Anno dopo anno

di La Kurapikina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 15 anni ***
Capitolo 2: *** 16 anni ***
Capitolo 3: *** 17 anni ***
Capitolo 4: *** Flash back, 10 anni ***
Capitolo 5: *** 18 anni ***



Capitolo 1
*** 15 anni ***


15 anni:

Aphrodite stava immobile sul letto, incapace di muoversi. Persino respirare gli sembrava una cosa troppo dolorosa. La musica gli risuonava in testa troppo alta attraverso le cuffie dell’I-pod, ma almeno lo tranquillizzava, impedendogli di pensare. Cos c’era di sbagliato in lui? Perché doveva sempre sentirsi diverso? Troppe cose, voleva troppe cose: la sua vita era caratterizzata dall’eccesso, che era persino un peccato. Sarebbe finito all’inferno… forse lì avrebbe trovato quel di più che gli mancava.

Lui che voleva un pezzo di paradiso si sarebbe forse trovato meglio in compagnia dei demoni. In fondo, era abituato al dolore: incompreso, circondato da amici eppure terribilmente solo.

Ma la colpa era sua, lo sapeva: gli altri davano il massimo per lui, avevano cercato di aiutarlo in tutti i modi, ma era stato inutile.

Il problema era lui.

Chiuse gli occhi, prendendo un respiro profondo: se era inutile fuggire a quel tormento, tanto valeva affrontarlo ed arrivare fino in fondo.

Fu lì, steso su un letto a soffrire sentendosi ancora e per sempre troppo diverso che Ariel Kalevi Aphrodite decise che avrebbe ceduto a quel desiderio folle: la bellezza perfetta.

 

 

 

 

 

 

Questo è solo una specie di prologo… le recensioni sono sempre molto gradite!

P.S. Non so il vero nome di Aphrodite, Ariel o Kalevi?

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Capitolo 2
*** 16 anni ***


 

16 anni:

 

Il soffio del vento gli accarezzava piano le guance, senza riuscire a cancellare le lacrime salate.

Era stanco.

Così stanco che avrebbe potuto anche lasciarsi cadere da quel balcone del sesto piano e chiudere gli occhi per sempre, ma sarebbe stato controproducente: era quasi un anno ormai che era fuggito dalla Svezia, sua patria, e si era rifugiato in Groenlandia, sparendo nel nulla. Lì, dove nessuno lo conosceva, aveva ricominciato inseguendo la bellezza, con successo. Dieta ferrea, solo cibi salutari, esercizi tutti i giorni per rimanere in forma, solo i prodotti migliori per pelle e capelli… stava funzionando. Era sempre stato carino, ma ormai stava diventando ogni giorno più bello.

E pessimo.

“Non sono una troia…” sussurrò al cielo sfregandosi con rabbia gli occhi, ma il respiro profondo del ragazzo che dormiva nudo nel letto non gli dava ragione.

In un modo o nell’altro devo tirare avanti.

Era sempre quella la scusa che si dava quando si faceva portare a casa ogni giorno da qualcuno, senza nemmeno saperne il nome.

Da loro posso dormire, mangiare, lavarmi… rubare oggetti preziosi, i trucchi delle madri, mogli o sorelle, i loro vestiti o quelli dei figli.

Non aveva problemi con i ragazzi che se lo portavano a letto in assenza dei genitori, ma per i vecchi provava veramente disgusto. Uomini sposati, con famiglia, che si eccitavano a toccare un ragazzino. All’inizio li evitava, li rifiutava, li sfotteva… poi aveva dovuto abbassarsi ancor più.

In un modo o nell’altro devo tirare avanti.

Era fuggito in cerca di fama, gloria, successo, bellezza… questa almeno l’aveva ottenuta. Certo, con prodotti rubati o regalati, ma ce l’aveva fatta.

Ormai quasi si divertiva a ricattare i vecchi, minacciandoli di urlare al mondo le loro perversioni ed ottenendo in cambio prodotti di bellezza ed abiti alla moda.

Sì, forse era una puttana, ma con stile.

Doveva solo riuscire a mettere a tacere il suo cuore in lacrime e rinchiudere i sentimenti in un angolino.

Lui che era fuggito rincorrendo il paradiso era caduto all’inferno. Ma con i demoni non si trovava bene.

Ci sarebbe riuscito.

Ci si sarebbe abituato.

Non sarebbe mai tornato a casa: lì non era nessuno.

Almeno ora… cosa? Come si poteva sperare di ottenere qualcosa da quella vita? Allora perché non si decideva a tornare indietro?

Perché era stupido ed orgoglioso: non avrebbe mai ammesso di aver fallito.

Doveva solo imparare a mentire anche a se stesso e sarebbe stato meglio.

Forse, con il tempo, avrebbe ottenuto qualcosa… forse se ne sarebbe dovuto andare di  nuovo. Polonia, Finlandia, Austria… il mondo era grande.

Arrivare in Groenlandia non era stato difficile: aveva radunato le sue cose, rubato tutto ciò che c’era di prezioso in casa e con quello era fuggito mentre i suoi erano al lavoro.

Semplicemente era sparito nel nulla.

Era incredibile quante cose avesse fatto grazie alle persone che gli era stato insegnato a chiamare criminali.

Ariel Kalevi Aphrodite era morto e al suo posto era arrivato Daniel. Un nome molto meno importante e molto più banale.

Il sole stava sorgendo: doveva muoversi. Non aveva tempo da perdere piangendosi addosso: aveva voluto fare una cazzata e ora ne doveva affrontare le conseguenze. Punto.

Tornò silenziosamente nella stanza lanciando un’occhiata al ragazzo mulatto che dormiva tranquillo. Nemmeno sapeva come si chiamava.

Radunò i propri vestiti, si lavò con la velocità che quella nuova vita gli aveva imposto, rubò qualche abito del ragazzo, i trucchi della madre e l’argenteria. Tornò nel bagno, nascondendo tutto nella propria valigia blu con cui aveva detto addio alla Svezia, sorrise al proprio riflesso nello specchio e fuggì.

Di nuovo.

Quel ragazzo, come tutti gli altri, si sarebbe vergognato troppo per dire la verità ai genitori. Per non parlare dei vecchi pervertiti: con loro era persino più facile.

La polizia della Groenlandia era inefficiente e lui, per loro, non esisteva.

A casa, in Svezia, c’era solo Aphrodite. Lì, Daniel.

Si allontanò veloce, nel buio, fino a quando la casa non fu che un puntino lontano.

Per tutto il tempo non si accorse di aver dimenticato in quel bagno l’unica cosa veramente importante: il proprio cuore.

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Capitolo 3
*** 17 anni ***


 

17 anni:

 

“Daniel, ma a casa non ti aspetta nessuno?”

Il ragazzo non rispose, rivolgendole un sorriso enigmatico.

Marisa era una prostituta. La conosceva da un paio di settimane: quando ti ritrovi a battere le strade è sempre meglio avere qualche conoscenza, così almeno un giorno se venissi fatto fuori sai che ci sarà qualcuno a piangerti o, se mai riuscisse ad arrivare in tempo per salvarti la pelle, disposto a rompere una bottiglia in testa al bastardo.

Marisa era stata costretta a diventare una prostituta: non aveva famiglia e tantomeno amici disposti a darle una mano. Aveva dovuto trovare un modo per sopravvivere dopo essere fuggita dall’Italia per salvarsi dagli istinti omicidi dell’ex fidanzato geloso. Neanche allora nessuno l’aveva aiutata.

“Sicuro che non vuoi venire da me? È piccolo e un po’ squallido, ma sempre meglio di niente.” Insisté la donna, scostandosi una ciocca di capelli dagli occhi scuri e fissando il ragazzo che le stava difronte. Non le aveva mai raccontato nulla. Sapeva solo il suo nome.

E sapeva che era solo.

“Non preoccuparti.” Rispose infine lui senza perdere il sorrisetto storto: “Trovo sempre un posto dove stare.”

Era vero. Tutti sapevano che era vero. Daniel era molto bello: spendeva tutti i soldi che guadagnava in prodotti di bellezza. Lui doveva essere sempre perfetto, altrimenti avrebbe anche potuto morire e tanti saluti a tutti.

Non gli serviva un posto dove tornare a fine turno come agli altri. Qualcuno se lo portava sempre a casa. Qualcuno da ingannare e derubare. Qualcuno cui vendere l’unica cosa che gli rimaneva: se stesso.

Alla fine era rimasto in Groenlandia, ma presto se ne sarebbe andato. Di nuovo.

Doveva solo trovare i contatti giusti e anche Daniel sarebbe sparito, proprio come Aphrodite.

Già, Aphrodite.

Ormai non era altro che un lontano ricordo cui preferiva non pensare: era solo un burattino tenuto in piedi da sogni di gloria. Sogni impossibili. Non sapeva affrontare la vita. Daniel, invece, sì.

Daniel era forte, freddo e senza sogni. Sognare era inutile, lo aveva imparato a proprie spese. Era da stupidi, e lui non lo era.

Marisa se ne andò: si aiutavano fra loro, ma quando Daniel si rifiutava, era impossibile fargli cambiare idea.

E poi, in fondo, la cena per lei sarebbe stata più abbondante senza qualcuno con cui doverla dividere. Ma questo, Marisa non lo avrebbe mai ammesso: era ancora troppo aggrappata alla vecchia sé.

Daniel, invece, aveva completamente distrutto Aphrodite: lo aveva ucciso con le proprie mani per assicurarsi che quel ragazzino debole e pieno di aspirazioni non tornasse mai più a farlo innervosire.

A farlo soffrire.

Quando la macchina nera si avvicinò, sorrise. L’auto si fermò, il finestrino scese e l’uomo gli fece segno di salire.

“No, dietro!” sbottò quando Daniel aprì la portiera del passeggero.

Il ragazzo esitò: i finestrini dietro erano oscurati. La strada era deserta. E Marisa non c’era.

Sbuffò, accontentando il nuovo cliente. La sua voce non gli piaceva: era stridula e nervosa. Nemmeno lo aveva guardato.

“Dove stiamo andando?”

“Sta’ zitto, puttana!”

Per la prima volta, Daniel ebbe paura. Paura di aver sbagliato, di aver rischiato troppo. Paura che nessuno, nemmeno Marisa, lo avrebbe pianto.

Provò ad aprire la portiera: bloccata.

Quando la macchina si fermò in un vicolo buio, isolato e deserto, ormai Daniel aveva capito di aver sbagliato sul serio.

Poi fu tutto troppo veloce perché capisse veramente cosa stava succedendo: l’uomo, uno di quei vecchi che tanto lo avevano disgustato i primi tempi che era per strada, spalancò la portiera e lo trascinò fuori dalla macchina. Sentì perfettamente la sua mano stringersi attorno al proprio collo, mentre con l’altra gli strattonava i morbidi boccoli celesti, tanto quanto sentì il proprio respiro spezzarsi e i polmoni urlare per il dolore.

Poi tutto divenne confuso, come se osservasse la scena dall’esterno: si vide sbattere contro il muro, mentre cercava inutilmente di urlare, dibattersi, liberarsi. Si vide colpire con la violenza di un animale, si vide sanguinare, piangere.

Voleva poter essere di nuovo Aphrodite, anche solo per un giorno, e sapere che anche se stava male, anche se avrebbe voluto sparire, qualcuno che lo amava c’era sempre.

Voleva poter sentire un’ultima volta il profumo delle sue rose, le prediche dei suoi genitori, le risate degli amici. Tutti loro avevano provato ad aiutarlo, ma lui si era sempre sentito così diverso, così vuoto. Era fuggito inseguendo un sogno, inseguendo il paradiso. Aveva creduto di poter raggiungere il successo e la bellezza, aveva creduto che sarebbe stato ricordato in eterno.

Ma chi avrebbe più pensato a quel ragazzino picchiato a morte in un vicolo e buttato in un cassonetto come spazzatura?

Credette di vedersi morire.

Daniel, Aphrodite, non sarebbe più esistito per nessuno.

 

***

Faceva freddo. Stava tremando. Aveva dolori ovunque. Doveva essere all’inferno.

“Pezzo d’idiota! Sei uno stupido coglione!”

Quelli dovevano essere i diavoli, che andavano a ricordargli chi era veramente. Lo avrebbero punito? Avrebbe sofferto per l’eternità?

Come prospettiva non era delle migliori.

“Stupido, stupido, stupido! Come ti sei fatto ridurre? Oh, Aphrodite… se muori giuro che ti ammazzo!”

Come se muori? Lui era morto! O no? Si era visto morire.

“Ti prego, apri gli occhi…”

Conosceva quella voce. Conosceva quel ragazzo.

“Phro, ti prego, non morire…”

Stava piangendo. Stava piangendo per Aphrodite, non per Daniel.

Si sforzò di svegliarsi del tutto. Voleva vedere chi fosse.

La luce gli ferì gli occhi chiari, facendoglieli lacrimare, ma non li richiuse.

Doveva sapere chi fosse.

C’era solo bianco intorno a lui, tranne le pozze profonde che si fissarono nei suoi occhi quasi subito.

“Aphrodite…”

Occhi scuri, capelli neri, accento italiano…

“Angelo…” la voce gli uscì appena, o forse fu solo una sua impressione e in realtà non aveva parlato: “Death…” riprovò, per assicurarsi che l’altro si accorgesse di lui.

Non voleva essere solo mai più.

Non voleva… pianse.

Piane mettendosi a sedere, ignorando il dolore che lo trafiggeva ad ogni respiro e gettando le braccia al collo dell’altro ragazzo.

Angelo, da tutti conosciuto come Death Mask perché odiava il suo nome, era suo amico.

No, era amico di Aphrodite.

Daniel era solo.

Erano cresciuti insieme, in Svezia, ed erano amici fin da quando erano bambini. Death aveva passato dieci anni in Italia prima di trasferirsi nella patria del freddo. Era un bambino strano, ma anche Aphrodite lo era e si erano trovati bene insieme.

In quei due anni d’inferno, Angelo era la persona che gli era mancata di più, con tutta la sua rozza gentilezza e la sua innata bastardaggine.

“Come mi hai trovato?” chiese fra i singhiozzi, talmente sconvolto da non provare più nulla: “Come?”

“Ora non ha importanza. Dio, sei un coglione! Uno stupido imbecille! Sono quasi morto quando sei sparito! E sono quasi morto quando ti ho visto in quel fottuto vicolo… Phro, perché lo hai fatto?”

Era strano. Era come essere proiettati in un sogno. Quella non era più la sua vita: Aphrodite era morto. Daniel lo aveva ucciso.

Ma quella notte anche Daniel era morto, ucciso da un mostro. E allora chi era? Aveva desiderato poter tornare indietro.

Stava bene fra le braccia di Angelo.

Erano secoli che qualcuno non lo abbracciava in quel modo.

Erano secoli che nessuno non lo amava.

Non era come essere catapultati in un sogno, si era sbagliato. Era come svegliarsi da un incubo.

In quel vicolo non era morto, era rinato. Come una fenice: aveva raggiunto il limite e si era bruciato.

Ora poteva tornare.

Daniel, invece, era morto davvero in quel vicolo. Marisa lo avrebbe pianto, o forse no, non aveva importanza.

Daniel era morto, Daniel era stato ucciso da un mostro. Daniel era stato ucciso dai suoi stessi errori. Daniel non avrebbe mai lasciato la Groenlandia.

“Riposati.” La voce di Death Mask era la più dolce delle melodie.

Daniel aveva dimenticato il cuore nel bagno di uno sconosciuto.

“Poi ti spiegherò…” il sorriso di Death era l’unica luce che poteva eliminare tutto quel dolore.

Daniel era morto. Nessuno lo avrebbe mai salvato. Ma Aphrodite era sopravvissuto.

“Death?” sussurrò tornando a sdraiarsi e cercando di sorridere.

Aphrodite era vivo. Aphrodite era rimasto lì, per due anni, in attesa che qualcuno lo salvasse.

Daniel era morto perché non aveva un Angelo Custode. Lui sì che lo aveva. Lui era amato. Lui era vivo.

Nessuno avrebbe pianto per Daniel, nemmeno lui.

“Portami a casa.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questi sono tre capitoli che avevo pronti da tempo e che aspettavano solo di essere pubblicati… sono indecisa se farne un altro in cui parlo dei 17 anni e spiegare meglio il rapporto di Aphrodite con Death Mask e magari anche Marisa o passare subito ai 18… secondo voi? Grazie a tutti!

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Capitolo 4
*** Flash back, 10 anni ***


Flash Back- 10 anni

 

Il piccolo Aphrodite sollevò lentamente il capo dal banco, stendendo le gambe che aveva tenuto incrociate fino a quel momento ed arricciando infastidito il naso quando si rese conto che non toccava ancora terra. Eppure era cresciuto di ben tre centimetri in quelle due settimane! I suoi compagni di classe a volte lo prendevano in giro perché era basso per la sua età, ma Aphrodite non ci faceva caso: era minuto, ma perfettamente proporzionato. era sempre stato un bambino un po’ viziato e capriccioso, ma poteva permetterselo… l’unico fastidio che a volte provava era quel sentirsi diverso. Migliore. A se stesso poteva confidarlo: era più carino, intelligente e forte dei suoi amici.

Il bambino però cercava di stare il più lontano possibile da quei pensieri: lo facevano stare male e lo confondevano solamente.

Ignorando quindi la punta di irritazione per la propria bassezza, puntò annoiato lo sguardo sulla maestra, che sembrava persino più allegra del solito nel presentare il loro nuovo compagno di classe.

“Bambini, lui è Angelo… si è appena trasferito dall’Italia, ma conosce già la nostra lingua! Siate gentili con lui, ok?”

I bambini esplosero in mormorii, saluti, urletti, che fecero sorridere maggiormente la maestra. Aphrodite, invece, sbuffò poggiando il mento sulla mano: gli era antipatica.

Sembrava che parlasse con degli stupidi, come se a dieci anni non fossero abbastanza grandi per le cose! Sospirò con aria drammatica lanciando un’occhiata al banco vuoto al suo fianco: l’italiano sarebbe finito vicino a lui. L’idea non gli piaceva: aveva già degli amici ed anche se si riteneva un bambino socievole si annoiava a dover far sentire a suo agio uno sconosciuto. La mamma gli aveva detto tante volte che anche se non voleva doveva farlo comunque per educazione, ma quello non gli impediva di trovare la cosa  fastidiosa.

“Ecco Angelo, il banco vuoto è il tuo, vicino ad Aphrodite.” la maestra gli rivolse un sorriso mieloso e cui lui rispose scostandosi una ciocca di capelli dietro le orecchie e spostando l’attenzione sull’altro bambino che avanzava lentamente : era sicuramente più alto di lui e già quello era un brutto inizio… 

I suoi capelli poi erano spettinati e poco curati. Sì, partiva proprio male.

Ma quello che colpì Aphrodite furono i suoi occhi scuri: sembravano due pozzi troppo profondi in grado di assorbire qualsiasi cosa e in quel momento stavano brillando di una luce divertita. L’italiano si sedette al suo fianco ed Aphrodite allungò lentamente una mano pallida verso di lui; sobbalzò, sorpreso dalla morsa in cui l’altro gliela serrò: “Ahi…” si lasciò sfuggire, pentendosene subito dopo. Angelo tese le labbra in un sorrisetto, sussurrando: “Sei delicato, vero ciuriddu?”   

Aphrodite ritrasse con rabbia la mano: non aveva capito come l’altro lo aveva chiamato.

Sospirò, incrociando gambe e braccia e poggiando nuovamente la testa sul banco ignorando la voce irritante della maestra che annunciava l’inizio della lezione: quella era una giornata no, una di quelle in cui la sensazione che gli mancasse qualcosa lo tormentava fin quasi togliergli il respiro. Non capiva. Era ancora troppo piccolo per capire.

Si agitò leggermente sulla sedia, puggiandosi una mano sul cuore: batteva disperatamente e sembrava implorarlo di accontentarlo e dargli nuove esperienze, nuove emozioni, nuova vita. Di più. Voleva di più. Alzò con un scatto la mano, respirando a fondo prima di parlare per assicurarsi che la propria voce non tremasse e chiese alla maestra di poter andare in bagno. Quando lei acconsentì, Aphrodite si alzò lentamente raggiungendo con la solita calma e grazia che lo caratterizzavano, ma non appena fu solo in corridoio cominciò a correre, sentendo le prime lacrime sfuggire dai suoi occhi.

Spalancò la porta del bagno fiondandosi al lavandino più vicino, sciacquandosi il viso con acqua gelida, poi, finalmente, sollevò lo sguardo per incontrare il proprio riflesso: Aphrodite era lì, pallido, che lo fissava con gli occhi arrossati e le labbra leggermente dischiuse. Quello era lui. Quel bambino dal viso spaventato era lui. Allungò una mano verso lo specchio, facendo un salto indietro quando arrivò a toccare le dita protese del proprio riflesso: quello era davvero lui. Ma chi era? La domanda rimbombò nella testa del piccolo, che si coprì entrambe le orecchie nel tentativo di fermare quella voce: “Chi sei? chi sei, Aphrodite? Nessuno.”

Si lasciò scivolare lungo la parete, sedendosi a terra e nascondendo il viso sulle ginocchia: pianse. Fu in quel bagno che, per la prima volta, qualcosa si ruppe definitivamente in Aphrodite, qualcosa che molto tempo dopo lo avrebbe portato lontano da casa, a rischiare la vita, a perdere se stesso inseguendo un’illusione senza vedere il baratro farsi sempre più vicino. Ma in quel momento era ancora troppo piccolo per capire.

Dopo quelle che avrebbero potuto essere ore il bambino riuscì a rialzarsi e scappare da quel bagno in cui non avrebbe più messo piede, evitando accuratamente lo sguardo ferito e sanguinante del riflesso nello specchio. Quel bambino sarebbe sempre stato lì: anche molti anni dopo si sarebbe potuto vedere un visino spaventato e confuso chiedere aiuto, imprigionato in uno specchio dove nessuno poteva sentirlo. Stringeva fra le dita protese parte di un anima che si era strappata per la prima volta in quel luogo. Una sola persona avrebbe ascoltato il pianto di quel bambino, cercando in ogni modo di aiutarlo. Persino quando gli sarebbe sembrato troppo tardi.

Aphrodite aprì la porta della propria classe tenendo lo sguardo basso, liquidando la maestra e la sua preoccupazione con un gesto svogliato. L’unica cosa che sentiva in quel momento erano gli occhi indagatori di Angelo bruciargli la pelle: in un altro momento avrebbe sollevato il mento con orgoglio lanciandogli uno sguardo di sufficienza, ma era troppo debole per indossare una maschera in quel momento. Gli occhi scuri dell’altro bambino lo mettevano a disagio, facendolo sentire quasi nudo davanti a tanta forza: gli stavano togliendo ogni copertura per cercare di leggere il suo cuore. Era la prima che qualcuno riusciva a scorgere Aphrodite, il vero Aphrodite, dietro quel bambino viziato ed altezzoso. Ne era sicuro, Angelo ci stava riuscendo. Si sedette, lasciandosi quasi cadere sulla sedia, ma prima che potesse nuovamente la testa sul banco, Angelo lo afferrò con forza per un braccio costringendolo a voltarsi e guardarlo.

“Piangi, ciuriddu?” mormorò ridacchiando l’italiano senza lasciarlo. Aphrodite reagì d’istinto, schiaffeggiandolo.

Lo sguardo di Angelo cambiò, ma non nel modo in cui si era aspettato: credeva vi avrebbe letto rabbia e irritazione, invece l’altro sembrava solo sorpreso… e preoccupato.

“Aphrodite!” la voce della maestra li fece sobbalzare entrambi: “Come ti è venuto in mente? Sai benissimo che non si alzano le mani per nessuna ragione! Ora chiedi scusa ad Angelo, poi accompagnalo in infermeria e chiedi un po’ di ghiaccio… portami il tuo diario, mi costringi a darti una nota.”

“Non gli serve il ghiaccio per uno schiaffo. E poi, se l’è cercata.” mormorò il bambino carezzandosi i boccoli celesti senza staccare un attimo i propri occhi da quelli di Angelo.

“Non peggiorare la tua situazione: fa ciò che ti ho detto. Immediatamente.”

Aphrodite inspirò a fondo, pronto a dar battaglia alla donna, ma prima che potesse ribattere Angelo si alzò trascinandolo con lui verso la porta: “Si scuserà strada facendo: mi fa male la guancia, voglio il ghiaccio. Discutete dopo.” quindi uscirono.

L’italiano non gli diede nemmeno il tempo di respirare, strattonandolo lungo il corridoio.

“Aspetta!” mormorò Aphrodite cercando di fermarlo, invano: “L’infermeria è dell’altra parte!”

“Pensi davvero che mi serva il ghiaccio per uno schiaffo?” il moro rise, bloccandolo contro il muro ed afferrandogli una mano: “Sei talmente delicato che non riusciresti mai a farmi male…”

“Non sono delicato!”

“Ti avevo addirittura scambiato per una ragazza…”

Aphrodite lo spinse, irritato, ma l’italiano non si mosse di un millimetro, ridendogli in faccia: “Non ho ragione, ciuriddu?”

Più cercava di ribellarsi, più Angelo gli si avvicinava, senza smettere di ridere. Poi Aphrodite si bloccò di colpo, sentendo il respiro dell’altro sul proprio viso: aveva il corpo completamente immobilizzato fra il muro ed Angelo, che gli stava talmente vicino che i loro nasi si toccavano.

“Bravo piccolo, sta fermo…” sussurrò senza perdere quel sorrisetto sghembo, ignorando gli occhi di Aphrodite che si spalancarono: le loro labbra si erano sfiorate mentre Angelo parlava, ma l’altro sembrava non essersene accorto nemmeno. Ancora sorpreso il piccolo svedese non si oppose minimamente sentendosi di nuovo trascinare.

Come in trance vide Angelo aprire la porta d’ingresso e portarlo nei giardinetti, quindi, costeggiando il muro per non essere visti, arrivarono sul retro.

“Non c’è nessuno qui…” mormorò e l’italiano rise ancora con il chiaro intento di deriderlo: “Ma va, non lo avevo notato…”

Lo spinse costringendolo a sedersi su un gradino, fissandolo dall’alto.

“Non mi scuso.” sbottò Aphrodite dopo quasi un minuto di silenzio ed Angelo sbuffò: “Sei un tipo interessante, svedese. Sempre pronto a ribattere, eh? Sei il primo che ha trovato il coraggio di schiaffeggiarmi… cosa nascondi ciuriddu?”

Aphrodite sbuffò a sua volta, incrociando le braccia e fissandolo con un sopracciglio inarcato.

“Hai paura, vero? Di essere troppo piccolo in un mondo così grande…” l’italiano sospirò sedendosi al suo fianco: “Ti capisco, sai? E’ normale vedere di più.”

“Ma come…?”

“Appena sono entrato in classe ti ha notato: sei diverso da tutti i bambini che ho incontrato fino a questo momento. E chi è diverso è solo.”

Aphrodite si alzò: non voleva ascoltare quelle parole. Non voleva sentire il proprio cuore battere felice nella speranza di aver trovato qualcuno come lui, qualcuno che potesse capirlo. Se avesse ceduto a quell’illusione, se si fosse spezzata avrebbe sofferto e lui era davvero stanco di star male.

“Fermati.” Angelo lo trattenne per una mano e lo costrinse a sedersi nuovamente: “So che hai paura. Fidati, lo so… lascia che mi occupi io di te.”

Finalmente Aphrodite lo guardò: era terribilmente serio. Sembrava capirlo davvero.

“Forse sei meno solo di quanto pensi.”

Chinò nuovamente la testa sentendo gli occhi bruciare, ma il moro lo costrinse a guardarlo: “Lascia che mi occupi io di te, Aphrodite.” ripeté, pronunciando per la prima volta il suo nome: “Ti si legge in faccia che stai male.”

Forse fu un gesto avventato, forse avrebbe dovuto riflettere di più prima di annuire, forse cedette a quella speranza che gli faceva battere il cuore così velocemente solo perché era ancora solo un bambino, ma in ogni caso Aphrodite accettò quella mano che, anche se un po’ rozza, si tendeva in suo aiuto. Sorridendo, quel bambino di dieci anni, non avrebbe mai immaginato che anni dopo sarebbe stata proprio quella mano a salvarlo da un mostro. A salvarlo da se stesso. Angelo sorrise a sua volta, cogliendo una margherita e porgendola all’altro: “Ciuriddu. Significa fiorellino. Non era un insulto, ma un complimento…” spiegò, visibilmente imbarazzato.

Aphrodite rise stringendo leggermente il fiore fra le dita e lasciandosi scivolare lungo il petto dell’italiano fino a posare la testa sulle sue gambe: “Grazie…”

“In cambio mi aiuterai a trovare un nome decente, Angelo fa veramente schifo…” sussurrò il moro scostando i capelli dalla fronte dell’altro.

“Forse andremo molto più d’accordo di quanto immaginassi.”

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Capitolo 5
*** 18 anni ***


“Aphrodite, forse dovresti andare a casa. A casa tua. I tuoi genitori sarebbero felici di…”

“No.” il ragazzo si raddrizzò sulla sedia, lanciando uno sguardo irritato alla donna seduta davanti a lui. Gli ricordava qualcuno: lo infastidiva. Sorrideva sempre come se al mondo non ci fosse alcun problema.

“Non ho intenzione di farlo.” insistette, accavallando con stizza le gambe ed incrociando le braccia sul petto, cercando inconsapevolmente di proteggersi dalle parole della donna.

Era quasi un anno che era tornato in Svezia, ma dopo un solo mese in cui era stato dai suoi genitori era scappato nuovamente. Non ne poteva più: gli parlavano come se fosse un bambino, nascondendo ciò che pensavano veramente. Lo tenevano sotto una campana di vetro, troppo apprensivi: non era riuscito a resistere, non dopo due anni passati allo sbando. Aveva bussato in lacrime alla porta di Angelo e i suoi genitori avevano accettato di accoglierlo, chiamando casa sua per informare. Sua madre aveva insistito perché andasse in terapia da uno psicologo e, visto che anche Angelo glielo aveva ripetuto molte volte, alla fine aveva accettato.

Così in quel momento si trovava nello studio della dottoressa Gora, la psicologa da cui era in cura da quasi un anno. Non era stato facile raccontarle quanto accaduto, ma con molta calma ed altrettanto tempo era riuscito a confidarsi. Non aveva mai pianto davanti a lei: le sue lacrime poteva vederle solo Death Mask.

“Aphrodite, riflettici con calma: tornare in quel posto potrebbe vanificare tutti i passi fatti finora. Capisco che tu sia preoccupato, ma dovresti aver chiuso per sempre con quella vita.”

La voce della donna era smielata. Continuava a ricordargli qualcuno.

“Credevo che Daniel fosse morto in quel fottuto vicolo, ma in verità non è mai andato via: non riesco ad essere di nuovo Aphrodite senza tornare là, senza dire addio veramente. Non lo faccio solo perché sono preoccupato per Marisa, lo faccio anche e soprattutto per me stesso.” il ragazzo inspirò a fondo, cercando di riprendere il controllo della voce e del respiro: era terrorizzato dal pensiero di tornare in Groenlandia, ma era vero che lo voleva fare anche per se stesso.

Da mesi i notiziari trasmettevano la notizia delle uccisioni di molte prostitute in Groenlandia, strangolate e picchiate in un vicolo. Quando facevi quel genere di vita era normale il rischio, ma negli ultimi mesi il numero di morti era salito sospettosamente. Era quasi sicuro di conoscere il responsabile: Aphrodite non lo aveva mai incontrato, ma Daniel ne portava ancora i segni addosso. Se era lo stesso uomo che aveva aggredito lui, aveva il dovere di informare la polizia. Forse tornare in Groenlandia non era la cosa migliore, ma era sicuro di doverlo fare: l’ultima volta era fuggito, com’era abituato a fare in quel periodo, senza accorgersi che Daniel, o almeno quello che ne era rimasto, lo aveva seguito. Voleva solo dimenticare, ma gli era impossibile.

Chissà cos’aveva pensato Marisa quando era sparito. Chissà se ancora si ricordava di Daniel.

Si alzò di scatto, scostandosi i capelli dal viso: “Ormai ho deciso: le valigie sono già pronte, il biglietto aereo già acquistato. Sono maggiorenne, posso andare. Questo pomeriggio parto: la chiamo quando torno.” così dicendo uscì dallo studio: come ogni volta, Death lo aspettava fuori.

“Non è riuscita a farti cambiare idea?” chiese, semisdraiato sulla sedia con le lunghe gambe tese, le braccia incrociate e una sigaretta spenta stretta fra i denti.

“Non ti ho chiesto io di accompagnarmi! Posso andare da solo!”

Aphrodite sbuffò, oltrepassandolo con stizza. Non si sorprese quando sentì la mano di Angelo trattenerlo per un braccio e costringerlo a sedersi accanto a lui.

“Ciuriddu, come posso lasciarti andare solo? I due anni in cui tu non c’eri… è stato orribile. Quando ho scoperto che eri sparito io… sapevo di aver fallito: avevo detto che mi sarei occupato di te, che ti avrei protetto, che ti avrei reso felice. Non ti sono bastato, non ho mantenuto la mia promessa: l’unica cosa che potevo fare era ritrovarti e riportarti a casa. Per due cazzo di anni, ogni fottuto giorno, ti ho cercato, ho chiesto a tutti, a qualunque bastardo criminale che avrebbe potuto aiutarti a sparire… poi, una traccia: Groenlandia. Ti avevo trovato, ma ho creduto fosse troppo tardi quando ti ho visto a terra in quel vicolo…” si interruppe un attimo, abbassando lo sguardo e riducendo la voce ad un sussurro: “Ma tu ora sei qui, con me: non posso rischiare di perderti ancora.”

“Io tornerò…” mormorò Aphrodite, lentamente: aveva già sentito quella storia moltissime volte, ma gli faceva sempre uno strano effetto. Gli accendeva un fuoco nello stomaco, mentre una vocina continuava a ripetergli: “Quanto sei stato stupido…”

“Non voglio perderti di vista mai più…” Angelo lo strinse delicatamente a sé, passandogli una mano fra i capelli: “Non lo sopporterei. Non di nuovo.”

“Devo andare. Lo devo fare…”

“Lo so, ma io verrò con te.”

 

***

Era tutto come ricordava: persino ogni odore era rimasto impresso nella sua memoria, indelebile. Afferrò con mani tremanti la propria valigia rossa: quella blu, con cui era fuggito tre anni prima e che lo aveva accompagnato in Groenlandia, l’aveva buttata. Non era sua, ma di Daniel. E lui non voleva più avere niente a che fare con Daniel.

“Stai bene Aphrodite?” Angelo, al suo fianco, gli sorrise leggermente.

Gli mancava il respiro e la vista continuava ad offuscarsi.

Groenlandia. Daniel. Forse non era pronto ad affrontare il passato, forse non lo sarebbe mai stato.

“Io… sì. Dai, muoviamoci, voglio trovare Marisa. Ha il turno dalle vent’uno alle quattro di mattina. So dove trovarla.”

Aphrodite strinse le mani a pugno, lasciando che Death portasse anche il suo trolley e si incamminò velocemente. Una volta fuori dall’aereo porto, però, si bloccò nuovamente: non poteva camminare per quelle strade, non lui, non Aphrodite.

Solo Daniel ne avrebbe avuto il coraggio, ma non poteva nemmeno richiamarlo. Daniel aveva fatto tutte le scelte sbagliate, sempre, aveva cercato di annientarlo, sopprimendo ogni suo sogno, speranza, desiderio.

“Aphrodite…”

Sì, quello era il suo nome, quello era lui. Non avrebbe dovuto dimenticarlo mai più.

Inspirò a fondo, appoggiandosi a Death Mask: ormai era lì, non poteva cedere a quel punto.

“Aphrodite.” lo ripeté, cercando di imprimerselo bene in mente, quindi sollevò piano una mano, fermando un taxi.

Ricordava ogni singolo vicolo e le luci della sera in cui si stavano muovendo gli erano molto più familiari di quelle giornaliere.

Una volta raggiunta la periferia, Aphrodite si ritrovò catapultato in quello che per due anni era stato il suo mondo: donne, uomini, ragazze, ragazzi, poco più che bambini. Erano tutti lì, sui marciapiedi, mezzi svestiti, con finti sorrisi. Conosceva ciò che si nascondeva dietro quelle maschere: disperazione. Odio. Aveva sempre creduto che l’odio, in certi casi, rendesse più forti, ma solo con la comparsa di Daniel aveva conosciuto veramente quel sentimento: nessuno poteva parlare di odio prima di aver iniziato a detestare se stesso, la propria vita. Sapeva fin troppo bene cosa significasse, proprio come tutte quelle persone che salivano su auto di sconosciuti per vendere l’unica cosa che rimaneva loro.

“Si fermi qui, per favore.” mormorò all’autista: “Aspetti solo dieci minuti.” aggiunse, aprendo la portiera e: “Se lo fa la pago il doppio!” sbottò, interrompendo subito le lamentele dell’uomo, che alzò le mani in segno di resa.

Angelo, lasciando nell’auto le valigie, lo seguì in silenzio lungo il viale, fino a quando svoltarono in una stradina laterale: Marisa era lì, appoggiata ad una macchina. Sembrava più magra, più pallida, più disperata.

La vide fare il giro dell’auto, ma quando fece per aprire la portiera sentì chiaramente una voce maschile, stridula e nervosa: “No, dietro!”

Marisa esitò, quindi sbuffò e fece per accontentare il cliente, ignorando il fatto che i finestrini posteriori fossero oscurati. Proprio come aveva fatto lui.

Il cuore di Aphrodite perse un battito, quindi ricominciò a battere furiosamente: non riusciva a muovere un muscolo, come bloccato da una forza invisibile. Gli sembrò di sentire nuovamente la mano dell’uomo serrarsi sulla sua gola e spezzargli il respiro, percepì chiaramente il dolore provato nel momento in cui il suo corpo era stato sbattuto contro il muro, come se non fosse altro che una bambola di pezza.

“No! Non lo fare!” urlò, non riuscendo tuttavia a muoversi.

Marisa sobbalzò, voltandosi verso di lui e sbiancando maggiormente se possibile, mentre l’auto partì sgommando.

“Phro…” mormorò Death, fermo pochi passi dietro di lui, senza capire, ma il ragazzo nemmeno lo sentì: teneva gli occhi fissi in quelli di Marisa, incapace di allontanare lo sguardo dal proprio passato.

La donna avanzò velocemente verso di lui, raggiungendolo in pochi passi e sollevando lentamente una mano per sfiorargli una guancia. Al contatto con la pelle fredda del ragazzo sobbalzò, ritraendosi quasi spaventata.

“Sei vivo…” mormorò, confusa ed intimorita: “Io… ti ho creduto morto quando sei sparito. Credevo avessi seguito il cliente sbagliato, ma tu… sei vivo. Daniel.”

Aphrodite sobbalzò, sentendosi quasi colpire da uno schiaffo: Daniel.

Per Marisa lui era Daniel: freddo, solo e senza sogni.

In quel momento la donna gli ricordava tanto, troppo, il ragazzo che era stato, quel se stesso che non riconosceva: evidentemente, aveva smesso di illudersi.

“Ti trovo bene, meglio dell’ultima volta in cui ci siamo visti…” mormorò nuovamente la donna, sfregandosi un braccio: “Come hai fatto?”

Aphrodite la guardò senza capire.

“A lasciare questa vita. Come hai fatto? E’ evidente che né tu né il tuo amico fate le puttane.”

Il ragazzo spostò il peso da un piede all’altro, nervoso, quindi sussurrò fissandola negli occhi: “Quell’uomo. Un anno fa nessuno mi ha fermato ed io l’ho seguito: mi ha portato in un vicolo, in questo vicolo, mi ha picchiato e strangolato. Sono vivo per miracolo.”

Senza accorgersene, Aphrodite aveva iniziato a tremare.

Marisa invece annuì lentamente, come se la cosa non la riguardasse, nonostante avesse appena rischiato di fare la stessa fine: “Oh… l’uomo che ci sta uccidendo. Forse sei stato il primo, la sua prova.”

“Devi stare attenta… perché non torni a casa per questa sera?”

Lei scosse la testa, sorridendo nello stesso modo storto tipico di Daniel: “Trovo sempre qualcuno che mi porti a casa con sé, ricordi? Anche tu eri così. Quando sei per strada stai in gruppo, ma con un cliente sei da sola.”

Aphrodite non rispose, chinando il capo.

“Daniel. No, tu non sei Daniel: non vedo nulla di lui in te.”

Il ragazzo sollevò lentamente lo sguardo, posandolo sul muro alle spalle della donna, quello stesso muro contro cui era stato picchiato, vicino al quale era stato abbandonato come spazzatura. In quel vicolo si era visto morire.

“Allora, nonostante tutto, le mie lacrime non sono state piante per niente: non so chi tu sia. Daniel è veramente morto.”

“Io mi chiamo Aphrodite…” mormorò, senza più riuscire a frenare le lacrime: nemmeno lui riusciva a vedere nulla della Marisa che aveva conosciuto in quella donna.

“Beh, Aphrodite, una volta Daniel mi chiese come facessero i nostri clienti a non rendersi conto di farlo con persone già morte. Allora, quando la prostituzione non mi aveva ancora segnata troppo, non capii. Ora è tutto chiaro: io non ho più vita. Daniel è morto in quel vicolo. Dovresti essergli grato, Aphrodite: è grazie alla sua morte che tu ora sei qui. Piangi per lui qualche volta, perché era un ragazzo speciale a modo suo.” detto ciò, Marisa se ne andò, ignorando le suppliche e le lacrime del ragazzo.

Non poteva fare a meno di piangere. Tutto il dolore che in quell’anno aveva soffocato si era ribellato, tornando a galla e scivolando via sotto forma di gocce salate. Con loro, anche quel poco di Daniel che lo aveva seguito scompariva, morendo nuovamente, per sempre, in quel vicolo.

“Aphrodite…” mormorò Angelo abbracciandolo da dietro: “Non puoi salvare tutti, ciuriddu.”

Si voltò fra le sue braccia, lasciando che vedesse il suo viso rigato dalla sofferenza: “Ora ho detto addio. Addio per sempre. Daniel è morto, è stato ucciso da un mostro, è stato ucciso dai suoi stessi errori. Proprio qui, in questo vicolo. Daniel era amico di Marisa, ma ormai anche lei è morta: qui non c’è più nulla che mi riguardi.”

Death annuì, lasciandolo continuare.

“Andiamo alla polizia: io so chi è quell’uomo, l’assassino. Non posso salvare tutti, ma qualcuno sì.”

Per Daniel e Marisa, ormai, era troppo tardi.

 

 

 

 

 

 

Chiedo scussa per l’enorme ritardo con cui aggiorno >.< Grazie a tutti!

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