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La ragazza aveva gli occhi socchiusi, l’espressione
tutt’altro che rilassata.
Stringeva il cellulare con tanta forza da farle sbiancare
le nocche.
- Farmi male? – balbettò la voce del ragazzo, sorpresa –
Perché dovresti farmi male? -
- Perché ho un idiota per fratello –
- Sono il tuo unico fratello – borbottò lui, lentamente.
Loredana si massaggiò le tempie con la mano libera,
reprimendo a stento un sospiro esasperato.
- Ah! – esclamò Marco, capendo con un po’ di ritardo
l’insulto della sorella – Sei cattiva, Dana -
- Non sono cattiva – soffiò lei – Sono a un
funerale, cosa che tu continui a ignorare –
- Ma no… lo so che sei a un funerale –
- E allora per quale diavolo di motivo mi hai chiamata?! – scoppiò, attirando parecchia attenzione.
Un ragazzo alto, prima appoggiato alla finestra, le si
avvicinò cauto, scrutandola con espressione interrogativa. Loredana coprì
appena il microfono del telefonino, bisbigliando scuse sconnesse.
- Marco – ringhiò poi, tetra – Ora attacco. E
non provare a richiamare, tanto non rispondo -
- Oh, non ce n’è bisogno – ridacchiò lui – Sono qui!
–
Le dita già pallide quasi si lasciarono sfuggire il telefonino tanta era stata la meraviglia.
O meglio, il terrore.
- Come, scusa? –
- Sto entrando in questo momento, Dana –
Loredana si voltò di scatto, una
muta preghiera sulle labbra. Vana.
Restò immobile, osservando orripilata il fratello che
oltrepassava la soglia con passo sicuro.
Perché? Per quale dannatissimo motivo non poteva essere
figlia unica?
Cosa aveva fatto di male per meritarsi lui come
fratello minore?
- Allora – cominciò Marco – Vuoi sapere o no
cosa ho fatto? -
- No –
Il ragazzino piegò le labbra in un broncio, guardando la
sorella con fare contrito e sussurrando:
- Dana, ti prego – piagnucolò, aggrappandosi a un
braccio della ragazza e scuotendola.
- Ti prego un cavolo! – sibilò lei, liberandosi
dalla stretta. Con un abile movimento gli prese un orecchio fra due dita e
iniziò a tirarlo di nuovo verso la porta da cui era entrato: – Non
dovresti essere qui, non devi parlarmi ed è meglio per te se sparisci in meno
di un secondo –
- Non noti niente di diverso in me? – chiese Marco,
incespicando sull’uscio.
Loredana lo squadrò, un sopracciglio inarcato: capelli
neri, spettinati, lunghi fino alle spalle; era di qualche centimetro più alto
di lei, esile ma assolutamente non indifeso: come arma gli sarebbe bastata
anche solo la lingua; un paio di jeans neri e una felpa rossa, gli occhi accesi
dall’eccitazione.
- No – fece lei, telegrafica, incrociando le braccia
al petto – Puoi andare -
Marco sorrise, un paio di fossette che gli si formavano ai
lati della bocca, semplicemente adorabili.
- Vuoi dire che l’occhio non è così nero come
pensavo? -
- L’occhio? – si strinse lei nelle spalle
– Quale occhio? –
- Quello su cui Nicola Pavesi ha pensato bene di assestare
un bel cazzotto –
Loredana non riuscì a ostentare ancora la più totale
indifferenza: si avvicinò appena, di un solo passo, studiando con maggiore
attenzione i begli occhi verdi del fratello. Attorno a quello destro si stava
chiaramente creando un alone violaceo niente affatto rassicurante. Al diavolo…
- Ti sembrava il giorno giusto per prenderti un pugno? -
- Perdonami – ghignò il ragazzino – La
prossima volta vedrò di fissare un appuntamento –
- Cretino – sibilò lei, afferrandolo per un gomito e
trascinandoselo dietro.
Percorsero un corridoio, silenziosi:
era Loredana a guidare, diretta alla porta dietro l’angolo. Vi si fiondò
dentro, chiudendosela alle spalle con un movimento deciso:
- Per quale stupidissimo motivo ti sei fatto malmenare,
sentiamo? -
- Mi sono fatto malmenare? – fece lui, basito, le
mani protese in avanti – No, cara. Io non mi
sono fatto malmenare. Io ho cominciato! –
- E ne vai fiero? – ringhiò la ragazza, prendendo in
considerazione l’idea di schiaffeggiarlo.
- Certo –
- Marco, io ti… -
- Se lo meritava! – sbraitò il ragazzino, alzando
gli occhi al cielo – Insisteva a dire di essere etero! –
E Loredana restò a corto di parole.
- Come si può resistere a me, Dana? Come? Credevo che
stesse facendo il difficile, sai com’è. Così, dato che mi era scocciato
di aspettare, l’ho provocato un po’. Ma niente, testardo il
ragazzo… e gli ho dato un calcetto. Piccolo, ti assicuro. Quasi poteva
non accorgersene. Invece no. E mi è saltato addosso. E ci ho rimediato un
occhio nero –
Marco si guardò attorno, avvicinandosi rapido
all’unico specchio presente nel piccolo bagno:
- E’ carino, vero? D’effetto, più che altro
– aggiunse soddisfatto, studiando attento l’alone scuro.
- Ah, e sono anche riuscito a palparlo un pochino – concluse, un sorriso sornione.
Loredana socchiuse gli occhi, avvicinandosi alle spalle
del fratello: fu con un gesto calcolato che gli strinse le mani attorno al
collo, cominciando a scuoterlo convulsamente. Leggiadra.
- Tu sei completamente pazzo! – sbraitò, sbattendolo
contro la porta – Un omosessuale assatanato e della peggior specie! Cosa
ti salta in mente? Non puoi dare il via a una rissa perché uno non vuole venire
a letto con te, lo capisci, idiota? Non hai il diritto di palpeggiare chiunque
tu voglia! -
Marco riuscì a liberarsi dalla stretta, crollando in
ginocchio sul pavimento: tossiva, piegato in due.
Un bussare prudente alla porta zittì entrambi. Loredana si
morse un labbro, fulminandolo:
- Sì? – chiese, amabile.
- Sei tu, Lori? – domandò a sua volta la voce da
fuori – Va tutto bene? –
- Certo. Tutto benissimo. Esco subito – rispose lei,
affrettandosi a rimettere in piedi il fratello.
- Vada anche per l’omosessuale
assatanato – sibilò Marco, carezzandosi la gola – Ti voglio
fare presente però, cara sorellina, che io ho il diritto di palpeggiare
chi mi pare e piace –
Loredana si fermò, la mano già sul pomello: - Non ce
l’hai –
- Invece sì -
I due si squadrarono in silenzio, tesi come corde, finché
le dita di lei non corsero a sfiorare l’occhio contuso e lui non
sussultò, sorpreso. Un sorrisetto illuminò la ragazza che aprì la porta:
- Ora te ne vai – gli sussurrò all’orecchio,
incamminandosi per il corridoio.
- Non posso, Dana! –
mormorò il ragazzino, inseguendola.
- Perché, di grazia? –
- La mamma –
Rispondendo all’espressione interrogativa di lei,
Marco proseguì, il tono supplichevole:
- Se vedesse l’occhio nero le prenderebbe un colpo.
Come glielo spiego? Speravo… speravo che tu me lo
avresti potuto truccare un po’. Coprirlo, no? Camuffarlo… -
- Camuffarlo? –
Il ragazzino annuì imitando forse involontariamente un
cucciolo pentito e speranzoso al contempo.
Loredana sospirò, ruotando gli occhi: - Facciamo in fretta
–
Si era girata, facendo per tornare di corsa nel bagno,
quando una mano le si poggiò sulla spalla.
- Lori, sicura che vada tutto
bene? -
Lei sollevò lo sguardo sul ragazzo che l’aveva
fermata: lo stesso che l’aveva interpellata mentre era al telefono,
sempre lui che aveva bussato alla porta del bagno. Andrea.
- Certo – balbettò in risposta,
il cuore a mille – Perché? Sembra forse il contrario? -
Marco sorrise, divertito dalla confusione che sembrava
aver avuto il sopravvento sulla sorella. Ah, le donne: bastava così poco a
bruciargli quei pochi neuroni che tanto vantavano?
Sempre sorridendo studiò il ragazzo, quel così poco,
e quasi a malincuore dovette ricredersi: era tutto fuorché poco. Era alto,
biondo e scandalosamente attraente. I capelli corti, il viso sottile, gli
addominali che si intravedevano anche sotto il completo scuro. E gli
occhi… oddio che occhi: uno azzurro, l’altro verde. Una differenza
appena visibile che lui, tuttavia, aveva subito notato.
- Ti ho sentita alzare la voce – stava dicendo, lo
sguardo incatenato a quello di Loredana – C’è qualche problema? -
- No – scosse il capo lei, senza fiato – O
meglio, c’è mio fratello –
A quel punto si voltarono entrambi verso di lui,
trapassandolo senza pietà.
- Andrea, lui è mio fratello: Marco – presentò
Loredana – Marco lui è Andrea, un mio amico –
I due si strinsero la mano: pochi secondi appena, prima
che lei tirasse via il più piccolo, impaziente.
- Spero ci scuserai, Andrea – fece, rapida –
Torno fra pochissimo –
Il ragazzino si lasciò trascinare, muto, entrando di
spontanea volontà nel bagno e appoggiandosi con le spalle al muro, le braccia
incrociate al petto:
- Andrea, eh? – ghignò, ammiccando in direzione
della sorella – E’ l’Andrea di cui ho letto nel tuo diario? -
- Tu cosa…?! –
- L’Andrea con un corpo da infarto che neanche
Photoshop? – ridacchiò lui, citando le parole scritte da Loredana
– Lo stesso Andrea che, riassumendo, stupreresti molto volentieri?
–
Il viso della ragazza non lasciava trasparire alcuna
emozione: si guardava allo specchio, sistemando i capelli e ritoccando gli
occhi con la matita nera. Fu proprio quell’assenza di reazione a far
tremare Marco: lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi, schiudendo
leggermente la bocca.
Fu con uno scatto fulmineo, poi, che sgusciò fuori dalla
porta.
L’urlo di lei lo raggiunse appena, ovattato;
continuò a camminare, indifferente, cercando il modo più veloce e sicuro per
guadagnarsi l’uscita. Era quasi arrivato alle scale, la testa che
istintivamente scattava all’indietro così da assicurarsi di aver seminato
Loredana, quando sbatté contro qualcuno.
- Scusi, scusi, scusi! – sussurrò concitato, il
cuore che batteva forsennatamente – Io non… -
- Marco, giusto? –
- Sì – balbettò il ragazzino – Andrea? –
- Sì –
Marco annuì ancora, arretrando di qualche passo: -
Io… stavo andando via –
Si era già voltato, dando le spalle al biondino, quando la
sua voce lo raggiunse di nuovo:
- E’ un occhio nero quello? -
- Potrebbe – mormorò in risposta, girandosi di pochi
centimetri solo per guardarlo.
- C’è del fondotinta nel bagno di sopra – si
strinse nelle spalle Andrea.
- Fondotinta? –
- Ti interessa o no? –
Marco schiuse le labbra, affrettandosi ad annuire: seguì
il ragazzo che già si era incamminato per le scale, lo sguardo allucinato, il
cervello che faceva gli straordinari. Possibile?
Poco prima di sparire al piano di sopra incrociò
casualmente lo sguardo di Loredana, pietrificata vicino all’ingresso: il
ragazzino si esibì nel suo miglior ghigno malizioso, l’espressione
ammiccante.
- Vieni, moccioso? -
Marco inarcò un sopracciglio con fare contrariato: - Come
mi hai chiamato? –
Andrea sospirò, facendogli segno di affrettarsi: -
Moccioso – sussurrò – Preferisci piccoletto? O cucciolotto? La
scelta è tua, fatto sta che resti un ragazzino –
- Non sono un ragazzino! – esclamò Marco, entrando a
sua volta nel bagno, allucinato.
- Ma per favore! – sbuffò l’altro, frugando in
un mobiletto bianco – Quanti anni hai? Quindici, sedici? Scommetto che
non hai neanche i peli s… -
- Ne ho diciassette! – scandì Marco, fremente
– Diciassette. Quasi diciotto. E tu, sentiamo? –
Il volto del biondino tornò a farsi vedere,
sornione: - Ventitré. Quasi ventiquattro –
- Oh, certo. Tu sì che sei vecchio -
Andrea gli si avvicinò, un barattolo fra le mani: con un
cenno del capo gli fece segno di sedersi sul bordo della vasca, quindi si
piegò, poggiandosi sui talloni. Ora era alla sua stessa altezza.
- Sì, sono vecchio. O almeno, lo sono più di te -
- E con questo? –
Una risata bassa, gutturale, scosse appena il biondino: -
Niente. Niente, davvero. Ora stai fermo –
Immerse un dito nella crema, avvicinandolo poi con cautela
all’occhio di Marco.
Lui sussultò al tocco, facendo sorridere l’altro di
riflesso: - Fa male? –
- E’ freddo – si strinse nelle spalle il
ragazzino, abbassando le palpebre e respirando piano.
- Mi sono sempre piaciuti gli occhi neri, sai? –
- Concordo – annuì serio Marco – Sono
eccitanti –
Il dito di Andrea si era fermato, immobile, lasciando
perdere i delicatissimi movimenti circolari.
- Sei un ragazzino – sussurrò, come parlando a se
stesso.
Marco aprì lentamente gli occhi, trovandosi a fissare lo
sguardo perso del biondino: - Come? –
- Sbrighiamoci – ribatté Andrea, scuotendo appena il
capo – Devo tornare giù -
- Chi è morto? –
- Mio zio –
- Oh – balbettò il più piccolo, atteggiando le labbra
in una smorfia – Mi dispiace –
- A me no – rispose l’altro, sorridendo
impercettibilmente – Non lo sopportava nessuno –
- Ma… -
- Le poche lacrime che hai visto erano di gioia –
Marco serrò le labbra, preso totalmente in contropiede: -
E’ strano –
- Hai ragione – approvò Andrea – Quasi come te
che ti presenti a un funerale dopo essere stato appenamalmenato
-
- O mio Dio! – scoppiò l’altro – Io non
sono stato malmenato! –
- No? –
- No! – ringhiò il ragazzino – Lo volete
capire? Sono stato io a iniziare, è stata colpa mia! –
- E ti sei fatto un occhio nero –
- Sì! –
- E lui? –
Marco aprì la bocca per controbattere e la
richiuse subito dopo, scrutando con astio il biondino.
- E lui? – ripeté Andrea – Lui come ne è
uscito? -
- Male –
- Male quanto? – continuò a chiedere –
Qualcosa di slogato, di rotto? –
- Un graffio –
Andrea storse le labbra, camuffando un sorriso di scherno:
- Un graffio? –
- Un brutto graffio – annuì Marco – Tutto
rosso, forse è uscito anche un po’ di sangue -
La risata questa volta non fu più contenuta,
tutt’altro. Agitò il corpo del ragazzo, piegandolo in due.
Marco lo spinse via, alzandosi in piedi di scatto. Fece
per uscire dal bagno ma la mano di lui lo tirò indietro, bloccandolo: - Scusa
– biascicò, cercando di frenare le risa – Scusa non volevo –
Il ragazzino deviò lo sguardo, cercando inutilmente di
liberarsi dalla presa di Andrea:
- Non volevi cosa? -
- Ferire quell’orgoglio da cucciolo che ti ritrovi
– ridacchiò ancora il biondino, poggiando la crema sul lavandino e
avvicinandosi di qualche passo a Marco.
Lui non lo guardava, le braccia
incrociate. Silenzioso.
- Marco – lo chiamò l’altro – Scusa,
davvero -
- Vaffanculo –
- Ma che speranze avevi, dai? – sorrise Andrea
– Ti sei visto? Tu non sai cosa sono i muscoli –
- Credi di star migliorando la situazione? –
brontolò il ragazzino, cercando ancora di sgattaiolare via.
- No, hai ragione – sussurrò il biondino,
bloccandolo con le spalle contro la porta – Aiutami –
Marco sollevò finalmente lo sguardo, fissandolo nel suo: -
Dì che ti dispiace –
- Mi dispiace -
- E che credi io mi sia battuto fieramente –
- Ci credo – sorrise l’altro.
- E che non credi io sia indifeso –
- Non l’ho mai detto –
- Lo hai pensato –
Andrea sospirò, inclinando appena il capo: - Credo tu sia
tutt’altro che indifeso –
- E che ti piacciono gli occhi neri -
- L’ho già detto –
- E che in particolare ti piace il mio, di occhio nero
–
- E’ vero, lo sai? – ghignò Andrea, il pollice
che saliva a sfiorare lo zigomo del ragazzo – Devo ammettere che è
particolarmente eccitante –
Marco sorrise, annuendo con fare soddisfatto: - Sei
perdonato – mormorò – E sai una cosa? –
- Cosa? -
- I tuoi occhi mi fanno semplicemente impazzire –
Era a mala pena riuscito a concludere la frase che le
labbra di Andrea si scontrarono con le sue.
- Ecco – biascicò, le mani
che afferravano il colletto della camicia del ragazzo.
- Cosa? – sussurrò l’altro in risposta, i
denti che giocavano con il suo labbro, vogliosi.
- Dove volevo andare a parare – sospirò Marco,
spingendolo per invertire le posizioni. Lo bloccò contro la porta, le mani che
veloci gli sfilavano la giacca scura, fiondandosi poi sui bottoni della sottile
camicia bianca. Aveva cominciato ad aprire i bottoni, il sorriso negli occhi.
- Lucky – mormorò Andrea, lasciandolo fare e facendo
scivolare le dita sotto la felpa del ragazzino.
- Come? –
- Ecco chi mi ricordavi – ridacchiò il biondino,
risalendo piano lungo il petto di Marco – Il cucciolo della Carica dei
101 – continuò, mordicchiandogli il collo – Quello con… -
risucchio vicino all’orecchio - … un occhio nero, per
l’appunto –
- Stai cercando di dirmi che vorresti farti un cucciolo di
dalmata? –
- No. Che voglio farmi te –
Marco si bloccò, le mani ferme
sulle spalle di Andrea. Lo fissò, gli occhi accesi da una scintilla di pura
frenesia: - Non ho nulla in contrario –
Si lasciò sfilare la felpa, le dita che già si affannavano
sulla fibbia di una cintura non sua.
- Che dicevi prima? – sospirò Andrea, i pantaloni
che scivolavano al suolo.
- Quando? –
- Prima… - sospiro eccitato - … sui miei occhi
–
- Sì – approvò Marco, i jeans aperti – I tuoi
occhi – pizzicò il fianco del ragazzo, la lingua che gli solleticava
l’orecchio – Sono magnifici. Sono sempre stato indeciso… -
bacio veloce - … se apprezzare più gli occhi blu o quelli verdi… -
morso sul mento - … con te non ho questo problema –
Andrea gli fermò le mani, portandole a sfiorare i propri
addominali:
- Vedi? – chiese – Questi sono muscoli,
ragazzino -
- Ah, sì? – ghignò l’altro, piegandosi sulle
ginocchia e poggiandoci sopra le labbra – Devo dire che non mi
dispiacciono affatto –
Con la lingua carezzò la pelle di lui, le labbra che
fremevano ogni volta che Andrea rabbrividiva.
Lentamente cominciò a scendere,
le dita che già giocavano con l’elastico dell’ultimo indumento del
biondo. Sentiva le mani di Andrea: una sulla spalla, l’altra fra i
capelli; sorrise ancora, facendolo spostare: lo fece scivolare, senza fretta,
lasciando che si appoggiasse al muro.
E solo in quel momento, con la porta libera, si sollevò in
piedi: la felpa già stretta in una mano, un ghigno tutt’altro che
rassicurante. Attese che Andrea aprisse gli occhi prima di schiudere a sua
volta la porta. Un piede già oltre l’uscio gli fece l’occhiolino,
malizioso:
- La prossima volta, mi raccomando, pensaci due volte
prima di chiamarmi moccioso –
Si chiuse la porta alle spalle, infilando la felpa con un
gesto fluido e riabbottonando i jeans.
Scese le scale, svagato,
imbattendosi casualmente nella sorella: lei lo fissava allibita, il pallore
reso totale dal contrasto con gli abiti neri. Marco le sorrise, indicando
l’uscita con il pollice:
- Io andrei – mormorò, dandole un colpetto sulla
spalla.
- Dove sei stato? – chiese lei, timorosa della
risposta.
- Sopra –
Loredana socchiuse gli occhi, studiando inviperita i
capelli ancor più spettinati del fratello:
- Non è divertente, Marco – ringhiò, scontrosa.
- Cosa? – fece lui, l’espressione angelica.
- Dov’è Andrea? –
Il ragazzino si guardò attorno, bloccando infine lo
sguardo sulle scale: il biondo stava scendendo di corsa, la camicia abbottonata
male, un segno rosso sul mento.
- Sta arrivando – sorrise Marco, cominciando ad
arretrare verso la porta.
- Dimmi che non è vero, ti prego – guaì Loredana,
affranta, appoggiandosi al tavolo.
- Scusa, Dana – ghignò lui.
Lei gemette, fulminandolo senza troppa convinzione: -
Sparisci –
- Certo – approvò Marco, facendo per uscire.
- Ah – aggiunse, già lontano - Dì al tuo amico che
Lucky ha ancora voglia dell’osso –
Marco rallentò, le dita che frugavano nelle tasche alla
ricerca del cellulare: lo trovò, sbloccando lo schermo con un sorrisetto
compiaciuto. Fece per rispondere, l’indice che già indugiava sul tasto
verde, quando venne senza preavviso trascinato all’indietro: il dito
sbagliò la mira e chiuse la chiamata.
- Che diavolo… - borbottò meravigliato, tentando
inutilmente di impuntare i piedi sul vialetto.
Niente da fare: qualcuno lo trascinava brutalmente,
tirandolo per il cappuccio della felpa.
Marco assottigliò lo sguardo, ruotando al massimo il capo
per inquadrare il molestatore:
- Dana – soffiò seccato – Non è divertente -
- Dici? – chiese una voce maschile – E io che
credevo ti piacessero questi scherzetti –
Marco sussultò, girandosi ancora una volta e imbattendosi
finalmente nel ghigno di Andrea. Spalancò gli occhi, fissandolo senza capire:
quello si fermò, poggiando le mani sulle spalle del ragazzino e spingendolo in
avanti.
Attraversarono il vialetto di ghiaia e s’inoltrarono
nel piccolo giardino: Marco aprì la bocca per dire qualcosa ma il duro schiocco
di lingua dell’altro lo zittì, un sorrisetto che gli si dipingeva in
volto.
- Chiariamo le cose – grugnì Andrea poco dopo,
sbattendolo con le spalle contro un albero – Sei una serpe -
Marco non si mosse, incrociando divertito le braccia sul
petto: - Una serpe? Io? –
Il biondo si guardò rapidamente attorno, gli occhi che
indugiavano qualche attimo in più sulla porta d’ingresso.
- Non ero un cucciolo di dalmata? – continuò Marco,
inumidendosi le labbra.
- Prima forse – ringhiò l’altro – Poi
improvvisamente ti sei tramutato in una lurida serpe –
- Oh, dai – ridacchiò il ragazzino – Per un
così innocente scherzetto? –
Andrea smise di guardarsi intorno, gli occhi che
trapassavano l’espressione irriverente di Marco: poggiò la mano sinistra
sul tronco dell’albero, a pochi centimetri dal volto del ragazzo;
l’indice destro, invece, glielo puntò sul petto: - Dovresti vergognarti –
- Sei troppo permaloso – lo rimbrottò quello,
abbassando esilarato lo sguardo sul dito.
- Non hai idea di… -
- Non dovresti tornare dentro? – chiese Marco,
interrompendolo – Ricordo male o c’è un funerale? –
- Sei un piccolo sbruffone – sorrise Andrea,
scuotendo il capo, l’indice che si allontanava piano dal petto di lui.
- Hai fatto tutto da solo, sai? –
- Vorresti dire che non eri interessato? –
- Non ho detto questo –
Andrea inarcò un sopracciglio, attendendo che continuasse.
Marco sospirò, passandosi una mano fra i capelli:
- Hai i bottoni messi male – ghignò poi, le mani che
afferravano il colletto dell’altro. Lo tirò a sé, cominciando a
sbottonare la camicia, indugiando un po’ più del dovuto a ogni passaggio:
- Ti stai divertendo? – soffiò Andrea, lasciandolo
fare – E se ora me ne andassi, eh? –
- Non ti converrebbe – ponderò Marco – Tanto
per cominciare dovresti rientrare al funerale di tuo zio con la camicia aperta
– sorrise, rimettendo il primo bottone nella sua asola – E poi…
io non ho mica i pantaloni calati alle caviglie – ridacchiò, la scena del
bagno che gli si ripresentava alla mente.
- Fottiti – mugugnò Andrea, una luce divertita negli
occhi mentre si allontanava di un passo, completando da solo il lavoro
cominciato dal ragazzino.
- Vedi? – fece Marco – Sei permaloso! Una
minuscola frecciatina e tu… -
- Sei tu che te la prendi per poco
–
- Sarebbe? –
- Un semplice moccioso – infierì Andrea
– Che poi è la verità –
Marco alzò gli occhi al cielo, sbuffando sonoramente: -
Non ci sai proprio fare, permettimi –
- Che fai? – chiese il biondo, corrucciandosi mentre
il ragazzino lo superava.
- Me ne vado – rispose quello, stringendosi nelle
spalle – Lo stavo facendo anche prima, sai? –
Andrea lo affiancò, spintonandolo senza troppa forza:
- Non dirmi che ho offeso di nuovo quel tuo patetico
orgoglio da cucciolo -
- Orgoglio da serpe vorrai dire – ribatté Marco
– E no… non sei ancora abbastanza per
offendermi, tranquillo –
- Non sono abbastanza? –
- No – mormorò il ragazzino, aprendo il cancelletto
e uscendo sul marciapiede – Mi spiace infrangerti così un sogno ma…
-
Si zittì, il cellulare che vibrava una sola volta, lapidario: abbassò gli occhi sullo schermo, leggendo il messaggio
mentre un sorrisetto gli incurvava le labbra. Quando risollevò lo sguardo trovò
Andrea che lo fissava:
- Cosa? – chiese, arretrando di un passo - …
che stavo dicendo? -
- Un’altra cazzata delle tue – rispose il
biondo, ridacchiando.
- Niente di importante, quindi – annuì Marco –
Ora devo proprio andare –
- Dove? –
- Una commissione per mia sorella –
- Loredana? – domandò Andrea, lanciandosi
un’occhiata sorpresa alle spalle, verso la casa.
- No – sospirò il ragazzino – Rebecca –
- Hai due sorelle, allora –
- Nemmeno – mugugnò Marco, come se gli costasse
ammetterlo – Sono cinque –
Andrea smise di sorridere, l’espressione confusa: -
Davvero? Siete in sei? –
- Oh, sì – borbottò l’altro – E io sono
il quinto -
- Capisco – annuì il biondo, serio.
- Che cosa? –
- E’ normale, allora – spiegò Andrea –
Con quattro sorelle più grandi non potevi diventare meno di una serpe –
- E’ un ragionamento contorto – ridacchiò il
ragazzino – Te lo lascio passare, però –
Si avviò lungo la strada, le dita che si agitavano
sbarazzine in direzione di Andrea: aveva già percorso diversi metri quando la
voce gentile del ragazzo lo raggiunse ancora una volta. Rallentò, ascoltando:
- E se venissi con te? -
Marco si girò appena, il capo inclinato di lato: -
Scherzi? –
- No – si strinse nelle spalle l’altro,
aprendo il cancelletto e uscendo in strada.
- Ma… e il funerale? –
- Tanto è morto – lo raggiunse rapido Andrea,
arrotolando le maniche fino ai gomiti, svagato.
- Non credo sia una commissione interessante, eh? –
sorrise Marco, guardandolo di sottecchi, sorpreso.
- Qualsiasi cosa sia, va bene – fece l’altro,
godendosi gli ultimi raggi di sole della giornata.
- Io ti ho avvertito – alzò le spalle Marco,
rimettendosi in cammino – Sei ancora in tempo per tornare indietro -
- No, grazie – sorrise sornione Andrea – E
poi… non eri tu quello che voleva ancora l’osso? –
- Starai scherzando -
- E poi sono io il bambino –
- Non li compro – s’impuntò Andrea, fermo sul
limitare della penultima corsia del supermercato.
- Ti avevo avvertito – ringhiò Marco, stringendo il
colletto della sua camicia tra due dita e cominciando piano a tirarlo –
Ora vieni con me –
- Perché? – si lagnò il biondo, muovendo qualche
passo controvoglia – Com’è possibile che le servano? Hai detto che
sono in cinque o sbaglio? –
- Andrea, cammina –
- Perché lo fai? Non puoi rifiutarti, fingere che ti sia
passato di mente o cose del genere? –
- No – sussurrò in risposta il ragazzino – E
poi… - aggiunse, iniziando a scrutare fra gli scaffali - … a me
piace –
- Starai scherzando –
- Diventi ripetitivo – mormorò Marco, afferrando due
pacchi e confrontandoli con occhio critico.
- Colpa tua – sussurrò Andrea, bisbigliando con fare
cospiratorio – Stiamo parlando di assorbenti –
Il ragazzino si girò, fissandolo con gli occhioni verdi
spalancati:
- Ti spaventano forse? – chiese, il tono
inizialmente serio. Fu questione di pochi secondi, però, che scoppiò a ridere
senza più trattenersi. Piegato in due, i pacchi colorati ancora stretti tra le
mani.
Andrea s’imbronciò, guardandolo male: - Non sono io
quello strano, sai? –
La risata s’ingigantì, trasformandosi in singhiozzi
irrefrenabili: - Ah, no? – balbettò Marco, lanciandogli contro un pacco
di assorbenti. Il biondo si scansò, guardando l’oggetto con espressione
incerta:
- Sei tu quello che afferma… - scosse il capo,
esasperato – Come fai a dire che ti piace?
- sussurrò, confuso.
- Sono solo assorbenti – sospirò il ragazzino,
riprendendo fiato – Non mordono –
- Sì ma sono… assorbenti –
- Continua a sfuggirmi il punto
cruciale della discussione, temo – soffiò Marco, reprimendo una nuova
risatina.
- Fa niente – borbottò il biondo – Muoviti,
su, così ce ne andiamo –
Marco ridacchiò, raccogliendo il pacco sul pavimento e
rimettendolo al suo posto nello scaffale:
- Hai mai visto le pubblicità? – chiese, scorrendo
con il dito le file di scatole violacee.
Andrea scosse la testa, deviando teso lo sguardo e
puntandolo sul soffitto mentre una coppia di ragazze entrava nella loro corsia:
- Hai fatto, ragazzino? –
- Sono fantastiche le pubblicità – continuò Marco,
ignorandolo – Danno l’idea che con uno solo di questi cosi indosso
si possa fare qualsiasi cosa… come superpoteri momentanei -
Le due ragazze li superarono di qualche passo,
ridacchiando.
- Ridono delle cretinate che stai sparando – mugugnò
Andrea, coprendosi il viso con una mano e guardandolo storto. Marco ghignò,
inarcando un sopracciglio con fare non convinto. Si girò verso le ragazze,
ammiccando:
- Non è che mi dareste una mano? – domandò, il gemito dell’altro in sottofondo.
- Cosa ti serve? – chiese una delle due,
avvicinandosi curiosa.
- Assorbenti – sorrise Marco – Per mia sorella
–
- Non ti ha dato qualche informazione in più? –
ridacchiò quella mentre l’amica si avvicinava.
- Il messaggio era telegrafico – si strinse nelle
spalle Marco – Diceva solo: assorbenti e spaccata –
- E’ un indizio – annuì la ragazza, guardando
l’amica – Secondo te intendeva quelli con la bionda in palestra?
–
- Forse quelli con il figo nel tram – ipotizzò
l’altra, lanciando occhiate di sottecchi all’occhio nero del
ragazzo.
Andrea scivolò alle spalle di Marco, poggiandogli le
labbra vicino all’orecchio:
- La smetti di spacciarti per etero? – sussurrò,
pizzicandogli un fianco.
- Io? – ghignò il ragazzino – E chi ti dice
che non sia etero? –
- Mmm – mugugnò il biondo, mordicchiandogli il lobo
–Sfumature impercettibili –
- E’ per gli assorbenti, non è vero? –
ridacchiò Marco, girandosi a guardarlo.
- Ti riferisci alla tua fissazione per questi…
superpoteri momentanei? – chiese quello, divertito, le dita che
affondavano nei morbidi capelli scuri.
- Non è una fissazione – borbottò – E non
prova niente –
- Hai ragione – concordò Andrea, avvicinando il viso
a quello del ragazzo – Dimostrami allora che non è… -
- Non ci sono più – guaì il biondo, arretrando di
scatto con espressione stranita.
- Chi? –
- Le ragazze! – fece Andrea – Quand’è
che le abbiamo perse? –
- Non saprei – sorrise l’altro –
Probabilmente fra la tua insinuazione sulla mia sessualità e… -
Una pacca dell’altro lo zittì di colpo.
- Mi hai appena dato una sculacciata? – chiese
incredulo il ragazzino, stralunato.
- Potrebbe darsi – si strinse nelle spalle il
biondo, allontanandosi sorridente – Prendi i tuoi superpoteri, moccioso,
ti aspetto alla cassa –
- Bella casa -
Andrea squadrò ancora una volta la villetta bianca a due
piani, annuendo fra se e se.
- Entri? -
- Come? – chiese, girandosi di scatto.
- Ti ho chiesto se entri con me – sorrise Marco,
divertito.
- Oh, no – declinò rapidamente l’altro –
No, davvero –
- Su, non farti pregare – ridacchiò il ragazzino
– Non vuoi concludere il lavoro? –
Andrea inarcò un sopracciglio, esortandolo a continuare.
- Hai comprato il tuo primo pacco di assorbenti: non vuoi
anche consegnarlo a chi di dovere? -
- Anche? –
- Per chiudere in bellezza, sai com’è – sorrise Marco, salendo il primo scalino – E poi,
guarda che siamo già all’entrata –
- Cinque minuti – concesse Andrea – non uno di
più –
- Andata – annuì quello, la mano già sulla maniglia.
Stava per aprire quando si bloccò di colpo e fissò il biondo:
- Com’è? – chiese serio.
Andrea ricambiò lo sguardo senza capire a cosa alludesse.
- L’occhio! – esclamò Marco, esasperato.
- Oh – mormorò Andrea, osservando l’alone
scuro – Forse… se ti metti di lato e… -
Marco sospirò, abbassando il capo con aria sconfitta: -
Capito –
- Dai, non è così evidente. Potrebbe non accorgersene -
- Dieci a uno che non passano cinque secondi –
Il ragazzino aprì silenzioso la porta, dirigendosi a passo
sicuro verso le scale; aveva messo il piede sul primo scalino quando
sull’uscio della cucina comparve la figura di una signora: grembiule,
strofinaccio fra le mani, fissò il figlio e sospirò. Si avvicinò di qualche
passo, borbottando contrariata:
- Bell’occhio -
Marco sorrise, ammiccando in direzione di Andrea:
- Ciao mamma -
- Se ti fai uccidere non sopravvivrò a lungo con cinque
femmine, lo sai? –
- Sì – la baciò sulla guancia lui – Per questo
non mi farò uccidere –
- Ben gentile – approvò la donna, adocchiando gli
assorbenti – Per chi sono? –
- Rebecca –
- Glieli porti tu? –
- Certo – annuì Marco, provando nuovamente a salire.
- E lui? – lo fermò la madre, indicando Andrea
– E’ nuovo? –
- E’ un amico, mamma –
- Un altro? – inarcò le sopracciglia lei.
- Mamma – la rimproverò il ragazzino, trascinando
per le scale il biondo con impazienza.
Superata la prima rampa tornò a respirare normalmente e
ghignò: - Tre secondi. Ho vinto –
- Come ha fatto? -
-Poteri temporanei,
probabilmente – ridacchiò Marco, fermandosi all’inizio del
corridoio. Aspettò che Andrea lo affiancasse e poi elencò, indicando a una a
una tutte le porte:
- Questa è la stanza di Loredana. Quella di Silvia. Quella
di Angela e Valeria. E l’ultima… - strinse il pomello fra le dita
-… quella che ci interessa: la stanza di Rebecca –
- E la tua? –
- In mansarda – sorrise Marco – E no. Non te
la faccio vedere –
Il ragazzino aprì la porta, entrando nella camera avvolta
nella penombra: il sole era già tramontato e solo una luce soffusa proveniente
dal computer rischiarava l’ambiente. Rebecca era nel letto, sepolta fra
le coperte.
- Dorme? – bisbigliò il biondo, facendo per uscire.
- Credo di sì – rispose Marco, bloccandolo e
facendolo sedere su una sedia – Aspetta –
- Cosa? –
Il ragazzino accennò con il capo in direzione della
sorella: - Lei è la mia preferita – sussurrò, sorridendo.
- Perché? -
- Dunque – cominciò Marco, contando sulle dita
– C’è Loredana, la più grande: la conosci, sai quanto possa essere
insopportabile –
- Non direi insopportabile – lo interruppe il
biondo, nicchiando.
- Bugiardo – ridacchiò l’altro, continuando
– Poi ci sono le gemelle: Angela e Valeria. Loro sono… particolari.
Devi sapere come prenderle. Una può ucciderti, l’altra potrebbe salvarti
la pelle –
Rebecca si girò nel sonno, stropicciandosi gli occhi.
Marco alzò un altro dito:
- Poi c’è Silvia: lei è la mia principessina. Sette
anni di dolcezza -
Andrea fece per dire qualcosa ma
il ragazzo scosse il capo, continuando: - E infine Rebecca: è la mia migliore
amica. Non
credo potrei farcela senza di lei –
- Quanti anni ha Loredana? -
- Ventitre. Non glielo hai mai chiesto? –
- Non volevo rischiare di essere ucciso – sorrise
Andrea – Non sono cose che si chiedono a una donna –
- Vero – approvò Marco – Le
gemelle ne hanno ventuno. Rebecca diciannove. Silvia sette
–
- E tu, cucciolo? – lo provocò Andrea, piegandosi in
avanti.
- Non ti è bastata la lezione? – ghignò il
ragazzino, i pugni sui fianchi.
- Oh, per favore – mugugnò una voce assonnata
– Sto già male di per me, non fatemi venire la
nausea –
- Becca! – saltò su Marco, sorridendo
dell’imbarazzo del biondo – Non crederai a quello che ho fatto –
La ragazza si tirò a sedere, la schiena poggiata al muro:
- Bell’occhio, complimenti –
- Opera di Nicola Pavesi – fece lui, compiaciuto.
- Non dirmelo… - gemette la sorella.
- L’ho palpeggiato –
Andrea sussultò, sgranando gli occhi: - Tu cosa? –
- Oh, non sorprenderti – mormorò Rebecca –
Questo è niente -
- E’ normale? – chiese il biondo, incredulo.
- Purtroppo –
- Sono qui, sapete? – borbottò Marco, incrociando le
braccia al petto e imbronciando le labbra.
- A proposito – annuì la sorella – Lui chi è?
–
- Un amico –
- Un altro? –
Marco alzò gli occhi al cielo, sbuffando sonoramente.
Lanciò gli assorbenti sul letto e afferrò Andrea per il gomito, tirandolo in
piedi: - Andiamo, su –
- Non resti a cena? – s’intromise Rebecca,
rivolgendosi all’ospite.
- Io… - incrociò l’espressione terrorizzata di
Marco e scosse vivacemente il capo - … no. No, no: ho un impegno. Sarà
per la prossima volta –
La ragazza rispose con un suono non proprio convinto,
salutandolo con la mano mentre lui veniva trascinato fuori senza troppe
premure. Marco fece le scale due a due, il fiato corto, fermandosi solo sulla
porta:
- E’ per il tuo bene – sorrise, sospingendolo
verso l’esterno – Scappa finché sei in tempo -
- Mi potrebbero stuprare? – ghignò Andrea –
Credevo che su quel fronte il più pericoloso fossi tu –
- Simpatico – ribatté Marco, accompagnandolo fino al
cancello – Divertiti al funerale –
- Lo farò sicuramente – annuì il biondo –
Anche se probabilmente è quasi finito – aggiunse, osservando di sbieco
l’orologio – Ne è valsa la pena, però –
- Per conoscere mia madre? –
- E i superpoteri momentanei –
- Resto una serpe, quindi? – s’informò Marco
– O torno in modalità cucciolo? –
- Serpe – fece Andrea serio, allontanandosi di
qualche passo – Decisamente –
- Buona notte – mormorò il ragazzino.
- ‘notte –
Salutò con la mano, avviandosi lungo il marciapiede.
E poi sentì lo schiaffo. Forte, preciso: sulla sua chiappa
destra. Si voltò di scatto, basito.
Marco chiuse il cancelletto, una luce divertita negli
occhi: sorrise, stringendosi nelle spalle e mimando una parola con le labbra.
Doveva aspettarselo.
Giacomo inarcò le sopracciglia, stringendosi nelle spalle:
- Sicuro? -
Marco assottigliò lo sguardo, sporgendosi in avanti, i gomiti ben piantati sul tavolo:
- Ci sto – sussurrò, lasciando cadere anche le ultime
caramelle gommose fra di loro – Che fai? -
L’uomo ridacchiò, scoprendo lentamente la prima
carta. Un asso.
- Non comincerai a tremare, vero? – sogghignò,
cercando di leggere l’espressione insondabile del ragazzo.
Quello sbuffò, gli occhi verdi puntati sul tavolo:
- Non fermarti, Giacomino – intimò, le dita che
tamburellavano sul legno.
- Non essere impaziente, piccolo Torresani –
ridacchiò quello, cominciando a smuovere la seconda carta.
Marco ruotò gli occhi, esasperato.
Serrò i denti, trattenendosi dal farsi sfuggire qualche
altro commento poco garbato.
- E tu non giocare con la mia pazienza, allora, sai bene
che… -
Si interruppe di scatto, la voce
che veniva improvvisamente a mancare: possibile?
I muscoli tesi, si inclinò impercettibilmente a sinistra.
Cercava quasi di allungare anche l’orecchio, piano.
- Che c’è, Marco? – ghignò il bidello,
scoprendo un’altra carta – Stai prevedendo la tua prossima
sconfitta? –
Il ragazzo non fiatò, gli occhi socchiusi; fu in quel
momento che sentì nuovamente ciò che prima era riuscito a farlo rabbrividire:
passi. Sicuri, cadenzati, veloci ma privi di fretta. I passi di Vincenzo Iacono.
- Cazzo, Già – mugolò – Questa volta siamo
fottuti -
Marco lasciò cadere le carte sul tavolo: la sedia arretrò
di qualche centimetro, senza emettere alcun rumore.
Con uno scatto il ragazzino si tuffò sul lettino bianco,
supino, un braccio piegato teatralmente sugli occhi.
- Al diavolo – imprecò il bidello, raccogliendo in
pochi secondi le carte sparse e nascondendole furtivamente nel cassetto –
Hai un udito impressionante, ragazzo mio, lasciatelo dire -
Aveva appena finito di mormorare la frase che la porta
dell’infermeria si aprì, scontrandosi senza troppa enfasi contro il muro.
Un uomo alto, sulla cinquantina, con i capelli brizzolati
e gli occhi chiari si stagliava sull’uscio:
- Disturbo, per caso? – chiese, il sorriso nella
voce, entrando nella stanza.
- Certo che no, signor preside – rispose prontamente
Giacomo, alzandosi in piedi.
- Cos’abbiamo, qui? – domandò ancora l’uomo,
avvicinandosi al tavolo e afferrando alcune delle caramelle.
- Lui… - mormorò il bidello, accennando con il capo
al ragazzo steso sul lettino - …un occhio nero –
- Un occhio nero – annuì il preside, sedendosi su
una sedia e accavallando le gambe.
– Capisco – continuò, una caramella fra le
labbra – Io, però, mi riferivo alla partita –
Due sospiri si fusero, diffondendosi nella stanza: Giacomo
si lasciò cadere sulla poltrona scura e Marco si tirò stancamente a sedere.
Il preside sorrise, un lampo di divertimento che gli
attraversava lo sguardo:
- Quante volte vi ho detto che dovete chiamarmi quando
cominciate una partita? -
- Lei vince sempre – borbottò Marco, dondolando le
gambe – Ed è troppo competitivo, se lo lasci dire –
- Io sono troppo competitivo? – ridacchiò
l’uomo – Parla lui che finge un attacco apoplettico pur di non
girare le carte –
- C’è da dire che sembrava quasi vero – si
intromise Giacomo, aprendo il cassetto e recuperando il contenuto.
Un breve silenzio avvolse la scena mentre il preside si
sporgeva in avanti, i gomiti sulle ginocchia:
- Già – mormorò, assottigliando lo sguardo –
Vero come quell’occhio nero -
Marco si strinse nelle spalle, sfiorando lo zigomo con due
dita:
- Altrimenti perché sarei qui? – scherzò, sperando
di spingere l’uomo a sorvolare sull’argomento.
- Avrei preferito che fosse solo per una partitina a
poker, veramente – rispose il preside, semiserio, alzandosi in piedi
– Fammi vedere, su –
- Non è niente – mugugnò il ragazzino, lasciandolo
fare malvolentieri.
- Chi è stato? –
Marco non rispose, ruotando leggermente gli occhi:
- Ma nessu… - si bloccò, il
cervello che improvvisamente faceva gli straordinari.
Il lampo smaliziato che passò negli occhi del ragazzo fece
rabbrividire i due uomini, una smorfia di timore che si dipingeva sul volto del
preside.
Forse aveva fatto male a chiedere.
- No, no, ha ragione – sorrise Marco –
E’ stato Nicola -
Giacomo gemette, coprendosi gli occhi con una mano e
agguantando una caramella.
- Nicola Pavesi -
- Fammi capire, aspetta -
Andrea sospirò, portando la tazza di caffè alle labbra.
- Tu hai cercato di farti un ragazzino al funerale di tuo
zio? - riassunse Federica, gli occhi che brillavano di sano divertimento. Amava
i gay, c’era poco da fare.
- Non è andata così – si lamentò Andrea,
carezzandosi i capelli – Sei tu che travisi le mie parole –
- E com’è andata, allora? –
Lui non rispose, osservando scoraggiato il ghigno che si
formava sul viso dell’amica.
Federica sgranò gli occhioni chiari e strofinò le mani,
preparandosi:
- Eri al funerale di tuo zio? -
- Sì –
- E sei salito al piano di sopra con un ragazzino? –
- Non chiamarlo ragazzino, ti prego. Mi fai passare
per pervertito –
- Quanti anni ha? –
- Diciotto –
- Credevo li dovesse ancora compiere –
- Inezie –
Federica ridacchiò, bevendo un sorso di cioccolata e
affrettandosi a riprendere il discorso:
- Come ti è venuto in mente di spogliarlo nel bagno, Andy?
-
- Non è che avessi programmato la cosa, sai? –
- E allora come è potuto capitare? – fece lei
– Non ti credevo tipo da carne fresca –
Andrea gemette, spintonandola giocosamente e cercando le
parole giuste:
- E’ un cucciolo, Fede -
- Mi stai dicendo che hai voglia di farti un cucciolo?
– chiese lei, guardandolo con tanto d’occhi.
- Basta – borbottò Andrea – Devo smetterla di
dire cose del genere –
Federica ridacchiò, palesemente esilarata.
- Non so se è colpa mia – continuò lui – O
siete voi che sfiorate sempre di più la depravazione -
- Voi chi? –
- Voi – sussurrò Andrea – Tu, Marco… -
- Marco? – si entusiasmò Federica – Si chiama
così il ragazzino? –
- Sì – bisbigliò lui, guardandola di sbieco –
Non potresti abbassare un po’ la voce? –
Federica si strinse nelle spalle, ignorando le persone che
affollavano la caffetteria:
- Che ascoltino pure – fece,
il mento alto.
- Tanto sono io che rischio di essere bollato come
maniaco… - si lamentò lui, prontamente interrotto.
- E così vi siete saltati addosso –
- Non siamo animali, Fede –
- Ti darei ragione, normalmente – annuì lei –
Eravate a un funerale, però, per cui normali certo non siete –
- Non so come è stato possibile – scosse il capo
Andrea, riflettendo su niente in particolare.
- Era carino, almeno? –
La risposta arrivò leggermente in ritardo, il tono
estremamente basso:
- Molto -
E Federica guaì, in brodo di giuggiole:
- Descrivi su, non farti pregare –
- Ma che ne so… - borbottò Andrea, deviando lo
sguardo – Moro, occhi verdi –
- Ecco, ora sì che non lasci spazio alla mia immaginazione
–
- I capelli gli arrivano quasi alle spalle, non ha idea di
cosa siano i muscoli – continuò forzatamente Andrea, le mani strette
attorno alla tazza – E quando sorride si formano due fossette agli angoli
della… -
- No, no – lo bloccò Federica – Non scendere
nel romantico che altrimenti mi sciolgo, ti prego –
- E allora cosa diamine vuoi sentirti dire? –
- Da quant’è che non lo fai? –
- Questo non te lo dico –
- Sto solo cercando di capire cosa ti ha spinto a
lasciarti spogliare quando al piano di sotto la bara di tuo zio era ancora
aperta –
- Non mi sono lasciato spogliare – s’impuntò
lui – Ho cominciato io –
- Peggio ancora – saltò su Federica – Che cosa
ti è preso? –
- Perché? –
- Come perché? –
- Non sono il tipo da fare cose del genere, secondo te?
–
- No –
Andrea bevve l’ultimo sorso di caffè e fece
schioccare la lingua, inumidendosi le labbra:
- Mi ricorda me -
- In che senso? – chiese Federica, inclinando il
capo e abbassando la voce.
- Quel modo di fare da duro, le battutine taglienti, le
frecciatine… è sfrontato, imprudente –
- E tu eri così alla sua età? –
- Guarda che non è passato così tanto tempo, eh, Fede?
–
- Aspetta – lo fermò lei, meditando su ciò che aveva
appena sentito – Mi stai dicendo che gli sei saltato addosso perché
vorresti farti te stesso? –
Andrea non disse niente, esasperato. E Federica cominciò a
ridere convulsamente: l’aveva persa.
Nicola entrò nell’infermeria con l’espressione
di un cane bastonato.
I capelli corti, tagliati alla
marine; due occhi azzurri, così chiari da tendere quasi al bianco.
- Mi cercava, preside? –
chiese, il tono basso, educato.
- Sì, grazie per essere venuto – annuì l’uomo
– Vorrei parlarti, Nicola, potresti chiudere la porta? –
Il ragazzo ubbidì, guardandosi poi attorno come per
inquadrare la situazione.
Incrociò lo sguardo del bidello Giacomo, di nuovo quello
del preside, e infine si scontrò con il ghigno di Marco. E lì capì che ci
sarebbe stato ben poco da divertirsi.
- Siediti, Nicola – mormorò il preside, spingendo
una sedia verso di lui – Non preoccuparti prima del dovuto -
- Di cosa si tratta? – domandò teso il ragazzo,
prendendo posto sul bordo della sedia.
- Conosci Marco? – s’informò il preside, accennando
con la mano al ragazzo sorridente seduto sul lettino.
Nicola si mordicchiò un labbro, inclinando il capo:
- Temo di sì – borbottò, torturandosi le mani.
Il preside non riuscì a trattenere un sorriso, interessato:
- Temi? -
- Non è una conoscenza di cui andar fieri, sa com’è
–
Marco sbuffò sonoramente, contrariato.
- Lo so – mormorò il preside, mischiando
sovrappensiero un mazzo di carte francesi.
- Quindi… perché sono qui? – chiese
timidamente Nicola, torturandosi le mani.
Il preside sospirò, chiudendo gli occhi per pochi attimi;
la sua, poi, fu una domanda a bruciapelo:
- Hai dato un pugno a Marco? -
- Sì –
Gli altri tre sussultarono, fissandolo sorpresi:
- Davvero? – provò il preside, basito da come si
stavano svolgendo i fatti.
- Sì, signore – annuì Nicola – L’ho
colpito dopo che lui mi ha dato un calcio –
Giacomo ridacchiò, non riuscendo a trattenersi.
- Gli hai dato un calcio?!
– sbottò il preside, abbandonando il tono pacato e formale.
Marco nicchiò, un sorrisetto sghembo sulle labbra:
- Un calcetto – tentò, facendo spallucce.
- Hai cominciato tu, piccolo demonio! – esclamò il
preside, sgranando gli occhi.
E la diplomazia era andata perduta. Con Marco era
impossibile mantenere un comportamento civile.
- Non era un calcetto! – saltò su Nicola,
avvicinandosi al lettino con aria minacciosa.
- Ah, sì? – ridacchiò Marco – E cos’era,
sentiamo? –
- Stai molto attento, Torresani – mugugnò Nicola, il
tono basso così che potesse sentirlo solo il ragazzo.
- Perché? Cosa vorresti farmi? – chiese Marco, la
mano che si poggiava sul fianco dell’altro.
Nicola arretrò come scottato, un’espressione
indecifrabile in viso.
- Ragazzi – li richiamò il preside, cercando di
ignorare la risata di Giacomo che rimbombava nell’infermeria.
- Ragazzi, per cortesia – fece,
un sospiro stanco – Cerchiamo di non peggiorare la situazione –
Marco sollevò le mani, l’espressione angelica.
- Devo prendere provvedimenti? -
- Che succede? -
- Niente – ribatté secco Andrea, stringendosi nelle
spalle.
Salvatore sorrise, un sopracciglio inarcato: lanciò uno
sguardo a Federica, ancora piegata in due dalle risate.
Poggiò il muffin sul tavolo, afferrò una sedia vuota e la
trascinò vicino a quella della ragazza:
- Fede – la chiamò, mentre lei cercava di riprendere
fiato – Cosa mi sono perso? -
- Lui… - singhiozzò Federica, indicando Andrea -
…vuole farsi se stesso –
E cominciò a ridere di nuovo, peggio di prima.
- Si chiama masturbazione, donna – le bisbigliò
all’orecchio Salvatore, esilarato.
Federica per poco non si strozzò con la sua stessa saliva.
Andrea chiuse gli occhi, massaggiandosi le tempie con due
dita:
- Novità, Sasà? – chiese all’amico, cercando
di escludere dalla mente le risate di Federica.
- Niente di che – si strinse nelle spalle quello
– Tu, piuttosto? Cosa le hai detto? –
Andrea scosse il capo, fissandolo di sbieco.
Salvatore arricciò le labbra, carezzandosi i lunghi
capelli scuri: estrasse un elastico dalla tasca della giacca e li legò in una
perfetta coda di cavallo.
Quindi fece una linguaccia all’amico e afferrò per
le spalle la ragazza:
Lei annuì, impegnandosi a riprendere fiato. Chiuse gli
occhi, respirando piano:
- Ieri c’è stato il funerale di suo zio – biascicò, il tono insicuro.
- Lo so –
- Lui… - risatina veloce - …è salito al piano
di sopra e si è chiuso nel bagno con un ragazzino –
Salvatore sgranò gli occhi, incredulo. Lanciò
un’occhiata ad Andrea e quello poggiò la testa sul tavolo, muto.
- Si è fatto un ragazzino?!
– balbettò – Non è da lui! -
- Infatti – ghignò Federica.
- Spiega, donna! – strofinò
le mani Salvatore, avido di notizie.
- Si è comportato da animale perché il cucciolo gli
ricordava se stesso diversi anni fa –
- Insopportabile, rompiballe, inopportuno? – meditò
Salvatore, tornando indietro con la memoria.
- Esattamente –
Salvatore sorrise, mostrando i denti e cominciando a
intuire qualcosa:
- Significa che ha trovato pane per i suoi denti? –
ridacchiò, divertito.
- Oh, sì – annuì Federica, dando uno schiaffetto
sulla spalla di Andrea – Il cucciolo si è trasformato in una piccola
serpe e lo ha lasciato con i pantaloni calati –
E a quel punto Andrea gemette, consapevole di averli persi
entrambi: le risate ormai dovevano sentirle anche fuori dalla caffetteria.
Mugugnò qualcosa, tirandosi su e fulminandoli con lo
sguardo:
- Non vi racconto più niente se non la smettete –
minacciò, invano.
Alle risate seguirono gli ululati.
- E’ finita la pausa, Fede – brontolò,
affibbiandole un calcetto non proprio delicato.
Lei pigolò qualcosa, cercando di alzarsi in piedi: si
appoggiò a Salvatore, lasciandogli un bacetto sulla guancia.
- Ci aggiorniamo, Sasà? –
chiese, la voce ancora spezzata da risa sparse.
- Certo – approvò lui – Tienimi informato
–
Federica fece per seguire Andrea, già fermo vicino alla
porta, quando Salvatore se ne uscì con un’ultima frase:
- Immagina quando verrà a saperlo Vincenzo -
Gli occhi di Federica si illuminarono, pieni improvvisamente
di una nuova gioia.
Si girò per guardare Andrea ma lui si era già defilato, la
testa bassa.
E lei cominciò a ridere, pensando alle risate che si
sarebbe fatta.
- Siamo d’accordo? -
Marco e Nicola annuirono, evitando di guardarsi.
- Ripetete con me, ragazzi – disse il preside,
fissando prima l’uno poi l’altro – Faremo i bravi -
- Faremo i bravi – ripeterono i due, gli occhi
bassi.
Il preside sospirò, scuotendo il capo:
- L’importante è crederci, eh? – mormorò quasi
a se stesso, indicando poi la porta con una mano:
- Puoi andare, Nicola – decise, squadrando il
ragazzo – Cerca di non combinare guai per un po’, va bene? –
- Sì, signore – rispose quello, sgusciando fuori in
meno di due secondi.
- A te non provo neanche a dirlo – mugugnò il preside,
alludendo a Marco.
- Non serve, infatti – sorrise il ragazzo –
Sono buono, io –
Giacomo ridacchiò, offrendo una caramella al preside che,
esasperato, reclinò il capo all’indietro:
- Mi ricordi qualcuno, sai,
Marco? -
- In senso positivo? –
Il preside tentennò, arricciando le labbra. Poi inarcò un
sopracciglio e scosse la testa:
- No – affermò – Decisamente no -
La suoneria di un cellulare si diffuse
nell’ambiente, lieve.
- E’ il suo, preside – mormorò Giacomo,
iniziando a distribuire le carte.
L’uomo annuì, affrettandosi a rispondere:
- Pronto? -
Marco si avvicinò al tavolo, prendendo le proprie carte.
- Federica – esclamò il preside, un sorriso che gli
si formava in viso – Dimmi tutto -
Marco tentò di afferrare furtivamente una caramella, subito
bloccato da Giacomo:
- Se finisci tutte le fiches cosa puntiamo, poi? -
- Un pranzo? – si sorprese il preside – Certo,
perché no… è successo qualcosa? –
E inaspettatamente, per la prima volta, fu la risata del
preside a rimbombare tra le mura.
Chiuse la chiamata, divertito, prendendo le carte.
- Faccia ridere anche noi, preside – ridacchiò
Marco, il capo piegato.
- Niente – sorrise quello – Si prospetta un
pranzo divertente, tutto qui –
- Qualche bella notizia? –
- Un bel racconto, si spera –
*
Sono in ritardo?J
Passate buone feste? Trepidanti
per l’ultimo dell’anno?
Dunque, sarete tutti indaffarati
come me, per cui giusto una cosa: ricordo a tutti che, se vi interessa,
c’è un gruppo su fb per spoiler e varie:
Aveva preso un bel respiro, la testa reclinata contro il
sedile e gli occhi chiusi.
Decisamente più rilassato, aveva girato le chiavi, pronto a partire. Fu in quel momento che arrivò lui.
Sentì bussare contro il finestrino del passeggero e
sussultò, sorpreso. Si voltò, confuso, incontrando lo sguardo vispo di Marco. E
rabbrividì.
Indugiò, indeciso: cosa doveva fare? Rischiare?
Non ebbe modo di decidere, in ogni caso: il ragazzino aprì
lo sportello senza farsi troppi problemi e prese posto
accanto al preside, sereno.
Sorrise, inclinando il capo verso l’uomo al suo
fianco:
- Andiamo? -
Vincenzo inarcò un sopracciglio, decisamente perplesso:
- Sbaglio o hai usato il plurale? -
- Non aveva un pranzo o qualcosa del genere? –
domandò a sua volta Marco.
- Un pranzo privato – annuì il preside,
fulminandolo.
- Significa che non posso venire con lei? –
L’uomo non riuscì a trattenere un sorriso: quel
ragazzo gli era sempre piaciuto. Non riusciva a spiegarsi come fosse possibile,
certo; era una spina nel fianco: irriverente, indisponente, ribelle. Tutto
quello che uno studente non dovrebbe essere, insomma. Eppure… eppure
inevitabilmente riusciva a far colpo su chiunque: grazie ad un’intelligenza
vivace, reattiva e decisamente fuori dal comune.
- Credevo avesse voglia di far passare la nostra relazione
al passo successivo – ghignò Marco, ammiccando.
Senza contare l’ironia, naturalmente.
Il preside sospirò, guardandolo come si fa con un figlio
che ha appena tirato la coda al gatto.
- Non posso, Marco, mi dispiace -
- Oh, dai – sussurrò il ragazzo, mettendo su il
broncio – Farò il bravo –
Vincenzo ruotò gli occhi, sospirando con aria esasperata:
- Credevo che dopo il suono della campanella non avrei più
avuto a che fare con te – ringhiò, serio.
- Lo so – annuì l’altro – Ne ero
convinto anche io, le assicuro –
Marco si passò le mani sul viso, l’espressione
distrutta:
– Poi, però, mi sono ricordato di cosa avrei trovato
a casa –
Il preside aspettò, la strana impressione di aver già
perso. E Marco continuò, abbattuto:
- Quattro donne nel loro periodo del mese, una ragazzina
che si lamenta perché non le cade il dente e un… -
- Va bene – acconsentì Vincenzo senza dargli modo di
concludere – Va bene, vieni a pranzo –
Marco saltò su, meravigliato, lo sguardo acceso:
- Davvero? -
- Non sono così crudele da costringerti a tornare in
quell’inferno – borbottò il preside, ingranando la prima.
- Oh, l’inferno sarebbe nulla – sorrise Marco,
allacciando la cintura – Invidio Lucifero, alle volte –
- La smetti? – sussurrò Salvatore, il tono basso,
riprendendo la ragazza.
Federica ignorò il richiamo, strappando un altro angolo di
tovagliolo e formandone una pallina. La posizionò sul pollice e fece scattare
l’indice, velocissima. E la pallina prese il
volo, attraversando leggiadramente la sala: un tragitto che durò pochi secondi,
andando infine a concludersi sul capo di un cameriere.
Salvatore gemette, coprendosi gli occhi con una mano
mentre la vittima si guardava attorno infastidita:
- Lo sai, vero, che ci sputerà nel piatto? – mugugnò
schiudendo gli occhi con fare timoroso.
Federica si strinse nelle spalle, sorridendo non appena lo
sguardo ostile del cameriere si fermò sul loro tavolo.
-
E’ arrivato, grazie al cielo – sospirò Salvatore, facendo un segno
a Vincenzo, fermo di fianco all’entrata.
L’uomo
annuì, affrettandosi a raggiungerli:
-
Eccomi – sorrise – Scusate il ritardo -
Federica
si alzò in piedi, baciando le guance di Vincenzo:
-
Figurati – mormorò, lo sguardo eccitato – E poi, abbiamo già
ordinato gli antipasti -
- In
cui si spera che il cameriere non sputerà – ringhiò Salvatore, stringendo
la mano del nuovo arrivato a mo’ di saluto – Fede lo ha preso di
mira – sospirò, arrotolando le maniche della camicia – Avrà colpito
il poveretto con una dozzina di palline di carta –
Vincenzo
ridacchiò, togliendosi la giacca del completo e poggiandola sulla sedia:
-
Allora, cosa dovevate… - si interruppe di colpo, guardandosi attorno con
fare preoccupato.
-
Qualcosa non va? – chiese Federica, senza capire.
- Ho
perso il mio alunno – borbottò Vincenzo, passandosi una mano fra i
capelli – Avete visto dove è andato? –
- Al
bagno, signore – rispose in quel momento il cameriere, posando un piatto
colmo al centro del tavolo.
- Posso portarvi altro per il momento? – domandò
cortesemente, curandosi di rivolgersi unicamente all’ultimo arrivato.
Vincenzo scosse il capo, ringraziando: scivolò a sedere,
un sorriso stanco sulle labbra.
- Hai portato un tuo alunno? – s’informò
Salvatore, curioso – Come mai? –
- Non te lo so spiegare – ridacchiò l’altro
– In qualche modo è riuscito a convincermi –
- E’ il ragazzo di cui ci parlavi? – sorrise
Federica, inclinando la testa di lato.
- Esattamente – fece Vincenzo – Un demonio nei
panni di un diciassettenne –
Bevvero in contemporanea, come per prepararsi
all’imminente chiacchierata. Vincenzo assottigliò lo sguardo:
- Anzi, fra non molto mi sembra che diventerà maggiorenne.
Ovvero legalmente perseguibile – ghignò – Sono abbastanza sicuro
che stringerà rapporti con le forze dell’ordine dell’intero paese -
Salvatore ridacchiò, il cellulare fra le mani:
- Che fai? – sussurrò Federica, interrogandolo con
lo sguardo.
- Uno squillo ad Andrea – sorrise il ragazzo –
Dovrà pur tornare –
- Dov’è? – chiese Vincenzo, inarcando le
sopracciglia.
- In bagno – sorrise l’altro – Era piuttosto nervoso, credo tema il momento in cui ti
racconteremo tutto –
- Non è d’accordo? –
- Assolutamente no! – ghignò Federica, malignamente
– Non so se è più forte la vergogna o il rimpianto –
- Ora voglio sapere – mormorò il preside con fare
impaziente – Su, parlate! –
Salvatore e Federica si scambiarono uno sguardo divertito,
decidendo chi dei due dovesse iniziare.
Lei sospirò, sollevando la testa e inumidendosi le labbra:
- Hai presente il funerale dell’altro giorno, no? -
Andrea sentì la porta della cabina accanto chiudersi di
scatto.
Sospirò, passandosi le mani sul viso mentre lo sguardo
cadeva inevitabilmente sull’orologio: al diavolo, doveva andare. Doveva
proprio andare.
Gemette, uscendo con aria sofferente e appoggiandosi al
lavandino. Fissò il proprio pallido riflesso e tentò un sorriso, tirato e palesemente
falso.
Gli angoli della bocca crollarono verso il basso,
disillusi.
Un ultimo, esasperato, sospiro e uscì dal bagno. Gli occhi
piroettarono veloci fino al tavolo al centro della sala.
Spostò lo sguardo dalle spalle di Federica a quelle di Salvatore,
entrambe scosse dalle risate.
Poi si concentrò oltre, sulla figura di Vincenzo; e
aspettò, sperando con tutto se stesso di veder ridere anche lui.
Un brivido gli percorse la
schiena quando notò la posa rigida dell’uomo, non prevedeva qualcosa di
buono.
Mosse i primi passi, tentennante. Una manciata di secondi
ed era quasi arrivato al tavolo, il fiato corto.
E fu in quel momento che Vincenzo sollevò lo sguardo,
fissando gli occhi in quelli di Andrea.
Occhi chiari, colmi di rabbia e frustrazione. Occhi che
sembravano minacciare morte.
Andrea sorrise, cercando di dare il meglio di sé:
- Allora sei arrivato anche t… -
Non concluse la frase, un coltello che gli sfiorava
l’orecchio.
- Ti sei bevuto il cervello?!
– ruggì Vincenzo, alzandosi in piedi furente.
- Io?! – soffiò Andrea,
guardandolo ad occhi sgranati – Mi hai lanciato un coltello contro!
–
- Era il funerale di zio Riccardo! –
- Non è successo quello che pensi, Vince… - provò
Andrea, il tono calmo e diplomatico.
- Ti sei fatto spogliare da un minorenne! –
- Non è andata così, davvero –
- Mentre chiudevamo la bara di zio Riccardo al piano di
sotto! – ringhiò Vincenzo, afferrando un altro coltello e prendendo la
mira.
Andrea trasalì, schivando il colpo per un soffio.
- Volete allontanare i coltelli da lui, Santo Cielo?! – esclamò, il tono
fremente.
- Ehi! – fece una voce acuta – Mi ha quasi
preso! –
Si voltarono in contemporanea, la voce di Marco che
continuava a lamentarsi:
- So di essere leggermente fastidioso, ma non credevo al
punto da spingere la gente ad accoltellarmi -
Si carezzò la spalla, avvicinandosi al tavolo: fu per caso
che incontrò lo sguardo di Andrea. E sussultò, basito.
- Andrea? – balbettò, piacevolmente sorpreso –
Anche tu qui? -
Avrebbe voluto dire qualcos’altro, ma le espressioni
dell’altro ragazzo e del preside lo zittirono.
Studiò rapidamente la situazione, notando casualmente
l’assenza di coltelli sulla tavola.
E la possibilità che il coltello non fosse stato lanciato verso
di lui gli attraversò la mente, fulminea:
- Sapete una cosa? – mormorò – Credo sia il
caso che vada a lavarmi di nuovo le mani –
Annuendo con aria convinta si voltò, marciando in
direzione del bagno e sparendovi all’interno.
- Sei saltato addosso a quel ragazzino – ringhiò
Vincenzo, l’indice puntato nel punto in cui poco prima era fermo Marco
– Come ti è venuto in mente? -
- Non è che ci abbia pensato tanto, sai? –
- Ti ascolti quando parli, vero? – abbaiò
l’uomo – Senti le sciocchezze che dici? –
- Qual è il problema? – fremette Andrea, i palmi
delle mani appoggiati sulla tovaglia – Cos’è che ti infastidisce
così tanto, si può sapere?! –
- E’ un mio alunno! – strillò Vincenzo –
Tu e un mio alunno vi siete vicendevolmente calati i pantaloni al funerale di
zio Riccardo! Permetti che mi senta leggerme… -
Una suoneria interruppe l’uomo, troncandogli di
colpo la voce: nel silenzio della sala sembrava rimbombare.
Vincenzo frugò nelle tasche, afferrando il cellulare con
dita tremanti:
Andrea tirò un sospiro di sollievo, asciugandosi le gocce
di sudore freddo dalla fronte.
- Meglio di quanto avessi sperato – bisbigliò
Federica all’orecchio di Salvatore.
Il ragazzo ghignò, coprendosi la bocca con una mano mentre
un nuovo attacco di risa gli scuoteva le spalle.
- Andate all’inferno – ringhiò Andrea,
piegandosi fra i due – Vi è piaciuto il lancio di coltelli? -
- Molto – sorrise Federica, pizzicandogli un fianco
– Peccato che non abbia colto nel segno –
Salvatore poggiò la fronte sul tavolo, le risate che
diventavano singhiozzi.
- Certo, cara – stava mormorando Vincenzo,
accomodandosi nuovamente sulla sedia – Hai ragione, cara -
Federica scosse il capo, lievemente delusa:
- Beatrice ti ha salvato le palle – sussurrò,
guardando di sbieco Andrea.
Aveva appena finito di parlare che Vincenzo chiuse la
chiamata, posando il telefonino.
- Dunque – mormorò, lo
sguardo fisso in un punto indefinito. Con la mano chiamò il cameriere e sorrise:
- Qualcosa di forte, per favore – ordinò,
decidendosi infine a focalizzarsi sul cugino.
- Bea mi ha ricordato che arrabbiarmi non fa bene alla mia
salute – disse, il tono pacato – E detto fra noi, il mio intento è
uccidere te, non me stesso. Quindi… -
Sospirò, massaggiandosi le tempie:
- …vai a recuperare il mio alunno e tornate qui, in
silenzio, alla debita distanza l’uno dall’altro -
- Vincenzo – tentò inutilmente il giovane,
prontamente interrotto.
- Poi – lo fermò l’altro – discuteremo
come si conviene –
Andrea piegò le spalle, dirigendosi controvoglia verso il
bagno.
Aprì la porta e la voce squillante di Marco lo accolse
immediatamente:
- Avete finito di giocare al tiro al bersaglio? –
sorrise, schizzandogli qualche goccia d’acqua in viso.
- Per fortuna ha sempre avuto una pessima mira –
sospirò con fare sollevato Andrea, scivolando lungo il muro per mettersi a
sedere – Sei un suo alunno – aggiunse poi, sbigottito, fissando il
ragazzino.
- Già – annuì Marco – Le coincidenze della
vita –
- Coincidenze? – inarcò un sopracciglio
l’altro, irritato – Io sto iniziando a convincermi che il fato mi
voglia morto al più presto –
- Non credo nel fato –
- No? – borbottò il biondo, chiudendo gli occhi per
qualche istante – E in cosa credi? –
- In niente –
Andrea aprì gli occhi, trovando Marco seduto al suo
fianco.
Piegò il capo di lato, poggiandolo sulla spalla del
ragazzino. E Marco ridacchiò, scompigliandogli i capelli:
- E sentiamo… - mormorò – il preside è in
qualche modo imparentato con te? -
- E’ mio cugino – rispose Andrea, la voce
bassissima.
- Quindi – ragionò Marco – c’era anche
lui al funerale, l’altro giorno? –
- Sì – ribatté l’altro qualche attimo dopo, il
tono inconsolabile.
E la risata di Marco proruppe intrattenibile.
Andrea sollevò la testa, scostandolo malamente:
- Finiscila! – borbottò – Siete tutti uguali,
voialtri! Sempre a ridere delle sventure altrui! -
- Devi ammetterlo – ansimò il ragazzino –
E’ divertente, seppure in maniera perversa –
- Immagino vi sareste divertiti ancor di più se i coltelli
mi avessero sforacchiato a dovere, eh? –
- Certo che sì! – annuì Marco – Non avrebbe
potuto essere altrimenti! –
Andrea si alzò in piedi, scuotendo il capo e guardandosi
attorno con la stessa espressione di un povero animale in gabbia.
Perso, frustrato e, cosa più preoccupante, pronto a tutto.
Marco aveva letto tutto ciò nello sguardo del ragazzo,
eppure sgranò ugualmente gli occhi alle parole dell’altro:
- Andiamo via -
- Come? – chiese d’istinto, alzandosi in piedi
anche lui.
- Andiamo via – ripeté Andrea, una luce folle negli
occhi – Scappiamo, ti prego. Non posso sopportare oltre –
- Dove vorresti andare, sentiamo? – sorrise Marco,
aspettando che il ragazzo rinvenisse.
- Ovunque – sussurrò il biondo, concitato –
Ovunque tranne che qui –
Marco incrociò le braccia, il cervello che lavorava
furiosamente:
- A una condizione – disse, posato.
- Perché deve esserci una condizione? –
- Voglio essere sicuro che tu faccia sul serio –
ghignò, le mani nelle tasche dei jeans.
Andrea arricciò le labbra, ruotando gli occhi.
- Devi toglierti i pantaloni – sussurrò Marco, due
fossette che gli si formavano nelle guance.
- Cosa?! – saltò su il
biondo – No, no. Non ci casco di nuovo, non sono così scemo –
- Non sto giocando – fece il ragazzino, riflettendo
– Se vuoi andare via da qui, devi uscire dal ristorante senza i pantaloni
–
- Senza i pantaloni? –
- Senza i pantaloni –
Andrea fissò gli occhi vispi di Marco e assottigliò lo
sguardo, l’aria indifferente.
Portò le dita al cavallo dei jeans e aprì il bottone,
abbassando la zip.
Fece scendere i pantaloni, piano, fino alle caviglie: li
tolse sfilandoli da sopra le scarpette, piegandoli poi con abili movimenti e
poggiandoli sul braccio.
Marco non era riuscito a neutralizzare interamente la
sorpresa, un luccichio divertito negli occhi.
- Carini i boxer – sussurrò,
la voce roca – Sono… rane? -
Andrea abbassò lo sguardo sul proprio intimo, scrutano i
boxer verdi con espressione maliziosa:
- Sì, rane – rispose – Una ogni tanto fa anche
la linguaccia -
- Ottima scelta, complimenti –
- Concordo – sorrise il biondo – Ora vediamo i
tuoi –
- I miei cosa? –
- I tuoi boxer – disse, avvicinandosi al ragazzino
– Se io esco di qui in mutande, lo fai anche tu –
Marco inarcò un sopracciglio, stringendosi nelle spalle:
- E sia – annuì, aprendo la fibbia della cintura e
dando le spalle ad Andrea.
Abbassò la zip e iniziò
lentamente a calare i jeans. Erano boxer neri, con una scritta bianca sul
didietro:
Se stai cercando il pacco…
Sfilò i pantaloni senza togliersi le scarpe, così come
aveva fatto prima Andrea.
Si voltò lentamente, ripiegando i pantaloni in silenzio e
dando modo all’altro di leggere il resto della frase, scritto davanti:
…basta chiederlo a Marco.
Andrea soffocò una risata, deviando lo sguardo
repentinamente.
- Cosa? – chiese il ragazzino – Non ti
piacciono, forse? -
- Sono… - singhiozzò il biondo - …magnifici
–
- Ti ringrazio – approvò Marco – Me li ha
regalati Dana –
- Dana? La stessa Dana che conosco io? –
- Oh, sì. Ti assicuro che con un po’ di alcol in
corpo ritrova improvvisamente il senso dell’umorismo –
- Okay – sussurrò Andrea, scuotendo lentamente il
capo – Ora possiamo rivestirci? –
- No –
Gli occhi del biondo saettarono verso di lui, colti di
sorpresa:
- Dai, cucciolo, basta scherzare -
- Non stavo scherzando – mormorò Marco, prendendolo
sottobraccio – E non scherzo ora –
Andrea si sentì trascinare, svuotato persino della forza
di puntare i piedi.
Si ancorò alle spalle del ragazzino e gli soffiò qualche
maledizione all’orecchio mentre sentiva gli occhi di tutta la sala
puntarsi su di loro.
Marco ridacchiò, imperturbabile:
- Goditi il momento, Drew -
E successe. Di colpo.
Cominciò ad apprezzare il momento non appena percepì la
meraviglia degli amici.
Osservò la sorpresa sul viso di Federica e il sorriso
sguaiato che nasceva sulle labbra di Salvatore.
- Noi andiamo via, preside – stava dicendo Marco
– La ringrazio, ad ogni modo, per il pranzo -
Vincenzo non riuscì a rispondere, le dita serrate attorno
al cellulare.
Andrea si avvicinò, afferrando velocemente la forchetta
più vicina al cugino e allontanandola preventivamente.
- Ci vediamo domani –
sussurrò ancora il ragazzino, sospingendo il biondo verso l’uscita.
Aprirono la porta, i piedi già oltre la soglia. E Marco
ridacchiò, assestandogli una sonora pacca sulla chiappa.
Andrea si girò, affatto risentito: fissò gli occhi in
quelli verdi dell’altro e, incurante dei clienti del ristorante si piegò
verso Marco.
Poggiò le labbra sul collo del ragazzo e bisbigliò, serio:
- Non giocare con il fuoco – sorrise – Ricorda
che io sono uno di quelli che cerca il pacco -
- Sicuro di lavorare qui? -
Andrea ridacchiò, seduto sulla cattedra, le gambe
penzoloni:
- Ti è così difficile crederlo? -
- Abbastanza, sì – mormorò Marco, girovagando fra i
banchetti colorati – Tu… maestro –
- Dov’è il problema? –
- Tu… maestro d’asilo –
- Continuo a non capire – ridacchiò il biondo,
scendendo con un salto dalla cattedra – Ti da’ fastidio? –
- Certo che no – fece l’altro – E’
solo strano –
- Perché…? – lo incitò Andrea, avvicinandosi
alle spalle del ragazzo e avvolgendole con un braccio.
- Perché i maestri d’asilo sono dolci –
- Io sono dolce – sussurrò quello, lasciandogli un
bacio sul collo.
- Sarà… - rispose Marco, non convinto – A me sembri un cane eccitato –
Andrea se lo rigirò immediatamente fra le braccia,
lasciando che si scontrasse con il suo petto:
- Eri tu il dalmata, non dimenticarlo – bisbigliò,
assottigliando lo sguardo.
- Però non sono io quello che freme di togliersi anche i
boxer –
- Dovrei tagliarti la lingua, lo sai? –
- Forse – annuì Marco – Oppure potresti
mettermi in punizione, dietro la lavagna semmai –
Si voltarono assieme verso l’oggetto incriminato:
scivolarono silenziosi, le spalle del più piccolo che sbattevano contro il
muro.
Andrea sorrise, le mani che salivano sotto la maglia del
ragazzino:
- Non ho il cappello con scritto asino, mi dispiace -
- Fa nulla – ansimò Marco – Cercherò di accontentarmi
–
- E’ stata una buona idea quella dei pantaloni
–
- Dici? –
- Così facciamo prima –
- E poi accusano me di avere una mentalità perversa
–
- In effetti… -
Marco ghignò, invertendo le posizioni:
- E se ti sculacciassi con il registro? Dobbiamo tornare
pari -
- Perché? Hai fretta? –
- Non più di tanta – sussurrò il ragazzino –
Però non mi piace perdere –
- Sei competitivo, lo sapevo –
- E’ un problema? –
Andrea non rispose,
l’espressione improvvisamente attenta. Si scostò di qualche passo,
allontanandosi dalla lavagna e correndo in direzione della cattedra: afferrò i
jeans e si affaccendò per rimetterli nel minor tempo possibile. Marco lo
osservò in silenzio, le braccia incrociate:
- Ho detto qualcosa di sbagliato? – chiese,
sorridendo mentre l’altro cadeva inciampando nei suoi stessi piedi.
Andrea scosse il capo, accennando con il mento in
direzione della porta: non fece in tempo a dire alcunché che si aprì, lasciando
entrare una donna dall’espressione tesa.
- Signora Di Mauro – la salutò Andrea, gentile,
abbottonandosi i jeans senza che lei se ne accorgesse.
- Iacono! – fece la donna, sorpresa – Cosa fai
ancora qui? Credevo fossi andato via da un po’ –
- Infatti – rispose lui – Avevo solo dimenticato
una cosa e… -
- Terresti i bambini per me? – sussurrò concitata la
signora – I genitori non sono ancora arrivati e io non vado in bagno da
ore. Non credo di poter più resistere, ti prego –
- Io… non credo di… -
I balbettii di Andrea non sortirono alcun effetto: la
donna uscì appena dall’aula, spingendovi all’interno una mezza
dozzina di bimbetti e correndo poi via, in direzione dei bagni.
I bimbi si fermarono in semicerchio attorno ad Andrea,
mostrando dei sorrisi con qualche dente mancante.
- Allora… - sfiatò il biondo, le mani sui fianchi
– Cos’è che facciamo, adesso? –
Lanciò un’occhiata veloce a Marco, immobile dietro
la lavagna, e gli si accese negli occhi una luce molto simile a quella che li
aveva animati nel bagno del ristorante.
Marco la riconobbe di sfuggita, un velo di preoccupazione
che lo avvolgeva; fissò la finestra socchiusa e poco lontana, quella che dava
sul cortile: e se avesse fatto un bel salto?
Mosse un passo, sempre più convinto che quella fosse
l’unica via d’uscita, quando le dita di Andrea si strinsero sulla
sua spalla.
Chiuse gli occhi, lasciandosi portare verso il centro
dell’aula.
Sentì le guance che gli andavano a fuoco mentre tutti i
bambini lo fissavano: portò rapidamente le mani a coprire i boxer,
ma Andrea rise, scuotendolo bonariamente.
- Perché è nudo? – chiese una bambinetta, i capelli
rossi quasi quanto le labbra.
- Non è nudo! – fece un bimbo accanto a lei, il
pollice in bocca – Ha le mutande! –
- E’ nudo, maestro, vero? – piagnucolò la bimba,
alzando gli occhioni verso Andrea con fare speranzoso.
- No, tesoro, non è nudo – sorrise lui, fissando poi
Marco con fare pensieroso.
Gli sollevò le braccia, senza dargli il tempo di reagire
in alcun modo, e gli sfilò la maglia in un attimo.
- E’ quasi nudo – spiegò Andrea ai bambini,
sotto lo sguardo incredulo dell’altro – E sapete perché? -
I bambini scossero le testoline, pendendo letteralmente
dalle labbra del maestro.
- Perché adesso facciamo un po’ di Body Painting –
Marco, come i bimbi, sgranò gli occhi. Solo lui, a
differenza dei bambini, cercò anche di intraprendere la fuga.
Andrea lo bloccò prontamente, spingendolo per terra.
- Non ti permettere, Drew!
– sussurrò concitato – Non è divertente -
- Oh, sì che lo è – fece l’altro, facendolo
sdraiare – Non hai idea di quanto –
Il maestro si voltò verso i bambini e sorrise, esaltato:
- Prendete i colori, su -
- Dai, Andrea – bisbigliò
Marco – Smettila! –
- Mi hai dato del cane eccitato – ribatté il
biondo, tenendolo al suolo.
- E te la prendi per così poco? –
- Parla lui che se la prende per un semplice moccioso –
rise Andrea, facendo sistemare i bambini in cerchio, attorno a Marco.
Prese anche lui un pennarello e diede l’esempio,
disegnando una M sulla spalla del ragazzino:
- Potete colorare ovunque tranne che sul viso, va bene?
–
- Sì – risposero in coro i bimbi, aprendo in fretta
e furia i pennarelli.
Marco sospirò, chiudendo gli occhi:
- Questa non la dimenticherò facilmente – bisbigliò,
lasciandoli fare.
- Ne sono convinto – ridacchiò Andrea – Anche
perché molti dei pennarelli temo siano indelebili –
La risposta che il ragazzino voleva dare fu sostituita da
una risata involontaria; Marco sollevò il capo, fulminando il bambino ai suoi
piedi e cercando di riprendere fiato:
- Il solletico – ansimò, agitando il piede –
Mi fai il solletico -
Il bimbo fece il broncio, smettendo di colorare la palma
del piede di Marco.
- Sai che è proprio divertente? – commentò in quel momento
Andrea, percorrendo con la punta del pennarello il lobo del ragazzino.
- Non avevi detto niente colori sulla mia faccia? –
- Sto colorando l’orecchio, infatti – rispose
il biondo – E poi, io ho più potere dei bambini –
- Convinto? –
- Certo – annuì Andrea – Potrei anche
colorarti di nero l’altro occhio –
Marco assottigliò lo sguardo, pronto ad assestargli un
calcio se fosse stato necessario.
- No… - mormorò il biondo – Non è il caso, poi
non sembreresti più Lucky -
Marco sussultò di nuovo mentre una bambina gli colorava la
pancia, disegnando un cerchio arancione attorno all’ombelico.
Andrea sorrise, mordicchiando il tappo del pennarello:
- Che fai domani, ragazzino? -
- Non lo so. Tu che fai? –
- Qualcosa –
Si fissarono per un secondo, silenziosi:
- Qualcosa che non sono ancora sicuro di volerti far
sapere -
- Non ti ho chiesto alcunché io, te ne rendi conto, vero?
–
Andrea sorrise, annuendo impercettibilmente e piegando
gentilmente il capo di Marco di lato: poggiò la punta del pennarello sul collo
del ragazzino e cominciò a scrivere qualcosa.
- Cosa…? -
- Scoprilo da solo –
Marco entrò in camera strusciando i piedi, esausto.
- Finalmente -
Si voltò appena, riconoscendo la voce di Rebecca: era
sdraiata sul suo letto, le braccia incrociate dietro la testa.
- Ti avevo dato per disperso - sorrise la ragazza,
fissandolo curiosa.
Marco si strinse nelle spalle, togliendosi le scarpe e
lanciandole sotto la scrivania.
- Abbiamo finito di nuovo gli assorbenti – fece la
sorella – Dopo andresti a… -
Non concluse la domanda che il ragazzino annuì,
togliendosi la maglia.
Rebecca inarcò un sopracciglio, squadrando senza capire i
ghirigori e i disegnini colorati che percorrevano la schiena del fratello.
Un albero, una casetta, un cuore: sparsi ovunque,
arrivavano fino alle spalle.
Marco si sbottonò i jeans, girandosi verso Rebecca e
mostrandole il petto ugualmente imbrattato:
- Mi sono perso qualcosa, oggi? -
La sorella scosse il capo, arricciando le labbra:
- Non chiedo niente – fece infine, stringendosi
nelle spalle.
- Ottima scelta – sorrise Marco.
Si guardarono per un po’, in silenzio, godendo
semplicemente della reciproca compagnia.
- Mi fai un piacere? – chiese Marco, avvicinandosi e
sedendosi sul letto.
- Certo – annuì Rebecca, sorridendo a sua volta.
- Sul collo – mormorò il ragazzino – Mi dici
cosa ho sul collo? –
La sorella si avvicinò ancora, sollevandogli il mento e
inarcando un sopracciglio:
- Un numero di telefono -
Marco non rispose subito, preso in contropiede:
- Un numero? - borbottò, aggrottando le sopracciglia.
- Già – ribatté lei, fissandolo senza capire –
E’ importante? –
- Non lo so – sussurrò Marco, alzandosi in piedi e
facendo rimbalzare il cellulare sul palmo della mano.
- Qualche nuovo amico? – chiese Rebecca senza
ottenere risposta.
Il ragazzino percorse la stanza avanti e indietro, il capo
basso e gli occhi puntati sul tappeto.
La risposta che diede poi, si riferiva alla penultima
domanda:
- Sì – mormorò – Sì, è importante -
*
Nuovo capitolo J
Com’era? Abbastanza decente
o altamente insopportabile?
Cominciamo adesso a conoscerli un
po’ di più, tutti quanti, eppure (un po’ a malincuore) nella mia
testa le cose iniziano già a complicarsi.
E’ in occasioni come queste
che mi chiedo se riuscirò mai a scrivere una storia lineare, senza casini di
alcun genere.
E probabilmente, la risposta è
negativa.
Ad ogni modo, grazie a tutti voi
che seguite. E un grazie speciale a chi mi dice cosa ne pensa, regalandomi
sempre più che un sorriso.
Marco sbuffò, lasciandosi scivolare il cappuccio sulle
spalle e lanciando una rapida occhiata al bidello:
- Colpa di Angela - disse, laconico, sedendosi con fare svogliato
accanto all’uomo.
- Angela? – si sorprese quello – Come può mai essere colpa di Angela? –
- Dovevamo pedinare un tipo –
Giacomo sorrise, grattandosi una tempia con fare
pensieroso:
- Non è da Angela – mormorò, incerto.
- Infatti – approvò Marco, reclinando il capo contro
il muro – Il tipo aveva a che fare con Valeria –
Il bidello sollevò le mani, scuotendo lentamente la testa:
- Non riesco più a starvi dietro, non c’è niente da
fare – sospirò – Siete troppo… -
- Senti… - lo interruppe di colpo Marco - …
hai avuto modo di parlare con il preside? –
Giacomo si zittì, sorpreso dall’espressione alquanto
tesa del ragazzino:
- No, non è ancora arrivato. Perché? -
- Niente –
- Che hai combinato? –
- Niente –
- Uh. –
Marco assottigliò lo sguardo, arricciando le labbra in una
smorfia:
- Uh? – borbottò – Uh, cosa? -
- Dev’essere grave –
- Non è grave –
- Per far preoccupare te deve esserlo per forza –
- Ho detto che non è grave – ripeté Marco, calcando
sulle ultime parole.
- Hai ucciso qualcuno, vero? –
E non trovò più niente da dire.
- Sapevo che era solo questione di tempo – continuò
Giacomo – Chi è? Quel Nicola? Lo hai ucciso, vero? –
- Ti stai divertendo? –
- Con te mi diverto sempre,
piccolo Torresani –
- Non potrebbe essere altrimenti – sospirò Marco,
alzandosi a fatica in piedi – Sarà meglio che vada in classe. Almeno è un
modo per non incrociare il preside, no? –
- Certo – annuì Giacomo, ridacchiando
silenziosamente – Nel caso in cui ti venisse a chiamare, poi, puoi sempre
fingere un attacco apoplettico, no? –
- Naturalmente –
- Cerca solo di non strozzarti con la sciarpa, mi
raccomando –
- Starò attento – fece il ragazzino, incamminandosi
per il corridoio. Era quasi arrivato alla classe quando i piedi gli si
fermarono come dotati di libero arbitrio.
Li fissò, contrariato, mordicchiandosi il labbro.
E alla fine decise di ubbidire al loro volere: superò la
porta della classe, avviandosi invece in direzione della presidenza. Era andato
perso anche l’ultimo neurone, sì, ne era consapevole.
Era solo una curiosità, ecco.
Voleva assicurarsi che il preside realmente non fosse
ancora nell’edificio. Voleva vedere la luce nel suo
ufficio spenta, ecco.
Essere certo che fosse ancora a casa, o per strada, o in
caffetteria. Ovunque.
Mosse gli ultimi passi lentamente, furtivamente,
adocchiando con fare timoroso oltre il vetro della fatidica porta. E vide il
vuoto. Grazie al cielo.
Sospirò, rasserenato. Quasi sorrise. Raddrizzò le spalle,
un languido tepore che gli riscaldava il petto.
Stava per rimettersi a camminare quando però la sentì:
quella voce, l’unica che ormai non si aspettava più.
- Che alunno modello! – fece il preside, apparendo
dal fondo del corridoio – Mi leggi nel pensiero, Marco! -
- Io… dovrei andare in classe, signore –
balbettò il ragazzo – Sono… temo di essere in ritardo, sa
com’è –
- Oh, ma non fa nulla – rispose l’uomo, il
tono bonario – Permettimi di scambiare due chiacchiere con te, ti prego.
Non ci metterò troppo –
- Mi sta spaventando, lo sa? –
- Era quello l’intento, piccolo demonio –
ghignò il preside, afferrandolo per la collottola.
- Ora tutti insieme, su! -
Federica sorrise, spalancando senza pensarci due volte la
porta della classe che le interessava.
Andrea sussultò, un cartoncino che gli scivolava dalle
mani:
- Fede! – singhiozzò – Che ci fai qui? -
- Mi sono presa una pausa, non vedi? I bambini stanno
facendo un lavoro con Laura. Puoi parlare? –
- Ehm… in realtà no – sussurrò Andrea –
Non vedi? Stiamo ripetendo l’alfabeto –
Non fece in tempo a finire la domanda che una serie di
urletti gioiosi riempì l’aria, mostrando un consenso generale ed
entusiasta.
Un sorriso vittorioso si fece strada sul volto della
maestra:
- Bravissimi. Allora fatemi vedere gli arcobaleni più
belli che riuscite a fare, su! -
Andrea scosse il capo, sconfitto:
- Non mi va di parlare, Fede!
– biascicò – Perché non mi lasci in pace, eh? -
- Lasciarti in pace? – ribatté lei, inarcando
placidamente un sopracciglio – Non credo proprio, caro –
- Ti prego – provò ancora il giovane –
Rimandiamo la chiacchierata –
- Non rimandiamo un bel niente, okay? Voglio sapere tutto!
–
Federica si issò sulla cattedra e vi si sedette con
grazia, le gambe incrociate:
- Sono pronta – disse, un sorriso enorme ad
illuminarle il viso – Partiamo dal ristorante –
- Da quando tu e Sasà assistevate indifferenti al mio
tentato omicidio, intendi dire? –
- No – ghignò lei – Da quando tu e quel
ragazzino ve ne siete andate in mutande –
Andrea sospirò, crollando con fare arrendevole sulla
sedia, le braccia allargate e il capo reclinato all’indietro:
- Si è notato tanto? -
- Ho fatto anche delle foto, non temere – ridacchiò
lei – E carine le ranocchie, comunque –
Una bimbetta si avvicinò in quel momento al tavolo,
chiedendo un pastello rosso: Andrea si affrettò a rovistare nei cassetti,
contento del momento di pace che gli aveva appena offerto.
- Ecco a te, tesoro -
Sollevò di scatto la testa, osservando Federica che
porgeva il colore alla bambina per poi tornare a fissarlo con
un’espressione più avida e curiosa della precedente:
- Dopo che siete usciti, eh? – lo assalì, abbassando
la voce – Dove siete andati a rintanarvi? -
- Qui –
Lei assottigliò lo sguardo, sistemandosi i capelli dietro
le orecchie e piegandosi leggermente in avanti:
- Come? -
- L’ho portato qui –
Andrea aspettò che dicesse qualcosa, ma lei rimase in silenzio,
facendolo sentire se possibile ancora più a disagio. Si mosse appena, cambiando
posizione. Infine si decise a continuare:
- Volevo fargli vedere dove lavoro, ecco tutto. Così
l’ho portato qui. Meglio della prima volta almeno: nessun assorbente a vista
né superpoteri momentanei né… -
- Frena –
Andrea si zittì, le labbra ancora
dischiuse.
- Quand’è che c’è stata una prima volta? -
- Dopo… dopo l’episodio in bagno – fece
lui, carezzandosi con una mano dietro la testa.
- C’è stato un dopo? –
- Più o meno –
Gli occhi di Federica erano ormai talmente brillanti da
sembrare liquidi.
- L’ho accompagnato al supermercato: doveva comprare
degli assorbenti -
- Tu hai il terrore degli assorbenti –
- Io non ho nessun terrore – scandì Andrea,
fulminandola con lo sguardo – E dopo il supermercato l’ho
accompagnato a casa. Ho anche conosciuto la madre: mi ha scambiato per un altro
suo amico. E devo dire che questo altro mi ha relativamente inquietato –
- Maestro? –
- Sì? – saltò su lui, prestando immediatamente
attenzione alla bambina.
Quella sorrideva, mostrando fiera il disegno
dell’arcobaleno. Saltellò sul posto, aspettando impaziente che il maestro
dicesse qualcosa. Andrea sorrise, carezzandole i capelli:
Lei squittì, lasciando il disegno sulla cattedra e
tornando veloce dai compagni per cominciarne uno nuovo.
- Mio Dio, Andrea – disse Federica, il tono piatto e
incolore.
- Cosa? –
- Che diamine ti ha fatto quel ragazzino, si può sapere?
–
Lui non capì, stringendosi nelle spalle e arretrando
impercettibilmente, quasi non volesse sentire.
- E’ carino, va bene, te lo concedo. E a quanto dice
Sasà sembra davvero te qualche anno fa. Ma… -
- Cosa? –
- Durante un funerale, Andrea –
- Si trattava dello zio Riccardo, dai… -
- Gli assorbenti, poi, e lo hai accompagnato a casa!
–
- Non ci vedo niente di così sconvolgente –
Federica scosse il capo, guardandolo con fare materno e
protettivo:
- Lo hai anche portato qui – mormorò, il gesto di
prendergli la mano fra le sue.
Andrea scostò la mano, aggrottando le sopracciglia:
- Non vedo il problema -
- Non porti mai nessuno qui –
- Non è vero –
- Non dici nemmeno di essere un maestro d’asilo
–
- Federica… -
- Guarda, a questo punto manca solo che tu gli abbia dato
il tuo numero e posso stappare lo champagne. Sai perché? Perché significherebbe
che sei cotto. Abbrustolito. E… -
Lei si zittì, gli occhi che increduli studiavano
l’espressione del ragazzo. Possibile?
- Tu… - scosse il capo, senza parole – Lo hai
fatto davvero? -
- Maestro? –
Si voltarono entrambi, quasi in stato catatonico,
osservando il disegno che il bambino stava mostrando.
- Carino – disse Andrea, la voce roca – Con un
po’ di colore in più forse sarebbe ancora più bello, sai? -
Il bimbo scosse la testa, deciso,
e si allontanò senza aggiungere altro.
Federica lo fissò, prendendo in mano il disegno che il
piccolo aveva lasciato sulla cattedra:
- E’ un arcobaleno bianco e nero – disse,
inarcando un sopracciglio.
- Lo so – fece Andrea – Sta avendo dei
problemi in famiglia –
- C’è una persona impiccata – scandì ancora
lei – all’arcobaleno in bianco e nero –
- Lo so – mugugnò lui, coprendosi il volto con le
mani – Ci sto lavorando –
- Siediti, Marco -
Il ragazzino annuì, aggiustandosi la sciarpa: prese posto sulla sedia imbottita e scivolò un po’ verso il
basso.
- Di cosa voleva parlarmi? – chiese,
l’espressione angelica.
Il preside aprì la finestra, lasciando che la fresca aria
di Gennaio pervadesse l’ambiente:
- Giochiamo a carte scoperte, ragazzino, non mi va di
perdere tempo -
- Come preferisce – acconsentì Marco, stringendosi
nelle spalle.
- Cosa c’è fra te e mio cugino? –
- Niente –
Vincenzo chiuse gli occhi per qualche istante, sedendosi a
sua volta:
- Siete usciti dal ristorante in mutande – gli
ricordò, come se ce ne fosse bisogno.
- Lo so – annuì l’altro – Ma le assicuro
che non c’è niente fra di noi. E non è successo
niente –
- Mi è difficile crederlo –
- Dovrebbe farlo –
L’uomo si passò una mano sul viso, storcendo appena
le labbra:
- Non c’è niente? -
- Assolutamente niente – confermò l’altro,
l’espressione sincera – Non deve preoccuparsi –
- Oh – gemette Vincenzo, scuotendo il capo –
Io mi preoccupo, invece –
- Signore… -
- Non posso fare altrimenti, capisci? Mi preoccupo perché
conosco te e perché conosco lui. Soprattutto perché conosco lui. E anche solo il pensarvi vicini, che dico, a qualche chilometro di
distanza, mi fa venire i brividi –
Marco inarcò un sopracciglio, vagamente infastidito da ciò
che aveva sentito.
- Che tu sei un demonio lo avevamo già assodato, no?
– fece il preside, sporgendosi verso di lui.
- Sì –
- Ti ricordi quando ho detto che mi ricordavi qualcuno?
–
- No –
- Mi ricordavi Andrea –
In quel momento sentirono un bussare insistente alla
porta: Vincenzo sospirò, alzandosi controvoglia. Sulla soglia apparve Giacomo,
l’espressione attenta:
- Va tutto bene, signore? – chiese, il tono basso,
mentre gli occhi studiavano rapidamente la situazione.
- Certo – rispose calmo il preside – C’è
qualche problema? –
- No, no – farfugliò il bidello, scambiando
un’occhiata con Marco – Credo di no –
Vincenzo sorrise, poggiandogli una mano sulla spalla:
- Altri dieci minuti e lo lascio libero – gli
assicurò – Sano e salvo -
Giacomo nicchiò col capo, arretrando lentamente e
chiudendo la porta.
- Sai qual è il problema, Marco? – domandò di punto
in bianco il preside, riprendendo la conversazione.
- No –
- Vedi che non mi ascolti? Il problema è che mi ricordi
Andrea! –
Marco reclinò la testa all’indietro, un principio di
vertigine:
- Signore… - tentò, subito interrotto.
- Andrea è peggio di te, ragazzino –
A quest’ultima affermazione Marco si risollevò,
guardandolo negli occhi:
- Qui mi permetto di dissentire, signore –
- E sbagli! – esclamò il preside – Perché io
ci sono cresciuto con quella testa bacata e ti posso assicurare che con il
tempo potrà solo peggiorare! Se qualche anno fa era esattamente come te non
significa che ora non lo sia più, capisci? –
- Siamo sicuri di star parlando della stessa persona?
–
- E’ un idiota patentato, Marco. Porta solo guai,
devi credermi –
- Il maestro d’asilo? –
Vincenzo sospirò stancamente, sedendosi sul bordo della scrivania
e cominciando a giocare con una penna:
- Ascoltami – mormorò infine – Non cercare di
tenergli testa, rischieresti di uscirne ferito -
Marco deviò lo sguardo, confuso.
Faticava a far coincidere l’Andrea che aveva
conosciuto con il ritratto che il preside gli aveva disegnato.
- Eri in ritardo? - chiese improvvisamente Vincenzo.
- Sì –
- Ti firmo una giustificazione? –
- Sì, grazie –
Marco lo osservò prendere un foglietto giallo da un
gruppetto sparso e firmare un permesso. Lo afferrò, pronto, e si alzò in piedi,
fissando la porta con sguardo assente. Fu con disinvoltura, poi, che si girò
nuovamente:
- Le va una sigaretta? -
- Sì –
- Carina la sciarpa! -
Marco si girò, riprendendo un vago contatto con la realtà:
a pochi passi da lui c’era un altro ragazzo, i capelli rossi e ricci e un
sorriso sardonico in volto; lo fissava, le braccia incrociate, appoggiato con
indolenza al muro:
- Sei leggermente in ritardo, sai? – lo pungolò,
sarcastico – Qualcosa di nuovo da raccontare? -
- Cos’è, non trovavi la spazzola ‘stamattina?
– rispose a tono Marco, un ghigno sulle labbra.
- Oh, ti prego – si schermì l’altro – So
di essere sempre bellissimo, ma grazie lo stesso –
Marco ridacchiò, avvicinandosi di un passo e stringendogli
la mano in un gesto cameratesco:
- Ero in presidenza – spiegò laconico.
- Guai in vista? – chiese il rosso, un lampo di
preoccupazione che gli accendeva lo sguardo.
- No. O almeno non credo – mormorò lui – Non
lo so, sinceramente –
- Così mi spaventi, lo sai? –
- Spaventare te? – sorrise Marco, accennando con il
capo in direzione dei bagni – Con il fratello che ti ritrovi mi sembra
difficile –
Amedeo sbuffò, seguendolo in silenzio e issandosi
abilmente sul ripiano dei lavandini mentre lui chiudeva la porta e si accendeva
una sigaretta:
- Ah, sì… - mugugnò – Come dimenticare la tua
ultima cazzata? -
- E’ stato un gran gesto – ribatté Marco,
aspirando soddisfatto.
- Farsi dare un pugno da Nicola? –
- No – ghignò – Palpeggiare tuo fratello
–
- Cretino – borbottò Amedeo, serio – Non
potevi farne a meno? –
Marco scosse il capo, passandogli la sigaretta:
- Siamo sinceri, poi – fece – L’occhio
nero mi sta bene da morire, non è vero? -
La risatina dell’altro fu una risposta sufficiente,
gli occhi che ruotavano verso il soffitto:
- Nicola non è gay, lo sai? -
- Questo lo dici tu –
- No – sussurrò Amedeo – Lo dice lui –
- Appunto! – si entusiasmò Marco – Motivo in
più per affermare che è gay! –
- Che mentalità contorta… - borbottò il rosso,
affranto.
- Non è colpa mia se tuo fratello mi attizza, Deo –
- Lo sai che si allena tutti i giorni, vero? – lo
avvisò quello – Alla prossima cazzata ti fa fuori, Marco –
- Mi fai un piacere? – cambiò repentinamente
discorso l’altro – Anzi due –
- Dipende – sorrise Amedeo, restituendogli ciò che
restava della sigaretta – Sentiamo –
- Mi copri per altri dieci minuti –
- Questo si può fare: c’è Fabbri in classe, non si
accorge di niente –
Marco annuì, aspirando un’ultima volta:
- E poi… - cominciò, spegnendo la sigaretta nel
lavandino - … devi leggermi un numero -
- Come, scusa? –
Si avvicinò ad Amedeo, togliendosi lentamente la sciarpa e
piegando poi il collo cosicché l’amico potesse più facilmente vederlo:
- Ti ascolto -
- Ne hai parlato con Sasà? -
Andrea si massaggiò le tempie, sconfortato:
- Di cosa? Di cos’è che avrei dovuto parlare con
Sasà? -
- Di Marco! – rispose Federica con ovvietà,
spalancando ancor di più gli occhioni già enormi, da cerbiatto.
- No – sospirò l’amico – Sai com’è
non… -
La frase restò interrotta a metà, la mano ancora ferma nel
mezzo del gesto che aveva intrapreso, quando una vibrazione lo fece sussultare,
sorpreso. Si tastò i pantaloni, quasi dovesse assicurarsi che fosse davvero il
suo cellulare quello che stava squillando. Era il suo.
- Che fai? – lo interrogò Federica, il solito
sopracciglio inarcato – Non rispondi? -
- Sono in classe – rispose lapidario lui –
Certo che non rispondo –
Lei roteò gli occhi, sbuffando impercettibilmente:
- Siamo in due e loro stanno disegnando – mormorò
– Sono certa che puoi concederti il lusso di rispondere -
Andrea aggrottò le sopracciglia, estraendo ancora incerto
il telefonino.
- Chi è? – si informò curiosa Federica –
E’ Sasà? Se è lui passamelo, devo aggiornarlo. -
- Non è Sasà… - borbottò lui – Non conosco il
numero –
Prima che lei potesse dire qualsiasi altra cosa, però,
rispose con lo sguardo fisso sulle ginocchia:
- Pronto? -
- Disturbo per caso? –
Andrea deglutì, cercando di non lasciar trapelare
minimamente la sorpresa:
- Sono in classe – mormorò in risposta, scuotendo
lievemente il capo.
- Vuoi che richiami più tardi? –
- In realtà non credevo nemmeno avresti chiamato una prima
volta – borbottò ancora, il tono che non riusciva a nascondere un
principio di gioia. Possibile che lui gli facesse quest’effetto?
Un dito cominciò a pungolargli il fianco, costringendolo a
sollevare lo sguardo e ad incontrare quello eccitato di Federica: lei gesticolò
furiosamente con le mani, cercando di ottenere una qualche spiegazione.
- Sai com’è… - borbottò Marco - … mi
avevi tatuato il tuo numero sul collo -
- Oh. Quindi c’è ancora? –
- Era un pennarello indelebile, Drew –
- Mi dispiace –
- Non è vero – ridacchiò il ragazzino – Non ti
dispiace per niente –
- Giusto un pochino, dai – concesse
Andrea, bloccando le mani di Federica con un solo implacabile gesto.
- Ho dovuto mettere la sciarpa oggi –
- Di che colore? –
- Io odio le sciarpe –
- Non mi hai detto di che colore –
- Rossa. Resta però il fatto che io odio le sciarpe –
Federica non riuscì più a restare ferma, arpionandogli le
spalle e sillabando con le labbra:
E’ lui? Vero che è lui?!
Andrea annuì di sfuggita e a lei scappò uno squittio
acuto, entusiasta, mentre si copriva di scatto la bocca con le mani. Le luccicavano
gli occhi, incurante dell’espressione
biasimevole che l’amico le aveva rivolto.
- Cos’è stato? – chiese in quel momento Marco,
il tono sorpreso.
- Federica – sospirò Andrea – Quando senti uno
squittio è sempre Federica –
- Capisco. E a cos’era dovuto questa volta? –
- A te. –
La risposta fu veloce, coincisa. E Marco rimase in
silenzio.
Qualcosa lo aveva colpito, costringendolo ad una
metaforica ritirata. Intuì di starsi spingendo troppo oltre, di star sbagliando
qualcosa: perché aveva chiamato, alla fin fine?
- Ci sei ancora? – domandò Andrea, preoccupato
dall’inaspettata assenza di replica.
- Sì – sfiatò il ragazzino – Tu, però, non eri
in classe? –
- Sì –
- Allora è meglio se terminiamo qui, non credi? –
Andrea restò interdetto, il vago sentore che qualcosa si
fosse incrinato.
- Perché hai chiamato, Marco?
– domandò, cercando di capire cosa fosse andato storto.
- Niente, davvero. Torna a concentrarti sui bambini, dai
–
Un attimo prima che il ragazzino chiudesse la chiamata, la
voce del biondo tornò a farsi sentire:
- Oggi è sabato – disse, sperando che l’altro stesse ancora ascoltando.
- Ne sono consapevole, sì – sospirò Marco, sorpreso
di non aver ancora messo giù il telefono.
- Cosa fai di bello in questo freddo sabato sera? –
La risposta tardò ad arrivare. Al punto tale che Andrea
temette che avesse davvero chiuso la chiamata.
- Tu cosa fai? – chiese di punto in bianco Marco,
prendendolo in contropiede.
Andrea sorrise, chiudendo gli occhi mentre un senso di
vittoria cominciava a invaderlo:
- Porto fuori un cucciolo -
§
* risorge dalle tenebre *
Non sono morta, avete visto? Ancora viva, vegeta… sopravvissuta
all’esame di stato! ^-^
A scanso di equivoci: mi sono data un bel po’ da fare con lo
scrivere u.u
Ho qualcosa come tre e più capitoli pronti per ogni storia ancora in
sospeso, quindi: non disperate!
Detto ciò, non so quanti di voi ancora si ricordano di me .___.
Per quelli che straordinariamente ancora lo fanno, alle recensioni
risponderò presto! Mano sul cuore <3
Marco si chiuse lentamente la porta di casa alle spalle,
gli occhi che istintivamente salivano verso il piano di sopra. Urla e strepiti
si accavallavano, creando un brusio continuo che animava l’intero
ambiente.
Come sempre il sabato sera.
- Alla buon’ora – lo salutò la madre dalla
cucina, sollevano il mestolo e agitandolo in aria.
Marco sorrise, andandole incontro con passo lieve:
- Novità? – chiese, lasciandole un bacio sulla
guancia e sedendosi al tavolo.
- Niente di importante – rispose lei, continuando ad
affaccendarsi nei pressi dei fornelli.
- Cosa fai di bello stasera? –
La donna sorrise sorniona, girandosi verso il figlio, le
mani sui fianchi:
- Sei tu a chiederlo a me? -
- Certo! – annuì lui senza distogliere lo sguardo.
- Maria e Carmela vengono a cenare qui, poi guarderemo un
film alla televisione –
- Spettegolando come solo voi sapete fare, immagino
–
- Naturalmente – ridacchiò la madre, colpendolo
appena con il mestolo sulla testa – E tu? –
- Esco con un amico –
- E portate Silvia con voi –
Marco sussultò, sollevando di scatto lo sguardo
spaventato:
- Come? – balbettò, scuotendo lievemente il capo
– Silvia? -
- I patti erano questi, giovanotto – lo riprese la
madre – Siete liberissimi di fare tutto quello che volete durante la
settimana, ma il sabato sera vi occupate di Silvia –
- A turno però! – sbottò il ragazzo, accigliato
– Sono stato con lei già sabato scorso! –
- E a chi tocca questa settimana? –
- Alle gemelle! – fece lui, accorgendosi della
stonatura nel momento stesso in cui lo diceva.
Porca…
- Cos’è successo? – domandò subito, abbassando
la voce.
- Sembra che qualcuno abbia ferito Valeria –
sussurrò la madre, accennando furtivamente con il mento al piano di sopra.
Marco sollevò il capo, accorgendosi solo in quel momento di come il brusio
soffuso non fosse paragonabile a quello degli altri sabato.
Qualcosa non andava.
- Ahi. – borbottò il ragazzo, carezzandosi il mento
– Dio protegga quel povero qualcuno –
- Marco – lo rimbrottò lei, un sorrisetto che le
incurvava le labbra – Non dire così –
- Vuoi scherzare, mamma? –
fece lui – Quel disgraziato ha le ore contate –
- Tua sorella sta male –
- Adesso, forse. Per qualche ora ancora, te lo posso
concedere… ma è di Valeria che stiamo parlando. Entro domani avrà già
elaborato il suo piano di vendetta. E sarà atroce. –
Una porta sbatté al piano di sopra, accompagnata subito
dopo da un tonfo sordo.
- Lo so, lo so – annuì la madre – In questo
momento, però, è triste. Non dimenticare che è pur sempre una ragazza ferita,
va bene? Non essere inopportuno. -
Marco roteò gli occhi, agitando nervoso il piede mentre la
preoccupazione svaniva lentamente.
- Cosa faranno, quindi, le gemelle? – chiese infine,
cercando di focalizzare la situazione.
- Angela la porta al cinema, sperando di distrarla un
po’ –
- E non possono portare anche Silvia? –
- Angela ha lasciato che fosse Valeria a scegliere il film
–
- Oh. –
Marco gemette, poggiando la testa sul tavolo. La madre
ridacchiò, carezzandogli velocemente la schiena:
- Non fare così, dai. Non vi darà fastidio -
- Lo chiamo e annullo l’uscita – mugugnò il
ragazzo, facendo già per prendere il cellulare.
A quel gesto la madre si insospettì, bloccandogli il
braccio:
- Chi è quest’amico con cui devi uscire? –
- Uno nuovo – rispose laconico lui.
- Non l’ho mai visto? –
- Solo di sfuggita… - borbottò Marco - …
l’altro giorno, quando ho portato gli assorbenti –
- Ti piace? –
- Mamma! – scattò lui, arretrando di botto –
Che domande… perché… ?! –
- Perché tu non annulli le uscite – rispose lei
pacata, uno strano sorriso in volto.
- E che dovremmo fare con una bambina? –
- Perché, tu cosa avevi in mente di fare senza la bambina?
–
Marco sospirò, sconfitto dallo sguardo indagatore che la
donna gli stava lanciando:
- Va bene, va bene -
Si alzò, avviandosi verso le
scale: lanciò un’ultima occhiata alla madre, sorridendo di sbieco:
- Certo che diventi implacabile quando vuoi avere la casa
libera, eh! – fece, scattando poi su per gli scalini. Giusto in tempo per
evitare il mestolo che cadde proprio lì dove fino a un attimo prima c’era
la sua testa.
- Ti hanno tolto di nuovo la luce?!
-
Andrea si strinse nelle spalle, chiudendo con un leggero
sbuffo la porta di casa.
- Perché diavolo non paghi le bollette? –
s’inalberò Salvatore, aprendo a colpo sicuro il mobiletto di fianco al
frigorifero e prendendo a caso una manciata di candele bianche.
- Forse perché non sono ricoperto di soldi come te –
sospirò l’altro, porgendogli qualche piattino.
- E perché allora non lasci che ti presti qualcosa?
– fece l’amico, accendendo la prima candela e facendo colare un
po’ di cera nel primo piattino. Continuò così, accendendole una dopo
l’altra, mentre aspettava una risposta che sapeva perfettamente avrebbe
tardato ad arrivare.
- Non voglio avere debiti, lo sai – mugugnò dopo un
bel po’ Andrea, afferrando un piatto con un paio di candele e avviandosi
lungo il corridoio, verso la camera da letto.
- Ci conosciamo dalle elementari, Pinolo – si
lamentò Salvatore, seguendolo con disappunto – Perché ti fai ancora
problemi del genere, eh? –
- Senti… - gli arrivò la voce dell’amico -
… qualcosa lo dovrei racimolare stasera, no? Se poi dovessi avere ancora
dei problemi ti faccio sapere, okay? –
Salvatore annuì, conscio di non avere speranze di poter
vincere una discussione cominciata anni prima e tuttavia mai conclusa. Crollò a
sedere sul letto, le gambe penzoloni e le braccia incrociate dietro la testa.
Osservò per un po’ l’amico in silenzio: piegato
sullo specchio, concentrato…
- Che fai? – gli chiese, facendolo sobbalzare.
- Tolgo le lenti a contatto – rispose lui,
fulminandolo attraverso il vetro – Devo far riposare un po’ gli
occhi –
Un cenno affermativo dell’altro gli fece capire che
aveva perfettamente afferrato il concetto.
- Come va con Silvana? – ruppe dopo poco il silenzio
Andrea, sinceramente interessato.
- Non lo so – fece l’altro, un ghigno che gli
inclinava le labbra – Qual era Silvana? –
Andrea scosse il capo, avvicinandosi al letto e
sdraiandosi di fianco all’amico:
- Non scherzare, Sasà – lo rimbrottò – Devi
smetterla di cambiare una ragazza a settimana -
- E perché mai, sentiamo? –
- Non piace neanche a te, lo so benissimo. Fingi solo per
non ammettere che qualcosa non va –
Salvatore non ribatté subito, il ghigno che sbiadiva
lentamente:
- Non c’è niente che non va – sibilò, il tono
che voleva essere duro e che invece tradì solamente incertezza.
- Ti manca? –
La domanda restò ad aleggiare sopra di loro, invisibile,
pesante come un macigno e al tempo stesso gradevolmente liberatoria. Andrea
mosse appena il braccio: quel tanto che era sufficiente affinché le sue dita
sfiorassero il fianco dell’amico in un tacito segno di supporto.
- Sempre – rispose alla fine Salvatore, la voce roca.
Andrea deglutì, le labbra che si piegavano in una leggera
smorfia di dolore:
- Sempre di più o sempre di meno? – domandò,
trovando difficile pronunciare anche quelle poche parole.
La risatina dell’altro stemprò appena la tensione,
senza tuttavia togliere importanza e veridicità a quella che fu la sentita
risposta:
- Sempre un po’ di meno -
Andrea si issò a sedere a fatica, puntellandosi sui gomiti
e lanciando un’occhiata di sbieco all’amico:
- Che ore sono? -
- Le otto e un quarto – rispose Salvatore, dopo aver
guardato di sfuggita l’orologio. Orologio, meditò Andrea per un momento,
con cui avrebbe potuto pagare le bollette di un anno intero.
- Mi cambio, allora – borbottò, avvicinandosi
all’armadio.
- Ma è presto! – fece l’altro, scattando a sedere
subito dopo, un sorriso sgargiante in volto – Aspetta… dove vai di
bello, sentiamo? Non avrai un appuntamento? –
Andrea scosse il capo, scegliendo un paio di pantaloni
neri e un’anonima maglietta verde a maniche lunghe.
- Non sono affari tuoi – disse, riflettendo se
prendere o no anche una felpa con cappuccio nera.
- Certo che sono affari miei! – sbottò
l’amico, alzandosi e raggiungendolo – Voglio sapere, dai! E
dimmelo! E dai! Sto aspettando! –
Andrea sospirò, prendendo alla fine anche la felpa e
infilandola nello zainetto:
- Passo a prendere qualcuno e poi vi raggiungo al solito
posto, non temere – mormorò, cominciando a cambiarsi senza degnarlo più
di uno sguardo.
- Oh – sogghignò l’altro – Io non temo
nulla. Solo che l’appuntamento è alle undici e mezza… -
Il ghigno di Salvatore si accentuò, mentre con mano rapida
si appropriava del cellulare dell’amico:
- … cos’è che hai intenzione di fare con
questo qualcuno fino alle undici, eh? -
Andrea non perdeva di vista uno solo dei suoi movimenti,
le labbra corrucciate in un broncio risentito:
- Perché non posso avere più un po’ di privacy?
– si lamentò – Fra te e Federica non
riesco più a… -
- Non ti dimenticare i preservativi, almeno – lo
interruppe Salvatore, scuotendo ilare il capo.
Andrea sussultò, fissandolo irritato:
- Non mi serviranno – sibilò, teso.
- Certo – lo schernì l’altro – Ora
ripetilo, ti prego, con un pochino di convinzione in più se ci riesci –
- Sasà, smettila! Davvero, non… -
- Ascolta – lo bloccò ancora l’amico –
Per me è un bene che tu esca con qualcuno. Ne sono
felicissimo, sul serio. Insomma… quant’è che non lo fai, eh? Sai
che rischia di caderti? –
- Sasà! –
- Però non sono sicuro che portarlo con te anche al nostro
appuntamento sia una buona idea –
Andrea restò in silenzio, soffermandosi seppur controvoglia a riflettere sulle ultime parole di Salvatore.
Forse davvero non era una buona idea… e se stesse sbagliando? Correva il
rischio di spaventarlo.
Fu su l’ultimo pensiero che si bloccò: spaventarlo?
Spaventare la serpe?! Sorrise di sghembo, sollevato.
- Credo che andrà tutto bene, Sasà – concluse,
abbastanza sicuro.
Salvatore nicchiò con il capo, accontentandosi del
giudizio dell’amico. Lo osservò armeggiare con il pettine davanti allo
specchio per qualche altro minuto, le fiamme delle candele che animavano la
stanza con giochi di ombre e di luci; ad un suo cenno fece per passargli un
nuovo pacco di lenti a contatto, quando si decise a fare la domanda che da
tanto gli pizzicava la punta della lingua:
- Chi è che vai a prendere? -
- Federica non te lo ha detto? – domandò a sua volta
Andrea, sfilandogli il pacchetto dalle mani.
- No, non ne ha avuto modo – fece la linguaccia
Salvatore – E non offendermi, per cortesia. Perché mai lei dovrebbe
saperlo e io no, eh? Sono io il tuo migliore amico! –
- Lei è la mia migliore amica –
- Solo da pochi mesi. Niente in confronto a noi, Pinolo
–
- Marco –
Salvatore si azzittì, spalancando impercettibilmente gli
occhi:
- Marco il notaio? – provò, spostando il peso da un
piede all’altro, una strana sensazione che cercava di prendere il
sopravvento. Possibile?
- No. Il notaio non era gay, come ti ho ripetuto già mille
volte –
- A me sembrava proprio della tua sponda, senti –
buttò lì l’altro – Portava quegli occhiali da sole rosa, poi…
ma senti, non sarà il Marco del ristorante? –
- E se anche fosse? –
- Il Marco alunno di Vincenzo, il Marco del funerale?
–
- E’ sempre lo stesso, ne sei consapevole vero?
–
- Quel Marco? –
- Quanti altri Marco conosci, eh?
–
Salvatore si carezzò la guancia, inclinando leggermente di
lato il capo:
- Il non ancora maggiorenne, quindi? -
- Compie i 18 a breve –
- Quando? –
Andrea assottigliò lo sguardo, prendendo mentalmente
spunto di doverlo chiedere al ragazzino.
- A breve – ribatté senza scomporsi minimamente.
Quando non sentì più un fiato da Salvatore si decise a
girarsi e sollevare lo sguardo verso di lui, interrogativo:
- Dov’è il problema? -
Quello scosse il capo, allargando le braccia:
- Nessun problema – rispose, guardandolo alzarsi
senza battere ciglio.
Gli passò lo zaino, lo scortò fino alla porta
d’ingresso con una candela e infine gli porse le chiavi:
- Divertiti – mormorò, sospingendolo verso
l’esterno.
Andrea si lasciò spingere, l’espressione ancora
leggermente frastornata.
Quando Salvatore però, fece per chiudere la porta, la
bloccò con il piede giusto prima che la serratura scattasse:
- Forza! – sbottò, fissandolo negli occhi –
Dimmi cosa ti frulla per quel cervello bacato! -
L’amico sbatté le palpebre, fingendo sorpresa; poi
scrollò le spalle, dandogli un nuovo spintone:
- Secondo me, dovevi portarti dei preservativi -
Marco si fermò al centro del corridoio, le orecchie pronte
a recepire il minimo segnale.
Era calato un inaspettato quanto inquietante silenzio che
gli aveva fatto rizzare i peli sulle braccia. Ah, signore: perché proprio
cinque sorelle, eh? Non erano forse un po’ troppe?
Fece appena in tempo ad arretrare
che la porta della camera delle gemelle si abbatté con uno schianto a due palmi
dal suo viso: Loredana si affacciò in corridoio, fissandolo con ostilità e
rimprovero:
- Dove sei stato fino ad’ora? – lo interpellò,
allungandosi verso di lui e afferrandolo senza troppe cure per il braccio
– Allora? – ripeté, trascinandolo all’interno della camera
– Dov’eri? -
Marco sospirò, lasciandosi tirare e entrando malvolentieri
nella camera delle gemelle: un campo di battaglia molto probabilmente incuteva
assai meno timore.
- Avevo da fare – rispose il ragazzino, stringendosi
nelle spalle quel tanto che gli riuscì – Voi, invece, vi state facendo
belle? – con un gesto veloce si liberò dalla stretta ferrea della sorella
– Immagino sia un’impresa ben ardua, non è vero? -
Loredana roteò gli occhi, fingendo una risatina divertita
e andando a posizionarsi davanti allo specchio:
- Come siamo spiritosi – ghignò, poi – Hai
saputo la bella notizia? -
Marco inarcò un sopracciglio, sedendosi con cautela sul
tappeto azzurro, in mezzo ai peluche:
- Finalmente ti trasferisci? -
- Chi si trasferisce? – s’intromise Angela,
uscendo in quel momento dal bagno e intrufolandosi nella camera.
Stretta nell’accappatoio, i piedi scalzi e i capelli
ancora bagnati: si inginocchiò accanto al fratello e gli scoccò un bacio sulla
guancia, bagnandolo senza volere. Al gesto leggermente infastidito di lui
sorrise, rialzandosi:
- Grazie ancora per… - s’interruppe, lanciando
un’occhiata verso il letto al centro della stanza - … tu sai per
cosa – concluse, mordicchiandosi il labbro.
Marco annuì appena, guardando istintivamente verso il
letto: dal cumulo di coperte si intravedeva giusto un boccolo di Valeria, unico
segno della presenza della ragazza. Con un sospiro si alzò per lasciarsi cadere
di peso sul materasso, subito dopo, al fianco dell’ammasso informe che
era la sorella:
- Valeria – la chiamò, punzecchiando quello che
doveva essere il fianco di lei – Ho sentito che… -
Non ebbe modo di concludere la frase: le coperte vennero
improvvisamente gettate di lato, la testa riccia di Valeria che riemergeva
inaspettatamente. Aveva gli occhi gonfi, il trucco rovinato e
l’espressione ancora mesta, ma la smorfia che le piegò le labbra fu di
pura rabbia:
- E se lo linciassi? – sussurrò, incatenando lo
sguardo del fratello – Dici che basterebbe? -
Marco scosse il capo, lasciandole una lieve carezza sul
braccio:
- Da te mi aspetto di peggio – rispose, sorridendole
con uno sguardo complice.
Valeria annuì, crollando di nuovo fra i cuscini, senza
però seppellirsi ancora una volta fra le coperte.
Angela sospirò, saltandole addosso e sistemandosi
cavalcioni alla sorella:
- Alzati! – le intimò – Corri a farti una
doccia, altrimenti rischiamo di perdere l’inizio del film! -
- Capirai – fece Loredana, passando loro accanto e
rubando la spazzola di mano ad Angela – Il massimo che vi perdete è uno
squartamento, tanto… -
- Il primo è sempre il migliore – borbottò Valeria,
spingendo via la sorella che ancora le stava sopra.
- Esatto – approvò quella – E se vuoi vederlo
devi alzarti adesso –
Marco sogghignò, dandole di gomito:
- Capace che ti viene qualche idea per mettere in opera la
tua vendetta – le suggerì, pronto.
Un lampo di speranza passò negli occhi della ragazza,
illuminandoli:
- Hai ragione – sussurrò, mettendosi carponi e
scivolando giù dal letto – Mi serve il bagno – mugugnò subito dopo,
guardandosi di sfuggita allo specchio – Mi serve il bagno! – gridò
di nuovo, cominciando a tempestare di pugni la porta in questione.
- Prego, prego – ridacchiò Rebecca uscendone in quel
momento – Chi è finalmente riuscito a farla alzare? – chiese,
l’aria divertita, mentre Valeria si chiudeva la porta alle spalle.
Marco sorrise di riflesso, sistemandosi meglio sul letto e
allargando le braccia per accogliere la ragazza che già si era tuffata verso di
lui: Rebecca gli fu sopra in un attimo, i capelli che lo solleticavano mentre
lei gli dava un bacio sulla fronte. Cercò di spingerla via, con l’unico
risultato di bloccare entrambi fra le coperte, senza fiato:
- Come faremmo senza di te, eh? – fece Rebecca,
ansando e rifilandogli un pizzicotto sul fianco.
- Non fareste – ghignò lui – Sono
indispensabile –
- Oh, per cortesia! – gemettero in contemporanea
Angela e Loredana, passandosi vicendevolmente i trucchi.
- Hai visto il mio rossetto? – chiese Loredana,
lanciando un’occhiata alla sorella attraverso lo specchio.
- In bagno – rispose Rebecca, sollevandosi sui
gomiti – Come mi sta? –
Angela la squadrò, inclinando leggermente il capo:
- Togli – le ordinò, lanciandole un fazzoletto e
frugando in un cassetto – Prova con questo qui -
Marco sospirò, cercando di liberarsi dal lenzuolo:
- Sentite, ma… -
- No –
Si bloccò, investito da quella risposta unanime e
implacabile.
- Proprio non… - tentò ancora, invano.
- No! –
Mugugnò, scivolando giù dal letto e fulminando tutte e tre
le ragazze: guarda un po’ quand’è che dovevano trovarsi finalmente
in accordo, eh? Arpie. Erano tutte arpie alla fin fine.
- Siete pessime – borbottò ancora, dirigendosi a
testa bassa verso l’armadio – Pessime -
Spalancò le ante, piegandosi sui
talloni e infilando la testa fra vestiti e scarpe varie: due occhioni azzurri
si puntarono immediatamente nei suoi, dolcissimi. Il ragazzo strinse le manine
che si protendevano verso di lui e prese in braccio la bambina, tirandola fuori
dall’armadio:
- Marco! – squittì lei, chiamandolo e facendolo
immancabilmente sorridere per quella erre moscia che tanto adorava –
Parlavano proprio di te, lo sai? -
- Non mi dire – ghignò lui, sollevandola in aria
– E cosa stavano dicendo di brutto? –
Silvia scosse il capo, facendo ondeggiare i corti capelli
castani mentre si poggiava divertita il dito indice sulla boccuccia rossa:
- Non posso dirtelo! – sussurrò – Sono segreti
fra ragazze! -
Marco rise, lasciando che la bambina gli si arrampicasse
sulle spalle:
- Fai ciao con la manina, principessa – mormorò,
sotto lo sguardo vigile delle altre sorelle.
- Ciao – ripeté Silvia, sorridente come sempre,
stringendolo forte.
- Ciao – fece anche Marco, cominciando ad arretrare
verso la porta, pronto a scattare. Non fu abbastanza veloce. Loredana lo
intercettò giusto in tempo, bloccandolo sul posto:
- Dove hai intenzione di andare? – lo fulminò,
rapidissima.
- Mamma vuole la casa libera – rispose lui,
l’espressione angelica.
- Questo lo so – sibilò lei – E dove hai
intenzione di andare? –
- Non sono affari tuoi – sillabò Marco, arretrando
ancora di un passo – Io ti chiedo forse con chi esci? –
- Io non devo portare Silvia con me –
- Stai forse insinuando che non so badare a lei? –
chiese il ragazzo, il tono che si faceva leggermente più duro.
- No – sospirò alla fine Loredana, pentendosi quasi
della domanda – Scusa –
- Ecco – approvò Marco, reprimendo a stento un
ghigno.
Era quasi arrivato alle scale quando, voltandosi un’ultima
volta, esclamò:
- Comunque esco con Andrea! -
L’urlo gli arrivò cristallino.
Andrea rabbrividì, mettendo la sicura alla macchina:
avrebbe potuto giurare che a urlare fosse stata Loredana.
Aprì il cancelletto e cominciò a percorrere il vialetto:
man mano che si avvicinava alla casa il baccano sembrava aumentare, sempre più
concitato. Non riusciva a distinguere le parole, ma di certo non erano
complimenti.
Si fermò incerto sull’uscio, il dito a pochi
centimetri dal campanello.
Fu in quel momento che la porta gli si spalancò davanti.
- Marco! – esclamò sorpreso, osservando
l’espressione tesa e al contempo compiaciuta del ragazzo – Che sta
succedendo? -
- Niente – rispose lui, ansante – Sei in
anticipo –
- No – balbettò Andrea, sempre più confuso –
Anzi, sono in ritardo –
- Oh – fece Marco, scrollando le spalle – Devo
aver perso la nozione del tempo –
Si guardò alle spalle, la postura
rigida, mentre qualcuno cominciava a correre giù per le scale:
- Forse è meglio se andiamo – ponderò il ragazzino,
annuendo fra sé e sé – Credo sia poco saggio restare qui: siamo a portata
di tiro, sai com’è -
- Va bene – rispose l’altro, sempre più
confuso – Sicuro che vada tutto bene? –
Marco annuì, spingendolo bruscamente verso il vialetto:
- Ah, c’è una piccola variazione di programma -
- Cioè? – chiese Andrea, cercando di girarsi –
E lei chi è?! – esclamò poi di botto,
adocchiando la bambina che il ragazzo si trascinava dietro.
- Silvia – ribatté Marco – lui è Andrea, un
mio amico. Andrea lei è Silvia, la mia principessa –
La piccola ridacchiò, salendo in macchina senza emettere
la minima protesta.
Andrea fissò Marco con gli occhi spalancati, ancora
sorpreso:
- Viene con noi? – domandò, mettendo in moto
l’auto.
- Non abbiamo scelta –
Lo sguardo del ragazzo era basso, quasi dispiaciuto.
Andrea lo spintonò giocosamente, scuotendo divertito il capo e sporgendosi sui
sedili posteriori verso la bambina:
- Allacciamo la cintura, principessa -
- Paperino allora prende la borsa e fa una pernacchia a
zio Paperone -
Andrea ridacchiò, fissando esilarato la bambina: per chi
non ne restava incantato al primo battito di ciglia, c’era quella sublime
erre moscia che dava immancabilmente il colpo di grazia.
- E Paperoga che fine ha fatto? – le chiese, bevendo
un altro sorso di coca cola.
Silvia corrucciò le sopracciglia, presa in contropiede
dalla domanda del giovane: la lingua fece capolino fra le labbra completamente
sporche di gelato e si fermò all’angolo della bocca, fremente.
Marco si sporse verso di lei, sussurrandole qualcosa
all’orecchio: la bambina eruppe in una risata gioiosa, il gelato che
rischiava di caderle dalle mani. Andrea lo prese giusto in tempo,
porgendoglielo di nuovo.
- No – fece lei, scuotendo la testa – Non lo
voglio più -
- E come mai? – sogghignò Marco, avvicinandosi alla
sorella con la sedia.
- E’ troppo freddo – borbottò la bambina,
facendo sorridere entrambi i giovani. Non c’era stato verso, prima, di
convincerla a prendere qualcos’altro, eppure nessuno dei due si prese la
briga di farle la ramanzina.
Marco le tolse il gelato dalle mani, gettandolo con
precisione nel cestino più vicino. Poi si armò di un fazzoletto e cominciò a
pulirle la bocca ormai completamente ricoperta di cioccolato e fragola.
- Ecco fatto – esultò alla fine, buttando anche il
fazzolettino – Finalmente riesco a riconoscerti -
La bimba ridacchiò, sistemandosi meglio sulla sedia. Restò
ferma per tre secondi esatti.
- Basta! – esclamò al quarto secondo –
Camminiamo, vi va? -
I due non ebbero modo di emettere un fiato che lei era
scattata in piedi, cominciando indisturbata a percorrere il marciapiede. Non
correva, un passetto dopo l’altro, aspettando che i ragazzi la
raggiungessero.
- E’ adorabile – commentò Andrea, alzandosi a
sua volta e tirandosi dietro un recalcitrante Marco.
- E’ una peste – sospirò quello, reclinando il
capo all’indietro e socchiudendo gli occhi – Mi sfinisce –
- Ma ti adora –
Andrea strinse il braccio del ragazzino, prendendolo a
braccetto e attirandolo a sé per accorciare le distanze.
- E tu adori lei – aggiunse, sussurrandoglielo
all’orecchio.
- Non era nei piani che venisse anche lei – ribatté
Marco, guardandolo di sbieco seppure senza riuscire a celare
un sorrisetto divertito.
Il biondo si strinse nelle spalle, sospingendo
l’altro lungo il marciapiede.
- Per te è come portarti il lavoro a casa! – dedusse
all’improvviso il ragazzino, inorridito – Oddio… mi dispiace,
sul serio. Se non ti andava, però, potevi anche… -
- La vuoi smettere? – ridacchiò Andrea, scrollandolo
leggermente – Non è un disturbo, fidati –
Marco nicchiò con il capo, lanciandogli un’occhiata
indagatoria prima di continuare:
- Tuo cugino oggi mi ha convocato in presidenza -
- Ah, sì? Non ti avrà sospeso? –
- E con quali accuse? – sbuffò Marco – Al
massimo lo denunciavo io per tentato omicidio –
- Sei tremendo – rise Andrea – E cosa voleva?
–
- Parlare di te. A carte scoperte –
- Che gli hai detto? –
- Che non c’era niente da dire –
- E lui? –
- Che era preoccupato –
Andrea rallentò il passo, cercando di mettere in ordine i
pensieri. Marco proseguì, implacabile:
- Era preoccupato per me -
- Per te? – s’insospettì il biondo – Non
per me? Non lo sa che razza di serpe sei? –
- A quanto pare non ha un’ottima opinione nemmeno di
te. Porti guai, Drew? –
- E’ una domanda? –
- Lui lo ha affermato –
- Perché allora me lo domandi? –
Marco si mordicchiò il labbro, inclinando appena il capo
di lato:
- Stento a credere che tu possa portare guai –
bisbigliò alla fine, sincero – Mi sbaglio? -
- Forse –
- Vi muovete o no?! –
Si voltarono entrambi di scatto,
tornando a fissare davanti a sé, verso Silvia: la bambina si era fermata, i
pugni sui fianchi, squadrandoli con disappunto:
- Perché non vi muovete? – sbraitò, pestando un
piede sul selciato.
Marco la fulminò con lo sguardo, zittendola
all’istante.
- Dobbiamo tornare alla macchina – sussurrò Andrea,
distraendolo dalla sorella.
- Di già? – si sorprese il ragazzo – Non sono
ancora le undici –
- Lo so, ma dobbiamo arrivare in un altro posto –
- Va bene – accondiscese Marco, afferrando Silvia
per la collottola e facendola girare su se stessa:
- Si torna alla carrozza, principessa – esclamò,
prendendola in braccio.
- E dove andiamo? –
- Non lo so –
- Dove andiamo? – ripeté, testarda, rivolgendosi al
biondo questa volta.
- E’ una sorpresa –
- Che posto è? -
Marco guardava fuori dal finestrino, cercando di riuscire
a individuare qualche particolare in più nel buio che li circondava.
L’unica cosa di cui era certo è che erano fermi ad un semaforo.
- Quand’è il tuo compleanno? – chiese in quel
momento Andrea, rilassato, tambureggiando ritmicamente con le dita sul volante .
- Dove siamo? – domandò nuovamente Marco, ostinato
come la sorella.
- Perché non mi rispondi? –
- Tu perché non rispondi a me? –
- L’ho chiesto prima io –
- Non è vero! – esclamò il ragazzino, pentendosi
subito di aver alzato la voce. Si girò, preoccupato, ma Silvia dormiva ancora,
tranquilla: semisdraiata sul sedile vicino, la cintura di sicurezza sempre
allacciata.
- Non ti scaldare – ridacchiò Andrea – Non
posso dirti dove siamo, okay? Deve essere una sorpresa –
- Siamo fermi a un semaforo, Drew – commentò Marco
– Che razza di sorpresa è? –
- Devi essere paziente –
- Perché? –
- Perché siamo in anticipo – sospirò l’altro,
prossimo all’esasperazione.
Marco mise su il broncio, inarcando poco dopo un
sopracciglio:
- Dove nascondi i profilattici? -
- Cosa…? – sussultò Andrea, preso in
contropiede – Non… ma che vai a pensare?!
–
- E tu a che stavi pensando? –
- Pausa –
Silvia si mosse appena, facendo voltare entrambi per un
attimo. Poi la voce di Marco ruppe il silenzio:
- Il 28 gennaio -
- Non manca molto – commentò Andrea dopo un primo momento
di sorpresa – E’ fra quattro giorni –
- Già – annuì il ragazzino – Poi sarò
maggiorenne e legalmente perseguibile –
- Oddio – fece l’altro, senza riuscire a
trattenere una risata – Questa è la prima cosa che associ alla maggiore
età, fammi capire? –
- E’ la più importante, certo –
- E la patente, il diritto di voto, gli alcolici e via
dicendo dove li metti? –
Marco sbuffò, gesticolando con la mano:
- Se finisco in galera perdono tutte parecchio terreno -
- Quindi dai per scontato che non durerai molto in
libertà? –
- Mi do un paio di settimane, non di più –
- Sei ottimista –
Un ghigno identico animò i volti di entrambi, istintivo.
- Non mi hai più risposto – sussurrò poi Marco,
distogliendo lo sguardo.
- Ti ho detto che devi avere pazienza –
- Non a quella domanda –
- A quale? –
- Non credo che tu possa portare guai, Drew – ripeté
il ragazzino – Mi sbaglio? –
Andrea schiuse le labbra, ma non fece in tempo a
rispondere neanche questa volta.
Il semaforo diventò verde.
§
Il semaforo diventò verde.
La luce cambiò, passando da un rosso intenso a un verde
luminosissimo e in una frazione di secondo l’auto era partita, sgommando.
Marco si ritrovò appiattito sul sedile, gli occhi sgranati e fissi davanti a
sé.
La strada era quasi completamente immersa
nell’oscurità: a rischiararla solo la pallida luce della luna e quella
dei fari della macchina. Era come se Andrea guidasse senza sapere dove stava
andando.
- Che cazzo succede?! –
sbottò il ragazzo, guardando sconcertato il biondo al volante.
- A te che sembra? – ghignò quello, inserendo la
quinta e schiacciando l’acceleratore con disinvoltura.
Ci fu un rombo alla loro destra, potente, che sembrò
tagliare in due il silenzio della notte: Marco si voltò rapido cercando di
individuarne la causa. Fece appena in tempo a lanciare un’occhiata fuori
dal finestrino che vide un fuoristrada superarli a tutta velocità, rischiando
di tagliar loro la strada:
- Per poco non ci ha preso – sobbalzò Marco, ma Andrea sembrò non sentirlo.
- Ci siamo fatti sorpassare – mugugnò, inserendo
tranquillamente la sesta e premendo ancor di più sul gas.
- Ci siamo… sorpassare?!
– inveì l’altro, fulminandolo con lo sguardo.
Andrea lo ignorò, scalando lentamente le marce e giocando
con la frizione: di colpo girò il volante, la macchina che svoltava ubbidiente,
per poi ricominciare la corsa sfrenata. Il fuoristrada rientrò nella loro visuale,
ormai a pochi metri di distanza: Andrea sorrise, accelerando progressivamente,
tallonando l’auto che li precedeva.
Marco non fiatava più, osservando ipnotizzato la scena: la
posa tesa, l’espressione frustata.
- Ecco come si fa a tornare in testa – sussurrò
Andrea, lo sguardo acceso, affiancando finalmente il fuoristrada e percorrendo
la strada di pari passo con l’altra macchina. Non durò molto: qualche
minuto e Andrea cominciò abilmente a scalare di nuovo le marce, ruotando il
volante quel tanto che bastava per precedere il fuoristrada in curva. Girarono insieme, la loro macchina che precedeva di pochi centimetri
l’altra.
Poi Andrea scattò. Spostando il cambio con un gesto unico,
fluente, il piede già pronto sul pedale.
E il fuoristrada restò indietro, un sogghigno soddisfatto
che si faceva strada sul volto di Andrea, appagato.
Fu questione di attimi dopo: un’ultima accelerazione
seguita da una dolce frenata, la macchina che faceva un mezzo giro su se
stessa, fermandosi di lato. Andrea lasciò andare il volante, il motore che
sembrava sospirare assieme a lui. Marco aprì la mano, chiedendosi quand’è
che l’aveva serrata a pugno.
- Piaciuto? – sussurrò il biondo, girandosi a
guardarlo.
Marco non rispose subito, limitandosi a squadrare lo
spiazzo in cui si erano fermati: dovevano essere qualche chilometro fuori
città, appena fuori il bosco. Si vedeva abbastanza bene: una lunga serie di
fari chiari che illuminava l’ambiente circostante. Una dozzina di
macchine, ferme a poco distanza dalla loro.
- Ehi? – lo richiamò Andrea, il tono colorato da una
sfumatura di preoccupazione.
Marco lo zittì semplicemente sollevando il dito: si lanciò
una rapida occhiata alle spalle e poi aprì lo sportello, facendogli segno di
seguirlo. Si allontanò di parecchi passi senza prendersi la briga di
controllare se l’altro lo stesse seguendo o meno.
Si fermò solo quando la mano di Andrea gli strinse la spalla, come a
segnalargli la sua presenza lì, al suo fianco. Il biondo lo scosse appena,
costringendolo a girarsi:
- Non volevo spaventarti – cominciò, cauto,
l’espressione confusa.
Marco sollevò il viso, mostrando un ghigno beffardo e al
contempo caustico:
- Spaventarmi? – sputò duro – Non mi hai
spaventato, Andrea -
Quello arretrò impercettibilmente di un passo, percependo
la rabbia del ragazzino:
- Io… -
- Corse clandestine? – lo interruppe severo Marco,
rifilandogli uno spintone – Corse clandestine, brutto stronzo?! – sbottò, alzando il tono della voce – Cosa
diavolo ti passa per quella testa bacata?! –
- Ehi, ehi, ehi – provò a fermarlo Andrea, preso
totalmente in contropiede dalla reazione dell’altro – Non si tratta
di cor… -
- Di corse clandestine? – lo bloccò di nuovo Marco,
sempre più duro – A me sembra proprio di sì,
invece. E tu sei completamente pazzo, lo sai? – si avvicinava a ogni
parola, lo sguardo impietoso.
- Non capisco… -scosse
il capo Andrea, alzando le mani.
- C’era Silvia nella macchina! – gridò Marco,
allargando le braccia.
Gli occhi di Andrea si
spalancarono appena, la comprensione che si faceva finalmente strada: cominciò
a scuotere la testa con forza, cercando di parlare:
- No, Marco… -
- C’era Silvia nella macchina – ripeté quello,
scandendo le parole – Come hai potuto?! E se
quel fuoristrada ci veniva contro? E se avessi perso il controllo?! – continuò, implacabile.
Lo spiazzo si andava affollando, diversi sguardi che si
puntavano su di loro per poi spostarsi via, cauti.
- Ascolta – intervenne il biondo, prendendolo per le
spalle – Non avrei mai permesso che Silvia si facesse male, mai -
- Eri tu a guidare, fottuto idiota! – inveì Marco,
cercando invano di liberarsi dalla stretta dell’altro.
- Proprio per questo! – sbottò Andrea – Non
crederai che fosse la prima volta?! Conosco quella
strada a menadito, Marco! Potrei percorrerla a occhi chiusi! –
- Non mi in… -
- Era solo un giro di prova! – lo interruppe
prontamente il biondo, scuotendolo ancora – Non correvate nessun rischio.
Né tu – scandì bene, indugiando sulle ultime parole – né Silvia –
Marco rilasciò il fiato, abbassando lo sguardo, le spalle
che perdevano lentamente la posa rigida che avevano fino a qualche momento
prima:
- Corse clandestine – borbottò ancora,
divincolandosi finalmente dalla presa dell’altro e allontanandosi solo di
qualche passo. Sollevò gli occhi quel tanto che bastò per incontrare quelli
attenti e divertiti di un altro:
- Che cazzo hai da guardare?!
– proruppe il ragazzino, fissandolo con aria di sfida.
Quello ghignò, sardonica, l’espressione sempre più
ilare:
- Mi godo la scenetta –
- Stop – intervenne pronto Andrea, frapponendosi tra
i due per precedere la risposta già pronta di Marco; fulminò con lo sguardo
Salvatore, seduto sul cofano di una jeep:
- Ti sembra il momento? – fremette, senza perdere di
vista Marco che li scrutava in cagnesco.
- E’ stato lui a interpellarmi – sghignazzò
Salvatore, scrollando le spalle.
- E tu non dargli corda – sospirò il biondo,
appoggiandosi con aria sfinita al fianco dell’amico e invitando con un
cenno del mento Marco ad avvicinarsi.
- Ti sei calmato? – gli domandò Salvatore quando gli
fu davanti, prima che Andrea potesse dire alcunché.
- Non sono cazzi tuoi – sibilò Marco, spostandosi di
fronte ad Andrea.
Salvatore sghignazzò, dando di gomito al biondo:
- Che fa, morde? -
Andrea non rispose, un sorrisetto che gli piegava le
labbra mentre cercava di ignorarlo:
- Fingi che non sia qui – disse, rivolto a Marco.
- Corse clandestine, eh? – borbottò invece il
ragazzino, incatenando lo sguardo al suo.
- Non esattamente – svicolò Andrea, stringendosi
nelle spalle – Facciamo qualche piccola scommessa e… -
- Corse clandestine – ripeté Marco, le mani che
scivolavano nelle tasche dei jeans.
- Lo stipendio da maestro non è il massimo –
tergiversò ancora l’altro – così cerco di arrotondarlo un po’
e… -
- Partecipi alle corse clandestine –
- Sì – sospirò alla fine, capendo di non avere via
di scampo.
- Ripetilo con me, Drew – ghignò il ragazzino,
avvicinandosi lentamente al biondo – Corse clandestine –
Andrea roteò gli occhi, conscio
dello sguardo esilarato di Salvatore che non li abbandonava un attimo:
- Corse clandestine – ripeté – Contento? -
- Molto – annuì Marco, spintonandolo giocosamente.
- Mi dispiace per prima – sussurrò dopo poco Andrea,
accennando con il capo alla macchina.
Il ragazzino strinse le labbra, nicchiando con il capo:
- Non era in programma che ci fosse anche lei, no? -
mormorò, scrollando le spalle.
- Non correvate rischi – ribadì Andrea, cercando di
far arrivare chiaramente il concetto.
- Ho capito – sorrise Marco – Non darti altre
arie, te ne prego –
Salvatore scoppiò a ridere, la bocca di Andrea che si
spalancava per la sorpresa:
- Brutto… -
Marco si allontanò di un passo, scansando abilmente il
ceffone che gli era stato riservato:
- Credi di essere così bravo, Drew? – chiese
sfrontato, la risata di Salvatore che faceva ancora da sottofondo.
- Mi hai visto! – esclamò il biondo, riferendosi a
poco prima – Hai visto cosa so fare! –
- Fai provare me, ora? –
E la risata si interruppe.
- Come? –
- Posso guidare io, ora? – ripeté Marco, reggendo lo
sguardo incredulo di Andrea.
- Non se ne parla neanche! – rispose quello a colpo
sicuro.
- E dai! –
- Ma se non hai ancora diciott’anni!
– sbottò Andrea – Non hai nemmeno la patente! –
- Non credo serva per le corse clandestine, sai? –
Andrea scosse il capo, impercettibilmente meno sicuro di
prima:
- Non conosci la strada, non ci sono illuminazioni -
- Ci sei tu al mio fianco – si strinse nelle spalle
Marco – Mi guidi tu –
- Rischiamo di romperci l’osso del collo –
mormorò Andrea dopo un’ultima esitazione.
E Marco capì di aver quasi vinto.
- Un rischio da correre una volta ogni tanto, no? –
Andrea sorrise, avvicinandosi all’altro e
afferrandolo senza forza per i capelli:
- Non fare stronzate –
- Oltre quella che stiamo per fare, intendi? –
Lo lasciò andare, incapace di usare il pugno duro: come se
poi potesse minimamente servire.
- Devo fare una cosa, prima, però – fece d’un
tratto Marco, correndo verso la macchina.
Aprì lo sportello posteriore, prendendo delicatamente in
braccio la bambina che continuava tranquillamente a dormire indisturbata: la
strinse a sé, tornando veloce lì dove aveva lasciato Andrea.
Lo superò di poco, avvicinandosi invece a Salvatore. E gli
mollò la bimba fra le braccia.
- Che…? -
Marco si portò l’indice sulle labbra, facendogli
segno di tacere:
- Tienila finché non torniamo – sussurrò, ignorando
l’espressione allibita di Salvatore – E non osare perderla di vista
un solo momento – aggiunse, arretrando verso Andrea.
- Io non so… - provò ancora Salvatore, parlando già
alle schiene dei due - …davvero no! –
Sospirò affranto, osservando il fagotto che aveva fra le
braccia e lanciando un’ultima disperata occhiata ai due ormai già
scomparsi all’interno dell’auto: gliel’avrebbe fatta pagare,
poco ma sicuro.
- Ora? -
Andrea fissò stralunato il ragazzino, trapassandolo con lo
sguardo:
- Dimmi che non è la tua prima volta dietro un volante
– implorò, osservando nervoso la luce ancora rossa del semaforo.
- Certo che no! – esclamò Marco – Però
ripetimi le fondamenta, dai –
- Porca – inveì il biondo, passandosi le mani sul
viso – Allora… acceleratore a destra, freno al centro, frizione a
sinistra. Fin qui ci sei? – gemette, senza perdere di vista il semaforo.
- Credo di sì… - borbottò il ragazzino senza più
riuscire a trattenere un sorriso.
- Marco… -
- Ti prendo in giro, Drew!
– sbottò Marco, spintonandolo di lato – Tu allaccia la cintura,
però – aggiunse poco dopo, il tono appena più serio.
- Fai esattamente ciò che ti dico, okay? – fece
Andrea – Quando dico svolta, tu svolta, quando dico parti… -
- Ho capito, ho capito, ho capito! – sbottò Marco,
la macchina che partiva di scatto.
Un rapido cambio di marce, una spinta
sull’acceleratore e recuperarono alla grande, affiancandosi facilmente
alle auto che li avevano preceduti. Marco ridacchiò, dribblando abilmente per
cercare di arrivare in testa:
- Non devi scaldarti, Drew – mormorò, senza perdere
d’occhio le macchine che aveva davanti – Come
vedi mi ricordo dov’è l’acceleratore -
- Anche il freno ha la sua importanza, eh – rispose
a stento Andrea, rilassandosi appena un po’.
- Non sai con chi hai a che fare – lo rimbrottò il
ragazzino, dando un’ulteriore spinta all’acceleratore.
Sorpassò senza problemi un paio di macchine, evitando per
un pelo di scontrarsi con un’altra che sembrò apparire dal nulla. Seguiva
il flusso, senza avere in realtà idea di quale strada stesse percorrendo.
- Svolta! – esclamò Andrea, sporgendosi in avanti
– A destra, a destra! -
Marco ruotò il volante, la mano che artigliava la leva del
cambio: l’auto svoltò appena in tempo, riacquistando velocità in una
frazione di secondo, affiancandosi a un fuoristrada che sembrava tanto quello
del primo giro.
Ci giocò un po’, senza riuscire a superarlo al primo
colpo: quello accorciò lo spazio fra le macchine, cercando di farlo
innervosire. Marco non gli diede quella soddisfazione: non perse un briciolo di
controllo, gli occhi fissi sul contagiri, e al momento più opportuno girò di
colpo a sinistra. Andrea saltò sul sedile, sconvolto:
- Che cazzo fai?! – eruppe
– Non ho detto svolta! Non ho detto niente! -
Marco lo ignorò, i ricordi del primo giro che riemergevano
uno dopo l’altro: contò fino a cinque e poi svoltò di nuovo a destra,
tornando sulla strada principale. Sollevò lo sguardo per pochi secondi, quel
tanto che bastava per scrutare nello specchietto retrovisore: il fuoristrada
era dietro di loro, distanziato di alcuni metri.
- Era… era una stradina secondaria – esalò
Andrea, il fiato corto – Come diavolo… -
- Devi fidarti – rispose semplicemente Marco,
scrollando le spalle.
- Mi farai venire un infarto – ribatté invece il
biondo, una mano sul cuore.
Marco sorrise, la mano che sembrava adattarsi
perfettamente al volante: rilassò le spalle, cominciando pian piano ad
apprezzare anche quell’oscurità che gli impediva di capire cosa ci
sarebbe stato poi.
Erano sufficienti i fari: quella luce rarefatta che
sembrava creare un gioco continuo con le ombre che andava diradando. E fu in
quel minuscolo spiazzo di luce che lo vide. Immediatamente e inaspettatamente.
Non fu necessario il grido di Andrea per riscuoterlo:
sterzò senza pensarci due volte.
Sterzò, il piede che premeva direttamente
sul freno. Sterzò e uscì di strada.
Un rumore di ciottoli sotto le ruote, la macchina che si
fermava docile, i respiri accelerati che animavano l’aria.
E poi una serie di rombi, a pochi passi da loro. Non
ebbero bisogno di voltarsi per sapere che tutte le altre auto li avevano
superati in un guizzo di velocità, eliminandoli ormai dalla gara.
Marco aprì di scatto lo sportello, frustrato e ancora
ansante:
- Dannato procione – sbottò, appoggiandosi alla
macchina e coprendosi il volto con le mani.
- Non era un procione – ridacchiò Andrea, calmo,
raggiungendolo e poggiandosi al suo fianco – Forse uno scoiattolo, o una
volpe… - azzardò, l’espressione concentrata.
- E perché non un procione? – s’interessò il
ragazzino, inarcando un sopracciglio nella sua direzione.
- Questo non è un bosco da procioni – rispose il
biondo, annuendo con aria sicura.
Marco scosse il capo, un ciuffo moro che gli ricadeva
sugli occhi:
- Potevamo vincere – mugugnò abbattuto, sinceramente
deluso – Eravamo quasi in testa -
- Hai salvato quel procione-non-procione,
però –
- Avrei dovuto cercare di scansarlo – borbottò il
ragazzo, lanciandogli un’occhiata torva prima di aggiungere a voce bassa
– Tu ci saresti riuscito, no? –
Andrea si inumidì le labbra, scrollando impercettibilmente
le spalle:
- Certo – rispose, sogghignando
all’espressione irritata di Marco – Devi ammettere, però, che ho un
po’ di esperienza in più di te, no? – aggiunse,
avvicinandoglisi di un passo.
Marco annuì appena, distogliendo lo sguardo.
- Sei stato bravo – mormorò Andrea, sorridendo del
broncio adorabile del ragazzo – Qualche anno e potresti diventare bravo
come me – concluse, provocandolo di proposito.
- Ma vaff… -
L’insulto gli morì in gola mentre le labbra di
Andrea si appoggiavano sulle sue, irruente.
Marco sgranò gli occhi, sinceramente sorpreso dal gesto
dell’altro. Sentì la sua mano fredda che gli si poggiava lieve sul fianco
e non riuscì più a pensare razionalmente: schiuse le labbra, ricambiando il
bacio.
Lasciò che Andrea si spostasse davanti a lui e poi lo
attirò a sé, tirandolo per il collo della felpa, forte. Chiuse gli occhi,
riappropriandosi di quella bocca che aveva a mala pena assaggiato:
- Molto romantico – mormorò, prendendolo
bonariamente in giro.
Andrea sorrise, l’altra mano
che saliva verso il collo del ragazzo: gli mordicchiò il labbro, la fronte che
si posava sulla sua, lieve:
- Lo so – ansò piano – Era tutto programmato -
Marco ridacchiò, lo sguardo vivace che si puntava in
quello dell’altro:
- Ecco perché eri tanto sicuro che non fosse un procione
– scherzò, la voce roca.
E Andrea lo fissò in silenzio, l’espressione
assorta: avvicinò di nuovo il viso, posando le labbra poco sopra quelle del ragazzo per lasciarvi un breve bacio:
- Mi piace un sacco questo neo – sussurrò.
Marco fremette, le dita che senza fretta risalivano sul
petto del biondo.
Arrivò al collo e lo tirò di nuovo a sé, riappropriandosi
con desiderio delle sue labbra: senza forza gli schiuse la bocca, sfiorandogli
i denti con la lingua. E poi si accorse della cerniera lampo: un unico
movimento e aveva aperto la felpa nera. Andrea gli afferrò il polso senza
stringerlo, richiamando la sua attenzione:
- Non avrai intenzione di spogliarmi? – chiese, il
tono divertito.
- E se anche fosse? –
- Fa troppo freddo – scosse il capo Andrea, ridendo
del tono di sfida del ragazzo.
Marco storse il naso, un ghigno che gli piegava le labbra:
- Non sei tu quello grande e grosso? – lo punzecchiò,
sfiorandogli gli addominali – Quello che sa cosa sono i muscoli? –
continuò, sollevandogli di poco la maglietta verde.
- Sì – ansimò Andrea – Ma i muscoli non mi
riscaldano, lo sai? –
- A quello ci penso io –
La mano del ragazzo si era già infilata sotto lo maglia, salendo rapida lungo il fianco sinistro, fino
alla spalla.
E lì si fermò, stranita. Sulla spalla.
- Cosa…? –
Andrea sussultò come scottato: fece per allontanarsi ma la
mano di Marco non glielo permise, le dita che ancora tastavano la pelle,
studiandola. C’era come un lieve rigonfiamento, sulla spalla: partiva
dalla clavicola e scendeva, arrivando poco al di sotto della spalla. Marco
assottigliò lo sguardo, concentrato:
- Una cicatrice? – sussurrò,
gli occhi che cercavano quelli di Andrea.
- Niente di che – fece quello, evitando lo sguardo
del ragazzo – Fai finta di niente –
- E’ una brutta cicatrice – mormorò invece
Marco, poggiando le labbra sulla spalla in questione mentre le dita
riscendevano lievi, lasciando una leggera carezza – Porta anche brutti
ricordi? –
- Qualcuno –
La risposta era stata laconica, la voce che si perdeva in
un sospiro.
- Mi dispiace – bisbigliò Marco, facendo per
allontanare la mano da quel braccio.
Andrea lo fermò, poggiando la mano sulla sua. Nessuno dei
due si mosse, il timore di muovere un passo falso.
- Un incidente stradale – borbottò dopo poco Andrea,
scrollando con forza le spalle, quasi volesse scrollare via anche il ricordo
– La macchina fu sbalzata via, non so spiegarti nemmeno come -
Marco respirava piano, gli occhi che non lasciavano il
viso dell’altro.
- Restai fra le lamiere per tanto tempo, o almeno a me
sembro così – un respiro più difficile degli altri, la voce che rischiava
di spezzarsi – Troppo, in ogni caso. Troppo con un pezzo di vetro
conficcato nella spalla -
Marco rabbrividì, la bocca che si piegava in una lieve
smorfia. Cercò invano di nasconderla ma Andrea se ne era già accorto, un
sorriso che gli incurvava le labbra:
- Dopo un po’ il dolore non si avverte più, sai? – mormorò – E’ come se ti ci
abituassi -
L’espressione del ragazzo era ancora tesa, quasi
sofferente.
- Poi hanno estratto il vetro – disse – Come puoi vedere – aggiunse, cercando invano di
strappare un sorriso all’altro.
- Puoi muovere senza problemi la spalla? – mormorò
Marco, senza lasciare gli occhi del biondo.
- Certo – annuì quello – Solo quando fa freddo
capita che mi dia qualche fitta, ma niente di grave –
Scese il silenzio, avvolgendoli come una coperta.
C’era una domanda che Marco voleva fare: gli
pizzicava la punta della lingua, fremente.
- Era una corsa clandestina? – chiese alla fine,
senza riuscire a fermarsi.
Andrea aggrottò le sopracciglia, l’espressione
confusa.
- Quando hai avuto l’incidente – specificò
Marco – Stavi gareggiando? -
- No – rispose Andrea, chinando il capo – No
–
Prese un respiro profondo, risollevando il mento e
accennando un sorriso:
- Non correvo ancora all’epoca – spiegò
– E dopo l’incidente non mi sono seduto dietro un volante per più
di un anno – continuò, inumidendosi le labbra.
- E poi? –
- Poi ho deciso di affrontare la situazione – disse,
semplicemente.
E a Marco scappò un sorriso.
- Cosa? –
- Niente – ridacchiò il ragazzino, divertito.
- Perché ridi? – esclamò Andrea, incuriosito –
Che stai pensando? –
- Hai affrontato la situazione – ripeté Marco, ilare.
Andrea non disse niente, ancora confuso.
- Da che non guidavi più, dopo l’incidente, sei
passato direttamente alle corse clandestine – rise, spintonandolo
giocosamente – Ma in che razza di modo ragioni, si può sapere? -
- In un modo molto divertente, a quanto pare –
rispose quello, fingendosi offeso, incrociando le braccia al petto e
allontanandosi di un passo.
- Ah, Dio – sospirò Marco, riprendendo fiato –
Non ti capirò mai –
Andrea continuò a ignorarlo, lo sguardo puntato verso
l’alto: sul cielo nero, decorato da minuscoli puntini
oro.
Marco aprì lo sportello posteriore con una mano e afferrò
il cappuccio della felpa di Andrea con l’altra.
- Ehi! – fece lui, preso in contropiede.
- Zitto – ordinò Marco, spingendolo
all’interno dell’auto senza troppe attenzioni e mandandolo dritto
disteso sui sedili neri – E ora vedi di non lamentarti per il freddo
–
- Non avrei osato –
Marco gli salì a cavalcioni,
sfilandogli subito dopo la felpa: si piegò in avanti, le labbra che cercavano
quelle di lui mentre le mani, invece, scendevano verso il basso. Si
soffermarono sul primo bottone dei pantaloni neri, cercando di aprirlo nel
minor tempo possibile. Riuscì nell’intento e la mano scese più in giù,
fermandosi basita:
- Ce ne sono altri tre – gemette – Perché?
Perché non metti pantaloni… -
- … più facili da aprire? – rise Andrea,
cercando invano di invertire le posizioni.
Marco scosse il capo, caparbio:
- Ci sto io sopra – sussurrò, perentorio.
- Allora muoviti con quei bottoni – sibilò in
risposta il biondo, aprendogli in un istante la lampo
dei jeans.
Le dita del ragazzino fremettero, liberando abili i
bottoni restanti:
- Stai messo bene a temperatura? – lo derise Marco, facendo per abbassargli i pantaloni.
- Mai stato meglio – rispose l’altro,
sollevando il bacino per aiutarlo.
Marco gli afferrò il bordo dei boxer, solleticandogli il
fianco:
- Cos’hai? – chiese subito dopo, bloccato dall’espressione
allucinata di Andrea.
Quello lo zittì, sollevandosi sui gomiti. Guardava fuori
dal finestrino, gli occhi irrequieti.
- Cosa c’è? – domandò ancora Marco, allarmato
– Cosa?! -
Una luce colpì in pieno il retro della loro auto,
accecandoli per qualche istante.
I fari di una macchina.
- Questo – gemette Andrea, coprendosi il volto con
un braccio.
- Che diavolo… - inveì Marco, alzandosi quel tanto
che serviva per richiudere i jeans – Porco diavolo! –
- State bene? – gridò una voce maschile da fuori,
avvicinandosi alla macchina con una torcia.
Andrea gemette ancora, riconoscendo la voce.
E il fascio di luce si fermò a poco più di un passo da
loro.
- Ah – saltò su Salvatore, dopo essersi chinato a
guardare dentro la macchina – State bene –
Marco grugnì, arretrando fino ad aprire la portiera:
scese, incespicando appena prima di trovare l’equilibrio.
- Sì – confermò, il tono
duro – Stiamo bene -
Salvatore annuì, la torcia puntata sui piedi, cercando
invano di nascondere il sogghigno delle labbra.
Andrea scese dall’auto, dando loro le spalle il
tempo necessario a darsi una sistemata:
Salvatore ebbe un singulto, la risata che rischiava di
vincerlo:
- Mi dispiace – mentì palesemente – Non potevo
sapere, però – aggiunse, tentando di scusarsi – Vi hanno visti
uscire di strada, temevamo steste avendo dei problemi -
Andrea si voltò, fulminandolo finalmente con lo sguardo:
- No – disse semplicemente, chiudendo l’ultimo
bottone dei pantaloni – Ma grazie per l’interessamento -
- Oh, dai! – esclamò Salvatore, affiancandosi al
biondo e piegandosi verso il suo orecchio – Tanto non avevate nemmeno i
preservativi! –
Marco tornò in quel momento dalla macchina di Salvatore,
una bambina fra le braccia.
- Ah, già – mormorò Salvatore mentre il ragazzo la
stendeva sui sedili – C’è anche lei, quasi me ne dimenticavo. Dorme
che è una bellezza quell’esserino. Ed è anche un sonno bello pesante,
permettimi -
Marco chiuse lo sportello, cercando di fare meno rumore
possibile. Poi squadrò gli altri due e si soffermò qualche attimo di più sul
sogghigno di Salvatore, fremendo:
- Ci riaccompagni a casa, Andrea? – chiese, senza
incrociare lo sguardo di nessuno – E’ tardi -
Andrea annuì, lanciando un’ultima occhiata malevola
all’amico e avvicinandosi alla macchina: un istante prima di salire,
però, infilò la mano nella tasca dei pantaloni e ne estrasse un quadratino
colorato, per poi agitarlo in direzione di Salvatore. Lui spalancò gli occhi
alla vista del profilattico, incredulo.
La macchina di Andrea si stava già allontanando quando la
risata di Salvatore eruppe nella notte.
Marco si puntellò sui talloni, aggiustando la molletta fra
i capelli della bambina.
- Mi sono ricordata anche di Paperoga, glielo devo dire
– continuò Silvia, arricciando le labbra contenta.
Marco si alzò in piedi, osservando la sorella
nell’insieme: annuì fra sé e sé, soddisfatto. Il vestitino rosso che le
aveva fatto indossare le stava d’incanto, almeno non aveva perso tutto
quel tempo invano.
- Era proprio buffo, sai? – ricominciò la bimba
– Con quegli occhi così strani… -
- Ora basta, principessa – la bloccò prontamente il
ragazzo, troncandole la frase – Non devi più parlare di Andrea, okay?
–
- Perché? – chiese lei, spalancando gli occhioni con
aria confusa – Non gli vuoi più bene? –
Marco sospirò, prendendola in braccio e sollevandola
all’altezza del suo viso:
- Oggi è domenica – le ricordò – Si pranza in
famiglia e si cerca di non litigare, siamo intesi? -
- E non devo parlare di Andrea? –
- No –
- Perché? –
- Tu e tutti questi perché! – soffiò Marco,
gettandola di peso sul letto e inseguendola carponi, fra le grida della bambina
– Troppi perché! – borbottò ilare, agguantandola e bloccandola tra
i cuscini.
- Ma a me piaceva Andrea – uggiolò Silvia, cercando
di riprendere fiato dalle troppe risate.
- Ricordi ieri sera? – provò allora Marco, armandosi
di pazienza.
- Quando? –
- Quando Loredana si è messa a urlare –
- Ah – fece la bambina, spalancando di nuovo gli
occhi – A Dana non è simpatico Andrea? –
- Non esattamente – annuì Marco, vedendo finalmente
un’uscita – E se durante il pranzo parli di lui, Dana potrebbe
restarci male, capisci? –
Silvia si sollevò sui gomiti, annuendo anche lei con fare
convinto e comprensivo:
- Certo – approvò seria – Niente urla oggi -
- Bravissima – sorrise il ragazzo, tirandola in
piedi e facendola scendere dal letto – Ora vai a giocare, su! Ti chiamo
io quando è pronto in tavola! –
La bambina non se lo fece ripetere due volte e corse fuori
dalla stanza, euforica.
Marco sospirò, lasciandosi ricadere sul letto, esausto.
Quella ragazzina riusciva a distruggerlo, assurdo.
- Si può? -
Rebecca entrò a piedi scalzi, sedendosi con un balzo al
fianco del fratello, le gambe incrociate sotto di sé:
- Hai fatto tardi ieri – cominciò, implacabile
– Com’è andata? -
- Bene – rispose lui, laconico.
Un ghigno sardonico piegò le labbra della ragazza,
incredibilmente simile a quello di Marco:
- Non te la cavi con così poco, sappilo – fece lei
– Voglio i dettagli -
- Non è successo nulla, Becca – mugugnò Marco,
coprendosi il viso con un cuscino.
Rebecca tirò via il cuscino, fissandolo con aspettativa.
- Ci hanno interrotti prima – brontolò allora il
ragazzo, pizzicandole un fianco – Proprio sul più bello -
- Capita – ribatté Marco, stringendosi nelle spalle.
- Adesso si spiega il tuo malumore – ridacchiò
Rebecca, squadrandolo con aria comprensiva.
- Smettila, Becca! –
gemette lui – Non devi aiutare la mamma o cose del genere? –
- Il pranzo è quasi pronto – scrollò le spalle lei,
spettinandogli i capelli – E poi… -
Non concluse la frase, costringendo Marco a guardarla in
viso per capire cosa le passasse per la testa:
- Che c’è? – chiese infine lui, senza il
minimo indizio – Cosa? -
- Andrea –
- Andrea, cosa? –
- E’ lo stesso Andrea di Dana, non è vero? –
- Non è che stessero insieme, eh, Becca – borbottò
lui, scuro in volto – Guarda che è gay –
- Mi ha raccontato del funerale – disse ancora lei,
alludendo alla sorella.
Marco finse un’espressione stupefatta, schernendola:
- Non mi dire? -
Rebecca, però, non accennò neanche un sorriso. Lo guardò
con aria truce, cancellandogli il ghigno dal volto:
- Perché non me lo hai raccontato tu? -
- Non c’era niente da dire – provò a
difendersi il ragazzo, la sensazione di aver perso qualche passaggio.
- Stai uscendo con lui? –
Marco schiuse le labbra, le parole che non ne volevano
sapere di uscire.
- Era un appuntamento quello di ieri sera? –
continuò Rebecca, il tono accusatorio.
- Becca… -
- Voglio sapere, Marco – fece allora lei, prendendo
un bel respiro e ponderando le parole – Se è una cosa seria o no, ecco
–
- Certo che non è seria! – esclamò il ragazzo,
tirandosi a sedere.
- Vorresti farmi credere che è solo uno dei tuoi tanti,
troppi per i miei gusti, amici? –
- Mi conosci – sussurrò lui, evitando tuttavia di
incontrare lo sguardo della sorella. E lei lo notò.
- Infatti – disse – Proprio perché ti conosco
trovo così strano che… -
- E’ il mio! – gridò improvvisamente Marco,
scattando in piedi – E’ il mio cellulare – esclamò ancora,
prendendolo dalla scrivania con gratitudine – Scusa, Becca –
Rebecca sospirò, tirando un cuscino in direzione della
porta: lì dove pochi attimi prima c’era ancora il fratello.
- Pronto? – rispose Marco in un sospiro, sollevato,
appoggiando le spalle al muro più vicino.
- Disturbo? –
E le spalle gli si irrigidirono.
Chiuse gli occhi, maledicendo tutti i santi che gli
venivano in mente.
Una congiura, ecco. Doveva essere una congiura. Non poteva
essere altrimenti.
- Come hai avuto il mio numero? – chiese, la voce
bassa che tuttavia trasudava inquietudine e fastidio.
- Mi hai chiamato tu, ieri – spiegò tranquilla la
voce – Disturbo? –
- Non è il momento, Andrea –
- Quindi disturbo –
- No – borbottò Marco – Non è il momento, però
–
- Come faccio a non disturbare se non è il momento?
– domandò Andrea, la voce angelica.
E Marco gemette, un braccio a coprirsi gli occhi.
Una congiura.
- Che vuoi? – soffiò alla fine, forzandosi a non
chiudere la chiamata così, di colpo.
- Parlare –
- Perché? –
- Perché no? –
- Tu mi vuoi morto – gemette il ragazzo, scivolando
a sedere – Perché vuoi parlare? Di cosa, poi? –
- Di ieri – rispose con ovvietà Andrea –
Soprattutto della parte finale della serata, ecco –
E Marco imprecò mentalmente.
- Non è successo niente, ieri, nella parte finale della
serata –
- Appunto –
- Vuoi parlare del niente? –
- Voglio sapere se sei ancora arrabbiato – mormorò a
quel punto Andrea.
- Arrabbiato? – si stupì il ragazzino, irritato dal
doverne discuterne al telefono.
- Dopo che vi ho accompagnati, ecco… mi sei sembrato
parecchio arrabbiato. Furibondo, quasi. E mi chiedevo se fossi ancora… -
- Non potremmo parlarne un’altra volta? – lo
interruppe brusco Marco – Non mi piace parlare per telefono – buttò
lì, a mo’ di spiegazione, cercando un modo per chiudere la chiamata.
- Preferiresti parlarne di persona? – chiese Andrea,
senza tuttavia dargli modo di rispondere – Puoi sempre uscire di casa,
nel caso –
- Come? –
- Credo sia quella giusta, sai? – ponderò
l’altro, il tono divertito – Perché non esci e me ne dai conferma? –
Marco era scattato in piedi, la mano che già allontanava
la tenda dalla finestra più vicina: e lo vide lì, fermo al di là del
cancelletto, la testa bassa. Si bloccò per qualche attimo, gli occhi che non
riuscivano a lasciare quei capelli così biondi. Al diavolo, altro che congiura.
Quella era una punizione divina.
- Sei completamente pazzo o cosa?!
– sbottò, voltandosi giusto in tempo per imbattersi in Rebecca, attirata
dal suo grido. Si morse il labbro, dandole le spalle e cominciando a scendere
gli scalini due a due.
- Tu sei ancora arrabbiato? – chiese Andrea, la voce
che non tradiva la minima emozione.
- In questo momento? – grugnì Marco, attraversando
la sala da pranzo conscio degli sguardi curiosi che aveva puntati su di sé,
provenienti dalla cucina; li ignorò, uscendo di casa senza guardarsi indietro.
- Sì, sono arrabbiato – sibilò, chiudendo la
chiamata e fulminando Andrea – C’è gente che mi si presenta al
cancello di casa senza invito, vedi un po’ tu –
- Ah – sorrise il biondo, divertito, posando il
cellulare – Quindi è una cosa frequente? –
- Devi andare via, Andrea – borbottò il ragazzo,
fermandosi di fronte a lui – E’ domenica –
- Lo so – rispose quello, l’espressione appena
confusa.
- Si pranza tutti insieme, la
domenica – spiegò Marco, spostando nervoso il peso da un piede
all’altro – C’è la pericolosissima concentrazione di sei
donne, all’interno di quella casa –
- Uh – fece quello, perdendo il sorriso –
Capisco –
- Ne va della tua incolumità –
Andrea inclinò il capo di lato, l’espressione
comunque divertita:
- Dolce da parte tua volermi salvare -
- Ne va anche della mia incolumità – scosse il capo
il ragazzino, lanciandosi nervoso un’occhiata alle spalle.
- Allora rispondimi e vado via – sussurrò
improvvisamente Andrea, tornando serio.
- Ascolta… -
- Sei ancora arrabbiato? –
Marco chiuse gli occhi, solo per un attimo, scuotendo la
testa:
- Non sono arrabbiato – rispose sincero – Non
lo sono mai stato -
- Ieri sì – ribatté il biondo – Ieri eri
arrabbiato –
- Non con te! – esclamò Marco, alzando le mani
– Non ero arrabbiato con te! Andrea… tu non c’entravi niente.
Era più un senso di… odio, ecco. Odio nei confronti di quel tuo amico
–
- Salvatore? –
- Sì, Salvatore. – sospirò, sorridendo del sollievo
che vide sul volto dell’altro – Diciamo solo che non mi piace
essere interrotto così, okay? Mi ha leggermente infastidito –
- Leggermente? – ghignò Andrea, reclinando il capo
all’indietro – Io stavo prendendo in considerazione l’idea di
investirlo ripetutamente con la macchina –
- Mi spiace di averti dato l’impressione sbagliata
– disse infine Marco, colpendolo giocosamente sulla spalla.
- Almeno ci siamo chiariti, no? –
Andrea fece per arretrare, le mani nelle tasche, quando si
bloccò interdetto:
- Marco – sussurrò – Mi sento osservato -
- Fai finta di niente – rispose il ragazzino, serio,
immaginando i visi delle sorelle che sbirciavano dalle finestre.
- Ma c’è la piccolina che mi fa ciao con la manina
– gemette Andrea, facendo per salutare a sua volta.
- No! – lo bloccò Marco – Se dai segno di averle viste è la fine –
- Ehi! –
E Marco rabbrividì.
- Voi due! – continuò la voce, perentoria –
Venite qui! –
Marco chinò il capo, il sapore amaro della sconfitta che
gli invadeva la bocca.
- Vieni – sussurrò ad Andrea, aprendo il cancelletto
e facendogli segno di seguirlo – Alla mamma non si dice mai di no -
- Sono nei guai? – chiese il biondo, seguendolo
docile.
- Oh, non immagini neanche quanto –
La signora che si stagliava sull’uscio della porta
di casa ostentava un sorriso caloroso, bonario quasi. Eppure il ragazzino che
le si fermò davanti sembrava in preda allo sconforto più puro.
- Non mi presenti il tuo amico? – domandò educata,
lanciando un’occhiata ad Andrea, poco lontano.
- Lo conosci già, mamma –
- Ah, sì? –
Andrea ebbe l’impressione che la donna stesse
fingendo, perfettamente conscia di chi lui fosse.
- Sì – mormorò Marco – E’ quello degli
assorbenti -
- Uhm – approvò lei, guardandolo con maggiore
attenzione e facendogli segno di avvicinarsi.
- Perché non ti fermi a pranzo? – ribatté subito
lei, lasciandolo basito.
Marco gemette, storcendo la bocca. Andrea boccheggiò,
cercando disperatamente una risposta adatta:
- Non vorrei disturbare, signora
-
- Se disturbassi non ti avrei invitato, ti pare? –
fece lei, una logica inoppugnabile.
- Non credo sia il caso… - provò ancora lui, la voce
che si andava affievolendo.
Lei non diede segno di aver sentito: lo prese a braccetto
e lo trascinò in casa senza ulteriori indugi.
Marco chiuse la porta. Poi annuì.
Una congiura e una punizione divina. Entrambe.
Non c’erano altre spiegazioni.
- E’ squisita, signora – commentò Andrea,
portando alle labbra un’altra forchettata di pasta.
- Ti ringrazio, caro – sorrise lei radiosa – E
chiamami Rossana, ti prego –
E quella semplice frase fu lo sparo d’inizio.
- Quanti anni hai, Andrea? – chiese Angela,
sorridendogli amabilmente.
- Ventitre, quasi… -
- Come Dana, quindi – s’intromise Valeria, un
sorriso identico a quello della gemella.
- Sì, ecco… -
- Lavori, Andrea? – domandò Rebecca, riempiendogli
il bicchiere di acqua.
- Sì, sono un maestro d’asilo –
- Un lavoro che richiede molta pazienza – fece la
signora Torresani, aspettando che l’altro confermasse.
Andrea confermò:
- Certo, signora… ehm, Rossana. I bambini mi
piacciono tantissimo, però, così non mi… -
- Vivi da solo, Andrea? –
- Sì, ho un appartamento in viale Lincoln –
- E riesci a mantenerti da solo facendo il maestro?
– chiese Valeria, il sorriso che ormai nascondeva un ghigno.
- Certo non è facile, ma cerco di arrotondare con altri
lavoretti – rispose Andrea, mantenendo molto abilmente
un’espressione rilassata. Sul finire della frase diede di gomito a Marco,
seduto alla sua sinistra, ammiccandogli tranquillamente. Marco quasi si strozzò
con l’acqua.
- Sì – approvò dopo poco – E’ vero -
Andrea ridacchiò, sinceramente divertito. E Marco lo
fulminò con lo sguardo:
- Non tirarmi in ballo – gli bisbigliò – Ora
devi cavartela da solo -
- Quando vi siete conosciuti? – chiese a quel punto
Valeria, una perfetta faccia da schiaffi.
- Vale! – sbottò Loredana, rischiando di perforare
il timpano destro di Andrea, seduto al suo fianco.
- Cosa? – fece quella, spalancando gli occhi con
fare innocente.
- E’ stata una casualità – rispose Andrea,
prendendo l’ultima forchettata di pasta – Ci siamo incrociati in
casa di mio cugino. Era, ecco, il funerale di mio zio –
Per un momento scese il silenzio sulla tavola, la signora
Torresani che assumeva un’espressione contrita:
- Condoglianze -
- Grazie –
- Il funerale a cui era presente anche Dana, vero? – tornò immediatamente alla carica Valeria.
Loredana mosse la mano come per lanciarle contro il
bicchiere, Angela fu pronta a bloccarne il gesto.
- Sì – borbottò Andrea, il tono che si andava
abbassando – Le avevo chiesto di accompagnarmi -
Valeria annuì, un lampo di trionfo che le attraversava lo
sguardo.
- Davvero? – chiese Marco, parlando per la prima
volta da quando si erano seduti.
- Sì – rispose il biondo, nicchiando con il capo
– Avevo bisogno di un supporto morale –
- Capisco – soffiò Marco, premurandosi di abbassare
la voce prima di continuare – Per piangere le tue lacrime di gioia?
–
- Che vuoi che ti dica? – bisbigliò Andrea,
piegandosi verso di lui.
- Che non uscivi con mia sorella! – sussurrò Marco
– Perché sai di essere gay, non è vero? –
Andrea sorrise, cercando di ignorare gli sguardi del resto
dei presenti:
- Certo che so di essere gay – sibilò – E no,
non uscivo con Loredana -
- Va tutto bene? – s’intromise
diplomaticamente Angela, portando in tavola un vassoio con il rostbeef.
- Andrea – scattò allora Silvia, facendo finalmente
sentire la sua voce – Vuoi sentire di Paperoga? –
Marco sospirò, scuotendo amaramente il capo.
- A proposito – esclamò infatti
Loredana, facendo rabbrividire i due uomini presenti – Com’è andata
la serata, ieri? Marco non ci ha raccontato nulla -
- E’ andata benissimo – rispose
inaspettatamente Silvia – Andrea è simpaticissimo! Mi ha fatto mangiare
il gelato e ha ascoltato tutte le barzellette che conoscevo… - si zittì
un attimo, assumendo un’espressione pensosa che fece rizzare i capelli a
Marco - ... no so perché tu non lo trovi simpatico, Dana –
Loredana inarcò un sopracciglio, spostando lo sguardo su
Marco:
- Io non trovo simpatico Andrea? -
- Non guardare me, Dana – ribatté pronto il
ragazzino, alzando le mani.
- Sei tu che lo hai trascinato al piano di sopra e…
-
- Ehi, ehi – intervenne Andrea – Nessuno qui
ha trascinato nessuno al piano di sopra –
- Non ti intromettere – sillabò Loredana,
fulminandolo.
- Non è stata una cosa pianificata, Dana, lo sai –
provò a difendersi Marco – Non è che volevo fare un dispetto a te, lo
sai… non sono il tipo che… -
- Baciasti Giovanni solo perché non ti volli accompagnare
al cinema! –
- L’anno scorso, per la miseria! E’ successo
un anno fa! –
- Ma lo baciasti! –
- E allora?! Lui non era gay,
Dana! Non sei contenta? –
- Vuoi delle patate come contorno, Andrea? – sorrise
Angela, porgendogli la ciotola.
- Sì, grazie – rispose quello, continuando a spostare
lo sguardo prima alla sua destra e poi alla sua sinistra, seguendo lo scambio
di battute fra Marco e Loredana.
- E Vincenzo? Lui come lo spieghi? –
- Quello fu un errore, okay? –
- Lo chiami errore? – sibilò Loredana, facendo per
alzarsi dalla sedia.
Andrea la bloccò subito, una mano che si poggiava
fermamente sulle gambe della ragazza:
- Mi passeresti il sale, Lori? -
- Subito – grugnì lei, un’espressione di
impotenza in volto.
- C’è qualche sport che ti piace particolarmente,
Andrea? – domandò Rebecca, cominciando lentamente a sbucciare la frutta.
- Non esattamente – rispose lui – Non sono
molto portato per gli sport –
Loredana gli si avvicinò, le labbra che quasi sfioravano
l’orecchio del biondo:
- Sicuro di non essere etero? – mormorò, allontanandosi
di poco.
- Io… - biascicò lui, interdetto - …
ecco… -
Marco strinse i denti mentre quel sussurro lo raggiungeva,
facendogli saltare i nervi: si mosse a disagio, assai inviperito. Loredana
voleva giocare sporco? Bene. Benissimo.
Spostò la mano, rapido. Sul
cavallo dei pantaloni di Andrea.
Alla grande.
- … Lori, certo che… - stava ancora
balbettando il giovane, il capo inclinato.
E poi sussultò, le parole che gli si bloccavano in gola.
Abbassò per un solo istante lo sguardo. Bastò.
- Marco – chiamò, la voce
malferma.
- Sì? –
Il tono del ragazzo era calmo, l’emblema
dell’innocenza. Andrea si morse il labbro, trattenendo un gemito:
- Sì, Lori, sì – sospirò subito dopo – Sono
sicuro -
- Bravo – approvò tranquillo Marco – Vuoi
che… -
Andrea non lo lasciò finire, allontanandogli di getto la
mano.
- Vado un attimo in bagno – annunciò Marco, un
ghigno sulle labbra – Scusatemi -
- Vuoi una mela, Andrea? – fece Rebecca,
completamente a proprio agio.
- Sì, grazie – annuì quello, lo sguardo che involontariamente
volava in direzione del corridoio – Io… scusatemi, torno subito.
E’ questione di pochi minuti –
Scattò in piedi, seguendo quello che era stato il percorso
di Marco: salì rapidamente le scale e aprì la porta da cui sentiva provenire un
leggero sciabordio d’acqua. Il ragazzino si stava sciacquando le mani, placido:
- Problemi? – gli chiese, lanciandogli
un’occhiata attraverso lo specchio.
Andrea gli si avvicinò, afferrandolo per le spalle e
rigirandoselo fra le mani:
- Cosa diavolo ti è preso?!
– sbottò, sforzandosi di non alzare troppo la voce – Sei per caso
impazzito?! -
- Non scaldarti per così poco, Drew – fece lui,
asciugandosi le mani sulla felpa dell’altro – Non era niente
–
- Tu quello lo chiami niente? –
- Colpa di Dana – sentenziò alla fine Marco,
stringendosi nelle spalle.
- Cosa c’entra Dana?!
–
- Credi non abbia sentito quello che ti ha sussurrato?
– sibilò il ragazzino, lo sguardo truce.
- E quindi? –
- E quindi mi ha dato fastidio, okay? Che vuoi? –
Andrea aveva sorriso. Un sorriso strano, saputo.
- Cosa? – borbottò Marco, cercando inutilmente di
sgusciargli via dalle mani.
- Eri geloso? – sogghignò il biondo.
- Che cazzo dici? – sbottò irritato il ragazzino,
assottigliando lo sguardo.
- Eri geloso! –
- Io non sono geloso! –
- Eri geloso – ripeté Andrea, trionfante – Non
fare finta di niente –
- Io non sono geloso – sillabò Marco, respirando
piano – Smettila di ripeterlo –
- Sai cosa? – fece l’altro senza perdere il
sorriso – La prossima volta vedi di esserlo di un uomo –
- Posso salire? -
- L’ho già detto – mugugnò Marco, mangiando il
suo ultimo spicchio di pera – Non farmelo ripetere o potrei anche
cambiare idea, sappilo –
Andrea ridacchiò, fingendo di non notare il malumore del
ragazzino. Eh, la gelosia è una brutta bestia.
- La smetti di ridere come un idiota? – borbottò
Marco, aprendo una botola nel soffitto e tirandone giù una scala in legno. Salì
in pochi secondi, velocissimo, e lasciò giù la scala.
Andrea cominciò a salire, piano, cercando di tenere il
respiro sotto controllo.
- Ce la fai o devo… -
- Eccomi, eccomi – esclamò, bloccando l’altro prima che finisse il commento malevolo –
Hai per caso fretta? –
- Mia nonna è più veloce – bofonchiò in risposta il
ragazzino, porgendogli comunque una mano e aiutandolo a issarsi per
l’ultimo tratto della scala.
Una volta con i piedi su una superficie piana Andrea
sospirò, osservandosi finalmente attorno.
Era tutto in legno: il pavimento, i muri, i mobili; un
letto pieno di cuscini, una scrivania ricoperta di libri e tanti tappeti, di tutti i colori. C’era solo una grande
finestra, una specie di lucernaio, che dava sul giardino: il ramo della quercia
era talmente vicino che sembrava volesse bussare delicatamente contro il vetro.
- E questi? – domandò dopo un po’ Andrea, il
tono sorpreso.
Marco si strinse nelle spalle, abbassando lo sguardo.
- Sono bellissimi – mormorò il biondo, girando su se
stesso per poterli osservare tutti: i muri, ad eccezione di quello con la finestra,
erano interamente ricoperti di disegni. Tantissimi.
Attaccati con puntine colorate, sovrapposti apparentemente
senza alcun ordine particolare: fatti a matita o con il carboncino erano tutti,
invariabilmente, magnifici. Si avvicinò, aguzzando lo sguardo:
- Davvero, Marco… - sussurrò – Hai del talento
-
- Sono solo schizzi – fece il ragazzino, scrollando
impercettibilmente le spalle e lasciandosi cadere sul letto.
Andrea non gli diede ascolto. Erano per lo più paesaggi:
tramonti, deserti, isole sperdute. Soffermò lo sguardo su uno scorcio di
foresta e sorrise, estasiato: le fronde degli alberi erano contorte, lo
scenario scosso da quella che doveva essere una tremenda tempesta. Sfiorò con
le dita il carboncino, lieve:
- Mi sembra di sentire il vento – bisbigliò,
accennando al disegno.
- E la pioggia no? – sorrise Marco, allentando un
po’ le difese.
Andrea si accorse di quel leggero cambiamento e si
avvicinò alla scrivania, quasi lo avesse incoraggiato:
- Neanche un libro di scuola -
- Non li uso più di tanto – borbottò Marco –
Li trovo noiosi –
- E come fai a passare l’anno? –
- Ho detto che li trovo noiosi, non che sono stupido –
- Mai pensata una cosa simile –
- Ho la sufficienza in tutte le materie – sospirò
dopo un po’ Marco – Mi basta questo –
- E dopo? –
- Dopo cosa? –
- E’ il tuo ultimo anno, giusto? –
Marco annuì, mettendosi a sedere e abbracciando un cuscino
rosso.
- Dopo cosa vuoi fare? -
- Non lo so –
- Oh, su – provò Andrea – Qualche idea dovrai
pur averla –
- Tu già sapevi di voler fare il maestro? –
- Sì –
- Non ci credo –
- Te lo giuro –
- Forse… - non completò il pensiero, sussultando
quando Andrea pescò un disegno dal cestino.
Scattò in piedi, strappandoglielo abilmente dalle mani con
un gesto secco.
Andrea boccheggiò, sbattendo le palpebre:
- Quello… ero io? -
- No –
Il tono era stato lapidario, irremovibile.
- Marco… - balbettò Andrea, cogliendo la sfumatura
ferita nella voce del ragazzo.
- Ho detto no –
- Va bene –
Fece finta di niente, avvicinandosi questa volta alla
finestra: guardò fuori e si rese conto che sì, la quercia era davvero molto,
molto vicina. Ci si poteva quasi arrampicare e…
- Si arriva alla casetta, da qui – mormorò Marco
alle sue spalle – La casetta sull’albero -
- Da qui? –
Marco annuì, aprendo la finestra e indicando le assi di
legno all’altro:
- Vieni? -
- No – rispose frettolosamente Andrea – No,
meglio di no –
- Oh, dai – ridacchiò Marco – Non fare il
pollo, ora –
- Non faccio il pollo –
- Allora vieni –
Erano pochi passi. Pochi passi e si arrivava diritti nella
casetta, al sicuro. Marco li percorse agile come un
gatto, la sicurezza di chi ha già fatto quel tragitto tante e tante volte: si
girò, aspettando che Andrea lo seguisse.
Si accorse che qualcosa non andava solo nel momento in cui
l’altro mise piede accanto a lui: all’inizio pensò di essersi
sbagliato, ma poi dovette ricredersi, incredulo. Poggiò una mano sulla spalla
di Andrea, cauto:
- Stai tremando? -
- Certo che no – rispose quello, raddrizzando le
spalle e reggendosi all’albero con entrambe le mani.
- Solo… solo un pochino – buttò lì Andrea,
scuotendo il capo.
- Perché non lo hai detto prima?!
– lo accusò il ragazzino.
- Perché non è niente – fece l’altro –
Basta… basta che abbia qualcosa di solido sotto i piedi, ecco. Non…
non crollerà da un momento all’altro questa casa, vero?
–
- No – sorrise Marco – Non crollerà –
Andrea annuì, poggiandosi a lui e sedendosi con cautela.
Si muoveva al rallentatore, gli occhi che facevano di tutto per non guardare
sotto:
- Fa appena un po’ freddo, eh? – domandò
allora, cercando di distrarsi come poteva.
- E’ quello il bello – ribatté Marco –
Schiarisce le idee –
- Fa battere i denti, piuttosto –
Fu mentre lo diceva che se ne rese conto: la casa non era
stata completata. Il pavimento, certo, c’era. Eppure…
- Non manca qualche asse, qui? -
- Sì, non abbiamo avuto modo di finirla –
- Tu e chi? –
- Io e papà –
Andrea lo guardò, sorpreso: non aveva mai accennato al
padre né lui aveva mai pensato di chiederglielo.
Come mai non gli era venuto in mente? Per fare cinque
figli la signora Torresani aveva pur avuto bisogno di un signor Torresani, no?
Si pentì di aver aperto la bocca, il timore che Marco si barricasse nuovamente
dietro un freddo sarcasmo. Continuò a guardarlo, in silenzio, mentre lentamente
strusciava avvicinandoglisi:
- L’abbiamo cominciata quando avevo sei anni –
disse, catturando interamente l’attenzione di Andrea – Io non
facevo granché, in realtà: gli passavo i chiodi, il martello… gli portavo
l’aranciata quando ne aveva voglia. Per il resto era lui a lavorare. Io
però non facevo altro che stargli dietro, dandogli anche impiccio il più delle
volte, eh. Non me lo faceva mai pesare, però. Per quel che mi ricordo,
sorrideva sempre. -
Andrea annuì piano, consapevole del fatto che non avrebbe
ottenuto di più da Marco.
Non quel giorno, almeno.
Fece scorrere la mano sulle assi e inarcò un sopracciglio sentendole
estremamente lisce: non c’era neanche una scheggia, niente. Era come se
il tempo non avesse avuto il minimo effetto.
- Le hai levigate di recente? – domandò, ponderando
le parole.
Marco annuì, carezzando le assi di riflesso:
- Quando mi vengo a schiarire le idee – rispose,
stringendosi nelle spalle – E’ l’unica cosa che mi sento di
fare – aggiunse, abbassando di nuovo lo sguardo.
Andrea sorrise, di un sorriso leggermente amaro questa
volta.
- Credevo mi volessi stuprare – disse poi, cambiando
radicalmente argomento.
- Quando? – ghignò Marco, decidendosi finalmente a
guardarlo negli occhi.
- Quando sei salito in bagno, a pranzo –
- Non ti ho neanche fatto cenno di seguirmi – si
difese il ragazzino – Hai fatto tutto da solo –
- Credevo volessi prenderti una rivincita, no? Facendolo
in bagno… – continuò, l’espressione man mano sempre più
maliziosa – … mentre tutti erano ancora giù –
- E continui a fare tutto da solo – sghignazzò
Marco, scuotendo il capo – Come se poi non lo avessi già fatto –
terminò, la voce più bassa, abbassando per un istante lo sguardo.
- Lo hai già… in bagno? –
- Certo che sì –
- Con tua madre… -
- Ovvio che sì –
- Ma sei un animale! – eruppe Andrea, passandosi una
mano fra i capelli.
- Questo non lo avevamo già appurato? –
- Quante volte? –
- Quante volte lo abbiamo appurato? –
- Quante volte lo hai fatto? –
- Non cedo siano esattamente affari tuoi, sai? –
fece Marco, fissandolo con aria saputa.
- Due? Tre? –
- Vuoi farti gli affaracci tuoi?!
–
- Oddio… ancora di più? –
Marco scoppiò a ridere, ignorandolo deliberatamente. Una
folata di vento più forte delle precedente lo colpì
dietro la schiena, penetrando attraverso la maglia e facendolo rabbrividire:
- Forse faremmo meglio a rientrare – biascicò fra
una risata e l’altra – Altrimenti rischiamo di prenderci una bella
polmonite, Drew – mormorò infine, asciugandosi le lacrime dal gran
ridere.
- Rientrare…? –
Andrea sobbalzò, come preso alla sprovvista: aveva quasi
dimenticato dove si trovavano, completamente preso dalla conversazione. Chiuse
un attimo gli occhi, artigliando le assi sotto di sé con entrambe le mani:
- C’è una scala, per scendere? -
- Al momento no – rispose Marco – Basta fare
la strada a ritroso, però –
Andrea annuì, lanciando una rapida occhiata alla finestra.
E poi gli occhi gli disubbidirono, puntando rapidi al suolo: rabbrividì,
serrandoli nuovamente. Cazzo.
- Dammi la mano -
Il sussurro di Marco lo raggiunse come da lontano,
cogliendolo di sorpresa.
- Sto bene – rispose, senza aprire gli occhi, il
tono secco.
- Lo so che stai bene – sorrise il ragazzino,
ignorando l’orgoglio dell’altro – Dammi la mano, però –
- Ti ho detto che sto bene! – scattò Andrea, punto
sul vivo.
Marco sospirò, intrecciando comunque le dita a quelle del
ragazzo: lo tirò in piedi, poggiandogli poi la mano libera sulla schiena. Lo
sospinse appena, senza forzarlo troppo:
- Ora ti converrebbe aprire gli occhi, lo sai? – mormorò, il tono pacato, senza mettergli fretta.
- Ancora un attimo –
- Ho tutti gli attimi che vuoi –
Dopo tre minuti e mezzo Andrea annuì, aprendo solo un pochino le palpebre:
Marco sbuffò, prendendo ancora una volta la mira: la
pallina prese il volo, sorvolando rapidamente tutta la classe e mancando di
poco il cestino nell’angolo.
- Visto? – ghignò Amedeo, uno sbrilluccichio
divertito negli occhi.
- Fottiti –
- Non mi cadere nel volgare, ora –
- Sei insopportabile –
- Tu tendi troppo a destra –
- Sapresti fare di meglio? – soffiò Marco,
incrociando le braccia al petto con un broncio risentito.
Amedeo sorrise, strappando un angolo di pagina: la
appallottolò per bene, sporgendosi leggermente sul banco. Lanciò e in due
secondi la pallina era entrata nel cestino: un canestro perfetto.
- Ecco – sghignazzò, incrociando le braccia dietro
la testa con fare soddisfatto – Ora, ti prego, non scadermi ancora nel
volgare -
- Non mi sarei mai permesso –
- Palle –
Marco roteò gli occhi, puntandoli al soffitto:
- Tutta fortuna – borbottò, tentando un altro
lancio. Sfiorò il lato destro del cestino.
- Scommetti? –
- Se vinco? –
- Dovresti chiedere se perdi –
- Stai diventando sbruffone, Deo –
- E’ la tua influenza, temo –
- Io non sono sbruffone – lo corresse Marco, un
sorriso luminoso – Sono consapevole di me stesso –
Amedeo non rispose, limitandosi a lanciare una nuova
pallina, più piccola della precedente.
- Affanculo -
- Centro perfetto – si strinse nelle spalle il rosso
– E avevo ragione anche prima –
- Cosa? – borbottò l’altro, sollevandosi
leggermente dalla sedia per controllare che effettivamente la pallina fosse
entrata e gli occhi non gli stessero giocando brutti scherzi. Al diavolo.
- Sei scaduto nel volgare –
Marco sospirò, aggiustandosi la sciarpa attorno al collo.
Odiava le sciarpe.
- Dici che tendo troppo a destra? -
- Sì –
Amedeo sorrise, preparando nuove palline e sistemandole
ordinatamente sul bordo del banco:
- Prude, eh? -
- Cosa? –
- La sciarpa – specificò cautamente lui, guardandolo
di sottecchi e attendendo una qualche reazione.
Marco strinse le labbra, l’espressione
imperscrutabile:
- Un po’ -
- Allora perché la metti? –
- Lo sai perché –
Amedeo si concesse un sogghigno. Lieve.
- Non si è ancora tolto? -
- Il pennarello era indelebile –
- Non è neanche sbiadito un pochino? – ridacchiò il
rosso sotto i baffi.
Marco non rispose, aggiustandosi ancora una volta la
sciarpa rossa.
- ‘Stasera la maratona è
confermata? –
- Non cambiare discorso –
- Mi sto semplicemente informando – si strinse nelle
spalle Marco, l’espressione angelica.
- Sì – si arrese Amedeo – Sì, tutto confermato
–
- Casa tua? –
- Certamente –
- Perché non la facciamo da me, questa volta? –
ghignò Marco, il sorriso saputo.
- Siete in troppi in quella casa –
- Per questo non ci vieni mai? –
Amedeo fremette, le labbra che impallidivano
impercettibilmente:
- Cosa vuoi sentirti dire? – sibilò, scuro in volto.
- Non fare così – lo rimbrottò l’amico,
sollevando leggermente le mani – Stiamo soltanto parlando –
- Durante la mia lezione, ci terrei a sottolineare –
Si voltarono entrambi verso la cattedra, presi in
contropiede. E sorrisero.
- Professore! – esclamò Marco, l’espressione
più innocente del mondo.
- Già – sorrise quello, pacato – Ci sono
anch’io –
- Lo sappiamo, certo – intervenne Amedeo, annuendo
anche per sottolineare il concetto.
- Non che la cosa deponga a vostro favore – ribatté
il professore, aggiustandosi gli occhiali sul naso – Sapete almeno qual è
l’argomento della lezione di oggi, o la vostra è semplice presenza
fisica? –
I due si guardarono un attimo, questione di un istante,
poi tornarono a fissare il professore. Sereni.
- Letteratura italiana – rispose Amedeo.
- Decisamente – approvò Marco.
Il professore sospirò, un mormorio divertito che si
diffondeva nell’aula.
- Che ne dite di venire qui?
– chiese allora, il tono che si faceva più
serio, quasi duro.
- Lì? –
- Alla cattedra, intende? –
- Sì. Qui. Alla cattedra –
Nuovo scambio di sguardi, più veloce del precedente. Nuovi
sorrisi. Terribili, semplicemente terribili.
- Perché? – chiesero in coro, spalancando
innocentemente gli occhi.
- Per parlare un po’, tutto
qui – si strinse nelle spalle il professore.
- Della maratona di questa sera? – domandò Amedeo.
- Guardi che parlavamo benissimo anche da qui –
aggiunse Marco nello stesso momento, imperturbabile.
Le labbra del professore tremarono leggermente, gli angoli
che per un istante accennarono impercettibilmente a tendersi verso
l’alto. Scosse il capo, facendo un ultimo tentativo:
- E se parlassimo un po’ di letteratura italiana,
invece? -
Lo scambio di sguardi questa volta non fu necessario.
- E se rimandassimo alla prossima volta, invece? –
fece Marco, nicchiando con la testa.
- Manca davvero poco alla fine della giornata, sa? –
continuò Amedeo.
- Meno di venti minuti – rincarò Marco, sbattendo
ripetutamente le ciglia scure.
- Le va un caffè, per caso? –
- Lo andiamo a prendere immediatamente –
- Offriamo noi, è chiaro –
Il sorriso scappò, intrattenibile. Si affrettò a
reprimerlo, le labbra che si piegavano in un broncio irritato.
- Poco zucchero – borbottò il professore – E
una confezione di cracker -
Marco annuì, balzando in piedi e dirigendosi a passo
spedito fuori dalla porta.
- Arrivano subito – sorrise magnanimo Amedeo,
seguendolo a ruota.
- Il solito? -
Andrea sorrise, massaggiandosi le tempie:
- Sì, grazie -
- Mal di testa? – domandò Sofia, inclinando
leggermente la testa di lato.
- Giusto un pochino –
Si voltò, osservando rapidamente i tavolini alle sue
spalle: individuò facilmente quello che gli interessava.
- Spettegolano come al solito? – s’informò,
giocando con le bustine dello zucchero.
- Sì – annuì Sofia, aggiustandosi i capelli –
E fino a dieci minuti fa facevano sempre il tuo nome –
- Lo immaginavo – mugugnò lui – Sembra non abbiano
altri argomenti di conversazione –
- Non si può dargli torto del resto –
Andrea sollevò il viso, sorpreso: cercò di incontrare gli
occhi della ragazza ma lei li teneva fissi sul bancone.
- Sei un argomento molto interessante, no? –
sussurrò Sofia, le gote che si infiammavano.
- Io… - balbettò il biondo, aprendo e chiudendo
velocemente la bocca – Lo sai, non… -
- Non sei interessato – concluse per lui la ragazza.
- No – espirò Andrea, l’espressione contrita
– Mi dispiace, davvero –
- Figurati – esclamò lei, alzando la voce e
sollevando il viso – Il tuo amico, invece? Di lui che mi dici? –
- Salvatore? – sorrise Andrea, grato – Non
saprei dirti, ma potrebbe non essere il buon partito che sembra –
- E’ pericoloso come te? –
- Io non sono pericoloso –
- Lo credi tu –
Sofia gli porse il contenitore con il caffè e arricciò le
labbra, l’espressione divertita:
- Arriverà il giorno in cui sarai interessato –
mormorò, tenace.
- Non credo – ridacchiò appena Andrea, scuotendo la
testa.
- Io non perdo le speranze –
Camminando a marcia indietro Andrea si strinse nelle
spalle, ammiccando lievemente. Arriverà il giorno in cui mi sputerai nel caffè,
pensò con un briciolo di preoccupazione.
- Ci prova ancora con te? -
- Non accenna a demordere, purtroppo – annuì,
prendendo posto di fronte ai due.
- E’ un bel bocconcino – commentò Salvatore.
- E’ completamente ceca – ribatté Federica,
roteando gli occhi – Com’è possibile che non abbia ancora afferrato
il lieve particolare riguardante il tuo essere gay? –
- Perché non ci provi? – fece Salvatore, riflettendo
– Potresti scoprire che non ti dispiace –
- Non mi ascolti, allora – sbuffò Federica –
Il fatto che è gay non lo prendete proprio in considerazione? –
- Ho detto provare, solo provare. Come fa a sapere che non
è interessato se non ci prova? –
- Lo sa perché è gay – sillabò lei.
- Non può dire che qualcosa non gli piace se prima non
l’assaggia –
Federica inarcò un sopracciglio, fissandolo con vivo
disappunto; fece per aprire bocca, prontamente interrotta da Andrea:
- Di cosa parlavate? – chiese, sorridendo come se
niente fosse.
- Di te –
- Non abbiamo altri argomenti in comune, purtroppo –
- Non interessanti quanto te –
Andrea sorseggiò il caffè, lanciando un’occhiata
all’orologio:
- E quando non sarò più così interessante? -
Federica ridacchiò, scuotendo lievemente il capo come se
avesse appena detto una barzelletta. Diede di gomito a Salvatore che rise a sua
volta, sinceramente divertito:
- Come può accadere, Pinolo? -
- Tu non puoi diventare noioso, capisci? – sorrise
Federica – Semplicemente non puoi –
- Sarebbe contro la tua natura – rincarò
l’amico – E’ più forte di te fare una cazzata dopo
l’altra –
- Vi ringrazio – chinò il capo Andrea – Le vostre dolci parole mi rinfrancano sempre –
- E’ la dura verità –
- Non puoi farci niente –
- Anche voi non siete da meno, però – borbottò lui
– Perché allora si parla sempre e solo di me? –
Federica aggrottò le sopracciglia, tamburellando
nervosamente sul tavolo.
- Visto? – saltò su il biondo – Avevo ragione!
-
- Cosa? –
- Che hai combinato? – esclamò, ignorando
l’espressione basita di Salvatore.
- Non ho combinato un bel niente! – sbottò Federica,
fulminandolo con lo sguardo – Sasà, aiutami tu –
- Se è uscito di cotenna non posso farci un bel niente
– fece spallucce lui.
- Ha tamburellato con le dita! – gesticolò Andrea
– Ha tamburellato! Quando tamburella c’è sempre qualcosa che non
va! Ho ragione, vero? Sì, che ho ragione! Che hai combinato,
Fede?! Cosa… -
Si interruppe, le parole che gli morivano in gola non
appena si rese conto degli sguardi degli amici fissi su di sé:
- Che… che c’è? – balbettò, non capendo.
E poi se ne accorse. Nella foga di gesticolare aveva
alzato anche il braccio sinistro: quello che aveva tenuto per tutto il tempo
fermo, immobile sotto il tavolo. Quello che si era ben premurato di nascondere.
Invano.
Si ricompose, poggiando i gomiti sul ripiano e arricciando
le labbra con disappunto:
- Sì – annuì fra sé e sé – Questa è
l’ultima cazzata, temo -
- Per questo non ci vieni mai? -
Amedeo si appoggiò al muro, un sogghigno esasperato che
gli piegava le labbra:
- Come? Come diavolo fai, me lo spieghi? -
- A fare cosa? –
- A riprendere esattamente lo stesso discorso, nello
stesso momento, con le stesse parole –
Marco si strinse nelle spalle, poggiandosi al suo fianco:
- Non lo so – borbottò poco dopo – Credo sia
un’abilità innata -
- Già –
- Dobbiamo prendere il caffè – mormorò Marco
lanciando un’occhiata alla macchinetta poco lontana.
- E i cracker –
- E tu devi rispondermi –
- Sei insopportabile! – scattò Amedeo, assestandogli
un pugno sulla spalla – Quando io cerco di parlare con te di qualcosa di
serio non riesco a cavarti una parola di bocca, perché poi io dovrei risponderti,
allora?! –
- Quando mai tu cerchi di parlarmi di qualcosa di serio?
–
- Sono serio, Marco –
- Siamo passati ai giochi di parole? –
- Di chi è quel numero che hai tatuato sul collo? –
- Di un amico –
- Vedi? Vedi?! Tu non rispondi io
non rispondo – e si alzò in piedi, inserendo le monetine
nell’apposita fessura.
- Si chiama Andrea –
Amedeo fece finta di non aver sentito, il piede che
batteva ritmicamente sul pavimento. Attendeva.
- Siamo usciti insieme sabato sera -
- E…? –
- E niente. C’era Silvia con noi – borbottò
Marco, serrando le labbra.
- Non sei il tipo che si fa fermare dalla presenza di una
bambina –
- Ci ha bloccati un suo amico – soffiò allora
– Contento? –
- Non direi –
- Deo! Che altro vuoi? –
- Che non mi parli solo di stronzate! –
- Non lo faccio! –
Il caffè cominciò a uscire, riempiendo il bicchierino di
carta. Respirarono entrambi, cercando di calmarsi.
- Carte scoperte? - chiese Marco quando la tensione sembrò
essersi allentata.
Amedeo annuì, le dita che giocavano con i boccoli rossi.
- Perché non vieni più a casa mia? -
- Lo sai il perché –
- E tu sai come la penso – ribatté rapido Marco, lo
sguardo acceso.
- Non mi interessa –
- Ti piace Rebecca –
- E’ soltanto una cotta, per l’amor del Cielo!
–
- Non è vero –
- Da che parte stai, si può sapere? –
Marco sembrò riflettere su quella domanda, un silenzio di
pochi istanti che aleggiava fra di loro:
- Dalla mia, mi pare ovvio –
- Non posso provarci con tua sorella – sbottò Amedeo
– Non dovrebbe nemmeno piacermi, se è per questo! –
- Cosa vai farneticando? Ti ho detto che a me sta bene,
Deo! E poi… io tuo fratello l’ho palpeggiato, tu non te la sei mica
presa, no? Non hai fatto una piega –
- Ti ha dato un pugno – gli rammentò il rosso
– La piega l’ha fatta lui –
- Questo cosa c’entra,
adesso? –
- Hai tirato tu in ballo l’argomento –
- Stavamo parlando di Rebecca – riprese Marco
– A me sta bene se… -
- E’ a me che non sta bene –
- Perché? –
- Perché se qualcosa dovesse andare storto tu dovresti scegliere da che parti schierarti – fece
Amedeo, il tono piatto, senza guardarlo negli occhi. Sospirò, carezzandosi il
mento:
- E tu chi sceglieresti, eh? – sorrise tristemente
– Il tuo amico o tua sorella? –
Marco non rispose, improvvisamente a corto di parole.
- Quante volte sei uscito con questo Andrea? -
- Una… - biascicò lui, grato del repentino
cambiamento – Solo sabato –
- E quand’è che ti ha tatuato il numero, allora?
–
- Non era una vera uscita, quella –
- Da quanto vi vedete, allora? –
- Lo sai che usi allora come intercalare, Deo?
Diventi ripetitivo –
- Quanto? –
- Meno di una settimana, credo. Non è che conto i giorni,
lo sai? -
- Quanti anni ha? –
- Una ventina –
- Quanti? –
- Ventitre, mi sembra – sospirò, prendendo il caffè
e facendogli cenno di prendere i cracker.
- Lo sa che non sei ancora maggiorenne? –
- Perché voialtri vi fate tanti problemi per l’età,
eh? E’ solo una questione anagrafica alla fin fine –
- Allora? –
Marco sorrise, roteando gli occhi:
- Allora? Allora sì, lo sa. E sa anche che mercoledì
compio i diciotto -
- Oh – fece Amedeo, cambiando improvvisamente
espressione – Hai già qualche idea per mercoledì? –
- Non ancora – rispose lui, aprendo la porta.
Senza fiatare posarono caffè e cracker sulla cattedra, un
ultimo sorriso al professore e tornarono spediti ai loro posti. Cinque minuti
alla campanella.
- Cinema? – propose Amedeo a bassa voce –
Faro? -
Marco scosse il capo, rifiutando entrambe le proposte;
strinse una pallina fra due dita e prese la mira: dopo un istante sembrò
ripensarci e la prese di nuovo, spostata leggermente a sinistra.
La pallina spiccò il volo e centrò il cestino.
- Fa male? – guaì Federica, carezzandogli la mano.
- Certo che fa male – grugnì Salvatore – Si è
slogato il polso, sicuro non gli fa bene –
- Non è niente –
- Come ho fatto a non vedere la fasciatura? –
gemette lei, gli occhioni chiari spalancati.
- La nascondeva, l’idiota.
Si può sapere come… -
- Stavo cadendo – lo interruppe Andrea, stringendosi
nelle spalle.
- Stavi cadendo – ripeté Salvatore, inarcando le
folte sopracciglia scure – Da dove, di grazia? –
- Una casa sull’albero –
- E cosa ci facevi su una casa sull’albero? –
- Mungevo una mucca – ribatté acido il biondo
– Cosa ci dovevo fare, eh? –
- Non soffrivi di vertigini, tu? – s’intromise
di colpo Federica, l’espressione assorta.
- Sì che soffre di vertigini, lui – soffiò Salvatore
– Quello che mi chiedo è quand’è che hai perso anche gli ultimi
neuroni funzionanti – ringhiò poi in direzione dell’amico.
- Solo perché sono salito su un albero? –
- No. Perché stavi cadendo da quell’albero –
- Non è che l’ho fatto apposta –
- Non è colpa sua, infatti! – esclamò Federica,
continuando a tenere gentilmente il polso fasciato fra le mani.
- E’ colpa di chi ce lo ha fatto salire –
Andrea si zittì, la presa di Federica che aumentava mentre
la comprensione si faceva strada sul suo volto.
- Oh! – scattò, sbattendo più volte le ciglia e
lasciando andare immediatamente il polso.
- Ahi – biascicò il biondo, una smorfia di dolore
che gli piegava le labbra.
- Stiamo parlando di Marco? – si stupì Federica,
ignorandolo totalmente – E’ con lui che… la casa...
l’albero… no, un momento, devo raccogliere le idee. Non ci sto
capendo più niente –
- Non mi ha costretto a salire – disse Andrea,
rivolgendosi all’amico.
- Lo hai fatto, però –
- Di mia volontà e in pieno possesso delle mie facoltà
mentali –
- Sulla seconda parte ho dei dubbi da sempre –
- Volete aspettarmi, per cortesia? – esclamò
Federica, contrariata – Non osate escludermi, eh! –
- Quindi stavi cadendo – riprese Salvatore,
ignorandola.
- Sì –
- Così, per caso –
- Devo aver messo un piede in fallo – borbottò lui
– Non era un tentativo di suicidio se è a quello che vuoi arrivare
–
- Non era mia intenzione –
- Non era nemmeno un tentato omicidio –
- Ne sei sicuro? – ghignò Salvatore, gemendo
sottovoce per il pizzico che Federica gli aveva rifilato.
- Mi ha preso lui –
- Prego? Siamo passati a descrivere una qualche attività
sessuale? –
- Sasà! – sbottò Andrea, inviperito – Mi ha
evitato una gran brutta caduta, okay? L’unico danno è stato al polso ma
non poteva essere altrimenti, no? –
- Quindi ora sei anche in debito con lui? –
- Per l’amor del cielo! Che problema hai con quel
ragazzino, si può sapere? –
- Nessun problema –
- Un attimo, un secondo, un istante! – eruppe
Federica, ottenendo finalmente il silenzio.
Fissò Andrea con gli occhioni luccicanti e squittì:
- Ti ha salvato lui? -
Salvatore sospirò esasperato, alzandosi in piedi e
lasciando una banconota da cinquanta sul tavolo:
- Devo andare – borbottò, accennando un saluto con
il mento.
Andrea chiuse gli occhi, reclinando il capo
all’indietro:
- Ah, Sasà – mugugnò, prendendo un bel respiro.
- Ti ha salvato lui? – ripeté Federica, ignorando
tutto il resto – Davvero? –
Le luccicavano gli occhi, le labbra tese leggermente in
avanti mentre gli afferrava di nuovo la mano:
- Allora? -
- Sì – rispose Andrea, arrendendosi – Sì, è
stato lui. Mi ha preso per il polso quando già mi stavo preparando a un duro
scontro con il terreno –
- Oh, oddio, oddio, oddio! – sussurrò Federica, gli
occhi che si riempivano di lacrime – Dolci, voialtri siete così
dannatamente dolci! – esclamò, scoppiando definitivamente a piangere.
Andrea annuì fra sé e sé, piegandosi verso di lei:
- Ora mi racconti cos’è successo? - le domandò
sottovoce, alzandole il mento con la mano libera.
- Niente – biascicò lei, le lacrime che continuavano
a rigarle il viso.
- Sto aspettando, Fede –
- Niente –
- Non fare così – ridacchiò Andrea, avvicinando la
sedia alla sua e avvolgendola con un braccio non appena fu scossa da un
singhiozzo – Io ti racconto tutte le mie sventure, no? –
- Non è la stessa cosa – borbottò lei, tirando su
con il naso.
- Ah, no? –
- No – e poggiò il capo sulla spalla
dell’amico – Una cosa è quando succedono a te e tutt’altra e
quando invece succedono a me –
- Hai ragione – rise lui, accarezzandole i lunghi
capelli castani.
- Poi mi diresti te l’avevo detto –
piagnucolò lei – Sai che non lo sopporto –
- Non lo avrei detto – la corresse Andrea –
Non adesso che stai piangendo, almeno. Dopo sicuramente –
Una risatina le scappò dalle labbra tremanti:
- Giusto – sorrise incerta – Quindi ascolterai
in silenzio? -
- Non prometto niente –
- Gli è squillato il cellulare, ieri sera –
singhiozzò Federica, parlando a scatti – Lui era in bagno, così…
così mi sono permessa di rispondere –
- Mai rispondere al cellulare altrui – borbottò
Andrea, poggiandole le labbra sui capelli.
- Zitto – intimò lei, asciugandosi le lacrime con il
dorso della mano – Siete tutti stronzi, voi uomini! Tutti
la stessa dannatissima razza di stronzi! –
- Siamo passati alla rabbia? –
- Ho risposto e una voce femminile ha chiesto di lui,
capisci? Una donna! –
- Non ti ha sfiorato l’idea che potesse essere la
madre, la zia, la sorella… la nonna, che so? –
- Languida, strafottente – continuò lei, ignorandolo
totalmente – L’ho mandata a quel paese e ho aspettato che tornasse
per chiedergli spiegazioni –
- Dov’eri? –
Federica si sollevò appena, l’espressione sorpresa:
- In cucina, perché? -
- Avevi un coltello in mano, non è vero? Voi donne tendete
sempre a tenere in mano oggetti contundenti –
- La smetti di fare il cretino? – sbottò lei,
assestandogli uno spintone.
- Ce lo avevi il coltello, però, vero? –
- Vuoi sentire il resto o no? –
- Ha confermato di avere un’altra donna –
E gli occhi tornarono a inumidirsi, ingrandendosi come
quelli di Bambi:
- Sì –
- Tu avevi un coltello in mano, però – affermò lui,
sicuro – Altrimenti non si spiega un’ammissione di colpa così
rapida –
- Sì, sì, sì – sbottò Federica – E
gliel’ho pure lanciato contro, se è per questo! –
- Oh – fece Andrea, abbassandosi verso
l’orecchio di lei e cominciando a bisbigliare – Ti serve una mano
per occultare il cadavere, per caso? –
- No, grazie – rise lei, accomodandosi meglio contro
di lui – Sarà per la prossima volta –
Andrea la strinse un po’ di più, limitandosi ad
annuire.
- Parla, dai – sussurrò lei senza spostarsi di un
centimetro.
- Non mi preferivi muto come un pesce? –
- E’ l’unica opportunità che ti do –
- Allora parlo – decise il biondo, schioccando la
lingua e raggruppando i pensieri. Era sempre stato difficile affrontare quelcon Federica: sempre lo stesso, ogni volta più duro.
Non poteva evitarlo, però.
- Dai troppa fiducia, troppo
presto. Ti concedi totalmente, non devi fare così. Non sono tutte brave
persone, lo hai capito ormai, no? Non esistono i principi azzurri delle favole.
Così come non ci sono persone perfette. Devi solo impegnarti a cercare quella
con meno difetti, okay? Quella i cui difetti imparerai ad amare… se
continui a dare tutta te stessa ogni volta, piccola mia, non potrai fare altro
che uscirne ferita. Sempre –
Federica aveva chiuso gli occhi, la convinzione che quelle
parole non fossero altro che un mucchio di stronzate.
Un fondo di verità c’era, per carità. Niente più che
un fondo, però.
Sospirò, guardandolo dal basso in alto e sussurrando:
- La prossima volta prendo meglio la mira -
§
Aumentate sempre, lo sapete?
Com’è possibile, mi chiedo. Cioè: parliamo di una storiella malsana e
alquanto perversa, con due rincitrulliti che insieme non fanno un cervello e un
branco di mentalmente instabili che fanno da contorno… com’è che vi
attira in così tanti, eh? In caso di perdita del senno non voglio avervi sulla
coscienza, mi raccomando u.u
Detto ciò, aggiungo solo un’ultima cosa: grazie.
Grazie per la vostra dolcezza, per il supporto che mi date e le risate che
riuscite a strapparmi *-*
Non smettete mai,
- Salve – rispose – Ha dei bellissimi occhi,
lo sa? -
La ragazza sorrise a sua volta, le ciglia scure che si
piegavano all’ingiù con fare timido:
- Oh, che galante – ridacchiò, nascondendo dietro il
palmo della mano due morbide labbra rosse – Posso fare qualcosa per lei?
– domandò poi, sciogliendosi i capelli.
Andrea osservò i lunghissimi capelli neri caderle sulla
schiena, come una cascata.
- Sì – biascicò, la gola asciutta
– Sì, vorrei vedere Salvatore. E’ in casa? -
- Certo – confermò lei, facendosi da parte per
lasciarlo entrare – L’ho lasciato sul divano –
- Grazie – sorrise ancora Andrea, affrettandosi
verso il salone senza girarsi indietro.
Percorse rapidamente i corridoi conosciuti, la mano destra
affondata nella tasca della giacca e quella sinistra abbandonata lungo il
fianco. Guardava fisso davanti a sé, i pensieri che gli si affollavano nella
mente.
Giunse nel salone senza neanche rendersene conto: fu
l’audio del televisore a riportarlo alla realtà, cogliendolo impreparato;
sollevò lo sguardo sullo schermo che occupava quasi interamente la parete e
riconobbe la scena finale del film Frankenstein Junior. Scosse impercettibilmente il
capo, crollando a sedere sul divano:
- Mi ha aperto una ragazza tutta nuda, Sasà -
- Carina, eh? – annuì l’amico, passandogli una
lattina di birra senza distogliere lo sguardo dal film – Mi ricorda
Pocahontas. Lo sai che mi sono sempre piaciuti i cartoni della Disney –
- Vero – approvò Andrea, allungando le gambe sul
tappeto e togliendosi le scarpe.
- Che poi – cominciò Salvatore – mi ero
dimenticato di averla lasciata qui, stamattina –
- Ti ha aspettato? –
- Oh, sì. L’ho trovata ancora nel letto –
Andrea sorseggiò la birra, una risatina che gli sfuggiva
di bocca:
- Non ti sei ancora stancato di questo film? -
- Lo
rivedrei all’infinito – ribatté lui, scuotendo il capo –
Questo e A qualcuno piace caldo –
- Che ti
è preso prima, Sasà? –
Salvatore
assottiglio lo sguardo, le dita che rafforzavano la presa attorno alla lattina:
- Niente
-
- Ancora non capisco perché la gente si ostina a dire niente
quando intende tutto. Te ne sei andato nel bel mezzo del discorso, non
lo fai mai e lo sappiamo entrambi: a te piace avere l’ultima parola. E te
la sei presa con Marco, non capisco perché. Che ti ha fatto? –
- Niente – sussurrò Salvatore, posando la birra e
passandosi le mani sul viso con fare stanco – Davvero, non so cosa mi è
preso. Ero nervoso, tutto qui. E me la sono presa con voi: con te, con Marco,
persino con Federica. Mi dispiace, davvero. Ho ignorato lei e ho tartassato te
–
- Questo lo so. Volevo sapere come mai –
- Non lo so! – sbottò lui – Non lo so perché
ero nervoso. C’è che tu stai uscendo con quel ragazzino, ecco! –
- E allora? Non è la prima volta che esco con qualcuno, lo
sai, vero? –
Quando Salvatore non rispose, Andrea rincarò la dose:
- Non sono più nemmeno vergine – sussurrò a
mo’ di confessione.
- La smetti di fare il cretino? –
- Hai cominciato tu –
- La fai sembrare una cosa seria –
- Cosa? – domandò Andrea, l’impressione di
aver perso un passaggio – La… conversazione? –
- La tua relazione! –
- Ma quale relazione?! Non ho
nessuna relazione! –
- Marco! – sibilò Salvatore – Ci
dev’essere una qualche relazione se tutte le volte che vi siete visti
siete stati sul punto di farlo! –
- Non è una relazione! –
- E’ comunque qualcosa di più serio del normale!
–
- Va tutto bene? – intervenne una voce femminile,
pacatamente.
Si voltarono entrambi verso la giovane Pocahontas: esibiva
ancora un magnifico nudo integrale e un candido sorriso. Li fissava, attendendo
una risposta:
- Ho sentito delle urla e… - provò allora, un
leggero rossore che le colorava le guance.
- Va tutto bene – rispose Salvatore, accennando un
sorriso alquanto tirato.
Lei annuì e scomparve rapidamente, una scia profumata
dietro di sé.
Andrea scoccò uno sguardo all’amico e strinse le
labbra:
- Non è una relazione! – sbottò subito dopo come se
non fossero stati interrotti.
- Sì, invece! Sei tu che ti ostini a negarlo anche a te
stesso –
- E se anche fosse? –
- Come? –
- Se anche fosse una qualche sottospecie di relazione, mi
dici dov’è il problema? –
- Stai dicendo che è così? –
- No – ringhiò il biondo – Ti sto chiedendo
cosa ci sarebbe di sbagliato –
- Tu –
Andrea arretrò impercettibilmente, momentaneamente a corto
di parole:
- Come, scusa? – domandò incerto – Io? -
- Perché… perché tu dovresti averla e io no? –
- La… la relazione? Stiamo ancora parlando di
quello? –
- Sì, Pinolo, sì! – eruppe Salvatore, frustrato
– Perché tu dovresti meritare una relazione decente e io no?! –
- Sasà… -
- Perché?! Perché se n’è
andata? –
Andrea scosse la testa, allargando le braccia con fare
impotente:
- Non lo so -
- Dov’è che ho sbagliato, eh? Me lo spieghi? –
soffiò Salvatore – Tu sei lo stronzo! Sei tu quello che combina un guaio
dopo l’altro, non io! Ho fatto il bravo, te lo ricordi? Le ho dato tutto
quello che potevo e… -
Si interruppe, afferrando la lattina di birra con uno
scatto nervoso e portandola alle labbra tremanti con un gesto disperato. Andrea
restò immobile, ignorando gli insulti dettati dalla rabbia.
Non sapeva assolutamente cosa dire. Non aveva neanche uno
straccio d’idea.
- Sto bene -
Salvatore si accomodò meglio sul divano, gli occhi lucidi
fissi sui titoli di coda: si leccò le labbra secche e aprì una nuova lattina di
birra. Lanciò un’occhiata all’amico ancora immobile e ripeté:
- Sto bene, davvero – la voce più ferma –
Scusa per lo sfogo -
- Sasà… -
- Scusa anche per lo stronzo, sai che non… -
- Un po’ stronzo lo sono, in fin dei conti –
lo interruppe Andrea con un lieve sorriso.
- Anche questo è vero –
- Non lo so perché ti ha lasciato –
Osservò la schiena dell’amico irrigidirsi e quasi
rimpianse di aver pronunciato quelle parole.
- Ho sbagliato qualcosa? – chiese dopo un po’
Salvatore, sempre senza guardarlo.
- No – rispose sicuro Andrea – Assolutamente
no –
Lui annuì, cambiando svogliatamente canale:
- Cosa ti va di vedere? -
- Grey’s Anatomy –
- Ancora? – roteò gli occhi Salvatore,
accontentandolo comunque.
- Il dottor Bollore mi attizza che non ti dico –
- Dici che avremmo dovuto studiare? -
Marco sollevò uno sguardo a metà fra il sorpreso e
l’ilare:
- Parli seriamente? -
- No. Sì. Oddio, forse – borbottò Amedeo,
l’espressione concentrata – Tu che dici? –
- Che se anche avessimo fatto finta di aprire un libro non
ci avremmo comunque ricavato niente –
- Vero, eh? –
- E poi è la serata della maratona –
Amedeo annuì come se quella frase mettesse definitivamente
fine a tutti i suoi dubbi. Tornò a sdraiarsi ai piedi del divano e afferrò una
manciata di patatine:
- Sono finiti i popcorn? -
Marco gli passò la ciotola e scivolò al suo fianco, la
bocca piena di biscotti:
- Tua madre mi mette all’ingrasso quando vengo qui – biascicò, la nutella che colava all’angolo
delle labbra.
- E’ convinta che tu non mangi abbastanza –
- Perché? –
Amedeo si strinse nelle spalle, lanciandogli la panna
spray: Marco la afferrò al volo e ne ingurgitò una dose più che abbondante
prima di passarla nuovamente all’amico.
- E dopo che lo hai preso? – domandò Amedeo,
abbassando leggermente il volume del televisore.
- L’ho accompagnato al pronto soccorso –
- Hai guidato tu? –
Marco annuì, aprendo una bottiglia di birra e passandone
un’altra ad Amedeo.
- E se vi avesse fermati la polizia? -
- Non è successo – si strinse nelle spalle lui,
guardandolo di sbieco – A proposito di sabato sera, poi… -
Amedeo fece finta di niente, aprendo a sua volta la birra.
- Mi ha portato alle corse clandestine -
E non poté più far finta di niente.
- Co… come? –
- Partecipa spesso, a quanto pare – spiegò
tranquillo Marco – Mi ha fatto anche provare, lo sai? –
- Dove? –
- Poco fuori città –
- E…? –
- E niente. Sono uscito di strada per colpa di un procione-non-procione, l’ho sdraiato sul sedile
posteriore e sul più bello il suo amico spilungone ci ha interrotti –
- Certo che come riassumi tu, nessuno – sogghignò
Amedeo, sinceramente divertito.
- Tocca a te –
Marco sfregò le mani l’una contro l’altra e
fissò l’amico con sguardo acceso:
- Perché non ci provi con Becca? -
- Te l’ho già detto – sbuffò il rosso –
Credevo di averti convinto –
- No – scosse il capo Marco – Mi inizia a
piacere davvero l’idea di voi due assieme –
- Non ti capisco proprio! Cioè tu, in qualità di fratello,
non dovresti essere protettivo e cose del genere? –
- Lo sono. Per questo preferirei vederla fra le tue
braccia e non fra quelle di… -
- Sta con qualcuno? – saltò su immediatamente
Amedeo.
Il sogghigno di Marco fu una risposta più che sufficiente.
- Ti odio quando sorridi a quel modo – borbottò il
rosso – Mi ricordi lo Stregatto, il che è alquanto inquietante, sappilo -
- Sei terribilmente cotto –
- Non sono affaracci tuoi –
- Non lo stai negando –
- Sarebbe inutile –
- Perché è vero –
Amedeo si passò le mani sul viso, indugiando sugli occhi:
discutere con Marco era sempre estenuante.
- Mercoledì, quindi, la eviterai? -
- Come? –
- Ho deciso per una festicciola a casa mia – lo
informò placidamente Marco, stringendosi nelle spalle – Niente di
esagerato, comunque, cercheremo di non superare il centinaio –
- Pochi intimi, allora – ridacchiò Amedeo, ignorando
la domanda precedente.
- Infatti –
- E tua madre? –
- Va a dormire da un’amica –
- Silvia? –
- Non ho ancora deciso – mugugnò Marco,
l’espressione assorta – Dici che sarebbe pericoloso farla restare?
–
Amedeo finse di pensarci, un sorriso a stento trattenuto:
- Tu prova a immaginare la festa – rispose
cautamente – Cosa vedi? -
- Oh –
- Quindi Silvia? –
- Maggiore è il numero di chilometri fra noi e lei, meglio
è –
- Saggia decisione –
Un rumorio di passi attirò la loro attenzione,
sorprendendoli: si voltarono, incontrando il sorriso smagliante della madre di
Amedeo; lei inclinò il capo, osservando divertita il tappeto ricoperto di
dolciumi e cibi vari:
- State rischiando l’indigestione? – domandò, incrociando
le braccia al petto.
- Come al solito, signora Clara – rispose Marco a
bocca piena, annuendo soddisfatto.
- Stai uscendo, mamma? –
- Sì – rispose lei, facendo tintinnare le chiavi fra
due dita – Tuo padre mi ha proposto di cenare fuori: dice che anche solo
guardarvi mentre vi ingozzate non fa bene al suo diabete –
- Ha ragione, temo – approvò Marco, spruzzandosi una
nuova dose di panna in gola.
- Divertitevi – ridacchiò Amedeo – E non fate
le ore piccole, mi raccomando –
Lei scosse il capo, allontanandosi con un sorriso
esilarato.
- Hai visto il mio cellulare?– bofonchiò qualche
minuto dopo Marco, frugandosi inutilmente nelle tasche vuote. Continuò a
cercare anche nella giacca, quindi sul divano:
- Dove diavolo è finito?! –
sbottò – Non è che l’ho lasciato a casa? –
Amedeo ignorò quasi interamente la pantomima, limitandosi
ad afferrare il telefonino che era placidamente scivolato sul tappeto:
- Chi devi chiamare? - domandò, cominciando a trafficare
con i piccoli pulsanti grigi.
- Chi vuoi tu – si strinse nelle spalle Marco
– L’importante è che avverta qualcuno, per Silvia sai. In casa mia
se non avverti con almeno un giorno di preavviso puoi andare direttamente a
farti fottere –
Amedeo annuì e premette il tasto di avvio alla chiamata.
Quindi passò il telefono a Marco.
- Mi passi un altro cuscino? -
Andrea si sporse verso la poltrona più vicina e agguantò
un cuscino bordeaux: lo lanciò a Salvatore, colpendolo sul naso; lui non fece
una piega, sistemandoselo dietro la testa e sgranchendosi la schiena.
- Ha avuto una semi crisi
isterica , lo sai? -
Lui si voltò lentamente,
l’espressione distante:
- Stavamo parlando? – domandò fissando Andrea
– Oddio, devo essermi perso un passaggio -
- Federica – spiegò il biondo, scuotendo la testa
– Quando te ne sei andato –
Salvatore inarcò le sopracciglia e abbassò il volume del
televisore:
- Quante volte te l’ho detto,
Pinolo? – borbottò, redarguendolo – Quando cominci una
conversazione devi per prima cosa stabilire un qualche contatto con
l’altra persona; e poi, per l’amor di Dio, ordina la frase:
soggetto, verbo, complemento oggetto. Roba da elementari, hai presente? -
Andrea sbuffò, limitandosi a bere l’ultimo sorso
della sua birra e a riportare lo sguardo sul dottor Bollore.
- Si è messa a piangere – fece spallucce Andrea
– Così, di colpo. Ha cominciato a singhiozzare –
- Non mi dire – s’impressionò Salvatore
– E io mi sono perso la scena? –
- Non fare lo stronzo –
- Era solo una costatazione –
- Cattiva –
- Tu non fare il maestrino – gli puntò il dito
contro l’amico – Perché, poi, ha aperto le dighe? –
- Non sono affari tuoi – sibilò Andrea.
- Hai cominciato tu a parlarne! – eruppe incredulo
l’altro.
- Era solo per testare le tue reazioni –
Salvatore assottigliò lo sguardo, l’espressione
concentrata mentre osservava attentamente il biondo:
- Sei già ubriaco, non è vero? -
- Volevo sapere se tu sapevi –
- Sapevo cosa? –
- Quello che a quanto pare non sai – rispose con
fare ovvio Andrea.
- Cos’è che non so? – domandò ancora
Salvatore, scandendo piano le parole.
Andrea si piegò verso di lui, le labbra arricciate:
- Non parlarmi come se fossi ubriaco -
- Io so che lo sei e lo sai anche tu – sorrise
l’amico – Ora dimmi cos’è che non so –
- Il motivo per cui Federica si è messa a piangere –
Salvatore inclinò il capo di lato, pensieroso:
- Perché mai dovrei saperlo? -
- Non fate altro che spettegolare, voi due! –
esclamò Andrea – Credevo davvero che lo sapessi! –
- Quand’anche spettegoliamo – sospirò
l’altro – sei tu l’oggetto della conversazione. Non parliamo
d’altro, ti giuro. Scherziamo su di te, prendiamo in giro te…
nient’altro –
Andrea assunse un’espressione incredula, sgranando
gli occhi e balbettando:
- Io… credevo… ero convinto che foste amici! -
- Non proprio – si strinse nelle spalle Salvatore
– Abbiamo un amico in comune, piuttosto –
- E questo non vi rende amici? –
Salvatore nemmeno rispose: con un sogghigno divertito si
girò di nuovo verso lo schermo e i dottori in camice bianco. Doveva ammettere
che la dottoressa bionda non era poi tanto male.
- Dovresti provarci – borbottò Andrea dopo un
po’.
- Mmm? –
- A essere suo amico –
Salvatore scosse la testa.
- Perché no? –
- Ho già un amico e sono troppo vecchio per provare a
farmene altri –
Sperò di aver chiuso la conversazione, ma la voce di
Andrea lo riscosse ancora, ostinata:
- Federica è più grande di te -
- Davvero? – si sorprese Salvatore, sinceramente
stupito – Quanti anni ha? –
- Ventotto – fece Andrea – Un anno più di te,
eppure è diventata mia amica –
- Le donne sono sempre più vitali degli uomini –
fece spallucce lui.
- E’ simpatica –
- Questo lo so: ti prende sempre per i fondelli –
- E’ dolce –
Salvatore roteò gli occhi, allargando le
braccia esasperato:
- Cosa vuoi che ti dica, Pinolo?
-
- Che proverai a essere suo amico –
- Ma perché? Non ne ho bisogno! Tu cosa ne ricaveresti,
poi? –
Andrea mise su il broncio, cercando nel frattempo di
trovare una risposta a quella domanda: sentì i vaghi e confusissimi pensieri
scontrarsi ripetutamente con la sua calotta cranica, la sensazione che uno
sciame di api avesse infestato il suo emisfero destro. Ebbe anche
l’impressione che qualcosa avesse starnutito, lì dentro.
- Per stasera basta con la birra – borbottò alla
fine, chiudendo gli occhi.
Poi gli vibrarono i pantaloni.
- Pronto? -
Marco socchiuse gli occhi quando la voce strascicata gli
penetrò nell’orecchio. Scoccò un’occhiata ad Amedeo e gli sembrò
decisamente troppo interessato al telefilm. Strinse i denti e imprecò a bassa
voce.
- Pronto? – ripeté Andrea distrattamente,
studiandosi con espressione critica il polso fasciato.
- Chi è? – gli chiese Salvatore, guardandolo di
sbieco.
Andrea si strinse nelle spalle e accennò con il capo al
proprio polso:
- Comincia a pulsarmi – mormorò all’amico,
dimentico del telefonino nell’altra mano – Dici che dovrei preoccuparmi?
E’ un brutto segno? -
- Come? Cos’è che pulsa? – rispose Marco nel
telefono, non capendoci più niente.
- Il polso! – esclamò Andrea improvvisamente confuso
– Ma con chi sto parlando? –
- Sei ubriaco, Drew? –
- Marco? –
- No, il principe Carlo! –
- Oddio, fosse stato il principe William non mi sarei
neanche lamentato –
- Sei ubriaco! – rise Marco
– Completamente! –
- Non è vero – cominciò Andrea, arricciando le
labbra – Solo un pochino, forse – aggiunse, ricordandosi del
neurone che starnutiva. Sollevò lo sguardo e incontrò quello attento e
divertito di Salvatore: fece spallucce e si concentrò nuovamente sulla
telefonata, se così si poteva definirla.
- Perché hai chiamato? – domandò, sinceramente
curioso.
- Io non… - borbottò il ragazzino, fulminando con lo
sguardo i ricci rossi di Amedeo - … ho sbagliato numero, scusa –
concluse, sospirando frustrato.
- Oh –
- Già. Allora ciao –
Andrea sollevò di scatto il capo, spalancando gli occhi:
- No, no, no! – esclamò – Aspetta -
Tornò cautamente a poggiare la testa sul divano:
- Chiacchieriamo un po’, no? Cioè… già che ci
siamo. Hai chiamato, no? -
- Perché invece non vai a letto e smaltisci la sbronza?
–
- Quale sbronza? – sorrise il biondo – E poi
non sono a casa mia –
- Ah, no? –
- No – ridacchiò Andrea, divertito dal tono teso
dell’altro – Sono sul divano di Salvatore –
- Allora è meglio che resti lì a smaltire –
- Concordo. Anche perché non credo di avere la forza di
alzarmi –
- E il polso? –
- Come? –
- Prima ne stavi parlando –
- Davvero? – si stupì Andrea, aggrottando le
sopracciglia e lanciando un’occhiata all’amico – Parlavo del
mio polso? – gli chiese a bassa voce.
Salvatore annuì, aprendo una confezione di biscotti:
- Dicevi che ti pulsava – rispose senza perdersi una
sillaba della conversazione.
- Oh, infatti – si ricordò il biondo – Mi
pulsa –
Marco sorrise, assestando un pugno all’amico non
appena vide un ghigno farsi strada sul suo volto:
- Credi che vada amputato? -
- Oddio, no! – inorridì Andrea – Fingi che non
abbia detto niente. Del resto mi pulsa anche la testa, ma non credo sia il caso
di decapitarmi –
- Per la testa temo sia colpa della sbronza –
- Potrebbe essere, sì –
- Come mai sei a casa di Salvatore? – domandò Marco,
la lingua più veloce del cervello.
- Bella domanda – mormorò il biondo, cercando di
riordinare le idee – Perché sono venuto qui,
Sasà? –
Salvatore non rispose, limitandosi a sorridere con una
faccia da schiaffi da manuale.
- Mah, davvero al momento non me lo ricordo –
ridacchiò Andrea – Tu, invece, che fai di bello? -
- Guardo Scrubs con Amedeo –
- Cosa guardi con chi? –
- Scrubs – ripeté Marco, scandendo le parole –
Con Amedeo –
- Scrubs? Amedeo? –
- Oh, Signore! Sei proprio fuori dai binari, lo sai?
– rise il ragazzino – Mai sentito parlare di Scrubs? Telefilm sui
medici, con JD, il dottor Cox, Carla, l’inserviente… -
- Oh! Ho capito! – esclamò Andrea, illuminandosi di
colpo – Non avrò visto più di un paio di puntate, però. Preferisco Grey’s
Anatomy, ti dirò –
- Ti prego, no! – rabbrividì Marco – Hai idea
di che capolavoro ti sei perso? –
- Mah – borbottò l’altro – Tu hai idea
di che dottori ti stai perdendo? –
- Sembri una ragazzina arrapata –
- Con il dottor Bollore davanti lo sembreresti anche tu
–
- Questione di gusti –
Andrea sorrise, l’impressione di aver dimenticato
qualcosa. Cos’è che aveva detto?
- Ah! -
- Cosa? Stai prendendo in considerazione la decapitazione?
–
- Amedeo –
- Che c’entra Amedeo? –
- Chi è Amedeo? –
Marco sogghignò, ignorando l’espressione
interrogativa dell’amico.
- Perché mi sento chiamato in causa? – sibilò
Amedeo, fissandolo stralunato.
- Un amico – rispose Marco.
- Amico amico o solo amico? –
- Non ti seguo, ti ho perso al primo amico –
- E’ il genere di amico cui accennava tua madre o il
genere di amico alla Sasà? –
- Non mi mettete in mezzo – soffiò Salvatore,
guardandolo di sbieco.
- Genere Sasà – ridacchiò Marco, chiudendo gli occhi
e reclinando il capo all’indietro.
- Allora perché non vieni qui?
–
- Come? –
- No, scusa – ritrattò subito Andrea –
E’ l’alcol a parlare –
- Devo chiudere, Drew –
- Di già? –
- Tu devi smaltire –
- Non c’è fretta –
Marco sospirò, scuotendo pigramente la testa:
- ‘notte, Drew -
- Domani che fai? –
- Non saprei – mormorò il ragazzino – Tu che
fai? –
- Siamo a fine gennaio: ho una specie di incontro
genitori-insegnanti, nel pomeriggio –
- Dev’essere interessante –
- Lo sarà se vieni a salutarmi –
- E’ sempre l’alcol a parlare? –
s’informò Marco, cautamente.
- In parte – ridacchiò Andrea – Per il resto è
tutto merito mio, non temere –
- Forse –
- Forse cosa? –
- Forse passo. Solo per un saluto, però –
- Perché c’è quel forse? Non ti va? –
La risata di Marco eruppe improvvisa, riscaldando l’orecchio
di Andrea:
- Parli un sacco quando sei brillo, lo sai? -
- Me lo dicono spesso –
- ‘notte, Drew –
- ‘notte –
E chiusero la chiamata.
- Brutto stronzo! -
Amedeo spalancò gli occhi con fare innocente, un candido
sorriso che gli piegava le labbra:
- Io? -
- Perché… perché diavolo lo hai fatto?! –
- Ti ho chiesto chi dovessi chiamare e tu mi hai risposto chi
vuoi tu, parole testuali –
Marco inarcò un sopracciglio, osservandolo con fare
blandamente interessato:
- Stai cacciando un lato bastardo, lo sai,
Deo? -
- Sei tu che tiri fuori il meglio di me – si strinse
nelle spalle il rosso, continuando a guardarlo con occhi accesi.
Si carezzò il mento, sgranchendosi la schiena:
- Eravate proprio due piccioncini – commentò poco
dopo, il sorriso che diventava un ghigno.
- Stronzo –
- Carini, pucciosi e coccolosi –
- Sempre stronzo –
- Cos’è, hai perso le parole? – ridacchiò
ilare – Se vuoi te lo richiamo –
- Devo andare in bagno – lo informò Marco,
ignorandolo e alzandosi in piedi – Per quando torno spero che il livello
di stronzaggine in questa stanza sia sceso parecchio, ne va della tua
incolumità –
- Non prometto niente –
Marco s’incamminò per il corridoio con la risata di
Amedeo che ancora gli rimbombava nelle orecchie. Espirò, aprendo la porta del
bagno con una mano e la patta dei pantaloni con l’altra. Sollevò la
tavoletta e si rilassò.
Fu solo dopo un po’ che se ne accorse: uno
scrosciare d’acqua. Trasalì, voltandosi in direzione della doccia:
- Che cos… - balbettò, vedendo l’ombra di
qualcuno dietro la tendina chiara.
Alle sue parole l’acqua si spense di colpo, la
tendina che veniva scostata con un gesto secco:
- Chi cazzo…? – sbottò Nicola, scuro in viso
– Quante volte ti ho detto di non entrare senza bussare, Deo?! Lo sai che la serratura non fun… -
E poi incontrò lo sguardo di Marco.
Marco con i pantaloni aperti e gli occhi spalancati.
- Santissima tromba! – tuonò – Che cazzo ci
fai anche nel mio bagno, adesso?! Che razza di pazzo
furioso sei, si può sapere?! E che cazzo stai
guardando, brutto… -
E poi si ricordò di aver aperto la tendina.
E di essere nudo, davanti a Marco.
- La miseriaccia nera! – sbottò, afferrando l’asciugamani appeso lì vicino e avvolgendoselo
attorno alla vita.
Con un balzo si fermò di fronte a un Marco tutto intento a
chiudersi la zip dei pantaloni.
- Io chiamo la polizia, hai capito? – sibilò,
dandogli un pugnetto sulla spalla e bagnandogli la maglia – Sai
cos’è un’ingiunzione restrittiva? Ti faccio sbattere in galera e ti
ci faccio rimanere! -
- Solo perché ti ho visto il batuffolo? –
Nicola restò con il dito puntato sul petto di Marco, la
bocca aperta. Senza parole.
- Il batuffolo? – rantolò, la mano che si chiudeva a
pugno.
- Non è così grave, credimi – annuì Marco –
Meno di dieci secondi fa anche tu hai visto il mio, no? Siamo pari in un
qualche qual modo. Certo non era nei programmi della serata, ma non bisogna mai
lamentarsi –
Amedeo comparve in quel momento sull’uscio della
porta, trafelato.
Alternò lo sguardo dall’uno all’altro, le
ultime parole di Marco che gli rimbombavano nelle orecchie:
- Ditemi che ho capito male – gemette.
- E’ entrato senza bussare e io credevo fossi tu!
– gridò Nicola, rosso di rabbia.
- Non sapevo fosse sotto la doccia, ha fatto tutto lui!
– strillò contemporaneamente Marco, alzando le mani.
Amedeo li squadrò, scuotendo piano la testa: aspettò che
scendesse il silenzio poi aprì bocca, cauto.
- Non ti abbiamo sentito rientrare, Nico, davvero –
provò a spiegare – E Marco non sa che la serratura è rotta, ti giuro. Non
ti arrabbiare, dai, è stato tutto involontario -
Nicola ansimò, grondando acqua sul pavimento chiaro e
carezzandosi con la destra i cortissimi capelli:
- Che ci fa qui? – grugnì alla fine, allontanandosi
di qualche passo e aggiustandosi l’asciugamani.
- Te ne avevo parlato – spiegò ancora Amedeo –
Guardavamo Scrubs in salotto mangiando schifezze… te l’ho detto
ieri, ricordi? Ti ho anche invitato a partecipare –
Nicola annuì, l’espressione che improvvisamente si faceva
stanca:
- Scusa – mugugnò appena – Me ne sono
dimenticato -
Uscì dal bagno, gocciolando un po’ ovunque, e si
infilò nella camera più vicina. Marco sgranò gli occhi e si posò una mano sul
cuore, calmandosi: sgranò gli occhi in direzione di Amedeo e mormorò delle
scuse.
Amedeo negò con il capo, sussurrando:
- Fa niente. L’importante è che non ci è scappato il
morto -
- Sono solo terribilmente stanco – giunse in quel
momento la voce di Nicola – Il turno mi ha sfinito, davvero. Non riuscivo
neanche a camminare diritto e… ero sicuro di aver salutato, quando sono
entrato –
Passò davanti al bagno, lanciando agli altri due
un’occhiata svogliata e facendogli segno di seguirlo con il mento: si era
messo addosso un pantalone di tuta e una felpa scura;
avanzò a piedi scalzi fino al salotto e poi si lasciò cadere sul tappeto, le
dita che si stringevano attorno a una lattina di birra aperta.
- Scusatemi – biascicò un’ultima volta,
riempendosi quindi la bocca di patatine e alzando il volume della tv.
Marco era rimasto immobile, ancora timoroso, fermo sul
bordo del tappeto; Amedeo lo sospinse leggermente, costringendolo a sedersi al
fianco del fratello e infine scivolando giù anch’egli:
- E’ successo qualcosa di interessante? –
domandò a Nicola, mormorando poi nell’orecchio di Marco:
- Fa volontariato in ospedale –
- Mmm – mugugnò quello, la bocca piena – Ti racconto domani –
- Scherzi? – inarcò un sopracciglio Marco, incredulo
– Parliamo della stessa persona?! –
Amedeo ridacchiò, annuendo piano:
- Guarda che è carinissimo con il camice blu -
Marco sgranò gli occhi, voltandosi istintivamente verso
Nicola: lui non si accorse dello scambio di battute né dello sguardo sorpreso
del ragazzo. Guardava la televisione, l’espressione sfinita alterata solo
di tanto in tanto da un pallido sorriso divertito. Si sistemò meglio sul
tappeto, allungando le gambe e reclinando la testa:
- Non dovete stare in silenzio perché ci sono io, eh?
– borbottò poi, facendo sobbalzare gli altri due.
Amedeo ridacchiò alquanto istericamente, la paura di prima
che ancora aleggiava nell’aria:
- Sai com’è… - mormorò in risposta – Ho
temuto che uccidessi il mio ospite nel bagno -
- Bah – si strinse nelle spalle il fratello –
Ti avrei aiutato a ripulire prima del ritorno di mamma, nel caso –
Marco sbuffò, ignorando le risatine dei due e spintonando
entrambi:
- Prego, eh – grugnì – Fate anche come se io
non ci fossi -
- Oh, lo so – lo schernì Amedeo – Ti ho visto
parecchio teso, prima, o sbaglio? –
- E’ anche colpa tua se gli ho visto il batuffolo,
sappilo! –
Amedeo rise più forte di prima, piegato in due.
- Dovevi dirmi che qui bisogna sempre bussare, che
diavolo! -
- Non sapevo fosse rientrato, che te lo dicevo a fare? –
- Ho rischiato di per… -
Le parole gli si fermarono in gola non appena sentì la
spalla che gli si appesantiva: si voltò, basito, e vide che la testa di Nicola
gli era scivolata addosso. S’irrigidì, il fiato
corto, e chiamò Amedeo.
- E allora? – fece quello, stringendosi nelle spalle
– Lascialo stare -
- Si è addormentato – sussurrò in risposta il rosso
– Che fastidio ti da? –
Marco rilassò appena la schiena, il capo di Nicola che gli
si adagiava meglio addosso.
- A me non da fastidio – mugugnò – Non vorrei,
però, che domattina decidesse di concludere quello che non ha portato a termine
poco fa -
Amedeo sorrise, negando appena:
- Non è così bastardo – ridacchiò, prendendo in
considerazione l’ipotesi di scattare una foto.
- Dici? – ringhiò Marco – Hai ragione,
forse… -
- Senti – lo bloccò l’altro – Ci sono io
come testimone, okay? E’ crollato lui. Tranquillo –
Marco chiuse gli occhi, frenando la rispostaccia già
pronta sulla punta della lingua. Avrebbe voluto spiegargli che no, non andava
bene. E che no, lui non era per niente tranquillo. Non disse niente, però.
Perché sapeva, in cuor suo, che sarebbero state solo
bugie.
“Ascolti, deve portarle al numero 38, ha capito bene?”
“Marco.”
“E’ molto, molto importante: se sbaglia potrebbe succedere il finimondo, mi creda.”
“Marco, porca di quella miseriaccia, vuoi tornare in campo?”
Marco coprì per un momento il microfono con la mano e lanciò un’occhiata veloce ad Amedeo:
“Che fretta hai?”
“Io non ho fretta.” borbottò il rosso, fulminandolo “Gli altri, però, sì.”
Marco si strinse nelle spalle e tornò a parlare al telefono, ribadendo ancora una volta il concetto.
Assicuratosi finalmente che non ci sarebbero stati errori, si girò e il sorriso a trentadue denti gli morì sulle labbra alla vista di Nicola:
“Brutto cretino, quando hai intenzione di tornare in campo?” lo apostrofò duramente quello, la palla bianca stretta fra le mani.
“Dovrei fare ancora una chiamata, veramente.” sussurrò Marco in risposta.
“Non puoi rimandare?” sibilò l’altro, avvicinandoglisi con un fare minaccioso molto credibile.
“Veramente no.”
Nicola chiuse gli occhi, voltandosi lentamente in direzione del fratello:
“Conta fino a dieci.” gli consigliò quello, annuendo ripetutamente “Fino a dieci, Nic.”
“Lo uccido.”
“Non stai contando.”
Marco fece per dire qualcosa ma Amedeo lo interruppe prontamente, sussurrandogli all’orecchio:
“Aspetta. Aspetta che inizi a contare.”
“Nel senso che poi devo scappare o che posso telefonare?”
“Perché non torni in campo e rimandi la chiamata?” gemette Amedeo, gli occhi fissi sulla figura imbestialita del fratello.
“Perché non ci vai tu, invece, e mi lasci organizzare in santa pace?”
“Perché Nicola vuole te.”
“Ah.” sogghignò Marco “Se la metti così...”
“Non fare il cretino.” lo rimbrottò subito Amedeo “Servi per equilibrare le squadre, lo sai.”
“Se non concludo adesso, però, Deo...”
“Cos’è che devi assolutamente concludere adesso, eh?!” sbottò in quel momento Nicola, mentre entrambi si voltavano a guardarlo con espressioni stranite.
“I preparativi per la festa.” rispose Marco, stringendosi nelle spalle “Che domande sono?”
“Quale festa?”
“La mia festa.”
“Ah.” annuì Nicola, mordicchiandosi un labbro “Certo.”
“Che ha?” sussurrò allora Marco ad Amedeo.
“Lascia perdere.”
“Mi riguarda?”
“Perché tutto deve sempre riguardarti?”
“Credi che mi faccia piacere? Per un qualche motivo a me sconosciuto, però, è quasi sempre così.” si strinse nelle spalle quello “Allora? Mi riguarda?”
“Non al momento.”
“Non è una risposta, Deo.”
“La smettete di confabulare, cortesemente?” sibilò Nicola, fulminandoli.
“Certamente.” sorrise di rimando Marco “Ti dispiace se faccio quell’ultima telefonata?”
“Sì. Mi dispiace.”
“Non fare il guastafeste, dai. Se non mi lasci fare domani neanche tu avrai da mangiare, sai?”
“Io? Che c’entro io?”
“Oh, signore! Hai sbattuto la testa?” si voltò verso Amedeo “Lo hai colpito alle spalle?”
“Che diamine c’entro io?” sbottò Nicola, afferrandolo per il colletto della maglia.
“La festa di domani.” sillabò Marco “Se vuoi mangiare devo fare quella chiamata.”
“Ma perché? Sono... invitato anch’io?”
“Sì! Sì, che sei invitato anche tu.” sospirò esasperato il ragazzino “Perché mai non dovresti, sentiamo? Viene in pratica tutta la scuola e proprio tu non vuoi presentarti?”
“Oh. Okay.”
“Okay. Ora mi lasceresti andare, gentilmente?”
Nicola lasciò la presa sulla maglia e arretrò di un passo, la palla ancora sotto braccio:
“Due minuti.” ringhiò “Poi vengo a prenderti per i capelli.”
Marco annuì e avviò la chiamata, gli occhi fissi in quelli di Amedeo:
“Tuo fratello migliora ogni giorno che passa.”
“Bussano alla porta, ti devo lasciare.”
“Prometti solo che stasera non mancherai.”
“Andrea, devo andare.”
“Fede, non puoi lasciarmi da solo durante i colloqui, lo sai?” gemette il ragazzo al telefono “Ne uscirei morto, te ne rendi conto?”
“Ti ho già detto che non mancherò, non insistere.”
“Quindi mi fido...”
“Sto chiudendo la chiamata.”
“Sei scontrosa, sai?”
“Ciao, Andrea.”
Federica spense il telefono, alzandosi a fatica dal divano:
“Sto arrivando, sto arrivando... ma perché diavolo sono già tutti svegli alle dieci del mattino?”
“Perché è alle sette che la gente normale si alza.” rispose una voce da dietro la porta.
Federica si bloccò, la mano stretta attorno al pomello:
“Salvatore?”
“Proprio io.” confermò quello, continuando poco dopo “Non vuoi proprio vedermi?”
“Scusa.” borbottò Federica, aprendo la porta e squadrandolo dal basso in alto “Che ci fai qui?”
“Ho portato la colazione.”
“Che ci fai qui?”
“Credevo di aver appena risposto.” sorrise lui, superandola ed entrando in casa.
“No. Intendo che ci fai qui, in casa mia.” sibilò Federica, afferrandogli un lembo della giacca scura “Non dovresti neanche sapere dove abito.”
“Ho chiesto ad Andrea.” si strinse nelle spalle Salvatore, liberandosi facilmente dalla stretta della ragazza e dirigendosi verso quello che immaginava fosse il salotto.
“Perché, di grazia?”
“Per portarti la colazione.”
Federica sospirò, osservandolo in silenzio mentre le porgeva un bicchiere di caffè.
“Sasà.”
“Cosa?”
“Tu non vieni a casa mia.”
“Solo perché prima non sapevo dove fosse.”
“E’ preoccupante.”
“Prendi il caffè.”
Si guardarono per qualche attimo, immobili, poi Federica afferrò il bicchiere e lui si lasciò cadere sulla sedia più vicina:
“Cornetto o pasticcino?”
“Entrambi.”
“Che facevi di bello?” la interrogò Salvatore, l’espressione indecifrabile.
Federica diede un morso al primo dolcetto e annuì mesta:
“Andrea ti ha detto tutto, non è vero?”
“Ha bevuto un po’ ieri sera.” provò a giustificarlo “Non è colpa sua.”
“Lui non doveva parlare.” sibilò Federica, un filo di Nutella sulle labbra “E tu non dovevi venire qui.”
“Avevo una buona ragione.”
“Portarmi la colazione?”
“Anche.” sorrise Salvatore, porgendole un fazzoletto.
“Che vuoi, Sasà?”
“Invitarti ad una festa.”
“Che stai facendo?”
Marco girò di scatto su se stesso, colto di sorpresa, e inciampò nei pantaloni che aveva appena cominciato ad infilarsi. Rebecca lo guardò crollare miseramente a terra e sorrise divertita:
“Scusa, non volevo spaventarti.”
“Non mi hai spaventato.” mugugnò il ragazzino, la voce attutita dal tappeto.
“Mmm.” ridacchiò lei, sedendosi sul letto “Non mi hai risposto.”
“Qual era la domanda?”sospirò Marco, rimettendosi faticosamente in piedi, i jeans ancora fermi alle caviglie.
“Che stai facendo?”
“Mi metto i pantaloni.”
“Questo lo avevo intuito.”
“Allora non vedo l’utilità della domanda.”
“Marco.”
“Cosa?”
“Perché ti metti i pantaloni?”
La testa di Loredana spuntò dalla botola nel pavimento, l’espressione esasperata:
“No, ma dico: avete mai provato ad ascoltare le vostre conversazioni?” borbottò, raggiungendo la sorella sul letto “Sono un qualcosa di allucinante, vi assicuro. Senza né capo né coda.”
“Si sta mettendo i pantaloni, Dana.” sussurrò Rebecca con fare cospiratorio.
“E perché la cosa ti sconcerta tanto?”
“Perché...”
“Muta.” la interruppe subito Marco, fulminandola con lo sguardo.
“Non zittirmi!” fremette Rebecca.
“Okay, okay, non voglio saperlo.” sospirò Loredana, roteando gli occhi.
“Che fai qui, allora?”
“Ha chiamato un tipo strano: parlava di dardi o qualcosa del genere... cose che scoppiano, in ogni caso. Era per te, vero?”
“E’ ancora al telefono?” saltò su Marco, chiudendosi i jeans.
“Ha attaccato prima che potessi dire alcunché.”
“Richiamerà.” si strinse nelle spalle il ragazzino, cambiando rapidamente maglietta.
“Ha a che fare con la festa di domani?”
“Sicuramente.” s’intromise Rebecca.
“Non ci saranno morti, vero?”
“Non dovrebbero, no.”
“E con la polizia come la mettiamo?”
“Credo abbiano una specie di accordo.” spiegò Rebecca mentre il fratello si limitava ad annuire.
“E per...”
“Ho organizzato tutto, Dana, stai tranquilla.” la bloccò sul nascere Marco, stringendo i lacci alle scarpette “Tu pensa solo a divertirti, va bene?”
Loredana annuì, alzandosi e tornando alle scale:
“Viene anche Andrea?” chiese appena prima di cominciare a scenderle.
“L’ho invitato, sì, ma non so se...”
“Ci sarà anche Andrea.” mormorò allora Loredana, sorridendo appena “Divertitevi stasera.”
Marco fissò il punto in cui poco prima c’era la testa della sorella e schiuse le labbra, confuso, i lacci fermi tra le mani:
“Secondo te...”
“Sì.” confermò Rebecca, lanciandogli contro un cuscino “E’ di Dana, che stiamo parlando!”
“Mi sto solo vestendo, santo Cielo, come fate a capire tutto da così poco?”
“Siamo donne.” ghignò lei “Non sottovalutarci mai.”
“Hai visto il mio cellulare?”
“Sotto la scrivania.”
“Non so a che ora torno. Avverti tu la mamma?”
“Certo.” sorrise Rebecca “Solo se mi dici dove vai, però.”
“All’asilo.”
“Come?”
“Ci sono i colloqui con i genitori.” spiegò Marco “Mi ha chiesto di andare a salutarlo, tutto qui.”
“Era un’opzione, tutto qui.” gli fece il verso lei.
“Vado solo a salutarlo.”
“Anche le cattedre sono piuttosto comode, sai?”
“Lo dici per esperienza personale?”
“Non sono domande che dovresti fare a tua sorella, ragazzino.”
“No? Proviamo con questa, allora: con chi vieni domani alla festa?”
“Nessuno.”
“Bugiarda.” scosse il capo Marco, ripescando le chiavi di casa dallo zaino.
“Perché ti interessa?”
“E’ una semplice domanda.”
“Luca.”
“Quale Luca? Luca Novara o Luca Giannini?”
“Novara.”
“E’ un idiota.”
“Se avessi detto Giannini?”
“E’ un idiota anche lui.”
“Gli uomini sono tutti idioti, dovresti saperlo: fai parte anche tu del gruppo.”
“Cattiva, questa.”
“Hai cominciato tu.”
“Sto solo dicendo che potevi scegliere meglio.”
“Vorresti farlo tu per me, per caso?”
“Ne sarei felice.”
“Vai a farti fottere, Marco.”
Marco si lanciò sul letto, stringendola in un veloce abbraccio e stampandole un bacio sulla guancia per poi affrettarsi verso le scale:
“Non puoi averla vinta, Sasà.” si fermò di colpo Federica, girandosi per fronteggiarlo “Non ci vengo a una festa di adolescenti, è chiaro?”
“E’ il compleanno di Marco, un Andrea in miniatura, come fai a non voler venire?”
“Birra, ormoni e saliva ovunque? No, grazie.”
“Andrea ci va.”
“Naturale che ci va. Si è bevuto il cervello e ragiona solo con il...”
“Stai diventando volgare, signorina. Colpa del recente lancio di coltelli.”
“La smetti?”
“Colpa mia, allora?”
“Come?”
“E’ perché ti ho invitato io che non vuoi andarci?”
“No, certo che no. Perché dovrebbe essere colpa tua?”
“Perché mi sono presentato a casa tua senza invito.”
“Hai portato la colazione.”
“Quindi vieni alla festa?”
“No.”
Federica ricominciò a camminare, ignorando il sospiro risentito di Salvatore.
“Fede, ti prego.”
“Non mi va, non insistere.”
“Non insisterei se non sapessi che è il caso di insistere perché senza insistere tu non...”
“Ho perso il filo.” sorrise Federica, entrando in una classe e facendogli segno di seguirla.
Salvatore obbedì, chiudendosi la porta alle spalle:
“Non farmi penare, donna.”
“Non ho voglia di uscire, ecco tutto.”
“E di cosa hai voglia?”
“Di accoccolarmi sul divano con una birra in una mano e una vaschetta di gelato nell’altra.”
“Ora non sei sul divano.”
“Ci sono i colloqui. Dovevo venire per forza.”
“Anche a quella festa devi venire per forza.”
“Sasà, davvero, lasciamo stare.”
“Hai bisogno di distrarti, Fede, dammi retta. Ho quasi sempre ragione, io.”
Federica roteò gli occhi, non riuscendo tuttavia a nascondere un sorriso:
“Per colpa di quel quasi mi vedo costretta a...”
“Domani andiamo a quella festa, punto.”
“No.”
“Non accetto un no.”
“Puoi andarci, se vuoi. Perché ti servo io?”
“Perché ho deciso di invitarti.”
“Non avevi messo in conto un possibile rifiuto?”
“No.”
“Spaccone.”
“A che ora passo a prenderti?”
“Sei insopportabile.”
“Verso le sette, va bene?”
“Sette e un quarto.”
Salvatore sorrise, cercando di nascondere la sorpresa per quell’ultima risposta.
“Sette e un quarto.” ripeté, arretrando in direzione della porta.
Meglio fuggire prima di un qualsivoglia voltafaccia.
Sette e un quarto.
“Non capisco perché sta tirando in ballo argomenti così delicati, signor Iacono.”
Andrea represse faticosamente un sospiro di esasperazione, annuendo invece lentamente e con fare totalmente accomodante:
“So quanto possano essere scomodi, davvero, e sono mortificato di doverlo fare ma dovete capire che vostro figlio...”
“Non sono affari che la riguardano, se ne rende conto?”
“Ne sono consapevole glielo assicuro, ma è il piccolo che ne risente e...”
“Come può risentirne?” intervenne in quel momento la moglie “E’ solo un bambino. Non ha la più pallida idea di...”
“Signora.” la interruppe Andrea, chiudendo gli occhi solo per un istante “Le posso assicurare che i bambini sono molto, molto più percettivi della maggior parte degli adulti.”
“Ci sta dando degli stupidi?” domandò allora l’uomo, irrigidendosi sulla sedia.
“No. Certo che no.”
“Cosa vuole, allora?” sbottò la donna, fulminandolo con lo sguardo.
Andrea si massaggiò le tempie, tutte le forze impegnate nel non perdere neanche un briciolo della sua calma. Aprì la cartellina che aveva davanti e porse ai coniugi una serie di fogli:
“Questi sono gli ultimi disegni di vostro figlio.” spiegò, indicandoli uno a uno “C’è qualcosa che non va, lo capite? E il bambino lo percepisce. Se ne accorge.”
“Tutto questo solo per qualche disegno?” borbottò l’uomo, stringendosi placidamente nelle grosse spalle “Non le sembra di star esagerando?”
“C’è una persona impiccata a un arcobaleno, santo Cielo!” sbottò Andrea, picchiettando col dito sul disegno in questione “Le sembra un disegno adatto a un bambino così piccolo?”
“Ha solo molto fantasia.” mormorò la madre.
“Lo lasci disegnare ciò che gli pare, insomma, non vedo come ciò la debba riguardare.” rincarò il padre, aggiustandosi gli occhiali sul naso.
Andrea represse l’insulto che gli era salito alle labbra e alzò gli occhi verso il fondo dell’aula, cercando istintivamente la figura del bimbo intenta a giocare. Fu nel momento stesso in cui non la vide che sentì il terreno franargli sotto i piedi:
“Dov’è Paolo?” chiese con un filo di voce, rivolgendosi a nessuno in realtà oltre che a se stesso.
Scattò in piedi, dirigendosi verso l’uscita e chiamando Federica a gran voce. Dopo meno di un minuto la ragazzo fu al suo fianco, l’espressione attenta:
“Che succede?”
“Ho perso Paolo.”
“E’ quello dell’arcobaleno?”
“Sì.” ansimò Andrea, aprendo un paio di porte a caso “Ho i suoi genitori in aula: li intrattieni tu finché non lo ritrovo?”
“Non collaborano, vero?” chiese lei, poggiandogli una mano sul braccio.
“Non sembrano averne minimamente intenzione.”
“Andrea...”
“Stai tu con loro?”
“Certo.”
Andrea annuì, dirigendosi lungo il corridoio, una serie di imprecazioni a solleticargli la gola: amava il suo lavoro, poco ma sicuro, eppure situazioni come quelle gli davano letteralmente il volta stomaco. Non poteva farci niente.
“Dove diamine è andato a nascondersi quel dannato ragazzino?” fremette girando l’ennesimo angolo, un lieve senso di paura a pesargli nel petto.
Aveva appena finito di dirlo quando se ne ritrovò due davanti, di dannati ragazzini.
“Secondo te si riferisce a te o a me?” domandò Marco, gli occhi rivolti al piccolo Paolo al suo fianco “Sono leggermente in ritardo, lo so, scusa.” aggiunse poi, sorridendo in direzione di Andrea.
“Non fa niente.” mormorò atono quello, squadrandoli leggermente incredulo.
“Allora? Cercavi me o il piccoletto?”
“Il piccoletto.”
“Devo sentirmi offeso?”
“Non ero nemmeno sicuro che saresti venuto.”
“Dispiaciuto?”
“Assolutamente no.”
Andrea sorrise, avvicinandosi ai due, il capo leggermente inclinato di lato:
“Come vi siete incontrati?”
“E’ una storia particolare.”
“Sono tutto orecchi.”
“Dunque: cercavo di fare pipì, ma i bagni qui da voi sono particolarmente bassi, sai?”
“Esistono i bagni per gli insegnanti.”
“Lo immaginavo. Ma al momento sono riuscito a trovare solo quelli.”
“E come hai risolto?”
“Ci stavo ancora lavorando, ecco, quando sento questa vocina alle spalle.”
“Paolo?”
“Il piccoletto si chiama Paolo?”
“Sì.”
“Allora sì, Paolo.”
“E che ti diceva?”
“Dava consigli su come riuscire a farla in orinatoi così bassi.”
“Bimbo intelligente, non è vero?”
“Molto.”
“Hai risolto alla fine?”
“Sì. Grazie all’aiuto di Paolo, non dimentichiamocene.”
“Gliene dobbiamo dare atto.”
“E tu?”
“Io cosa?”
“Mi sembravi leggermente nervoso.”
“Me l’ero perso.”
“Paolo o lo spettacolo di me che cerco di fare pipì?”
“Paolo.”
“Per fortuna allora che ci sono io, no?” ghignò Marco, una mano sulla spalla del bimbetto.
“Decisamente.”
“Avete finito?” chiese in quel momento Paolo facendo sussultare entrambi.
“Come?” ribatté rapido Andrea, allontanandosi velocemente da Marco.
“Tu.” sibilò il bimbo “E i miei genitori.”
“Io...”
“Avete finito di litigare?”
Andrea sgranò gli occhi, le parole che non volevano saperne di venir fuori in modo corretto.
“E’ inquietante.” mormorò Marco, improvvisamente vicino al suo orecchio “Mi ricorda il ragazzino del Sesto senso, hai presente? Malamente inquietante.”
“Scusa se ci ho messo tanto.”
Marco si strinse nelle spalle, tirandolo giù, affianco a sé.
“Non è pulito qui per terra.” borbottò Andrea, obbedendo ugualmente e crollando a sedere di fianco al ragazzino “Com’è che non te ne sei andato?”
“Mi sei sembrato alquanto esaurito, ho pensato ti servisse un po’ di supporto.”
“Colpa di quei due idioti.”
“I genitori di Paolo.”
“Non hanno idea di cosa stanno combinando, davvero.”
“Per fortuna ci sei tu.”
“Non so se è davvero una fortuna.” mormorò afflitto Andrea, chiudendo lentamente gli occhi e reclinando il capo contro il muro “Non so cosa fare. Mi sento... inutile.”
“Non sei inutile.”
“Non so cosa fare, Marco.”
“E’ diverso dall’essere inutili.”
“Non sai cosa stai dicendo.”
“Neanche tu.” ridacchiò il ragazzino “Devi solo far riposare un po’ i nervi, okay? Mangia.”
“Cos’è?” chiese indifferente Andrea, un pallido sorriso a piegargli le labbra mentre Marco gli poggiava qualcosa contro le labbra.
“Torta.” sussurrò quello “Una torta eccezionale.”
Andrea schiuse le labbra, lasciandosi imboccare: “Vero.”
“Visto?”
“Riuscirò ad aiutare quel bambino.” mormorò poco dopo Andrea, buttando giù un altro morso di torta “Ci riuscirò.”
“Ne sono sicuro.” annuì Marco, porgendogliene ancora.
“E...”
“E cosa?”
Marco si voltò appena, l’espressione stanca e interrogativa al tempo stesso.
“Andrea?”
“Dove l’hai presa?” soffiò quello, carezzandosi la gola.
“Co... come?”
“La torta. Dove l’hai presa?”
Marco sentì un brivido percorrergli la schiena, gli occhi fissi sul volto arrossato e leggermente gonfio dell’altro:
“Un’aula in fondo al corridoio: c’era una specie di buffet e... che cazzo ti sta succedendo?!”
“Va tutto bene.” tossì l’altro in risposta, la voce sempre più roca “Chiameresti Salvatore?”
“Co... che sta succedendo? Che diavolo... ti ho, ti ho avvelenato o qualcosa del genere?!”
“E’ solo una reazione allergica, Marco.”
“Cazzo. Cazzo. Caz...”
“Salvatore.” tossì ancora Andrea, indicando ripetutamente il cortile “Dovrebbe essere ancora qui in giro. Chiamalo un attimo, per favore.”
Marco annuì scattando repentinamente in piedi, gli occhi fissi in quelli lucidi del biondo mentre correva alla finestra e cominciava a chiamare a gran voce Salvatore.
“Che succede?”
La voce proveniente dal corridoio bloccò i suoi richiami, troncandogli la voce: Marco volò verso la porta, afferrando senza alcun riguardo il nuovo arrivato e trascinandolo con sé.
Nella fretta non aveva più degnato di uno sguardo Andrea, così quando nel girarsi gli sbatté contro quasi non riuscì a crederci. Si limitò a fissare la scena.
A fissare un Andrea ansimante, piegato in due e con il naso sanguinante stretto nella mano.
Cazzo.
“Sei un pazzo furioso, lo sai?”
“Non è stata colpa mia.”
“Lo hai avvelenato e gli hai quasi spaccato il naso, come fa a non essere colpa tua?”
“Come facevo a sapere che era allergico?”
Salvatore sgranò gli occhi, afferrandolo per le spalle e spingendolo duramente contro il muro più vicino:
“Come facevo... come facevo a sapere che era allergico?” gli fece il verso, fulminandolo con lo sguardo “Secondo te perché lo chiamo Pinolo, sentiamo?”
“Non sapevo che in quella torta c’erano i pinoli e non sapevo che lui era allergico ai pinoli.” sibilò il ragazzino, senza abbassare la testa di un centimetro.
“Lo chiamo Pinolo.” ringhiò quasi Salvatore.
“Non significa un bel niente!” sbottò Marco, spintonandolo “Non puoi pretendere che da un banalissimo soprannome la gente arguisca tutto il sottotesto che ti sei creato in testa!”
“Lo vuoi uccidere, dì la verità.”
“Vaffanculo.”
“Vuoi spaccare anche il mio, di naso?”
“Lo farei molto volentieri, sai?”
“Perché non ci provi, allora?”
“E’ bello vedere come il luogo non vi intimidisca minimamente.”
Salvatore e Marco si voltarono in contemporanea verso il letto poco lontano, le espressioni niente affatto mortificate.
“Siamo in ospedale, santo Cielo.” sospirò Andrea, tirandosi a sedere “Datevi una calmata.”
“Come ti senti?”
“Hai bisogno di qualcosa?”
“Il naso come va?”
“Il polso ti da fastidio?”
“Vuoi un bicchiere d’acqua?”
“Vorrei andarmene a casa.” rispose con un sorriso a entrambi “Dite che è possibile?”
“Vado a parlare con l’infermiera.” mugugnò Salvatore, squadrandolo rapidamente “Sicuro di sentirti bene?”
“Mai stato meglio.”
“Ti hanno imbottito di...”
“Sto benissimo. Non dovevi andare a parlare con una certa infermiera?”
“E ti lascio qui da solo con il giovane pazzo?”
“Sasà.” lo redarguì subito Andrea “Non esagerare, ti prego.”
“Torno subito.”
Andrea annuì, osservandolo uscire dalla stanza con passo veloce.
Quando spostò lo sguardo su Marco, la battuta di spirito già pronta sulla punta della lingua, pietrificò nell’incontrare l’espressione pietosamente colpevole del ragazzino:
“Che hai?” balbettò, facendo per protendersi verso di lui.
“Immensamente. Non puoi nemmeno immaginare quanto.”
“Marco...”
“Salvatore ha ragione. Ho... ti ho quasi ucciso, per non parlare del naso e del polso e...”
“Marco.” lo interruppe duramente Andrea, tirandolo a sé “Smettila.”
“Scusa.”
“Smettila di scusarti.”
“Ti ho quasi ucciso.”
“Non è vero.”
“Sì, che è vero. E Salvatore... lui ti chiama Pinolo.” sussurrò con un filo di voce il ragazzino.
“Non è vero. Non è successo niente.” sorrise Andrea, scuotendo il capo “Sei tu che ti sei fatto prendere dal panico, tutto qui. E...”
“Avevo tutte le ragioni del mondo per entrare in panico e...”
“Fammi concludere una buona volta.” lo zittì il biondo, spintonandolo appena “Vuoi sapere perché mi chiama Pinolo?”
“Come?”
“Vuoi sapere perché Sasà mi chiama Pinolo?”
“Perché sei allergico ai pinoli.”
“Anche.” ridacchiò Andrea “Soprattutto, però, perché è stato il primo a farmeli mangiare.”
Marco sgranò gli occhi, un lampo di consapevolezza a illuminargli il volto:
“Brutto bastardo.”
“Non è successo niente allora, come non è successo adesso, okay?”
“Che figlio di buona donna.” borbottò ancora Marco, lo sguardo fisso sulla porta da cui l’uomo era uscita poco tempo prima.
“Vedo che i rapporti fra di voi migliorano di volta in volta, eh?”
“Hai un amico che più stronzo sarebbe difficile, lo sai?”
“Bisogna solo prenderlo per il verso giusto.”
“Se permetti...”
“Ti sei ripreso, allora?” lo interruppe Andrea, grato del sorriso che gli piegava le labbra.
“Un po’. Non mi sembri in punto di morte, no?”
“Mai stato meglio.”
“Lo hai già detto.”
“Anche voi siete un po’ ripetitivi.”
“Il naso?”
“Non è rotto.”
“L’invito per domani è ancora valido, sai?”
Andrea inarcò un sopracciglio, il sorriso che rapidamente diventava un ghigno:
“E’ un modo contorto per chiedermi se verrò alla festa?”
“Certo che no.” fece spallucce Marco “Non lo farei mai. Per chi mi hai preso?”
“Ho invitato anche Salvatore. E credo che lui abbia intenzione di trascinarci Federica.”
“Cos’hai fatto?”
“E’ un problema?”
“Significa che verrai?”
“Ti interessa, allora.”
“Mi sto solo informando.”
“Avevo altri programmi per stasera.”
“Stai cambiando discorso.”
“C’è un divanetto nella sala professori che volevo farti provare.”
“Se è per questo mi sarebbe bastata anche una cattedra.” sorrise Marco “Mi hanno detto che sono piuttosto comode.”
Andrea fece per rispondere a tono ma dei passi sempre più vicini lo distrassero, rompendo il ritmo già pericoloso della conversazione.
Incrociò lo sguardo vispo del ragazzino e si limitò a mormorare, la promessa nella voce:
“Continuiamo domani sera.”
§
Quando si dice: il peggio deve ancora venire.
Ah, nel prossimo capitolo ci sarà l’apocalisse. E non lo dico così tanto per dire.
Ho sempre adorato scrivere delle feste, davvero. Il caos più totale.
Potete immaginarlo, su. E’ la festa di Marco, dopotutto: non può uscirne niente di buono.
Sono già a metà, ad ogni modo: si può dire che si sta scrivendo da solo.
A presto spero, esami permettendo,
un bacione a tutti,
Sara
P.s. in bocca al lupo a tutti i maturandi e a chi, come me, sta sudando per la sessione estiva.