All I remember is you.

di Snafu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Her name. ***
Capitolo 2: *** Her face. ***



Capitolo 1
*** Her name. ***



23 dicembre 1997, h. 21.00



E così finiva un’altra giornata di merda.
Uscita dalla metropolitana mi diressi subito a casa senza fare deviazioni.
«Sono tornata!» esclamai, chiudendo la porta alle mie spalle. Mi tolsi il cappotto e lo appesi all’attaccapanni.
Mio padre era seduto sul divano davanti al camino acceso e stava leggendo un libro. Aveva un paio di simpatiche pantofole che gli aveva regalato la mamma e una copertina addosso, neanche fosse stato un vecchio decrepito. Mi salutò con un cenno della mano.
«La mamma?» domandai.
«È al telefono con Mandy. Pare che abbia sbagliato a mandare il lavanderia il suo vestito per il meeting di domani ed è furibonda. Sai una cosa? Sono felice che tu ti sia trovata un lavoro per conto tuo e non ti sia messa a fare da assistente a lei: non avrei potuto sopportare di sentirvi litigare tutti i giorni a tutte le ore...»
Non che dove lavorassi io la situazione fosse migliore. Ero l’assistente di un pezzo piuttosto grosso della musica internazionale e non ero sicura che i suoi capricci potessero stare al pari con quelli di mia madre: effettivamente lei e Roger si assomigliavano parecchio in fatto di caratterino.
Sbuffai.
Avevo finito di litigare con lui pochi minuti prima e non avevo voglia di ricordarmene.
Roger Taylor, sì, il damerino batterista.
«Oh! La mia bambina!» strillò mia madre, come se non mi avesse vista per anni. Avevamo fatto colazione insieme. E poi non ero più tanto una bambina, ormai avevo vent’anni compiuti. Mi sentivo così forte, così grande, padrona del mondo. «Com’è andata a lav...» il telefono squillò di nuovo. «Se è Mandy giuro che l’ammazzo!» gridò, alzandosi nuovamente dal divano. «Pronto?» … «No, sono sua madre» … «Che cosa?» … «Va bene, allora. Arrivederci.»
«Che è successo?»
«Hanno chiamato dall’ospedale, qualcuno ha chiesto di te...»
«Chi?» balzai in piedi preoccupata.
«Non me l’ha saputo dire, pare che questo qualcuno abbia perso la memoria e l’unica cosa che continui a ripetere sia il tuo nome...»
«Mi fa piacere!» rise mio padre.

23 dicembre 1997, h. 21.30



Così mia madre mi accompagnò all’ospedale.
Mi sarei volentieri risparmiata la chiacchierata madre-figlia, ma che vogliamo farci? Mi stava facendo un favore, visto che io non ho la patente.
«Insomma, non c’è nessun ragazzo all’orizzonte?» domandò con l’aria da pettegola. Mi sembrava di sentirla parlare al telefono con una sua amica di vecchia data, quando chiacchieravano delle loro ex compagne di scuola.
Non c’era nessun ragazzo, nessun ragazzo fisso perlomeno, e di certo non sarebbe stata fiera di sapere che mi ero incontrata clandestinamente con un uomo sposato e con prole (numerosa) di quarantotto anni, quel pomeriggio. Quindi preferii tacere.
«No, nessuno mamma...»
«Ah, ascoltami, non ci credo! Sei una ragazza bellissima, tutta tua madre, coi capelli di tuo padre, ci dovrebbe essere la fila sotto il tuo balcone, cara la mia Giulietta!»
«Allora avresti dovuto chiamarmi Giulietta e non Sophie!» risi, mentre lei continuava lungo il suo tragitto.
«Beh, ma Sophie sta molto meglio con il tuo cognome!»

23 dicembre 1997, h. 22.00



Ci volle un’eternità per arrivare all’ospedale, le vie erano intasate, la gente tornava a casa dagli uffici e dallo shopping natalizio.
Una volta arrivate mia madre spiegò la situazione e ci indirizzarono in un reparto.
Parlammo con il primario, che ci fece strada verso la stanza.
«Il paziente adesso sta dormendo, ma identificarlo subito sarebbe veramente un’ottima cosa» disse.
Io e mia madre ci affacciammo sulla porta della piccola stanza e contemporaneamente dalle nostre bocche uscì un urletto strozzato, le nostre voci si rivelarono così simili, come effettivamente erano, i nostri pensieri ugualmente spaventati.
«Roger?!»





Desclaimers: I Queen non mi appartengono.
Note: Lo so che al momento non si capisce niente, ma ho deciso di strutturare questa storia in modo atemporale. Ho tentato in un’altra sezione con questa tecnica e non ha avuto molto successo (ndtutti: e allora perché la riusi? XD), quindi adesso voglio tentare qui. Quindi ripeto: i capitoli saranno pochi e non saranno in ordine cronologico.
Dedica: Alla mia secondogenita, a cui mi sono ispirata per Sophie... perché si sa, i secondogeniti sono sempre i preferiti <3

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Capitolo 2
*** Her face. ***


“I've just seen a face

I can't forget the time or place

where we just met.”

-          The Beatles, I’ve just seen a face

 

 

23 dicembre 1997, ore 22.30

 

Roger mi guardava con una faccia completamente disorientata e non posso negare che il fatto che ricordasse solo me, in tutto quello che era successo nella sua vita, mi fece sentire piuttosto importante.

«Com’è che conosci Roger Taylor?» domandò mia madre con aria inquisitoria e gli occhi fuori dalle orbite. Mi aveva trascinato appena fuori dalla stanza affinché lui non potesse sentire ciò che aveva da dirmi.

«Lui è il mio capo.» spiegai.

Fui quasi sicura di vedere i suoi bulbi uscire definitivamente dalle cavità e correre via nel corridoio per poi salire in ascensore e raggiungere i loro simili nel settore oculistica.

«Quando lo scoprirà tuo padre ci farà la pelle» mormorò a denti stretti.

«Io ancora non ho capito come mai il suo nome è un tabù in casa nostra! Sarebbe il caso che anche io ne venissi messa al corrente adesso!» replicai, scocciata, visto che la situazione si stava ritorcendo contro di me.

Mia madre storse il naso e prese un lungo respiro, poi vuotò il sacco:

«Roger è un mio ex-fidanzato e papà e lui hanno avuto un po’ di problemi a causa mia. Diciamo pure che da giovane ero anche peggio di come sono ora. Comunque questo è il motivo per cui tuo padre non lo vede in buona luce. Ti prego, giurami che il tuo rapporto con lui è strettamente professionale.» mi supplicò.

Fu in quel momento che mi trovai al bivio a cui tutti prima o poi si trovano nella loro vita: dire una verità che non verrà mai accettata oppure scegliere se dire un’enorme bugia a mia madre, la donna che mi aveva messa al mondo e che mi amava più di ogni altra cosa al mondo. Visto come erano andate le cose, decisi che la bugia non avrebbe fatto del male a nessuno e che la verità non sarebbe mai venuta fuori.

«Certo, mamma

 

 

23 dicembre 1997, ore 15.30

 

Mi sedetti sul piccolo tavolo del suo camerino e accavallai le gambe, come a lui piaceva tanto. Roger iniziò a giocherellare con il pass che penzolava dal mio collo e mi fece un sorriso sornione, sapendo perfettamente e volendo farmi intendere come sarebbe finito quel gioco. In quell’occasione non avrebbe potuto sbagliarsi di più.

Per un attimo i suoi occhi si soffermarono sulle lettere scritte sul pezzo di carta plastificata, forse per il cinico scherzo di volermi chiamare per cognome con fare formale in un contesto che sarebbe stato tutto tranne che formale… e qualcosa andò storto.

«Ti chiami Staffell?» domandò con un sopracciglio inarcato e un’aria francamente preoccupata.

«Mi fa piacere che se ti avessi messo nelle referenze del mio curriculum e ti avessero chiesto impressioni su di me non avresti avuto la più pallida idea di chi fossi…» borbottai, piuttosto ferita da quella domanda.

«Hai presente Giulietta e Romeo? Non è il nome che cambia i sentimenti. Non è che sei parente di Tim e Dorothy?»

Mi sentii morire perché sapevo che mio padre, Tim Staffell, per ragioni all’epoca sconosciute, odiava Roger Taylor più di quanto mia madre odiasse sentir parlare di aborti.

«Sono i miei genitori.» confessai, preoccupata da ciò che quello avrebbe comportato.

«Oh mio Dio.» furono le uniche parole che disse che mi piacquero, anche se non preludevano a niente di buono. Quelle che seguirono, infatti, furono una vera e propria coltellata. «Devi andartene, non puoi essere la mia assistente, non posso più vederti. Mi dispiace.»

 

Ed è per questo che, tutto sommato, dire a mia madre che il nostro rapporto era, o meglio, era stato strettamente professionale, non fu una grossa bugia.

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