Anno dopo anno di La Kurapikina (/viewuser.php?uid=102658)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 15 anni ***
Capitolo 2: *** 16 anni ***
Capitolo 3: *** 17 anni ***
Capitolo 4: *** Flash back, 10 anni ***
Capitolo 5: *** 18 anni ***
Capitolo 1 *** 15 anni ***
15
anni:
Aphrodite
stava immobile sul letto, incapace di muoversi. Persino respirare gli
sembrava
una cosa troppo dolorosa. La musica gli risuonava in testa troppo alta
attraverso le cuffie dell’I-pod, ma almeno lo
tranquillizzava, impedendogli di pensare.
Cos c’era di sbagliato in lui? Perché doveva
sempre sentirsi diverso? Troppe
cose, voleva troppe cose: la sua vita era caratterizzata
dall’eccesso, che era
persino un peccato. Sarebbe finito all’inferno…
forse lì avrebbe trovato quel
di più che gli mancava.
Lui
che
voleva un pezzo di paradiso si sarebbe forse trovato meglio in
compagnia dei
demoni. In fondo, era abituato al dolore: incompreso, circondato da
amici eppure
terribilmente solo.
Ma
la
colpa era sua, lo sapeva: gli altri davano il massimo per lui, avevano
cercato
di aiutarlo in tutti i modi, ma era stato inutile.
Il
problema era lui.
Chiuse
gli occhi, prendendo un respiro profondo: se era inutile fuggire a quel
tormento, tanto valeva affrontarlo ed arrivare fino in fondo.
Fu
lì,
steso su un letto a soffrire sentendosi ancora e per sempre troppo
diverso che
Ariel Kalevi Aphrodite decise che avrebbe ceduto a quel desiderio
folle: la
bellezza perfetta.
Questo
è
solo una specie di prologo… le recensioni sono sempre molto
gradite!
P.S.
Non
so il vero nome di Aphrodite, Ariel o Kalevi?
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Capitolo 2 *** 16 anni ***
16
anni:
Il
soffio
del vento gli accarezzava piano le guance, senza riuscire a cancellare
le
lacrime salate.
Era
stanco.
Così
stanco che avrebbe potuto anche lasciarsi cadere da quel balcone del
sesto
piano e chiudere gli occhi per sempre, ma sarebbe stato
controproducente: era
quasi un anno ormai che era fuggito dalla Svezia, sua patria, e si era
rifugiato in Groenlandia, sparendo nel nulla. Lì, dove
nessuno lo conosceva,
aveva ricominciato inseguendo la bellezza, con successo. Dieta ferrea,
solo
cibi salutari, esercizi tutti i giorni per rimanere in forma, solo i
prodotti
migliori per pelle e capelli… stava funzionando. Era sempre
stato carino, ma
ormai stava diventando ogni giorno più bello.
E
pessimo.
“Non
sono
una troia…” sussurrò al cielo
sfregandosi con rabbia gli occhi, ma il respiro
profondo del ragazzo che dormiva nudo nel letto non gli dava ragione.
In
un modo o nell’altro devo tirare avanti.
Era
sempre quella la scusa che si dava quando si faceva portare a casa ogni
giorno
da qualcuno, senza nemmeno saperne il nome.
Da
loro posso dormire, mangiare, lavarmi…
rubare oggetti preziosi, i trucchi delle madri, mogli o sorelle, i loro
vestiti
o quelli dei figli.
Non
aveva
problemi con i ragazzi che se lo portavano a letto in assenza dei
genitori, ma
per i vecchi provava veramente disgusto. Uomini
sposati, con famiglia, che si eccitavano a toccare un ragazzino.
All’inizio li
evitava, li rifiutava, li sfotteva… poi aveva dovuto
abbassarsi ancor più.
In
un modo o nell’altro devo tirare avanti.
Era
fuggito in cerca di fama, gloria, successo, bellezza… questa
almeno l’aveva
ottenuta. Certo, con prodotti rubati o regalati, ma ce
l’aveva fatta.
Ormai
quasi si divertiva a ricattare i vecchi, minacciandoli di urlare al
mondo le
loro perversioni ed ottenendo in cambio prodotti di bellezza ed abiti
alla
moda.
Sì,
forse
era una puttana, ma con stile.
Doveva
solo riuscire a mettere a tacere il suo cuore in lacrime e rinchiudere
i
sentimenti in un angolino.
Lui
che
era fuggito rincorrendo il paradiso era caduto all’inferno.
Ma con i demoni non
si trovava bene.
Ci
sarebbe riuscito.
Ci
si
sarebbe abituato.
Non
sarebbe mai tornato a casa: lì non era nessuno.
Almeno
ora… cosa? Come si poteva sperare di ottenere qualcosa da
quella vita? Allora
perché non si decideva a tornare indietro?
Perché
era stupido ed orgoglioso: non avrebbe mai ammesso di aver fallito.
Doveva
solo imparare a mentire anche a se stesso e sarebbe stato meglio.
Forse,
con il tempo, avrebbe ottenuto qualcosa… forse se ne sarebbe
dovuto andare
di nuovo. Polonia,
Finlandia, Austria…
il mondo era grande.
Arrivare
in Groenlandia non era stato difficile: aveva radunato le sue cose,
rubato
tutto ciò che c’era di prezioso in casa e con
quello era fuggito mentre i suoi
erano al lavoro.
Semplicemente
era sparito nel nulla.
Era
incredibile quante cose avesse fatto grazie alle persone che gli era
stato
insegnato a chiamare criminali.
Ariel
Kalevi Aphrodite era morto e al suo posto era arrivato Daniel. Un nome
molto
meno importante e molto più banale.
Il
sole
stava sorgendo: doveva muoversi. Non aveva tempo da perdere piangendosi
addosso: aveva voluto fare una cazzata e ora ne doveva affrontare le
conseguenze. Punto.
Tornò
silenziosamente nella stanza lanciando un’occhiata al ragazzo
mulatto che
dormiva tranquillo. Nemmeno sapeva come si chiamava.
Radunò
i
propri vestiti, si lavò con la velocità che
quella nuova vita gli aveva
imposto, rubò qualche abito del ragazzo, i trucchi della
madre e l’argenteria.
Tornò nel bagno, nascondendo tutto nella propria valigia blu
con cui aveva
detto addio alla Svezia, sorrise al proprio riflesso nello specchio e
fuggì.
Di
nuovo.
Quel
ragazzo, come tutti gli altri, si sarebbe vergognato troppo per dire la
verità
ai genitori. Per non parlare dei vecchi pervertiti: con loro era
persino più
facile.
La
polizia della Groenlandia era inefficiente e lui, per loro, non
esisteva.
A
casa,
in Svezia, c’era solo Aphrodite. Lì, Daniel.
Si
allontanò veloce, nel buio, fino a quando la casa non fu che
un puntino
lontano.
Per
tutto il tempo non si
accorse di aver dimenticato in quel bagno l’unica cosa
veramente importante: il
proprio cuore.
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Capitolo 3 *** 17 anni ***
17
anni:
“Daniel,
ma a casa non ti aspetta nessuno?”
Il
ragazzo non rispose, rivolgendole un sorriso enigmatico.
Marisa
era una prostituta. La conosceva da un paio di settimane: quando ti
ritrovi a
battere le strade è sempre meglio avere qualche conoscenza,
così almeno un
giorno se venissi fatto fuori sai che ci sarà qualcuno a
piangerti o, se mai
riuscisse ad arrivare in tempo per salvarti la pelle, disposto a
rompere una
bottiglia in testa al bastardo.
Marisa
era stata costretta a diventare una prostituta: non aveva famiglia e
tantomeno
amici disposti a darle una mano. Aveva dovuto trovare un modo per
sopravvivere
dopo essere fuggita dall’Italia per salvarsi dagli istinti
omicidi dell’ex
fidanzato geloso. Neanche allora nessuno l’aveva aiutata.
“Sicuro
che non vuoi venire da me? È piccolo e un po’
squallido, ma sempre meglio di
niente.” Insisté la donna, scostandosi una ciocca
di capelli dagli occhi scuri
e fissando il ragazzo che le stava difronte. Non le aveva mai
raccontato nulla.
Sapeva solo il suo nome.
E
sapeva
che era solo.
“Non
preoccuparti.” Rispose infine lui senza perdere il sorrisetto
storto: “Trovo sempre un
posto dove stare.”
Era
vero.
Tutti sapevano che era vero. Daniel era molto bello: spendeva tutti i
soldi che
guadagnava in prodotti di bellezza. Lui doveva
essere sempre perfetto, altrimenti avrebbe anche potuto morire e tanti
saluti a
tutti.
Non
gli
serviva un posto dove tornare a fine turno come agli altri. Qualcuno se
lo
portava sempre a casa. Qualcuno da
ingannare e derubare. Qualcuno cui vendere l’unica cosa che
gli rimaneva: se
stesso.
Alla
fine
era rimasto in Groenlandia, ma presto se ne sarebbe andato. Di nuovo.
Doveva
solo trovare i contatti giusti e anche Daniel sarebbe sparito, proprio
come
Aphrodite.
Già,
Aphrodite.
Ormai
non
era altro che un lontano ricordo cui preferiva non pensare: era solo un
burattino tenuto in piedi da sogni di gloria. Sogni impossibili. Non
sapeva
affrontare la vita. Daniel, invece, sì.
Daniel
era forte, freddo e senza sogni. Sognare era inutile, lo aveva imparato
a
proprie spese. Era da stupidi, e lui non lo era.
Marisa
se
ne andò: si aiutavano fra loro, ma quando Daniel si
rifiutava, era impossibile
fargli cambiare idea.
E
poi,
in fondo, la cena per lei sarebbe stata più abbondante senza
qualcuno con cui
doverla dividere. Ma questo, Marisa non lo avrebbe mai ammesso: era
ancora
troppo aggrappata alla vecchia sé.
Daniel,
invece, aveva completamente distrutto Aphrodite: lo aveva ucciso con le
proprie
mani per assicurarsi che quel ragazzino debole e pieno di aspirazioni
non tornasse
mai più a farlo innervosire.
A
farlo
soffrire.
Quando
la
macchina nera si avvicinò, sorrise. L’auto si
fermò, il finestrino scese e
l’uomo gli fece segno di salire.
“No,
dietro!” sbottò quando Daniel aprì la
portiera del passeggero.
Il
ragazzo esitò: i finestrini dietro erano oscurati. La strada
era deserta. E
Marisa non c’era.
Sbuffò,
accontentando il nuovo cliente. La sua voce non gli piaceva: era
stridula e
nervosa. Nemmeno lo aveva guardato.
“Dove
stiamo andando?”
“Sta’
zitto, puttana!”
Per
la
prima volta, Daniel ebbe paura. Paura di aver sbagliato, di aver
rischiato
troppo. Paura che nessuno, nemmeno Marisa, lo avrebbe pianto.
Provò
ad
aprire la portiera: bloccata.
Quando
la
macchina si fermò in un vicolo buio, isolato e deserto,
ormai Daniel aveva capito
di aver sbagliato sul serio.
Poi
fu
tutto troppo veloce perché capisse veramente cosa stava
succedendo: l’uomo, uno
di quei vecchi che tanto lo avevano disgustato i primi tempi che era
per
strada, spalancò la portiera e lo trascinò fuori
dalla macchina. Sentì
perfettamente la sua mano stringersi attorno al proprio collo, mentre
con
l’altra gli strattonava i morbidi boccoli celesti, tanto
quanto sentì il
proprio respiro spezzarsi e i polmoni urlare per il dolore.
Poi
tutto
divenne confuso, come se osservasse la scena dall’esterno: si
vide sbattere
contro il muro, mentre cercava inutilmente di urlare, dibattersi,
liberarsi. Si
vide colpire con la violenza di un animale, si vide sanguinare,
piangere.
Voleva
poter essere di nuovo Aphrodite, anche solo per un giorno, e sapere che
anche
se stava male, anche se avrebbe voluto sparire, qualcuno che lo amava
c’era
sempre.
Voleva
poter sentire un’ultima volta il profumo delle sue rose, le
prediche dei suoi
genitori, le risate degli amici. Tutti loro avevano provato ad
aiutarlo, ma lui
si era sempre sentito così diverso, così vuoto.
Era fuggito inseguendo un
sogno, inseguendo il paradiso. Aveva creduto di poter raggiungere il
successo e
la bellezza, aveva creduto che sarebbe stato ricordato in eterno.
Ma
chi
avrebbe più pensato a quel ragazzino picchiato a morte in un
vicolo e buttato
in un cassonetto come spazzatura?
Credette
di vedersi morire.
Daniel,
Aphrodite, non sarebbe
più esistito per
nessuno.
***
Faceva
freddo. Stava tremando. Aveva dolori ovunque. Doveva essere
all’inferno.
“Pezzo
d’idiota! Sei uno stupido coglione!”
Quelli
dovevano essere i diavoli, che andavano a ricordargli chi era
veramente. Lo
avrebbero punito? Avrebbe sofferto per l’eternità?
Come
prospettiva non era delle migliori.
“Stupido,
stupido, stupido! Come ti sei fatto ridurre? Oh, Aphrodite…
se muori giuro che
ti ammazzo!”
Come
se muori? Lui era
morto! O no? Si era visto morire.
“Ti
prego, apri gli occhi…”
Conosceva
quella voce. Conosceva quel ragazzo.
“Phro,
ti
prego, non morire…”
Stava
piangendo.
Stava piangendo per Aphrodite, non per Daniel.
Si
sforzò
di svegliarsi del tutto. Voleva vedere chi fosse.
La
luce
gli ferì gli occhi chiari, facendoglieli lacrimare, ma non
li richiuse.
Doveva
sapere
chi fosse.
C’era
solo bianco intorno a lui, tranne le pozze profonde che si fissarono
nei suoi
occhi quasi subito.
“Aphrodite…”
Occhi
scuri, capelli neri, accento italiano…
“Angelo…”
la voce gli uscì appena, o forse fu solo una sua impressione
e in realtà non
aveva parlato: “Death…”
riprovò, per assicurarsi che l’altro si accorgesse
di
lui.
Non
voleva essere solo mai più.
Non
voleva… pianse.
Piane
mettendosi a sedere, ignorando il dolore che lo trafiggeva ad ogni
respiro e
gettando le braccia al collo dell’altro ragazzo.
Angelo,
da tutti conosciuto come Death Mask perché odiava il suo
nome, era suo amico.
No,
era
amico di Aphrodite.
Daniel
era solo.
Erano
cresciuti insieme, in Svezia, ed erano amici fin da quando erano
bambini. Death
aveva passato dieci anni in Italia prima di trasferirsi nella patria
del
freddo. Era un bambino strano, ma anche Aphrodite lo era e si erano
trovati
bene insieme.
In
quei
due anni d’inferno, Angelo era la persona che gli era mancata
di più, con tutta
la sua rozza gentilezza e la sua innata bastardaggine.
“Come
mi
hai trovato?” chiese fra i singhiozzi, talmente sconvolto da
non provare più
nulla: “Come?”
“Ora
non
ha importanza. Dio, sei un coglione! Uno stupido imbecille! Sono quasi
morto
quando sei sparito! E sono quasi morto quando ti ho visto in quel
fottuto
vicolo… Phro, perché lo hai fatto?”
Era
strano. Era come essere proiettati in un sogno. Quella non era
più la sua vita:
Aphrodite era morto. Daniel lo aveva ucciso.
Ma
quella
notte anche Daniel era morto, ucciso da un mostro. E allora chi era?
Aveva
desiderato poter tornare indietro.
Stava
bene fra le braccia di Angelo.
Erano
secoli che qualcuno non lo abbracciava in quel modo.
Erano
secoli che nessuno non lo amava.
Non
era
come essere catapultati in un sogno, si era sbagliato. Era come
svegliarsi da
un incubo.
In
quel
vicolo non era morto, era rinato. Come una fenice: aveva raggiunto il
limite e
si era bruciato.
Ora
poteva tornare.
Daniel,
invece, era morto davvero in quel vicolo. Marisa lo avrebbe pianto, o
forse no,
non aveva importanza.
Daniel
era morto, Daniel era stato ucciso da un mostro. Daniel era stato
ucciso dai
suoi stessi errori. Daniel non avrebbe mai lasciato la Groenlandia.
“Riposati.”
La voce di Death Mask era la più dolce delle melodie.
Daniel
aveva dimenticato il cuore nel bagno di uno sconosciuto.
“Poi
ti
spiegherò…” il sorriso di Death era
l’unica luce che poteva eliminare tutto
quel dolore.
Daniel
era morto. Nessuno lo avrebbe mai salvato. Ma Aphrodite era
sopravvissuto.
“Death?”
sussurrò tornando a sdraiarsi e cercando di sorridere.
Aphrodite
era vivo. Aphrodite era rimasto lì, per due anni, in attesa
che qualcuno lo
salvasse.
Daniel
era morto perché non aveva un Angelo Custode. Lui
sì che lo aveva. Lui era
amato. Lui era vivo.
Nessuno
avrebbe pianto per Daniel, nemmeno lui.
“Portami
a casa.”
Questi
sono tre capitoli che avevo pronti da tempo e che aspettavano solo di
essere
pubblicati… sono indecisa se farne un altro in cui parlo dei
17 anni e spiegare
meglio il rapporto di Aphrodite con Death Mask e magari anche Marisa o
passare
subito ai 18… secondo voi? Grazie a tutti!
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Capitolo 4 *** Flash back, 10 anni ***
Flash
Back- 10
anni
Il
piccolo Aphrodite sollevò lentamente il capo dal banco,
stendendo le gambe che
aveva tenuto incrociate fino a quel momento ed arricciando infastidito
il naso
quando si rese conto che non toccava ancora terra. Eppure era cresciuto
di ben
tre centimetri in quelle due settimane! I suoi compagni di classe a
volte lo
prendevano in giro perché era basso per la sua
età, ma Aphrodite non ci faceva
caso: era minuto, ma perfettamente proporzionato. era sempre stato un
bambino
un po’ viziato e capriccioso, ma poteva
permetterselo… l’unico fastidio che a
volte provava era quel sentirsi diverso. Migliore. A se stesso poteva
confidarlo: era più carino, intelligente e forte dei suoi
amici.
Il
bambino però cercava di stare il più lontano
possibile da quei pensieri: lo
facevano stare male e lo confondevano solamente.
Ignorando
quindi la punta di irritazione per la propria bassezza,
puntò annoiato lo
sguardo sulla maestra, che sembrava persino più allegra del
solito nel
presentare il loro nuovo compagno di classe.
“Bambini,
lui è Angelo… si è appena trasferito
dall’Italia, ma conosce già la nostra
lingua! Siate gentili con lui, ok?”
I
bambini
esplosero in mormorii, saluti, urletti, che fecero sorridere
maggiormente la
maestra. Aphrodite, invece, sbuffò poggiando il mento sulla
mano: gli era
antipatica.
Sembrava
che parlasse con degli stupidi, come se a dieci anni non fossero
abbastanza
grandi per le cose! Sospirò con aria drammatica lanciando
un’occhiata al banco
vuoto al suo fianco: l’italiano sarebbe finito vicino a lui.
L’idea non gli
piaceva: aveva già degli amici ed anche se si riteneva un
bambino socievole si
annoiava a dover far sentire a suo agio uno sconosciuto. La mamma gli
aveva
detto tante volte che anche se non voleva doveva farlo comunque per
educazione,
ma quello non gli impediva di trovare la cosa
fastidiosa.
“Ecco
Angelo, il banco vuoto è il tuo, vicino ad
Aphrodite.” la maestra gli rivolse
un sorriso mieloso e cui lui rispose scostandosi una ciocca di capelli
dietro
le orecchie e spostando l’attenzione sull’altro
bambino che avanzava lentamente
: era sicuramente più alto di lui e già quello
era un brutto inizio…
I
suoi
capelli poi erano spettinati e poco curati. Sì, partiva
proprio male.
Ma
quello
che colpì Aphrodite furono i suoi occhi scuri: sembravano
due pozzi troppo
profondi in grado di assorbire qualsiasi cosa e in quel momento stavano
brillando di una luce divertita. L’italiano si sedette al suo
fianco ed Aphrodite
allungò lentamente una mano pallida verso di lui;
sobbalzò, sorpreso dalla
morsa in cui l’altro gliela serrò:
“Ahi…” si lasciò sfuggire,
pentendosene
subito dopo. Angelo tese le labbra in un sorrisetto, sussurrando:
“Sei
delicato, vero ciuriddu?”
Aphrodite
ritrasse con rabbia la mano: non aveva capito come l’altro lo
aveva chiamato.
Sospirò,
incrociando gambe e braccia e poggiando nuovamente la testa sul banco
ignorando
la voce irritante della maestra che annunciava l’inizio della
lezione: quella
era una giornata no, una di quelle in cui la sensazione che gli
mancasse
qualcosa lo tormentava fin quasi togliergli il respiro. Non capiva. Era
ancora
troppo piccolo per capire.
Si
agitò
leggermente sulla sedia, puggiandosi una mano sul cuore: batteva
disperatamente
e sembrava implorarlo di accontentarlo e dargli nuove esperienze, nuove
emozioni, nuova vita. Di più. Voleva di più.
Alzò con un scatto la mano,
respirando a fondo prima di parlare per assicurarsi che la propria voce
non
tremasse e chiese alla maestra di poter andare in bagno. Quando lei
acconsentì,
Aphrodite si alzò lentamente raggiungendo con la solita
calma e grazia che lo
caratterizzavano, ma non appena fu solo in corridoio
cominciò a correre,
sentendo le prime lacrime sfuggire dai suoi occhi.
Spalancò
la porta del bagno fiondandosi al lavandino più vicino,
sciacquandosi il viso
con acqua gelida, poi, finalmente, sollevò lo sguardo per
incontrare il proprio
riflesso: Aphrodite era lì, pallido, che lo fissava con gli
occhi arrossati e
le labbra leggermente dischiuse. Quello era lui. Quel bambino dal viso
spaventato era lui. Allungò una mano verso lo specchio,
facendo un salto
indietro quando arrivò a toccare le dita protese del proprio
riflesso: quello
era davvero lui. Ma chi era? La
domanda rimbombò nella testa del piccolo, che si
coprì entrambe le orecchie nel
tentativo di fermare quella voce: “Chi sei? chi sei,
Aphrodite? Nessuno.”
Si
lasciò
scivolare lungo la parete, sedendosi a terra e nascondendo il viso
sulle
ginocchia: pianse. Fu in quel bagno che, per la prima volta, qualcosa
si ruppe
definitivamente in Aphrodite, qualcosa che molto tempo dopo lo avrebbe
portato
lontano da casa, a rischiare la vita, a perdere se stesso inseguendo
un’illusione
senza vedere il baratro farsi sempre più vicino. Ma in quel
momento era ancora
troppo piccolo per capire.
Dopo
quelle che avrebbero potuto essere ore il bambino riuscì a
rialzarsi e scappare
da quel bagno in cui non avrebbe più messo piede, evitando
accuratamente lo
sguardo ferito e sanguinante del riflesso nello specchio. Quel bambino
sarebbe
sempre stato lì: anche molti anni dopo si sarebbe potuto
vedere un visino
spaventato e confuso chiedere aiuto, imprigionato in uno specchio dove
nessuno
poteva sentirlo. Stringeva fra le dita protese parte di un anima che si
era
strappata per la prima volta in quel luogo. Una sola persona avrebbe
ascoltato
il pianto di quel bambino, cercando in ogni modo di aiutarlo. Persino
quando
gli sarebbe sembrato troppo tardi.
Aphrodite
aprì la porta della propria classe tenendo lo sguardo basso,
liquidando la
maestra e la sua preoccupazione con un gesto svogliato.
L’unica cosa che
sentiva in quel momento erano gli occhi indagatori di Angelo bruciargli
la
pelle: in un altro momento avrebbe sollevato il mento con orgoglio
lanciandogli
uno sguardo di sufficienza, ma era troppo debole per indossare una
maschera in
quel momento. Gli occhi scuri dell’altro bambino lo mettevano
a disagio,
facendolo sentire quasi nudo davanti a tanta forza: gli stavano
togliendo ogni
copertura per cercare di leggere il suo cuore. Era la prima che
qualcuno
riusciva a scorgere Aphrodite, il
vero Aphrodite, dietro quel bambino viziato ed altezzoso. Ne era
sicuro, Angelo
ci stava riuscendo. Si sedette, lasciandosi quasi cadere sulla sedia,
ma prima
che potesse nuovamente la testa sul banco, Angelo lo afferrò
con forza per un
braccio costringendolo a voltarsi e guardarlo.
“Piangi,
ciuriddu?” mormorò ridacchiando
l’italiano senza lasciarlo. Aphrodite reagì
d’istinto,
schiaffeggiandolo.
Lo
sguardo di Angelo cambiò, ma non nel modo in cui si era
aspettato: credeva vi
avrebbe letto rabbia e irritazione, invece l’altro sembrava
solo sorpreso… e
preoccupato.
“Aphrodite!”
la voce della maestra li fece sobbalzare entrambi: “Come ti
è venuto in mente?
Sai benissimo che non si alzano le mani per nessuna ragione! Ora chiedi
scusa
ad Angelo, poi accompagnalo in infermeria e chiedi un po’ di
ghiaccio… portami
il tuo diario, mi costringi a darti una nota.”
“Non
gli
serve il ghiaccio per uno schiaffo. E poi, se l’è
cercata.” mormorò il bambino
carezzandosi i boccoli celesti senza staccare un attimo i propri occhi
da
quelli di Angelo.
“Non
peggiorare la tua situazione: fa ciò che ti ho detto.
Immediatamente.”
Aphrodite
inspirò a fondo, pronto a dar battaglia alla donna, ma prima
che potesse
ribattere Angelo si alzò trascinandolo con lui verso la
porta: “Si scuserà
strada facendo: mi fa male la guancia, voglio il ghiaccio. Discutete
dopo.”
quindi uscirono.
L’italiano
non gli diede nemmeno il tempo di respirare, strattonandolo lungo il
corridoio.
“Aspetta!”
mormorò Aphrodite cercando di fermarlo, invano:
“L’infermeria è dell’altra
parte!”
“Pensi
davvero che mi serva il ghiaccio per uno schiaffo?” il moro
rise, bloccandolo
contro il muro ed afferrandogli una mano: “Sei talmente
delicato che non
riusciresti mai a farmi male…”
“Non
sono
delicato!”
“Ti
avevo
addirittura scambiato per una ragazza…”
Aphrodite
lo spinse, irritato, ma l’italiano non si mosse di un
millimetro, ridendogli in
faccia: “Non ho ragione, ciuriddu?”
Più
cercava di ribellarsi, più Angelo gli si avvicinava, senza
smettere di ridere.
Poi Aphrodite si bloccò di colpo, sentendo il respiro
dell’altro sul proprio
viso: aveva il corpo completamente immobilizzato fra il muro ed Angelo,
che gli
stava talmente vicino che i loro nasi si toccavano.
“Bravo
piccolo, sta fermo…” sussurrò senza
perdere quel sorrisetto sghembo, ignorando
gli occhi di Aphrodite che si spalancarono: le loro labbra si erano
sfiorate
mentre Angelo parlava, ma l’altro sembrava non essersene
accorto nemmeno.
Ancora sorpreso il piccolo svedese non si oppose minimamente sentendosi
di
nuovo trascinare.
Come
in
trance vide Angelo aprire la porta d’ingresso e portarlo nei
giardinetti,
quindi, costeggiando il muro per non essere visti, arrivarono sul retro.
“Non
c’è
nessuno qui…” mormorò e
l’italiano rise ancora con il chiaro intento di
deriderlo: “Ma va, non lo avevo notato…”
Lo
spinse
costringendolo a sedersi su un gradino, fissandolo dall’alto.
“Non
mi
scuso.” sbottò Aphrodite dopo quasi un minuto di
silenzio ed Angelo sbuffò: “Sei
un tipo interessante, svedese. Sempre pronto a ribattere, eh? Sei il
primo che
ha trovato il coraggio di schiaffeggiarmi… cosa nascondi
ciuriddu?”
Aphrodite
sbuffò a sua volta, incrociando le braccia e fissandolo con
un sopracciglio
inarcato.
“Hai
paura, vero? Di essere troppo piccolo in un mondo così
grande…” l’italiano
sospirò sedendosi al suo fianco: “Ti capisco, sai?
E’ normale vedere di più.”
“Ma
come…?”
“Appena
sono entrato in classe ti ha notato: sei diverso da tutti i bambini che
ho
incontrato fino a questo momento. E chi è diverso
è solo.”
Aphrodite
si alzò: non voleva ascoltare quelle parole. Non voleva
sentire il proprio
cuore battere felice nella speranza di aver trovato qualcuno come lui,
qualcuno
che potesse capirlo. Se avesse ceduto a quell’illusione, se
si fosse spezzata
avrebbe sofferto e lui era davvero stanco di star male.
“Fermati.”
Angelo lo trattenne per una mano e lo costrinse a sedersi nuovamente:
“So che
hai paura. Fidati, lo so… lascia che mi occupi io di
te.”
Finalmente
Aphrodite lo guardò: era terribilmente serio. Sembrava
capirlo davvero.
“Forse
sei meno solo di quanto pensi.”
Chinò
nuovamente la testa sentendo gli occhi bruciare, ma il moro lo
costrinse a
guardarlo: “Lascia che mi occupi io di te,
Aphrodite.” ripeté, pronunciando per
la prima volta il suo nome: “Ti si legge in faccia che stai
male.”
Forse
fu
un gesto avventato, forse avrebbe dovuto riflettere di più
prima di annuire,
forse cedette a quella speranza che gli faceva battere il cuore
così velocemente
solo perché era ancora solo un bambino, ma in ogni caso
Aphrodite accettò
quella mano che, anche se un po’ rozza, si tendeva in suo
aiuto. Sorridendo,
quel bambino di dieci anni, non avrebbe mai immaginato che anni dopo
sarebbe
stata proprio quella mano a salvarlo da un mostro. A salvarlo da se
stesso.
Angelo sorrise a sua volta, cogliendo una margherita e porgendola
all’altro: “Ciuriddu.
Significa fiorellino. Non era un insulto, ma un
complimento…” spiegò,
visibilmente imbarazzato.
Aphrodite
rise stringendo leggermente il fiore fra le dita e lasciandosi
scivolare lungo
il petto dell’italiano fino a posare la testa sulle sue
gambe: “Grazie…”
“In
cambio mi aiuterai a trovare un nome decente, Angelo fa veramente
schifo…”
sussurrò il moro scostando i capelli dalla fronte
dell’altro.
“Forse
andremo molto più d’accordo di quanto
immaginassi.”
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Capitolo 5 *** 18 anni ***
“Aphrodite,
forse dovresti andare a casa. A casa tua. I tuoi genitori sarebbero
felici di…”
“No.”
il
ragazzo si raddrizzò sulla sedia, lanciando uno sguardo
irritato alla donna
seduta davanti a lui. Gli ricordava qualcuno: lo infastidiva. Sorrideva
sempre
come se al mondo non ci fosse alcun problema.
“Non
ho
intenzione di farlo.” insistette, accavallando con stizza le
gambe ed
incrociando le braccia sul petto, cercando inconsapevolmente di
proteggersi
dalle parole della donna.
Era
quasi
un anno che era tornato in Svezia, ma dopo un solo mese in cui era
stato dai
suoi genitori era scappato nuovamente. Non ne poteva più:
gli parlavano come se
fosse un bambino, nascondendo ciò che pensavano veramente.
Lo tenevano sotto
una campana di vetro, troppo apprensivi: non era riuscito a resistere,
non dopo
due anni passati allo sbando. Aveva bussato in lacrime alla porta di
Angelo e i
suoi genitori avevano accettato di accoglierlo, chiamando casa sua per
informare. Sua madre aveva insistito perché andasse in
terapia da uno psicologo
e, visto che anche Angelo glielo aveva ripetuto molte volte, alla fine
aveva
accettato.
Così
in
quel momento si trovava nello studio della dottoressa Gora, la
psicologa da cui
era in cura da quasi un anno. Non era stato facile raccontarle quanto
accaduto,
ma con molta calma ed altrettanto tempo era riuscito a confidarsi. Non
aveva
mai pianto davanti a lei: le sue lacrime poteva vederle solo Death Mask.
“Aphrodite,
riflettici con calma: tornare in quel posto potrebbe vanificare tutti i
passi
fatti finora. Capisco che tu sia preoccupato, ma dovresti aver chiuso
per
sempre con quella vita.”
La
voce
della donna era smielata. Continuava a ricordargli qualcuno.
“Credevo
che Daniel fosse morto in quel fottuto vicolo, ma in verità
non è mai andato
via: non riesco ad essere di nuovo Aphrodite senza tornare
là, senza dire addio
veramente. Non lo faccio solo perché sono preoccupato per
Marisa, lo faccio
anche e soprattutto per me stesso.” il ragazzo
inspirò a fondo, cercando di
riprendere il controllo della voce e del respiro: era terrorizzato dal
pensiero
di tornare in Groenlandia, ma era vero che lo voleva fare anche per se
stesso.
Da
mesi i
notiziari trasmettevano la notizia delle uccisioni di molte prostitute
in
Groenlandia, strangolate e picchiate in un vicolo. Quando facevi quel
genere di
vita era normale il rischio, ma negli ultimi mesi il numero di morti
era salito
sospettosamente. Era quasi sicuro di conoscere il responsabile:
Aphrodite non
lo aveva mai incontrato, ma Daniel ne portava ancora i segni addosso.
Se era lo
stesso uomo che aveva aggredito lui, aveva il dovere di informare la
polizia.
Forse tornare in Groenlandia non era la cosa migliore, ma era sicuro di
doverlo
fare: l’ultima volta era fuggito, com’era abituato
a fare in quel periodo,
senza accorgersi che Daniel, o almeno quello che ne era rimasto, lo
aveva
seguito. Voleva solo dimenticare, ma gli era impossibile.
Chissà
cos’aveva pensato Marisa quando era sparito.
Chissà se ancora si ricordava di
Daniel.
Si
alzò
di scatto, scostandosi i capelli dal viso: “Ormai ho deciso:
le valigie sono
già pronte, il biglietto aereo già acquistato.
Sono maggiorenne, posso andare.
Questo pomeriggio parto: la chiamo quando torno.”
così dicendo uscì dallo
studio: come ogni volta, Death lo aspettava fuori.
“Non
è
riuscita a farti cambiare idea?” chiese, semisdraiato sulla
sedia con le lunghe
gambe tese, le braccia incrociate e una sigaretta spenta stretta fra i
denti.
“Non
ti
ho chiesto io di accompagnarmi! Posso andare da solo!”
Aphrodite
sbuffò, oltrepassandolo con stizza. Non si sorprese quando
sentì la mano di
Angelo trattenerlo per un braccio e costringerlo a sedersi accanto a
lui.
“Ciuriddu,
come posso lasciarti andare solo? I due anni in cui tu non
c’eri… è stato orribile.
Quando ho scoperto che eri sparito io… sapevo di aver
fallito: avevo detto che
mi sarei occupato di te, che ti avrei protetto, che ti avrei reso
felice. Non
ti sono bastato, non ho mantenuto la mia promessa: l’unica
cosa che potevo fare
era ritrovarti e riportarti a casa. Per due cazzo di anni, ogni fottuto
giorno,
ti ho cercato, ho chiesto a tutti, a qualunque bastardo criminale che
avrebbe
potuto aiutarti a sparire… poi, una traccia: Groenlandia. Ti
avevo trovato, ma
ho creduto fosse troppo tardi quando ti ho visto a terra in quel
vicolo…” si
interruppe un attimo, abbassando lo sguardo e riducendo la voce ad un
sussurro:
“Ma tu ora sei qui, con me: non posso rischiare di perderti
ancora.”
“Io
tornerò…” mormorò Aphrodite,
lentamente: aveva già sentito quella storia
moltissime volte, ma gli faceva sempre uno strano effetto. Gli
accendeva un
fuoco nello stomaco, mentre una vocina continuava a ripetergli:
“Quanto sei
stato stupido…”
“Non
voglio perderti di vista mai più…”
Angelo lo strinse delicatamente a sé,
passandogli una mano fra i capelli: “Non lo sopporterei. Non
di nuovo.”
“Devo
andare. Lo devo fare…”
“Lo
so,
ma io verrò con te.”
***
Era
tutto
come ricordava: persino ogni odore era rimasto impresso nella sua
memoria,
indelebile. Afferrò con mani tremanti la propria valigia
rossa: quella blu, con
cui era fuggito tre anni prima e che lo aveva accompagnato in
Groenlandia,
l’aveva buttata. Non era sua, ma di Daniel. E lui non voleva
più avere niente a
che fare con Daniel.
“Stai
bene Aphrodite?” Angelo, al suo fianco, gli sorrise
leggermente.
Gli
mancava il respiro e la vista continuava ad offuscarsi.
Groenlandia.
Daniel. Forse non era pronto ad affrontare il passato, forse non lo
sarebbe mai
stato.
“Io…
sì.
Dai, muoviamoci, voglio trovare Marisa. Ha il turno dalle
vent’uno alle quattro
di mattina. So dove trovarla.”
Aphrodite
strinse le mani a pugno, lasciando che Death portasse anche il suo
trolley e si
incamminò velocemente. Una volta fuori dall’aereo
porto, però, si bloccò
nuovamente: non poteva camminare per quelle strade, non lui, non
Aphrodite.
Solo
Daniel ne avrebbe avuto il coraggio, ma non poteva nemmeno richiamarlo.
Daniel
aveva fatto tutte le scelte sbagliate, sempre, aveva cercato di
annientarlo,
sopprimendo ogni suo sogno, speranza, desiderio.
“Aphrodite…”
Sì,
quello era il suo nome, quello era lui. Non avrebbe dovuto dimenticarlo
mai
più.
Inspirò
a
fondo, appoggiandosi a Death Mask: ormai era lì, non poteva
cedere a quel
punto.
“Aphrodite.”
lo ripeté, cercando di imprimerselo bene in mente, quindi
sollevò piano una
mano, fermando un taxi.
Ricordava
ogni singolo vicolo e le luci della sera in cui si stavano muovendo gli
erano
molto più familiari di quelle giornaliere.
Una
volta
raggiunta la periferia, Aphrodite si ritrovò catapultato in
quello che per due
anni era stato il suo mondo: donne, uomini, ragazze, ragazzi, poco
più che
bambini. Erano tutti lì, sui marciapiedi, mezzi svestiti,
con finti sorrisi.
Conosceva ciò che si nascondeva dietro quelle maschere:
disperazione. Odio.
Aveva sempre creduto che l’odio, in certi casi, rendesse
più forti, ma solo con
la comparsa di Daniel aveva conosciuto veramente quel sentimento:
nessuno
poteva parlare di odio prima di aver iniziato a detestare se stesso, la
propria
vita. Sapeva fin troppo bene cosa significasse, proprio come tutte
quelle
persone che salivano su auto di sconosciuti per vendere
l’unica cosa che
rimaneva loro.
“Si
fermi
qui, per favore.” mormorò all’autista:
“Aspetti solo dieci minuti.” aggiunse,
aprendo la portiera e: “Se lo fa la pago il
doppio!” sbottò, interrompendo
subito le lamentele dell’uomo, che alzò le mani in
segno di resa.
Angelo,
lasciando nell’auto le valigie, lo seguì in
silenzio lungo il viale, fino a
quando svoltarono in una stradina laterale: Marisa era lì,
appoggiata ad una
macchina. Sembrava più magra, più pallida,
più disperata.
La
vide
fare il giro dell’auto, ma quando fece per aprire la portiera
sentì chiaramente
una voce maschile, stridula e nervosa: “No, dietro!”
Marisa
esitò, quindi sbuffò e fece per accontentare il
cliente, ignorando il fatto che
i finestrini posteriori fossero oscurati. Proprio come aveva fatto lui.
Il
cuore
di Aphrodite perse un battito, quindi ricominciò a battere
furiosamente: non
riusciva a muovere un muscolo, come bloccato da una forza invisibile.
Gli
sembrò di sentire nuovamente la mano dell’uomo
serrarsi sulla sua gola e
spezzargli il respiro, percepì chiaramente il dolore provato
nel momento in cui
il suo corpo era stato sbattuto contro il muro, come se non fosse altro
che una
bambola di pezza.
“No!
Non
lo fare!” urlò, non riuscendo tuttavia a muoversi.
Marisa
sobbalzò, voltandosi verso di lui e sbiancando maggiormente
se possibile,
mentre l’auto partì sgommando.
“Phro…”
mormorò Death, fermo pochi passi dietro di lui, senza
capire, ma il ragazzo
nemmeno lo sentì: teneva gli occhi fissi in quelli di
Marisa, incapace di
allontanare lo sguardo dal proprio passato.
La
donna
avanzò velocemente verso di lui, raggiungendolo in pochi
passi e sollevando
lentamente una mano per sfiorargli una guancia. Al contatto con la
pelle fredda
del ragazzo sobbalzò, ritraendosi quasi spaventata.
“Sei
vivo…” mormorò, confusa ed intimorita:
“Io… ti ho creduto morto quando sei
sparito. Credevo avessi seguito il cliente sbagliato, ma tu…
sei vivo. Daniel.”
Aphrodite
sobbalzò, sentendosi quasi colpire da uno schiaffo: Daniel.
Per
Marisa lui era Daniel: freddo, solo e senza sogni.
In
quel
momento la donna gli ricordava tanto, troppo, il ragazzo che era stato,
quel se
stesso che non riconosceva: evidentemente, aveva smesso di illudersi.
“Ti
trovo
bene, meglio dell’ultima volta in cui ci siamo
visti…” mormorò nuovamente la
donna, sfregandosi un braccio: “Come hai fatto?”
Aphrodite
la guardò senza capire.
“A
lasciare questa vita. Come hai fatto? E’ evidente che
né tu né il tuo amico
fate le puttane.”
Il
ragazzo spostò il peso da un piede all’altro,
nervoso, quindi sussurrò
fissandola negli occhi: “Quell’uomo. Un anno fa
nessuno mi ha fermato ed io
l’ho seguito: mi ha portato in un vicolo, in questo
vicolo, mi ha picchiato e strangolato. Sono vivo per
miracolo.”
Senza
accorgersene, Aphrodite aveva iniziato a tremare.
Marisa
invece annuì lentamente, come se la cosa non la riguardasse,
nonostante avesse
appena rischiato di fare la stessa fine: “Oh…
l’uomo che ci sta uccidendo. Forse
sei stato il primo, la sua prova.”
“Devi
stare attenta… perché non torni a casa per questa
sera?”
Lei
scosse la testa, sorridendo nello stesso modo storto tipico di Daniel:
“Trovo
sempre qualcuno che mi porti a casa con sé, ricordi? Anche
tu eri così. Quando
sei per strada stai in gruppo, ma con un cliente sei da sola.”
Aphrodite
non rispose, chinando il capo.
“Daniel.
No, tu non sei Daniel: non vedo nulla di lui in te.”
Il
ragazzo sollevò lentamente lo sguardo, posandolo sul muro
alle spalle della donna,
quello stesso muro contro cui era stato picchiato, vicino al quale era
stato
abbandonato come spazzatura. In quel vicolo si era visto morire.
“Allora,
nonostante tutto, le mie lacrime non sono state piante per niente: non
so chi
tu sia. Daniel è veramente morto.”
“Io
mi
chiamo Aphrodite…” mormorò, senza
più riuscire a frenare le lacrime: nemmeno
lui riusciva a vedere nulla della Marisa che aveva conosciuto in quella
donna.
“Beh,
Aphrodite, una volta Daniel mi chiese come facessero i nostri clienti a
non
rendersi conto di farlo con persone già morte. Allora,
quando la prostituzione
non mi aveva ancora segnata troppo, non capii. Ora è tutto
chiaro: io non ho
più vita. Daniel è morto in quel vicolo. Dovresti
essergli grato, Aphrodite: è
grazie alla sua morte che tu ora sei qui. Piangi per lui qualche volta,
perché era
un ragazzo speciale a modo suo.” detto ciò, Marisa
se ne andò, ignorando le
suppliche e le lacrime del ragazzo.
Non
poteva fare a meno di piangere. Tutto il dolore che in
quell’anno aveva
soffocato si era ribellato, tornando a galla e scivolando via sotto
forma di
gocce salate. Con loro, anche quel poco di Daniel che lo aveva seguito
scompariva, morendo nuovamente, per sempre, in quel vicolo.
“Aphrodite…”
mormorò Angelo abbracciandolo da dietro: “Non puoi
salvare tutti, ciuriddu.”
Si
voltò
fra le sue braccia, lasciando che vedesse il suo viso rigato dalla
sofferenza: “Ora
ho detto addio. Addio per sempre. Daniel è morto,
è stato ucciso da un mostro,
è stato ucciso dai suoi stessi errori. Proprio qui, in
questo vicolo. Daniel
era amico di Marisa, ma ormai anche lei è morta: qui non
c’è più nulla che mi
riguardi.”
Death
annuì, lasciandolo continuare.
“Andiamo
alla polizia: io so chi è quell’uomo,
l’assassino. Non posso salvare tutti, ma
qualcuno sì.”
Per
Daniel e Marisa, ormai, era troppo tardi.
Chiedo
scussa per l’enorme ritardo con cui aggiorno
>.< Grazie a tutti!
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