“I've just seen a face
I can't forget the time or place
where we just met.”
-
The Beatles, I’ve just seen a face
23
dicembre 1997, ore 22.30
Roger mi guardava con una faccia completamente
disorientata e non posso negare che il fatto che ricordasse solo me, in tutto quello
che era successo nella sua vita, mi fece sentire piuttosto importante.
«Com’è che conosci Roger Taylor?» domandò mia madre
con aria inquisitoria e gli occhi fuori dalle orbite. Mi aveva trascinato appena
fuori dalla stanza affinché lui non potesse sentire ciò che aveva da dirmi.
«Lui è il mio capo.» spiegai.
Fui quasi sicura di vedere i suoi bulbi uscire
definitivamente dalle cavità e correre via nel corridoio per poi salire in
ascensore e raggiungere i loro simili nel settore oculistica.
«Quando lo scoprirà tuo padre ci farà la pelle»
mormorò a denti stretti.
«Io
ancora non ho capito come mai il suo nome è un tabù
in casa nostra! Sarebbe il caso che anche io ne venissi messa al
corrente adesso!» replicai, scocciata, visto che la situazione si stava
ritorcendo contro di me.
Mia madre storse il naso e prese un lungo respiro,
poi vuotò il sacco:
«Roger è un mio ex-fidanzato e papà e lui hanno
avuto un po’ di problemi a causa mia. Diciamo pure che da giovane ero anche
peggio di come sono ora. Comunque questo è il motivo per cui tuo padre non lo vede
in buona luce. Ti prego, giurami che il tuo rapporto con lui è strettamente
professionale.» mi supplicò.
Fu in quel momento che mi trovai al bivio a cui
tutti prima o poi si trovano nella loro vita: dire una verità che non verrà mai
accettata oppure scegliere se dire un’enorme bugia a mia madre, la donna che mi
aveva messa al mondo e che mi amava più di ogni altra cosa al mondo. Visto come
erano andate le cose, decisi che la bugia non avrebbe fatto del male a nessuno
e che la verità non sarebbe mai venuta fuori.
«Certo, mamma.»
23 dicembre
1997, ore 15.30
Mi sedetti sul piccolo tavolo del suo camerino e
accavallai le gambe, come a lui piaceva tanto. Roger iniziò a giocherellare con
il pass che penzolava dal mio collo e mi fece un sorriso sornione, sapendo
perfettamente e volendo farmi intendere come sarebbe finito quel gioco. In
quell’occasione non avrebbe potuto sbagliarsi di più.
Per un attimo i suoi occhi si soffermarono sulle
lettere scritte sul pezzo di carta plastificata, forse per il cinico scherzo di
volermi chiamare per cognome con fare formale in un contesto che sarebbe stato
tutto tranne che formale… e qualcosa andò storto.
«Ti chiami Staffell?» domandò con un sopracciglio
inarcato e un’aria francamente preoccupata.
«Mi fa piacere che se ti avessi messo nelle
referenze del mio curriculum e ti avessero chiesto impressioni su di me non
avresti avuto la più pallida idea di chi fossi…» borbottai, piuttosto ferita da
quella domanda.
«Hai presente Giulietta e Romeo? Non è il nome che
cambia i sentimenti. Non è che sei parente di Tim e Dorothy?»
Mi sentii morire perché sapevo che mio padre, Tim
Staffell, per ragioni all’epoca sconosciute, odiava Roger Taylor più di quanto
mia madre odiasse sentir parlare di aborti.
«Sono i miei genitori.» confessai, preoccupata da
ciò che quello avrebbe comportato.
«Oh mio Dio.» furono le uniche parole che disse che
mi piacquero, anche se non preludevano a niente di buono. Quelle che seguirono,
infatti, furono una vera e propria coltellata. «Devi andartene, non puoi essere
la mia assistente, non posso più vederti. Mi dispiace.»
Ed è per questo che, tutto sommato, dire a mia
madre che il nostro rapporto era, o meglio, era stato strettamente professionale,
non fu una grossa bugia.