Poison 2: SHADOWS - l'accademia delle ombre

di FALLEN99
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0. Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Per l'eternità. ***
Capitolo 3: *** 2. Amore e dannazione ***



Capitolo 1
*** 0. Prologo ***


 





 Prologo
 

Si svegliò di soprassalto; il sapore metallico del sangue che le invadeva la bocca. La sua ultima vittima non era stata molto saporita, il suo sangue era uguale a quello degli altri duecento uomini che aveva dissanguato nel corso della sua immortale esistenza. Si leccò le labbra scarlatte per togliere anche l’ultima traccia di sangue e si tirò a sedere. I capelli corti ricordavano molto quelli di un uomo, ma il fisico etereo testimoniava il contrario. Il seno era affermato e i lineamenti dolci incorniciavano un viso bellissimo. Gli occhi rossi come il sangue erano della stessa tonalità delle fiamme che erodevano la sua anima dannata un tempo più pura del cielo stesso.
Sbatté le palpebre due volte, vedeva tutto annebbiato e distorto dal buio che incombeva sulla sua stanza logora e sporca. Le pareti lacere presentavano diversi fori che permettevano al vento di penetrarvi e trasportare con sé la polvere che assoggettava il pavimento. Quanto avrebbe voluto che il vento portasse via tutti i peccati che avevo commesso, ma sapeva bene che la strada che la sua anima aveva deciso di seguire non le avrebbe mai permesso di tornare indietro. Ormai aveva preso la sua decisione, e da ormai centoventi anni si portava dietro il peso della sua scelta, il marchio di dannazione che era stato inciso con il fuoco sulla sua anima immortale.
Scrutò la parete davanti a sé, la luce lunare penetrava dal foro sul soffitto e proiettava su di essa strani giochi di luce e ombra che rappresentavano le ali di un corvo in movimento. Si fermò a guardarli, gli occhi rapiti da quella visione mozzafiato. Le ali del corvo non la smettevano di muoversi, e sembrava che piume nere come l’inchiostro partissero da esse e andassero a conficcarsi nel terreno circostante a lei.
Henriette sentì brividi di terrore risalirle la spina dorsale e qualcosa prese a bruciare dentro il suo petto. Sapeva benissimo che le piume di corvo che si stavano conficcando nel terreno erano reali come lo era la sua presenza lì, e Henriette sentì il bisogno di scappare, di fuggire dall’eterna condanna che erodeva la sua anima ogni giorno di più e che l’aveva trasformata in ciò che era. Ma non riuscì nemmeno ad alzarsi, le sue membra eranoparalizzate a terra come oppresse da un macigno pesantissimo. Le piume continuavano ad aumentare, come la consapevolezza di Henriette di stare per essere convocata. Passarono istanti che le sembrarono interminabili prima che la caduta delle piume si placasse.
E quando accadde Henriette si accorse che le piume erano fatte d’inchiostro viscoso ed erano andate a disegnare un simbolo sul terreno.
Un simbolo che Henriette conosceva molto bene, e che non avrebbe mai potuto dimenticare. Si sporse per vederlo meglio anche se conosceva a memoria la sua forma a triplo esagono con una lama al suo interno. I suoi occhi furono attirati dal sigillo che imprimeva il pavimento della sala e si eresse in piedi quasi senza volerlo. Le gambe abbronzate e muscolose erano illuminate dalla luce della luna e i nervi le stavano per scoppiare a causa della forte tensione a cui era sottoposta. La stanza sprofondò nell’oscurità più impenetrabile, e Henriette fu costretta ad usare la sua vista da demone per poter intuire anche solo le sagome parziali di ciò che le stava attorno. Si mise le mani sui fianchi stretti per lenire la tensione, ma come poteva stare calma in un momento del genere dove i supremi della Corte Infernale la stavano richiamando?
Il sigillo brillava di una luce scarlatta fortissima che proiettava la sua forma sul soffitto nero pece della stanza.
Un forte vento rosso prese a vorticare attorno a Henriette e la condusse proprio dove il sigillo troneggiava. Cercò di opporre resistenza ma i suoi poteri non potevano certo contrastare quelli dei Supremi demoni che la stavano chiamando. Era solo una pedina su una scacchiera più grande di lei, dove il Potere era l’unica cosa che contasse veramente.
Il sigillo demoniaco la risucchiò in un istante, ed Henriette soffocò un rantolo di dolore. le ali nere come la notte si piegarono come oppresse da artigli di lupo, e la ragazza affondò le unghie nei palmi delle mani per trattenere un urlo di dolore.
La sua essenza demoniaca scese negli inferi attraverso un tunnel dimensionale fatto di fiamme e ombre nere.
Chiuse gli occhi cercando di dimenticare ciò che aveva attorno, ma sentiva che la sua anima dannata bruciava per uscire e per unirsi al vortice dimensionale con una forza tale che le fece riaprire gli occhi. E quando lo fece non si trovava più nel tunnel, bensì in una sala avvolta dalla penombra. Due tende scarlatte di velluto la dividevano dalla sala di ricevimento della Corte Infernale, solo quell’elegante tessuto a dividerla dal proprio destino.
I vestiti laceri che aveva addosso si tramutarono in un abito da sera rosso, la scollatura che metteva in evidenza il seno e lo spacco appena sopra il ginocchio. Due orecchini scintillanti le pendevano dai lobi delle orecchie, e i capelli castani corti erano cresciuti a dismisura rilegandosi in una treccia che le arrivava a metà schiena. Capì subito l’esigenza di quel cambiamento, non poteva essere ricevuta dalla Corte Infernale senza l’adeguato abbigliamento.
Le tende di velluto si aprirono all’improvviso, come mosse da un vento che però nella stanza non c’era. Henriette, con passo titubante, le oltrepassò, ritrovandosi in una sala completamente nera. Il simbolo di un corvo brillava al centro dell’oscurità e sei candele erano sospese e riflettevano il loro bagliore soffuso, troppo debole per contrastare il buio che avvolgeva la sala come l’abbraccio demoniaco del suo padrone ormai disperso da secoli.
«Fatti avanti, Henriette.» una voce fredda e spettrale la fece sobbalzare. Era la seconda volta che veniva ricevuta da Loro, e non poteva dire nemmeno lontanamente di essersi abituata.
Avanzò in certa, i tacchi a spillo che propagavano un rumore sordo e irritante. Due occhi bianchi comparvero dall’oscurità assieme ad una bocca disumana, e la luce di una candela sospesa illuminò febbrilmente il resto del corpo. Era alto, i denti bianchissimi che spuntavano sporchi di sangue dalle sue labbra. I capelli gli incorniciavano il viso come zampilli di sangue, e gli occhi azzurri erano la cosa più inquietante.
«Benvenuta, cara Henriette.» le sorrise il demone con aria maliziosa. La ragazza si inchinò, l’abito da sera che sfiorava il pavimento intriso di catrame e dolore muto.
Il demone camminò nella stanza buia, i bagliori delle lanterne che gli illuminavano la carnagione cadaverica e la lunga tunica. Altri demoni erano seduti alle sue spalle su poltrone imbottite di seta pregiata che galleggiavano come la candele, riuscite a sfuggire al vincolo della gravità.
 «Ti vorremmo proporre un incarico» cominciò il Rhys, il Supremo della Corte Infernale. Parlò con voce suadente, evidenziando ogni sillaba.
Henriette deglutì, spaventata.
«Tu sei perfetta per questo incarico, siamo certi che le tue doti saranno impiegate in una missione più che necessaria.» continuò soddisfatto. La ragazza fissava per terra, troppo intimorita per alzare anche solo di poco lo sguardo.
«Di che tipo, s-signore?» chiese titubante, rivolgersi a Rhys direttamente le metteva una certa soggezione.
Lui le si avvicinò in una frazione di secondo portando le sue labbra all’orecchio di lei. «Dovrai recuperare il nostri padrone.» le sussurrò, la lingua nero pece che le leccava lussuriosa le guance.
«Tu sei stata prescelta. Ti daremo ora il Potere necessario per adempiere il tuo compiti. Nostro Signore Lucifero merita di essere liberato, ha subìto troppe agonie negli ultimi tempi.» continuò Rhys. «E dopo il tradimento di Stefano siamo rimasti completamente disorientati. Ecco perché abbiamo selezionato te, Henriette.» Rhys si portò con uno scatto degno di un ghepardo al centro della sala.
«Fratelli, è il tempo di donare alla nostra prescelta il potere per rompere l’incantesimo che tiene Nostro Signore legato alla ragazzina.» disse protendendo le braccia al cielo. Anche gli altri membri della Corte fecero lo stesso. Le loro braccia ossute sembravano scheletri protesi verso la falce della morte, aspettando che essa li facesse piombare all’inferno.
Un bagliore violaceo invase la stanza sotto forma di un vento funesto che soffiava in tutte le direzioni e faceva muovere la treccia di Henriette come una serpe. La ragazza chiuse gli occhi, in attesa che Rhys parlasse di nuovo.
«E con il potere conferitomi da Re Lucifero noi ti doniamo la forza di liberarlo!» disse Rhys, la sua voce si espanse aiutata dal vento impazzito, che si diresse come una cascata di pece verso Henriette. L’impatto la scaglio contro il muro alle sue spalle; fitte lancinanti alla testa la fecero dibattere per il dolore.
«Non ti preoccupare, presto tutto sarà finito.» cercò di rassicurarla Rhys, ma il suo tono disumano non la aiutò di certo.
Violente scosse elettriche le percossero le membra stanche, ed una cupola di luce nera l’avvolse, impedendo ai demoni che c’erano nella sala di assistere alla trasformazione.
Le sue braccia e le sue gambe si fecero più muscolose, i capelli castani cambiarono il loro colore e i suoi occhi scarlatti assunsero sfumature verdi e castane. Si lasciò sfuggire un gemito di dolore, che però venne bloccato dalla cupola che l’avvolgeva. Henriette aveva la consapevolezza che la sua vita stava cambiando, e non solo in senso metaforico. La sua anima dannata ora aveva un compito, uno scopo per cui sacrificarsi. Ma anche se la cosa suonava piuttosto nobile per Henriette era tutto il contrario. sarebbe morta, in ogni caso. Conosceva la forza dell’amore di Ginevra e Stefano, i forti incantesimi di Edoardo e Micaela. Li conosceva tutti, e sapeva il loro reale potenziale.
Non ebbe il tempo di pensare altro che la cupola attorno a lei si dissolse come cenere nel vento. E quando successe davanti a Rhys non c’era più Henriette, ma la macchina distruttrice che
avrebbe messo fine alla vita Ginevra. Un’altra volta.
«Ed ora vai, mia cara.» le disse Rhys soddisfatto.
La ragazza si eresse in piedi e camminò verso le tende di velluto che l’avevano fatta entrare.
Ma prima che potesse varcarle sentì una voce alle sue spalla chiamarla. Si girò di scatto, gli occhi di Rhys nei suoi.
«Ma ricorda una cosa, se fallirai, cosa molto improbabile, la tua anima sarà torturata eternamente dalle lussuriose cavallette della morte, e il tuo corpo sarà pasto più che consono per cerbero.» le sorrise Rhys, divertito.
La ragazza face cenno di sì con il capo e si preparò per varcare i cielo sotto forma di corvo nero.




Ehiii! credevate che non sarei tornato per perseguitarvi con un seguito?? beh, vi sbagliavate muhahahhaha
Qs prologo l'ho scritto in un momento di assoluta ispirazione, dove le mei mani si muovevano come quelle di un robot. (si, sono un cyborg, non l'avevate capito??)
Allora, vi è piaciuto? CHe dite, abbastanza iontrigante? Chi è Henriette? e che ruolo avrà nella storia? (beh, oltrw a quello du liberare Lucifero)
Ho fatto assaporare una bella atmosfera?? spero proprio di sì!
la copertina??? vi è piaicuta??
a me tantissimO!!!!!!!!!!!!
okay, ora vi lascio che è arrivato il momento di andare a fare la penichella pomeridiana come i vecchietti
baci
F99

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Capitolo 2
*** 1. Per l'eternità. ***


I
 

 
Il cielo era nero, come se qualcuno ci avessero rovesciato addosso un calamaio d’inchiostro, che si era presto diramato, assoggettando la volta celeste al suo colore scuro e traslucido. Enormi nuvole plumbee non permettevano alla già fioca luce di accarezzare la terra con i suoi raggi, privandola di quell’esigenza che da sempre aveva dato per scontata. Leggeri soffi di vento si insinuavano fra gli effimeri fili d’erba, facendoli ondeggiare al ritmo di una musica muta e macabra. Le lapidi di pietra si stagliavano dal prato incolto, spuntando come relitti di vecchie imbarcazioni, a cui il destino aveva deciso di far rivedere per l’ultima volta la luce del sole. Sentieri tortuosi e usurati dal tempo salivano per le colline tetre come serpi in cerca di una preda da poter inghiottire, ma che scappava loro appena la loro lingua li sfiorava.
Gli alberi secolari si elevavano dalla cima delle colline, i loro rami protesi verso il cielo e le foglie secche in balia dei fruscii del vento crescente, che le privava di ogni tipo di appiglio. L’odore acre della cenere era nell’aria, a simboleggiare ulteriormente l’austerità di quel luogo, dove nemmeno un’anima viva si addentrava senza motivo. Una chiesa in marmo bianco si trovava al centro del cimitero, il grande campanile che fendeva l’aria verso l’alto, come a chiedere un po’ di carità a quel dio che aveva creato quel luogo. La facciata gotica della chiesa incuteva una certa inquietudine a chi la guardava, e guglie aguzze dai colori spenti troneggiavano al fianco dell’imponente campanile. La campana d’ottone era ferma, come se ci fossero catene indistruttibili a garantire che non si muovesse e andasse ad intaccare il silenzio che assoggettava il cimitero.
Una folla di persone era radunata davanti alla chiesa, i visi malinconici e i vestiti rigorosamente neri che avvolgevano le loro membra stanche e segnate da un lutto sconvolgente.
«E che alla sua anima sia concesso l’ingresso al paradiso. Amen.» disse il prete, in piedi davanti ad una grande cassa da morto realizzata in legno scuro, probabilmente in ebano. Rimase qualche istante in silenzio, per concedere alla folla che aveva davanti di mandare l’estremo saluto alla vittima che giaceva all’interno della bara. Quel lavoro non gli era mai piaciuto, chi era lui per fare da tramite fra la Terra e il Regno dei Cieli? Con che coraggio avrebbe dovuto guardare in faccia la gente che conosceva il cadavere e dirgli che non l’avrebbero mai visto, ma che la sua anima sarebbe arrivata in paradiso, quando nemmeno lui ne era certo? L’angoscia gli montò dentro, stringendogli lo stomaco e facendogli sbattere un paio di volte le palpebre per scacciarla. Ma essa pervase, era come un parassita, che si nutriva del suo essere per prosciugarlo e privarlo di ogni emozione che fosse lontanamente felice.
Ad una goccia di pioggia cadde dal cielo, infrangendosi a terra, come aveva fatto poche settimane prima la vita di Rebecca, vittima di forze più grandi di lei.
Ginevra si strinse al braccio forte di Micaela per cercare un sostegno che le concedesse stabilità emotiva, fosse anche stato per un attimo, non le importava. Aveva bisogno di qualcosa a cui attaccarsi, un appiglio per non cadere nel baratro oscuro e senza fondo della disperazione, che non aspettava altro che la sua anima pura e immortale per colmare la sua enorme voragine. Micaela la strinse a sé, facendole appoggiare la testa sulla spalla e cercando di essere forte, quando nemmeno lei stessa ne aveva la certezza. La tristezza segnava il suo viso angelico come una maschera altera, e, in quel momento, si sentì più vicina a qualcosa di umano in tutta la sua vita.
Baciò i capelli scuri di Ginevra, cercando di infonderle una briciola di conforto, che però fu annientato dallo scudo di negatività che Ginevra aveva eretto attorno alla sua mente per proteggersi dal mondo esterno, che le aveva strappato la nonna con crudeltà e ferocia. Una lacrima salata le segnò le gote arrossate, scendendo fino al pesante abito di cotone nero che sua madre l’aveva obbligato ad indossare. La ragazza si era in primo momento rifiutata, ma la sua poca forza di volontà aveva fatto sì che le pressione di Alessandra riuscissero a farle indossare quello stupido abitino per “Barbie in lutto per Ken”, come lo chiamava la ragazza ironicamente. Era lungo appena sotto il ginocchio, lo scollo a V che metteva in risalto parzialmente il seno e le maniche lunghe, che non permettevano al clima stranamente freddo di quell’estate di infierire sulla sua salute.
Micaela, vedendo la lacrime dell’amica, usò i suoi poteri per alleviarla. Un soffio di vento appena percettibile la scostò dal viso di Ginevra, e la fece ondeggiare davanti a suoi occhi stupiti. La ragazza osservò quella piccola lacrima cristallina risplendere della poca luce che il firmamento concedeva, e le sembrò fosse l’emblema della sua vita, una minuscola lacrima in confronto ad un oceano di crudeltà, a cui bastava muovere solo un dito per annientarla. Micaela, intanto, faceva compiere alla lacrima una danza aggraziata e lenta, come se fosse un fiocco di neve. Ma Ginevra abbassò lo sguardo, non voleva che la cosa riuscisse a distrarla dal forte dolore che aveva in petto. Non lo sentiva giusto nei confronti della nonna, che meritava tutte le sue attenzioni, dato che era stata colpa sua se era morta. Colpa sua e della sua eterna maledizione, che nei secoli l’aveva sempre privata delle persone a cui teneva di più al mondo. Altre lacrime seguirono la precedente, testimoniando la consapevolezza che aveva di se stessa e del gioco di potere intrecciato alla sua vita fin dal suo concepimento.
«Ginni, cerca di essere forte…» le sussurrò Micaela all’orecchio, e la sua voce rassicurante le penetrò nella mente, ridestandola dai brutti pensieri.
La ragazza si voltò verso Micaela, inchiodandola con uno sguardo fin troppo intenso, di quelli che solo lei poteva riservarle.
«C-come faccio a essere forte…?» domandò con voce rotta, le lacrime continue che le rigavano il volto distrutto e il vento che le scompigliava i lisci capelli e che li faceva muovere come ali di corvo impazzite.
Micaela restò in silenzio, come se le parole malinconiche di Ginevra la avessero derubata della sua voce rassicurante, che non riusciva a rispondere alla domanda fin troppo vera che le aveva fatto l’amica. Sostenne a fatica lo sguardo di Ginevra, facendo appello a tutto il suo autocontrollo per non scoppiare in un pianto disperato, come già l’amica aveva fatto. Lei era una creatura angelica, discendeva dal Paradiso e da una stirpe pura come le piume candide di una colomba, e mai avrebbe dovuto permettersi di infrangere il già sottile confine fra la sua natura e quella umana. Ma Micaela era stata troppo tempo sulla terra, e ogni volta che veniva a contatto con Ginevra e con i suoi familiari, era come se si avvicinasse sempre più al mondo terreno, dove i peccati erano all’ordine del giorno e dove l’istinto comandava l’individuo, senza lasciargli nemmeno la minima forza di volontà.
A quei pensieri che ricordavano un passato lontano, sepolto da secoli di distruzione e lacrime, abbassò lo sguardo da quello di Ginevra, consumata dal senso di colpa per non essere un’amica forte come Ginevra meritava.
«Micaela, scusami…» sussurrò Ginevra cercando gli occhi dell’angelo, che però fissavano il terreno, l’unico che secondo lei meritava il contatto con i suoi occhi.
«Non scusarti, sono io che dovrei farlo...» rispose la ragazza, i capelli color del grano che si muovevano come calme onde di un mare di oro fuso. Restò in silenzio per qualche istante, l’aria sempre più intrisa della delusione che provava nei propri confronti.
Ginevra la guardava, gli occhi d’oceano alla ricerca di un sorriso familiare e confortante, di quelli che solo l’amica sapeva regalarle per placare la tempesta di sentimenti oscuri che le girava sempre più vorticasamente nel petto. Ma quel gesto familiare non arrivò, come se nemmeno Micaela avesse più la forza di regalarle. E allora cominciarono ad arrivare i singhiozzi, prima deboli e soffusi e poi, mano a mano che le lacrime le rigavano il volto, sempre più forti e colmi di tristezza e rabbia.
Al sentirli il cuore di Micaela si strinse, come se artigli oscuri l’avessero assoggettato al loro volere. Una nuova forza le cominciò a inebriarle le membra; era forte e pura, come se arrivasse direttamente da lassù, da dove il suo Signore vegliava sempre vigile su di lei, in attesa che lei avesse bisogno del suo aiuto.
L’angelo, allora, in balia della nuova forza, guardò Ginevra e sorrise, ignorando i suoi singhiozzi e le sue lacrime. Le sorrise per rassicurarla, per dirle senza parole che andava tutto bene. Le sorrise per ridarle l’amica che meritava, per restituirle tutto ciò che lei le aveva dato diventando sua amica e facendole conoscere la gioia di essere emozionata ed umana.
E Ginevra, a quel gesto, non poté fare a meno che ricambiarlo. Le sue labbra si incurvarono i quello che doveva sembrare un sorriso titubante ed instabile, come se bastasse un soffio di vento per spazzarlo via.
«Sai, una volta mi hai detto che la vostra forza arriva da qui dentro.» le disse Micaela sfiorando con l’indice il cuore dell’amica, che diffondeva per il suo corpo battiti sempre crescenti, segno della forte emozione di Ginevra.
«Io non ti avevo creduto, avevo fatto molta fatica ad accettare che una virtù celeste come la forza derivasse da un’insignificante organo umano. All’epoca erano gli inizi della missione, e ci conoscevamo da solo una decina vite, e la tua amicizia non mi aveva ancora presa così come adesso.» Micaela scosse la testa e scacciò le lacrime che le bruciavano ai lati degli occhi. «Ma ora io ci credo, ed è ora che ci creda anche tu.» sussurrò, lo sguardo intrecciato a quello di Ginevra. Nella mente di questi cominciò a farsi sempre più nitido quel ricordo, che la sua anima immortale non aspettava altro che mostrarle da molto tempo.

 






§ Germania, 9 Agosto 1321, Crepuscolo §
 





La luce del crepuscolo tingeva il cielo come una carezza infuocata, illuminando ogni cosa con il suo bagliore rosato ed intenso, e proiettando imponenti ombre sul terreno. Le sagome di due ragazze si stagliavano snelle sul tetto forato e usurato dal tempo di una vecchia casa di campagna, dove la polvere e la desolazione regnavano sovrane. Le due ragazze sedevano a penzoloni sul cornicione lacero, i vestiti da umili contadine che avvolgevano le loro membra e la brezza di fine estate che gli accarezzava i volti giovani ma allo stesso tempo centenari. Una delle due aveva folti capelli neri, che le scendevano sulla schiena legati in una treccia trasandata, e una catenina d’argento che le pendeva dalla camicia ingiallita. Fissava l’orizzonte, dove il sole si stava dissolvendo, facendo sì che l’equilibrio fra il giorno e la notte fosse rispettato. L’altra ragazza aveva profondi occhi azzurri, le sfumature violette che ne scalfivano le superficie come fossero nastri. Era intenta a intrecciare alcuni fili di grano, mentre non prestava alcuna attenzione allo spettacolo crepuscolare che aveva davanti, tante volte l’aveva già visto.
La ragazza dai capelli neri, ad un tratto, le si sedette più vicina, facendo tintinnare la catenina che portava al collo, che rappresentava due angeli leggiadri suonavano arpe d’ottone. Gliel’aveva regalato l’altra pochi giorni dopo che si era trasferita in quella piccola cittadina di campagna, dove Ginevra viveva dalla sua rinascita.
La ragazza bionda alzò lo sguardo, trovando quello della mora, che la fissava pensierosa.
«A che pensi, Ginevra?» le chiese, curiosa. L’altra tentennò qualche istante, quasi dovesse mettere ordine ai suoi pensieri per esporli.
«Al fatto che siamo davvero effimeri, in confronto alla bellezza del tramonto.» rispose ritornando a fissare il sole scemare, come se fosse fatto di granelli di sabbia, che venivano trasportati via dalla brezza della notte.
«E che non abbiamo forza in confronto a ciò, se non quella che deriva da qui.» aggiunse, portandosi una mano al cuore.

 




§
 




Ginevra ritornò al presente, il ricordò svanì come una cortina di nebbia spazzata via dal vento. Si riscosse, come se la sua mente fosse appena ritornata nel suo corpo dopo un lungo viaggio che andava a ritroso nei secoli per afferrare ciò di cui aveva bisogno in quel momento. La volontà. Ecco cosa simboleggiava quel ricordo tanto intenso, e che si legava al presente con una precisione impressionante. Lei doveva trovare la forza di volontà, sepolta ma ancora vigile nel suo cuore, che poteva ritornare a bruciare, risorgere da ceneri appesantite dal tempo che passava.
Si ridestò ad un tratto, quando una folata di ventò le sferzò sul volto. Quelle parole le aveva dette davvero lei, la Ginevra che in quel momento credeva in ciò che diceva, e che era certa che la forza derivasse da lì. Le stessa Ginevra che, ora, si aggrappava avidamente a quella consapevolezza per sopravvivere e per restare a galla in quell’oceano che aveva tolto crudelmente la vita a sua nonna.
«Allora? Cos’hai visto?» le chiese Micaela, il volto contratto dalla curiosità. Anche nella sua mente quel ricordo era riaffiorato come un relitto lontano, che le aveva fatto sfiorare, di nuovo, la bellezza della loro amicizia eterna.
«Quello che dovevo vedere.» rispose Ginevra travolgendola in un abbraccio che l’angelo ricambiò con affetto.
Rimasero così, l’una fra le braccia dell’altra, due ragazze che cercano sostegno in un’altra persona, finché Alessandra non le riscosse.
«Ragazze, dobbiamo seguire il parroco, stanno per sotterrare la bara.» disse loro con un filo di voce. I capelli biondo cenere le stavano raccolti in una crocchia ordinata, e gli occhi castani non si soffermavano mai su qualcosa in particolare, data la forte angoscia che le opprimeva il petto.
Ginevra e Micaela sciolsero il loro abbraccio e seguirono Alessandra dietro la chiesa, dove una grossa ruspa gialla scavava una profonda fossa nel terreno. Una grossa folla di persona le stava intorno, fissando quella fossa, che si faceva via via più grande, come il varco che l’assenza di Rebecca aveva lasciato nei loro cuori. Ginevra si fece largo fra la folla, riconoscendo alcuni volti di parenti che non vedeva da tempo, ma che affioravano nei suoi ricordi d’infanzia mano a mano che li incontrava. Davanti alla ruspa, chino a terra, trovò suo padre. Le sue mani forti si addentravano nella coltre disordinata di capelli corvini, come se li volesse strappare. Era stato un duro colpo la morte della madre, che l’aveva fatto cadere nella disperazione, come era già successo con il decesso del padre, avvenuto quattordici anni prima. Era sempre stato un uomo fragile, in vita solo grazie alle medicine e all’alcool, che era il suo unico modo per provare emozioni oltre alla paura e all’autocommiserazione.
Gianni fissava intensamente il terreno umido delle sue lacrime, che scendevano a fiotti dagli occhi arrossati, come se il dolore potesse essere espulso dal suo corpo attraverso quelle gocce argentee. Singhiozzi sempre crescenti scuotevano il suo corpo ripetutamente, e Ginevra provò un’innata compassione per lui. Non appena lo ebbe raggiunto gli posò una mano sulla spalla, sperando che il suo tocco riuscisse in qualche modo a confortarlo e rassicurarlo. Lui alzò piano il capo, incrociando il suo sguardo per una frazione di secondo, dove la ragazza gli fece percepire la sua presenza e il suo sostegno. Poi, come se lei non ci fosse, ritornò a piangere.
Intanto la bara veniva calata lentamente verso il fondo della fossa, inghiottita dalla coltre di terra che prima la riempiva e che ora ne giaceva ai lati. Ginevra scrutava la scena facendo appello alla sua forza, che sentiva farsi più intensa ogni attimo che passava nel proprio cuore. Ad un tratto qualcuno le sfiorò la mano, e la ragazza voltò il capo verso vedere chi fosse. Ebbe una grande sorpresa nel vedere che era Susanna, la sua sorellina, che, con la sua infantilità, le si era avvinghiata al braccio. Ginevra le sorrise; la tenera età della sorella era come uno scudo che la proteggeva dalla realtà, facendogliela apparire altera e sempre gioiosa, anche in un momento come quello, dove di felicità non ce n’era nemmeno l’ombra.
Susanna poggiò la testa sulla spalla di Ginevra, inondandola con i suoi ricci corvini, e facendola travolgere dalla familiarità che solo quel gesto fraterno poteva infonderle.
«Mamma mi ha detto che nonna è andata a fare un viaggio.» disse Susanna nell’orecchio alla sorella. «Ma non mi ha detto se tornerà.» aggiunse.
Ginevra restò qualche istante in silenzio, pensierosa, mentre la ruspava riversava la terra sulla tomba della nonna, che ormai giaceva tre metri sotto terra. Fissò il cielo nero, e notò qualcosa sfrecciarvi attraverso velocissima, come un proiettile infuocato. Ginevra lo seguì con lo sguardo, vedendo una scia di piume corvine precipitare verso terra, sospinte dal vento, e la sua immagine perdersi nell’immensità scura che era la volta celeste. Le brillarono gli occhi nel capire che quello era un corvo, un’animale oscuro e sfuggente, dannato dall’inizio dei tempi, vittima di tormenti interiori laceranti, la cui anima era vincolata da una maledizione che trovava radici risalenti alla scissione della Stirpe Celeste. Ma era anche un’animale elegante e leggiadro, le cui piume erano lucenti come ossidiana e gli occhi profondi come burroni, ma le cui spire riuscivano a portarla verso un mondo parallelo, riuscendo ad isolarla dal dolore che aveva intorno e avvolgendola nel suo abbraccio oscuro e benefico. Perché quello non era un corvo, o meglio, un demone qualunque. Quello era il suo demone, la persona con cui aveva condiviso l’avanzare dei secoli, con cui aveva dato alla luce un amore profondo e sincero, che sapevo alleviare le sue ferite. Si sfiorò le labbra con un dito, poteva sentire il sapore delle sue ancora sulle proprie, come se ogni che la baciava le lasciava impresso una parte di lui. «Stefano…» sussurrò senza pensare.
«Allora, Ginni?» la voce della sorella la riportò alla realtà. Ginevra si riscosse, interrompendo il flusso senza controllo dei propri pensieri e cercando una risposta da dare all’innocente domanda di Susanna.
«La nonna tornerà dal suo lungo viaggio?» chiese la bambina.
Questa volta Ginevra non indugiò a risponderle.
«Sì, tornerà.» disse, più per convincere se stessa che Susanna.
«E quando?»
Ginevra aggrottò la fronte; alle volte la curiosità infantile della sorella la metteva in seria difficoltà.
«Quando tu sarai grande e forte; quando sarai così alta da poter toccare il cielo con un dito.» rispose, sperando che la bambina si accontentasse.
«Dici che ci vorrà tanto?» chiese Susanna scrutando il cielo scuro, che le nuvole stavano via via coprendo.
«Beh, diciamo che devi mangiare tanta carne per allungare queste gambette esili!»  Ginevra le diede qualche pizzicotto e la sorellina si oppose ridacchiando. La sua risata le sembrò un frammento lontano di felicità, uno spiraglio che squarciava la tristezza che in quel momento avvolgeva ogni cosa.
Susanna sfuggì alla stretta della sorella e la fissò, i suoi occhi castani in quelli blu di Ginevra a cercare anche la più piccola ombra di menzogna. La ragazza cercò di comunicarle una sicurezza che non aveva, ma riuscì a rendere il suo sguardo credibile. Susanna, sazia di informazioni, le stampò un bacio sulla guancia e corse via, il vestito nero che indossava, identico a quello di una bambola di pezza, che ondeggiava a ritmo con il movimento dei suoi piedini.
Ginevra sorrise e riportò lo sguardo sulla tomba della nonna, ormai ricoperta di terra. La ruspa si stava allontanando, come stava facendo la folla di gente dietro di lei, che si disperse nel cimitero come una coltre informe di formiche che scappavano da un formichiere. Rimase sola con il suo dolore a fissare l’orizzonte, dove le nuvole si annidavano come vincolate da una ragnatela appiccicosa e avvolgente. In sottofondo ai suoi pensieri c’era il rumore soffocato dei singhiozzi del padre ed il fruscio continuo del vento fra i fili d’erba. Micaela la aspettava con Edoardo appoggiata al muro della chiesa, le braccia conserte e mille pensieri che le ronzavano nella mente.
I due angeli aspettarono per un quarto d’ora buono Ginevra, che si era abbandonata al continuo proiettarsi di ricordi felici con Rebecca. La ragazza, interrotto il flusso dei suoi ricordi, si avvicinò a Micaela ed Edoardo che, in un silenzio innaturale, la scortarono verso i cancelli del cimitero. Quando vi arrivarono, Ginevra li congedò, dicendo loro che sarebbe tornata a casa da sola. Edoardo era un po’ riluttante, dopotutto nemmeno una settimana prima la ragazza aveva rischiato di morire, e non si sentiva sicuro di lasciarla girare sola per la città, potevano esserci demoni nascosti e pronti a finire ciò che Karl aveva lasciato in sospeso.
Ma Ginevra era irremovibile e, con l’aiuto di Micaela, riuscì a fargli cambiare idea. Trenta minuti più tardi, dopo aver avvisato la madre, Ginevra camminava per le vie tetre della sua città. Era senza meta, un’eterna pellegrina che aveva smarrito la strada di casa, proprio come Hansel e Gretel. I suoi occhi vagavano persi alla ricerca di Lui, in cerca del suo sostegno e delle sue labbra calde e rassicuranti. Ma lui non c’era, meglio, questo era quello che credeva. Un’ombra scura le si proiettò a fianco, confondendosi con la sua. La ragazza si fermò di scatto, il respiro mozzato il gola e gli occhi fissi sulla sua ombra. Sentiva il peso del suo sguardo sulla schiena, ed una strana sensazione le avvolse le membra, come se fosse stata perforata da una lastra di ghiaccio e poi da una spada incandescente. Un brivido la fece sobbalzare, ed una folata di vento le fece agitare i capelli davanti agli occhi, impedendole per un attimo di vedere. E, in quell’attimo, lui agì. Compì uno scatto velocissimo verso di lei, portandosi a pochi centimetri dal suo corpo. Le cinse la vita con forza e, con veemenza, la sbatté contro il muro di una vecchia villa ottocentesca che costeggiava la strada su cui la ragazza vagava.
La inchiodò con uno sguardo penetrante, i suoi occhi neri come il catrame intrecciati a quelli blu come l’oceano di lei. si fissarono per attimi che parvero eterni, perdendo la cognizione del tempo. perché quando l’uno stava con l’altra tutto perdeva importanza al di fuori di loro due, e l’unica cosa che contava era il loro amore, il legame eterno che li legava come catene indistruttibili, che nei secoli non avevano mai allentato la loro presa.
«Stefano…»sussurrò Ginevra, le mani legate attorno alle spalle di lui.
«Sì, sono io, Ginevra.» le rispose in un sospiro, il proprio corpo percosso da brividi di eccitazione per la vicinanza con il suo.
«P-perché non c’eri al funerale?» chiese la ragazza togliendosi una ciocca ribelle dal viso, non voleva che niente intralciasse il contatto con gli occhi di Stefano.
Lui restò qualche istante pensieroso, poi rispose: «Non mi sembrava giusto assistere alla morte di una persona che io stesso avrei cercato di uccidere qualche mese fa.»
«Ma tu non sei più come qualche mese fa, o come qualche secolo fa. Tu sei diverso, migliore…»gli disse percorrendo con le dita affusolate il contorno del suo volto.
Lui protese il viso verso quello di lei, la distanza si faceva via via sempre minore. «Hai ragione, e proprio grazie a te.»
«Stefano…io avevo bisogno di te…» ribatté Ginevra frastornata dalla bocca di lui, sempre più vicina alla propria.
Quando le labbra di Stefano furono a pochi centimetri dalle sue, il ragazzo le rispose: «Ma io ora ci sono; sono qui, per te. Grazie a te.» le rispose sfiorandole le labbra con le proprie.
«E ci sarò sempre.» la baciò con intensità, lasciando che la passione prendesse il sopravvento su di lui. Si baciarono per qualche minuto, poi lui si staccò da lei e la trafisse con uno sguardo.
«Per l’eternità.»



Ehiiii! Ciao, popolo di efp, sono tornato! Lo so, vi ho fatto attendere più o meno un mese....ma l'ispirazione non arrivava proprio!
Prometto che il prossima cpitolo arrivera presto, ma, intanto, come vi è sembato uesto???
Sono riuscito a trasmettervi la tristezza di ginevra? il flash back sulla vita passata e la parte finale con Stefano vi è piaciuta?
Ci ho messo un'intera giornata a stendere questo capitolo, gradirei i vostri pareri.
Alla prossima
baci
F99

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Capitolo 3
*** 2. Amore e dannazione ***


 

II:

Amore e dannazione

 

L’aria calda smuoveva le ciocche nere di Ginevra, che sembravano lunghe piume di corvo che si libravano nel cielo scuro, assoggettato alle brame del buio. Le stelle splendevano fiocamente, pepite d’oro adagiate sul manto del firmamento, e lanciavano riflessi soffusi sui tetti alti degli edifici. Ginevra sedeva sul tetto di casa sua; le ginocchia al seno, le braccia incrociate e gli occhi persi nel buio, che la osservava a sua volta, cercando di capire quale stato d’anima la affliggesse. La parola per descriverla era: persa. Perché perso era il suo animo, il suo sguardo, la sua mente, che cercava invano di capire il perché la vita delle persone che le stavano accanto doveva spegnersi come il debole fuoco di una candela, succube di un forte vento funesto. Il Destino.

Doveva succede ogni volta. In ogni vita, e proprio alle persone che aveva più vicine, che condividevano la sua quotidianità ed il suo cuore. E Ginevra era stanca di dover vivere una vita che non era la sua, ma quella di una ragazza che secoli prima era stata così stupida da accettare un patto con gli angeli, creature pure e celesti, ma che l’aveva ingannata relegando dentro la sua essenza Lucifero, che si rincarnava con lei ad ogni sua morte, e che era la sua costante parte oscura e misteriosa. La sua eterna condanna. La sua immortale maledizione.

Due lacrime gemelle le solcarono le gote , ma la ragazza non se ne accorse, tanto era persa, rassegnata al tempo che avanzava come un predatore ed insabbiava la sua vita nella continua disperazione. La consapevolezza che in quella vita sarebbe morta e non sarebbe più rinata non le era certo d’aiuto, come se ora fosse cosciente che era giunta al capolinea, da cui non si tornava più indietro. Si stava sempre più avvicinando alla battaglia finale, quella che avrebbe visto vincitrice una delle due fazioni nemiche che reclamavano il suo potere. O meglio, il potere che Lucifero, il suo simpatico coinquilino, possedeva. Era così frustrante sapere di non interessare a nessuno se non per la forza distruttrice e apocalittica che costudiva da secoli inconsapevolmente. Per tutti era un’oggetto, la carta vincente per arrivare alla vittoria di un gioco di potere perverso e maledetto, iniziato da quando Dio aveva creato il mondo come lo conosciamo.

Due nemici. Due stirpi. Due giocatori che muovevano senza scrupolo pedine chiamate persone e sacrificandole senza pietà solo per arrivare alla casella della vincita, dove il loro padre li avrebbe premiati. Ginevra scosse la testa, i capelli morbidi le ricaddero sulla schiena come una cascata d’ebano. Era assurdo pensare che Dio, che le avevano sempre descritto come il salvatore di ogni cosa, padre del bene e della felicità, avesse creato quel gioco e quei giocatori assetati di potere.

I singhiozzi cominciarono a scuoterla quando capì di essere solo una pedina, come lo era stata Rebecca, con la sola differenza che sua nonna aveva pagato le conseguenze che avrebbe dovuto pagare lei, l’unica persona che meritasse tutto il male del mondo, dato lo spirito sadico che occupava parte di lei.

Si appoggiò con la schiena alla struttura esterna del camino, che non doveva funzionare da quando aveva quattro anni. La brezze di inizio estate le accarezzò la pelle, e Ginevra chiuse gli occhi, immaginando che ad accarezzarla fossero le dita di sua nonna, calde e confortevoli come quelle di nessun altro. Sentì un fruscio provenire dalla strada, ma lo ignorò, abbandonandosi alle carezze del vento, che le inebriavano la pelle come balsamo. immaginò la nonna, vestita con un abito di luce bianca e i capelli intrecciati da una ghirlanda di camelie bianche, i suoi fiori preferiti, venirle incontro con un sorriso rassicurante sul volto e porgerle una mano per andare via con lei, evadere da quella realtà che della sua vita si era presa anche troppo. Tese la mano, cercando quella invisibile della nonna, ma quando si stavano per toccare la figura di Rebecca sfumò, come coperta da un manto d’oscurità. Ginevra cominciò a piangere. L’aveva persa. Ancora.

Ripensò all’oscurità, a come sei mesi prima la considerasse la sua unica amica, e di come aveva scoperto essere tutt’altro che quello. Era cattiva, e racchiudeva il bisogno di Lucifero di avvicinarsi a qualcosa che rispecchiasse la sua essenza per sentirsi anche solo di poco a casa. Da dove era venuto. Dall’Inferno.

Un brivido la riscosse, e quando aprì gli occhi trovò un volto a pochi centimetri dal suo. Era bello. Maledettamente bello. Il suo respiro caldo le inebriava il collo come una brezza tiepida, ed i suoi occhi scuri la divoravano con la voracità appartenente solo ai predatori che guardavano la propria preda. Perché quello erano Ginevra e Stefano. Preda e predatore. Antagonisti in una lotta che la ragazza sentiva di aver già perso in partenza.

«C-cosa ci fai qui…?» chiese Ginevra fissandolo negli occhi. Lui restò zitto, la luce della luna che illuminava il suo profilo come una lama di luce. Due ali da corvo gli spuntavano dalla schiena fendendo l’aria in verticale. Sembravano fatte d’ossidiana tanto erano lucide e scure.

«Che c’è? Non avrò forse il diritto di vedere la mia ragazza?» ribatté lui, evidenziando le ultime parole con un tono colmo di ammirazione e tenerezza. Lei si accigliò, come se il sentire di quelle parole l’avessero risvegliata dalla trance in cui era caduta.

«Sai, è la prima volta che mi chiami così…» disse in un soffio, la bocca di Stefano che sfiorava impercettibilmente la sua.

«E allora? C’è forse qualcosa di strano se chiamo le cose con il loro vero nome?»

Ginevra stette in silenzio qualche istante, poi rispose:

«No…ma è...»deglutì cercando di scacciare il nodo che le stringeva la gola.

«Cosa, Ginevra? Cos’è?» domandò con tono sibilante Stefano. La inchiodò con uno sguardo penetrante, e la ragazza sentì un macigno pesantissimo riempirle lo stomaco.

«Niente.» sussurrò: «Non è niente.» aggiunse con più decisione.

Lui si accigliò, avvicinandosi così tanto a lei da farle premere la schiena sul camino e da farle sentire ogni spigolo di mattone toccarle schiena.

«Ginevra, non mentirmi, ti prego. So capire quando uno mente e quando dice la verità, e lo sai bene. Tu più di chiunque altro» disse deciso.

Lei deglutì, ma il nodo non accennava a scomparire.

«Ti da fastidio che ti chiamo così? Non vuoi più stare con me, è forse questo, Ginevra?» intimò.

«No, non pensarlo nemmeno per scherzo. È solo che devo ancora abituarmici, tutto è stato così improvviso…così magico.» gli sorrise malinconica, e lui capì. Capì che non era in uno stato in cui poteva ragionare lucidamente, l’anima segnata fin troppo profondamente dal lutto della nonna, che le impediva di approcciarsi come prima alla realtà, e che vincolava la sua mente nelle spire dell’angoscia e della tristezza.  

«Davvero, non ti preoc…» non fece in tempo a finire la frase che lui le tappò la bocca con un bacio che lei ricambiò con passione e prontezza, come se lo aspettasse. Le loro lingue si intrecciarono in una danza passionale e sfrenata, mentre le braccia di Stefano le affondavano nella camicetta, come altrettanto stavano facendo quelle di Ginevra con la sua maglietta. Si baciarono con foga, le labbra non si staccavano nemmeno per un secondo, e le loro anime erano in comunicazione, unite dall’amore che legava i loro corpi indissolubilmente. Ginevra lo attirò co sé con veemenza; la maglietta di Stefano non copriva più il suo petto ma giaceva in un angolo dimenticato del tetto. La passione che li possedeva in quel momento era così forte che nessuno dei due aveva la forza di fermarsi, di separare le loro labbra nemmeno per un secondo. Perché il tempo allontana, mette muri inutili fra le persone, anche se si tratta di un attimo o di un’eternità, come nel loro caso. Come Ginevra avrebbe scoperto qualche mese più avanti.

Le mani di Stefano le slacciarono delicatamente il reggiseno, che le scivolò via come se fosse ricoperta di sapone. Il petto di lui premeva sul suo seno, quasi a coprirlo da ciò che gli stava attorno, come se Stefano volesse tenere la sua bellezza solo per sé.

Ginevra affondò le sue mani fra i suoi capelli, mentre lui faceva altrettanto con quelli lunghi e setosi di lei. L’essenza dannata di Stefano era ormai a pochi passi da quella pura di Ginevra, che lo aspettava con impazienza. Ma quando le loro essenze si stavano per toccare, da quella bianca di Ginevra cominciò ad emergerne un’altra, più scura e melmosa, chi si fuse a quella di Stefano senza preavviso. E fu in quel momento che successe. Un’aura nera e violacea si estese dalle spalle di Ginevra, fendendo l’aria verso l’alto come una lama affilata e traslucida che si muoveva sinuosa, mossa da un vento che però non c’era.

I due amanti si baciavano senza accorgersene, fino a quando una figura scura comparve sotto l’alone di luce di un lampione, appena di fianco alla casa di Ginevra. Era bella, i capelli rossi che le accarezzavano il volto come zampilli di sangue e gli occhi viola testimoniavano l’appartenenza alla sua stirpe. Indossava un giubbotto di pelle nero, che si abbinava con la minigonna che le sfiorava appena i fianchi. Guardò sadica le sagome di Stefano e Ginevra che si baciavano, non curanti del pericolo che stava venendo a strapparli dalla loro bolla di amore.

La donna, con uno scatto fulmineo, si portò sul cornicione, a pochi metri di distanza dai due amanti. Vi si sedette sopra, le gambe accavallate e la lingua che si leccava le labbra scarlatte.

Lanciò uno sguardo all’aura nera del suo padrone che l’aveva richiamata ad attaccare. Emanava una forza e malignità che Sandra avvertiva fin da quella distanza, e la eccitava, facendola percuotere da brividi gelidi che le si insinuavano sottopelle.

Schiuse la labbra e si apprestò a parlare. «Ma che bella coppietta, quasi mi commuovo da tanta passione emanate.» gracchiò.

All’udire di quella voce, Stefano si staccò da Ginevra con la paura che gli segnava il volto. Guardò la ragazza negli occhi per cercarle di comunicare il pericolo, ma lei sembrò non capirlo, troppo frastornata dal bacio che si erano appena scambiati con passione. Stefano non ebbe il tempo di voltarsi che Sandra agì. Con una risata sadica puntò il dito indice contro le ali di Stefano, che ben presto vennero tagliate da una lama traslucida e affilata, che le perforò in un istante, facendogli levare in grido di dolore.

Sandra gli si avvicinò lentamente, assaporando l’odore del sangue cremisi che gli colava da dove la lama era penetrata.

Stefano restò immobile dal dolore, gli arti paralizzati dal disgusto che era sentire il proprio sangue impregnargli le piume lucenti delle ali. Fissò Ginevra, a sua volta terrorizzata. Doveva salvarla. In fretta.

Con uno scatto fulmineo di voltò verso Sandra e aprì più che poté le ali per nascondere Ginevra. Sfidò la donna con lo sguardo.

«Cosa ci fai qui, demone?» chiese con disprezzo. Sandra gli sorrise arrogante.

«Fino a prova contraria lo sei anche tu, se te lo fossi dimenticato, fratello

Al sentire quella parola un moto di disgusto riempì la bocca di Stefano.

«Non sono tuo fratello. Non più.» le disse contraendo i pugni.

Sandra scosse la testa, amareggiata. «Eri così forte, una volta. Avevi tutto, Potere, donne, autorità. Guardati ora. Succube di una malattia inguaribile…»

«Se amare è una malattia, allora io continuerò a contaminarmi fino a che ogni mia fibra non ne sarà infetta. Perché amare non è sinonimo di malattia, ma di felicità, Sandra, quella che tu non potrai mai provare.» Stefano avanzò di un passo, lo sguardo fermo, deciso, pronto a contrastare qualsiasi attacco che la demone avesse anche solo osato fare verso Ginevra che, alle sue spalle, tremava come una foglia.

«Bando alle ciance. Sai cosa voglio. Sai cosa vogliamo tutti.» Sandra si alzò in piedi, la sua ombra proiettata sul tetto dalla luna, l’astro per eccellenza dei demoni.

«Ma non lo avrai, Sandra. Mai.»

«Lo credi davvero?» con un lampo di malizia negli occhi Sandra scattò verso Stefano, che si preparò all’impatto. Il ragazzo affilò lo sguardo talmente tanto da ridurre gli occhi a due fessure, e dalle sue ali partì una piuma nera acuminata e sporca di sangue, che si diresse verso Sandra, la quale la evitò per un soffio. La demone spiccò un salto verso la luna, e Stefano le scagliò dietro altre piume simili alla precedente, pronte a lacerarle la carne. La donna le evitò con leggiadre acrobazie e si portò alle spalle di Stefano, assestandogli un calcio ai polpacci, facendolo imprecare e cadere. Poi aprì le labbra scarlatte e la sua lingua prese le dimensioni di una frusta che lo prese per la caviglia e lo scagliò vicino al lampione da cui era arrivata, sentendo l’attrito delle sue ali sull’asfalto con una nota di piacere.

Stefano gemette quando sentì la ghiaia penetrargli nei tagli sulle ali e la risata di Sandra rimbombare tetra nella notte. Con un rantolo di dolore e l’immagine del volto terrorizzato di Ginevra si alzò in piedi aiutandosi con il palo del lampione, continui rivoli di sangue che gli scivolavano dal volto, impregnandogli il torace. Lanciò uno sguardo truce a Sandra che, beffarda, si stagliava dal tetto con le mani sui fianchi.

«Coraggio, Generale, fammi vedere che sai fare.» lo provocò con una punta di malizia nella voce. Stefano non ci vide più. Fletté le ginocchia e spiccò un salto sul tetto, sferrando sul volto di Sandra un pugno che la fece barcollare all’indietro senza però cadere.

La donna, ripresa la stabilità, si pulì il volto con il dorso della mano e caricò un calcio verso Stefano, che lo evitò per un pelo, portandosi alla destra della donna.

Con i nervi tesi per la tensione e l’odore acre del sangue nelle narici, prese la decisione più giusta che potesse fare in quel momento. Evocò poi il suo Potere. Lingue di fuoco violacee presero a vorticargli attorno, avvolgendo il suo corpo come nastri.

«Ma guarda, il demone pentito non ci pensa due volte ad usare il Potere demoniaco. Beh, sai che ti dico, sono pronta a giocare con i tuoi stessi trucchi.» Sandra protese le braccia verso l’alto, una cascata di Potere scarlatto scese dalle nuvole e cominciò ad accumularsi sulle sue mani, che gemette di piacere. Ogni volta che un demone evocava il Potere, esso proveniva dall’Inferno, e lo faceva sentire a casa, come stava succedendo a Sandra in quel momento.

«Adesso siamo alla pari, cavaliere.» sibilò Sandra mentre faceva assumere al suo Potere scarlatto una forma sferica, che presto prese a lanciare raggi di un liquido vischioso, simile alla pece, verso Stefano, che li contrastò che le sue lingue di fuoco.

Ginevra, riallacciato il reggiseno, si rannicchiò dietro il camino, gli occhi illuminati dal puro terrore che la sola idea di perdere Stefano le procurava. Osservò la scena con le lacrime che le premevano ai lati degli occhi.

Gli impatti fra il Potere dei due demoni producevano migliaia di scintille, che presto si dissolvevano, inghiottite dal buio.

Quando la ragazza vide Stefano cadere in ginocchio per il troppo sangue perso, decise che era ora di fare qualcosa. Qualsiasi pur di dargli il tempo di riacquistare le forze. Non sapeva bene come fronteggiare un demone vero e proprio; quando le era successo con Karl era quasi morta, e il tormento di quel non molto lontano ricordo prese a insinuarsi nelle sue ossa, facendola gemere.

No. Non doveva avere paura. Stefano aveva bisogno di lei. Ora.

 Intanto Sandra si avvicinava sempre più alla sua preda, il Potere che partiva dalla sua sfera era sempre più intenso e potente, e mano a mano che il tempo avanzava, quello di Stefano diminuiva.

Quando la donna arrivò a pochi centimetri da lui gli si accovacciò a fianco.

«Ora basta giocare. Ti ucciderò in questo istante e la tua amata sarà mia, pronta a concedermi ciò che voglio.» gli sussurrò, il volto pieno di pura soddisfazione.

Stefano sostenne il suo sguardo, poi urlò: «Ginevra, scappa!»

Sandra, in un gesto automatico, per non fargli dire altro, gli serrò la bocca con un bacio in cui gli trasferì tutto il sangue che le aveva invaso la bocca dal suo precedente pasto. Stefano, disgustato, cercò di respingerla, ma la donna gli torse le braccia, impedendoglielo. Con la sua lingua ispezionò ogni centimetro della bocca di Stefano, mentre caldi brividi di piacere le si irradiavano lungo tutto il corpo.

Ginevra, inorridita, sentì un moto di rabbia risalirle la spina dorsale e attanagliarle lo stomaco. Stefano era suo. Suo e di nessun’altra, specialmente di quella sporca demone. Si eresse in piedi, i punti contratti e gli occhi ridotti a due fessure tanto era rabbiosa. Uscì dall’ombra del camino avanzò decisa verso la demone che, di spalle, non la sentì arrivare. Ginevra protese un braccio verso di lei in un gesto automatico, nemmeno fosse un robot che impugnava una spada.

«Lascia stare il mio ragazzo, strega!» sibilò a denti stretti, la mani che fremeva per stringere la gola di Sandra e liberare Stefano da quel bacio.

Al sentire quella voce, Sandra si riscosse, un ghigno compiaciuto sul volto. La ragazzina ci era cascata. Come nei piani.

Con estrema lentezza, scostò le labbra da quelle di Stefano la puntò con lo sguardo.

«Altrimenti?» fece divertita.

«Altrimenti questo!» gridò Ginevra scagliandosi contro di lei. Le afferrò la gola in una morsa ferrea e la inchiodò al terreno, gli occhi blu scuro in quelli viola della donna pronti a stritolarla.

Sandra scoppiò a ridere inaspettatamente, facendo infuriare Ginevra ancora di più.

«Credi davvero che con le tue pallide manina da quindicenne mortale riuscirai a fermarmi? Sei davvero patetico, come il tuo demone traditore.» Sandra evocò il suo Potere una seconda volta e travolse Ginevra con un’ondata della sostanza nera e vischiosa che poco prima aveva usato contro Stefano.

La ragazza soffocò un urlo e sentì il suo corpo essere scagliato verso l’alto e avvertì come se miliardi di fauci incandescenti le mordessero le membra.

Stefano, immerso in una pozza di sangue, osservava la sua ragazza essere aggredita da Sandra, ma non poteva fare niente per aiutarla. Il suo corpo era quasi dissanguato, e il suo Potere si era esaurito dopo che lo aveva utilizzato per difendersi da Sandra. La sensazione dell’impotenza lo attanagliò e lo fece sentire un verme per non poterle essere d’aiuto, per non poterla proteggere come avrebbe voluto. Una lacrime gli rigò la guancia, mischiandosi al sangue che lo circondava.

Le grida di Ginevra erano una melodia per Sandra che, dalla sua posizione sul tetto, le ascoltava con un sorriso sornione stampato sul volto. Finalmente l’aveva in pugno.

«Come ci si sente, eh, ragazzina?» chiese accavallando le gambe.

Ginevra strinse i denti e avvertì una sensazione di calore e benessere risanarle il corpo stanco e invaderla in ogni fibra del suo essere. I suoi occhi blu si fecero sempre più scuri fino a diventare neri, e dalle sue scapole, lentamente, spuntarono due ali ricurve, le piume catramose e i riflessi della luna che le attraversavano gli conferivano un aspetto regale. Stranamente, quando le ali di Lucifero le bucarono la schiena, non sentì dolore. Anzi, fu come se si fosse liberata di un peso opprimente che sin dalla sua nascita l’aveva soffocata. Levò un urlo di liberazione al cielo mentre  Sandra e Stefano osservavano increduli la scena.

Il Potere di Sandra fu eclissato da una bolla di energia che, dal petto di Ginevra, sospesa in aria grazie alle ali, si estese fino al terreno. La donna fu scaraventata a terra, quasi due braccia forti l’avessero presa e arpionata al terreno.

«Com’è possibile…?» sussurrò Stefano a sé stesso, le labbra incurvate in una “O” di puro terrore.

Ginevra non sentiva più il suo corpo, come se la sua mente fosse stata eclissata da esso e spedita in un posto lontano, privandola di ogni controllo.

Il suo corpo, impazzito, le ali spiegate, si gettò contro Sandra, inerme e atterrita, che cercava una via di scampo al fortissimo Potere che Ginevra emanava. La ragazza la raggiunse e si mise a cavalcioni su di le, avvicinandole la bocca al lobo dell’orecchio.

«Come ci si sente, eh, demone?» scandì ogni lettera con una lentezza esasperante, e quando il suono della sua voce le giunse alle orecchie inorridì. Non era lei che aveva parlato.

Prima che potesse pensare altro la sua mano strinse meccanicamente la gola di Sandra tenacemente, aumentando l’intensità della presa ogni attimo di più. Una scarica di adrenalina la attraverso, folgorandola.

Rantoli di dolore uscirono sommessi dalle labbra di Sandra, ma Ginevra, o meglio, quello che di lei restava, lo ignorò sorridendole sadicamente.

«Ginevra! Ferma!» la voce di Stefano la raggiunse nella trance in cui era caduta come un’eco lontana.

«Non sei tu!» gridò il ragazzo atterrito.

Ginevra si bloccò. la voce di Stefano, del suo Stefano, aveva risvegliato dentro di lei il briciolo di umanità che rimaneva, facendolo espandere fino a eclissare tutto il resto. Con uno sforzo immane la ragazza allontanò le mani dalla gola di Sandra, fissando inorridita le piume delle sue ali con la coda dell’occhio.

«S-Stefano, che mi sta succedendo…?» balbettò con un filo di voce, fissando Sandra riversa a terra, rivoli di sangue che le uscivano dalla bocca spalancata per la paura.

Il ragazzo, debolmente, le si avvicinò, cingendole con la poca forza che rimaneva i fianchi.

«Ora ascoltami, amore, devi ritirare le ali. Subito.» le sussurrò dolcemente all’orecchio. Lei si rilassò e distese i sensi. La vicinanza con il corpo di lui era davvero benefica.

Respirò a pieni polmoni e tentò di ritirarle.

«N-no ci riesco!» disse dopo vari tentativi vani.

«Concentrati. Sono certo che ce la puoi fare.»

«Ma…»

«Shh…» Stefano la girò verso di lui e le sfiorò la fronte con una carezza. La trafisse con uno sguardo pieno di apprensione e fiducia, che Ginevra, avida, assorbì.

«Coraggio, riprovaci.» e, con il suono premuroso della voce del demone nelle orecchie, Ginevra riuscì a ritirare le ali e riprendere il possesso sul suo corpo.

Gettò uno sguardo verso Sandra, esanime sull’asfalto, l’anima che lottava fra la vita e la morte.

«Cosa ho fatto…?» sussurrò disgustata.

Stefano le mise una mano davanti agli occhi per non farle ammirare quell’orribile spettacolo. Lei non meritava quello, non dopo che tutto il dolore che aveva subìto per la perdita di Rebecca. Non dopo le centinaia di vite passate a morire e perdere i propri cari, non dopo aver assistito a cosa lo spirito distruttore che aveva dentro di sé poteva fare. la baciò sulla fronte mentre sentiva le sue lacrime gelide percorrerle le guance e singhiozzi continui scuoterle il corpo.

«Sono un mostro.» bisbigliò Ginevra con la testa appoggiata alla spalla di Stefano.

«Non pensarlo nemmeno per scherzo. Mai. Tu non sei un mostro, è Lucifero, il vero mostro, non tu. Tu sei un angelo, Ginevra. Non dimenticarlo mai. Lo so che hai sulla pelle troppe ferite, ma farò in modo che il nostro amore le curi, che le faccia scomparire assieme a tutto il tuo dolore, che non meriti. Io ti amo, e spero che questo ti basti per essere felice. » le disse stringendola a sé.

Lei tolse la mano di lui dai suoi occhi e lo guardò dritto in volto.

«Non mi basta Stefano, ne voglio sempre di più. il tuo amore è una droga, non ne potrò mai fare a meno.» gli sussurrò baciandolo e cercando di ignorare il corpo di Sandra immerso in una pozza di sangue nero.

Ancora una volta, quella sera, la dannazione era ritornata a far parte della sua vita. Del loro amore.

Amore e dannazione, due parole che descrivevano perfettamente la vita dei due amanti, che nei mesi successivi sarà messa a dura prova.

 

 

 

 

 

Ehi, ciao a tutti, popolo di efp! Mi dispiace per quanto vi ho fatto aspettare, ma l’ispirazione non ne voleva sapere di arrivare….come vi sembra il capitolo? La lotta l’ho descritta bene? Cosa succederà ora a Ginevra, che tutti i demoni la cercano? Vi avverto che dal prossimo capitolo ci sarà un grande cambiamento, e arriveranno nuovi personaggi! U.U

Recensite, vi preego! E Scusate per evtnuali errori, sn troppo stanco per ricontrollare.

A presto

F99

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