Quando si dimentica di respirare. di cheesecake94 (/viewuser.php?uid=27852)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 8: *** 8 ***
Capitolo 9: *** 9 ***
Capitolo 10: *** 10 ***
Capitolo 11: *** 11 ***
Capitolo 12: *** 12 ***
Capitolo 13: *** 13 ***
Capitolo 14: *** 14 ***
Capitolo 15: *** 15 ***
Capitolo 16: *** 16 ***
Capitolo 1 *** 1 ***
l
Ore 2.15 am, 19 ottobre
“Dove sei?” urlò la voce “Dove sei, dannazione! Scendi immediatamente!”
La voce di Chris Danforth risuonò tra le pareti della casa come un tuono.
Ancora una volta, Chad si chiese come fosse possibile che nessuno, nel palazzo,
si fosse mai lamentato di quelle grida che, ne era certo, erano perfettamente
udibili a tutti gli inquilini del piano ed anche a quelli del piano inferiore.
D’altra parte, anche i suoi vicini avevano i loro problemi. Chi mai avrebbe
potuto vivere in un posto del genere senza averne?
“Non andare.” sussurrò una vocina da sotto le coperte. “Ti picchierà.”
“Non posso, Liv. Se non scendo io, salirà lui, e se la prenderà con
entrambi.”
“Allora vengo con te.”
“No, Liv, tu devi rimanere qui e non fare rumore. Nessun rumore, hai capito?
Nemmeno un fruscio. Rimani sotto le coperte e fai finta che stiamo giocando a
nascondino. Io torno presto.”
Senza lasciare alla bambina il tempo di replicare, Chad si alzò e scese le
scale. Non appena fu uscito dalla camera che divideva con la sorella, la maggior
parte del coraggio che aveva finto di avere per non spaventarla scomparve.
Chad non aveva paura del proprio padre, non letteralmente almeno. Da che lui
ricordasse Chris Danforth era sempre stato così, un alcoolista violento e
dispotico. Lui era cresciuto credendo che tutti i padri fossero così, per lui
era naturale quando credere che il cielo fosse azzurro o che l’estate venisse
prima dell’autunno. Era più che abituato alle percosse, ai pugni, ai calci, agli
insulti; erano altre le cose che davvero temeva.
Un anno prima, poco prima che lui iniziasse la scuola superiore, sua madre se
n’era andata, un mattino aveva fatto le valigie e se n’era andata, così, senza
una parola, senza una spiegazione. Da allora, tutto ciò che era riservato a
Elaine venne riversato su Chad, che peraltro pensava che la sua parte fosse già
più che sufficiente. Prima era stata una volta al mese, poi una alla settimana,
ed ora quasi tutte le notti veniva quello che suo padre chiamava “il tempo
dell’educazione.” A peggiorare le cose, Chris, poco meno di due settimane prima
aveva perso il lavoro. “Eccedenza di personale”, così avevano detto, ma certo il
fatto che si presentasse in fabbrica ubriaco fradicio non aveva collaborato alla
sua causa. Di questo, di questo Chad aveva davvero paura: di cosa avrebbero
vissuto adesso? Come avrebbero fatto a pagare l’affitto? E come avrebbero fatto
a mangiare? I soldi della liquidazione erano già finiti, trasformati in
bottiglie contenenti il liquore ambrato che sembrava essere l’unico vero amore
di suo padre, e la dispensa era quasi vuota.
“Ciao, papà.”
“Signore, chiamami Signore.” ruggì l’uomo ai piedi delle scale.
“Buonasera, Signore.”
“Cos’hai fatto oggi, ragazzo?”
“Tutto quello che si doveva fare, signore.”
“Tua sorella ha cenato?”
“Sì, signore.”
“Forse la scampo.” pensò Chad, e si permise di fare un sospiro di sollievo,
impercettibile, ma abbastanza forte perché lui lo notasse.
“Cos’hai da sospirare, cosa mi nascondi?”
“Nulla, signore.” rispose, cominciando a temere il peggio.
“Non ti credo. NON TI CREDO! Sei un bugiardo, tale e quale a tua madre. TALE
E QUALE A LEI!”
Mentre gridava, si avvicinò, salendo i tre gradini che lo separavano dal
figlio. Con un unico, fluido movimento afferrò il suo polso e lo strattonò fino
a farlo cadere a terra. Non appena fu steso ai suoi piedi, lo colpì con forza
esattamente all’altezza delle reni. Chad udì il suono sordo che gli stivali del
padre produssero cozzando contro la sua schiena. Poco dopo, un dolore acuto lo
pervase, partendo dalla base della spina dorsale e percorrendola interamente
fino al capo ed collo, così forte da mozzargli il fiato. Quasi non si rese conto
dei colpi che seguirono, né notò che suo padre si era tolto la cintura e si
preparava a colpire ancora.
Dopo un tempo che parve interminabile, tutto ebbe fine.
“Ho finito. Vai in camera tua.”
Dolorante, Chad salì le scale. Camminava chino verso il basso perché la sua
schiena pulsava e palpitava, e percepiva rivoli di sangue colare lungo le sue
gambe, fino a terra. La mattina dopo avrebbe dovuto pulire.
Chad non si era mai chiesto se meritasse tutto questo, non si era mai chiesto
se fosse giusto. Era così, punto e basta. Era stata solo un’altra notte a casa
Danforth, una notte come le altre.
Prima di entrare in camera, ebbe l’accortezza di tirarsi su; nonostante lo
sforzò fosse inaudito ed il dolore quasi insopportabile, non voleva far vedere a
Olive quanto stesse soffrendo.
“Hai visto?” le disse. “Non mi ha fatto niente.”
“Davvero?”
“Davvero, Liv. Ora dormi, domani c’è scuola.”
“Ti voglio bene, Chad.”
“Anche io ti voglio bene, Liv.”
Ore 8.00 am, 20 ottobre
Chad camminava lungo Main Street, diretto verso la casa di Troy. Ogni
mattina, fin dall’asilo, lui si era recato a casa di Troy per percorrere insieme
la strada verso la scuola.
Il tragitto, quella mattina, era stato difficoltoso. La schiena gli doleva
ben più della sera precedente, e un grosso livido bluastro adornava la sua
schiena, in buona compagnia vista la costellazione di segni in tutte le tonalità
del viola che ricopriva perennemente il suo corpo. Inoltre, non toccava cibo dal
giorno prima, quando a scuola aveva pranzato alla mensa. In casa non era rimasto
che un pugno di riso, e l’aveva lasciato ad Olive. Lei aveva solo cinque anni,
aveva bisogno di mangiare. Tuttavia, si sentiva fiacco, indebolito, ed a tratti
dei fastidiosi giramenti di testa lo inducevano a fermarsi.
Si chiese come avrebbero fatto se suo padre non avesse trovato un nuovo
lavoro. Mentre camminava attraverso la piazza del mercato, notò un cartello
appeso ad uno dei camion in attesa vicino alle bancarelle.
“Cercasi aiutanti.”
“Ci passerò dopo la scuola.”, si disse. In fondo, quella poteva essere una
soluzione.
Poco dopo, suonò il campanello di casa Bolton e Troy lo raggiunse in
strada.
“Ehi amico, come va?” esclamò lui sorridente.
“Tutto bene.” rispose Chad, e pensò a quanto fosse sarcastica quella
risposta.
“Sei pronto per la partita di oggi?”
“Come no.” rispose lui.
“Li faremo a pezzi.”
“Già.” replicò stancamente Chad. “Li faremo a pezzi.”
Questa è la prima storia che scrivo su High School Musical, e spero che vi
piacerà. Se avete idee, consigli o suggerimenti, fatemi sapere, io adoro
scrivere su traccia. Anche le critiche sono ben accette, se costruttive. Nel
prossimo capitolo assisteremo ad una sconfitta dei Wildcats per colpa di Chad e
del suo dolore alla schiena, ed a un litigio tra lui ed il resto della
squadra.
Non fatevi pregare, recensite!
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Capitolo 2 *** 2 ***
l
Ore 14.20, 20 ottobre
Stavano perdendo. I Wildcats stavano perdendo, non ignominiosamente ma
comunque perdendo. Quella era una partita importante, e se l’avessero persa
sarebbe stata dura, in campionato, nonostante la stagione fosse appena
iniziata.
Chad sapeva che, almeno in parte, la colpa era sua. Era lento, impreciso, non
metteva forza nei lanci, ma non poteva fare nulla di diverso. La sua schiena era
in fiamme, aveva l’impressione che stesse per cedere. Ogni volta che alzava o
estendeva le braccia sentiva una fitta lancinante trafiggerlo all’altezza dei
lombi; il dolore stava peggiorando, e l’aspirina che aveva preso non sembrava
avere alcun effetto. Inoltre, nonostante fosse a stomaco vuoto da oltre 24 ore,
ondate di nausea lo travolgevano a tratti, ed era terrorizzato all’idea di dare
stomaco lì, di fronte a tutti.
Mentre era immerso nei suoi pensieri, sentì l’intera palestra esultare, e si
rese conto che, per il bene della squadra, doveva fare il possibile per tornare
al gioco. Alzò lo sguardo e si rese conto che Troy aveva mandato a segno un
lancio: ora erano alla pari. Sarebbe bastato un altro canestro, uno solo, ed
avrebbero vinto. Cercando di ignorare il dolore, si ributtò nella mischia.
Poco dopo, si rese conto di essere in ottima posizione. Nello stesso momento,
anche Zeke se ne rese conto, e lanciò nella sua direzione. Era un tiro facile,
paurosamente facile, non poteva sbagliarlo. Tutti i Wildcats avevano il sorriso
stampato sul viso: la vittoria era ad un passo.
Chad protese le mani per afferrare la palla. In quel momento, un giocatore
della squadra avversaria, nel tentativo di marcarlo, colpì con un gomito la sua
schiena nell’esatto punto in cui era stata colpita dal piede di suo padre la
sera precedente.
Tutto accadde in un secondo. Mentre le sue braccia si piegavano ed i muscoli
si tendevano, perfettamente calibrati da ore ed ore di duro lavoro, per compiere
il movimento che avrebbe direzionato la palla nel canestro, il frammento di osso
che la sera prima era stato lesionato si staccò definitivamente dalla vertebra
alla quale era appartenuto. Il dolore fu come una scossa elettrica che percorse
il suo intero corpo, come una pugnalata che lo colpì a sorpresa, mozzandogli il
fiato, oscurando la sua visuale.
La palla cadde dalle sue mani e finì a terra. I Wildcats avevano perso.
Mentre gli avversari esultavano e la folla defluiva dagli spalti, i ragazzi
si ritirarono negli spogliatoi, in silenzio.
“Ma dico, che diavolo ti è preso?” tuonò Jason non appena ebbero varcato la
soglia. “Anche un bambino delle elementari avrebbe mandato a segno quel
tiro!”
“Ce l’avrebbe fatta anche una ragazza, per la miseria.!” gli fece eco
Zeke.
“Adesso sarà dura, in campionato. Ma cos’avevi nella testa?”
Chad fece del suo meglio per raccogliere la forza di emettere un suono.
Avevano ragione, lo sapeva, e lui avrebbe voluto scusarsi, promettere che non
sarebbe più accaduto, ma il dolore continuava a paralizzarlo. Inoltre, il suo
stomaco sembrava capovolgersi e contorcersi, e la necessità di trovare un bagno
si faceva più pressante ad ogni secondo che passava, così rimase in silenzio,
senza proferire parola.
“Cos’è, pensi che non valga la pena di rispondere?”
“Mi dispiace.” balbettò lui.
Troy, che fino a quel momento era stato in silenzio, intervenne.
“Non è il fatto che tu abbia sbagliato quel lancio. Può succedere, e lo
sappiamo tutti. Il problema è un altro: tu. Non hai pensato alla partita nemmeno
per cinque minuti, Chad. Avevi la testa altrove. Negli ultimi tempi, non metti
energia negli allenamenti, non sei concentrato. Lo sai bene anche tu che in una
squadra, se c’è un anello debole, crolla tutto. Non puoi essere il nostro anello
debole.”
Furono quelle parole a ferirlo. Anello debole. Lui era l’anello
debole. Sentì una rabbia feroce montargli dentro. Ma perché tutti quanti
dovevano sempre avercela con lui? Suo padre, gli insegnanti, i suoi amici? Cosa
faceva di male? Avrebbe voluto spiegare cosa gli stava succedendo, avrebbe
voluto liberarsi di quel peso che lo stava affondando, ma non poteva farlo, non
poteva per un milione di ottime ragioni, e in fin dei conti non sapeva nemmeno
se gli avrebbero creduto. Nelle loro vite perfette nelle loro case perfette con
le loro famiglie perfette certe cose non esistevano. Non era nemmeno certo che
loro potessero immaginarle. Tuttavia, non potè trattenersi dal replicare, seppur
debolmente.
“Non c’è solo il basket nella vita.”
Gli sguardi di tutti si posarono su di lui, impietriti.
“Cosa vuoi dire?” domandò Troy. “C’è qualcosa che non va?” continuò,
facendosi attento.
Lentamente, Chad scosse la testa.
“In questo caso, non so che dire. Io ti conosco da tutta la vita, ma adesso
non ti riconosco più. Mi hai deluso, Chad.”
Quanto gli fecero male, quelle parole. Non avrebbe mai immaginato che delle
stupide parole potessero ferire così tanto, eppure si sentì raggelare, come se
il suo cuore avesse smesso di battere. In tutti quegli anni, Troy era sempre,
sempre stato dalla sua parte, ed ora lui l’aveva deluso. Forse suo padre non
aveva poi tutti i torti quando parlava di lui come di una maledizione.
Senza parlare, si alzò e se ne andò. Si diresse verso il bagno della
palestra, ormai deserta, incapace di contenere oltre i conati che lo
attanagliavano. Quando fece ritorno allo spogliatoio, tutti se ne erano andati.
Si fece la doccia e si diresse verso l’uscita. Lì trovo Taylor, seduta ad
aspettarlo. Non appena la vide, si sentì sollevato. Taylor era, attualmente,
l’unica cosa che nella sua vita funzionasse.
Pensava di essere seriamente innamorato di Taylor, e la notte, mentre gemeva
nel buio, pesto e sanguinante, il solo pensiero della sua voce e dei suoi occhi
gli infondeva coraggio. Aveva disperatamente bisogno di quel coraggio, non
credeva che senza sarebbe sopravvissuto.
“Ehi, guerriero.”
“Un guerrieri destituito.”
“Una giornata storta capita a tutti.” disse lei, avvicinandosi. Passò una
mano intorno alla sua vita e, mentre si avvicinava alle sue labbra, strinse.
Involontariamente, Chad si allontanò da lei, gli stava facendo davvero male, ma
Taylor non poteva saperlo, e interpretò male quel gesto. Tuttavia, forse tenendo
conto del risultato della partita e di come Chad dovesse sentirsi al momento,
decise di tacere.
“Che ne dici di una serata insieme? E’ venerdì e domani non c’è scuola. Penso
che potrei consolarti.” propose lei.
“Mi dispiace, ma non posso.” le rispose. Non avrebbe retto un’altra ora in
piedi, aveva assolutamente bisogno di mettersi a letto.
“Perché?”
“Ho un impegno“ fece lui, vago.
“Allora vediamoci nel fine settimana.”
“Sai che non posso uscire nel fine settimana.”
Quella era la pura verità. Lui non usciva mai nel fine settimana. Olive era a
casa, e non poteva certo lasciarla da sola con suo padre. In più, il fine
settimana era il momento delle sbronze con gli amici, quelle peggiori, e Chad
sapeva che se lui non fosse stato a portata di mano il padre non avrebbe avuto
alcun problema a sfogare sulla bambina la sua rabbia. Decisamente, non poteva
allontanarsi.
“Hai altri impegni?” replicò lei, sarcastica.
“Già.” rispose lui prima di rendersi conto di avere detto la cosa
sbagliata.
“Ah. Bè, chiamami quando avrai un momento libero, nel caso ti ricordassi di
avere una ragazza. Ammesso che tu ce l’abbia ancora quando deciderai di farti
vivo.”
“Taylor…” disse lui, cercando di trattenerla afferrandola per un polso.
“NON TOCCARMI!” strillò lei, e non appena si fu liberata lo colpì
vigorosamente sul viso, dopo di che se ne andò.
Per piacere, fatemi sapere cosa ne pensate. La vostra opinione è cruciale,
per me, perciò non fatevi pregare: sono aperta ad ogni cosa, incluse le
critiche. Nel prossimo capitolo Chad troverà un lavoro, assisteremo ad un’altra
sfuriata di suo padre ed ai dubbi di Taylor sulla loro relazione. Dimeticavo: un
grazie di cuore ad Aqua Princess, romanticgirl, armony_93 e ME. Non scomparite,
attendo il vostro parere sul secondo capitolo!
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Capitolo 3 *** 3 ***
l
Ore 16.oo, 20 ottobre
“Avanti!” disse una voce rauca dall’interno della baracca.
Entrando, la prima cosa che Chad notò fu la nube di fumo che occupava
l’ambiente l’odore di stantio che sembrava permeare ogni cosa. Seduto ad una
traballante scrivania, un uomo in canotta e tuta da lavoro fumava un sigaro
marrone e lungo mentre esaminava alcune carte.
“Buonasera. Sono qui per il posto di aiutante, ho letto il cartello questa
mattina mentre andavo a scuola.”
“A scuola eh? Allora non fa per te. Questo lavoro è troppo faticoso per un
ragazzo.”
“La prego, mi dia una possibilità. Io sono un atleta, sono forte.”
L’uomo si alzò e lo squadrò da capo a piedi.
“Si tratta di scaricare i camion dei fornitori, ogni mattina prima che il
mercato apra. Si inizia intorno alle quattro, in un paio d’ore di solito si
finisce. Si lavora ogni mattina, con la pioggia o con la neve, la paga è di
cinquanta dollari la settimana. Sicuro di farcela, ragazzo?”
“Ce la farò.”
“Come ti chiami?”
“Chad Danforth, Signore.”
“Va bene, Chad Danforth, mi aspetto di vederti qui alle quattro meno un
quarto, non un minuto più tardi.”
“Devo cominciare stasera?” domandò lui. Non credeva che ce l’avrebbe fatta,
stasera. Nemmeno l’intera scorta nazionale di aspirina avrebbe potuto zittire
quel maledetto dolore. Forse non era l’inferno, ma di certo ci si avvicinava
moltissimo.
“Cosa pretendi, la domanda in carta bollata? Certo che devi iniziare stasera.
Il mercato non aspetta certo te, sai.”
“Come vuole, signore. Sarò puntuale.”
Allontanandosi, Chad non si sentiva certo sollevato come credeva. Cinquanta
dollari la settimana erano davvero una miseria, e avrebbe dovuto andare
direttamente a scuola, senza aver dormito che tre o quattro ore. Come soluzione
temporanea, tuttavia, poteva andare, in attesa di trovare un impiego
migliore.
Sulla strada di casa, si fermò ad un fast food e con gli ultimi dollari che
gli erano rimasti dal lavoro estivo acquistò due hamburger, uno per sé ed uno
per Olive. Non era un cibo sano e certo non era adatto ad una bambina, ma al
momento era tutto quello che poteva permettersi.
Poco dopo salì a fatica le scale del palazzo dove viveva, la squallida casa
popolare nel quartiere più degradato della città, fino al sesto piano. Prima di
riuscire a trovare le chiavi, delle urla attirarono la sua attenzione.
Rivolse lo sguardo verso l’appartamento situato accanto al suo, e si rese
conto che una lite violenta vi stava avendo luogo. Un attimo dopo vide la porta
spalancarsi ed una bambina uscire correndo fino a sbattere contro le sue
gambe.
Therese aveva sei anni ed era la migliore amica di Olive. Sua madre, Tess, era
la versione femminile di Chris, il suo esatto alter ego, con la differenza che
la povera Therese non aveva un fratello che si occupasse di lei. Chad era molto
affezionato a lei, l’aveva vista nascere e spesso nel fine settimana si
occupava di entrambe le bambine. Si chiedeva di frequente cosa sarebbe stato di
lei, sola al mondo nelle mani di quel mostro di sua madre.
Ora il visetto della bimba era inondato di lacrime, i capelli spettinati e
sporchi ad indicare che almeno da un paio di giorni nessuno la pettinava e le
faceva un bagno.
“Ehi, ranocchia, che cosa succede?”
“Mamma sta litigando con il suo amico. Di nuovo.” rispose lei abbracciando le
sue gambe.
“Capisco. Forse potresti dormire da noi stanotte, che ne dici?”
Ancora lacrimante, la bimba annuì e baciò la sua guancia, la stessa che
Taylor aveva colpito. Le sue lacrime gli inondarono il collo, e Chad si chiese
cosa mai avesse fatto quella bambina per meritarsi tanto dolore.
La stessa domanda che non gli era mai venuto in mente di porsi riguardo a sé
stesso.
Circospetto, si avvicinò alla porta, bussò e cautamente entrò. Una zaffata di
alcool lo travolse, odore familiare, lo stesso odore della sua casa.
“Tess, porto Therese con me stanotte, se per te va bene.”
“Sparite tutti e due, piccoli bastardi.”
Olive esultò alla vista dell’amica. Subito le bambine iniziarono a correre
per la stanza ed a lanciare gridolini esultanti. Poco dopo, si avvicinarono.
“Chad, abbiamo fame.”
“Nemmeno tu hai cenato, Ther?”
La bimba scosse la testa. Che altro poteva fare?Nonostante il suo stomaco stesse protestando
animatamente, porse alle bambine i due hamburger e si sedette insieme a
loro.
“Non mangi?” gli chiese allora Olive.
“Non ho fame, Liv, ho mangiato a scuola.”
Chad vide lo sguardo della sorellina spostarsi dal panino ai pensili vuoti
della cucina.
“Vuoi che facciamo a metà?” propose.
Il cuore gli si strinse nel rendersi conto di quanto Olive potesse capire
nonostante i suoi sforzi per celarle la realtà.
“Non ti preoccupare, non ho fame, davvero.”
“Ok, io sì invece.” disse lei rivolgendosi un sorriso sdentato.
Dopo aver ricambiato il sorriso si diresse verso il bagno e si accinse a
guardarsi allo specchio. Il livido sulla sua schiena tendeva pericolosamente al
nero ormai. Afferrò due aspirine e le inghiottì, pur sapendo che non avrebbe
dovuto prenderle a stomaco vuoto. Si sedette a terra ed appoggiò la fronte alle
piastrelle di maiolica, cercando un po’ di conforto.
Intorno alle dieci, costrinse a letto le due recalcitranti creature. Nel
letto matrimoniale che divideva con Olive si stava un po’ stretti, nonostante
ciò giacere a pancia in giù mitigò il dolore abbastanza da farlo
addormentare.
Il risveglio fu brusco. Le urla facevano tremare le pareti della casa.
“Dannazione, ho scordato di mettere in ordine.”
“Chad.” mormorò Olive “Chad, che cos'è?”
“Nulla, Liv. Avanti, ranocchia, rimettiti a dormire.”
Scese le scale più in fretta che potè, rendendosi conto di essere ancora
vestito. Non fece nemmeno in tempo a raggiungere la cucina, non appena mise
piede sull’ultimo gradino, il padre lo colpì alla nuca con una bottiglia di
birra. La bottiglia ovviamente si ruppe e lui cadde a terra. I palmi delle sue
mani, a contatto con il suolo cosparso di frammenti di vetro, si coprirono di
tagli ed iniziarono a sanguinare.
“COS’E’ QUESTO DISASTRO? ME LO VUOI DIRE? PERCHE’ QUESTO DANNATO CAOS?”
“Mi dispiace, riordino subito.” disse tentando di rialzarsi, ma fu nuovamente
sbattuto a terra. Nella caduta, la sua schiena urtò con violenza lo stipite
delle scale. Fu allora che si lasciò sfuggire un gemito di dolore.
“Fai in fretta.” disse Chris uscendo nuovamente. Per qualche minuto, Chad
rimase a terra. Per quanto volesse evitarlo, non potè fermare le lacrime che
iniziarono ad inondare il suo volto. Poi, perché non avrebbe dovuto piangere?
Era solo, il suo migliore amico era deluso da lui, la sua ragazza l’aveva
lasciato, e non aveva mai provato un dolore così intenso in tutta la sua vita, e
sì che non era certo la prima volta che veniva picchiato.
Meno di un’ora dopo uscì per recarsi al lavoro. Le sue gambe sembravano
cedere sotto il peso del resto del corpo. Il solo sforzo di scendere le scale lo
lasciò esausto. Di nuovo, fu colto da terribili conati, nonostante non avesse
più nulla nello stomaco. Si sedette appena fuori dalla porta di casa, tremando
forsennatamente. Gli girava la testa e, nonostante fosse buio, vedeva solo
bianco intorno a sé.
“Non ce la farò mai.” si disse.
Eppure, non aveva scelta. Doveva farlo per Olive, doveva farlo per lei.
Inspirando profondamente, si alzò e ricominciò a camminare.
Nello stesso momento, un messaggio lampeggiava sullo schermo del cellulare di
Gabriella, profondamente addormentata.
“Vediamoci domattina prima della scuola, ti devo parlare. Penso che Chad
abbia un’altra. Taylor.”
AN Grazie mille delle vostre recensioni… grazie a Soloio, armony_93,
romanticgirl e soprattutto a Barbycam, giacchè adoro le recensioni interattive,
nella speranza di fare immedesimare chi legge con i personaggi, e di
emozionarvi, almeno un po‘. Mi raccomando, non mi abbandonate. Nel prossimo
capitolo, ad Olive viene raccontato un segreto e Taylor mette a punto un piano.
Qualcuno noterà che c’è qualcosa di strano, ma tutti giungeranno alle
conclusioni sbagliate. A presto!
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Capitolo 4 *** 4 ***
l
Questo capitolo sarà molto, molto triste, perciò siate preparati.
Ore 6.15 am, 21 ottobre
L’ultimo camion era stato scaricato. Chad aveva perso il conto di quante
cassette di frutta e verdura avesse portato, appoggiandosele sulle spalle prima
di scendere lentamente dalle piattaforme. La sua schiena aveva ormai ceduto, e
poteva camminare solo chino in avanti; se avesse cercato di reggersi diritto,
non avrebbe potuto trattenere urla di dolore. I tagli sulle sue mani, nel corso
della notte, si erano riempiti di schegge di legno e terra, ed il continuo
attrito con le cassette li aveva infettati, tanto che ora entrambe le sue mani
erano arrossate, calde e pulsanti.
E facevano male, male da morire.
Camminando come meglio potè, si diresse nel gabbiotto del capo.
“Signore, non c’è più nulla da fare.”
“Allora vai, ragazzo, non serve che tu venga a seccarmi ogni volta.”
Su un tavolino basso accanto a lui, Chad notò un cartone bianco contenenti un
paio di avanzi di pizza grigiastri. Il suo stomaco fece un balzo ricordandogli
che era digiuno ormai da quasi quarantotto ore.
“Signore, vuole che lo butti via?”
“Fai pure, ragazzo, sono lì da ieri. Ci vediamo domani, e vedi di essere
puntuale come oggi.”
“Non mancherò, signore.”
Non appena si fu allontanato abbastanza, il ragazzo si buttò su quegli avanzi
stantii come una belva affamata. Non erano che due misere fette di pizza vecchie
di due giorni, erano dure come cartone e dopo aver passato tanto tempo in
quell’ambiente saturo di fumo ne avevano assunto l’odore ed il sapore, così che
Chad ebbe l’impressione di essere sul punto di divorare i sigari del padrone.
Tuttavia, erano cibo, e tanto bastava.
Alle sette in punto era davanti a scuola. Non appena il bidello aprì la
porta, entrò e si diresse verso la palestra. Certo di trovarla vuota, a
quell’ora, aveva portato con sé degli abiti puliti in modo da farsi una doccia
prima dell’inizio delle lezioni.Certo, con questo lavoro non avrebbe più avuto
il tempo di passare a casa di Troy, ma non poteva farci niente. Avrebbe dovuto
pensare ad una scusa.
Non appena l’acqua bollente iniziò a scorrere sulla sua pelle, il ragazzo
rabbrividì. Ogni centimetro di pelle che veniva bagnato sembrava andare in
fiamme subito dopo il passaggio del getto. Quando poi versò del sapone sulle sue
mani martoriate, il bruciore divenne così tagliente che per l’ennesima volta la
sua vista si offuscò, e lacrime involontarie bagnarono il suo viso.
Quando ebbe finito, si sedette su di una panca cercando un po’ di sollievo
per la sua schiena. Così facendo, si addormentò profondamente, e solo il suono
della campanella lo riscosse dal suo torpore.
Arrivò appena in tempo alla prima lezione, scienze naturali, e come al solito
si sedette accanto a Troy.
“Che fine hai fatto stamattina? Ti ho aspettato.”
“Mi dispiace, ero in anticipo e non volevo svegliarvi tutti.”
“Pazienza, non importa. Tira fuori la relazione, siamo i primi a
presentarla.”
Di nuovo, gli si fermò il respiro. La relazione di scienze, la loro relazione
sulla vita negli alveari. Ieri sera l’aveva riletta mentre le bambine giocavano,
ed poi, quando se n’era andato di tutta fretta al lavoro, l’aveva lasciata sul
divano.
“Come ho fatto ad essere così stupido?” si disse. Non gli venne alla mente
quanto il dolore avesse offuscato la sua mente, la sera prima, in compenso un
forte senso di colpa lo invase di nuovo. Avrebbe ancora deluso Troy.
“Io… io l’ho dimenticata.” balbettò.
“Dimenticata? L’hai dimenticata?”
“Mi dispiace.”
“Lo credo bene! Farai prendere un’insufficienza anche a me. Avrei fatto
meglio a lavorare con Gabi.”
“Scusami, davvero.”
“Scusarti, e per cosa? Per averci fatto perdere la partita o per avermi fatto
prendere un’insufficienza? Sembra che adesso non si possa più fare affidamento
su di te.”
Troy sembrava davvero molto, molto arrabbiato.
“Senti, te lo chiedo per l’ultima volta: cosa ti succede? Perché se c’è
qualcosa che non va me lo devi dire, ma se va tutto bene e ti stai comportando
così solo per noncuranza, allora forse dovresti rivedere le tue priorità. Non so
come la pensino gli altri, ma non mi interessa essere amico di uno di cui non ci
si può fidare, di uno che non prende sul serio le cose importanti, un pigro
indolente che non ha voglia di lavorare per ciò che conta, e penso di non
parlare solo a nome mio, ma di tutta la squadra. Senza menzionare Taylor,
ovviamente.”
“Va tutto bene.” rispose.
“In questo caso sarà meglio che tu ti dia una regolata, o dovrai cercarti
degli altri amici, stanne pur certo.“
Per un attimo, Chad si augurò che Troy capisse che stava mentendo. In fondo,
nessuno al mondo lo conosceva meglio, e credeva che nessuno al mondo gli fosse
più legato.
Non accadde, forse si sbagliava perché non ebbe il minimo sospetto. Troy si
alzò ed andò a sedersi un paio di file più avanti, e non gli rivolse più la
parola.
A pranzo, quando arrivò alla mensa dopo il corso di algebra che era l’unico a
seguire, vide tutti quanti seduti al solito tavolo. Gli sguardi gelidi che Troy
e Taylor gli rivolsero furono sufficienti a dissuaderlo dal raggiungerli. Si
sedette da solo, e non appena ebbe finito se ne andò.
Nessuno lo trattenne.
ore 13.oo, 21 gennaio
Gabriella si avvicinò a Taylor appena furono uscite dalla mensa.
“Scusami, non ho fatto in tempo, questa mattina. Ad ogni modo, mi sembra
un’idea assurda. Perché lo pensi?”
Taylor la guardò, gli occhi colpi di tristezza, e Gabri seppe che la sua
amica stava davvero soffrendo.
“Ehi, vieni qui.” disse abbracciandola.
“Ieri l’ho aspettato, dopo la partita. Pensavo che avesse il morale sotto le
scarpe, volevo solo consolarlo, ma quando ho provato ad abbracciarlo, mi ha
allontanata.”
“E’ un ragazzo, Taylor, quando sono arrabbiati loro vogliono restare da
soli.”
“Gli ho chiesto di vederci ieri sera, e lui mi ha detto che aveva un impegno.
E nel fine settimana non siamo mai, mai usciti insieme. Che diavolo di impegno
può avere che lo tenga occupato tutti i santi fine settimana, me lo dici?”
“In effetti, è strano, ma come pensi che farebbe a nasconderti una ragazza?
Qui a scuola si sa tutto di tutti.”
“Infatti, io credo che la sua ragazza non frequenti la nostra scuola. Penso
che sia una del suo quartiere, e che vada alla West High. Questo spiegherebbe
perché non mi mai portata a casa sua, perché non mi abbia mai parlato dei suoi
amici.”
“Taylor, siamo noi i suoi amici.”
“Vive in quel quartiere da quando è nato, ha frequentato l’asilo, le
elementari e le medie lì, ti pare possibile che non abbia amici? Non è certo il
tipo, eppure mai una parola, come se fuori di qui non avesse una vita.”
“Io credevo che lui e Troy fossero sempre stati nella stessa classe.”
“No, si sono conosciuti a tre anni, ma al corso di basket del comune. Chad ha
ottenuto di frequentare questa scuola anziché quel covo di delinquenti della
West High con una borsa di studio per il basket.”
“Forse dovresti chiederglielo direttamente.”
“Non posso. Ho troppa paura che mi dica che ho ragione.”
“Allora che vuoi fare?”
“Gli chiederò di portarmi a casa sua. Se mi dirà di no, ho in mente un piano
per farlo ingelosire, e se non funzionerà, allora saprò che non teneva
abbastanza a me.” concluse, ed una singola lacrima attraversò il suo viso.
Gabriella, preoccupata per l’amica, la accompagnò fino alla classe di
letteratura americana, dopo di che si diresse in biblioteca.
Le piaceva Chad, le piaceva davvero. Lui e Troy avevano un rapporto sincero e
profondo, un rapporto di amicizia così forte come lei non aveva mai avuto, con
nessuno, e talvolta li invidiava per questo. Pensava di conoscerlo bene, pensava
che nel loro gruppo l’armonia fosse perfetta, ma ora tanto Taylor che Troy ce
l’avevano con Chad, avevano seri dubbi su di lui, e lei si fidava di loro.
Forse era vero, forse Chad non era per niente la persona che loro credevano
che fosse. Aveva ferito Taylor, forse la stava tradendo, ed aveva deluso Troy.
Forse si erano sbagliati sul suo conto.
Ore 17.00, 21 gennaio
Quando Chad arrivò a casa, trovò Olive seduta a tavola, in silenzio. La cosa
lo insospettì.
“Ehi, Liv, cosa succede?”
“Niente.” rispose mestamente lei.
“Coraggio, ranocchia, lo sai che non puoi raccontarmi bugie. Io so
tutto.”
“Oggi la maestra mi ha chiesto se a casa andava tutto bene. Mi ha chiesto di
papà e di te. Sembrava arrabbiata.”
Il suo cuore iniziò a battere forte.
“E tu cosa le hai detto?”
“Che andava tutto bene.”
“E ti ha creduto?”
“Penso di sì. Io però non capisco. Chad, tu mi hai detto che dire bugie è
sbagliato, ma allora perché io devo farlo? Se lo dicessi alla maestra, lei
potrebbe dire a papà di non farti più male.”
“Oh, Liv.” disse lui prendendola in braccio “Le cose non sono sempre così
facili. I grandi sono più complicati dei bambini.”
Chad aveva protetto per tutta la vita quel segreto, con ogni mezzo, e dopo la
nascita di Olive era diventato quasi paranoico al riguardo. Non che volesse
proteggere suo padre, lungi da lui provare sentimenti del genere; era la
sorellina quella che voleva tutelare. Se si fosse saputa la verità, loro
sarebbero stati affidati all’assistenza sociale, e poi sarebbero finiti alla
Casa di Accoglienza, e Chad sapeva bene cosa succedeva là dentro, conosceva
tanta gente che ci era finita. Violenza, furti, bullismo, droga. Chi cresceva lì
dentro finiva invariabilmente sulla strada, nelle bande, nello spaccio. Non
aveva mai sentito di nessuno dei ragazzi che vivevano lì che ce l’avesse fatta,
e lui non voleva questo per Olive.
Lui sapeva bene cosa volesse dire un’infanzia distrutta, ed aveva giurato a
sé stesso che per lei le cose sarebbero andate diversamente, che lei non avrebbe
sofferto come lui. Le avrebbe dato una vita migliore, fuori da quel ghetto, a
qualsiasi costo.
“Ascoltami, Liv, ti voglio dire un segreto, ma devi giurarmi che non lo dirai
a nessuno, mai e poi mai, nemmeno in un milione di anni. Lo giuri?”
“Lo giuro” disse la bimba, attenta e solenne “Occhio Malocchio, Prezzemolo e
Finocchio.”
“Non hai incrociato le dita, vero? Nemmeno Therese deve saperlo, e né la
maestra né nessun altro adulto, chiaro?”
“Prometto.”
“Ok.” disse lui, ed iniziò a parlare sottovoce per dare un’aura di mistero
alla cosa. “Niente di quello che vedi è vero, Liv, niente di niente. Quando papà
mi chiama, la sera, noi facciamo solo finta di litigare, io faccio solo finta di
star male. Papà non è mai arrabbiato davvero, ma deve farlo, perché questo gioco
è un regalo per te.”
“Per me?”
“Sì, ranocchia, per te. Tu devi essere buona e silenziosa, e non devi
assolutamente far capire a papà che sai la verità, a qualsiasi costo. Se lo fai,
saremo squalificati, e non vinceremo mai il premio finale.”
“Quale premio?”
“Non posso dirtelo, Liv, questo è un segreto segretissimo, capisci? Ma sarà
bellissimo, te lo prometto.”
Olive lo guardò per un secondo, poi lo abbracciò forte.
“Sei il migliore fratello del mondo, lo sai?”
“E tu la migliore sorella, ranocchia.”
“Adesso però ho fame, è ora di cena.”
L’idillio era finito, si tornava alla realtà. Dopo un momento di serenità, il
senso di colpa lo investì di nuovo come un treno in corsa.
Che persona era, se non riusciva nemmeno a procurare qualcosa da mangiare
alla sua sorellina di cinque anni?
Che tipo di persona era, se deludeva di continuo il suo più caro amico?
Che tipo di persona era per portare la ragazza che amava alle lacrime?
In casa non c’era nulla di commestibile, lui era completamente solo, e la
colpa di tutto era sua, sua e di nessun altro.
“Mio padre ha ragione, merito davvero quello che mi accade ogni notte.
L’unica cosa che davvero dovrebbe stupirmi è che tanta gente abbia avuto il
coraggio di rimanermi accanto per tutto questo tempo, ma ora tutti si stanno
accorgendo di come sono fatto davvero.
Si può odiare sé stessi? Sono rimasto solo, ma è quello che mi spetta, ne più
né meno.
Ne più ne meno.”
Era stato costretto a mettere Olive a letto affamata. L’unica cosa che era
riuscito a recuperare era stata una fetta di pane che aveva quasi elemosinato al
bar sotto casa, ben poco per una bimba in piena crescita. Ancora una volta, si
sedette a terra e tentò di impedire alle lacrime di invadere nuovamente il suo
volto. Si appoggiò alla parete, e nel farlo urtò il battiscopa, provocandosi una
fitta lancinante all’altezza dei lombi. D’istinto si allontanò, ma poi gli
tornarono alla mente i volti delle persone che aveva ferito quel giorno: prima
Taylor, poi Troy ed infine Olive. Con forza si gettò di nuovo contro lo stipite,
una volta ed un’altra ancora, incurante del dolore, del tremito che aveva
travolto il suo corpo. In fondo era ciò che meritava, né più ne meno. Continuò
con rabbia fino a che, finalmente, si accasciò contro il muro privo di sensi.
Prima di tutto, anche se senza dubbio l’avrete notato, specifico che l’idea
del gioco non è mia ma di Roberto Benigni ne “La Vita è Bella.”, e spero che mi
perdonerete per averla usata in un contesto del genere. In secondo luogo, spero
di avervi commosso, almeno un pochino, cercando di descrivere l’amore infinito
che Chad nutre verso Olive, ed il profondo senso di colpa ed inadeguatezza che
sta provando. Mi piacerebbe sapere se ho raggiunto lo scopo o meno, ci terrei
davvero. Nel prossimo capitolo, Chad prende una decisione importante e Taylor fa
lo stesso.
Grazie DI CUORE a Totallycrazy, Barbicam e Soloio.
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Capitolo 5 *** 5 ***
l
Avviso che anche questo sarà davvero triste, perciò siate preparati.
31 ottobre, ore 15.00
Erano passati dieci giorni da che aveva ottenuto il lavoro al mercato, e Chad
si chiedeva come avrebbe fatto a continuare. Era esausto, letteralmente
prosciugato di ogni energia. Si trascinava qua e là per pura forza di volontà,
per inerzia e nulla di più.
Aveva ricevuto la sua prima paga senza esultanza. Suo padre non sembrava
minimamente interessato a cercare un nuovo lavoro, e Chad si chiedeva dove
trovasse i soldi per bere così tanto. Nelle ultime dieci notti era tornato in
condizioni sempre peggiori, incapace di ricordare chi fosse o di reggersi in
piedi.
Non aveva dimenticato di sfogare sul figlio la sua rabbia, ad ogni modo. Ogni
singola notte si era ripetuta la stessa identica scena. Ormai il padre rincasava
con la cintura già sfilata dai pantaloni, pronto a colpire. Una notte, poiché
lui, estenuato dalla fatica, non si era svegliato ai suoi richiami, era salito
in camera, e ci era mancato davvero poco a che se la prendesse anche con Olive,
così Chad aveva preso l’abitudine di prendere sonno sul divano in cucina, in
modo da essere certo di sentirlo non appena fosse entrato in casa. Un’altra
notte aveva avuto la malaugurata idea di farsi la barba da ubriaco, e dopo
essersi procurato un’abrasione a causa del tremore delle sue mani si era rivolto
al figlio con il rasoio in mano. Quella volta, Chad aveva avuto davvero paura,
ma per fortuna il padre si era limitato a ferirlo superficialmente,
procurandogli solo ferite che era riuscito a medicarsi da solo, alla bell’e
meglio. Una di queste gli attraversava il torace da parte a parte e salive su
fino al collo. Era la più dolorosa, e aveva causato una gran perdita di sangue.
Il ragazzo sospettava che anche quello contribuisse a renderlo così debole.
Come se non bastasse, a forza di lavorare nel freddo della notte doveva
essersi preso l’influenza, o qualcosa di simile; da un paio di giorni non faceva
che tossire, una tosse secca che partiva dalla profondità dei suoi bronchi e lo
coglieva in accessi violenti che non mancavano mai di lasciarlo senza fiato.
Brividi scuotenti lo attraversavano a tratti, era sicuro di avere la febbre ma
sapeva anche di non poterci fare nulla, poiché non poteva permettersi di perdere
nemmeno un giorno di lavoro.
Nemmeno il resto andava molto bene, in effetti. Non riusciva più a reggere la
fatica di una partita di basket, non riusciva più a correre o a scattare.
C’erano momenti in cui faticava persino a reggersi in piedi, gli girava la testa
e temeva che sarebbe svenuto da un momento all’altro. Per questo teneva pronte
in tasca delle bustine di zucchero rubate dalla caffetteria, per avere l’energia
necessaria a non cadere a terra. Il pranzo della scuola, consistente in un
piatto unico con frutta, era il suo unico nutrimento. Vista la scarsa intenzione
del padre di trovarsi un lavoro, aveva iniziato a risparmiare per pagare
l’affitto, ma questo, a conti fatti, faceva sì che gli restassero, al giorno,
poco meno di tre dollari, non abbastanza per dare da mangiare a due persone, a
mala pena sufficienti per una soltanto.
Il lunedì era il giorno peggiore. Nel fine settimana non c’era scuola, e
persino quel misero pasto veniva a mancare. Fatta eccezione per un po’ di frutta
andata a male che aveva recuperato dagli scarti del mercato, non aveva toccato
cibo. Forse anche per questo durante la partita giocò così male come non aveva
mai giocato.
Gli allenamenti non erano andati bene, affatto. Peggiorava di giorno in
giorno, e tutti sembravano convinti che fosse perché non si impegnava, che non
gli importasse nulla. Troy e gli altri a stento gli rivolgevano la parola, ma i
loro sguardi erano eloquenti e lasciavano poco all’immaginazione.
A volte si chiedeva come fosse possibile che i suoi amici davvero lo
credessero, che avessero una così bassa opinione di lui, ma si rendeva presto
conto che i fatti erano contro di lui.
Se nella partita precedente, ad ogni modo, non era stato l’unico a sbagliare,
stavolta era chiaro che la colpa della sconfitta era sua, unicamente sua. Nel
discorsetto nello spogliatoio che seguì la sconfitta il coach Bolton lo mise in
chiaro, e così fecero i suoi compagni.
Usando parole tutt’altro che gentili, peraltro.
Il fatto era che lui teneva ai Wildcats, ci teneva davvero. Era stata la sua
squadra prima che ne facesse parte e lo sarebbe stata anche dopo. Quelli, poi,
erano i suoi amici, le persone più importanti nella sua vita, e gli faceva male
il pensiero di provocare in loro rabbia e delusione. Così, fece l’unica cosa che
fosse in suo potere per salvare i Wildcats. Quelle parole lo ferirono come non
avrebbe mai immaginato, come fuoco vivo nella gola, eppure erano necessarie.
“Lascio la squadra.” disse, e la forza di quelle parole lo colpì come un
tradimento. L’affermazione fu accolta da un silenzio glaciale. Nessuno si
oppose.
“Non credevo che l’avrei mai detto o pensato.” commentò alla fine Troy “ma
sono sollevato che tu te ne vada.”
Senza dire una parola, svuotò il suo armadietto delle poche cose che
conteneva. Senza ombra di dubbio, quello era stato il momento peggiore di tutta
la sua vita.
All’uscita della palestra, come la volta precedete, c’era Taylor, in sua
attesa. Almeno lei aveva ricominciato a parlargli, ed al momento era l’unica
cosa che lo salvasse dalla disperazione più nera.
“Mi dispiace.” disse semplicemente.
“Non accadrà più che la squadra perda per causa mia.”
“Hai finalmente deciso di riprendere ad allenarti come Dio comanda?” fece lei
speranzosa, ma anche più dura di quanto avesse avuto intenzione di apparire. Non
riusciva a nascondere quanto fosse arrabbiata, odiava vederlo gettare così la
sua vita dalla finestra, e per che cosa poi? Per pigrizia, per indolenza?
Avrebbe voluto scuoterlo fino a fargli tornare un po’ di sale in zucca, proprio
come avrebbe voluto fare Troy.
“No. Ho lasciato la squadra.”
“Tu hai.. Cosa?”
“Ho lasciato la squadra. Avranno molto più successo senza di me.”
“Ma dico, sei impazzito? Tu sei bravo, sei uno dei migliori.”
“Non più.”
“ADESSO BASTA!” gridò lei, esasperata. “Ne ho abbastanza! Ma perché, perché
ti comporti così? Perché vuoi bruciare la migliore opportunità che hai per il
futuro, perché vuoi perdere i tuoi amici e me?”
“Non è quello che voglio, ma non posso farci nulla.”
“Certo che puoi. Puoi tornare ad essere quello che eri, basta che tu lo
voglia.”
“No.”
Cercando di mantenere la calma, Taylor continuò.
“Senti, perché non ne parliamo con calma questa sera?”
“Non posso. Devo badare a mia sorella.”
“Ok, allora verrò da te e ti farò compagnia, così finalmente conoscerò la
famosa Olive.”
“Non puoi venire a casa mia, Tay.”
“Perché no?”
“Perché… perché no, no e basta.” replicò lui, non avendo trovato una
motivazione convincente.
“Perché no e basta? Questo è troppo, Chad, davvero troppo. Ne ho abbastanza
di te. Tra noi è finita.”
“Tay!” gridò lui alle sue spalle che si allontanavano “Ti prego, non farlo,
non puoi lasciarmi così. Ho bisogno di te. Io… io ti amo, Tay, per piacere, non
lasciarmi solo.”
Lei si voltò, un’espressione glaciale sul viso.
“Bè, io no. Io non conosco questa persona, non so più chi sei. No, io non ti
amo, per questo ti lascio. La persona che mi faceva battere il cuore è
scomparsa, e di questa…” lo osservò, puro disgusto sul suo bel viso “…di te, non
so che farmene.”
Detto questo, se ne andò.
Poco dopo, Chad si sedette appena fuori dalla scuola, su di una panchina.
Pioveva, e non c’era nessuno intorno. Sentiva freddo, molto freddo, nonostante
la temperatura fosse ancora mite. I soliti brividi tornarono a fargli visita,
insieme ad un altro accesso di tosse, e quella posizione non giovava affatto
alla sua schiena, ma nulla di questo al momento aveva importanza.
Non c’era più molto che avesse importanza, ormai.
Un grazie di tutto cuore a soloio, romanticgirl, rebel girl, herm90, vivy93,
armony_93, Sinfony. Troppi complimenti davvero, non credo di meritarli… Lo so
che è davvero drammatico, forse all’esasperazione, ma è volutamente così. Questa
storia non è altro che l’amato passatempo di una ragazzina, ma esistono davvero
situazioni del genere, anche peggiori, e disgraziatamente chi le vive le deve
sopportare, non avendo scelta alcuna se non viverle. Comunque,prometto che
migliorerà, ma non subito, altre cose devono accadere… Nel prossimo capitolo,
qualcuno inizierà a sospettare qualcosa. Inutile dire che attendo la vostra
opinione anche su questo capitolo, come sempre aperta a critiche e suggerimenti.
Grazie ragazze, grazie davvero!
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Capitolo 6 *** 6 ***
l
Questo capitolo è davvero lunghissimo, perciò mettevi comodi. Spero,
tuttavia, che non sia così lungo da affaticarvi al punto di non avere più voglia
di lasciare un commento dopo la lettura, visto che mi ci sono impegnata molto,
davvero molto. Da questo momento siete libere di odiare Troy, ma solo per un
po’. Una piccola precisazione, nonostante io sia sicura che tutti ne siate al
corrente: l’assicurazione sanitaria non è una mia invenzione. Negli Stati Uniti
l’assistenza sanitaria non è pubblica e garantita a tutti i cittadini come da
noi, in Italia, ma si basa sul sistema assicurativo, perciò a chi non può
permettersi un’assicurazione, e sono milioni di persone, essa è preclusa. Inolotre, vorrei specificare che il finale di questo capitolo potrebbe stupirvi un po', ma non andrò di certo oltre: non ci saranno, in seguito, scene volgari di nessun tipo, e nessuna specie di violenza, nè sarà mai toccata in nessun modo la tematica sessuale. Alla fine della lettura capirete cosa intendo, comunque ribadisco di stare tranquilli, perchè tutte i futuri capitoli continueranno ad essere di rating arancione, e NON succederà nulla, ma proprio nulla, di scabroso, anzi, la salvezza potrebbe arrivare nel luogo più inaspettato...
Infine, un ringraziamento di tutto cuore come sempre ad Aqua Princess,
Herm90, Romanticgirl, Sinfony, Armony_93. Purtroppo non ho MSN, non sono molto
tecnologica.. Grazie di cuore, siete splendide! Mi raccomando, non mi
abbandonate. Alice.
Ore 23,00, 4 novembre
Chad, prima persona
Negli ultimo giorni, avevo vissuto come se fossi immerso nel limbo, come se
dentro di me non ci fosse più nulla. Ed in effetti, era così che mi sentivo,
come se nulla fosse rimasto. Sembravo vivo, ma non lo ero, capite? Non
completamente, almeno. Non avevo pensato a Taylor, non avevo pensato a Troy, non
avevo pensato assolutamente a nulla.
Un cuore, dite? Ma io non ce l’avevo più, un cuore. Se l’erano portati via,
l’avevano strappato e fatto a pezzi, lacerato con violenza inaudita.
All’inizio, il dolore fisico era rimasto, accanto a me come un’amico fedele,
l’ultima compagnia rimasta, ma ora, ora nemmeno lui occupava i miei pensieri.
Quell’influenza che dovevo essermi preso lavorando non mi lasciava, così
perniciosa ed insistente che non accennava ad andarsene, e, qualunque cosa
fosse, l’avevo passata ad Olive.
Stava male da tre giorni filati, ed io, che non l’avevo lasciata sola nemmeno
un attimo, fatta eccezione per le ore lavorative, vedevo bene che stava
peggiorando nonostante le mie cure, nonostante le medicine ed i succhi di frutta
che le avevo somministrato ogni sei ore, pagate con il denaro che avrebbe dovuto
coprire l’affitto. Se ne stava tra le mie braccia esangue, immobile, immersa in
un bagno di sudore, ansimando penosamente. Chiedeva acqua, chiedeva qualcosa che
l’aiutasse a respirare, chiedeva che cantassi per lei, che le parlassi, poi la
tosse la interrompeva e la sentivo agitarsi convulsamente mentre la stringevo
forte.
Avevo paura come non ne avevo mai avuta prima. Inoltre, ero esausto, non
dormivo e non toccavo cibo da due giorni, e non si può dire che mi sentissi
meglio di lei, anche se, fortunatamente, ero talmente concentrato su Olive da
riuscire ad ignorare me stesso.
“Chad, perché non c’è luce qui?”
“Perché è notte, ranocchia.”
“Il sole è scappato?”
“E’ andato a dormire, tesoro.”
“Chad, sono tanto stanca, anch’io vorrei dormire, ma non posso.”
“Lo so, tesoro, lo so.”
In quel momento, chiuse gli occhi, e la sua testolina ricadde su di me. Dopo
un minuto, era ancora incosciente.
No, non andai nel panico, rimasi incredibilmente lucido, con la lucidità dei
folli, suppongo. In un attimo, vagliai ogni possibilità. Dovevo portarla in
ospedale, questo era chiaro, ma non poteva chiamare un’ambulanza, perché il 911
ci avrebbe accompagnati all’ospedale più vicino, mentre noi avevamo bisogno di
raggiungere la clinica Hightingdale, la clinica gratuita, l’unica della città.
Non potevamo permetterci un ospedale perché non avevamo l’assicurazione
sanitaria. Di certo, non potevamo prendere un autobus, e nemmeno un taxi.
C’era una sola cosa che potessimo fare, una sola persona a cui potessimo
chiedere aiuto, e così, senza un attimo di esitazione, sollevai il telefono e
composi il numero di Troy.
Mi rispose dopo pochi squilli, la voce assonnata, evidentemente stava
dormendo.
“Chad? Ma che diavolo vuoi a quest’ora?”
“Lo so che sono l’ultima persona con la quale vorresti parlare, ma mi serve
aiuto. Ora.”
“Cosa succede?” mi chiese. Doveva aver percepito l’angoscia nella mia
voce.
“Olive sta male, devi accompagnarci in ospedale.”
“Arrivo.” mi rispose, a sua volta senza esitare.
“Grazie.”
“Chad, aspetta! Io non so dove abiti.”
“115, Grosvenor Street. Ti aspetteremo in strada.” Riattaccai, e, con il
cuore a mille, avvolsi Olive in una pesante coperta prima di prenderla in
braccio.
Troy, prima persona.
Di primo impulso, avrei voluto chiudergli il telefono in faccia, ma qualcosa
nella sua voce mi indusse a non farlo. Era spaventato, era nel panico, ed io non
l’avevo mai sentito così prima d’ora, così, senza nemmeno pensarci un attimo, mi
infilai i primi abiti che mi vennero a tiro e mi diressi verso Grosvenor
Street.
Non ero mia stato in quella parte della città, prima. Il West End era l’area
degradata della città, dove le bande la facevano da padrone, dove la delinquenza
e la criminalità regolavano la vita quotidiana. Sapevo che Chad viveva a West
End, ma non immaginavo vivesse proprio lì, a Grosvenor Street, l’area delle case
popolari, il Bronx della nostra città.
Grandi palazzi fatiscenti si elevavano intorno a me, testimoni silenziosi di
tanti drammi che avevo sempre pensato appartenessero alla vita di qualcun altro,
non a quella di qualcuno che stava accanto a me, certo non a quella del mio
migliore amico. I lampioni emanavano una luce fioca e tremolante, alcuni non
funzionavano, altri erano storti e danneggiati come i bidoni dell'immondizia, le
panchine, i vetri erano rotti alle finestre e le strade ricoperte di buche;
persino gli alberi sembravano tristi e squallidi, come ingobbiti dal peso della
vita che si svolgeva ai loro piedi.
Su di una panchina, serrati corpo a corpo, c'erano un uomo ed una donna, che
non si facevano affatto scrupolo di nascondere le proprie personali attività
serali, e dall'altra parte della strada un paio di ragazze che non avevano di
sicuro superato la maggiore età attendevano che qualcuno si avvicinasse loro per
guadagnare quel tanto che potesse accontentare un violento protettore. Tutti le
lacrime del mondo mi sembravano concentrate in quel piccolo angolo di città
dimenticato dagli uomini e da Dio.
Non ci fu nemmeno bisogno di parcheggiare, vidi Chad in piedi davanti al
portone cadente di un sudicio edificio che un tempo doveva essere stato verde,
con Olive avvolta in una coperta stretta tra le braccia. Salì in macchina senza
dire una parola.
“Vi porto al General Hospital? E’ il più vicino.”
“Dobbiamo andare alla clinica Hightingdale.”
“Ne sei sicuro? Ci vorrà almeno mezz’ora.”
“Sicuro.”
Senza porre ulteriori domande, mi misi a guidare. Dopo un po’, tuttavia, non
riuscii a sopportare il silenzio, e osai domandare:
“Che cos’è successo?”
“Non lo so.” mi rispose, e mi parve che la sua voce tremasse “Pensavo che
avesse l’influenza, ma ha perso conoscenza per qualche minuto. Ora sta dormendo,
ma ha la febbre alta.”
“Dov’è tuo padre?”
“Chi lo sa.” mi disse amaramente, e poi, come se si fosse pentito di quella
risposta, aggiunse “E’ partito.”
In quel momento, la piccola, che fino ad ora era rimasta tranquilla in
braccio al fratello, si mise a piangere.
“Dove stiamo andando? Ho freddo, Chad, voglio tornare a casa, a casa. Ti
prego.”
“Non avere paura, ranocchia, io sono qui, sono qui vicino a te, andrà tutto
bene. Stiamo andando dal dottore, perché ti possa curare e farti stare meglio.
Non avere paura, Liv, non lascerò che ti succeda nulla di male, te lo
prometto.”
Per un momento staccai gli occhi dalla strada e mi voltai, fissandolo a bocca
aperta. Lo vidi strofinare il viso contro quello della bambina, ed il cuore mi
si strinse.
Ciò che mi colpì non fu solo il suo tono di voce, così calmo e rassicurante
quando sapevo che stava morendo di paura, e nemmeno la tenerezza che trasudava
da ogni suo gesto. Quello che davvero mi spezzò il fiato e fece brillare i miei
occhi di lacrime, fu la fiducia totale ed incondizionata con la quale Olive
credette alle sue parole, la cieca condiscendenza con la quale si appoggiò al
suo petto e chiuse gli occhi.
Proprio come avrebbe fatto con un padre.
Poco dopo, giungemmo alla clinica e ci dirigemmo all’accettazione. Chad mi
ringraziò, come aspettandosi che me ne andassi, ma io lo tallonai. Qualunque
cosa fosse successa tra noi, quella notte l’avrei scordata, non avevo intenzione
di andarmene e lasciarlo solo.
Al banco, espose all’infermiera la situazione, e non ci volle molto perché la
piccola venisse messa su di una lettiga e portata via. Ci dissero di sederci in
sala di attesa, che sarebbe stata visitata e sottoposta ad alcuni esami e solo
dopo avremmo potuto parlare con un medico.
Ci accomodammo, e Chad appoggiò la testa fra le mani, chino in avanti.
Forse per il buio nell’abitacolo dell’auto, forse perché la mia attenzione
era stata focalizzata su Olive, ma non l’avevo guardato ancora, non davvero. Ora
lo feci, e ciò che vidi mi sbalordì.
Il suo viso era segnato da occhiaie scure, profonde, ed ombre grigiastre
circondavano gli occhi e la bocca. Nonostante portasse uno spesso maglione di
lana, era più che evidente che aveva perso peso, e parecchio, dall’ultima volta
che l’avevo osservato attentamente. Le sue mani tremavano leggermente, erano
graffiate in più punti, le unghie spezzate, e gli occhi erano lucidi e parevano
innaturalmente grandi nel viso smunto. Decisamente, nemmeno lui sembrava stare
molto bene.
“Ehi.” mi azzardai a domandare “ma tu sei sicuro di star bene? Non sembri
molto in forma.”
“Certo che sì.”
“Sei dimagrito.”
“Ti sbagli.”
“Non mi sbaglio per niente, si vede lontano un chilometro.”
“Sarà.”
“Cosa ti sei fatto alle mani?”
“Sono caduto.”
“Da quando cadendo ci si spezzano le unghie?”
“Ma cosa sei, la CIA? E’ Olive quella che sta male, io sto benissimo.”
“Hai gli occhi lucidi come se avessi la febbre.”
“Sono preoccupato. Ti pare..”
Non fece in tempo a finire la frase. Iniziò a tossire convulsamente, e più
sembrava che cercasse di soffocarli, più i colpi di tosse si facevano
insistenti. Si portò una mano al petto e l’altra alla schiena, in un gesto che
mi parve strano, e il suo viso divenne rosso e congestionato. Dopo quella che
sembrò un’eternità, si appoggiò allo schienale della sedia, ansimando
visivamente. Sembrava estenuato.
“Stai benissimo, non c’è che dire.”
“Infatti, è solo tosse.”
“Stavi per soffocare!”
“Forse Olive mi ha attaccato l’influenza.”
“Chad, non raccontarmi fandonie, io ti conosco bene. Cosa c’è che non
va?”
“Niente, va tutto benissimo. E poi, a te cosa importa? Io non sono altro che
un pigro indolente, giusto?”
“Così ti sei comportato.”
“In questo caso, faresti meglio a non passare troppo tempo con me. Potresti
finire per somigliarmi, sai.”
Sentii una rabbia cieca e furente farsi strada dentro di me. Era lui, quello
che era cambiato, lui che aveva messo in crisi i Wildcats, rovinato la nostra
ricerca e fatto soffrire Tay. Era colpa sua. Come osava comportarsi come se
fosse arrabbiato, come se fossimo noi gli irragionevoli?
Di nuovo, ebbi l’impressione di non conoscere la persona che mi stava
accanto. Chi era quel clone, e cosa ne aveva fatto di mio fratello? In preda
all’ira, mi alzai. Se fossi rimasto, credo che l’avrei colpito.
“Sai che ti dico? Hai proprio ragione. Non vale più la pena di passare del
tempo con te. Non so chi tu sia, ma non sei più mio fratello. Lui non mi avrebbe
mai mentito, lui non avrebbe fatto del male a nessuno. Io me ne vado.”
Con passo deciso, lasciai l’ospedale. Non mi voltai, non ebbi modo di vedere
il suo sguardo che, a differenza della voce, mi stava chiedendo aiuto, mi stava
implorando, con disperazione, di non voltargli ancora le spalle.
Lo lasciai lì, impaurito, devastato nello spirito e nel corpo, e me ne andai
con la mia rabbia, mentre lui affondava ancora, sempre più in basso. Chiunque
avrebbe notato che stava soffrendo, che era disperato, che era ferito sia
fisicamente che moralmente, ma per me, evidentemente, una partita di basket ed
un compito in classe contavano più del mio migliore amico.
XXxXxXxXxXx
Alle quattro in punto Chad si presentò al lavoro. Un medico, il dottor Close,
gli aveva spiegato che Olive aveva la polmonite, che sarebbe stata ricoverata
per un po’ perché le venissero somministrati degli antibiotici molto potenti,
che l’avrebbero guarita. Non doveva preoccuparsi, aveva detto il dottore, la
situazione non andava trascurata ma comunque non era grave.
Il dottor Close gli aveva anche fatto notare che la bambina sembrava molto
stanca, troppo stanca per la sue età, e troppo magra. Mangiava abbastanza,
dormiva abbastanza? Probabilmente, aveva detto, i batteri avevano avuto modo di
invadere il suo organismo perché era debilitato dalla fatica e dal troppo scarso
nutrimento.
L’ipotesi si contattare i servizi sociali era stata ventilata, ma quando
Chad, raggelato, aveva spiegato che loro venivano da West End, il medico aveva
desistito, probabilmente pensando che non valesse la pena di salvare certa
gente. Non era questo a fargli male, comunque, ma il fatto che la sua ranocchia
si fosse ammalata perché lui non aveva saputo prendersi cura di lei.
Certo che non dormiva abbastanza, si svegliava ogni notte alle urla di suo
padre, e dopo, quando la sveglia di quell’idiota del fratello suonava per il
lavoro. Certo che non mangiava abbastanza, il suddetto idiota non era riuscito a
racimolare più di tre dollari al giorno per comprarle da mangiare.
Certo che era debilitata, l’unico a prendersi cura di lei era un incapace,
insulso individuo che non era riuscito a portare a termine l’unica cosa che
contasse davvero nella sua vita, ed i fatti ne erano la prova.
Questi pensieri occuparono la sua mente per tutto il tempo in cui lavorò.
Lacrime calde lasciarono scie luccicanti sul suo viso coperto di polvere. Il
senso di inadeguatezza se n’era andato, aveva lasciato spazio alla
consapevolezza, all’ assoluta certezza della sua totale incapacità. Senza
dubbio si meritava questa vita, chi avrebbe potuto negarlo?
Risoluto, forte di questi pensieri, andò dal capo alla fine del turno.
“Signore, posso parlarle un attimo?”
“Che vuoi, ragazzo?”
“Mi chiedevo se… insomma, non le servirebbe aiuto per qualche altro lavoro,
magari di pomeriggio?”
“Hai bisogno di lavorare, eh, ragazzo? Non è che sei infilato in qualche
strano giro di droga vero?”
“No, signore.”
“Fatti guardare, ragazzo, girati un attimo.”
Stupito, fece come gli era stato ordinato.
“In effetti, ci sarebbe qualcosa, ma non di pomeriggio. Sai, io possiedo un
locale… un po’ speciale, ecco. Con una clientela particolare. Mi servirebbe un
barista, ed un bel ragazzo come te sarebbe l’ideale. Ai miei clienti piacerebbe
vedere un po’ di gioventù.”
“Mi scusi, credo di non avere capito.”
“Non dovresti fare altro che servire da bere, ed essere gentile con i
clienti, tutto qui, assolutamente nulla di strano o di illegale. Solo, si tratta
di uno strip-bar.”
“Un locale di spogliarello maschile?”
“Esatto, ed anche femminile, ma per quello ci sono gli artisti, tuttavia
spesso i clienti apprezzano anche chi sta dietro il banco.”
“Che orari, e quanto è la paga?”
“Potresti iniziare intorno alle dieci, e finire in tempo per venire qui. Sono
sette dollari l’ora.”
“Accetto. Mi dia solo l’indirizzo, stasera ci sarò.”
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Capitolo 7 *** 7 ***
l
Capitolo brevissimo, perché c’è un solo avvenimento degno di nota, ma
davvero, davvero degno di nota. Mi piacerebbe sapere che ne pensate, cosa
pensate del comportamento di un determinato personaggio. Non devo pregarvi,
vero? J Grazie mille a Vivy93, Herm90, romanticgirl,
totallycrazy, sinfony, armony_93, aqua princess.
Ore 06.30, 5 novembre
Avevo lavorato alla sfinimento, in quel locale dove sguardi troppo insistenti
si posavano su di me, e bruciavano. Avevo lavorato senza sosta al mercato,
subito dopo, offrendomi per ogni piccolo extra. Dopo la scuola, dormivo un paio
d’ore e poi andavo a trovare Olive, e tutto ricominciava.
Era lento, sempre più lento, e doloroso, sempre più doloroso.
Una mattina, mentre mi avviavo verso casa, caddi.
Nulla mi fece inciampare, semplicemente caddi a terra perché le mie gambe,
improvvisamente, si bloccarono. Rovinai a terra, sbattendo contro il ciglio del
marciapiede, e la mia schiena si inarcò in un apogeo di insopportabile pena.
Poi, anche i muscoli dorsali si bloccarono.
Tutto il mio corpo si rifiutava di muoversi, persino respirare era una fatica
inaudita. Pioveva e faceva freddo, molto freddo, o forse solo io lo sentivo, ma
il mio corpo estenuato aveva raggiunto il limite massimo, non poteva andare
oltre.
A tratti, la mia gola si chiudeva. Tentai, senza successo, di alzarmi, una,
due, tre volte, ma non riuscii nemmeno a contrarre le gambe. Ero, letteralmente,
paralizzato, per la fatica o per il dolore, non saprei dirlo.
La tentazione era di chiudere gli occhi, e finalmente, riposare, lasciarmi
andare, e se non fosse stato il sonno di una notte ad accogliermi, ma quello
eterno, in fin dei conti, chi mai si sarebbe dispiaciuto? Solo Olive avrebbe
pianto, ma lei era una bambina, e presto mi avrebbe dimenticato.
Tuttavia, non potevo abbandonare la lotta. Dovevo combattere, o, poiché al
momento non c’era nulla che potessi fare, trovare qualcuno che, per un po’
combattesse per me. La sola persona di cui ero certo, nonostante tutto, che
ancora potesse tenere a me, almeno un po’.
Per la seconda volta in una settimana composi il numero di mio fratello,
ringraziando Dio di non avere venduto il cellulare come avevo pensato di fare.
Incredibile a dirlo, ero sollevato. Non potevo negare di avere bisogno di aiuto,
di non poter andare avanti così nemmeno un’altra ora.
Quello che accadde dopo, non l’avrei immaginato nemmeno in un milione di
anni.
Era stato, da sempre, il mio specchio, il mio confidente, il mio sostegno,
come del resto io ero stato il suo. Ed ora, riattaccò.
Pensai che fosse un errore. Troy non mi avrebbe mai abbandonato, nonostante
tutto. Non poteva odiarmi fino a quel punto.
Eppure, lo fece una seconda volta, e poi una terza, ed allora capii che non
era stato un errore, ma un gesto voluto, dolorosamente volontario.
Allora capii che non avrei potuto cadere così in basso, e seppi, senza ombra
di ragionevole dubbio, di non avere più un’anima, non più un cuore, di essere
morto in quell’esatto momento. Per Olive avrei combattuto ancora, ma quello che
ero stato, ormai, era scomparso per sempre.
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Capitolo 8 *** 8 ***
l
Troy, prima persona.
Ero arrabbiato con lui, Dio sa quanto. Una rabbia cieca mi montava dentro
ogni volta che ci pensavo. Fu allora che il destino mi tese una mano.
Ero solo in casa, i miei genitori erano andati a trascorrere una settimana da
zia Muriel, in Alabama, e non sapevo come sfogare la mia ira, così decisi di
uscire a fare una passeggiata prima della scuola. Perché mi diressi verso il
mercato? Allora pensai che fosse perché ero sicuro, a quell’ora del mattino, di
non incontrare nessuno, ma ora credo che sia stato il fato a farmi camminare in
quella direzione.
Mentre camminavo, la mia attenzione fu attirata da una figura stesa a terra.
“Un altro drogato, ce ne sono in ogni angolo.” pensai. Poi, qualcosa in quel
profilo mi parve familiare.
Mi avvicinai, e lo riconobbi. Letteralmente, il mio cuore smise di
battere.
Era accasciato a terra, steso su di un fianco, adagiato nel canale di scolo
che divideva il marciapiede dalla strada, insieme ai rifiuti dei banchi di
frutta e verdura.La pioggia scorreva su di lui e sotto di lui, e l’acqua che si
allontanava dal suo corpo assumeva un colorito rossastro e funereo.
Indubbiamente, era mischiata a del sangue.
Potete credere che non fu questo a mozzarmi il fiato? Come se quell’orrore
non fosse abbastanza, avvicinandomi ulteriormente vidi che non era incosciente,
come avevo logicamente supposto, ma i suoi occhi erano aperti, e le gocce che
attraversavano il suo viso non erano pioggia.
Corsi accanto a lui, come se mi trovassi in un film dell’orrore.
“Chad. Chad! Cos’è successo, cosa stai facendo qui?”
Mi guardò come fossi un’apparizione, come avrebbe guardato un fantasma
sedersi accanto a sé.
“Troy.” disse solo.
“Chad, perché sei qui a terra?” chiesi stupidamente.
“Non riesco a muovermi.” sussurrò quasi impercettibilmente, come se il solo
sforzo di emettere suono gli costasse una fatica inaudita. “Sono troppo
stanco.”
La voce mi morì in gola. Poteva davvero essere troppo stanco per alzarsi? Per
spostare il suo corpo da un rivolo d’acqua sporca, da un cumulo di rifiuti sotto
l’acqua battente?
“Chiamo il 911. Dobbiamo andare in ospedale.”
“No. No, Troy, No. Se chiami il 911, rovini la vita di due persone, una delle
quali non lo merita. Non preoccuparti di me, lasciami qui, mi passerà. Vai pure,
vai a scuola, io me la cavo.”
La violenza di quelle parole mi colpì come un macigno in pieno stomaco. Non
stava scherzando, sapete, si aspettava davvero che io me ne andassi e lo
lasciassi lì, a terra, sotto la pioggia in mezzo ad una strada.
Prima che lo sdegno potesse farsi strada, mi resi conto che era esattamente
quello che avevo fatto.
“Ce la fai a mettermi un braccio attorno alle spalle?”
“No, non devi preoccuparti, lasciami qui.”
Incurante delle sue proteste, sollevai con delicatezza il suo braccio destro
e lo appoggiai attorno al mio collo. Come se fosse fatto di stracci, scivolò di
nuovo a terra, ed allora capii che davvero, letteralmente, non era più in grado
di muoversi. Forse avrei dovuto insistere per chiamare un’ambulanza, ma qualcosa
nella sua voce mi aveva spaventato.
Il più gentilmente possibile, passai una delle mie braccia sotto le sue
scapole e l’altra sotto le sue ginocchia e lo sollevai, provocando in lui un
gemito di dolore che mi strinse il cuore. Cosa mai poteva essergli successo? Chi
aveva ridotto mio fratello in questo stato, un corpo macilento abbandonato per
la strada?
Ed io dov’ero mentre accadeva?
Camminai verso casa, un solo isolato più in là. Non faticai come mi ero
aspettato. Era leggero, inspiegabilmente leggero. E, come un ritornello
ossessivo, come una preghiera, continuava a parlarmi.
Mi chiedeva di lasciarlo ed andare via, di appoggiarlo in un angolo, come
fosse un oggetto vecchio da buttare e di andare via.
Raggiunta casa mia, dovetti adagiarlo nuovamente a terra, per aprire la
porta. Non appena la sua schiena fu a contatto con il suolo, lui urlò, e capii
che, anche nella disperazione, la posizione in cui l’avevo trovato, disteso su
di un fianco, non era casuale.
Poco dopo, lo distesi il più delicatamente possibile sul letto dei miei
genitori, il più vicino all’ingresso.
“Troy, non importa, davvero, rimettimi fuori, ti prego.”
“BASTA!” gridai, con più aggressività di quanto avessi voluto, e lui mi
guardò con occhi imploranti, colmi di dolore.
“Credimi.” bisbigliò. “Non vale la pena di sprecare tempo con me.”
A quelle parole, la mia gola si chiuse.
“Oh, Chad, ma cosa ti hanno fatto?”
Oh, Chad, ma cosa io ti ho fatto? E soprattutto, cosa dovrei fare
adesso?
… a questa domanda, dovete rispondere voi, se vi va. Consideratela una storia
interattiva come quelle che leggevamo da bambini e ditemi che cosa fareste voi
adesso (è solo una mia curiosità, ma sarei felice se la soddisfaceste.)
Grazie MILLE alle migliori lettrici che la storia ricordi: Vivy93, soloio,
armony, sinfony_93, rebelgirl.
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Capitolo 9 *** 9 ***
l
Grazie mille ad Armony_93, Romaticgirl, Scricciolo91, Rebelgirl. Se finora ho
parlato di dolore, in questo capitolo voglio comunicare tenerezza. E’ un
capitolo molto, molto lento, dove ad ogni gesto ed ad ogni parola viene data la
massima attenzione (l’ho riletto e riscritto mille volte, perché volevo che ogni
parola fosse perfettamente calibrata.) Lo scopo era quello di dare a chi legge
l’impressione di trovarsi insieme a loro, in quella stanza, e trasmettere il
dolore ma anche la dolcezza di quei momenti. Fatemi sapere se ce l‘ho fatta o
meno, o non potrò mai migliorare. In particolare, vorrei sapere che pensate
della caratterizzazione dei personaggi: ho avuto qualche difficoltà perché
temevo di renderli troppo “femminili”, nonostante dal film la loro amicizia
appaia estremamente intima. Non penso di avere esagerato, ma dovete dirmelo voi.
Comunque, non vi illudete: non è ancora finita, non ci saranno solo rose e
fiori.
Troy, prima persona.
Milioni di pensieri, uno più angosciante dell’altro, affollavano la mia
mente. Mi sembrava che i miei neuroni scaricassero l’uno all’altro come
impazziti, eppure non riuscissero a comunicare tra loro. In più, il senso di
colpa stava per travolgermi, e un groppo di pietra artigliava la mia gola
impedendomi di respirare.
Rivolsi nuovamente lo sguardo a lui, e vederlo così immobile, con gli occhi
chiusi, mentre tremava e gemeva silenziosamente, come se io non avessi capito
che, per un motivo a me ignoto, stava soffrendo pene atroci, mi indusse a
versare una lacrima, una soltanto. Dopo, respirai a fondo e chiusi la mia mente
ad ogni pensiero. Dovevo pensare a lui e fare tutto ciò che era in mio potere
per alleviare almeno un poco la sua sofferenza così evidente ai miei occhi;
dopo, avrei avuto tutto il tempo di pensare e di permettere al senso di colpa di
fare di me un solo boccone.
Gli appoggiai una mano sul viso: volevo, semplicemente, fargli una carezza,
fargli capire che adesso ero lì e che, nonostante io fossi stato un perfetto
idiota, ora mi sarei preso cura di lui. Così mi resi conto che doveva avere la
febbre alta, perché, al tatto, la sua pelle scottava.
“Coraggio.” dissi dolcemente “Dobbiamo togliere questi vestiti, sono bagnati
fradici.”
“Non importa, si asciugheranno presto.” biascicò.
Ignorandolo, giacchè, comunque, non poteva muoversi e perciò nemmeno
impedirmelo, sollevai delicatamente lo spesso maglione di lana, di cui ogni
fibra era intrisa di acqua gelida.
Quando ebbi modo di osservare quello che celava, e capii perché non voleva
che io lo vedessi, rabbrividii, in preda all’orrore, e dovetti costringere me
stesso a non lasciare la stanza di corsa.
Non un solo centimetro di pelle era rimasto intatto. Ovunque, vedevo graffi,
abrasioni e vere e proprie ferite, lividi, bruciature, cicatrici. Sembrava che
il suo petto fosse stato sostituito da un’unica, immensa distesa di sangue ormai
secco. Un taglio netto, in particolare, lo attraversava da parte a parte, a
partire dall’addome su fino al collo. Inoltre, dire che aveva perso peso sarebbe
stato riduttivo: potevo vedere distintamente le sue costole, un buon numero
delle quali era senza dubbio rotto, contarle ad una ad una, toccare lo sterno e
le clavicole, perché tra le ossa e quel che restava della pelle non era rimasto
più nulla.
Per quanto fossi delicato e gentile, ogni movimento, anche il più lieve ed
appena accennato, gli provocava spasmi di dolore, e presto non potè più impedire
alle lacrime di attraversare il suo viso, sempre in perfetto silenzio ed ad
occhi chiusi.
Lo voltai, e mi avvidi che la sua schiena era in condizioni anche peggiori:
alla base di essa vedevo un gonfiore livido, nero come il carbone e pulsante,
mentre un’estesa area di tumefazione lo circondava. Non riuscivo nemmeno ad
immaginare quanto dovesse essere doloroso. Come aveva potuto muoversi in queste
condizioni?
Uno ad uno, gli tolsi tutti quei capi di abbigliamento bagnati e gelidi.
Poche aree del suo corpo avevano scampato il martirio. Per fortuna, se c’era una
cosa che sapevo fare era medicare: dopo tanti anni di basket, avevo imparato a
mie spese tutti i segreti della disinfezione e del bendaggio. Presi un catino di
acqua tiepida e dell’alcool e, uno ad uno, lavai e disinfettai ogni ferita.
Bendai la sua schiena e lo rivestii con abiti asciutti.
Erano passate quasi due ore e nessuno di noi aveva proferito parola.
Mi diressi in cucina e preparai del tè. Presi due compresse di tachipirina e,
sperando che fosse la cosa giusta, gliele porsi, poi avvicinai la tazza alle sue
labbra perché bevesse, sperando che quel liquido caldo e zuccherato gli
restituisse un po’ di forze.
Ci impiegò un’eternità a finirlo. Dopo, mi osservò solo per un attimo, e
capii con un solo sguardo che credeva che stessi facendo tutto ciò solo per
pietà.
Quanto mi ferì, quello sguardo.
Mi inginocchiai in modo che i nostri volti fosse alla stessa altezza.
“Va un po’ meglio?”
“Sto bene. Tra poco me ne vado, te lo prometto.”
Ancora, mi si strinse il cuore.
“Non puoi andare via.” gli dissi dolcemente. “Hai la febbre alta, non ti
reggi nemmeno in piedi. Penso che dovremmo chiamare un dottore.”
“Ti prego, Troy, non farlo. Non tradirmi.”
“Perché no?” domandai allora.
“Farebbe troppe… domande.” mi rispose, spaventato. In quel momento, venne
colto da un accesso di tosse. Come quella sera in ospedale, diede l’impressione
di soffocare, il suo viso divenne congestionato, ed ora che avevo visto com’era
ridotto, capii quanto dovesse fargli male un atto semplice e naturale come la
tosse. Lo aiutai a mettersi in posizione seduta, e mi sedetti accanto a lui,
avvolgendo una delle mie braccia attorno alle sue spalle, per dargli conforto ma
anche perché se non l‘avessi sostenuto sarebbe caduto all‘indietro, visto che
non poteva nemmeno rimanere seduto senza aiuto. Continuò a tossire per quella
che mi parve un’eternità, tossì a al punto che fu travolto da conati di nausea
nonostante da giorni non avesse più nulla nello stomaco, e feci appena in tempo
ad afferrare il catino con l’acqua. Per tutto il tempo fui io a reggerlo in
posizione seduta, con la sola forza del braccio dietro le sue spalle, ma non
ebbi alcun problema, e constatarlo mi spaventò. Era così leggero, così fragile.
Quando ebbe finito, ebbi l’impressione che lo sforzo avesse prosciugato tutta
l’energia che gli era rimasta. Ricadde addosso a me, esausto ed ansimante.
“Mi dispiace, Troy. Non avresti dovuto assistere aquesto spettacolo pietoso.
Se mi aiuti ad uscire, posso andarmene.”
Gli dispiaceva che io avessi assistito a tutto questo. Io, l’essere infame
che lui considerava un fratello, quello che l’aveva lasciato solo in queste
condizioni per settimane intere.
“Ti dispiace? Io cosa dovrei dire, allora? Io pensavo di essere il tuo
migliore amico ed ho lasciato che ti accadesse tutto questo senza avere il
minimo sospetto. Io avrei dovuto saperlo, avrei dovuto proteggerti, e quello che
ho fatto è stato rendere le cose ancora peggiori. Tu non hai nulla di cui
dispiacerti, sono io il mostro.”
“Non mi hai chiesto nemmeno una volta cosa sia accaduto.”
“Me lo diresti?” gli chiesi piano.
Lentamente, annuì. Poi, iniziò a parlare, e fu come se avessi aperto il vaso
di Pandore. Fui travolto da un’ondata di atrocità tali che non avrei nemmeno
potuto immaginarle. Man mano che procedeva con il racconto, mi avvicinavo a lui,
come se con il contatto fisico potessi tornare indietro e cancellare la mia
totale incuranza, come se potessi assorbire la sua sofferenza solo standogli
vicino e, credetemi, l’avrei fatto senza esitare.
Io l’avevo considerato un fratello per tutta la vita, ed ora lui era stato
percosso a sangue ogni notte per settimane fino a spezzargli le ossa, era
sofferente, era malato e quasi morto di fame, ed io non avevo avuto il minimo
sospetto. Io l’avevo chiamato sfaticato, indolente, io l’avevo abbandonato
quando mi aveva cercato perché andassi a raccoglierlo da una strada.
Io, il suo migliore amico.
Quando smise di parlare, mi resi conto che non poteva sopportare nemmeno un
altro piccolo sforzo. Era distrutto, sia fisicamente che emotivamente.
Ed anch’io.
“Perché non ti riposi, ora? Hai bisogno di dormire.”
“C’è ancora una cosa. Questa mattina, quando sono caduto e non riuscivo a
rialzarmi, io… io sono stato egoista, così egoista come non potresti mai
immaginare. Sai, io ho il dovere di… insomma, io devo continuare a lavorare, per
Olive, perché lei si è ammalata per colpa mia, perché io nono sono stato in
grado di darle ciò che le serviva, ed invece di farmi forza, io ho..” respirò a
fondo. “Ho desiderato di morire.”
Allora, definitivamente, il sangue si raggelò nelle mie vene.
Aveva desiderato di morire, solo come un cane in mezzo ad una strada
sotto la pioggia, mentre noi continuavamo a vivere in pace, noi, i suoi amici,
la ragazza che diceva di amarlo, tutti quanti, e lui aveva desiderato di
morire.
Forse sarei stato in grado di curare il suo corpo, ma quando diceva di
sentirsi in colpa, lui, per la malattia della sorellina, per non essere
stato in grado di procurarle da mangiare, era serio. Intimamente, era certo che
la colpa di ogni cosa fosse stata solo ed esclusivamente sua. Non c’erano
abbastanza soldi? Avrebbe dovuto lavorare di più. Olive aveva capito che lui
veniVa picchiato ogni sera? Avrebbe dovuto nasconderlo meglio. Io e Taylor gli
avevamo voltato le spalle? Ma certo, se lo meritava. In fondo, nella sua
testa era tutta colpa sua.
Come avrei potuto curare questo?
Lo abbracciai, incapace di parlare, ma, nonostante avesse voluto raccontarmi
la verità, rimase rigido tra le mie braccia. Se fosse stato perché mi odiava,
perché non si fidava di me dopo quello che avevo fatto, allora gli avrei dato
ragione, ma lui non si lasciava andare perché credeva di non meritarsi il mio
affetto e la mia attenzione. Mi aveva permesso di prendermi cura di lui solo
perché non aveva la forza di opporsi.
Non so per quanto tempo rimanemmo immobili, ma mi allontanai non appena mi
resi conto che si era addormentato. Era un sonno agitato, ma pur sempre sonno, e
ne aveva disperatamente bisogno.
Scrissi un messaggio a Gabriella e Taylor, chiedendo loro di raggiungermi a
casa subito dopo la fine delle lezioni del mattino. Poi, mi sedetti sul gradino
di fronte a casa.
Quando arrivarono, io stavo ancora singhiozzando senza posa.
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Capitolo 10 *** 10 ***
l
Avevo cercato di spiegare alle ragazze la situazione come meglio potevo,
nonostante in certi punti del racconto le lacrime mi impedissero di
proseguire.
Quando lo immaginavo a terra, sanguinante, per esempio, mentre cercava di
rimettere insieme le sue ossa doloranti per andare al lavoro; mentre lo
immaginavo intento a divorare avanzi marcescenti rubati chissà dove, quasi morto
di fame; e poi, quando lo rivedevo riverso in mezzo alla strada sotto la
pioggia, incapace di muoversi, mentre desiderava di morire.
Non appena ebbi finito di parlare, Gabriella si strinse a me, mentre Taylor
teneva il capo chino e guardava il vuoto, immobile. Il silenzio era denso,
insopportabile, come se invece di aria stessimo respirando cotone bagnato. Il
senso di colpa artigliava le nostre menti ed i nostri cuori massacrati.
O almeno così credevo.
“Cosa facciamo adesso?” disse infine Taylor. “Non possiamo lasciare che le
cose vadano avanti così. Lo ucciderà se non la smette.”
“Non possiamo nemmeno denunciarlo, non se lui non vuole. Li condanneremmo a
finire entrambi in quell’orfanotrofio.”
“Sempre meglio che vivere con un padre che ti massacra di botte!”
“Non possiamo tradire il suo segreto. Glielo dobbiamo.”
“Non mi pare che il suo giudizio sia molto obiettivo, al momento. Una persona
sana di mente avrebbe ammesso la verità molto prima. A meno che… insomma, mi
pare che questa storia sia un po‘ strana. Venire a sapere una cosa così orribile
e non poter fare nulla se non essere carini e servizievoli nei suoi confronti.
Chi mai manterrebbe il segreto, al posto suo? Non ha senso, a meno che non ci
sia un altro scopo. A meno che lui non voglia tenerci ai suoi piedi senza che
noi possiamo fare nulla.”
“MA COS’HAI NELLA TESTA?” urlai. “A COSA PENSI? Stava cercando di proteggere
una bambina. Stava cercando di mantenere insieme quello che resta della sua
famiglia da solo! Ha rinunciato ai suoi amici, a te, alle cose più care che
aveva al mondo per il bene di un’altra persona! COME OSI PARLARNE IN QUESTO
MODO?”
Taylor mi guardò fisso negli occhi. Mi chiesi a cosa stesse pensando.
“Tu come fai a sapere che è vero? Come fai a sapere che non sta solo
recitando la parte dell’eroe tragico per giustificare il suo comportamento e
ricevere attenzione gratuita ed immeritata?”
“Vuoi dare un’occhiata tu stessa? Accomodati pure. Guarda una parte del suo
corpo, una qualsiasi, e poi dimmi cosa ne pensi.”
“Ci sono tanti modi di procurarsi delle lesioni, Troy. Può anche averlo fatto
da solo. Oppure, potrebbero sì averlo picchiato, ma non per i motivi che pensi
tu. Forse suo padre, come tutti i padri, si è stancato di avere un figlio
sfaticato che non raggiunge mai un obiettivo. Oppure si è messo con una di
quelle bande del suo quartiere ed è finito in una rissa.”
Continuai a fissarla a bocca aperta, dubbioso.
“E allora perché è dimagrito così tanto? Perché si è ammalato?”
“Potrebbero esserci molte spiegazioni.”
“Per esempio?”
Taylor inspirò.
“Per esempio, droga. Questo spiegherebbe perché è cambiato così tanto, perché
sta male e perde i sensi in mezzo alla strada, perché ha bisogno di soldi. L’hai
detto tu stesso, che quando l’hai visto hai pensato che fosse un altro drogato.
E se non ti fossi sbagliato?”
In effetti, le spiegazioni di Taylor erano molto convincenti. Poco prima, ero
preso dall’angoscia, ma ora, alla luce del sole, la storia che Chad mi aveva
raccontato sembrava così inverosimile. Così… folle.
E se fosse stata solo una menzogna?
“Pensaci bene, Troy. I padri non fanno certe cose ai figli. Lo sappiamo, come
sono i ragazzi di West End. Pensavamo che Chad fosse diverso, ma ci eravamo
sbagliati. Vuoi davvero lasciare che ci prenda tutti in giro, di nuovo?”
Chad, prima persona.
M ero svegliato, e mi sentivo decisamente meglio. Decisamente per quanto
fosse possibile, ovviamente. Mi pareva che la febbre fosse scesa un po’, e non
avevo più nausea, anzi, stavo morendo di fame. Prima di allora, non avevo mai
capito cosa volesse dire davvero avere fame, la fame cronica, sconosciuta a chi
non l’ha mai sperimentata. Quel baratro aperto dentro di te che rende ogni cosa
più pallida. Quella necessità imprescindibile che risveglia istinti primordiali.
Ora, la conoscevo più che bene.
Inoltre, riuscivo a muovermi. Il dolore era sempre lì, ma non mi impediva di
alzarmi e camminare. Anche se sarebbe stato atroce, già lo immaginavo, anche
quella sera sarei riuscito ad andare al lavoro.
Continuavo, certo, a sentirmi in colpa. Troy era stato così buono con me,
così dolce, eppure non lo meritavo affatto. Tuttavia, pur rendendomi conto di
quanto fosse egoista da parte mia, ero felice che ora lui sapesse. Stare senza
mio fratello era stato per me come stare senza un braccio o una gamba, lui era
una parte imprescindibile di me, spesso mi sentivo come se fossimo la stessa
persona.
Non ero sicuro di poter vivere a lungo senza Troy.
Questo, fino a che non sentii altre voci provenire dal salotto, voci che
conoscevo bene. Una voce, in particolare, melodiosa come sempre, fece compiere
al mio cuore già sovraffaticato un balzo verso l‘alto.
Quanto amavo Taylor. In tutta la vita non avrei mai immaginato di essere
capace di amare una persona al punto da avere la sensazione di respirare solo
per lei.
Non potei fare a meno di sentire quello che stavano dicendo. In un solo
attimo, quel blando senso di sollievo sparì, il piccolo spiraglio di speranza di
chiuse indissolubilmente.
Parlavano di denunciare mio padre.
Un brivido percorse la mia spina dorsale. Non potevano farlo, non potevano
tradirmi. Non potevo permettere che Olive finisse al centro di accoglienza, in
mezzo a quella gente. Lei, così dolce ed ingenua, così indifesa.
Avevo paura, una paura che partiva dal profondo ed oscurava i miei sensi.
Pensai di irrompere nella stanza ed implorarli di non farlo, quando mi resi
conto che la conversazione aveva preso un’altra piega. In silenzio,
ascoltai.
“Pensaci bene, Troy. I padri non fanno certe cose ai figli. Lo sappiamo, come
sono i ragazzi di West End. Pensavamo che Chad fosse diverso, ma ci eravamo
sbagliati. Vuoi davvero lasciare che ci prenda tutti in giro, di nuovo?”
Troy non disse nulla, non una parola.
Non permettevo spesso a me stesso di piangere, sapete, non spesso almeno.
Piangere non serve a nulla. In quel momento, tuttavia, mentre ascoltavo quello
che le persone che amavo di più al mondo dicevano di me, non fui abbastanza
forte da trattenere le lacrime.
Davvero potevano pensare questo di me? Davvero potevano credere che mi fossi
inventato tutto, che avessi mentito a quel modo? Che mi fossi approfittato di
loro così spudoratamente? Per un attimo, ebbi la tentazione di riportarli alla
realtà. Era di me che stavano parlando, non di uno sconosciuto. Sono tuo
fratello, Troy, sono quello che farebbe di tutto per te, Taylor. Poi, in un
attimo, mi resi conto che se davvero potevano credere che quella fosse tutta una
messa in scena, allora c’era qualcosa di sbagliato. Dopo tanti anni, non potevo
pensare che non mi conoscessero abbastanza.
Forse la verità era che mi conoscevano meglio di quanto io conoscessi me
stesso. Anche se quella volta si sbagliavano, probabilmente avrebbero potuto
benissimo avere ragione, perché io non dovevo essere la persona che credevo di
essere, non se loro la pensavano in questo modo. Questo spiegava il mio
senso di colpa; dopotutto, ero davvero un mostro. Altrimenti, perché sarebbero
arrivati a tanto? Non potevano volermi male senza motivo, non Troy, non
Taylor. La mia fiducia in loro era sconfinata ed inattaccabile, molto più
salda della fiducia che avevo in me stesso. Ero io che li avevo portati
all’esasperazione, proprio come con mio padre, ogni notte.
Mio padre, mio fratello, la mia ragazza: avevo avuto lo stesso effetto su
tutti quanti. Se fino ad ora non me ne ero reso conto, chissà quante altro volte
nella mia vita avevo fatto del male alle persone che amavo senza saperlo. Avrei
finito per farlo anche con Olive, probabilmente. Avrei portato anche lei
all’esasperazione fino a che non mi avrebbe odiato. Dovevo correre ai
ripari.
Se non altro, mi si stava offrendo un’inaspettata, ottima via di uscita.
Con decisione, aprii la porta e mi diressi in salotto. I loro sguardi si
posarono su di me. Bruciavano come lava sulla mia pelle, pesavano come
macigni.
Un fulmineo bagliore attraversò la sguardo di Troy.
“Chad! Hai sentito tutto?” mi chiese piano.
Povero amico mio, ti senti persino in colpa per me?
Annuii.
“Chad, noi non intendevamo… davvero, non..”
“Fa silenzio, Troy. Non c’è altro da dire. Taylor è più intelligente di te,
l’ho sempre saputo. Ha capito ogni cosa. Ha ragione, questa è esattamente la
verità.”
Troy rimase impietrito in mezzo alla stanza.
“Tu… tu mi disgusti, Chad Danforth.” disse Taylor. “Sento la nausea solo a
guardarti. Vorrei non averti mai incontrato.” In lacrime lasciò la stanza,
seguita a ruota da Gabriella.
Troy mi si avvicinò.
“Guardami negli occhi e dimmi che davvero mi hai mentito.” mi disse. Sentivo
chiaramente il suo dolore, la sua amarezza, la sua delusione. Stava perdendo
l’altra metà del suo mondo, dopo tutto.
Se avessi saputo prima di essere così sbagliato, non vi avrei permesso di
avvicinarmi a me.
“Sì, ti ho mentito.”
“Io ho pianto disperatamente. Io mi sono sentito in colpa come nemmeno puoi
immaginare. Mi sono preso cura di te come non avevo mai fatto con nessuno. Io ti
volevo bene, dannazione! Pensavo che fossi mio fratello! Come hai potuto farmi
questo?”
Averi dovuto rispondere diversamente, ma non potei trattenermi dal dire:
“Mi dispiace.”
“Ti dispiace? TI DISPIACE?”
La sua amarezza era diventata ora rabbia cieca, furia inarrestabile. Era
Troy, ma era anche mio padre, aveva lo stesso sguardo, proprio lì, di fronte a
me.
Mi colpì con forza al viso. Sentii un fruscio, poi un suono ovattato, e il
sapore metallico del sangue in bocca. Doveva avermi rotto la mascella.
Barcollai, ma non caddi. Eppure, quel colpo mi fece più male di qualsiasi
cosa mi avesse fatto mio padre in passato, immensamente di più.
Mi voltai per andarmene, e lui mi colpì ancora, sonoramente. Non so se
l’avesse fatto volontariamente o meno, ma colpì la mia schiena esattamente in
quel punto. Sentii il peggior dolore ma provato in tutta la mia vita, e non era
dir poco. La mia vista si oscurò, le orecchie iniziarono a ronzare, di nuovo il
mio stomaco si capovolse in preda alla nausea.
Gabriella aveva raggiunto Troy e aveva afferrato le sue mani.
“Basta Troy, smettila!”
“Non sporcarti le mani con lui.” aggiunse Taylor.
Troy nemmeno le ascoltò. Era ancora rivolto a me.
“Non cercarmi, non parlarmi, non ti avvicinare mai più a me o a nessun altro
dei nostri amici, sono stato chiaro? Sparisci dalle nostre vite. Per
sempre.”
Ok, ammettetelo, questo non ve lo aspettavate. Vi ho stupiti almeno un
pochino? Non poteva essere tutto così facile, altrimenti che dramma sarebbe?
Prima di sbranarmi, però, pensateci un attimo. E’ vero, nella mia storia Troy è
davvero un mostro, e così pure Taylor (forse ci sarà un riscatto alla fine,
forse no, non voglio anticipare nulla…). Eppure, la loro reazione vi pare
inverosimile? A me no davvero, comunque a voi l’ardua sentenza.
Grazie di cuore alle splendide (ma sul serio!) Romaticgirl, Raffaella,
scricciolo91, armony_93, herm90, Sinfony, rebel girl, ed in particolare a
Vivy93: adoro le tue recensioni interattive, quando dai consigli ai personaggi,
davvero, mi fanno impazzire!
A tutte voi, una buona domenica! E’ possibile che nella prossima settimana
aggiorni meno di frequente. Un abbraccio!
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Capitolo 11 *** 11 ***
l
La prima parte di questo capitolo è un vero e proprio APOGEO della tristezza,
ma è la fine: prometto che dal prossimo almeno alcune cose andranno meglio, lo
prometto solennemente. La seconda parte, invece, è un esperimento. Io ci ho
davvero messo il cuore, ed anche l’anima: lo scopo era quello di renderla il più
dolce possibile, di far stringere il cuore a chi legge. Potreste odiarla o
amarla, io questo non lo so, ma visto l’impegno che ci ho messo, per piacere
ditemi che ne pensate.
Grazie di cuore per tutte le meravigliose recensioni interattive che ho
ricevuto. Erano stupende! Siete sempre libere anche d criticarmi, non
dimenticatelo. Un abbraccio sincero a Vivy93(sempre spettacolari le tue
recensioni), armony_93(direi altri 4 capitoli più o meno, ma non sono certa),
sinfony, scricciolo91, herm90 (a proposito, ti ho mandato una mail),
romanticgirl, Raffaella, aqua princess, me. Siete davvero troppo generose di
complimenti, mi fate arrossire J
Chad, prima persona.
Erano passati due giorni da quando la mia ultima speranza era andata a farsi
benedire. Erano stati due giorni terribili.
A scuola, tutti mi guardavano come se fossi un appestato. Troy e Taylor non
dovevano essersi fatti scrupolo a raccontare in giro che io ero un drogato, solo
un altro dei negri senza orizzonti che popolano le periferie cittadine. Alcuni
sembravano avere paura di me, altri mi osservavano con ribrezzo, e nessuno,
nessuno sembrava avere dei dubbi in merito.
Fino a poco tempo fa ero il vice capitano dei Wildcats, il migliore amico del
ragazzo più amato della scuola, ora solo quello da tenere alla larga.
Che mi importava, in fondo? Il giudizio degli estranei non aveva molto
valore, per me. Solo quello delle persone che amavo contava qualcosa, ed erano
state davvero molto chiare.
Durante il pranzo, ero seduto in un angolo, solo. Tutto ciò che avevo in
mente era il mio pranzo, finalmente la bestia si sarebbe calmata, almeno per un
po’. Poi, tutta la squadra sfilò davanti a me per raggiungere il proprio tavolo,
e tutti mi guardarono in quel modo.
Non immaginavo che potesse fare tanto male. Nulla al mondo avrebbe dovuto
fare tanto male.
Nell’ora libera andai nell’ufficio del preside. Stavo solo accelerando
l’inevitabile, mi avrebbe senz’altro fatto chiamare a giorni.
“Si accomodi, Danforth.” mi disse. “Che cosa voleva dirmi?”
“Ho lasciato la squadra di basket, signore. So che mi è stato concesso di
frequentare questa scuola solo affinchè io giocassi nei Wildcats, ed ora che li
ho lasciati, immagino di dover tornare alla scuola pubblica, a West End.”
“Ha ragione, Danforth. L’avrei convocata a giorni per comunicarglielo. Mi
dispiace, lei ha buoni voti ma non abbastanza per giustificare una borsa di
studio per merito.”
“E’ giusto che io me ne vada. Qualcun altro dovrebbe avere la possibilità di
frequentare questa scuola al posto mio. Alla West High le cose vanno
diversamente, è un altro mondo.”
“Senta, Danforth.” cominciò, schiarendosi la voce. “Ho sentito alcune…
chiamiamole notizie, sul suo conto, e mi chiedevo se fossero vere.”
“Non so a cosa si riferisca, signore.”
“Lei fa uso di sostanze stupefacenti?”
“Grazie, coach Bolton.” pensai, e poi risposi “Secondo lei, signore?”
Il preside divenne livido di rabbia di fronte a tanta arroganza.
“Certe cose non sono tollerate, in questa scuola! Lei è sospeso! Da lunedì,
riprenderà a frequentare la West High. Là saranno senz’altro più attrezzati per
gestire questo tipo di situazioni.”
Senza una parola, me ne andai. Avevo un solo pensiero.
“Tre giorni senza scuola, un fine settimana, cinque giorni senza cibo.” Non
mi importava di altro. In fondo, che ci stavo a fare, ormai, alla East High? Non
c’era più nessuno o nulla per cui valesse la pena di rimanere. Meglio tornare
alla scuola pubblica, a quel covo di delinquenti.
Mi ero illuso di esserne uscito, ma non era mai stato così.
I giorni passarono, uno uguale all’altro. La mia piccola principessa stava
sempre meglio, il giorno dopo avrebbe potuto tornare a casa. Di fronte a lei,
ero un esempio di allegria e buonumore. Le portavo dei regali che la facevano
felice, cantavo per lei, le raccontavo favole. Sorrideva, era serena.
Mio padre non era stato felice di sapere che mi avevano espulso da scuola. I
segni del suo disappunto erano ben visibili sul mio corpo. Ogni notte si
ripeteva la stessa identica commedia. Ormai, il mio corpo non reagiva più. Quasi
non sentivo più il dolore, non pensavo più a nulla. Andavo solo avanti, senza
scopo, senza sentimenti o emozioni. Mi sentivo costantemente la testa leggera,
talvolta la mia vista si oscurava per un po’. Talvolta cadevo a terra senza
forze, come quella mattina al mercato, ma ormai non c’era nessuno a
interessarsene. Alla West High uno svenimento non faceva certo notizia, ed a
casa serviva a salvarmi dalla rabbia di mio padre. Non sentivo nemmeno più la
fame, mi capitava di non toccare cibo per due o tre giorni di fila, ma
nonostante ciò continuavo a dare di stomaco in continuazione, chissà perché.
Tornato alla scuola del mio quartiere, avevo ritrovato i miei vecchi compagni
di scuola. La maggior parte di loro faceva parte di qualche banda, e spaccio e
bullismo erano all’ordine del giorno. Per anni mi avevano considerato un
traditore del proprio sangue, andavo alla scuola dei ricchi dopotutto. Loro
consideravano stupido che io volessi andare al college, costruirmi un futuro,
andavano a scuola solo per crearsi una rete di contatti ed attaccare rissa
quando capitava. Ora, avevano un nuovo bersaglio.
Non che non fossi un bersaglio per i vecchi compagni, ad ogni modo. Quando si
era sparsa la voce che lavoravo allo “Hole Strip Quest”, un gruppo di loro era
venuto a passarvi una serata. Sembravano trovare divertente il fatto che io
dovessi servirli, ed anche gli scherni che abitualmente mi venivano rivolti da
altri clienti. Ciò che davvero mi fece male fu riconoscere, seduti tra loro,
Zeke e Jason con Sharpay e Kelsi, e, ovviamente, Ryan.
La verità era che non mi importava di nulla. Nulla aveva più senso, io non
stavo più vivendo davvero. Avrei lavorato sodo per garantire ad Olive un futuro,
non appena fossi stato maggiorenne l’avrei portata via di lì. Lei sarebbe andata
al college, sarebbe stata felice. Quello che sarebbe stato di me non era
rilevante.
Non era rimasto più nulla di umano, in me.
Quella sera, avevo finito di lavorare più tardi del solito. Ero stanco, e mi
sembrava che le cassette del mercato pesassero come macigni. Al locale c’era
stata una gran folla, c’era un partita dei Lakers, e non avevo avuto nemmeno un
attimo di riposo. Ma a chi importava, dopotutto?
Mi avviavo lentamente verso casa, nella nebbia del primo mattino, quando vidi
un profilo ben noto avanzare verso di me.
Mio padre.
“Cosa ci fai qui?” chiesi, sperando che non fosse lì per me.
“Un uccellino.” iniziò, e capii dalla sua voce che aveva bevuto, e parecchio.
“Mi ha detto che mio figlio lavora al fottuto locale di Craig Wide da settimane.
Mi chiedevo perché io non ne sapessi nulla. Che cosa ne fai dei soldi, piccolo
bastardo? Te li giochi, te li bevi? Vai a donne?” urlò.
“Ci pago l’affitto e do da mangiare a mia sorella!” urlai di rimando.
Fu un errore. L’avevo sfidato, in un luogo pubblico. Non l’avevo mai visto
così arrabbiato prima d’ora. Come un toro, caricò. Mi colpì allo stomaco, al
viso, al petto, alla schiena. Lo lasciai fare senza oppormi. Non mi
importava.
Caddi a terra. Lui si appoggiò sulla mia gamba destra con tutto il suo peso.
Sentii l’osso fracassarsi, e mi preoccupai di come avrei fatto a lavorare con
una gamba rotta.
“Ti prego, smettila. Mi vuoi ammazzare?”
“AVRESTI DOVUTO PENSARCI PRIMA DI MENTIRMI! Mi hanno chiamato dalla clinica
gratuita, dicendo che dovevo andare a prendere tua sorella che veniva dimessa.
Mi avevi detto che si trovava in gita con la scuola, Chad. Mi hanno fatto delle
domande, in ospedale. Sono arrabbiato, molto, molto arrabbiato.”
Un oggetto contundente colpì la mia tempia, e poi fu il buio.
XxXxXxXx
Olive, prima persona.
Papà era venuto a prendermi in ospedale la sera prima, e non aveva detto una
parola, ma papà non parlava mai molto con me. Quando arrivammo a casa, però,
Chad non era lì.
Chad era sempre a casa, all’ora di dormire. Mi raccontava una favola, e
cantava, se non era troppo stanco. Io avevo paura, non potevo prendere sonno
senza mio fratello, o sarebbe arrivato l’uomo nero e mi avrebbe portata via.
Piansi a lungo. Volevo mio fratello, ma lui non arrivò. Ero molto arrabbiata
con Chad, aveva promesso di non lasciarmi mai da sola. Ero molto arrabbiata.
Quando finalmente fu giorni, sospirai. L’uomo nero, per quella volta, mi
aveva risparmiata. Rimasi a letto, però, visto che non c’era mio fratello a
svegliarmi e prepararmi la colazione doveva essere domenica, forse si poteva
rimanere a letto fino a tardi.
Anche se, a pensarci bene, ultimamente Chad non restava a giocare con me a
letto fino a tardi, neanche quando non c’era scuola.
A un certo punto, sentii dei rumori dal piano di sotto. Mi alzai di
corsa. L’avrei sgridato come lui faceva con me quando non mi comportavo bene o non
obbedivo alle regole del suo stupido gioco. Non doveva lasciarmi da sola di
notte.
Papà entrò in casa insieme a Chad. Erano come… abbracciati, chissà perché.
Papà lo teneva in braccio come si fa con i bambini piccoli.
Papà non era molto attento a quello che faceva, però, perché subito dopo lo
fece cadere a terra con un gran tonfo. Mi scappava da ridere, ma le regole del
gioco erano che quando papà era in casa si faceva silenzio.
Quando papà se ne andò, mi avvicinai a Chad che faceva ancora finta di
dormire per terra. Ero ancora arrabbiata con lui, con tutta la paura che avevo
avuto quella notte.
Lo scossi e lo agitai ma non si svegliò. Forse dormiva sul serio. Eppure, lui
aveva il sonno leggero, di solito.
Aspettai, ma mio fratello non si svegliò. Quel gioco non mi piaceva più
tanto, anche se il premio fosse stato bellissimo volevo smetterla.
“Chad, dai, adesso basta, ho paura, parlami. Non mi va più di giocare a
questo gioco.”
In quel momento Therese aprì la porta ed entrò in casa come faceva sempre.
Nel nostro palazzo le porte non si chiudevano mai a chiave.
“Cosa fa tuo fratello?”
“Fa finta di dormire per uno stupido gioco.”
“Oh. Avete fatto finta di picchiarvi? Io e mamma lo facciamo sempre.”
“No, perché?”
“Bè, sembra che gli esca il sangue, non vedi?”
Guardai con più attenzione. C’era del liquido rosso attorno alla sua testa ed
in mezzo ai capelli, in effetti.
“Quello è sangue?” chiesi spaventata. Non l’avevo capito.
“Penso di sì.” Anche la mia amica non era tanto tranquilla.
“Basta, non voglio più giocare!” esclamai mettendomi a piangere.
“Che gioco è?” mi chiese, curiosa, ed io smisi di piangere. Mi piaceva avere
dei segreti.
“Chad ha detto che è un segreto, che non devo dirtelo.”
“Tanto, se non vuoi più giocare non importa più, no?”
Ero dubbiosa.
“Ecco… lui e papà fanno finta di litigare, la sera, ed io devo fare finta di
non capire. Facciamo sempre finta che io ero una spia e loro due dei cattivi,
perciò io non dovevo farmi scoprire, e non dovevo raccontare a nessuno quello che
vedevo.”
“Wow! Allora forse anche adesso devi fare qualcosa!”
“Già, ma cosa?”
“Se lui fa finta di essersi fatto male, forse devi fare quello che si fa
quando le persone si fanno male.”
“Cioè?”
“Non lo so.” ammise allora Therese. “Quando mamma si fa male, chiama sempre il
suo stupido fidanzato. Non ce l’ha la fidanzata tuo fratello?”
“Penso di sì, c’è una foto vicino al letto e lui ogni tanto le parla, però io non so il suo numero di
telefono.”
“Sai come si chiama?”
“Mi sembra Taylor.”
“Guardiamo sul suo cellulare, allora! Ce l’avrà il suo numero!”
“Ma Ther.” esclamai io “Come facciamo? Noi non sappiamo leggere.”
“Oh. Hai ragione.”
“Però so dove abita il suo amico del cuore! Quando andiamo ai giardini grandi,
la domenica, mi fa sempre vedere la sua casa!”
“E allora?”
“Possiamo andare a chiamarlo! Quando le persone si fanno male si chiama
qualcuno!” dissi io, trionfante. Avevo capito!
“Da sole?” mi chiese Therese. “Mamma dice che non devo andare in giro da
sola.”
“Lo so, anche Chad lo dice sempre. Però adesso la tua mamma non è a casa, e
se mio fratello ha inventato questo gioco non può essere pericoloso.”
“Non lo so..”
“Ti prego, vieni con me! Sei la mia amica del cuore. Se vieni facciamo a metà
del premio, alla fine.”
“Va bene, andiamo.”
Così, ci avviamo in strada. Ero felice: avevo capito cosa dovevo fare! Mio
fratello sembrava sempre triste, ultimamente, e la notte spesso lo sentivo piangere. Credeva che io non lo capissi, e
io non dicevo nulla perché le regole dicevano che non dovevo dire nulla. Però,
ora, avevo capito. Ora, finalmente, il gioco sarebbe finito, e Chad non avrebbe
più dovuto essere triste.
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Capitolo 12 *** 12 ***
l
“Avanti, Ther, più in alto.”
“Più in alto non ce la faccio! Non posso crescere apposta!”
“Se andiamo avanti così non ci arriveremo mai!”
“Ma perché li fanno così in alto questi stupidi campanelli??”
Se Olive e Therese avessero conosciuto il significato della parola
“frustrato” l’avrebbero senza dubbio usata per descrivere il loro stato d’animo.
Erano arrivate fin lì a piedi, e non è che fosse stato facile: prima si erano
perse, poi, al parco, quella che senza dubbio era una strega aveva cercato di
afferrarle per le maniche, infine erano state certe di avere visto un fantasma
spuntare da dietro un angolo, e ora che finalmente avevano raggiunto la loro
meta, non potevano entrare, perché il campanello si trovava troppo in alto
perché loro potessero raggiungerlo.
Mentre le bambine, arrampicate l’una sull’altra, continuavano a sforzarsi,
all’interno della casa si intravedevano luci e suoni, si sentiva musica, e
risate allegre attraversavano le pareti ed arrivavano fino in strada alle loro
orecchie preoccupate.
All’improvviso, una voce si rivolse loro.
“Vi serve per caso una mano?”
Un ragazzo alto, dalla carnagione scura come quella di Olive, le osservò a
metà tra lo stupito ed il divertito, e senza attendere la risposta suonò senza
difficoltà il campanello.
“Chi è?” disse l’omino che stava dentro al citofono.
“Zeke.”
“Apro il cancello.”
Il ragazzo si avviò lungo il vialetto, seguito a ruota dalle bambine.
“Chi siete voi due? E come mai due bambine piccole sono in giro da sole?”
chiese il ragazzo.
“Io sono Olive, e lei è Therese. Cerchiamo l’amico del cuore di mio
fratello.”
“E come si chiama, questo amico del cuore?”
“Non lo so.” ammise la piccola. “Non me lo ricordo. Però, se lo vedo lo
riconosco. Ha gli occhi azzurri ed abita qui.”
Insospettito, Zeke rivolse nuovamente lo sguardo alla bambina.
“Non sarai per caso la sorella di Chad, vero?”
Olive annuì, sollevata. Se quel ragazzo conosceva suo fratello, dovevano
trovarsi nel posto giusto.
Nello stesso momento, Zeke aprì la bocca per parlare, disgustato. Chad era
arrivato al punto di mandare la sorellina, che non doveva avere più di cinque o
sei anni, a casa di Troy, sicuramente per elemosinare soldi per comprare della
droga, probabilmente sperando che la sua aria innocente avrebbe commosso tutti
quanti.
“Dio, che schifo.” pensò, e poi disse “Mi dispiace, faresti meglio a tornare
indietro e dire a tuo fratello che non troverà niente, qui da noi. Non vogliamo
avere più nulla a che fare con lui.”
“Ma… ma quel ragazzo è il suo amico del cuore. Chad lo dice sempre che sono
come fratelli.” balbettò Olive. Perché quel ragazzo all’improvviso sembrava
arrabbiato con lei? Che cosa aveva fatto di male?
“Non più. Chad e Troy non sono più amici, dovresti ricordaglielo.”
Al sentire quelle parole, Olive andò nel panico. Aveva sbagliato tutto, non
aveva capito nulla. Era arrivata fin lì, aveva avuto tanta paura insieme a
Therese, e tutto questo per nulla: il gioco sarebbe continuato, e il suo adorato
fratello avrebbe continuato ad essere triste e silenzioso ed a passare le notti
a piangere, e tutto perché lei aveva sbagliato.
E non si ricordava nemmeno la strada per tornare indietro.
Zeke, che era ormai giunto alla porta ed aveva nuovamente suonato il
campanello, fu costretto a voltarsi indietro. La bambina era scoppiata in un
pianto dirotto, straziante.
Pur essendo la sorella di Chad, era una bambina e non poteva certo essere
incolpata delle sue parentele. Impietosito seppur innervosito, tornò indietro e,
senza dirle una parola, le prese entrambe per mano e le trascinò con malagrazia
dentro casa, fino al salotto, dove un gruppo di ragazzi ballava al suono di uno
stereo.
Una giovane bionda si avvicinò di slancio, poi, notando la presenza di due
bimbe mai viste prima, una delle quali ammutolita e l’altra in lacrime, rallentò
il passo fino a fermarsi di botto. Uno dopo l’altro, tutti i presenti portarono
il proprio sguardo sulle bambine, ed il ragazzo con gli occhi blu spense la
musica.
“Ho trovato la sorella di Chad fuori dalla porta. L’ha mandata a chiedere
soldi, quel lurido… E guardate come l’ha istruita bene: piange come se le avessi
ucciso il gatto.” disse il ragazzo che le aveva accompagnate in casa.
Olive avrebbe tanto voluto replicare, ma non riusciva a smettere di piangere
al pensiero di non essere riuscita a fare l’unica cosa che avrebbe potuto
fermare il gioco e restituire la felicità a suo fratello.
“Se è uno scherzo, non è divertente.” disse il ragazzo dagli occhi blu.
“Ti pare uno scherzo, questa qui?” replicò Zeke, e sollevò in alto la mano
che teneva ancora stretta a quella della bimba, senza rendersi conto che, a
causa della statura, le stava tirando il braccio. Questo fece piangere Olive
ancora più forte. Ma perché in quella stanza ce l’avevano tutti con lei? Che
cosa aveva fatto?
“Usare una bambina in questo modo. Non lo avrei mai immaginato.”
Una giovane con lunghi capelli castani avanzò verso di loro con
decisione.
“Lasciala, Zeke! Non lo vedi che le stai facendo male? E’ solo una
bimba!”
La ragazza prese la bimba tra le braccia. La piccola sembrava inconsolabile,
singhiozzava al punto da dare l’impressione di non respirare.
“Calmati, tesoro, calmati.”
“Tesoro? Gabri, è la sorella di Chad. Vuole dei soldi da Troy.”
“IO NON VOGLIO DEI SOLDI!” riuscì finalmente a urlare Olive, poi, come
spaventata dal suono della propria voce, nascose il visetto tra i capelli di
Gabriella. La ragazza si sedette, sempre con la bambina tra le braccia, e Troy
si avvicinò a loro.
“Ehi, Olive, sono Troy, ti ricordi di me?” le chiese dolcemente.
Lei annuì.
“Come sei arrivata fin qui? E’ stato tuo fratello ad accompagnarti?”
“No, siamo venute a piedi, da sole, anche se la strega nel parco ha cercato
di prenderci.” intervenne l’altra bimba. “Non è stato Chad a dirci di venire, e
noi non vogliamo dei soldi. E tu.” disse rivolta a Zete “Sei davvero la persona
più cattiva che io conosca. Sei peggio del fidanzato di mamma.”
“Olive, perché sei venuta qui? Sei venuta a cercare me?” domandò ancora
Troy.
“Sì.” disse lei, ancora lacrimante. “E’ per il gioco. Noi facciamo sempre
questo gioco… Papà fa finta di picchiare Chad e io devo fare finta di non sapere
che è un gioco, ed alla fine ci sarà un premio bellissimo. E’ da stamattina che
mio fratello fa finta di stare male, e Ther ha pensato che dovevamo fare finta
di fare quello che si fa quando ci si fa male, e siamo venute a chiamare
te.”
Il ragazzo con gli occhi blu guardò la piccola come raggelato. In quel
momento, una ragazza si avvicinò a loro, ed immediatamente Olive la
riconobbe.
“Tu sei Taylor!” esclamò. “C’è la tua foto vicino al nostro letto.”
“E’ stato Chad a inventare questo gioco?” chiese lei.
“Sì. Ma è sempre triste, da quando lo facciamo. Io non voglio più che mio
fratello pianga. Per piacere, non voglio più giocare.”
“Ascolta, Olive, hai detto che Chad stava facendo finta di stare male. Cosa
faceva, esattamente?”
“E’ stato lì per terra tutta la mattina, non mi rispondeva.”
“Si era messo persino del sangue finto nei capelli!” intervenne Therese.
Troy deglutì. Una paura pregnante, ancestrale si era impadronita di lui.
“Adesso voi restate qui con Gabriella. Ci penso io, adesso.” disse con voce
tremante.
“Vengo con te.” intervenne Taylor. Senza indugiare oltre, i due si
precipitarono in macchina.
Il viaggio passò senza che nessuno dei due aprisse bocca. Non appena le
portiere della macchina si furono chiuse, Taylor scoppiò in un pianto dirotto.
Eppure, Troy non aprì bocca. Non poteva, o avrebbe finito per fare la stessa
cosa.
La sua freddezza non durò per molto, comunque. Non quando, dopo aver salito
di corsa le scale del palazzo di Grosvenor Street, aprirono la porta della casa
di Chad. Nulla al mondo avrebbe potuto prepararli alla scena che si trovarono di
fronte agli occhi.
Se di una cosa furono certi, è che non l’avrebbero mai scordata.
Scusate, stasera sono di fretta e non ho tempo di ringraziare tutte, ma siete
sempre meravigliose e giuro che lo farò nel prossimo capitolo. A presto!
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Capitolo 13 *** 13 ***
l
Grazie grazie grazie! Grazie ad armony_93, romaticgirl, scricciolo91, Tay-,
vivy93, _laura_, herm90, sinfony, siete splendide come sempre e come sempre
troppo generose.
Questo capitolo è volutamente brevissimo: dovete leggerlo come se guardaste
una fotografia, come un’istantanea emotiva; anche questo è un esperimento, a voi
l’ardua sentenza. Grazie di cuore! Alice.
PS Lo so, è straziante, ma è il preludio alla fine dei giochi, perciò fatemi
sapere se sono riuscita a renderlo tale oppure No. E fatemi sapere se trovate
che io debba alzare il rating, visto il
contenuto.
Non era che un ammasso di stracci in un angolo della stanza, un informe massa
tremante ed insanguinata gettata a terra, un cumulo di dolore e disperazione. Un
tempo, aveva avuto un nome, un volto, una vita: ora di lui non rimaneva che
quell’esile mormorio incessante, ossessivo come una preghiera:
“Mi dispiace, Liv. Perdonami.”
L’uomo lo colpiva con il suo piede forte, lo colpiva con rabbia cieca ed
assassina allo stomaco, all’addome, al viso, lo colpiva ripetutamente senza
stancarsi mai. E lui continuava a scusarsi.
“Qual è la tua colpa?” domandò la voce che lo chiamava, la voce che lui solo
poteva sentire.
“Sono nato, e tanto basta.” rispose lui. “Per questo non vuoi accogliermi in
paradiso?”
Il ragazzo dagli occhi blu si scagliò contro l’uomo, gridando. L’uomo, per un
attimo, si bloccò stupito, poi si rese conto del pericolo, e fuggì via.
La giovane donna si inginocchiò accanto a quello che restava di lui, mentre
il ragazzo cercava aiuto. I loro occhi scuri si incontrarono, dopo tanto, e
ripresero a parlare senza voce, come un tempo avevano saputo fare. Quelli di lei
erano colmi di angoscia, l’angoscia colpevole di chi ha fatto del male; quelli
di lui erano gioiosi, dopo troppe lacrime, per quell’incontro che forse sarebbe
stato l’ultimo.
“Chad.” sussurrò lei, mentre le lacrime si facevano strada. Appoggiò il palmo
della propria mano contro il viso del ragazzo steso a terra, ed il capo di lui
venne a trovarsi nell’incavo del suo gomito. Macchie scarlatte si dipinsero
sulle maniche immacolate del suo vestito.
“Mi dispiace, Tay. Ho sporcato la tua camicia…” le rispose prima che la sua
voce si spezzasse.
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Capitolo 14 *** 14 ***
l
Taylor e Troy erano in sala d’attesa da più di un ora quando un medico
dall’aria stanca si avvicinò e fece loro cenno di seguirli.
Dopo quella frase, Chad aveva perso i sensi ed era rimasto incosciente fino
all’arrivo dei paramedici. I ragazzi avevano seguito l’ambulanza con l’auto di
Troy senza dire una parola.
In fondo, non c’era molto da dire. Se fosse morto, la colpa sarebbe stata
loro, e per di più se ne sarebbe andato convinto di essere odiato da tutti, e
probabilmente anche di meritarselo.
L’ultima cosa che Taylor gli aveva detto era di provare nausea alla sua
vista, mentre Troy lo cacciava di casa.
Il ragazzo non riusciva a levarsi dalla mente quella scena. Il suo amico
barcollante e sofferente che lasciava quella casa che aveva imparato a
considerare anche sua, massacrato di botte, malato, affamato fino allo stremo
delle forze, e solo.
Dopo essere stato picchiato dal suo migliore amico.
Il medico indicò loro due sedie e si sedette accanto a loro.
“Ad essere onesto.” disse con tono gelido “Non so da dove iniziare. Abbiamo
contattato la polizia e l’assistenza sociale, è evidente che il ragazzo è
oggetto di violenze ed abusi da mesi, forse da anni addirittura. Non c’è nessun
adulto con cui io possa parlare?”
“Mio padre sta arrivando.” rispose Troy. “Come sta Chad?”
“Le condizioni del vostro amico sono estremamente critiche, ragazzi. Ha
riportato un trauma cranico di ingenti proporzioni che ha causato un ematoma
subdurale, il che significa, essenzialmente, che il suo cervello sta
sanguinando. In questo momento si trova in sala operatoria. Anche se fosse
possibile fermare l’emorragia, non sappiamo se e come essa abbia danneggiato o
meno il suo cervello. Potrebbe avere riportato lesioni permanenti. Inoltre, il
suo fegato è stato danneggiato seriamente, ad anche qualora fosse possibile
rimediarvi chirurgicamente, questo è molto grave perché renderà difficile
somministragli qualsiasi specie di farmaco, essendo presente il rischio di
danneggiare ulteriormente un organo già compromesso. Ci sono svariati altri
problemi: una gamba rotta ed una vertebra fratturata su cui dovremo intervenire
sempre chirurgicamente appena possibile, una grave polmonite batterica che rende
pericolosi gli interventi in quanto c’è il rischio che i batteri possano
diffondersi a tutto il corpo causando quella che viene definita “sepsi”, ed uno
stato di decadimento generale. Quel ragazzo è denutrito, pericolosamente
denutrito, il suo organismo è estremamente debole al momento.”
“Non ho capito… molto.” sussurrò Taylor.
“Noi stiamo facendo tutto il possibile, ragazzi, ma temo sia necessario che
vi prepariate al peggio. Le possibilità che il vostro amico superi l’intervento
sono esigue, ed anche se fosse, dovrebbe comunque sottoporsi ad una lunga serie
di interventi e terapie che difficilmente potrebbe sopportare. Mi dispiace,
davvero.” disse prima di andarsene.
Dopo un attimo di silenzio, Taylor scoppiò in lacrime. Troy voltò il viso e
la fissò, incapace di proferire parola. Rimasero lì, immobili, in un silenzio
che fu rotto solo parecchio tempo dopo dall’arrivo del padre di Troy.
“Ragazzi, come state?”
“Come stiamo? Come stiamo noi?” replicò Troy quasi urlando. “Come due persone
che hanno appena commesso un omicidio, ecco come stiamo.”
“No, Troy.” intervenne Taylor. “La colpa è solo mia. Tu gli avresti creduto
se io non ti avessi fatto cambiare idea. Se non fosse stato per me, tu l’avresti
protetto. Sono io che… sono io che ho ucciso il ragazzo che amo.”
“No. Tu e Chad vi conoscete da poco più di un anno, ma io… lui è mio fratello
da tutta la vita, da prima che io lo ricordi. Mi è sempre stato accanto, non mi
ha mai tradito, ed io ho dubitato di lui. Io non avrei dovuto darti ascolto,
avrei dovuto sapere.”
“Ragazzi.” intervenne Jack. “Tutti abbiamo sbagliato, ma nessuno di noi è
colpevole ad eccezione del padre di Chad. Non dovete pensare al peggio, non
sarete di aiuto a nessuno in questo modo.”
“TUTTI SIAMO COLPEVOLI! LUI SI FIDAVA DI NOI! AVEVA CHIESTO IL NOSTRO AIUTO,
E NOI L’ABBIAMO ABBANDONATO!” Troy si accasciò a terra, singhiozzando. “Veniva
picchiato ogni notte, papà, stava morendo di fame, si spaccava la schiena
lavorando, ed io… io non ho capito nulla. Ho pensato che fosse drogato. Io l’ho
picchiato, papà, gli ho detto di andarsene…” la sua voce si spezzò a metà della
frase, ed il ragazzo tacque, incapace di proseguire oltre.
Rimasero in attesa per ore, fino al mattino. Il silenzio era interrotto
soltanto da occasionali singhiozzi, nessuno aveva il coraggio di parlare.
Finalmente, quasi dodici ore dopo il loro arrivo, qualcun altro si avvicinò
portando notizie.
“Sono il dottor Morrison, il chirurgo. Il ragazzo è vivo, anche se le sue
condizioni rimangono critiche. Siamo stati costretti ad asportare la milza ed
una parte del fegato. Ha perso molto sangue, e la febbre è ancora alta. Il suo
cuore è indebolito, tuttavia siamo riusciti a contenere l’emorragia cerebrale.
Il ragazzo è già sveglio e fa ragionamenti di senso compiuto, perciò possiamo
quantomeno essere certi che le sue funzioni cognitive non siano state
danneggiate.”
“Possiamo vederlo?” esclamarono all’unisono Taylor e Troy.
“Mi dispiace, non è possibile. Lui stesso mi ha pregato di chiedere a
chiunque fosse qui in attesa di sue notizie di andare via e di non tornare.”
…. E questo ve l’aspettavate???
Grazie come sempre di cuore ad armony_93, vivy93, herm90, totallycrazy,
scricciolo91, _laura_.
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Capitolo 15 *** 15 ***
l
Quando Taylor sentì la sveglia suonare ed aprì gli occhi, ebbe la sensazione
di essersi addormentata solo pochi attimi prima. Si sentiva così spossata, così
esausta; avrebbe potuto dormire per altre dodici ore filate almeno.
Sbadigliando, appoggiò nuovamente la testa sul cuscino. Poi, in un momento,
la ragione per la quale era così stanca le tornò alla mente. Immediatamente,
guardò lo schermo del cellulare, per essere certa di non avere ricevuto nessuna
chiamata. Fortunatamente, aveva ragione. Questo almeno voleva dire che Chad era
ancora vivo.
Intorno alle sei di mattina, il signor Bolton l’aveva accompagnata a casa,
con la promessa di avvisarla se avesse ricevuto notizie dall’ospedale. Ora era
da poco passato mezzogiorno, sua madre l’aveva lasciata dormire a lungo.
Taylor si alzò e si diresse in cucina. La casa era silenziosa e nessuno la
interruppe mentre preparava un caffè nero e forte. Continuava a sentirsi
esausta.
Eppure, Chad aveva passato settimane intere prive di sonno, lavorando
duramente per la sua sorellina senza concedere a sé stesso un attimo di riposo
né il minimo sostentamento necessario al suo corpo, e non si era mai lamentato.
Che diritto aveva, lei, di sentirsi stanca?
Mentre sorseggiava il suo caffè, noto la segreteria telefonica del telefono
di casa lampeggiare segnalando un messaggio in attesa.
“Taylor, sono Jack Bolton. Ti chiamo qui per non svegliarti. Non allarmarti,
ma chiama me o Troy non appena senti il messaggio.”
Tanto agitata da non percepire nemmeno il frastuono della tazza che aveva
lasciato cadere a terra, compose il numero di Troy.
“Tay?”
“Cos’è successo?” disse lei senza prendere fiato.
“Non agitarti, è vivo. Stanotte è stato operato di nuovo, sembra che abbia
avuto un’altra emorragia o qualcosa di simile. Dicono che l’intervento è andato
bene ma che è ancora molto debole ed a rischio di infezione. E…” Troy esitò “ha
chiesto di Olive. Il medico gli ha detto che è casa mia e che sta bene, e lui ha
ribadito di non voler vedere nessuno, nemmeno mio padre.”
Taylor non ebbe la forza di rispondere. Il pensiero di Chad steso su un
tavolo operatorio, addormentato ed inerme, le toglieva il fiato.
“Io sto per andare in ospedale, anche se non possiamo parlargli preferisco…
preferisco essere lì vicino.”
“Verresti a prendermi?”
“Sarò lì in mezz’ora.”
Troy riattaccò. Era talmente esausto che la sua mano tremava.
Un bambino era seduto a terra a gambe incrociate, con la testa nascosta tra
le manine. Piangeva in silenzio, i suoi grandi occhi blu arrossati e gonfi di
lacrime.
“Troy, Troy, cos’è successo?” domandò un altro bimbo, prendendo con la sua
manina scura quella lattea dell’amico.
“Dean Martin… ha… strappato il mio… disegno…” singhiozzò.
Il bimbo dalla pelle color cioccolato si alzò. Poco dopo, una donna urlò con
tono severo ed allarmato:
“Chad. CHAD! Subito in castigo! Non si picchiano i compagni!”
Il bimbo con gli occhi azzurri si alzò e tirando su con il naso andò a
sedersi accanto all’amico nell’angolo nel silenzio.
“Perché l’hai picchiato?”
“Nessuno può farti piangere senza vedersela con me. Picchierò tutti quelli
che ti fanno piangere, anche quando saremo grandi. Per sempre. Te lo
prometto.”
“Te lo prometto anch’io.”
Troy si prese la testa fra le mani. Chad l’aveva difeso in quinta elementare
quando Tom Sanderson voleva picchiarlo per avere preso il suo posto nella
squadra di basket della scuola, e poi in prima media, quando era stato accusato
ingiustamente di aver rubato una giacca. L’aveva proposto come capitano dei
Wildcats l’anno precedente, e l’aveva incoraggiato a partecipare al musical,
alla fine. Quando lui e Gabriella avevano quasi rotto, era stato sulla sua
spalla che aveva pianto, e con lui aveva girato tutta la città alla ricerca
della collana da regalarle per il loro primo anniversario. Era sempre stato lì
per lui, in ogni momento e senza chiedere o pretendere nulla in cambio.
Chad aveva mantenuto la sua promessa.
Troy non l’aveva fatto.
Sospirando, si vestì e si diresse verso casa di Taylor. I due passarono
l’intero pomeriggio in sala d’attesa, scambiando occasionalmente poche parole di
cortesia. Le infermiere continuavano ad entrare ed uscire dalla stanza, ma loro
non potevano avvicinarsi.
Solo intorno alle otto riuscirono a parlare con il dottor Morrison.
“Come sta oggi? Ci sono stati dei miglioramenti?” domandarono.
“Non posso parlare di miglioramenti, purtroppo, ma non è nemmeno peggiorato
ed è vivo, e questo è già un buon segno. Alterna momenti di incoscienza a
momenti di lucidità. Il suo cuore è un po’ debole ma sembra resistere. La febbre
è ancora molto alta, per il resto, è tutto come ieri.”
“Sta.. soffrendo?” chiese Taylor, piano.
“Purtroppo, il suo fegato è molto danneggiato. Il fegato è l’organo che, dopo
che le medicine hanno agito, le elimina dall’organismo perché non diventino
tossiche. Poiché il suo funziona molto poco, dobbiamo limitare al massimo i
farmaci che gli somministriamo, e quello che al momento lui ha maggiormente
bisogno sono gli antibiotici per evitare la sepsi. Questo rende impossibile
dargli anche antidolorifici.”
“Ma… ma lui è stato appena operato… ha delle ossa rotte…”
“Lo so, ma clinicamente gli antibiotici sono più importanti.”
Taylor, inaspettatamente, nascose il viso trai capelli di Troy.
“Sta soffrendo.” sussurrò piangendo. “Non posso nemmeno immaginare il dolore
che sta provando, e vicino a lui non c’è nessuno.”
“Lo so. Il solo pensiero…” Troy rabbrividì.
“Ragazzi. Ragazzi! Ci sono novità?”
Taylor e Troy sollevarono il viso e videro i loro amici avvicinarsi. Erano
tutti lì, Zeke, Ryan, Jason, Kelsi e Sharpay, insieme a Gabriella.
“Siamo passati da casa tua, ma non c’era nessuno, così siamo venuti qui.”
“Tutto stazionario. Ancora non sanno se ce la farà, soffre come un cane e non
vuole vederci, non vuole nessuno. Nessuno…” rispose Taylor.
“Mi pare comprensibile che ce l’abbia con noi.” affermò Sharpay.
“Il punto è che… che lui non ce l’ha con noi.” disse Troy mentre gli occhi di
tutti si volgevano verso di lui. “Lui non ce l’ha con noi. Io penso che… che lui
creda di avere fallito perché ora che la verità è venuta a galla probabilmente
Olive andrà a stare in orfanotrofio, e di conseguenza crede di non meritarsi la
nostra attenzione. Probabilmente si sente un peso insopportabile per tutti noi,
e vuole risparmiarci il fardello di stargli accanto.”
“Ma… non ha senso. Non ha senso.” ripetè Zeke. “Chi penserebbe queste cose di
sé stesso?”
“Io so che è così. L’ho lasciato solo già una volta, e non voglio farlo di
nuovo.” rispose Troy e, con enorme sorpresa di ognuno, una lacrima solcò il suo
viso. “Eppure, non so cosa dovremmo fare adesso.”
Sono sicura di non avere bisogno di ripetere ancora che amo l’interazione,
perciò, se qualcuno di voi ha idee a proposito di una possibile soluzione, bè,
non desidero altro che sapere cosa fareste voi al posto loro.
GRAZIE GRAZIE GRAZIE mie splendide scricciolo91, romanticgirl, vivy93,
armony_93, herm90, -laura-, -tay-, sinfony. Siete sempre troppo gentili.
Riguardo alle informazioni mediche, ho provato a documentarmi, ma non credo
siano proprio attendibili. Alice.
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Capitolo 16 *** 16 ***
l
Grazie mille a: Ada, herm90, scricciolo91, vivy93, _laura_, armony_93,
romanticgirl. Spero che anche questo capitolo vi piaccia. A presto!
Era passata una settimana da che lui e Taylor si erano recati in Grosvenor
Street ed avevano scoperto la verità, e le cose non erano cambiate. Chad aveva
subito tre interventi da allora, eppure la sua salute non migliorava: si
trattava, come aveva detto il medico, di un blando “rattoppamento” in attesa che
lui fosse abbastanza in forze da sottoporsi alle operazioni che gli avrebbero
davvero portato dei benefici, eppure sembrava che questo momento non diventasse
mai più vicino. I dottori non riuscivano ad eradicare la polmonite che
continuava ad aggravarsi nonostante gli antibiotici; quel pomeriggio, avevano
sentito due infermiere parlare tra loro dopo essere uscite dalla sua stanza.
“Mi dispiace per questo ragazzo, è così dolce e gentile, sempre a
ringraziare per tutto.”
“Già. Sembra proprio che non abbia più voglia di vivere, povera
creatura.”
Taylor e Troy si recavano in ospedale ogni giorno dopo la scuola e ci
restavano fino all’ora di cena, spesso in compagnia dei loro amici. Avevano
l’impressione che rimanergli accanto almeno fisicamente alleviasse almeno un
poco il senso di colpa che altrimenti non avrebbe lasciato scampo. Taylor
passava in lacrime ogni notte, e Troy non era da meno, incapace di dormire o di
pensare a qualsiasi altra cosa che non fosse Chad o quello che avrebbe potuto
fare per lui se solo avesse capito in tempo.
Se solo fossi stato capace di dimostrargli quanto tengo a lui, almeno una
volta nella vita.
Quella sera, al ritorno a casa, Troy si trovò di fronte una scena che riuscì,
nonostante tutto, a strappargli un sorriso.
Accoccolata dietro la porta della cucina, inginocchiata nonostante la sua
mole più che considerevole, stava zia Muriel, un orecchio strettamente adeso
all’anta e lo sguardo attento. Vicino a lei, seduta a terra ed impegnata con una
bambola di pezza, c’era Olive. La zia era venuta a passare da loro qualche
giorno per aiutarli con la bambina, e le due avevano legato, giocavano e si
divertivano come pazze, e nonostante non sempre fosse chiaro chi delle due
stesse badando all’altra, per Olive era senz’altro un bene potersi distrarre un
pochino dal pensiero fisso di suo fratello.
“Ehi, che state facendo qui?”
“Spiamo, ragazzo, non è evidente?”
“Spiate… chi?”
“I tuoi genitori. Fanno discorsi interessanti, là dentro.”
Incuriosito, Troy entrò in cucina. I suoi genitori erano seduti a tavola e
circondati da innumerevoli fogli, computer e calcolatrice alla mano.
“Novità dall’ospedale?” chiese suo padre.
“Nessuna. Che state facendo?”
“Solo conti, tesoro.”
“Per che cosa?”
“Noi…” disse sua madre schiarendosi la voce. “Noi avremmo voluto chiedere
l’affidamento di Olive e Chad.”
“E’ meraviglioso!” esclamò il ragazzo.
“Avremmo voluto, ma non è possibile. A conti fatti, non ce la caveremmo con
altri due bambini in casa. Forse con uno, se stessimo attenti alle spese, ma non
con due. Mi dispiace, tesoro.”
“Quindi finiranno in orfanotrofio, giusto?”
“Temo di sì, anche se Olive è ancora piccola ed ha buone probabilità di
essere adottata.”
Già, Olive era piccola e graziosa, i suoi genitori erano già innamorati di
lei, sarebbe stata di sicuro adottata, e Chad sarebbe rimasto in quel posto da
solo, lontano dall’unica persona che amasse davvero e che davvero l’avesse
amato. Non sarebbe andato al college, non sarebbe mai diventato un giocatore
professionista, forse non sarebbe nemmeno guarito.
Forse non sarebbe nemmeno sopravvissuto.
E tutto questo solo perché aveva avuto il coraggio di difendere dalla
sofferenza tutte le persone che amava dimenticandosi di sé stesso.
OoOoOo
Taylor era come al solito seduta accanto alla sua stanza, fuori dalla porta,
quando sentì le urla. Non erano gemiti, non erano lamenti, erano vere e proprie
urla, strazianti, insopportabili.
E senza dubbio, quella era la voce di Chad.
Si alzò e si avvicinò. Il suo cuore batteva come impazzito, lo sentiva
contorcersi al pensiero che la persona che amava stesse provando un dolore così
intenso da indurlo ad urlare, lui che aveva mostrato di possedere un così grande
controllo di sé stesso, e da solo.
Un’infermiera uscì dalla stanza trafelata.
“Che succede?” le chiese Taylor. “Che cos’ha?”
“Gli stanno facendo una puntura spinale. E’ un test diagnostico che prevede
estrazione del liquor dalla colonna spinale, ma la sua schiena è davvero in
pessime condizioni perciò risulta ancora più doloroso di quanto non sia
normalmente.”
La ragazza guardò all’interno della stanza. Chad era sdraiato su di un
fianco, mentre un uomo vestito di verde inseriva nella sua schiena un ago lungo
e spesso. Un altro uomo lo teneva fermo.
Era la prima volta che lo vedeva, da quella notte. Si rese conto di quanto
fosse cambiato, che forse non sarebbe stata più in grado di riconoscerlo. Era
sottile, le sue braccia e la gamba che fuoriusciva dal camice dell’ospedale
somigliavano a quelle di un bambino; l’altra gamba era ingessata, e il bianco
abbacinante del gesso contrastava con il colore della sue pelle, che pure non
era più brillante come prima ma tendeva al grigio della nebbia.
Ciò che più la colpì, tuttavia, fu la benda macchiata di sangue che stava
attorno al suo capo. I capelli erano, da sempre, la prima cosa che di lui si
notava, così particolari, così suoi, che fu proprio la loro assenza a
darle l’esatta percezione della situazione. Non avrebbe mai pensato di vederlo
senza i suoi capelli. Era un dettaglio sciocco, lo sapeva bene, eppure fu
proprio quel dettaglio a farle capire che tutto era cambiato.
Rimase immobile sulla porta della stanza ad ascoltare quelle urla che le
penetravano il cuore fino a che gli uomini se ne andarono lasciandolo tremante
su di un fianco. Continuava a gemere, e lacrime di dolore attraversavano copiose
le sue guance.
Nessuno badava a lei, così Taylor entrò nella stanza e si portò di fronte e
lui. Il suo viso era segnato da occhiaie profonde, al suo corpo che lei aveva
tanto ammirato erano collegati macchinari dall’aria inquietante, e la sua
espressione non era più quella di un giovane pieno di speranza, ma quella di un
vecchio stanco della vita.
Ora capiva cos’aveva voluto dire quell’infermiera. A lui non interessava più
vivere, lo si vedeva chiaramente.
Facendosi coraggio, si inginocchiò e il più gentilmente possibile baciò la
sua fronte calda.
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