledetta sofferenza che non mi lascia in pace. Vorrei solo che qualcuno venisse da me dicendomi: tranquilla, andrà tutto bene.
Perché non c’è nessuno? Chissà, magri nella nuova scuola incontrerò qualcuno.
Dicono che sperare non costi nulla, ma non è vero. Sperare fa soffrire, perché la speranza risulterà sicuramente vana, e la delusione prenderà il sopravvento, facendo soffrire.
Sono troppo pessimista? Non credo, sono solo realista.
Non vivo più di sogni, tutti quelli che avevo sono caduti a terra, rompendosi in mille pezzi. Mi hanno ferito, ma ora non potranno più farlo: non ne ho più.
Credo che sto morendo. Si, perché ormai non sento quasi più nulla, solo il dolore.
Un battito.
Ho bisogno di un battito.
Ho bisogno di un battito del mio cuore per provare a me stessa che sono viva.
Ma questo battito non lo sento. Dentro sono morta davvero. Sono solo un involucro di pelle senza anima che si trascina avanti tutti i giorni da ormai un mese. Uno schifoso mese che avrei preferito passare con la mia famiglia.
Credo che ormai non ci sia nulla da fare. Non penso che ritroverò mai la felicità.

 

Chiudo la penna e prendo un respiro profondo.
Oggi non potrò farmi nulla, mia nonna rimarrà tutto il giorno in casa e potrebbe scoprirmi. È un vero peccato, ne ho bisogno. Magari poteri uscire e chiudermi da qualche parte a tagliarmi...
Si, è un idea. Ma dove?
Mi alzo dal letto e vado in cucina da mia nonna. Sta preparando il pranzo.
«Eleanor, come stai?» Mi chiede dolcemente. Le sorrido.
«Tutto bene.» Mento. «Sai, avevo pensato di andare in giro. Anche se vivo qua da un mese non ho mai visitato tutto questo paesino, volevo cogliere al volo questa bella giornata.» Mia nonna mi sorride, felice di ciò che le ho appena detto.
«Mi farebbe veramente molto piacere se uscissi, ma io non posso accompagnarti.» Disse rabbuiandosi un po’.
«Tranquilla, andrò da sola. In teoria non dovrei perdermi.» Dico fingendo di ridere.
«Mmmm… non so. Ora che ci penso, qui vicino a noi abita una coppia di coniugi. Hanno un figlio, dovrebbe avere la tua età. Perché non vai con lui?» Propose. Cosa? Spero stia scherzando.
«Nonna, posso andare da sola.» Cerco di dirle, ma mi interrompe.
«Vado subito a chiedergli se ti può accompagnare.» Provo a fermarla, ma non ci riesco, è già uscita di casa. Rimango in cucina, tanto seguirla non servirà a nulla. Posso solo sperare che quel ragazzo stia ancora a scuola.
Ma ora che ci penso è domenica, non può stare a scuola.
Dannazione!
Guardo il ragù che la nonna stava girando fino a pochi secondi fa. È rosso, molto rosso. Mi ritrovo a pensare che è come il sangue, e questo mi fa solo venire ancora più voglia di tagliarmi. Mi accarezzo il polso che inizia a prudere come per farlo smettere. Non posso ancora farlo, ma tra poco si. Ma se quel ragazzo viene? Non potrò più farmi male. Spero vivamente che rifiuti.
Corro in camera mia e prendo la mia solita borsa. Infilo dentro diario, penna, cellulare e mp3.
Poi vado al bagno e prendo la mia amata scatola, infilandola sempre nella borsa.
Quando scendo giù, sento mia nonna parlare con qualcuno. Mi affaccio in salone tenendomi un po’ nascosta e la vedo seduta sul divano vicino ad un ragazzo. Mi colpisce particolarmente. Non so, ha qualcosa di diverso rispetto a tutti gli altri ragazzi. Sembra alto, ha le spalle larghe e i capelli neri, come la pece.
Mi appoggio alla porta cercando di guardarlo meglio, ma questa fa rumore. Così entrambi alzano lo sguardo su di me. È a questo punto mi perdo nei suoi meravigliosi occhi color zaffiro che mi lasciano senza fiato.
«Eleanor, non ti avevo sentito arrivare.» La voce di mia nonna mi riporta alla realtà. Le sorrido falsamente, come ormai ho imparato a fare, e mi sistemo meglio la tracolla.
«Sono appena scesa.» Rispondo tranquillamente.
Sento lo sguardo di quel ragazzo addosso. Cerco di far finta di nulla e continuo a guardare mia nonna.
«Beh, lui è David, il figlio dei vicini. È disposto ad accompagnarti a fare un giro per il paese.»
«Oh, ma non ce n’è bisogno! Vado da sola, non serve che lui venga con me.» Mi affretto a dire.
«Ma Eleanor, è venuto solo per te.» Dice mia nonna, pensando di riuscire a farmi cambiare idea.
Mi volto verso David. È un bel ragazzo, non ci sono dubbi, ma non mi sembra anche un bravo ragazzo. Mi sembra più uno che è stato costretto dai genitori a venire qui, e che avrebbe preferito rimanere a drogarsi davanti al computer o alla playstation.
Gli sorrido, cercando di essere cordiale, ma lui si limita ad alzare un sopracciglio scettico. Non c’è niente da fare, non ha nemmeno parlato ma già lo odio.
«Nonna, tranquilla, vado da sola.» Lui se ne può anche tornare da dove è venuto. Evito di aggiungere l’ultima parte, altrimenti una punizione non me la toglie nessuno.
Dopo aver detto ciò, mi giro e inizio ad andare verso l’uscita. Sento dei passi seguirmi. Poco dopo qualcuno mi prende per il polso, e gliene sono grato, poiché mi sta causando quel dolore che tanto stavo agognando.
Mi giro e mi trovo quasi attaccata al petto di David. Si, è veramente alto.
«Senti un po’», Mi sussurra con tono minaccioso, stringendo la presa, mentre mi allontano un po’, «I miei mi hanno costretto a venire qua, e se non ti accompagno mi hanno detto che mi toglieranno il computer. Non ho voglia di badare ad una mocciosetta come te, ma è l’unica soluzione che ho. Quindi vedi di venire, altrimenti non avrai un’esistenza facile qui.» Disse a denti stretti. Come se la mia esistenza fosse facile…
Annuisco, anche se non vorrei andare.
«Vado a dire a mia nonna che andiamo.» Borbotto strattonando il polso per farmi lasciare andare.
Avverto mia nonna e poi ritorno all’ingresso. Passo avanti a David e apro la porta uscendo prima di lui.
Quando siamo fuori prendo una boccata d’aria fresca.
Libera.Penso. Ma non lo sono così tanto.
Mi giro a guardare David e noto, con mio grande disgusto, che si sta accendendo una sigaretta.
«Che vuoi?» Mi chiede sgarbato. Mi limito a scrollare le spalle e ad allontanarmi.
«Vai dove vuoi. Non lo dirò né ai tuoi genitori, né a mia nonna. Ma per favore, lasciami sola.» Chiedo chiudendo gli occhi.
«Cosa?» Chiede meravigliato. Mi giro verso di lui.
«Hai capito bene, puoi andartene dove ti pare.» Ripeto, cercando di rimanere calma.
«Okay, ma adesso andiamo dalla stessa parte, almeno i miei non lo capiranno.» Aggrotto la fronte, non capisco. «Ci stanno spiando, tonta!» Esclama, alzando gli occhi al cielo.
«Oh.» Mormoro meravigliata. «Va bene.»
Ci incamminiamo senza neanche rendercene conto verso il bosco. Appena entriamo ho un tuffo al cuore. E se dovessi sentire di nuovo la voce di Elizabeth? Se mi sentissi nuovamente male? Mi fermo di colpo.
«Non ci riesco.» Sussurro.
Si che ci riesci, non è difficile.
Eccola, di nuovo. La sua voce ritorna nella mia mente.
David mi guarda.
«Vuoi camminare?!» Urla, facendomi sentire ancora più male. Mi porto una mano al cuore, tentando di calmare il battito. Non ce la faccio, non posso andare avanti. La sua voce continuerà ad assillarmi e io non resisterò a lungo.
«Ti prego.», Mormoro così piano che quasi non mi sento, «Vai avanti, lasciami sola. Non riesco ad entrare.»
«Perché, hai paura?» Mi prende in giro lui.
Vieni a prendermi!
Chiudo gli occhi tentando di non pensare a nulla. Come faccio?
Forza, sono qui!
«No, non sei più qui…» Mormoro accasciandomi a terra e Iniziando a piangere silenziosamente. Non mi importa se lui mi sta guardando, che se ne vada anche al diavolo.
«Eleanor, stai bene?» Mi chiede con un tono che sembra quasi preoccupato.
«Si, sto bene.» Dico, cercando di convincere più me stessa che lui. Sento i suoi passi che si avvicinano.
«Tu non stai bene.» Mi dice posando una mano sulla mia spalla, ma mi scanso velocemente.
«Lasciami! Lo hai detto tu che non vuoi badare ad una mocciosetta come me, quindi vattene e lasciami sola!» Urlo tra le lacrime.
Lui si allontana, forse spaventato dalla mia reazione.
«Tu hai qualche problema…» Borbotta prima di allontanarsi.
Ma non mi importa, voglio solo rimanere sola.
Tu non sei sola, io sono con te.
Prendo un respiro profondo e cerco di calmarmi.
Ma è difficile…
Così prendo nervosamente la borsa e tiro furi la scatola. La apro e tiro fuori la lametta. Non ce la faccio più ad aspettare. Non mi importa se mi prenderò un’infezione per tutta la terra che c’è qui, voglio solo farmi male. Voglio far uscire dal mio corpo tutto questo dolore.
Tolgo frettolosamente i bracciali e la garza e faccio il primo taglio. Il sangue inizia ad uscire immediatamente, cadendo a terra e mischiandosi con la terra.
Continuo a piangere. Gli occhi mi bruciano, deve esserci entrata anche della polvere. Ma che importa?
Poco dopo sento qualcuno che prende le mie braccia e le allontana. Forse è David, ma non lo so e non mi importa più di tanto.
«Che fai, sei matta?» Mi rimprovera spaventata una voce maschile. No, non è David. La voce di questo ragazzo è dolce, non fredda.
Apro gli occhi, che non ricordo di aver chiuso, e mi ritrovo davanti un ragazzo moro con gli occhi grigi. Nei suoi occhi vedo molta paura.
«Si, sto impazzendo…» Mormoro. Il ragazzo butta a terra la lametta e mi abbraccia. «Sto sanguinando, ti sporco la maglia.» Dico, ma lui scuote la testa.
«Non mi importa.» Dice stringendomi più forte. Ha un profumo dolce, mi piace.
Rimaniamo per un po’ abbracciati, non saprei dire quanto. Quando si allontana prende velocemente la garza dalla mia scatola e dal suo zainetto una bottiglia d’acqua. Pulisce i tagli e li fascia delicatamente, stando attento a non premere troppo forte. Sembra un esperto.
«Perché lo stavi facendo?» Mi chiede preoccupato.
«Voglio solo mia sorella e i miei genitori.» Ammetto ricominciando a piangere. Lui si riavvicina e mi riabbraccia.
Mi piace quel contatto, mi piace stare tra le sue grandi braccia.
«Cosa gli è successo?» Chiede.
«Sono morti.» Sussurro.
Lui non dice più niente, si limita a stringermi più forte. Sono felice che non mi abbia detto un banalissimo mi dispiace. Nessuno capisce che quella è l’ultima cosa che una persona vuole sentirsi dire.
Quando ci allontaniamo, noto che indossa molti braccialetti. Troppi per un maschio.
«Anche tu...? » Provo a chiedere, ma mi interrompe.
«Un tempo, ora non più, ma le cicatrici sono ancora troppo visibili.» Mi spiega.
«Oh.»
«Come ti chiami?» Mi chiede inclinando la testa da un lato.
«A cosa ti serve sapere il mio nome se domani lo avrai già dimenticato, insieme al nostro incontro?» Domando seria.
«Non ti dimenticherò facilmente. Sei impressa nella mia mente da ieri.» Ammette. Sgrano gli occhi.
«Mi spiavi?»
«Si, mi dispiace. Ma non riuscivo a toglierti gli occhi di dosso.»
«Mi hai sentito parlare da sola?»
«Non stavi parlando da sola. Non so con chi, ma non da sola.»
«È vero, stavo parlando con mia sorella, che però come ti ho già detto è morta.»
«Nessuno muore veramente, se è vivo nel cuore di chi resta.»
Rimango colpita da quelle parole. Sono vere, perché Elizabeth e i miei genitori saranno sempre nel mio cuore.
«Quindi come ti chiami?» Mi domanda poco dopo.
«Non te lo voglio dire. E non voglio nemmeno sapere il tuo nome.»
«Va bene. Come posso chiamarti?»
«Perché dovresti farlo?»
«Perché tengo a te.»
«Non mentire.»
«E tu non fare conclusioni affrettate.»
«Perché?»
«Non ti sto mentendo, sono serio.»
«Davvero?»
«Certo. Allora, come posso chiamarti?»
Ci penso un po’ prima di rispondere alla sua domanda.
«Julie.»
«Julie? Perché?» Chiede curioso.
«Mai letto Quando ho aperto gli occhi
«Nicholas Sparks?»
«Esatto.»
«Si, almeno cinque volte.»
«Per questo voglio essere chiamata Julie. In questo momento mi sento come lei all'inizio del libro. Sola, triste, vuota, in attesa di una svolta capace di cambiarmi la vita.»
«Va bene. Allora tu chiamami Taylor.»
«Un cuore in silenzio? »
«Si.»
«E perché?»
«Perché ti salverò da questa tempesta di dolore che ti circonda.»
«Ma non mi conosci nemmeno.»
«Allora dammi la possibilità di farlo.»





HEI! :D
Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate xxx

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Capitolo 3
*** 3 ***


 
Caro diario,
oggi si ricomincia.
Si ricomincia con gli insulti.
Si ricomincia con le umiliazioni.
Si ricomincia con i sorrisi finti.
Si ricomincia con le bugie.
Si ricomincia con i “sto bene” quando in realtà sto sanguinando dentro e fuori.
Si ricomincia con i numerosi braccialetti per coprire i tagli.
Si ricomincia con i pianti improvvisi nascosti in classe.
Si ricomincia con la musica nelle orecchie ogni istante libero.
Si ricomincia con i compagni che ti etichettano in base all’aspetto.
Si ricomincia tutto.

 
Mi alzo dalla sedia, infilo dentro lo zaino il diario e sono pronta fisicamente per andare a scuola. Esatto, fisicamente. Psicologicamente ancora no, e non credo che lo sarò mai. La scuola è un luogo dove i ragazzi non si fanno scrupoli ad insultare e a umiliare ragazzi come me. Ragazzi problematici, asociali, “sfigati”, stranieri o semplici non si troveranno mai bene a scuola.
Mi guardo allo specchio e devo ammettere che forse avrei potuto fare di meglio. Indosso una maglietta nera a mezze maniche dei Metallica e un paio di pantaloni di pelle. Ma sinceramente non mi importa più di tanto. L’importante è andare a scuola e sopravvivere.
Prendo un respiro profondo e indosso un sorriso finto. Perfetto, sono pronta. Scendo le scale e arrivo in cucina dove mia nonna sta facendo le parole crociate.
«Buongiorno nonna.» La saluto fingendomi allegra. Lei alza lo sguardo e mi sorride.
«Buongiorno Eleanor. Pronta per il primo giorno di scuola?» Mi chiede dolcemente. Annuisco, anche se in realtà non lo penso. «Sai, anche David va a scuola dove vai te, potreste andare insieme.» Sbarro gli occhi. Non solo dovrò vederlo a casa, ma anche a scuola! Non ce la posso fare, questo è poco ma sicuro. Cerco di inventare una scusa, non voglio andare a scuola con quell’acido.
«Emmm… ieri mi ha detto che di solito esce presto la mattina per… per andare a correre…? Si, per andare a correre!» Dico annuendo, per dare più enfasi alla mia bugia. Mia nonna alza un sopracciglio.
«Tesoro, non sai mentire.»
Certo, io non so mentire.
Allora come mai non hai mai scoperto che mi taglio?
Come mai sei sicura che stia bene?
Come mai pensi che ieri sia andata in giro con David?
Come mai pensi che oggi sono pronta per andare a scuola?
Questo vorrei dirle, ma non posso.
«Hai ragione nonna. Non è vero che va a correre. Però lui ieri mi ha detto va con i suoi amici, e mi sentirei furi posto.» Dico cercando di farle cambiare idea.
«E perché non me lo hai detto subito?» Chiede lei dolcemente.
Perché anche questa è una bugia.
«Non lo so, scusa.»
«Ti accompagno io?» Si offre, ma scuoto la testa.
«No, tranquilla. So dove è la scuola, ci vado a piedi.» Dico sistemando meglio la tracolla.
«Va bene. Buon primo giorno di scuola.»
«Grazie. Ci vediamo a pranzo.» E così dicendo esco di casa e finalmente mi sento libera. Avrei voglia di urlare, di liberarmi del peso che ho nel cuore. Ma penso mi prenderebbero per una matta, e quindi è meglio di no. Prendo un respiro profondo e mi incammino verso scuola.
Arrivo velocemente vicino al cancello. Vorrei entrare, ma è ancora chiuso, così mi appoggio a un muretto chiudendo gli occhi.
«Ma allora mi perseguiti!» Esclama una voce. Sobbalzo, il cuore mi sta battendo all’impazzata. Apro gli occhi e vedo David.
«Che vuoi?» Chiedo acida.
«Cosa voglio io? Cosa vuoi tu! Perché ti sei trasferita qua da tua nonna? Perché vieni alla mia scuola? Perché non mi lasci in pace?» Domanda esasperato avvicinandosi.
«Sentimi un po’ idiota! Uno, non sai nulla di me. Due, la scuola non è tua. Tre, io vado dove mi pare, non mi metterò ad ascoltare un deficiente come te!» Esclamo puntandogli il dito conto.
Lui scoppia a ridere insieme a tutti i suoi amici.
«Sei solo una piccola mocciosa.» Dice prima di allontanarsi seguito dai suoi cagnolini.
Bene, non sono ancora entrata a scuola e già la giornata si sta rilevando uno schifo.
Prendo un respiro profondo e mi rendo conto che posso entrare. Così metto un piede davanti all’altro ed arrivo all’ingresso. I ragazzi spingono per entrare, come se dentro ci fosse un tesoro. Io tranquillamente mi dirigo alla bacheca e cerco la mia classe. Scopro che il quarto A è al piano terra.
Mi incammino verso la classe e, con mio grande orrore, scopro di essere capitata con David.
«Non è possibile!» Esclamo, e tutti quanti si girano verso di me. Anche David mi guarda e sbarra gli occhi.
«Smettila di perseguitarmi!» Dice lui alterato. Sbatto gli occhi sconcertata.
«Lo vuoi capire che non ti sto perseguitando?» Quasi urlo. «Io non ti sopporto, pensi che venga volentieri qui in classe tua? E poi non sei il centro del mondo, non ruota tutto intorno a te.» Dico posando lo zaino sopra un banco singolo vuoto. Poi mi siedo sulla sedia, pronta per iniziare il mio primo giorno di scuola. O meglio, il mio primo giorno di prigione.
Le lezioni passano più lente che mai, e scopro di dover recuperare molte cose che nella mia scuola non avevo fatto, soprattutto riguardo inglese.
«Potresti chiedere aiuto a qualche compagno.» Propone il professore. «Qui ci sono molti ragazzi particolarmente intelligenti.»
«Ma non conosco nessuno, non mi sembra il caso di disturbarli.» Cerco di dire, ma qualcuno mi interrompe.
«Non è vero che non conosce nessuno, conosce David.»
Okay, io ammazzo chiunque abbia parlato. Mi giro e vedo un ragazzo dai capelli neri con dei lineamenti orientali sorridere.
Vi prego, tenetemi, oppure lo strozzo.
«Bene, allora potrete lavorare insieme.» Dice il professore soddisfatto di avermi condannato a morte.
«Professore, ma io non lo conosco bene, ci siamo conosciuti ieri.» Provo a dire.
«Professò, ha ragione lei.» Concorda David, e per la prima volta siamo d’accordo su qualcosa.
«Non voglio obiezioni, lavorerete insieme.» Dice, e il mondo mi crolla addosso. Non ce la posso fare.
Vi prego, venitemi a salvare da questo incubo, non voglio lavorare con quell’essere.
Sospiro. Ormai il professore ha deciso e non possiamo replicare.
Durante la ricreazione vado vicino al ragazzo orientale.
«Non so cosa ti sia venuto in mente, ma giuro che questa me la paghi.» Sibilo a denti stretti. Lui sorride beffardo, e avrei solo voglia di prenderlo a pugni.
Scuoto la testa e mi avvicino a David.
«Io non voglio lavorare con te.» Esordisco. Lui mi guarda con un sopracciglio alzato.
«Perché, secondo te io si?» Chiede acido. Lo fulmino con uno sguardo.
«Dimmi ciò che avete fatto l’anno scorso e faccio da sola.» Dico semplicemente.
«Sai, lo farei anche, ma quello stronzo ci ha sentiti e riferirebbe tutto al professore.» Dice indicando il ragazzo orientale che continua a ridere.
«Io quello lo strozzo.» Borbotto stringendo i pugni. «Quindi che si fa?» Chiedo sperando che trovi una soluzione.
«Semplice. O vengo io da te, o tu da me.»
Sbarro gli occhi. Ho sentito bene? Io non lavorerò mai con lui.
«Oh, no. Ti ho già detto che non voglio lavorare con te!» Esclamo. David sbuffa.
«Senti, tu non conosci né Jin, né il professore.» Dice abbassando la voce «Jin è un secchione del cazzo. Un leccaculo assurdo che riferisce sempre tutto ai professori. Il professore di inglese sembra simpatico, ma non lo è. Quello alla prima opportunità ti mette un impreparato. E non mi meraviglierei se ci mettesse un due solo perché non abbiamo lavorato insieme. Quindi facciamo come ho detto io.» Conclude.
Sospiro. Beh, da come ha descritto Jin e il professore, penso non mi convenga provare a ribattere.
«Vieni a casa mia oggi pomeriggio alle quattro?» Propongo un po’ schifata. Lui annuisce.
«Va bene.» E dopo aver detto questo si allontana con i suoi amici.
Torno al mio posto, tiro fuori dallo zaino il mio mp3 e inizio ad ascoltare un po’ di musica.
Nessuno mi disturba e gliene sono grata. Parlare è l’ultima cosa che voglio.
Finita la ricreazione sono costretta a togliere le cuffiette.
Entra una professoressa molto alta mora con un sorriso molto affettuoso. Mi guarda e capisce che sono nuova.
«Oh, tu devi essere Eleanor.» Esordisce senza smettere di sorridere. Annuisco. «Bene, io sono la professoressa Bennett, insegno matematica e fisica.»
Un colpo al cuore.
Probabilmente ha smesso di battere per un istante.
Matematica e fisica, le materie che insegnava mia madre a scuola.
Le mani iniziano a tremare e gli occhi diventano lucidi, iniziando a pizzicare. Devo resistere, mi ripeto, ma non ci riesco. Sono troppo debole.
«P-posso andare al bagno?» Domando con la voce spezzata. La professoressa nota le mie mani e i miei occhi lucidi e mi lascia il permesso di uscire.
Mi fiondo fuori dalla porta e mi appoggio alla parete per riprendere fiato. Non riesco a stare calma, il respiro diventa affannato e mi accascio a terra. Delle lacrime iniziano a rigarmi il volto e non faccio nulla per impedirglielo, le avevo trattenute troppo a lungo.
La mia vita fa schifo.
Perché va tutto male?
Perché ora sto anche in classe con quell’essere spregevole comunemente chiamato David?
Perché la fortuna non gira mai dalla mia parte?
L’unica cosa che voglio ora è abbracciare Taylor. O meglio, il ragazzo che si fa chiamare da me Taylor. Lui mi capisce, anche se ci conosciamo da un giorno siamo più legati di chiunque altro: il suo passato è il mio presente.
Voglio parlargli di tutti i miei problemi, delle mie insicurezze, delle mie paure. Voglio essere stretta e cullata dalle sue braccia forti. Voglio che mi dica tranquilla, andrà tutto bene. Lui può dirlo, dopotutto riuscito ad uscire dalla fossa in cui era caduto.
Penso che oggi andrò nel bosco. Sicuramente lui sarà lì, così parleremo. Vorrei poter stare sempre con lui.
Mi asciugo le lacrime e mi alzo in piedi, pronta, più o meno, a rientrare. Appena apro la porta la professoressa mi guarda.
«Tutto okay?» Chiede preoccupata. Annuisco e ritorno al mio posto. «Bene, allora riprendiamo la lezione.» Okay, devo resistere solo un’ora. Posso farcela. Devo farcela.




HEI! :D
spero vi sia piaciuto il capitolo
non so che altro dire .-.
vi faccio solo una richiesta: se non vi piace la storia per favore, ditemelo, così vedo di toglierla c:
beh, altrimenti alla prossima! :)
un bacio
Giulia xxx

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