Just be my dancing star

di miss potter
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter one ***
Capitolo 2: *** Chapter two ***
Capitolo 3: *** Chapter three ***
Capitolo 4: *** Chapter four ***
Capitolo 5: *** Chapter five ***
Capitolo 6: *** Chapter six ***
Capitolo 7: *** Chapter seven ***
Capitolo 8: *** Chapter eight ***
Capitolo 9: *** Chapter nine ***
Capitolo 10: *** Chapter ten ***
Capitolo 11: *** Chapter eleven ***
Capitolo 12: *** Chapter twelve ***
Capitolo 13: *** Chapter thirteen ***
Capitolo 14: *** Chapter fourteen ***
Capitolo 15: *** Chapter fifteen ***
Capitolo 16: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Chapter one ***




Chapter one







Il mio nome è John Hamish Watson e, giunto alla veneranda età di cinquant’anni e qualche giorno, mi trovo seduto alla mia scrivania nel soggiorno del mio appartamento di quarta categoria, situato alla periferia di Londra. E scrivo, scrivo quello che la gente comune chiama “memorie”. Perché è questo che le persone fanno, no? Lasciare un biglietto(2), due righe che spieghino – o che almeno tentino di farlo – il significato di certe scelte e le motivazioni che hanno portato a farle.
Nella mia vita non ho mai avuto molte motivazioni meritevoli di questo nome, in realtà.
Sono andato al college, ho studiato medicina, mi sono iscritto al militare e, sì, sono anche andato in guerra, spingendomi ben oltre ogni confine che mi ero imposto, sia fisico che meno. La sola ed unica spiegazione che davo, e che do tutt’oggi, a chiunque me lo chiedesse spaziava da “è il mio dovere” a “a mio padre farebbe piacere”.
Perché salvare vite, lottare per degli ideali, lavorare al servizio del mio paese non erano mai le vere motivazioni di un giovane studente qual ero io a quei tempi che voleva solamente riemergere dalla massa e dimostrare al mondo che valeva più dei maglioni di cashmere che indossava e di tutte le facciate che una buona famiglia ed un’eccellente educazione avrebbero potuto dipingergli addosso.
Il fatto è che adoravo sentirmi importante per qualcuno, soprattutto per me stesso. Amavo sentire l’adrenalina scorrermi nelle vene e la sabbia grattare su per le narici, insieme all’odore del sangue e del calore del cemento, del ferro del mio fucile incandescente tra le mie mani piene di calli ed escoriazioni. Chiamatemi cinico, senza cuore, apatico e calcolatore. Macchina. Perché ci sono cose, al mondo, che per quanto possano apparire sbagliate, insensate, folli, hanno il potere di risvegliare quella parte esistente in ogni uomo, addormentata dalla routine e da quello che la società chiama abitualmente “normalità”, e di ridarle una vita nuova, la scarica elettrica necessaria per andare avanti nonostante tutte le ferite. Questo lo si capisce sempre dopo, nella vita, quando normalmente è troppo tardi per tornare indietro e cancellare i propri rimpianti.
All’età di trentaquattro anni, fui congedato dal fronte per un proiettile afgano di troppo conficcato nella spalla sinistra che per un po’ di tempo mi mandò fuori uso il braccio e qualche nervo della gamba destra, che mi trascinai come un fardello troppo pesante per qualche mese prima che, di ritorno alla civiltà, non mi fu rimediato un incarico temporaneo, prima del prepensionamento, al Maudsley Hospital nel sud della capitale inglese.
In tutta sincerità, quando ottenni la laurea in Medicina non avrei mai pensato di finire a lavorare in un ospedale psichiatrico. Tanto meno di andare in guerra come medico militare, sia chiaro. Ma, a quanto pare, non ero nato per la vita tranquilla, casa, lavoro, famiglia e amici dall’ottima reputazione, e dunque non mi rimase altro che firmare il contratto ed indossare il camice bianco che, effettivamente, non avevo mai portato, sostituito in Afghanistan dalla divisa mimetica con una fascia bianca al braccio dov’era appuntata la croce rossa che mi distingueva dalla massa dei comuni soldati mandati a morire nel deserto.
Mike Stanford, un mio ex compagno di corso all’università, mi aveva consigliato un appartamentino in centro, piccolo ma comodo, nel mentre che attendevo di essere trasferito in una delle residenze per i dipendenti vicino all’ospedale, una di quelle belle, col salotto e due bagni, la terrazza ampia vista cemento armato e campi da gioco per i pazienti meno pericolosi.
Mi svegliai presto, il primo giorno di lavoro. Le abitudini del soldato non erano ancora scomparse, insieme agli incubi che, molto probabilmente, erano la vera causa del perché, pur andando a letto relativamente tardi, mi svegliassi sempre due, tre ore dopo essermi coricato.
Barba, doccia tiepida in tre minuti, caffè rigorosamente amaro, spazzolino senza dentifricio e pettine. Poi, letto, vestiti e computer. Il tutto portato a termine in una quarantina di minuti scarsi.
Restavano ancora due ore prima della sveglia, tempo che occupai aggiornandomi delle ultime notizie davanti al telegiornale delle cinque della BBC1: una rapina alla banca, un paio di omicidi, scioperi della metro, del buon sano gossip sui politici corrotti e la visita del papa in Africa.
Non era cambiato un accidente, insomma. Tutto nella norma. Ero tornato a casa ed ero tornato a sentirmi più solo che mai.
Non avevo una donna. Mi era restato il ricordo di mia madre, morta poco prima di Natale durante la mia missione a Kandahar, di mio padre, fuggito con la segretaria in Svizzera poco dopo la mia partenza, e di Harry, mia sorella, con la quale non avevo un dialogo civile dall’età di quindici anni quando lei, appena ventenne, era scappata di casa insieme alla sua attuale compagna. Ci sentivamo per telefono solo per le feste e i rispettivi compleanni per chiederci come ce la passavamo e se avevamo bisogno di qualcosa, conversazioni che si troncavano dopo neanche cinque minuti in dei semplici “allora stammi bene” o “ci sentiamo presto” che lasciavano il tempo che trovavano.
Le telefonai quella stessa mattina, sicuro che l’avrei trovata sveglia come me.
Pronto?
“Ciao, Harry. Sono io.”
John? Il mio caro, vecchio fratellino?!
“In carne ed ossa. Sei sobria?”
Ovvio! Che c’è? L’alito mi puzza di alcol?
“Harry, siamo al telefono. Non posso sentirti l’alito.”
Lo so. Come stai?
“Tu come stai?”
Benone. Quando sei tornato?
“Una settimana fa. Ho avuto tempo di telefonarti solamente ora. Sono stato impegnato a trovare lavoro e una sistemazione.”
E dove sei adesso?
“Londra. Stamattina è il mio primo giorno di lavoro.”
Come commesso al Tesco?
“Al Maudsley.”
Un attimo di silenzio, poi un sospiro stanco. Dopotutto, pensai, mi doveva voler ancora molto bene.
Oh Cristo, John. Sei ridotto proprio male, allora.
“Più di quanto non lo fossi in Afghanistan. Clelia come sta?”
Clara.
“Lei.”
Bene. Abbiamo trovato casa nei dintorni di Brighton. Le piace il mare, sai…
“Benone. Sei felice?”
Perché me lo chiedi?
“Non so. Forse a mamma farebbe piacere sapere che almeno uno dei due lo è.”
Altro sospiro.
Non sei felice, John?
“Dormo sì e no due ore e mezza per notte, mangio di merda e ho un incarico temporaneo in un manicomio. Direi che ci sono vicino, alla felicità.”
Non abbatterti. Hai superato battaglie ben più difficili, fratellino.
“Ma mai contro me stesso, sorella.”
John.
“Mh?”
Manchi…
“Cos’è tutto questo sentimentalismo?”
Fanculo.
“Mi manchi anche tu, Harry.”
Le sei e mezza arrivarono prima del previsto. Mi sistemai il nodo della cravatta – odiavo le cravatte, soprattutto quelle non a righe – indossai la giacca nuova, presi il bastone che mi fungeva da sostegno per la gamba ancora dolorante, e uscii con la valigetta di pelle, vuota, e il camice sottobraccio.
Era una di quelle tipiche giornate nella capitale, elettriche, nuvolose, che ti fanno passare la voglia di stare al mondo, a meno che tu sia nato a Londra e sia provvisto di ombrello e stivali di gomma. Non possedendo un’auto, dunque, optai per il caro vecchio taxi sperando di avere abbastanza soldi per pagare il viaggio.
Inorridii alla mia immagine riflessa nello specchietto retrovisore della vettura: apparivo molto più vecchio della mia età. Le rughe della fronte e intorno agli occhi mi avevano paralizzato lo sguardo in una perenne espressione corrucciata che non donava per niente al mio carattere, solitamente mite e tendente all’ottimismo. Per non parlare del pallore quasi spettrale della pelle, nonostante i mesi al fronte, e di quei cinque, sei chili da metter su, rivelatori di una dieta trascurata per molto, troppo tempo.
Durante il viaggio, durato una mezzora scarsa, fui trafitto da una decina di spasimi alla gamba ed infastidito da costanti formicolii alla mano sinistra che mi tremò per tutto il tempo, costringendomi a chiuderla a pugno e a riaprirla più volte per darmi un po’ di sollievo.
Prendevo delle pastiglie, era ovvio. La riabilitazione aveva fatto gran poco e non aveva potuto niente contro i tremori e le fitte che accompagnavano le mie giornate come fastidiosa zanzare notturne, risultato di uno sforzo psicofisico non da poco e delle indelebili cicatrici dell’anima.
Sperai in cuor mio che tornando al lavoro e ristabilendo un minimo di relazioni umane le mie condizioni sarebbero migliorate o, quanto meno, si sarebbero stabilizzate.
In fondo a un lunghissimo viale alberato, poco distante dalla strada principale, vidi sbucare un’enorme struttura di mattoni rossi dalle alte colonne bianche e un piccolo spazio verde di fronte.
“Carino” pensai, rimangiandomi le parole subito dopo esser sceso dal taxi quando l’aria fredda di quella mattina di tardo inverno m’investì con tutta la sua forza, facendomi rabbrividire da capo a piedi.
Pagai il tassista e mi avviai, appoggiandomi al bastone, verso l’entrata principale, salendo i gradini con non poca difficoltà.
Dentro, fui travolto dall’odore acre della candeggina e dal profumo dei disinfettanti tipico di ogni ospedale che si rispetti. E quello era il migliore, nel suo campo. Di quello ero più che certo.
“Buongiorno!” trillò una voce cristallina echeggiando dal fondo del lungo corridoio centrale.
Mi voltai in sua direzione, scorgendo una figura femminile in divisa ciabattare verso di me.
“Salve” le risposi quando mi fu abbastanza vicina da poterle stringere la mano.
“Lei deve essere il dottor Watson” fece la donna, sorridendomi.
“Al suo servizio.”
“Molto lieta. Sono Susan Lloyd, infermiera.”
“Piacere di conoscerla.”
“Mi segua, prego.”
E così feci. Zoppicai dietro di lei cercando di mantenermi all’altezza del suo passo svelto lungo tutto il corridoio, poi a destra e ancora a destra, finché non fummo davanti alla porta di una stanzetta piuttosto piccola, dove c’era una targhetta che riportava il nome di quello che si sarebbe poi rivelato essere il mio capo.
L’infermiera bussò con la nocca dell’indice tre volte.
“È arrivato!” urlò a chiunque si celasse dentro la stanza, per poi mi congedarmi con un semplice “il dottor Morgan sarà subito da lei”.
E difatti, dopo qualche secondo d’attesa, la figura alta e sciatta del suddetto dottore sbucò da dietro la porta di quello che doveva essere il suo studio, fissandomi con un’inquietante aria da ermellino stampata sulla faccia stretta ed oblunga.
“Dottor Watson?” sibilò con fare sospettoso, facendo capolino da dietro lo stipite e sistemandosi i fondi di bottiglia che aveva come occhiali sul naso aquilino e poroso.
“Sono io. Buongiorno.”
Sembrò rilassarsi un poco quando riuscì a mettermi a fuoco, e non attesi molto tempo ancora prima che mi facesse accomodare.
“Dunque,” esordì, schiarendosi la voce e riprendendo posto alla scrivania di legno scuro e sverniciato in più punti “innanzitutto le do il benvenuto al Maudsley Hospital. Ho preso visione del suo curriculum giusto ieri sera…”
Mi pareva di stare seduto davanti alla Santa Inquisizione. Non tanto per l’aspetto dannatamente lugubre dell’ufficio, o per il cervello umano in formaldeide che il dottor Morgan conservava su una mensola alle sue spalle, insieme ai libri e ad alcune cartelle cliniche, e nemmeno per lo sgradevole odore di polvere e fiori marci che diffondeva da ogni angolo; piuttosto per il tono profondo e querelante che stava assumendo con me. E non mi sentivo il benvenuto, proprio per niente, un po’ come un visitatore tra le tombe di un cimitero troppo grande.
“… Il massimo dei voti al college, ottima condotta sotto le armi, coraggioso, intraprendente, ligio al dovere. Tutte le qualità necessarie per ottenere un posto nel nostro rispettabile ospedale. Tuttavia, lei si ritiene all’altezza delle nostre aspettative, dottor Watson?”
Intrecciai le dita delle mani in grembo, torturandomi le maniche troppo lunghe della giacca e cercando di sostenere quello sguardo raggelato dal pregiudizio e dall’età, incredibilmente dilatato dalle lenti spesse degli occhiali che, in quel momento, sembravano volermi sottoporre a vivisezione.
La pelata gli riluceva opaca sotto la luce fioca dell’unica lampada sul soffitto, rivelando in quell’uomo un non so che di dickensiano nell’aspetto e nei modi.
“Mi impegnerò a fondo per esserlo, dottor Morgan” dissi solo, esibendo il mio miglior tentativo di sorriso.
Il medico assottigliò lo sguardo, per quanto i suoi occhiali glielo permettessero, senza proferire parola per un istante che a me parve durare un secolo. Quindi, allargò le labbra sottili e violacee in quello che mi sembrò essere un tentativo di approccio umano, completamente diverso dall’atteggiamento accademico e distaccato che avevo tanto odiato nei miei professori all’università.
“Ne sono certo. Vede, dottore, questi sono tempi difficili e ultimamente le persone con disturbi psichici sono più numerose ed ingovernabili di una volta. L’elettroshock a volte non basta, e neanche gli psicofarmaci. Abbiamo bisogno di personale attento e qualificato, pronto ad intervenire con freddezza ed oggettività quando è necessario. Le verrà assegnato il settore uomini, reparto pazienti con disturbi dell’umore e della personalità. La guerra le avrà certamente insegnato cosa vuol dire reprimere certi… sentimenti, a combattere le angosce e a resistere agli stimoli di tipo negativo. Lei mi sembra una persona per bene e desidero che porti nelle menti di queste povere anime perdute lo stesso equilibrio e tranquillità di cui hanno estremo bisogno. Posso contare su di lei per questo?”
Sulla persona per bene non avevo alcun dubbio. Sì insomma, aver ammazzato qualche afgano in battaglia, aver chiuso gli occhi di fronte a padri di famiglia e ragazzi della mia età dilaniati dalle mitragliatrici certo non faceva di me un criminale. Ma sul mio equilibrio mentale e sulla tranquillità che avrei dovuto infondere ai pazienti, beh, non ci avrei scommesso neanche un penny.
Mi ripetei che sarebbe stato solo per un po’, qualche mese forse, un anno al massimo, prima che arrivassero le carte del mio definitivo ritiro a vita privata con una pensione davvero niente male per ricominciare a vivere decentemente.
“Certo. Grazie, dottore” dissi continuando a sorridere, certo che la mia affabilità sarebbe stata la mia arma vincente più di qualsiasi curriculum.
“Bene. Le consegno le chiavi della sua stanza alla residenza dei dipendenti. Edificio tre, piano terra, camera B. Nello stesso piano, c’è la camera del dottor Thompson, del reparto violenti, e di un infermiere del suo stesso reparto. Buona fortuna, dottor Watson.”
Detto questo, mi allungò un mazzo di due chiavi, una la copia dell’altra, e mi congedò col sorriso da fauno ancora sulle labbra.
Giunto alla residenza, sistemai  le poche cose che mi ero portato dietro nell’armadio di fronte al letto, un due piazze dal materasso comodo e alto, sistemato di fronte al balcone, piccolo ma con una deliziosa vista sul giardino sul retro della struttura e sui campi da gioco di cui mi aveva parlato Mike.
Avrei cominciato l’indomani, dunque avevo tutto il tempo per ambientarmi, firmare tutte le carte che c’erano da firmare, fare conoscenza con lo staff e tornare a casa per prendere il resto delle mie cose. Mi sarei portato lo stretto indispensabile. La biancheria, qualche maglione, delle camice, tre paia di pantaloni, magari uno di jeans, il computer e uno spazzolino. La residenza era carina, ci stavo bene, ma i tempi dello studente fuori sede erano finiti da tempo e non avevo più il fisico per cose del genere.
La mia prima notte alla residenza trascorse tranquilla, tra un incubo e l’altro s’intende. Normale.
Mi svegliai alle quattro e mezza, portai a termine il rituale della doccia, del caffè e del computer.
Avevo un blog. L’avevo creato subito dopo il mio ritorno. Secondo la mia analista mi avrebbe aiutato a scaricare le tensioni e a “buttare fuori” tutta la negatività.
Scrissi per un’oretta prima di uscire e raggiungere il reparto a cui ero stato assegnato.
Era un bel reparto, dalle pareti giallo pastello verniciate di fresco, una sala lettura, una per l’arte e la musica, uno stanzone più grande dove erano seduti alcuni pazienti intenti a guardare la tv o il muro davanti a sé, la mensa, una caffetteria e poi il corridoio delle stanze dei degenti.
Un collega, un certo Brown, mi spiegò le regole principali del reparto, le mie mansioni e le scadenze durante la giornata. La sveglia dei pazienti era alle otto, la colazione era servita dalle otto e un quarto alle nove, poi iniziavano le varie attività. Chi in sala lettura, altri in sala artistica o musicale, altri ancora nel giardino o nei campi da gioco. Poi, pranzo alle dodici, medicine e riposino fino alle tre e mezza. Nel pomeriggio, ancora attività, per alcuni visita dal dottor Smith, lo psichiatra, fino alla cena che veniva servita alle sette. Le luci dovevano essere spente alle nove.
“Peggio che a militare!” scherzai quando mi venne consegnato un taccuino dove erano stati annotati tutti i miei appuntamenti per quella giornata.
“Che tipo di pazienti sono?” chiesi poi al mio collega, un tipo non molto propenso all’umorismo.
“Specialmente disturbati nell’umore e nella personalità. Abbiamo diversi paranoici, due depressi gravi, un disturbo bipolare e un catatonico. Niente di impegnativo. Sei fortunato a non essere capitato tra i violenti.”
“Davvero fortunato” risposi, continuando a sfogliare il programma.
Il grosso del lavoro veniva svolto dagli infermieri, come la pulizia dei pazienti più impegnativi e non autosufficienti, la somministrazione delle medicine e la sorveglianza. La mia mansione riguardava le visite generali e il controllo dei progressi di ogni paziente.
“Vieni, te li presento.”
Il dottor Brown mi accompagno alla sala grande, quella della tv, dove erano raccolti più o meno tutti.
“Lui è Carl” iniziò indicandomi un signore sulla sessantina seduto sul divano che non la smetteva di fare zapping bestemmiando e maledicendo ogni canale che gli capitava sotto mano. “Lui invece è Simon, lui James e quello vicino alla finestra è Tom.”
Simon, un ragazzo abbastanza giovane, era steso per terra, a pancia in giù, e da quello che riuscii ad intendere della sconclusionata cantilena che mormorava, ce l’aveva con un gattino sopra una staccionata che dava la caccia a un topino di campagna che gli aveva bevuto tutto il latte.
James, invece, mi salutò cordiale imitato subito dopo da Tom il quale però agitò la mano verso qualcosa fuori dalla finestra, invece che verso di me.
Proseguimmo le presentazioni e capii che quella sarebbe stata una lunghissima giornata.
Quel giorno, visitai una decina di persone e non serve aver lavorato in un manicomio per poter immaginare la pena e il dolore nel toccare con mano la sofferenza sia fisica che psichica dei pazienti di cui mi prendevo cura.
Ci fu un momento in cui non riuscii a convincere un ragazzo sulla trentina di nome Jonathan, ipocondriaco, a spogliarsi per l’auscultazione, convinto che il mio stetoscopio fosse infestato da una colonia di germi pericolosissimi e letali. Ci misi una buona mezzora prima che si decidesse a togliere almeno la felpa, restando in canottiera.
Fatto sta che arrivai a mezzogiorno con un mal di testa lancinante. E non mi sentivo più la gamba.
“Si sente bene, dottore?” chiese a un certo punto il mio ultimo paziente, Jack, un bambinone di quarant’anni o poco più all’apparenza neanche tanto anormale, quando arrivai a non riuscire a tenere in mano neanche una penna.
“Sì, sì… Grazie.”
“Dovrebbe riposare, sa? Sam me lo dice sempre quando mi tremano le mani.”
“Chi è Sam?” chiesi allora in un sospiro, strofinandomi gli occhi con l’indice e il pollice della mano buona.
“Sam è mio amico. Vive dietro il mio orecchio e ha la pelle viola” rispose con un sorriso inebetito dalla malattia, appoggiandosi poi un palmo raccolto a coppa dietro il padiglione auricolare e cominciando a sussurrare qualcosa a me incomprensibile.
A quel punto, desiderai ferventemente di bere un caffè amaro, amarissimo, e di dormire per la restante parte della mia esistenza.
La prima settimana passò più lentamente del previsto e avevo il fisico a pezzi. Dopo due settimane, chiesi un permesso di una giornata per rimettermi in sesto e farmi visitare.
Le mie condizioni stavano peggiorando e avevo bisogno di aiuto. Andavo da Ella una volta la settimana, scrivevo nel blog, prendevo le medicine, ma nulla sembrò bastare per calmare le fitte e cancellare o, quanto meno, diminuire gli incubi notturni. Galleggiavo in una bolla di sofferenza e solitudine, alleviata soltanto da qualche sporadica uscita il venerdì sera coi colleghi e dalle passeggiate in giardino in compagnia di qualche paziente o infermiera.
Tuttavia, ancora ignoravo che la vita aveva in serbo qualcosa di più che le pastiglie e un lavoro che non amavo, per me. Ancora ignoravo che c’era ancora speranza per un ex soldato e medico fallito incapace di raccogliere i pezzi della propria esistenza e rimetterli a posto.
La mia vita ricominciò a prendere colore e significato un’anonima e nebbiosa mattina di primavera come tante altre, al Maudsley, in cui il vento tiepido accompagnava il profumo dei primi fiori del ciliegio in giardino fino dentro l’ospedale portando un po’ di allegria nel grigiore dell’ennesima giornata di lavoro.
Stavo compilando una cartella clinica, seduto al tavolo della sala grande, quando verso le dieci e mezzo udii dei passi trascinarsi su per le scale e poi lungo il corridoio, fermandosi davanti all’accettazione del mio reparto.
Sentii anche un vociare basso e concitato, composto da più toni tra cui distinsi subito quello del mio collega e di un infermiere. Passarono un paio di minuti prima che scoprissi a chi appartenessero le altre voci.
Un uomo, distinto, sulla quarantina, avanzava lento e composto al fianco di un altro, un poco più alto e molto più snello, che non doveva avere più di trent’anni a giudicare dai lineamenti quasi fanciulleschi di un viso pallido e freddo come il marmo più pregiato. I due seguirono il mio collega e l’infermiere fino alla sala grande dove stavo io e, in pochi passi, mi ritrovai tutti e quattro davanti schierati.
“John, ti presento i signori Holmes” annunciò il dottor Brown.
Mi alzai a fatica, aiutandomi col bastone, e li raggiunsi. Ammetto che rimasi leggermente turbato da quelle due paia di occhi straordinariamente chiari che mi fissavano indagatori per tutta la lunghezza del mio corpo, ma cercai di non farmi intimorire più di quanto non fossi già e allungai una mano verso il più anziano dei due ospiti.
“Dottor Watson, molto lieto.”
“Il piacere è mio, dottore. Il mio nome è Mycroft Holmes e lui è mio fratello, Sherlock” si presentò con un tono rigoroso ma cortese, indicando con la mancina l’uomo al suo fianco.
Sorrisi ad entrambi, perdendomi per un istante nello sguardo ai limiti del magnetico di colui che mi fu presentato come Sherlock Holmes. Potei distinguere, nell’azzurro quasi grigio di quegli occhi, un caleidoscopio di sfumature cromatiche che andavano dal blu più intenso al verde smeraldo, e ne rimasi del tutto affascinato.
“Lieto di conoscerla, signor Holmes” dissi allungandogli la mano che, tuttavia, si limitò a fissare per qualche istante prima di stringerla a sua volta.
“Afghanistan o Iraq?”
Non serve che mi dilunghi molto su come mi sentii quando quell’uomo mi pose tale domanda.
Mi limitai a corrugare la fronte e ad assottigliare lo sguardo cercando di mettere a fuoco quell’individuo che appariva più come un amministratore delegato di qualche marca di medicinali che altro. Non poteva certo essere un paziente. Non aveva l’aspetto di un deviato mentale. Anche se quella domanda, in tutta sincerità, sconvolse completamente le mie affrettate conclusioni a riguardo.
“Come scusi?” feci sciogliendo la stretta di mano.
“Sherlock, non…” intervenne il maggiore degli Holmes, irrigidendosi, tuttavia senza riuscire nell’intento di bloccare il fratello.
“È di certo un ex militare, a giudicare dal taglio dei suoi capelli e dalla catenina delle piastrine che s’intravede sotto il collo della camicia, per non parlare del segno dell’abbronzatura a livello del polso. Nonostante le condizioni climatiche di Londra negli ultimi due mesi, le sue mani e il volto sono più abbronzati di qualunque altra parte del corpo, dunque ne deduco che ha indossato fino a circa… tre settimane fa un indumento che le ha lasciato scoperti solo le mani e il viso. Una divisa. Afghanistan o Iraq?”
Il primo pensiero che mi attraversò la mente fu geniale. Semplicemente geniale.
“Afghanistan” fu la mia risposta, alla quale Sherlock Holmes sorrise soddisfatto.
Mycroft Holmes, invece, roteò gli occhi sbuffando e scuotendo poi il capo.
“Deve scusarlo, dottore. Non ne può fare a meno.”
“No, no! È semplicemente… straordinario.”
A quelle mie parole, del tutto sincere, il ragazzo mi guardò stranito, come se avessi iniziato a parlare in un’altra lingua.
“Davvero?” mi chiese Sherlock, seriamente colpito da quella mia affermazione.
“Sì. Davvero.”
Dopo quell’iniziale scambio di battute, la conversazione approdò su lidi prettamente professionali e mi fu confermato che Sherlock Holmes sarebbe stato il nuovo paziente del mio reparto. 









Note:
(1) Citazione del filosofo tedesco F. Nietzsche, che adoro.
(2) Sì, insomma... Per iniziare con un proiettile in una tempia. Riferimento della scena che ha distrutto la vita a milioni di fans (terzo episodio, seconda stagione)





Author's Corner:
Ed ecco che mi cimento per la prima volta in una storia a capitoli. Non saranno molti... non vi odio così tanto.
La storia mi è stata ispirata dal film "Ragazze interrotte" del 1999, visto l'altra sera.
Sono sempre stata affascinata dai meccanismi della mente umana e dalle malattie che, purtroppo, la colpiscono.
Intraprendo un percorso alternativo rispetto a quello su cui mi sono basata finora, toccando anche argomenti delicati. Per cui mi scuso in anticipo se inavvertitamente urterò la sensibilità di qualcuno.
Il mio scopo è quello di trasporre questi personaggi in un'altra dimensione, semplicemente, mantenendo tutte le loro principali caratteristiche.
Spero che il tentativo venga comunque apprezzato e che mi onorerete delle vostre recensioni qualunque sia la vostra opinione.
Thank you.

miss potter

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Capitolo 2
*** Chapter two ***


Chapter two





Disturbi dell’umore e della personalità, difficoltà nel rapportarsi con gli altri, episodi di autolesionismo e un tentativo di suicidio. Iperattivo, incapace di adempiere ai compiti assegnatigli. Recente disintossicazione da sostanze stupefacenti (cocaina ed eroina per lo più). Sociopatico.

Così recitava la sua cartella clinica, anche se ancora stentavo a credere che quella mente evidentemente brillante avesse qualche problema o devianza e che dietro a quegli occhi così attenti e vigili si celasse un tossico.
Durante il primo colloquio del fratello dallo psichiatra, il maggiore degli Holmes espresse il desiderio di scambiare due parole con me in privato, dunque lo feci accomodare nella stanza delle visite.
Prima di aprir bocca, mi guardò con un’aria terribilmente tetra, molto diversa dall’atteggiamento pragmatico e quieto con cui si era presentato quando lo conobbi.
“Dottor Watson, lei deve sapere che mio fratello non è una persona da sottovalutare. Lui negherà tutte le cose che sono scritte nella sua cartella personale, cercherà di dissuaderla dall’avere effettivamente un problema e non sarà d’accordo nel prendere i farmaci” esordì, la preoccupazione scolpita in ogni ruga del viso paffuto ma al contempo segnato dagli anni e, soprattutto, dalla costante apprensione.
“Signor Holmes, credo di sapere fare il mio lavoro, e anche molto bene. Suo fratello è in buone mani, glielo posso assicurare” cercai di tranquillizzarlo, ma sapevo che in realtà non avevo ottenuto un grande successo.
Non sapevo convincere me stesso, figuriamoci gli altri. E poi, in tutta sincerità, mi pareva di parlare ad una statua di sale, o di ghiaccio, tagliente in ogni suo spigolo, nelle mani, nella mandibola, nell’espressione perennemente indagatrice di quegli occhi grigi, nelle parole. Non l’avrei scalfito né in quel momento né mai, Mycroft Holmes.
“Ne sono certo. Voglio solo che lo segua, giorno e notte, e attentamente. Non si fidi mai e non gli tolga gli occhi di dosso. Non è come sembra. Ma dalla sua mano sinistra, dottore, posso dedurre che io possa stare tranquillo, non è vero?”
Con mia più gradita sorpresa, mi accorsi che il tremore alla mano sinistra era effettivamente sparito, almeno fino a che non ne presi piena coscienza, momento in cui le dita tornarono a formicolare. Tuttavia, la sorpresa per la cessazione dei dolori alla mano non fu grande come quella verso colui il quale me l’aveva fatta notare. Giurai a me stesso che, non appena il colloquio fosse finito, sarei andato su Google e avrei digitato “Holmes”. O ero io ad essere particolarmente trasparente ai loro occhi, o dovevano venire da un altro pianeta. Fatto sta che la cosa non mi piaceva, proprio per niente, e fu per me come tornare ai bei vecchi tempi dell’Afghanistan. Stavo già meglio.
Dormii un’ora in più, quella stessa notte. E feci un sogno. Uno non molto diverso da tutti quelli da cui mi risvegliavo di soprassalto nel bel mezzo della notte, sudato e tremante. Sognai di correre a perdifiato nel deserto, imbracciando il mio fucile, e correvo, correvo, non so verso cosa o via da chi, ricordo solo che correvo. Ad un tratto, mi sentii un piede sprofondare nel terreno e, insieme ad esso, tutta la gamba ed infine il resto del corpo, lasciandomi solo il collo e la testa scoperti. Ero caduto nelle sabbie mobili e mi agitavo come un pesce nella rete anche se ero cosciente che più mi fossi mosso, più sarei affondato fino a trovare la morte. Non riuscivo a stare fermo, dovevo uscirne ma più mi impegnavo a tirarmi fuori da quella trappola di fango e sabbia, più sprofondavo, e a nulla servivano le grida di aiuto, tantomeno le preghiere.
All’improvviso, però, una luce abbagliante, ancor più forte di quella del sole afgano o di qualsiasi fulgida stella mi apparve dinnanzi come un miraggio.
“Dio?” ricordo di aver sussurrato, sbattendo più volte le palpebre per individuare chi si celasse dietro quello sfolgorante bagliore dorato.
“Non essere sciocco, dottore” rispose una voce, profonda e strafottente. “Dammi la mano.”
Riuscii, non so come, a far riemergere un braccio, allungandolo senza esitare verso quella luce. Percepii una mano prendere la mia e tirare, fortissimo, finché tutto il mio corpo non fu di nuovo fuori e in salvo.
Feci giusto in tempo ad alzare la testa da terra per ringraziare chiunque mi avesse tratto in salvo ma riuscii solo a distinguere un paio d’occhi verdazzurro risplendere e sorridermi nel centro esatto del bagliore, prima che sparissero in una nuvola di fumo con la stessa velocità con cui erano apparsi e che mi svegliassi dal sogno con un’unica parola sulle labbra: Sherlock.
La mattina mi presentai al lavoro decisamente più disteso e riposato. Bevvi il mio caffè amaro e salutai con cortesia tutto lo staff dei colleghi e degli infermieri che, per la prima volta dal mio arrivo, ricambiarono con spontaneità il sorriso.
Era arrivato qualcosa di nuovo all’ospedale, ma io ancora non lo sapevo. O forse attendevo un segno. O forse no. Fatto sta che, quella mattina, visitai il nuovo paziente, il sociopatico tossico e paranoico di cui mi era stato fatto terrorismo psicologico, e il destino si presentò alla mia porta con la stessa violenza distruttiva di un ciclone estivo.
“Buongiorno, dottore” disse.
Quella voce, la stessa del mio sogno, mi accolse profonda e superba rivelando ben presto il suo proprietario, seduto sul lettino, completamente nudo che mi fissava.
Ricordo che mi paralizzai appena fuori dall’ambulatorio, affrettandomi poi ad entrare e chiudere la porta a chiave per evitare possibili fraintendimenti.
“Signor Holmes…”
“Sherlock, la prego.”
“Sherlock, non era necessario che si denudasse del tutto.”
Il paziente inclinò il capo assottigliando lo sguardo e mi sentii strano, come una cavia all’interno di una teca di vetro con quello sguardo cristallino addosso e dentro di me che pungeva più di mille aghi, studiato ed analizzato da cima a fondo.
Chi dei due fosse realmente più scoperto all’altro, beh, non lo seppi dire.
“La metto in imbarazzo?”
“No! Cioè… sono un dottore. Sono abituato a certe… cose.”
“Certe… cose?”
Decisi che sarebbe stato meglio iniziare subito la visita così da congedare il prima possibile quell’individuo che, evidentemente, aveva davvero qualche rotella fuori posto.
“Che fine ha fatto il suo bastone?” chiese ad un tratto, un mezzo sorriso sul volto magro e pallido.
Stavo indossando il camice ma, a quell’osservazione, dimenticai di infilare una manica per guardarmi attorno. A quanto pareva, me l’ero dimenticato in camera. Ricordai di aver a che fare con un Holmes, dunque non mi scomposi più del dovuto.
“La gamba non mi fa più così male” mi affrettai a rispondere, sistemandomi la divisa.
Il suo mezzo sorriso a quel punto s’ampliò enormemente, rivelando un muro di denti bianchissimi e due buffe fossette alla base degli zigomi appuntiti. Se non fosse stato così strambo, pensai, avrei potuto scambiarlo per un ragazzo qualsiasi, leggermente cadaverico di carnagione, ma normale, fisicamente parlando.
“Dunque,” esordii indossando lo stetoscopio ed appoggiandoglielo tra le scapole “cosa mi dice di lei?”
“Cosa vuole sapere che non abbia già letto nella mia scheda?”
“Prenda un bel respiro. Non so… ha una fidanzata?”
Il ragazzo inspirò profondamente ed espirò con lentezza, alzando ed abbassando il diaframma. La sua schiena era ampia, costellata di piccoli nei scuri, molti verso il centro, altri più piccoli verso le costole e nella regione lombare. I muscoli, ben sviluppati, si contraevano e si rilassavano al ritmo del suo respiro, insieme alle vertebre a cui erano attaccati. L’evidente magrezza non lasciava molto ad immaginare, ma mi ritrovai comunque ad osservare ogni zona di quella parte anatomica che stavo esaminando, quasi non prestando la dovuta attenzione alla respirazione e al controllo dei polmoni. Non so ancora che strano effetto mi facessero quella pelle, quelle ossa sporgenti, ogni ruga, ogni minima imperfezione. Mi ritrovai solamente ad esserne irresistibilmente attratto, come un pittore davanti ad un’inestimabile opera d’arte. Talvolta i medici, forse assuefatti dalla routine, ignorano la bellezza del corpo umano, il suo intrinseco fascino, e la fortuna che hanno nel poterla sentire sotto le dita, accarezzare, manovrare a volte, oltre che ad aggiustarla, pur serbando tutto il rispetto che la professione esige.
Le mie dita scorrevano libere e calde sopra quella giovane pelle, candida e fredda come neve, assaporandone la consistenza morbida ed elastica, e rabbrividii per un attimo quando percepii un accenno di pelle d’oca sotto i miei polpastrelli.
“Quel coso è freddo” si lamentò Sherlock Holmes in un gemito.
“Chiedo perdono” dissi umettandomi le labbra e riallacciandomi al collo lo strumento. “I polmoni sono a posto.”
“Comunque, no.”
“Mi scusi?”
“Le… fidanzate. Non propriamente il mio campo.”
Scribacchiai qualcosa sul mio taccuino, cercando in contemporanea di prestare attenzione alla voce del mio paziente e sorridendo a quelle parole così inconsuete.
“Ne parla come se si trattasse di un’enciclopedia o di un saggio di chimica” gli feci notare, riponendo il quadernetto nella tasca del camice con la penna incastrata tra le pagine.
“Non lo è?” mormorò il ragazzo, osservandomi avvicinarsi a lui con l’oftalmoscopio in mano.
Trattenne il respiro quando gli sfiorai la zona sotto e sovrastante l’occhio sinistro, allargando appena le palpebre per osservare il bulbo oculare, quel piccolo, brillante pianeta azzurro che mi squadrava scettico nel suo grande universo bianco latte assieme al suo gemello dall’altra metà del viso.
“Cosa?”
“L’amore.”
La pupilla si restrinse in pochi decimi di secondo sotto lo stimolo della luce del mio strumento, rivelando un’esplosione cerulea e a tratti venata d’ambra verdastra, di un colore molto simile all’acqua marina colpita dai raggi del sole d’agosto.
La relativa vicinanza del mio viso al suo, il cui respiro calmo e tiepido s’infrangeva sulle mie labbra serrate con la stessa invadenza di una piuma portata dal vento, mi infuse uno strano calore, mai provato prima, che si andò direttamente a riversare nelle mie guance sottoforma di un’ombra scarlatta che non feci fatica a percepire, sotto la pelle.
Allontanai di poco lo strumento per guardare entrambi gli occhi di Sherlock, vicinissimi ai miei. Si può dire che fossimo l’uno immerso nella contemplazione dello sguardo dell’altro, contemplazione in cui ogni altro organo, apparato, zona anatomica avrebbe potuto tranquillamente evaporare, lasciando solo lo spazio necessario per quello scambio elettrico che mi stava facendo rizzare tutti i peli delle braccia. Ma fu quando, con la mente completamente ovattata, lasciai che posasse le labbra sulle mie che dissi addio per sempre, o quasi, al mio cervello sovraccarico d’informazioni visive. Ricordo quel momento che come se l’avessi vissuto due minuti fa, chiaro e nitido come non ero io in quell’istante eterno, in cui quel semplice contatto evolse in un bacio vero e proprio molto più velocemente di come si potrebbe pensare.
Non ricordo esattamente chi fu il primo a farsi avanti davvero, so solo che mi ritrovai ad occhi chiusi, le labbra contro quelle di Sherlock, carnose e turgide, e dietro le palpebre l’immagine di me da piccolo, disteso a pancia in su nel giardino della casa di campagna di mia nonna Rose, inabissato nel profumo delle rose appena sbocciate e con l’erba alta che mi solleticava la fronte.
Non appena riaprii gli occhi, dopo non so quanti secondi od ore, scoprii che il profumo che sentivo derivava dai capelli neri e folti del ragazzo davanti a me, e il solletico dai suoi ricci che, in quel momento, mi sfioravano la fronte.
Mi allontanai in un gesto brusco, passandomi d’istinto due dita sulle labbra ancora umide del passaggio di quelle di Sherlock, e mi appoggiai alla scrivania respirando a fondo.
“Che diavolo…”
“Perché,” m’interruppe il ragazzo con un sorriso sghembo sulle belle labbra “non le è piaciuto?”
Ero letteralmente sconvolto. Mi sentivo la pelle della faccia pulsare al ritmo dei battiti del mio cuore, come se ogni nervo ed ogni singolo capillare del mio corpo avesse dovuto esplodere da un momento all’altro, ogni organo vitale implodere, senz’aria nei polmoni ed ogni centimetro della bocca secco come terra arida e sterile. Non ricordavo da quanto tempo non mi sentivo come in quell’occasione. Forse al primo bacio, nei bagni della scuola, o forse quando uccisi per la prima volta. Mi sentivo leggero, talmente leggero e trasparente che avrei potuto toccare il cielo con un dito, schiantandomi poi con tutto il resto del corpo in una frazione di secondo schizzando in ogni mia molecola sulle pareti dell’intera galassia.
Eppure, quella terribile sensazione d’errore e di colpa mi pesava sul cuore come un macigno di cemento armato e a nulla servivano gli inspira, espira dello stramaledetto training autogeno di Ella.
“Tu,” trovai il coraggio di esalare, puntandogli un dito contro “tu mi hai baciato.”
“Ottima osservazione, davvero” borbottò guardandomi di sbieco. “Potrei seriamente prendere in considerazione di rivalutare tutto il mio metodo dopo questa rivelazione.”
“Il tuo… metodo?”
Stavo respirando a fatica, inspirando e buttando fuori aria come un corridore dopo chilometri di corsa, ed ogni parola mi usciva estremamente difficile da articolare.
“Respira, dottore. Ti verrà una sincope.”
“Allora evita di farlo un’altra volta.”
“Cosa?”
“Lo sai.”
Rise di gusto, facendo echeggiare la sua voce profonda ma cristallina per tutta la stanza, per poi scuotere la testa facendo così ondeggiare quei suoi piccoli boccoli color ebano che ricordai di aver visto riprodotti in qualche quadro di un dio pagano al National Gallery.
“Hai problemi con le definizioni stamattina?” disse quindi, alzandosi dal lettino per riappropriarsi dei vestiti precedentemente ripiegati con cura su una sedia vicina.
Volsi lo sguardo dal suo corpo con un po’ d’imbarazzo nei confronti delle sue nudità, senza poter tuttavia fare a meno di notare, grazie alla coda dell’occhio, l’ampiezza e la possanza greca del torace, pallido e glabro, e gli addominali scolpiti.
Quasi mi vergognai di provare quelle emozioni alla sola vista di quelle membra così anatomicamente perfette ed equilibrate, come se non ne avessi viste di simili, o anche di migliori, in tutta la mia carriera da medico. Ma, soprattutto, non comprendevo quell’attrazione, quell’interesse che si stava spingendo ben oltre al semplice e comprensibilissimo apprezzamento estetico.
Insomma, ero sempre stato attratto dalla donne, da un bel seno abbondante, dalla curva sinuosa dei fianchi, dalla pelle liscia e morbida delle loro gambe. Non ero gay. Non lo sono mai stato e mai lo sarò.
Non riuscivo tuttavia a spiegarmi il motivo per il quale, mentre Sherlock si rivestiva, avrei tanto desiderato tramutarmi in quella camicia, di un viola scuro che credo si chiami vinaccia, che leggera gli accarezzava il petto per poi scendere lentamente sull’addome ed essere sistemata dentro i pantaloni scuri ed eleganti, allacciati con la cintura di cuoio nero che un paio di mani, grandi ed affusolate, stringevano in vita.
Desiderare di essere una camicia, pensai, dandomi mentalmente dell’idiota… che scemenza.
“Se abbiamo finito, dottore, io me ne ritornerei in camera” disse con tutta la calma di questo mondo, sistemandosi il colletto.
“Ehm, sì. Ci… ci vediamo domani.”
Mi sorpassò con un’andatura elegante e sinuosa, ondeggiando i fianchi e voltandosi indietro per un istante prima di far scattare la serratura e scomparire oltre la porta del mio ambulatorio.
“La mia stanza è la numero 221. Passa a trovarmi, qualche volta” ammiccò, chiudendosi poi la porta alle spalle. 

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Capitolo 3
*** Chapter three ***



Buondì! Ecco sfornato, bello caldo, il terzo capitolo del risultato di un'incredibile botta in testa. Non sarà particolarmente concludente, nel senso che lo considero come un capitolo di passaggio, abbastanza leggero, che farà da preambolo a qualcosa di più serio prossimamente.
Enjoy!

miss potter








Chapter three







Dopo l’episodio all’ambulatorio, cercai di sforzarmi a mantenere coi miei pazienti, soprattutto con certi, un atteggiamento essenzialmente professionale e pragmatico. Nessun coinvolgimento emotivo ed emozionale. Non c’è spazio per le emozioni in certi mestieri, in certi uomini, e io dalle emozioni ne ero sempre uscito scottato.
Ma allora perché, nel buio delle mie notti e dei miei pensieri, rivivevo quel momento con la stessa nitidezza e con il medesimo ardore, come se quelle labbra a cuore non si fossero mai staccate dalle mie? Ero pentito, mi sentivo sopraffatto dai sensi di colpa per quello che avevo fatto e che mi ero lasciato fare. Avrei dovuto riferire l’accaduto a chi di dovere, farmi trasferire, far spostare il paziente in un altro reparto, fare rapporto…
Ma allora perché, mi chiedevo, rigirandomi più e più volte nel letto, l’avrei rifatto altre cento, mille volte?

“Perché, non le è piaciuto?”

Ricordo molto bene come, quel venerdì sera al pub in compagnia di Sarah, mi illusi di annegare nel bicchiere di liquore davanti a me tutti i pensieri che quella semplice domanda aveva scatenato nella mia mente.
“Whiskey, John? Devi dirmi qualcosa?”
Sarah era la mia ragazza. O almeno, lo era stata. E in quel momento era tornata ad esserlo, chissà. Solamente, ne avevo bisogno e, probabilmente, andava bene ad entrambi.
La cosa si svolgeva da anni sempre nella stessa obsoleta maniera: telefonata, pub, sesso e di nuovo telefonata il giorno dopo, per poi non risentirsi per altri sei mesi.
“Scusami?” mormorai, distogliendo lo sguardo dal colore ambrato della bevanda nel bicchierino che tenevo tra le dita e posandolo sul suo, corrucciato ed indagatore.
“L’Afghanistan ti ha cambiato, John” si limitò a dire fissandomi con biasimo, accendendosi poi una sigaretta.
Da quando fumava?
“Tu non sei cambiata di una virgola, invece.”
Infatti era rimasta la stessa ansiosa, perennemente preoccupata donna impulsiva che conobbi al college. Tutta studio e calze grosse, picnic al parco e Natali dai suoi.
L’apprezzavo. Era una buona studentessa, a suo tempo, anche una buona amica e, sì, anche un ottimo sfogo contro la noia del weekend e delle migliaia di pagine da studiare per l’esame di istologia. Ma amarla… Oh, beh. L’amore è un’altra cosa.
Quella sera al pub mi guardò come se mi vedesse per la prima volta dopo tanto tempo, cosa che in realtà era, in effetti, ma non si sforzò nemmeno per un attimo di non farmi pesare il fatto di averla abbandonata – parole sue – sul ciglio della frase “John, ci frequentiamo da mesi ormai, non pensi che dovremmo formalizzare la cosa?”.
Come se i sentimenti, la “cosa” di cui sopra, potessero essere impressi su della carta patinata così facilmente.
Non ero fatto per il matrimonio, io. Troppo… impegnativo. Insomma, avevo venticinque anni all’epoca. Le uniche cose che mi interessavano spaziavano dall’ottenere la laurea il prima possibile, cercare di non vomitare come una sciocca matricola ad ogni tirocinio e di non farmela sotto al solo pensiero che l’estate dell’anno dopo sarei partito per il fronte, senza sapere se avrei fatto mai ritorno. Non era tra le mie priorità, il matrimonio, e non lo sarebbe stato mai molto probabilmente. Forse, non ero geneticamente progettato per cose del genere, per ingabbiare un “ti amo” all’anulare da rigirare tutto il giorno, da togliere per lavare i piatti o quando le cose non vanno come previsto.
Sarah lo sapeva. Ma non si finisce mai di sperare che la cosa che hai perso ritorni da te, prima o poi, insieme a tutto il condiviso e il sofferto, senza sconti, con tutto il peso dei miracoli che ogni tanto ti fanno il dispetto di avverarsi.
Usciti dal locale, l’avevo accompagnata fin sotto casa sua dove mi aveva preso per mano, tirando fuori le chiavi dalla borsetta ed aprendo il portone. Eravamo saliti, mi ero tolto giacca, scarpe, vestiti e mi ero lasciato trascinare in camera da letto, senza l’accompagnamento musicale delle prime volte né tanto meno quello delle dolci parole d’amore disilluso, sussurrate all’orecchio mentre l’uno spoglia l’altra, assorti nel rumoroso silenzio degli amanti occasionali e bugiardi.
“John…” mi sussurrò nella penombra grigiastra di quella mattina piovosa, nuda e bella come a vent’anni, tra le lenzuola sfatte ed odorose di sesso, i lunghi capelli biondi – troppo biondi – che le accarezzavano la schiena.
Mi ero messo a sedere con la testa tra le mani ed i piedi nudi sul pavimento di linoleum freddo e liscio, fissando la parete vuota davanti a me, e riflettevo su quanto continuavo ad essere bravo ad illudere ed illudermi lasciandomi dentro nulla se non i soliti ricordi appannati e tanti, stupidi rimorsi.
“Buongiorno” le risposi, freddo come quel suo pavimento, voltandomi appena.
Col viso lambito per metà dalla debole luce del giorno, mi sorrise dolcemente, anche quando raccolsi la camicia ai piedi del letto, i boxer e i jeans, e feci per alzarmi cercando di ignorare le dita di quella donna, che un tempo era mia, solleticarmi la schiena con le unghie lunghe, accarezzandomi suadente.
“Sarah, non…”
“No, ti prego. Resta.”
“Devo… devo andare.”
Alle nove c’erano le visite e i pazienti non aspettano. Soprattutto certi.
E non restai.


“Apri la bocca.”
“Dovresti smettere di vederla.”
“Chi scusa?”
“La biondina con cui sfoghi le tue frustrazioni sessuali. Non fa per te.”
Chiusi per un attimo gli occhi, stringendo le palpebre il più possibile con l’intento di scacciare dalla mia testa quell’onnipresente voglia di prenderlo a ceffoni che andava spaventosamente a braccetto con l’onnipotente brama di ripetere l’esperimento di qualche giorno prima.
Ebbene, mi rendo conto di aver saltato un capitolo importante di questo mio resoconto su come Sherlock Holmes sia effettivamente riuscito a sconvolgermi l’esistenza.
I miei contatti con lui, dopo il fatto del bacio – che poi non era un bacio, quello – si erano ridotti a veloci visite mediche una volta la settimana quando lo staff degli infermieri e dei colleghi ne riscontrava la necessità. Era da un po’ che Sherlock rifiutava il cibo e qualsiasi farmaco per via orale, dunque mi fu fatto presente che forse sarebbe stato meglio dargli un’occhiata al fine di evitare che si riducesse all’osso più di quanto non fosse già, o di trovarlo impiccato con le corde del suo violino. Sì, suonava. Ma questa è un’altra storia.
“Come…”
“Capello biondo lungo sul tuo maglione, lo stesso di ieri tra l’altro. Non sei tornato a casa a dormire, ergo l’hai fatto a casa della suddetta bionda. Dopo il sesso, ovvio.”
“Sher…”
“E non ti è piaciuto. Non hai la camminata tipica di chi ha avuto un orgasmo da poche ore, tralasciando quello stupido disturbo psicosomatico oramai del tutto scomparso… Per non parlare dell’espressione facciale contratta e non propriamente riposata e…”
“Signor Holmes!” sbottai.
“Già meglio. Sher non è esattamente il nomignolo che preferisco. Detesto i nomignoli in effetti…”
Cercai di racimolare tutta la forza psicofisica che anni di addestramento militare e qualche lezione di yoga, fino a quel momento improduttiva, mi avevano insegnato.
“Apri la bocca, per favore. Devo guardarti in gola.”
Ubbidì alla mia richiesta alzando gli occhi al cielo e scuotendo la testa riccioluta.
Esaminai le tonsille, la faringe e la lingua con lo stecchetto di legno sterile. Potevo sentire tutto il peso di quello sguardo verdazzurro pesarmi addosso con tutte le sue irritanti domande barra affermazioni barra osservazioni atte a farmi saltare ogni nervo del sistema nervoso periferico entro l’ora di pranzo.
Sospirai, estraendo lo strumento dalla sua cavità orale che, ahimè, tornò in piena attività non appena fu libera da ogni impiccio.
“Ho già detto che non è il tuo tipo?”
“Vuoi un lecca-lecca?”
“Non ho cinque anni” asserì risoluto, squadrandomi con fare indispettito.
“No. Direi tre e mezzo” ridacchiai, scribacchiando sul taccuino come al solito e dandogli le spalle, cosa che lo mandò a dir poco su tutte le furie.
“Non ignorarmi! Non mi piace essere ignorato.”
Mi volsi guardandolo come solo si può guardare un bambino viziato e perennemente scontento, cupo in viso, le braccia incrociate al petto e le gambe penzoloni dal lettino.
“Ridicolo, ecco cosa sei. Comunque hai una leggera infiammazione alle amigdale. Fumi?”
Ignorò la mia domanda e saltò giù dal letto come un capretto inquieto, incapace di stare fermo e zitto per più di due secondi e mezzo senza rendere pubblici stati d’animo come noia, disappunto ed irritazione. Non sempre e necessariamente in quest’ordine.
“Queste visite mi annoiano” annunciò seccato, cominciando a girovagare per l’ambulatorio, una mano nella tasca dei pantaloni, sfiorando mobili e strumenti medici sparsi qua e là con l’altra.
Mi appoggiai alla scrivania col fondoschiena, incrociando le braccia al petto e cominciando ad osservarlo. Ogni gesto, in lui, mi ispirava un non so che di rimprovero.
“Sta’ attento a quello,” lo ammonii quando notai la sua attenzione calamitarsi sul mio stetoscopio agganciato al portabiti “mi è costato una fortuna.”
Senza prestare ascolto alle mie parole, ovviamente, prese in mano l’oggetto e, dopo esserselo rigirato tra le dita sottili per qualche istante, lo indossò.
“Ti interessi di scienza?” gli chiesi, sorridendo appena.
Si avvicinò a me con lentezza, continuando ad osservare lo strumento con immensa attenzione, passandosi il microfono da una mano all’altra.
“Mi interesso di molte cose. La scienza è una di queste.”
“Hai frequentato l’università?”
“Sì” mormorò piantandomi gli occhi addosso, un sorriso sghembo a deformargli le labbra. “Ma mi hanno espulso per… cattiva condotta.”
“Ah,” deglutii “e cosa studiavi?”
“Chimica.”
“Capisco. E… ti piaceva?”
“Quante domande, dottore. Le domande mi stancano.”
Risi di gusto a quell’espressione tra il vago e il mellifluo che gli animava i tratti definiti ed aristocratici, sospesa al confine tra il detto e il non detto. Ci fu un tempo in cui ci feci l’abitudine, a quel cipiglio, ma non era certo quello il momento. Per me era ancora in fase di studio, come io molto probabilmente lo ero per lui.
“Ah, già. Tu sei più un tipo da risposte, non è così?”
“Infatti sto ancora attendendo la tua.”
A quel punto, i centimetri che ci distanziavano si ridussero ad un soffio di fiato. Potevo avvertire il calore emanato dal suo respiro infrangersi sul mio viso come schiuma marina sugli scogli, come alla prima visita. Strinsi le dita intorno ai miei gomiti, serrando le braccia al petto come uno scudo di cartone contro quello sguardo d’acciaio sempre più intenso e vicino, un piccolo ed inerme essere contro un enorme e temibile drago blu che sputava fuoco dagli occhi, mandando in fumo ogni mio pensiero razionale.
“Ad ogni risposta corrisponde sempre una domanda,” asserii in un sussurro – perché poi stavo sussurrando? – “e la tua non me la ricordo proprio, se devo essere sincero.”
Il ghigno sulla sua faccia, a pochissimi centimetri dalla mia, si ampliò in un mezzo sorriso strafottente, facendo brillare una porzione di incisivo e tutto il canino destro accarezzato da un labbro superiore degno di una segnalazione alle autorità. Forse avrei scritto a Scotland Yard, nel pomeriggio.
Con mio sommo stupore, osservai la sua mano destra, che teneva il microfono dello stetoscopio, avvicinarsi al mio petto con una lentezza disarmante, scostare col mignolo libero un lembo del camice che mi copriva la camicia, e lì appoggiarsi più o meno all’altezza del cuore.
Corrugai la fronte come se mi fossi trovato dinnanzi ad un enigma irrisolvibile, il mistero della mia vita, che non la smetteva di analizzarmi spogliandomi di ogni difesa e barriera. Mi sentivo come un libro dalla copertina trasparente tra le sue mani, sotto quegli occhi di ghiaccio e sole e, ancora una volta, dimenticai di respirare.
Sentivo soltanto il peso leggero del suo palmo, posato sul mio petto, mentre imprimeva una leggera pressione con le dita che sostenevano lo strumento. Ogni altra percezione o rumore era stato bandito dal mio cervello, come del resto la facoltà di impormi, di allontanarlo da me e di smetterla di giocare al dottore. Più che altro, quello, più che una messa al bando, fu un esilio a vita. Dov’era finita la mia dignità personale?
Il ragazzo respirò a fondo prima di parlare di nuovo, la voce leggermente arrochita.
“Eppure il tuo cuore afferma il contrario, John.”
John. Il mio nome pronunciato da lui, plasmato dalle sue labbra perennemente umide e mobili, risuonava davvero di tutt’altra melodia. Un nome così ordinario come il mio, John, sapeva risplendere di una luce nuova se scandito da quella voce baritonale che sapeva pizzicare le corde giuste, palpitando al ritmo del mio cuore che, in effetti, in quel momento aveva fatto le valigie per trasferirsi dalla signora Epiglottide.
“Parli la lingua del cuore, Sherlock?”
“Non direi,” mormorò, respirandomi praticamente addosso “alla fin fine cos’è se non un muscolo come un altro, schiavo del lobo anteriore della tua ipofisi?”
Assottigliai lo sguardo immergendolo definitivamente nel suo, in quel momento di un blu liquido simile al metilene, temendo che prima di venire da me ne avesse presi anche troppi, di psicofarmaci.
“Sei un sensitivo, per caso?” chiesi senza riuscire a trattenere un sorriso divertito.
“Mio fratello dice che ho la mente di uno scienziato o di un filosofo” rispose, allontanandosi repentinamente da me per riporre lo stetoscopio dove l’aveva preso per poi ritornarmi di fronte, rispettando per una volta lo spazio vitale di entrambi. “Il dottor Smith preferisce chiamarla sociopatia. Qual è la tua diagnosi?”
“Io… io non lo so. Certo sei strano, ma…”
“Ma?”
“Sei anche indubbiamente brillante, intuitivo. Hai dedotto che fossi un ex soldato dai miei capelli e dai polsi, che mi vedo con una dal mio maglione e…”
“… e che sei attratto da me.”
Quello fu uno di quei momenti molto ricorrenti nella vita di un essere umano in cui ci si ritrova da un momento all’altro con vent’anni di vita in più senza nemmeno accorgersene. Temetti di soffocarmi con la saliva a quell’affermazione sibilata tra i denti che sapeva tanto di insinuazione, ma riuscii a ristabilire un certo equilibrio interiore, sebbene molto precario, battendomi due colpi sul torace.
“C-Che?!”
E dallo sbuffo piuttosto eloquente del mio interlocutore capii che non serviva possedere un gene Holmes nel DNA per comprendere che quell’ennesima mia domanda lo stava oltremodo innervosendo.
“Deve essere così rilassante non essere me, non è così? Eccessiva sudorazione, pupille dilatate, respiro corto e… tutto quel casino nel tuo petto… Mi appare tutto piuttosto chiaro.”
Perché mi prudevano le mani? Sarebbe stato un vero scempio rovinare quegli zigomi e la pelle ad essi attaccata, lo ammetto, ma, purtroppo o per fortuna, desistetti da quella irresistibile voglia di gonfiarlo come un pallone non appena sentii bussare alla porta.
“Il nostro tempo è scaduto” annunciò l’ignobile, sorridendomi come una faina nel suo pollaio di fiducia.
“Un secondo!” esclamai a chiunque ci fosse fuori ad aspettare, per poi fulminare il mio paziente con lo sguardo. “Non sono attratto da te.”
“Negazione. È perfettamente normale. Sei nella prima fase. La prossima sarà…”
“Rabbia, lo so, ho studiato il modello Ross(3) a suo tempo. Ma ti ricordo che sono io il medico, qui.”
“Sicuro invece di non essere quello con più bisogno di un aiuto, tra i due?”
Quel giochetto psicologico cominciava ad andarmi stretto e quel tipo non sembrava decidersi a cancellarsi dalla faccia quell’espressione superba ed arrogante che tanto detestavo in lui e che, sebbene col tempo avrebbero subito dei cambiamenti, mi avrebbe ispirato azioni deplorevoli.
“Potresti semplicemente bypassare la seconda fase per giungere direttamente alla contrattazione, dottore.”
“Non potrei semplicemente perché non sono…”
Mi morsi l’interno di una guancia e ricordo ancora il sapore metallico del mio sangue.
Mi stava facendo male, quel ragazzo, e se pensava che sarebbe potuto diventare una sorta di cura per il male che secondo la sua personalissima valutazione pseudoscientifica mi affliggeva, beh, forse si sbagliava di grosso. Ma, come capii più tardi, sbagliare e Sherlock Holmes nella stessa frase stanno bene come la zuppa di fagioli a colazione.
“Dillo.”
“Non sono… gay.”
Di nuovo quel fastidioso bussare.
Sherlock concluse quel nostro incontro nella solita, boriosa maniera di sempre: ghignando come uno scolaretto messo in punizione, un misto tra malizia e un non so che di ipocrisia nell’espressione involontariamente provocante del suo volto giovane e fiero.
Strusciandoci addosso come una lucertola, si spalmò con la schiena sulla soglia, quella silenziosa testimone delle nostre conversazioni e di quegli sguardi al limite della depravazione, almeno per quanto lo riguardava, ed arrochendo per l’ennesima volta la voce – senza rendersi conto, forse, che ogni dannata volta che lo faceva il cervello ed ogni nervo sensoriale mi si riducevano a pappa per neonati – sentenziò:

Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio ed excrucior.(4)

E detto questo, come il più bel sogno ed il peggiore degli incubi, sfumò dalla mia vista, eclissandosi oltre la porta, ed il buio più inconsolabile tornò a graffiare e ferirmi con la stessa prepotenza di quello sguardo felino di cui, inconsciamente, ero caduto innegabile e fragile preda. 










Note:
(3) Il metodo Ross, come certo molti di voi sapranno, è un metodo basato su cinque fasi: negazione, rabbia, contrattazione, depressione e accettazione. Elaborato dal medico psichiatra Elizabeth Kubler-Ross, svizzera, nel 1970, viene tutt'oggi usato soprattutto nell'elaborazione di un lutto, sia affettivo che ideologico. Wikipedia docet.
(4) Traduzione: "Odio e amo. Per quale motivo io lo faccia, forse ti chiederai. Non lo so, ma sento che accade, e mi tormento." Dal carme 85 di quel figo spaziale di Catullo. Credo che più andrete avanti a leggere questa storia, più capirete il senso di questa citazione meravigliosa, se non l'avete già in qualche modo intuito.

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Capitolo 4
*** Chapter four ***




Chapter four






Leggilo. È davvero illuminante. SH

Ora indefinita di notte fonda, quel momento in cui ci si sta lievemente crogiolando nel tepore del piumone, tra il sonno e la veglia, e si è ad un passo dall’addormentarsi cullati dal proprio respiro e dal buio familiare della propria camera… Quel preciso istante mi venne completamente rovinato dal monotono bip del mio cellulare sul comodino, la cui luce azzurro fosforescente invase la stanza facendomi invocare tutti i santi e i guru di ogni religione terrestre esistente.
Quando allungai la mano, presi l’apparecchio e lessi il messaggio, mi ci vollero un paio di secondi di riflessione ontologica per comprendere la faccenda. Quasi non cascai giù dal letto per lo sgomento.
“Esse acca… Io lo denuncio.”
La prima domanda che mi sorse spontanea, ancor prima di come facesse ad avere il mio numero, era quale tra mazza intrisa di cianuro e bottigliata in testa avrei potuto usare come arma per stordirlo e seppellirlo moribondo sul fondo del Tamigi.
Mi stropicciai gli occhi, abituandoli alla luce del telefonino, e cancellai il messaggio riponendo il cellulare dove era e giurando a me stesso che avrei fatto rapporto al dottor Brown, il giorno dopo.
Feci appena in tempo a rigirarmi dall’altra parte, borbottando ed imprecando contro il destino avverso, che un altro bip giunse alle mie orecchie come un bollettino di guerra.

Catullo, intendo. Carme 85 del Liber. SH

“Tu sei pazzo” mormorai all’indirizzo del display, la faccia sprofondata nel cuscino, cancellando nuovamente il messaggio ma tenendo il cellulare a portata di mano.
E infatti, dopo nemmeno un minuto dall’ultimo SMS, riecco l’ennesimo bip.

È l’una e cinque, John. Non starai dormendo, spero… SH

A quel punto, se volevo troncare sul nascere quell’idiozia e farmi almeno quattro ore di sonno decenti, non potei fare altro se non rispondere. Ecco di seguito riportata la conversazione che conservo tutt’oggi – dato che il primo messaggio non si scorda mai –.

No, sto tagliando l’erba del giardino quattro metri per due della residenza dei dipendenti.

Oh, ecco cos’è il fastidioso ronzio nelle mie orecchie… O era sarcasmo, il tuo? SH

Infatti era un semplice “facciamo finta che non voglio sapere perché tu sia in possesso di un telefono cellulare, e soprattutto del mio numero, e torniamo a dormire”.

Uno dei vantaggi di avere conoscenze al Governo. Comunque la tua proposta è noiosa. SH

Devo dedurre dal modo compulsivo con cui ti firmi che le teorie del dottor Smith sono giuste.

A proposito del mio narcisismo? Non serve una laurea o essere me per arrivarci. SH

Allora chiedo a Sua Maestà di spiegare al povero ignorante plebeo che sono il motivo di quest’assurda conversazione.

Io avrò anche un ego smisurato ma tu ti sottovaluti, dottore. Volevo solo parlarti. SH

Nel cuore della notte? Potevi chiedere un colloquio.

Preferisco gli SMS. SH
E no, non ho una personalità insicura e sì, sono perfettamente in grado di relazionarmi con gli altri. SH

Sei un sociopatico. È normale questo tuo comportamento contradditorio.

Non tentare di analizzarmi, John. Sono stufo delle persone che tentano di farlo, fallendo miseramente oltretutto. SH

Sono un dottore, è il mio mestiere.

Allora guariscimi. SH

Come?

Rispondendo alla mia domanda. SH

Quale domanda?

Se ti è piaciuto. SH

E non azzardarti a chiedermi cosa perché lo sai perfettamente. SH

Ti ho già risposto, mi pare. È ovvio che non mi è piaciuto.

Il tuo corpo dice il contrario ogni volta che ti sono vicino. Anche ora. Ti sei preso più tempo per rispondere, ergo ci hai riflettuto. SH

Chi è quello che analizza adesso?

Sono Sherlock Holmes, è il mio mestiere. SH

Analizzare le persone o mandarle in analisi?

Il tempo rivelerà ogni cosa. Vediamoci in giardino. Ora di pranzo. SH

Non sarai in mensa con gli altri?

Tre messaggi, tre domande. Sei imparentato con Tolstoj(5), per caso? SH

Buonanotte, Sherlock.

Forse non è necessario che specifichi quanta fatica mi costò riaddormentarmi, quella notte. Fissai il buio davanti a me per un tempo indeterminato. Secondi, minuti, forse anche qualche ora, mi scorsero davanti silenziosi e crudeli come i miei fantasmi afgani, scomparendo insieme alle ombre con le prime luci dell’alba che inondarono di rosa la stanza e i miei pensieri, confusi ed ovattati dal poco sonno ma, soprattutto, dall’immagine ben distinta del mio paziente più critico immerso nella lettura del Liber di Catullo.
Di latino ricordavo poco e, in generale, non trovavo nessun senso nell’interessarsi ad una lingua morta parlata duemila anni fa da gente invasata di politica, donne, cibo e sangue. Per questo rimasi boccheggiante davanti a quel ridicolo spettacolino quando Sherlock mi aveva congedato ammiccante sproloquiando sic et simpliciter qualcosa che per me aveva la stessa valenza di un insulto in mandarino antico.
Così, travolto dalla curiosità – o dalla semplice smania di farmi del male –, mi alzai relativamente presto, feci colazione di fretta e mi recai in ospedale, fischiettando nella fitta nebbia.
“’Giorno. Tempo da lupi, non è vero dottore?” si lamentò Susan dall’accettazione, salutandomi con un grande sbadiglio quando mi vide attraversare il corridoio.
“Magari migliora dopo.”
Rispose al mio sorriso con una di quelle occhiate perplesse per le quali ormai stavo sviluppando il callo.
“Siamo di buon umore. Sbaglio o è in anticipo, oggi?”
“Sai se c’è una biblioteca, qui?” le chiesi semplicemente, fermandomi poco prima di cominciare a salire le scale.
“Biblioteca? Beh, se le serve qualcosa in particolare, posso chiedere di procurargliela.”
“No, no. Volevo solo… dare un’occhiata.”
“Le consiglio di provare in sala lettura, al primo piano. Dovrebbe essere ben fornita.”
La ringraziai con un cenno del capo, salendo poi i diciassette gradini che mi separavano dal mio reparto a due a due come un ragazzino di ritorno al suo piccolo rifugio nella soffitta, tra le sue cianfrusaglie e i suoi tesori.
Il primo piano, ancora silenzioso, era invaso da una rassicurante penombra e l’infermiere ebbe un sussulto quando mi sentì arrivare di corsa, affrettandosi a sistemarsi gli occhiali tondi e fuori moda sul naso a patata per inquadrare meglio la situazione.
“Dottor Watson, mi ha spaventato. Già qui?”
“Perdonami, Tom. Posso sbirciare in sala lettura?”
Ennesima occhiataccia dubbiosa.
“Beh, credo che non ci siano problemi. Però la sveglia è tra un quarto d’ora.”
“È solo questione di cinque minuti.”
Detto questo, in punta di piedi, mi diressi in aula lettura, una stanzetta piuttosto modesta ad esser sinceri, con un paio di scaffali verniciati di giallo sulla parete di fondo e quattro tavolini in croce accompagnati da una seggiola per ogni lato. Se non fosse stato per l’enorme quantità di libri, libretti, volumi e riviste, mi avrebbe ricordato la piccola tea room di zia Gertrude, odore di naftalina compreso.
Mi avvicinai agli scaffali, alti fino al soffitto, dove i libri erano stati accuratamente ordinati per autore in ordine alfabetico e l’intenso odore di carta vecchia mi riportò indietro al tempo quando, ancora adolescente, mi rintanavo nella minuscola biblioteca del quartiere per le ricerche di scuola o semplicemente per tuffarmi in qualche romanzo di Verne o Pasternak, lontano dagli strilli di mia madre, dalle beghe con mia sorella o dalle fidanzate piovre.
Adoravo i libri d’avventura, i personaggi bislacchi che li popolavano e le cronache di viaggi lontani ed esotici da cui si tornava sempre carichi di tutta la bellezza del mondo al di fuori dei muri di casa propria. In quello scaffale, rispondevano all’appello “Capitani coraggiosi”, in una delle sue edizioni meno recenti, “Giro del mondo in ottanta giorni”, tascabile, “Moby Dick”, “I viaggi di Gulliver” e tanti altri che mi strapparono un sorriso colmo d’amarezza per quei lontani giorni felici che, forse, non avrei mai più rivissuto.
Sfiorai le loro copertine, alcune rovinate, altre integre, alcune colorate, altre ancora sbiadite dal tempo e dall’usura. Un libro dice tanto, se non tutto, del carattere del suo proprietario: se l’ha letto più di una volta, se si è fermato a metà, se gli è stato regalato o se ha aspettato di trovarlo al mercatino dell’usato o in edizione economica, e ancora se il lettore è una persona pignola che usa i segnalibri o una più alla mano, che si concede qualche orecchia e sottolineatura qua e là, scribacchiando di getto note e pensieri ai lati delle infinite cascate di parole stampate.
Così, inabissato in tale contemplazione, il mio sguardo cadde quasi per caso sulla lettera C, scritta a mano su un’etichetta ingiallita e mezza staccata alla base di un ripiano. Cercai e ricercai, spostai e tirai fuori, ma niente. A quanto pare Catullo non era stato compreso nell’hit parade delle letture psicologicamente stimolanti.
Deluso ed amareggiato, sentimento comune ad ogni buon lettore che fa cilecca nella sua ricerca in biblioteca, abbandonai la stanza col broncio e scossi il capo all’indirizzo dell’infermiere.
“Trovato nulla?” mi chiese comunque.
“No. Però avete davvero una bella sala lettura.”
“Non ci va mai nessuno” sbuffò, tirando poi su col naso.
“Davvero?”
“Sì. A parte quando la televisione si rompe o non hanno più voglia di fare vasi di argilla.”
“Che tristezza.”
“Già. Per fortuna che fra qualche mese ci passano l’LCD.”

Mi era stato comunicato che a breve sarebbe arrivato un nuovo medico, una specie di santone della psichiatria, inglese d’origine ma attivo in Svizzera da molti anni e da qualche tempo non si parlava d’altro. Da quello che il dottor Brown mi riferì quel giorno, intuii che ci avrebbe affiancato per un anno prima che arrivassero i documenti del mio prepensionamento, dopo il quale mi avrebbe sostituito al reparto.
Ricordo che non vedevo l’ora di conoscerlo e, ancor più, di passargli il testimone di un lavoro per il quale stavo esaurendo ogni risorsa, sia fisica che psicologica. Tuttavia, pensai, almeno fino a quel momento avrei dovuto cercare di godermi la vita e, per quanto mi fosse possibile, vivere alla giornata.
La mattinata scivolò via velocemente, tra una visita e qualche sporadica parola coi colleghi, e la nebbia aveva lasciato il posto ad una bellissima giornata di sole.
In giardino, il profumo selvatico del terriccio umido e la morbida sensazione dell’erba sotto le scarpe mi mise subito di buon umore. O forse quella del terriccio e dell’erba soffice erano tutte stronzate e la verità era che il mio sguardo vagava ansioso ben oltre le siepi in fiore, gli alberi verdeggianti e gli spruzzi della piccola fontana di pietra bianca al centro del cortile.
Era passato da poco mezzogiorno e le panchine di legno, sotto la quercia secolare, si stavano lentamente spopolando lasciando che il vento tiepido e qualche passero affamato ripulissero dalle briciole di qualche pasto consumato di nascosto.
Faceva piuttosto caldo per essere aprile e mi tolsi il camice, piegandolo a dovere e sistemandomelo sull’avambraccio, per poi slacciarmi anche i polsini della camicia ed arrotolarmi le maniche fin sui gomiti.
Inspirai a pieni polmoni i profumi e i sapori dell’aria fresca, godendomi i raggi del sole accarezzarmi la pelle delle braccia. Mi sedetti sulla panchina più vicina, le dita delle mani intrecciate sul grembo, l’orecchio teso ad ogni minimo rumore che non fosse il vociare delle infermiere e dei pazienti meno disposti a collaborare, e mi misi in attesa.
Aspettai ed aspettai, impiegando il tempo giocherellando col piede coi sassolini sul terreno, contando le venature sulle assi di legno della mia panchina o ripassando il programma che mi avrebbe impegnato il pomeriggio. In effetti, avrei potuto tornare a casa a mangiare, stare un po’ al computer, scrivere sul blog, telefonare a Sarah o chissà cos’altro. Magari andare in centro, in qualche libreria, e chiedere se avevano Catullo.
Aspettai ed aspettai, e l’attesa divenne snervante. Passò mezz’ora, poi un’ora, poi un’altra mezz’ora, e già qualche decina di pazienti dai vari reparti si erano riversati nuovamente in giardino per consumare la restante parte di quell’ennesima giornata nel movimento monotono di un pendolo tra dolore e noia(6), affiancati dai loro accompagnatori dalle espressioni smunte e malinconiche.
“Dottor Watson! Dottore!”
Assorto com’ero tra una maledizione ed un imprecazione contro me stesso ed il mio paziente, che a quanto pareva non aveva intenzione di presentarsi all’appuntamento da lui organizzato, trasalii quando udii la voce stridula dell’infermiera Lloyd che si sbracciava come una forsennata dietro di me.
“Susan” le risposi quando fu abbastanza vicina alla mia postazione.
La donna si chiuse lo scialle di cotone sul petto, stringendosi nelle spalle strette mentre mi guardava con fare interrogativo.
“Ma cosa fa qui da solo? Non vorrà mica prendersi un raffreddore!”
In effetti, non mi ero accorto che si era alzata la leggera ma fresca brezza che accompagna l’approssimarsi di ogni pomeriggio primaverile, ed ero ancora in maniche di camicia all’ombra della quercia con lo stomaco vuoto che borbottava come un vecchio annoiato.
“Hai ragione.”
“Stava aspettando qualcuno?”
Sì. Un idiota venuto al mondo per farmi perdere il lume della ragione.
“No, no. Sono semplicemente uscito per… una boccata d’aria. C’è bisogno di me al reparto?”
“Veramente è arrivato quel medico di cui le parlavamo, quello dalla Svizzera. In questo momento è ancora nell’ufficio del dottor Morgan ma dovrebbero aver finito.”
“Arrivo subito.”
Seguii l’infermiera fin dentro l’ospedale e scossi la testa, vergognandomi a morte per quanto le dovevo essere apparso ridicolo seduto in totale solitudine, in giardino, imbambolato davanti al nulla più assoluto davanti a me.
Le andai dietro fino all’ufficio del direttore dell’ospedale e, nel momento stesso in cui stavo percorrendo il corridoio, la porta dello stanzino si aprì, rivelando prima la figura alta e scialba del dottor Morgan e poi quella del mio futuro collega.
Ricordo che mi paralizzai nel bel mezzo dell’androne quando i miei occhi incrociarono i suoi, due pozzi neri d’imperscrutabilità, che presero a fissarmi con vago interesse da dietro le spalle del mio capo ancora intento a stringergli la mano con appiccicoso entusiasmo.
Quest’ultimo, quando si accorse della mia presenza, annunciatagli dall’infermiera, si voltò e mi salutò con freddezza.
“Ah eccola qui, Watson. Pensavamo che si fosse perso. Le posso presentare il dottor Moriarty?”










Note:
(5) Spiegazione del perchè proprio il povero Lev: Tolstoj scrisse un racconto intitolato "Le tre domande", in cui il protagonista cerca risposta a tre domande sul senso dell'esistenza. Molto bello, filosofico al punto giusto, illuminante. Non è molto lungo e lo trovate anche in internet .
(6) Citazione di Arthur Schopenhauer: "La vita è un pendolo tra dolore e noia".

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Capitolo 5
*** Chapter five ***


Afternoon!
Chiedo perdono per tutti coloro che hanno aspettato il quinto capitolo di Dancing Star. Spero che il capitolo valga l'attesa. Enjoy!


miss potter








Chapter five









Quell’uomo, vestito di tutto punto, completo color grigio antracite e cravatta rosso cremisi, mi si avvicinò con passo disteso e solenne, tipico degli uomini d’affari che non hanno nulla da perdere se non la facciata, esibendo un sorriso a trentadue denti brillante come le scarpe di vernice che indossava, e mi allungò una mano senza staccarmi gli occhi neri di dosso.
“James, la prego” disse con una voce cremosa, quasi rassicurante.
Ma, come ben presto appurai, di rassicurante quell’uomo non possedeva nemmeno l’ombra.
“John. John Watson” mi presentai stringendogli cordialmente la mano, morbida e grande, dalla presa sicura. “È un piacere fare la sua conoscenza.”
“Il piacere è totalmente mio. Saremo una grande squadra, si fidi.”
“Sicuramente!” s’intromise il dottor Morgan, allungando le mani ossute ed appoggiandole sulle nostre rispettive spalle, sfoggiando uno di quei suoi sorrisi viscidi e circostanziali con cui, a suo tempo, mi aveva dato il benvenuto al Maudsley.
Perché invece quello sguardo intenso, al limite del tagliente, mi incuteva tutto meno che fiducia? Il viso pallido, dai lineamenti marcati e virili, con un paio di sopracciglia scure e ben curate, come del resto i capelli corvini tenuti in perfetto ordine da una sottile patina di brillantina, avrebbe trasmesso tranquillità e sicurezza a chiunque. Perché, allora, la presenza di quell’uomo, tanto distinto nei modi quanto nell’aspetto, mi metteva a disagio senza averlo mai visto prima?
Ciò nonostante, cercai di sopprimere ogni pregiudizio e sensazione negativa, concentrandomi piuttosto sull’affabilità che mi aveva sempre contraddistinto, anche in casi come quello.
“Mi hanno detto che è un’autorità nel suo campo” continuai, ricambiando il sorriso.
“Non vorrei peccare di superbia confessandole che la mente umana mi ha da sempre affascinato. Dopo Oxford, ho avuto la fortuna di esercitare la nobile professione di medico psichiatra prima nella capitale e poi all’estero. Berna.”
“Davvero straordinario.”
“Già. Penso che mi troverò altrettanto bene, qui.”
Dal modo con cui si guardava intorno, quando non sezionava il sottoscritto con gli occhi, sembrava a suo perfetto agio, come se conoscesse quell’ospedale da una vita e non se ne fosse mai andato.
“Lo penso anch’io. Ha già fatto un giro al primo piano?”
“Sì, ho dato… un’occhiata. Pazienti impegnativi” sentenziò, assottigliando lo sguardo.
“Alcuni, sì” deglutii.
“Soprattutto quell’Holmes.”
“Sherlock?”
“Lui… Sociopatia. Davvero, davvero affascinante.”
Mi venne la nausea per il tono vagamente perverso con cui aveva pronunciato quell’affascinante, come se stessimo parlando di una cheesecake con glassa di amarene colata sopra.
Dopo  quel primo mese al Maudsley, avevo imparato a conoscere ogni singolo paziente del mio reparto, a comprendere i loro problemi, le loro piccole manie, che cosa faceva loro piacere e che cosa invece li infastidiva, rispettandone ogni aspetto e difetto, in un rapporto di complicità quasi genitoriale che non avrebbe mai contemplato l’atteggiamento pragmatico e puramente scientifico che mi ero ripromesso di mantenere. Soprattutto con Sherlock.
“L’ha conosciuto?” gli chiesi, irrigidendomi.
“Il dottor Morgan è stato così gentile da introdurmi all’intero staff, questa mattina, e, guarda caso, Sherlock si stava dirigendo verso il giardino quando siamo stati presentati.”
Mi diedi dello stupido per aver anche solo pensato che non ci sarebbe potuto essere un motivo valido per l’assenza del mio paziente al nostro incontro e fui quantomeno felice di sapere che stava bene e che era solo stato trattenuto dal mio collega.
“Che impressione le ha fatto?” gli chiesi, tenendomi sul vago.
“La domanda più appropriata sarebbe: che impressione ho fatto io a lui, perché dopo neanche cinque minuti che avevamo iniziato a parlare se l’è filata asserendo di avere da fare. Affascinante, no?” concluse, il sorriso trasformatosi in un ghigno da fare accapponare la pelle.
“Sì… Beh, onorato di averla conosciuta. Ora dovrei tornare di sopra.”
“Ma prego!” esclamò quello, acutizzando la voce. “Ci si vede in giro… John.”
E nonostante gli avessi dato le spalle, giurai di poter ancora sentire il suo sguardo penetrante continuare ad infilzarmi la nuca, così come l’ombra di una risata, che giunse ovattata ma grottescamente chiara alle mie orecchie, sconquassarmi ogni centimetro del mio corpo dove lasciò, per sempre, la sua impronta indelebile.
Arrivato in ambulatorio, mi chiusi dentro facendo scattare la serratura, mi slacciai i primi due bottoni della camicia e crollai sulla sedia della scrivania tirando poi fuori dalla tasca dei jeans il mio cellulare.

Sherlock, ci sei? Devo parlarti.

Sherlock.

Sherlock, mandami un SMS quando leggi i miei messaggi. Grazie.

John? SH

Stai bene?

Perché me lo domandi? SH

Semplice curiosità. Dove sei adesso?

Tu e Mycroft siete entrati in società, per caso? SH

Che?!

Solo… non preoccuparti. SH

Non sono preoccupato. Hai conosciuto il dottor Moriarty?

Credo che tu sappia già la risposta. SH

Cosa ti ha detto?

Ah, ecco la vera domanda. Mi ha chiesto un paio di cose riguardo la mia situazione. SH

Non gli ho detto tutta la verità, tranquillo. SH

Perché? Sarà lui il tuo dottore quando me ne andrò.

Sei malato? SH

Intendo quando andrò in pensione.

Oh, allora c’è tempo per quello. SH

Veramente no. Prossimamente dovrebbero arrivare le carte del mio prepensionamento.

La burocrazia è lenta, John, e tu non ti libererai di me così facilmente. SH

Oh, questo è poco ma sicuro.

Quando possiamo vederci? SH

Dimmi tu. Io oggi ti ho aspettato.

Perdono, sono stato trattenuto. SH

Il dottor Moriarty mi ha detto che avete parlato neanche cinque minuti e poi te ne sei andato dicendo di avere da fare. Che cosa?

Allora ci hai parlato anche tu. Adorabile persona, non trovi? SH

Non è esattamente l’aggettivo che userei per definirlo. Comunque non hai risposto alla mia domanda.

Neanche tu alla mia se è per questo. SH

Senti, lasciamo perdere. Vediamoci domani alle 12, in giardino.

Impossibile. SH

Perché?

James mi vuole vedere nel suo ufficio per l’ora di pranzo. SH

Gli hanno dato un ufficio?! E da quando lo chiami per nome?

Sei più invidioso del fatto che lui goda di più considerazione di quanto non faccia tu oppure più geloso di me? SH

Geloso, io? Questa poi… Hai preso le medicine oggi?

Sì, mamma. E comunque ti rendi conto che noi due, per il 65% circa del tempo, comunichiamo attraverso domande? SH

Ops. SH

Non colgo la straordinarietà della cosa.

Perché ti limiti a guardare ma non osservare, come del resto tutte le persone comuni. SH

Oh sì, dimentico che sto parlando con una sottospecie di sensitivo dal potere trascendentale di mortificare gli altri.

Sei crudele, dottore. SH

Chiamami John. Dottore suona troppo… accademico.

Tradotto dal Johniano: mi eccita troppo quando lo fai :) SH

 Oddio no, anche tu con queste maledette emoticon… Comunque sei completamente fuori strada, Einstein.

Attendo indicazioni… SH

Ma non hai niente di meglio da fare che provocarmi?

Ah, ah! Altra domanda. Comunque no, adoro farlo. SH

In realtà sto componendo, quindi dovrei sbrigarmi a trascrivere le note che ho annotato nel mio pentagramma mentale prima che me le dimentichi. SH


 Notevole. Allora aspetto un segno, Sua Maestà. Quando meglio le comoda.

Dillo. SH

Cosa, per Diana?

Che ti manco. SH

Certo, come le zecche di Kandahar. Buona giornata.

:* ;) SH

Falla finita.

 
Attesi una settimana prima di avere udienza con Sua Maestà, signore di tutti i principi di esaurimento nervoso.
Stavo tagliando la mia gustosissima bistecca di soia – l’unica pietanza abbastanza simile, almeno nella forma, alla carne contemplata nel menu della mensa – quando il mio cellulare vibrò vicino al vassoio, attirando l’attenzione di tutti i colleghi al mio stesso tavolo.

Sotto la grande quercia. Ti sto aspettando. SH

L’ombra del tiepido sorriso che mi accarezzò il volto in quel momento provocò nel dottor Campbell del terzo piano, a cui non sfuggiva mai nulla, una risatina malcelata che fece da preambolo a una vigorosa pacca sulla spalla offesa, facendomi sussultare di quel poco.
“Qualche pesce grosso tra le mani, Watson?” sghignazzò con la malizia di un adolescente in astinenza, sollevando così l’ilarità della componente maschile dell’intera tavolata.
Colsi piuttosto tardi la metafora ittica e scossi la testa, arrossendo inevitabilmente e sentendomi ripiombare agli anni dell’università in cui non ci si poteva permettere di guardare una ragazza per più di due secondi senza dover per forza scatenare il ciclone ormonale dei propri compagni di corso.
Mi infilai il telefono nella tasca dei jeans e congedai i colleghi, un ammasso di immaturi mai cresciuti davvero, paonazzi in volto non so se a causa mia o del vino scadente che ci rifilavano, con una scusa davvero idiota, circa un improvviso mal di testa… o qualcosa del genere.
Trottai giù dalle scale e, in poche falcate, raggiunsi il giardino dell’ospedale.
Il giardiniere sarebbe passato a giorni e la direzione lo aspettava con lo stesso flemma che stava dedicando all’arrivo delle carte per il mio ritiro. Avevo sollecitato più volte a riguardo ma mi era sempre stato risposto che, essendo la burocrazia una gran brutta bestia nella società moderna, avrei dovuto attendere almeno fino al principio dell’estate, periodo in cui il carico di lavoro amministrativo si sarebbe snellito. Perciò, mi ritrovavo sempre al solito posto di medico di base, senza uno straccio di ufficio, stipendio da fame, un ambulatorio sovraffollato e i rovi che mi strappavano i risvolti dei pantaloni.
L’erba alta, leggermente umida dall’ultima pioggia, mi bagnò la punta delle scarpe e sperai con tutto me stesso che Sherlock avesse una buona ragione per farmi venire fin dalla quercia per potermi incontrare.
Lo notai quasi subito, seduto a terra tra le radici riaffiorate, appoggiato di schiena sul tronco del grosso albero all’ombra delle sue abbondanti fronde verde smeraldo che, mosse dal vento, giocavano coi raggi del sole sulla sua fronte, pallida e perennemente corrugata, rappresentante fedele di chissà che pensieri, creando piccole ferite di luce sulla pelle d’alabastro e tra i ricci di puro e morbido ebano. Tra le mani, un libriccino dalla sottile copertina azzurra, l’espressione vaga e fissa sulle pagine ingiallite e leggermente spiegazzate.
Il ragazzo si accorse della mia presenza non prima che lo raggiungessi, piazzandomi poco distante dalla sua postazione contemplativa. Mi pareva una sorta di filosofo intento a ragionare sul significato dell’esistenza, uno di quelli soli e abbandonati dal resto della società, senza amici se non il proprio cervello contorto.
“Ebbene?” esordii, affondando le mani nelle tasche.
Indugiò ancora qualche istante sul libro, completamente assorto nella lettura di quelli che all’apparenza mi sembrarono essere versi poetici, prima di sollevare gli occhi sui miei ancora in attesa. Quando mi sorrise, sentii lo strano ma piacevolissimo calore di sempre, figlio di quello sguardo e di quello soltanto, pervadermi il corpo, un calore umido, elettrizzante, alimentato dalla sorgente pura e cristallina di quelle iridi limpide e cangianti che avrei potuto osservare per anni interi senza riuscire a definirne i contorni.
“Ciao, John” mi salutò, allegro.
“Ciao, Sherlock.”
Ad un tratto, sostituì il sorriso con cui mi aveva accolto poco prima con una smorfia di sottile disappunto, allungando poi una mano verso di me e strattonandomi i pantaloni all’altezza del ginocchio come un bimbo arrabbiato e bisognoso d’attenzioni.
“Vieni giù. Non mi piace essere guardato dall’alto al basso” asserì, corrucciandosi tutto in un colpo.
Risi a quel comportamento non propriamente equilibrato e a quel borbottio tanto infantile quanto dolce, ed obbedii immediatamente, accovacciandomi accanto a lui a gambe incrociate.
Avevo dimenticato quanto bene facessero le cose semplici, come sedersi sull’erba bagnata in compagnia di qualcuno, che in quel momento mi ricordava molto uno di quei poeti romantici il cui nome fu scritto nell’acqua che scorre(7), osservandolo leggere sotto un albero, le guance color pesca e i grandi occhi ridenti.
Il vento accarezzava entrambi, mite e odoroso, facendo correre il profumo della nostra pelle l’uno sull’altro ed inebriandoci dell’aroma dei fiori del roseto incolto poco più in là, delle primule e delle solitarie margherite che, silenziose, spiavano quel nostro altrettanto silente scambio di sguardi.
“Come va col dottor Moriarty?” chiesi a un certo punto, intrecciando le dita sulle caviglie incrociate.
“Perché lo vuoi sapere, John?”
Domanda che risponde a domanda: maleducazione, la chiamerebbe qualcuno. Tra noi due, era semplice prassi.
Osservai i profondi laghi blu che erano i suoi occhi ridursi a due piccole fessure quando gli posi tale domanda, nell’atteggiamento critico ed indagatore che assumeva con la maggior parte delle cose che lo riguardavano.
“Perché sono il tuo dottore.”
“Anche James lo è. Parlane con lui, se t’interessa tanto” disse, accigliandosi tutto d’improvviso e buttando fuori aria dalle narici come un cucciolo di drago arrabbiato.
Avevo la netta sensazione che l’argomento James Moriarty non fosse incluso tra quelli che attirassero di più la sua attenzione, anzi pareva che ne abbassasse drasticamente i livelli, un po’ come l’astronomia o le relazioni umane.
“Percepisco una certa tensione, nella tua voce.”
“John, cosa ti ho detto riguardo all’analizzarmi?”
“Non voglio analizzarti, Sherlock. Per quello basti tu per tutti e due.”
Il sorriso appena accennato che sgattaiolò fuori da quel broncio scuro mi rincuorò abbastanza per trovare la forza di cambiare argomento della nostra conversazione. Sarei andato dal dottor Moriarty, eccome se ci sarei andato, ma in quel momento non avevo voglia di cimentarmi in nulla che non desse piacere ad entrambi.
“Cosa leggi?” domandai quindi, sbirciando il libretto che stringeva tra le dita sottili tenendone il segno con l’indice della mano destra.
Scorgendo il titolo in copertina, mi sfuggì un sorriso che, evidentemente, contagiò anche lui perché ne rise di riflesso.
“Confido nel tuo silenzio, John” esclamò, puntandomi il libro addosso. “Non ci è permesso portare fuori nulla dalla sala lettura.”
“Hai la mia parola. Anche se non ha senso, per me.”
“Che cosa?”
“Che i pazienti non possano leggere fuori da quella sottospecie si stanzino delle scope, all’aria aperta.”
“Forse temono che usiamo le pagine per tagliarci.”
“Autolesionismo? Ma che idiozia è mai questa?!”
“Ti basti pensare che per chiedere un rasoio devo avere l’autorizzazione scritta di mio fratello e l’assistenza di due infermieri.”
Ci guardammo per un istante infinito prima di scoppiare a ridere come due adolescenti ubriachi di vita.
Vedere Sherlock gioire così spontaneamente, baciato dai raggi del sole e coi capelli scompigliati dal vento, mi fece sciogliere il cuore. E posso giurare che, anch’io, non mi divertivo così da anni, forse dai tempi dell’università in cui ci si riuniva tutti quanti in piazza, con una, due, tre birre in mano e il futuro stampato negli occhi, lucidi e gonfi di notti in bianco passate sui libri o nel letto di qualche compagna di corso.
La leggerezza e il piacere che la sua vicinanza comportava erano però di gran lunga superiori a qualsiasi uscita con qualsiasi altro essere umano, uomo o donna che fosse, o a qualsiasi serata brava al pub.
Per sbronzarmi, in quel momento, mi bastava cercare le acquemarine che aveva incastonate nelle orbite e tuffarmi, sperando di annegarci dentro e mai più riemergerne, ebbro di tutta la felicità che il mondo aveva da offrire al soldato ferito qual ero io.
Non mi accorsi nemmeno di avergli allungato una mano sul ginocchio magro e di averglielo stretto al ritmo dei miei sussulti. Quando me ne resi conto, allontanai subito la mano, avvampando in viso come una ragazzina innamorata e timida, e maledissi l’Es freudiano dentro ognuno di noi. Il mio, pensai, doveva essere un gran bell’Es, tutto scombussolato, sottosopra, assoggettato ad una forza maggiore che portava il nome di Sherlock Holmes. Irrecuperabile, in poche parole. Pazienza. Avevo detto addio alla mia professionalità da tempo immemore, oramai, e non avevo alcuna intenzione di alzarmi e recuperarla, nossignore.
“Scusa” mormorai, gettando lo sguardo a terra.
“No” sussurrò e, accalappiando nuovamente la mia mano in fuga, se la portò sulla coscia, guardandomi con l’infinita tenerezza e il rammarico che avrebbe riservato ad un esperimento andato male. E forse lo ero davvero, io.
Chiusi gli occhi e strinsi le palpebre fino a sentirle far male, potendone percepire la pressione che spingeva sulla sommità dei miei zigomi. Strinsi, strinsi, strinsi, e con le palpebre anche le mie dita sulla sua gamba, tesa sotto i miei polpastrelli, tremendamente muscolosa.
La stoffa dei suoi pantaloni era morbida al contatto con la pelle dei miei palmi e, tutt’a un tratto, dietro gli occhi mi si materializzò l’immagine di quando solevo accarezzare le gambe di Sarah, strette nei collant neri, ruvidi ed elastici sotto le dita. Ma non era la stessa cosa, no.
Accarezzare la gamba di Sherlock era come accarezzare il velluto, o il manto di un cucciolo di Labrador. Una sensazione calda e delicata che mai dimenticherò e a cui nulla si potrebbe comparare senza risultare riduttivi.
Sciolsi la mia stretta solo quando lo sentii gemere e mi morsi un labbro, temendo di avergli fatto male.
Io ero il suo dottore, ma chi tra i due stesse guarendo l’altro, beh, non lo sapevo proprio.
“Se… se non hai niente da dirmi, Sherlock, io andrei anche” dissi con voce tremula, facendo per alzarmi. E l’avrei anche fatto se non fosse stato per un paio di mani grandi e sicure che mi strinsero un polso facendomi voltare all’indirizzo di quell’impressionante paio di gemme verdazzurro che mi supplicavano di non andare, di non lasciarlo solo. Non di nuovo, non proprio io.
“No, resta.”
Gravità, la chiamiamo. Una legge fisica ben definita, una forza vecchia come il mondo, invisibile agli occhi e potentissima, che attira ogni cosa sulla superficie verso il centro della Terra.
Sherlock Holmes, lì, seduto sotto quell’albero in giardino, era diventato il mio centro gravitazionale, l’Isaac Newton del ventunesimo secolo in attesa di un segno dal cielo. E se la matematica non è un’opinione, io ero la mela, la svolta per entrambi, ed era semplicemente così che doveva andare. Stavamo ragionando, insieme, sui complicati calcoli che avrebbero portato alla formula perfetta che, se non il mondo, avrebbe cambiato di netto molte prospettive ed altrettanti piani, rivoluzionando due vite giudicate irrecuperabili.
Restai.

Passammo l’intero pomeriggio in giardino, ridendo e leggendo spensierati nella nostra personalissima bolla felice fatta di pagine ingiallite, allegri canti d’uccello, foglie tra i capelli e macchie di terra sui pantaloni, sordi ad altre voci che non fossero le nostre. Un po’ come Paul e Virginie(8), due bimbi sperduti e puri nella loro piccola, dolce isola di piaceri e sogni in un’era in cui il Male non conosceva ancora l’uomo.
Per tutto il tempo che godemmo l’uno della compagnia dell’altro, dimenticai il mio ruolo, come lui il suo – ammesso che l’avesse mai saputo, quale fosse –. Non c’era più dottore e paziente, sano e malato, giusto e sbagliato.
Fusi in un magnifico ed ovattato tutt’uno che danzava al ritmo lento e cadenzato del tramonto, osservammo il sole calare dietro la siepe e il dolce cremisi prendere il posto del freddo cobalto, del tumultuoso viola, colori che tuttavia trovarono porto sicuro negli occhi languidi di Sherlock, costantemente incollati ai miei, riproducendovi tutte le sfumature e le gradazioni di una meravigliosa alba, quella che avremmo di certo visto sorgere se l’ennesimo rimprovero di Susan non mi avesse richiamato alla realtà.
Lo riaccompagnai in camera sua e, quando feci per andarmene, mi chiamò indietro, allungandomi il Liber.
“Ehi, dottore. Tienilo con te, stanotte” disse, sorridendomi.
E così feci, addormentandomi sul mio letto sereno come un bambino, sfinito dalle avventure della giornata appena trascorsa, il carme numero cinquantuno aperto sul petto e la felicità cristallizzata nel cuore.
 
Simile a un dio mi sembra che sia
e forse più di un dio, vorrei dire,
chi, sedendoti accanto, gli occhi fissi
ti ascolta ridere
dolcemente; ed io mi sento morire
d'invidia: quando ti guardo io, Lesbia,
a me non rimane in cuore nemmeno
un po' di voce,
la lingua si secca e un fuoco sottile
mi scorre nelle ossa, le orecchie
mi ronzano dentro e su questi occhi
scende la notte. 







Note:
(7) Riferimento al poeta John Keats, sulla lapide del quale venne scritto "whose name was written in water". Poor John.
(8) "Paul et Virginie" è un romanzo del XVIII secolo scritto da Jacques-Henri Bernardin de Saint-Pierre.

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Capitolo 6
*** Chapter six ***


Chapter six






Adoro l’estate e no, non detesto l’inverno. Solo che, nonostante il mio paese d’origine non generi una particolare ispirazione e propensione verso sole, vento caldo, colonnine di mercurio sopra i venti gradi e infradito colorate – perché un anglosassone in ciabattine di plastica e pantaloncini corti non è esattamente la fine del mondo, esteticamente parlando – ho sempre amato il clima che la bella stagione porta con sé, d’allegria e festa, come se tutti gli sforzi e le fatiche dell’inverno sfumassero, confondendosi col profumo dei fiori e delle arance, scomparendo nelle brughiere di nuovo verdeggianti e portando via con sé nebbia e pioggia.
La primavera era del tutto sbocciata e ora stava iniziando il suo lento e magico declino, i pollini avevano smesso di viaggiare nell’aria e di mandare in tilt le risposte immunitarie degli allergici, lasciando spazio a giornate limpide e calde intervallate da brevi ma potenti temporali.
Molto probabilmente, questo mio sentimento, totalmente biasimato da molti altri, deriva dal ricordo delle mie vacanze estive in campagna dai nonni, nel delizioso cottage di paglia e legno nello Yorkshire in cui il piccolo ed innocente John Watson macinava le sue giornate, lunghe e assolate, rincorrendo farfalle, dando fastidio a tutti i tredici gatti di nonna Rose e sbucciandosi le ginocchia sul selciato vicino alle aiole ben curate dal nonno, ottimo esempio di come un uomo, nonostante il bastone e le ferite di guerra, possa comunque fare della sua vita qualcosa di grande.
Nonno Edward è sempre stato un modello per me, ancor più di mio padre, e lo ricordo sempre con tanta gioia e anche un po’ d’amarezza, sorridendo all’indirizzo di quei giorni lontani e delle sere in cui, al chiaro di luna e immersi nel fumo della sua pipa, seduto sulle sue ginocchia in veranda ascoltavo le leggende dei vecchi spiriti rapitori di bambini e delle fate senza occhi che popolavano i boschi intorno alla casa. Roba da non dormirci la notte.
Non seppi come mai mi ritrovassi a pensare alla mia infanzia, imbambolato davanti ad una guida di viaggi sul Tibet in un’anonima libreria di Notting Hill. Non seppi neanche spiegare il perché mi trovassi in un negozio di libri, molti vecchi e di seconda mano, proprio a Notting Hill.
Non ci andavo mai, lì. Mio padre, prima di scomparire definitivamente dalla mia vita, mi aveva sempre sconsigliato di frequentare posti come quello, luoghi disordinati e pullulanti di artisti squattrinati che suonano il violino col berretto a terra e le bretelle sgualcite, o che dipingono ritratti ai turisti, di venditori ambulanti dai denti rotti che espongono la propria merce, gingilli per lo più inutili e antiquariato piuttosto kitsch, chiamando a gran voce mentre allungano un tulipano alle belle ragazze di passaggio.
La verità è che quel quartiere mi aveva da sempre affascinato. Da bambino, di nascosto, mia madre mi ci portava dopo scuola con la metro delle quattro e cinque, insieme a mia sorella Harriet e a qualche borsa vuota della spesa. Ci comprava le caramelle e le noccioline caramellate al banchetto di un tizio calvo e dall’aria malaticcia, la pelle gialla impregnata dei fumi dello zucchero filato e i grandi occhi verdi menta sempre vispi e spensierati. Poi c’era la signora dei libri per l’infanzia, quella un po’ suonata, un’attempata tutta grigia coi capelli radi che portava sempre la stessa gonna lunga rossa a patchwork, le calze bucate e la camicia rovescia. E dopo ancora, il musicista, quello che una settimana suonava l’armonica, quella dopo la chitarra e quella successiva secchi di pittura con i mestoli.
Era un vero spasso, il mio paese dei balocchi senza tempo né fine, e non mi importava delle domande di mio padre e delle urla di mia madre quando tornavamo a casa carichi di roba da mangiare, stoffe poco pregiate, libri delle bancarelle, perché l’unica cosa che era sempre contata era la compagnia di gente strana in un posto ancora più strano, all’ombra degli alberi in fiore e delle case color pastello.
Forse è da lì che sviluppai un interesse verso le persone matte, o meglio, diversamente normali, verso la magia che il diverso trasmette, al ritmo di una musica che solo lui sente e che però, se ascoltata con attenzione, ha il potere di contagiare il mondo intero della sua intrinseca bellezza.
“Posso aiutarla?”
La voce bianca e cordiale di una donna mi distrasse dalla contemplazione della foto di una steppa tibetana in cui correvano liberi alcuni yak, che probabilmente stavo fissando da una decina di minuti, e alzai il capo, ritrovandomi al cospetto di due occhi color nocciola da cerbiatta la cui profondità era appena accennata da un pizzico di mascara e di ombretto dorato.
Il viso pallido e ovale, incorniciato da una cascata fluente di capelli color rame, leggermente mossi e tenuti in ordine da un cerchietto azzurro, il naso all’insù e la bocca rosa erano i degni ambasciatori della rara grazia che in poche donne ebbi mai la fortuna di osservare.
“Signore…?”
Scossi la testa e mi diedi – ancora – mentalmente dell’idiota. Ero abbonato a rendermi ridicolo e ormai ci stavo facendo l’abitudine.
Chiusi di scatto il librone, borbottando qualcosa sicuramente senza senso logico, ma ci lasciai un dito dentro, schiacciandomelo tra le pagine pesanti, e grugnii per il dolore.
La ragazza, per quanto ci avesse tentato portandosi una mano alla bocca, non riuscì a trattenere una risatina che per me ebbe la valenza di una bastonata sulle gengive.
“Si è fatto male?” chiese in un ampio e sincero sorriso, sfiorandomi la mano sfortunata con la sua.
“Sicuramente non bene” risposi, sconfiggendo una volta per tutte la mia assurda balbuzie.
Si rigirò la mia mano nelle sue, piccole ma ben curate nonostante i piccoli tagli, dovuti sicuramente alle pagine dei libri che quotidianamente maneggiava, e le piccole macchie di inchiostro sui polpastrelli.
La pelle un po’ secca, le nocche bianche, i polsi stretti e ossuti. Non ci vidi nulla di strano, al momento, ma qualcuno certamente avrebbe avuto qualcosa da dire, a riguardo. Ad esempio sul fatto che quella faccia d’angelo, i bei tratti e i modi gentili nascondevano senz’ombra di dubbio una personalità disturbata, confinata nella polvere e nell’odore di carta vecchia e inchiostro in un’attività che non lo soddisfaceva, al punto di vivere in un appartamento di terz’ordine in compagnia di un carlino. Maschio. Forse l’avrebbe intuito dal modo in cui mi guardava, o dal risvolto della sua giacchetta dove era appuntato un cartellino.
“Grazie, Mary. È tutto okay” dissi e mi lasciò andare la mano, arrossendo in viso.
Si guardò il petto e sorrise, riappropriandosi poi del mio sguardo.
“Meglio così. Si interessa di viaggi esotici?” chiese quindi, indicando con un gesto del mento il manuale che avevo ancora in mano.
“Veramente oggi è il mio giorno libero e sono qui di passaggio.”
“Capisco. Beh, deve fare un lavoro stressante per venire a rifugiarsi tra i libri.”
“Beh, sono un medico. E i libri non si lamentano mai.”
La ragazza rise di gusto e io non potei fare altro se non imitarla.
“La pensiamo allo stesso modo. Quando non lavoro qui faccio la babysitter e la lettura è per me una validissima valvola di sfogo.”
Mi venne l’istinto di chiederle se, per caso, oltre alla lettura, un buon caffè in compagnia sarebbe stata un’altra valida valvola di sfogo, alla maniera in cui mi comportavo a vent’anni quando si aveva ancora la forza e il coraggio per rimorchiare una perfetta sconosciuta. Tuttavia, desistetti dal farlo e mi limitai invece a sorriderle, allungandole il librone e la mano destra.
“Comunque sono un vero maleducato, non mi sono presentato. John Watson, è un piacere.”
“Mary Morstan, e il piacere è mio” esclamò lei, stringendomela calorosamente.
“Beh… Avete una bella biblioteca, davvero.”
Ammetto che non sono mai stato un asso nel conversare ma non avevo ancora perso la propensione per la loquacità.
“Oh, ma non è mia. Sono solamente un’umile commessa.”
“Ehm, beh… ha ragione. È come se lei venisse in ospedale, il Cielo non voglia, e dicesse ad un dottore di passaggio ‘oh, avete proprio un bell’ospedale!’. Insomma… per quanto un ospedale possa essere definito bello. Cioè…”
L’ennesima risata di Mary mi incoraggiò ad andare da un ferramenta, comprare un badile e scavarmi la fossa. Si vedeva che era tanto tempo che non mi approcciavo col gentil sesso, cosa che richiede uno sforzo mentale e fisico non da poco, sia chiaro. Ma non mi diedi per vinto.
“Nel senso che anch’io le direi che l’ospedale non è mio e che sono solo un umile dottore.”
“Ma un dottore non può mai essere umile. Salvate delle vite!”
“Quando capita.”
La conversazione appassì in una nauseabonda montagna di convenevoli riguardo al mio lavoro da “umile dottore” e al suo da “umile commessa quando non cambia pannolini”.
Lo scampanellio della porta a vetri del negozio annunciò l’entrata di un cliente che ci distrasse dalla nostra chiacchierata, così dovetti lasciarla tornare dietro alla cassa.
“John, è stato un piacere. Ripassi a trovarci” mi salutò, agitando la mano verso di me mentre aprivo la porta per riversarmi di nuovo in strada.
“Lo farò, Mary.”

La mattina seguente mi stavo incamminando di buona lena verso l’ennesima giornata di lavoro, passandomi ripetutamente il dorso di una mano sulla fronte sudata. Non sarebbe stata così pesante, in fondo: qualche visita, qualche decina di pile di schede mediche da compilare… Niente di che.
In effetti, dall’arrivo del dottor Moriarty l’ammontare del mio lavoro si era decisamente snellito, con mia somma soddisfazione, e godevo di più momenti liberi da dedicare a me stesso o, molto più spesso, al dolce, dolcissimo far nulla. Come leggere Catullo o pensare alla commessa della libreria di Notting Hill.
Dunque, circa a metà mattinata, decisi di far visita al mio nuovo ed esimio collega per discutere della terapia del sociopatico, nonché mia costante ed oltremodo fastidiosa spina del fianco che si faceva trovare ovunque eccetto nel luogo in cui si sarebbe dovuto trovare: in giardino, in segreteria a terrorizzare metà staff medico, a gironzolare per i corridoi, nei bagni di servizio… E, nel tragitto, mi chiesi dove fosse, quella mattina, perché non l’avevo ancora visto importunare nessuno, in giro.
Mi feci indicare la strada per l’ufficio del medico e, giunto davanti alla sua porta, sbuffai sonoramente all’indirizzo della piccola targhetta placcata appesa con su inciso “Dr. James Moriarty”, e il mio pensiero andò immediatamente alla mia, di porta, quella dell’ambulatorio dove al massimo veniva appeso un post-it giallo con su scribacchiato “Dr. Watson, sono passata per svuotarle il cestino. Firmato, Susan Lloyd”.
Allontanai quell’ombra di poco biasimabile invidia dalla mia testa e, preso un bel respiro, bussai con la nocca dell’indice tre volte.
“Dottor Moriarty, sono il dottor Watson. È permesso?”
L’assenso dall’altra parte mi incoraggiò ad entrare e quasi dimenticai di chiudermi la porta alle spalle quando mi si presentò la scena del mio collega, seduto come su un trono sulla sedia in pelle nera dietro a un’enorme scrivania di vetro temperato dove era appoggiato col fondoschiena Sherlock Holmes, a braccia conserte e i primi quattro bottoni della camicia aperti sul petto, davanti ai miei occhi.
Non seppi cosa pensare, né tantomeno cosa dire. Sapevo solo che quelle due paia di pianeti oculari, due nemesi, l’uno nero come la pece e l’altro, familiarmente indagatore, chiarissimo, mi stavano mettendo terribilmente a disagio, insieme all’arredamento duro e tagliente della stanza, dove la monocromia trionfava di comune accordo col gusto per l’orrido.
Due corna di cervo svettavano al centro della parete di fondo, brune e affilate, al fianco delle innumerevoli cornici smaltate in cui venivano esibiti tutti i certificati, i premi, le onorificenze e compagnia bella degne di un capo di stato, o del re d’Inghilterra.
Pochi, essenziali libri di testo, ordinati con precisione certosina su una lunga mensola di vetro, torreggiavano in tutta la loro cartacea pomposità sulla parete di destra, ammazzando sul nascere qualsivoglia desiderio nell’intraprendere la professione medica od editoriale.
Ma la cosa che mi fece più rabbrividire, anche dopo l’esperienza del cervello in formaldeide nell’ufficio del dottor Morgan, fu la presenza di un teschio umano, lucido e perfettamente integro, adibito alla funzione di fermacarte in un angolo della scrivania. Le orbite scure mi guardavano con vuoto disinteresse e pensai che l’ufficio di Moriarty fosse il luogo più lugubre dopo l’aula magna della mia università.
Mi umettai il labbro superiore affondando le mani nelle ampie tasche del camice, la mente completamente svuotata di tutte le cose di cui avrei voluto discutere col mio collega che, in quel momento, mi fissava con fare incuriosito da dietro il suo tavolo col ghigno della prima volta in cui lo conobbi stampato addosso, sfacciato ed altezzoso.
La pelle di Sherlock pareva esser fatta di vapore acqueo, di un pallore che non credei di avergli mai visto prima. Emaciato, i capelli più disordinati del solito, ma soprattutto con uno sguardo dilatato, totalmente assente, gettato nel mio. Sembrava quasi che, ai suoi occhi, apparissi come trasparente, un fantasma di materiale etereo senza senso o significato alcuno, non più.
“Buongiorno, dottore. Sherlock” salutai entrambi in poco più che un mormorio, la voce che mi tremava.
“Buongiorno a lei, John. A cosa devo l’onore di questa visita?” rispose Moriarty intrecciando le dita sulla scrivania e trafiggendomi con lo sguardo.
“Vo-volevo parlare di Sherlock. Ma, come vedo, mi ha anticipato.”
Il medico mi sorrise, intrigato, per poi alzarsi qualche secondo dopo posizionandosi di fronte al nostro paziente, ancora completamente immobile con lo sguardo fisso nel mio, apatico, senza aver ancora spiaccicato una sola parola.
Il bel colore delle guance di quella mattina sotto la quercia era sbiadito completamente, insieme alla gioia dei suoi occhi e all’espressione intelligente che lo contraddistingueva come il profumo per un fiore di campo. In quel momento, mi sembrava di essere davanti a una fredda bambola di porcellana, come quelle da esposizione da guardare ma non toccare, statica e fragile nella sua teca di vetro, lo sguardo inaridito e privato della tavolozza di colori che di solito guizzavano infaticabili nelle iridi mobili, ora ridotte a due cerchietti sottili come fili da cucito intorno alle enormi pupille.
“Prego, si sieda” disse il mio collega, indicandomi con la mano la sedia davanti alla scrivania.
“Sto meglio in piedi, la ringrazio” affermai, scuotendo il capo.
“Ma davvero?” rise quello “Mi hanno detto del suo problema psicosomatico ma, a quanto pare, l’ha del tutto risolto.”
“Ci sto lavorando.”
Sherlock interruppe il contatto visivo con me per fissarlo su Moriarty, il quale intanto gli aveva allungato le lunghe dita sottili sul petto per riabbottonargli la camicia, lento e preciso, un chirurgo dalla presa solida ma leggera, una delicatezza che mi ispirò una vaga sensazione di voltastomaco.
“L’ha visitato?” chiesi, seguendo i movimenti delle sue mani esperte addosso a Sherlock, inerte e assorto in chissà quali considerazioni e pensieri.
“No,” asserì, sistemando infine il colletto “l’onore lo lascio a lei, John. Abbiamo solo… chiacchierato.”
“Chiacchierato?”
“È quello che ho detto.”
“Beh, se non ha nulla in contrario, piacerebbe chiacchierare anche a me, adesso. In privato.”
“Oh, ma non c’è nulla di cui noi non possiamo discutere in presenza del diretto interessato. Non ho ragione, Sherlock?”
Il ragazzo si limitò ad annuire, imitato subito dopo da un sorridente Moriarty, in un gioco che mi ricordava tanto quei padroni e i loro cani ai programmi televisivi d’intrattenimento in cui il pubblico applaude quando l’animaletto ubbidisce ad ogni comando del proprietario.
“D’accordo, allora. Di… di cosa avete discusso?” iniziai, alternando lo sguardo tra i due.
“Di varie cose, in effetti. È un pozzo di conoscenza, il nostro amico. Davvero interessante.”
“Si interessa di chimica e di scienza in generale, e ogni tanto si diletta nella lettura dei classici.”
“Classici? Davvero, Sherlock?”
L’ennesima, silenziosa mossa del capo da parte del mio paziente mi fece letteralmente sbottare.
“Puoi anche parlare, sai?” esclamai al suo indirizzo, mordendomi la lingua un secondo e mezzo dopo pentendomi amaramente per dover apparire così impulsivo davanti alla personalità pacata e stabile quale si era presentata James Moriarty.
Il fatto era che la sua presenza nella stessa stanza mi stava rendendo particolarmente nervoso, e l’assenza di qualsivoglia comunicazione verbale, e non, da parte di Sherlock ancor di più.
Mi stavo cominciando ad abituare al fiume incessante di parole col quale usava interloquire il mio paziente, sfondando ogni resistenza umana alla comune pazienza. Di certo, quella sciattezza con cui si stava comportando in quel momento non era da lui. Non era chimicamente omologato per starsene in silenzio per più di due secondi, era geneticamente impossibile.
“Se posso, credo che in questo momento il nostro Sherlock non sia molto propenso a… parlare.”
“E perché mai? Adora farlo.”
“Diciamo che questa mattina non si è dimostrato molto… collaborativo, il ragazzino. Gli ho dato un piccolo aiuto per calmarsi.”
Tralasciando il lieve prurito alle mani alla parola “ragazzino”, quando intesi ciò che con “piccolo aiuto” volesse dire il mio collega mi sentii quasi mancare.
Nonostante il sangue gorgogliante nelle vene, mi schiarii la voce e cercai di mantenere la calma, scaricando ogni barlume di tensione nei pugni stretti dentro le tasche.
“Con tutto il rispetto, dottore, in qualità di medico curante gradirei essere informato per tempo di qualsivoglia somministrazione farmacologica ai miei pazienti. E dalla cartella clinica del presente non emerge alcuna necessità nell’uso di sedativi o narcotici.”
“Uh uh, John!” esclamò Moriarty, portandosi entrambe le mani davanti al petto come per proteggersi dalla mia persona. “Non intendevo scavalcarla, assolutamente. So fare il mio lavoro e so cosa Sherlock Holmes ha bisogno, e in questo momento ciò di cui ha disperato bisogno è supporto, comprensione, uniti a un po’ di sana disciplina. Non è d’accordo?”
Mi sarebbe bastato allungare una mano per strappargli dalla faccia quell’espressione da ermellino incrociato con un folletto dei boschi demoniaco. Il prurito alle mani era quasi palpabile, un formicolio persistente che tuttavia non aveva nulla a che fare col mio disturbo di guerra, no.
Quella era un’altra battaglia e sarebbe stata molto più faticosa, molto più dolorosa di quanto già temessi. E avevo intenzione di combatterla e di difendere ciò che meritava di essere difeso, a costo di beccarmi un’altra pallottola e un’ulteriore sessione di visite dall’analista.
“Suppongo che i nostri metodi contrastino su molti più punti di quanto già sospettassi, dottor Moriarty. Ora, se ha finito, i miei pazienti mi aspettano.”
“Oh, non si preoccupi, John. Mi impegnerò al meglio affinché la nostra collaborazione non si limiti alla mera reciproca sopportazione. Sarebbe oltremodo… noioso, n’est-ce pas? Adieu.”
L’eco di quel saluto tanto garbato quanto viscido mi rincorse infame lungo tutto il corridoio, fin su alle scale, insieme all’immagine oramai ovattata e lontana di ciò era rimasto dell’umanità già precaria di Sherlock, ed ogni gradino che salivo era come una tonnellata in più sul cuore.
Mi stavo perdendo, mi stavo ferendo, ancora una volta, perché affezionarsi non è mai una buona cosa, soprattutto se è di un paziente che si sta parlando, soprattutto se si è troppo cuore… o troppo cervello. Si rimane incompleti, da una parte o dall’altra, sfregiati, ed incredibilmente soli.

Terminai prima, quel pomeriggio, e nonostante il temporale e il fatto che non avessi con me l’ombrello, di nuovo, sentii l’impellente bisogno di uscire, prendere un taxi e andare in centro, non importa dove di preciso. Forse nella City, o a farmi un giro per Oxford Street, o sul Millennium Bridge, tanto per sprofondare con la mente insieme ai flutti del fiume, sospeso nella ragnatela d’acciaio e persone che avrebbero proseguito oltre senza far caso a quel cuore sanguinante che sporcava la strada, portandosi dietro un’infinita scia di rancore e speranze fragili come cristallo riposte su quello sfolgorante paio d’occhi blu che forse non avrei mai più rivisto, che forse non avrei mai più voluto rivedere.
Odiavo James Moriarty, odiavo il mio lavoro e sì, odiavo Sherlock Holmes. E non capivo il motivo per cui me ne dolessi tanto, perché dopotutto era solamente un paziente, uno come tanti altri ne avevo avuti, solo inverosimilmente più testardo, fastidioso, terribilmente geniale e… semplicemente incantevole. Il mio collega aveva tutto il diritto di agire come meglio credeva, perché la salute del sociopatico era la cosa più importante per lui, come lo era per me. No?
Sotto la pioggia battente, l’umidità che mi corrodeva le ossa, mi ritrovai a camminare svelto per Regent’s Park, incurante delle gocce d’acqua che mi scendevano lungo il viso, che entravano nei vestiti, e a guardare gli alberi. Verdi, grandi, grondanti d’acqua e di foglie appena nate, l’odore della pioggia e dell’erba bagnata tutto intorno, specchiati nelle acque agitate dei laghetti artificiali abbandonati dagli animali acquatici e dai turisti. Ero solo con me stesso, e mi sarebbe bastato da lì fino all’eternità se fosse stato necessario.
Mi sedetti sulla prima panchina che intravidi e, come quel giorno di sole e vento nel giardino del Maudsley, mi misi a riflettere, solo che non aspettavo nessuno. E nessuno sarebbe arrivato, di nuovo. O forse no.
“John Watson?”
Mary Morstan se ne stava lì, in piedi davanti a me, riparata sotto al suo grande ombrello grigio e con un’espressione basita sul bel volto pallido incorniciato dai capelli rossi, umidi di pioggia e appiccicati alle tempie.
Sollevai gli occhi gettandoli nei suoi, dove intravidi l’immagine offuscata di uno straniero, fradicio e sciupato, seduto su una panchina di un parco, assorto nella solitaria commiserazione di se stesso, un uomo senza scopi né persone per cui averne.
“Ciao.”
“Ciao. Che fai lì?”
“Penso.”
“A che cosa?”
“A niente.”
Quella risata, la stessa che mi riscaldò il cuore nel negozio di libri, risuonò contagiosa e fresca per me ancora una volta e, tutto a un tratto, smisi di sentirmi solo.
“Beh, allora che ne dici di pensare a toglierti di lì e accettare un passaggio sotto l’ombrello?”
Le sorrisi e accolsi l’invito, rassegnandomi al fatto che ai suoi occhi dovessi apparire più strano di quanto già aveva potuto appurare.
“Caffè?” mi domandò sorridente, prendendomi sotto braccio.
“Oh Dio, sì.”
Ci allontanammo dal parco, ridendo e scherzando sotto la pioggia come due vecchi amici, l’uno sostenuto dall’altra.
Sherlock Holmes era lontano, e con lui tutti problemi. 









Author's Corner:


Oh beh, che dire? Due fanfiction in un giorno. Vi voglio proprio male, insomma! Just joking.
Questa storia sta cominciando a farsi oltremodo popolosa e, per me, estremamente stressante. La adoro. O, meglio, adoro l'idea, che poi riesca a farne qualcosa di esteticamente accettabile questo sta a voi deciderlo.
Chiedo perdono per John e Sherlock!
Al prossimo capitolo.

miss potter

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Capitolo 7
*** Chapter seven ***



Chapter seven






“Non sali?”
Era strano. Strano e imbarazzante. Una situazione ai limiti del paradossale, direi.
Un tempo non avrei nemmeno chiesto permesso, sarei entrato da lei senza esitazioni, lasciando le pecche sulla moquette con le Converse sporche, avrei accettato il caffè, l’idea del rosa disgustoso della carta da parati in camera sua, e poi… chissà. Il tempo e la solitudine di entrambi avrebbero fatto il proprio corso. Ma non fu quella, l’occasione.
Mary mi guardava dall’alto dei primi scalini in pietra che indirizzavano al portone scuro del suo appartamento, ai piedi dei quali mi ero fermato io col peso della pioggia e del suo sguardo perplesso su ogni centimetro del corpo.
Dovevo apparirle come un novellino, inesperto di fronte alle emozioni e alle prime esperienze affettive, incerto e zoppicante sulle braci ardenti delle possibilità e del rischio.
Sarebbe stato solo per un caffè, continuavo a ripetermi. Al massimo sarei andato in bagno, mi sarei fatto una doccia calda, lei mi avrebbe prestato un ombrello e poi via, di nuovo a casa, di nuovo immerso nell’abbandono di sempre e nella penombra della mia stanza, quella con la carta da parati verde palude e noiosa.
Non avevo nulla di cui temere, nessuno a cui rendere conto di niente, almeno una volta nella mia vita, che non fosse me stesso. Sarah, Sherlock… Sibili lontani, respiri di tempo di ciò che è stato e domande scomode a cui non volevo rispondere, almeno per un pomeriggio d’estate.
“Come no!” le sorrisi, raggiungendola in un paio di falcate davanti al portone e poi, insieme, dentro casa.
Sobrietà e tepore. Ecco i sentimenti che mi ispirarono il suo piccolo nido da libraia. Certo, la moquette bordeaux sul pavimento avrebbe avuto bisogno di una passata di aspirapolvere, le mensole di una lucidata così come il grande specchio in entrata, sul quale Mary gettò un rapido sguardo in un gesto automatico, quasi istintivo.

Non si sente all’altezza della situazione, John. Donna insicura di sé. Come potrebbe garantirti la stabilità che cerchi, eh John?

Stabilità? Uno che lavora in un ospedale psichiatrico?
Scossi la testa e le chiesi dove fosse il bagno, cercando di ignorare il fastidioso pulsare di una palpebra.
“In fondo al corridoio, sulla sinistra. Se vuoi farti una doccia, fa pure… Sei fradicio.”
“Ti ringrazio molto, davvero” dissi, strofinandomi la mani sulla camicia zuppa. “Questi vestiti…”
“Oh, non preoccuparti per quelli. Vedo cosa riesco a rimediarti. Intanto fa come fossi a casa tua.”
La osservai scomparire dietro a una porta lungo il corridoio, mentre io mi tolsi le scarpe prima di raggiungere il bagno dove mi affrettai ad aprire l’acqua della doccia.
Chiusi la porta a chiave e, spogliandomi, già mi inebriai del soffice strato di vapore che stemperò i brividi di freddo i quali, nonostante la stagione, si rincorrevano come piccole cavallette lungo la mia schiena.
Il getto d’acqua calda sulla mia pelle infreddolita agì come un perfetto calmante e non potei fare altro se non rilassarmi e godermi il momento.

Certo che ti sei ridotto proprio male, diceva la voce. Seconda volta che la vedi e già ti fai la doccia nel suo bagno… Facendo seguire un paio di schiocchi, come una lingua sul palato.

“Sta’ zitto. Zitto!”
Dovevo averlo urlato perché la voce sonora e preoccupata di Mary non tardò a farsi sentire dall’altra parte della porta.
“John? Tutto okay?”
“Sì! Benissimo. Stavo… ripassando!”
“Ripassando?”
Che idiota. Un idiota bugiardo che parla da solo. Un idiota bugiardo che parla da solo e soffre di allucinazioni uditive.
“Ehm, sì. Ripassando. Nel tempo libero faccio l’attore di teatro.”
Da dove l’attore di teatro mi fosse uscito, proprio non lo sapevo. Sapevo solo che, se Mary non mi aveva ancora liquidato, allora doveva avere una santa dentro di sé, o una grande attitudine nell’ignorare le bugie, perché io l’avrei fatto, insomma, con me stesso se fossi stato al suo posto.
“Er… D’accordo. Allora ti aspetto di là, così mi racconti delle tue performance.”
Uscii dal box doccia due minuti dopo, rosso come un pomodoro, e solo in parte – una parte davvero misera – per il calore del vapore acqueo.
Trovai un grande asciugamano appeso vicino al lavandino e mi ci avvolsi. Aprendo poi la porta, quasi non inciampai sulla piccola pila di vestiti, asciutti e puliti, accuratamente piegati e poggiati a terra.
Li raccolsi e, sfiorando la stoffa morbida e profumata della camicia, di un paio di jeans, calzini e boxer, mi ritrovai a sorridere, riflettendo sul fatto che una gentilezza del genere non mi si dimostrava dai tempi di mia madre prima dell’Afghanistan, quando tornavo dall’addestramento più fango che essere umano.
Mi vestii in fretta appallottolando i panni bagnati, e raggiunsi Mary in quella che doveva essere una cucina, composta da un tavolo piuttosto piccolo, due sedie in vimini, un piano cottura arrugginito in più punti, quattro mensole in croce, colme di alimenti in barattoli di latta a lunga conservazione, e il frigorifero. L’aroma rinvigorente del caffè mi solleticò piacevolmente il naso facendomi inspirare a fondo l’aria casalinga che, in tanti anni da ex militare scapolo, mi era mancata tanto.
La ragazza se ne stava seduta col suo cagnolino accoccolato sul grembo, che prese a fissarmi guardingo con i grandi occhi neri e sporgenti mentre mi avvicinavo.
“Ti stanno a pennello” disse Mary, una nota di malinconia nella voce e nei grandi occhi marroni.
“Grazie, ma non era necessario.”
“Oh, tranquillo. Erano del mio Todd. Puoi riportarmeli quando vuoi.”
“Una vecchia fiamma?”
Gli occhi della ragazza, solitamente allegri e di un bel color nocciola, si tinsero di un’immensa e grigia tristezza. Mi morsi la lingua per l’imbarazzo di una domanda, a quanto pare, inopportuna e per la mia solita ed innata curiosità nei confronti del mistero.
“Scu-scusa, non… sono affari miei.”
“No,” mormorò, la voce incrinata “Iraq.”
Una sola parola, una sola, prima del pianto, e quel dolore, unito ai sospiri interrotti dall’angoscia dei ricordi pesanti come un quintale di lacrime amare, lo stesso che provai ogni dannato giorno, laggiù nel deserto bollente tra i proiettili e i feriti, e che ogni tanto ancora mi invade anima e sonno, si schiantò con tutta la sua forza bruta sul cuore martoriato da cicatrici mai guarite qual era il mio, e mai prima di allora mi sentii così vicino a qualcuno, mai così totalmente compreso.
Presi posto sulla sedia di fronte a lei e non potei fare altro se non allungare una mano per appoggiarla sulla sua, tremante e chiusa a pugno, in una stretta complice e amica che voleva sapere di condoglianze e vicinanza ma che, come bene sapevo, non sarebbe mai bastata per salvarla del tutto dai suoi fantasmi, che erano i miei, come non erano bastate le sedute da Ella e le pacche di amici e parenti sulla spalla buona per me.
“Mi dispiace.”
“Grazie” sussurrò con gli occhi gonfi e lucidi, cercando di convincere le lacrime a tornare da dove stavano sopraggiungendo, in quel percorso segnato dall’abitudine di un ricordo ancora troppo giovane per non fare troppo male.
“Afghanistan, medico militare dei fucilieri di Sua Maestà” dissi, togliendomi le piastrine che portavo sempre intorno al collo. Porgendogliele, le affidai una parte della mia vita che sarebbe per sempre rimasta sua, nonostante tutto il resto.
Lei mi guardò con stupore e aspettativa, come un naufrago alla deriva su un pezzo di legno marcio e senza più alcuna speranza a cui aggrapparsi quando scorge un’isola lontana, e prega un dio verso cui bestemmia ogni secondo della sua vita che non sia l’ennesimo miraggio.
Quello sguardo non mi era del tutto nuovo, lo sapevo. Lo sapevo perché era lo stesso di chi viene riesumato dalle proprie ceneri e che cerca di trovare le parole per ringraziare la mano che gli viene allungata, invano. Ci riconoscevo due altre paia di occhi, i miei, e quelli di un altro mondo interiore che mi aveva graffiato lo spirito, neanche un mese prima, imprimendoci il proprio marchio di follia e corrosa passione.
Quanta miseria un uomo come me, trasparente agli occhi della gente ma soprattutto ai suoi, riesce a raccattare nella sua vita, quanta sofferenza sommata ad altra sofferenza, senza le armi, non più, per tornare a combattere, ogni maledetta volta. Si rimane senza più forze né motivazioni abbastanza valide per sopravvivere davvero e per continuare a credere che non sia la fine, non per te che hai lottato tutta una vita nel nome di ciò che pensavi fosse giusto, che ti facesse bene.
Ma, nonostante tutto, di nuovo mi stavo sentendo importante, fondamentale per qualcuno diverso da me, e, a dispetto del lieve fastidio alla gamba che attribuii al maltempo, stavo bene. Veramente.
“Grazie, John” pigolò dolce la donna, sfiorando con i polpastrelli le placchette lucide posate sul mio palmo aperto. In quel mezzo sorriso riuscii a distinguere, chiara come un’alba, la concreta possibilità per me di risorgere e di ricominciare daccapo.
Mi limitai a sorriderle, sorridere e sperare che la pioggia cessasse, prima o poi, per entrambi.
Le ore passarono tranquille, a casa Morstan. Bevemmo il caffè e parlammo della guerra, così a lungo che Mary si dimenticò della mia pseudo carriera teatrale e della mia strana abitudine di portarmi il tempo libero sotto la doccia. E io non ne avrei fatto di certo cenno.
Mi parlò di Todd, che era il suo fidanzato. Si sarebbero sposati al principio di maggio dell’anno prima, una cerimonia in grande stile, da quello che intesi: abito bianco, damigelle e ospiti, torta a cinque piani, una bella chiesa in campagna, noiosi parenti da ogni parte del paese e porcellane francesi.
Mi disse Mary che Todd la faceva sentire come una principessa, in quanto benestante di famiglia e dunque desideroso di offrire alla sua amata tutto ciò di cui lei non aveva mai goduto, avendo perso il padre in un safari in India qualche anno prima e la madre quand’era molto piccola.
Vivevano in un appartamento in centro, vicino al parco, un bel giardino, vicini facoltosi, due auto e il progetto di un figlio che, a dire di Todd, sarebbe arrivato dopo il suo ritorno dalla missione.
“Non oso immaginare come sarebbe andata se fossi rimasta incinta prima della sua scomparsa” sussurrò in un sospiro tremulo, rigirandosi la tazzina tra le dita sottili e gettandoci lo sguardo vuoto dentro.
“Terribile” convenni, imbarazzato da argomenti come matrimonio e prole che non consideravo, al momento, tra le mie priorità. Non che l’avessi mai fatto, ad esser sincero, o che avessi intenzione di farlo in futuro.
La guerra ti cambia, nel profondo. E forse nel campo di battaglia ci si lascia sempre qualcosa di più che qualche lembo di pelle e gli anni più belli della giovinezza. Ci si dimentica di essere uomini, di avere dei sentimenti, dei bisogni e delle aspirazioni che vanno oltre al semplice restare vivi fino al prossimo tramonto o cercare di non farsi mangiare vivo da zanzare grosse come palline da cricket durante la guardia di notte.
Dal mio ritorno a Londra, la realtà mi stava presentando un conto straordinariamente più salato del previsto, e quelle cifre mi perseguitavano ovunque fossi, qualsiasi cosa stessi facendo, galleggiando in fondo alla mia tazza di caffè o negli occhi delle persone che si accingevano a far parte di quel frammento superstite della mia esistenza.
“Ti sembrerò una stupida ma non sono riuscita a separarmene” disse, sorridendo all’indirizzo degli indumenti che indossavo.
“Non eri costretta. Potevo dare una strizzatina ai miei e rimetterli.”
“Oh, non essere sciocco. E poi è passato un anno. Dovrò pur farmene una ragione.”
La guardai con biasimo e scossi la testa, senza tuttavia riuscire a mantenere il contatto visivo.
“Credo che non ci sia nulla di ragionevole nella morte di un nostro caro. Quando si perde qualcuno che si ama, beh… con lui, o con lei, se ne va una parte di noi stessi. E non penso sia possibile recuperarla. Si può solamente cercare di andare avanti, ricordando l’affetto, l’amore profondo che si è provato per quella persona che, nonostante l’assenza corporea, sarà sempre viva dentro di noi. Il ricordo non svanisce, mai. Per questo credo che la gente preghi. Per ripescare dentro di sé quella forza che non è del corpo, necessaria per andare avanti, per non… morire.”
Percepii l’ombra di un sorriso e il veloce transito di un sospiro bussare alla porta delle mie palpebre abbassate.
“Sei credente, John?”
“Dio? Beh, sai, quando torni dalla guerra Dio è l’ultima cosa a cui hai bisogno di credere. Perché se davvero esistesse, fidati, dovrebbe avere una scusa molto buona.”
“Allora in cosa credi?”
“Nell’umanità. Nello straordinario potere dell’uomo, stolto, malvagio il più delle volte ma, nonostante tutto, il più meraviglioso tra tutti gli esseri viventi, capace di pensare e scegliere, che combatte per rimediare ai propri errori ogni giorno, nonostante tutto.”
Da quanto tempo non affrontavo discorsi del genere? Mi pareva che fossero secoli. Forse, dai tempi della parrocchia quand’ero a scuola, o dalle nottate passate in bianco ad assistere mia sorella con la testa affondata nel water.
Mi pareva di conoscerla da una vita, Mary, di averci sempre parlato e che fosse l’amica che non conobbi mai, la persona speciale con la quale puoi parlare di tutto e di più perché condivide le tue stesse esperienze, le tue stesse aspirazioni, qualche sogno e più di qualche paura, e tutto il dolore che si possa immaginare.
Con lei mi sentivo libero, spensierato, e tutta la fatica della giornata, il rumore della pioggia e i pensieri sbagliati rimanevano fuori, oltre il vetro appannato della cucina, dietro le palpebre, fuori dagli occhi e lontano dal cuore.
Quel pomeriggio, James Moriarty, Sherlock Holmes e le sue manie, le carte del mio prepensionamento, Catullo… tutto era scolorito insieme alle luci del giorno e, con loro, lo scorrere del tempo.
Parlammo, parlammo ancora, io e lei, fino a che non si fece scuro e il mio caffè si raffreddò.
La ringraziai, baciandola su una guancia, e sorrisi quando notai il repentino arrossarsi delle sue gote al mio gesto, una ragazzina dai capelli di fuoco appoggiata allo stipite del portone di casa mentre si tormenta il lembo della maglietta e struscia un piede per terra.
“Grazie, Mary. Ti sarò per sempre riconoscente.”
“I vestiti te li lavo e quando ci vediamo te li ridò.”

Ah, quindi per lei è già scontato che vi rivedrete?

“Certo.”


 
John, ho bisogno di te. SH

Sono in ambulatorio. O James ti ha tagliato le gambe oltre che la lingua?

Vieni qui e basta. Per favore. SH

Scusa ma ho da fare al momento.

John… SH

Era da qualche giorno, dopo l’accaduto nell’ufficio di Moriarty, che non avevo espresso né il desiderio né la voglia di vederlo.
Mi sarei rivisto con Mary, l’indomani, magari per una spremuta al bar, e avremo passeggiato per Hyde Park, mano nella mano (?), parlando delle montagne del Tibet. Così, quei messaggi dal vago ed insignificante tono languido e adulatore non fecero breccia dove, forse, speravano di colpire e dove, molto probabilmente, non era rimasto più posto, soprattutto per i capricci di un ragazzino viziato quale si comportava Sherlock Holmes e no, non me ne sarei pentito.
Fatto sta che, di comune accordo col mio senso della coerenza in ferie stabili, quando avvertii il leggero fastidio allo stomaco che solitamente le persone definiscono senso di colpa, smisi di camuffarlo da indigestione spostando l’attenzione sul pupazzetto antistress sulla mia scrivania che cominciai a infilzare con la punta della penna, accompagnando, qualche secondo dopo, la fuoriuscita delle palline tossiche dalla pancia del suddetto con una maledizione auto inferta e la strana voglia di una sbornia. Di quelle potenti, possibilmente, che ti fanno dimenticare nome e data di nascita per due giorni di seguito.
Perché dovessi sentirmi in colpa, beh, questo lo ignoravo. Dopotutto non ero stato io quello a drogarlo fino a ridurre la sua amata capacità cognitiva a quella di uno lavandino intasato.
Fissai il display, incerto sul da farsi e da dirsi, le dita cementificate sui tasti del telefono per un tempo indefinito prima di scrollare il capo e sospirare tutta l’indignazione che provavo verso il mio esiguo senso per la coerenza.
“Al diavolo…”
Abbandonai le cartelle cliniche e l’ambulatorio, precipitandomi verso le camere e dandomi dello stupido per aver, inconsciamente, sputato sul sacrosanto giuramento di Ippocrate ignorando la richiesta di aiuto di un paziente. Un paziente piuttosto esigente, per lo più.
Che poi era aiuto ciò che Sherlock Holmes andava cercando e in nome del quale mi stava facendo guadagnare un abbonamento di una decina di sedute dalla terapista?
“Sherlock?” chiamai col fiatone, bussando a pieno pugno al numero 221.
Nessuna risposta.
Mentre aumentai la potenza delle bussate e il tono della mia voce, cominciai anche ad elaborare una ventina di avvenimenti macabri che sarebbero potuti accadere nei trenta scarsi secondi che mi ci vollero per raggiungere la sua porta.
“Sherlock!” urlai ad un tratto, abbassando con forza la maniglia ed entrando come un uragano a piena portata nella stanza, poco più che una cella con un tavolino, un armadio e, sotto la finestra sbarrata, un letto sul quale era steso supino il sociopatico.
“John, qual è il tuo problema?” chiese questi quasi sottovoce, infingardo, gli occhi chiusi e le mani giunte sotto il mento.
Riecco il prurito alle mani. Ma questa volta l’avrei volentieri scaricato su quegli zigomi affilati senza pormi alcuna remora, nossignore.
Cercando di controllare il palpabile cambiamento del colorito della mia faccia, mi chiusi la porta alle spalle, inspirando ed espirando per cercare di riacquistare il mio equilibrio psicofisico in lento e doloroso sgretolamento.
“Qual è il mio problema?! Sherlock, mi hai fatto preoccupare!” esclamai, sbattendogli in faccia il cellulare.
Il mio paziente sbuffò roteando gli occhi da dietro le palpebre chiuse, come un adolescente di fronte all’ennesima ramanzina della madre che si lamenta per il disordine della sua stanza. In effetti era un disastro, la sua stanza, ma non dissi niente. Il disastro che mi preoccupava maggiormente interessava la sua mente.
L’immaturo in questione si tirò su a sedere incrociando le gambe sul materasso e mi spalancò gli occhi addosso, inquisitorio, ricominciando a scannerizzarmi con lo sguardo.
“Che c’è?” chiesi, allargando le braccia.
“Come si chiama?”
“Ma chi, scusa?!”
“La numero due.”
“La numero… Senti, non so dove tu voglia andare a parare ma…”
“Oh, io penso che tu lo sappia molto bene, dottore.”
“Aspetta… Sono affari tuoi? Oh, già. NO!”
Sherlock scosse la testa prendendo a grattandosela con entrambe le mani come se stesse ragionando su un problema matematico particolarmente complicato, o se avesse la testa infestata da chissà che colonia di insetti emofagi, affondando infine il viso nei palmi e trincerandosi dietro ad un silenzio per me snervante.
Niente insetti, nessuna equazione. Solo pensieri, enigmi, labirinti incorporei ma impenetrabili, eretti a difesa di un cervello essenzialmente fragile, in continua attività, sepolti dalla matassa di boccoli neri e dalla freddezza che andava ad intermittenza col tormento.
“Scusami, starei parlando con te.”
“John, mio fratello paga una somma non da poco per tenermi rinchiuso qui dentro e non vedo che altri espedienti possa trarre, se non farmi gli affari degli altri, per evitare di essere mangiato vivo dalla noia… o dal mio vicino di stanza.”
“Matthew non ha niente che non va,” sospirai “rifugia nel cibo per controllare la depressione e non vedo perché dovrebbe scegliere il mucchietto d’ossa che sei come pranzo. E poi non mi pare che rinchiuso sia la parola più adatta visto e considerato che non fai altro che importunare il mio staff e gli altri pazienti gironzolando ovunque come un… gattino in pena!”
Sherlock sollevò il capo di scatto infilzandomi con le lame che aveva al posto delle pupille, assumendo un cipiglio tra lo sconcertato e il leggero disorientamento. Il verdazzurro, l’ambra e il blu erano tornati a perseguitarmi, risplendendo vivi e frizzanti nel girotondo delle iridi, e la ruga in mezzo alle sopracciglia traduceva alla perfezione i cigolii degli infaticabili ingranaggi della macchina complessa e incomprensibile residente nella sua scatola cranica.
Gli ci volle qualche secondo prima di riaprire bocca.
“Gattino, John?”
“È semplicemente un modo di dire, Sherlock… Io…”
“Ti sembro forse un gattino?” ripeté cambiando posizione e accucciandosi sul letto, le mani aperte davanti alle ginocchia piegate.
Un morbido, bellissimo gattino nero, sì…
“No!”
“Se non pensassi che io lo sembri allora non avresti di certo detto che lo sembro, visto che a detta tua non pensi che io lo sia.”
Un orrendo e martellante mal di testa mi colse alla sprovvista mentre cercavo di capire cosa mi stesse dicendo quell’ammasso umano di insensatezze e capelli scuri che mi fissava curioso come una lince sul punto di balzare sulla sua ignara preda, pulsazione alimentata dal fatto che ora il colore dei suoi occhi sembrava aver acquistato una consistenza lattiginosa. Menta e latte.
“È così” mi limitai a dire, massaggiandomi una tempia e cercando di mantenere la lucidità di fronte ad un gattonante Sherlock Holmes armato di uno dei suoi tanti sorrisi a metà che serbavano il potere di mandare letteralmente in vacca il senso del giudizio e della percezione del reale a qualsiasi essere vivente dotato di occhi.
Si avvicinò a me, lento e calcolatore, arrampicandosi coi palmi lungo il mio petto, dove le sue dita trovarono ben presto terreno fertile per iniziare una danza fatta di sfioramenti e carezze, apparentemente senza significato, che finsi che non mi procurassero alcuna reazione. In quel momento mi ricordò molto il persiano grigio di mia cugina Beth, che a Natale aveva deciso di stabilirsi sulle mie cosce inaugurando una lunghissima sessione di danza del latte sul mio addome, causando la presenza di peli lunghi come spaghetti sul mio maglione preferito per circa un mese e mezzo.
“Sherlock…” mormorai già in debito d’ossigeno e di pensieri razionali e del tutto puliti che non riguardassero felini, letto, Sherlock, graffiare, Sherlock e ancora letto, alternando lo sguardo tra quelle dita da musicista, pericolosamente prossime ai bottoni della camicia, e i suoi occhi di smeraldo, finalmente alla stessa altezza dei miei.
“Chiedimelo” sussurrò, quasi in un lamento, mentre prese ad accarezzarmi i pettorali e poi a scendere, giù, dallo sterno fino ai muscoli addominali che mi si contrassero di riflesso.
“C-cosa?” balbettai facendo incontrare le sue mani con le mie, le cui dita andarono ad allacciarsi ai suoi polsi ossuti e mobili.
“Come faccio a sapere della numero due.”
“Come fai a… a sapere di Mary?”
“Mary… Nome comune, noioso. Vediamo…”
Sussultai, pietrificato ed incapace di sottrarmi da quelle attenzioni che di innocente non avevano proprio niente, quelle dolci e malate attenzioni che stavano trasformandosi nella mia assuefazione più dolce, soprattutto quando le manovre di Sherlock si spostarono al nodo della mia cravatta, allentandolo.
“Siamo più eleganti del solito, dottor Watson. Camicia di cotone, stranamente monocroma, di un azzurrino piuttosto sciatto. Forse qualcuno ti ha convinto, toppando completamente, che i colori pallidi e sobri si intonino alla tua persona” disse facendo scorrere un indice lungo i primi bottoni, che scivolarono fuori dalle proprie asole con la stessa facilità della melassa in un barile che viene accidentalmente rovesciato.
“Forse, l’unico modo per farti cambiare idea sulla tua bislacca concezione dell’estetica nel vestiario è farti provare un’alternativa alle solite camicie a quadretti scozzesi e righe da carcerato. E no, non mi sto riferendo a una commessa. Troppo banale oltre che essenzialmente stupido visto che, col tuo attuale stipendio, non puoi permetterti di rifarti il guardaroba solo perché la sciacquetta di turno ti sbatte le ciglia. Infatti, a giudicare dal filo di colore leggermente diverso con cui è stato cucito il secondo bottone, questa qui non è nuova. Dunque, un prestito. Pioveva, quel giorno, quando te ne sei andato prima dall’ospedale per chissà dove senza portarti dietro un ombrello. Vi siete incontrati, sei salito da lei e ti ha prestato una camicia che aveva in casa. Una vedova? Altrimenti non terrebbe da parte le camicie dell’uomo con cui ha rotto, soprattutto se è una che non si fa problemi a far salire gente in casa come se nulla fosse…”
Nell’esiguo spazio che la ragione riuscì a ricavarsi nell’indicibile casino che popolava il mio cervello, alimentato dallo scorrere veloce e impeccabile di quelle parole soffiate a pochi centimetri dal mio orecchio, in quel momento trovai la forza di reagire e di tappargli la bocca con una mano e bloccargli un polso con l’altra.
Aveva dedotto gli avvenimenti dell’ultima settimana dalla camicia che indossavo, regalatami da Sarah, che avevo messo sì e no due volte appunto per il colore poco originale.
Non avevo segreti per Sherlock Holmes, non potevo averne e, forse, non volevo affatto averne per lui. Ero un libro aperto nelle mani di un premio Nobel per la letteratura, e mi stava sfogliando pagina per pagina un giorno dopo l’altro.
“Non è vedova, genietto dei miei stivali. Non ha avuto il tempo di sposarsi perché l’Iraq le ha portato via l’uomo che amava. Contento?”
“In parte.”
L’aria di sfida e pallida eccitazione nei suoi occhi, il sorriso petulante sulle labbra socchiuse e non proprio a distanza di sicurezza dalle mie, mi avrebbero dovuto far ribollire il sangue nelle vene e spronare a fare qualcosa, non importa cosa, per dargli una lezione una volta per tutte.
“Ti eccita tutto questo, hm? Ti eccito io, con la mia trasparenza e mediocrità. Ti eccita il fatto di sapere di avere sempre il coltello dalla parte del manico, in qualunque situazione, e di essere sempre all’altezza di ogni enigma…”
Non mi accorsi di avere ringhiato, non prima di vedere l’immagine dei miei occhi, due fessure di paura e rabbia verso quella mente affascinante come poche ne esistono al mondo alla quale stavo facendo più fatica del previsto ad abituarmi, riflessa nei suoi.
Mollai di scatto la presa sui suoi polsi e lasciai che le ultime scariche di collera mi scivolassero via di dosso insieme ai polpastrelli di Sherlock, inabissato nella silenziosa contemplazione del sottoscritto.
“Cosa vuoi da me, Sherlock?” chiesi a un certo punto, nell’esasperazione più totale.
Passandomi una mano sulla fronte, mi accorsi di essere leggermente sudato.
“Una storia” disse con naturalezza.
“Una storia?”
“Una storia, John. Raccontami una storia.”
Con la stessa lentezza con la quale si era appropinquato a me, si allontanò appoggiando la schiena alla testiera in ferro del letto, raccogliendo le ginocchia al petto e stringendosele con le braccia come un bambino spaventato o troppo annoiato. In questa posizione, si mise in attesa.
“Veramente non ne conosco molte.”
“Smettila di pensare, John. Parla. Mi piace la tua voce.”
Non potendo contemplare l’esistenza di qualsivoglia alternativa, non potei fare altro se non accontentarlo, prendendo posto accanto a lui sul comodo materasso e raccogliendo le mani in grembo.
“Mia madre mi raccontava sempre la favola dell’usignolo e della rosa, quando da piccolo non riuscivo ad addormentarmi.”
“Ti ascolto.”
Ci guardammo intensamente per un istante e dai suoi occhi, carichi di genuina aspettativa, trassi il coraggio di condividere uno dei ricordi più belli che serbavo di mia madre, che adorava le favole e Oscar Wilde.
“Un tempo, viveva uno studente. Studiava filosofia ed era innamorato della figlia del ciambellano, la ragazza più bella e piena di grazia che avesse mai visto.
Di lì a poco si sarebbe tenuto un ballo, occasione che lo studente avrebbe sfruttato per dichiararsi alla ragazza dei suoi sogni. Ma, ahimè, quest’ultima aveva giurato che avrebbe ballato solo con colui il quale le avrebbe portato in dono una rosa rossa.
Così, lo studente di filosofia abbandonò i suoi libri per dedicarsi alla ricerca della rosa da regalare alla ragazza. Scandagliò il suo giardino, tutte le aiole e tutti i roseti, ma invano. Non riuscì a trovare una sola rosa rossa in tutto il giardino. Pianse a lungo, il giovane, finché un usignolo non lo udì.
‘Perché piange?’ chiedevano i fiori…”
“John, andiamo, i fiori non possono parlare.”
“Sherlock…”
“Okay, okay. Continua.”
“Dicevo… ‘Perché piange?’ chiesero i fiori e gli altri animali del giardino.
‘Per una rosa rossa’ rispose l’usignolo.
Non badò alle risate e agli scherni dei compagni perché soffriva per lo studente come non aveva mai sofferto per nessuno. Sbatté le ali marroni e volò sopra gli alberi, fino ad un roseto dove si posò con grazia.
‘Dammi una rosa rossa, in cambio ti canterò la mia più dolce canzone’ chiese l’usignolo.
‘Le mie rose sono bianche, bianche come la spuma del mare, più bianche della neve sulle montagne. Se ti rivolgi a mio fratello, laggiù, lui forse ti darà ciò che cerchi’ rispose il cespuglio.
L’usignolo volò vicino alla vecchia meridiana dove cresceva il roseto raccomandatogli e gli si posò sopra.
‘Dammi una rosa rossa, in cambio ti canterò la mia più dolce canzone’ lo pregò l’usignolo.
Ma il responso fu sempre lo stesso.
‘Le mie rose sono gialle, gialle come i capelli della ninfa marina che siede vicino al trono d'ambra, e più gialle dell'asfodelo che spunta nel prato prima che il giardiniere giunga con la sua falce. Ma vai da mio fratello che cresce vicino alla finestra dello studente, e forse lui ti darà quello che desideri’.
L’usignolo volò vicino al roseto indicatogli e ripeté la richiesta.
‘Dammi una rosa rossa, in cambio ti canterò la mia più dolce canzone’.
‘Le mie rose sono rosse, rosse come le zampe della colomba e più rosse dei grandi ventagli di corallo che ondeggiano nelle caverne dell'oceano. Ma l'inverno mi ha gelato le vene e fatto cadere i miei germogli, e la tempesta ha spezzato i miei rami, e io non avrò più rose per quest'anno’.
‘Una sola rosa rossa mi basta, solo una rosa rossa!’ insistette l’usignolo. ‘Non c'è nessun modo per averla?’
‘Un modo c’è’ disse il cespuglio ‘ma è così terribile che non oso parlartene...’”
Venni improvvisamente interrotto nel mio racconto da due secchi colpi sulla porta ai quali seguì un improperio da parte di Sherlock.
“Non ci interessa, grazie!” esclamò adombrandosi.
“Controllo” annunciò l’infermiere di reparto facendo capolino da dietro la porta.
Trasalimmo entrambi.
“Dottore…?”
Passando attraverso tutte le gradazioni di rosso in viso come un ragazzino colto con le dita nel barattolo di marmellata, balzai in piedi, lì per lì non sapendo come giustificare la mia presenza in camera di Sherlock, raggomitolato su se stesso e con un’espressione decisamente contrariata sul volto. Sapevo solo che paziente più letto sfatto più il sottoscritto con cravatta allentata e camicia sbottonata non era proprio ciò avrei definito “situazione a mio favore”.
“Si tolga quell’espressione ebete dalla faccia, la rende più stupido di quanto non sia già. Il dottor Watson deve finire il racconto dell’uccello e dei fiori parlanti.”
“F-fiori parlanti?” balbettò l’infermiere, pietrificato sulla soglia.
Oh, certo. Perché è assolutamente normale che un medico, in un ospedale psichiatrico, diletti i propri pazienti con storielle di animali e piante con facoltà di proferire verbo. Davvero un’ottima cura per facilitare loro il ritorno alla realtà delle cose.
Esibii uno dei sorrisi più accondiscendenti del repertorio, un repertorio piuttosto limitato, e mi affrettai a uscire dalla stanza portandomi dietro l’inserviente.
“Allora, signor Holmes, continueremo la nostra sessione di “racconta il tuo sogno ricorrente” domani! Arrivederci” lo salutai, accompagnato dall’improvviso corrucciarsi della sua fronte e, molto probabilmente, da qualche commento circa la mia, di sanità mentale, e sul fatto che lui non sogna perché, semplicemente, non contempla il riposo notturno tra le sue principali attività vitali.
Mi chiusi la porta alle spalle tirando un sospiro di sollievo, e cercai di ignorare l’espressione, decisamente inebetita, del ragazzo occhialuto al mio fianco.
“Fiori parlanti, dottor Watson?”
“Oh Tom, non ci scommetteresti un penny. Sono dappertutto!” 







Author's Corner:

Chiedo perdono per il delirio dell'ultima settimana nel scrivere questo capitolo.
"The nightingale and the rose", by the love of my life, alias Oscar Wilde. Se non l'avete già fatto, leggetela perchè merita, come del resto tutte le sue favole. Anzi NO! Non fatelo. Vi rovinereste la sorpresa =)
Pazza me vi dà appuntamento al capitolo otto.
Hugs,

miss potter xx

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Capitolo 8
*** Chapter eight ***





Chapter eight






“Ti dona molto”
Mary, seduta sull’erba di St. James Park, il cielo negli occhi e il lungo prendi sole giallo canarino scollato sul petto, mi appariva limpida e radiosa come la più dolce tra le giornate d’estate, la protagonista ingenua e bella sempre dei radi sogni che ogni tanto mi venivano a trovare la notte.
Ed io, disteso supino con le mani dietro la nuca e la testa svuotata tra le nuvole, la osservavo ridere sotto i baffi dietro al suo cono gelato alla fragola e limone, ringraziando il destino per starmi donando ciò che allora ero convinto che fosse la mia famigerata seconda possibilità. Seconda possibilità da cosa, poi? Io, che d’amore e di possibilità ne sapevo niente, semplicemente perché non avevo potuto godere né dell’uno né delle altre che molto spesso s’eguagliano o s’annullano a vicenda.
“Che cosa?” le chiesi mezzo imbambolato, ricambiando il sorriso.
“La fantasia hippie della tua camicia” rispose semplicemente, indicandomi con un rapido gesto del mento.
Essendo controluce, chiusi un occhio per inquadrarla meglio e per mettere a fuoco quell’accenno di implicita ironia che mi fece distendere le labbra e assottigliare lo sguardo.
“Lo pensi davvero?”
Mi guardò seria per qualche secondo, mordendosi il labbro inferiore, prima di scoppiare a ridere come una tredicenne ad uno sciocco pigiama party portandosi una mano davanti al viso per nascondere il crescente rossore delle guance.
“Okay, sono una pessima bugiarda…”
“Lo sei!” esclamai, sfoderando il tono più oltraggiato che mi riuscì di simulare.
“Ah, sì?”
Assumendo una vaga espressione di sfida, iniziò a stuzzicarmi pizzicandomi l’addome, provocandomi il solletico insopportabile che mi catapultò coi ricordi ai bei tempi di quando io ed Harriet, due piccole pesti bionde iperattive sempre pronte a provocarci a vicenda, ci tiravamo capelli e sassi tanto perché ci andava di farlo. Cioè fino a non molto tempo fa.
Le espressioni stranite dei passanti e le risate lontane dei bambini erano le silenziose testimoni impotenti di quelle nostre mature ragazzate che, dopo poco, evolsero in un forsennato rincorrersi nel prato vicino al laghetto dei cigni, perpetrandosi per un tempo indefinito almeno finché non riuscii ad acchiapparla, cingendole la vita da dietro e facendola girare.
Non smise di ridere per tutto il tempo, e neanche io, nemmeno quando inciampai facendoci cadere goffamente l’uno sull’altra, il gelato come unico ostacolo tra i nostri visi, nemmeno quando me lo spiaccicò di proposito sul naso.
“Sei buffo.”
“E tu sei bellissima.”
Rise, allungandomi un indice sulla punta del mio naso e rimuovendo la macchia di crema portandosela alle labbra, un gesto lascivo che mi avrebbe dovuto provocare una qualche sorta di reazione psicofisica che, però, tardò ad arrivare, come del resto il bisogno di appropriarmi di quella bocca così prossima alla mia e di quella parte fondamentale che ancora mancava al nostro… rapporto?
Avvolgendo una ciocca dei suoi capelli color rame ad un dito, il mio cuore, a braccetto con un cervello lontano, lontanissimo da quel parco e da quegli occhi bruni, rise al pensiero che con qualcun altro non mi ero fatto molti problemi a concludere neanche alla prima volta che ci eravamo visti, all’idea che non ci fosse effettivamente mai stata la necessità di definire ciò che era accaduto e che non ce ne sarebbe mai stato il bisogno, forse.
E non so perché, abbracciato a una donna bellissima che si lecca le dita a pochi centimetri dal mio viso, mi ritrovai a pensare a quel qualcun altro. Me ne vergognai, un poco, e sperai con tutto me stesso che Mary scambiasse il mio sorriso sognante e la porpora delle mie guance per doni sacrificali al suo fascino, immolati ad una devota partecipazione che si stava presentando in terribile ritardo.
Così, avvinghiati ed affannati, ci respirammo addosso ancora qualche istante prima che lei prendesse il coraggio di avvicinare le proprie labbra alle mie per suggere il poco fiato rimastoci dal nostro primo bacio.
Le sue, sottili e leggermente screpolate, si mossero senza indugio sulle mie, immobili e stanche, con esplicita e bisognosa esperienza, esplorando e lasciandosi esplorare prive di ogni timidezza e remora, lambendo e leccando sapienti là dove le parole mi stavano tradendo, abituandosi con immane fatica alla temporanea foga e stranezza del momento.
Era tutto denti, lingua e saliva, e quel bacio umido mi ricordò molto il mio primo, di bacio, quello con Jeanette nel bagno delle ragazze. Un orrendo, appiccicoso bacio, quello, fatto di mani inesperte sotto i vestiti, tempie sbattute contro la porta chiusa a chiave e carta igienica sotto le scarpe.
Questo, però, durò poco, molto meno di quanto sperassi in effetti.
Interruppi il contatto con uno schiocco sonoro della lingua, allontanando il capo per riallacciare lo sguardo al suo, socchiuso e febbricitante, come se quella sensazione d’appartenenza a qualcuno e a qualcosa che non fosse la solitudine e il dolore non la stesse provando da secoli, non con quell’ardore, non con quella disarmante semplicità.
“Mary, io…”
“Shh, non dire nulla” mi zittì, ponendomi un indice sulle labbra e sostituendolo subito con le sue, di nuovo intraprendenti ed esperte come poche ne avevo saggiate, indigenti e sensuali.
Mi ritrovai a sorridere, ancora e ancora, a ridere silenzioso e furtivo al presuntuoso ricordo di quella mattina in ambulatorio quando un’innocua visita medica era evoluta in una particolarissima sessione di cura alla cavità orale del mio paziente preferito, di certo non propriamente un asso nel baciare e lasciarsi baciare perché, ripeto, non era stato un bacio, quello. Eppure, quel flashback, infingardo e ghignante, mi attraversò la mente sottile come una bava di sciroppo dolcissimo nell’acqua più limpida, delizioso e insaziabile, scatenandomi un calore indecente che, come cera bollente, si andò a riversare lungo la mia spina dorsale, giù, lungo le gambe fino ad ogni appendice del mio corpo, solidificandosi in un brivido di puro piacere.
Mani, braccia, piedi ed ogni singolo dito formicolavano danzando sulle lettere di quel nome così antiquato e musicale, scritte a fuoco tra le circonvoluzioni del mio encefalo e nelle pareti cave del mio muscolo cardiaco.
Vergogna, eccola di nuovo, e pentimento. No, forse no. Neanche quando Mary si rese conto di quella reazione fisica che stava facendo parlare il mio corpo più di qualsiasi discorso o confessione.
Una mano si andò a posare dietro la mia nuca, prodigandosi ad approfondire il contatto, mentre io facevo forza sulle braccia per non pesarle sul petto e su un cuore matto che sarebbe esploso entro poco, mentre un sorriso tiranno e adulatore governava ancora le mie labbra, soggiogate alla memoria.
Il quasi impercettibile bip proveniente dalla mia tasca risuonò nella mia testa con lo stesso fragore di una campana la mattina di Natale, risvegliandomi dal mio momentaneo intontimento e facendomi emettere un gemito che, per Mary, si tradusse nel pretesto per stringermi a sé ancora di più, solleticandomi il palato con la lingua.
La sua mano destra lasciò cadere il gelato sull’erba, giungendo in soccorso della mancina, ma riuscii comunque ad estrarre il telefono e ad interrompere per l’ennesima volta il bacio, lasciando che Mary mi facesse ruotare supino, sovrastandomi, e che prendesse possesso del mio collo scoperto e sudato.
“A-aspetta un secondo…” mormorai, cercando di leggere il messaggio nel display colpito dal riflesso della luce solare e di ignorare i volti sconvolti delle vecchiette che assistevano dalle loro panchine a quell’assalto in piena regola alla mia giugulare.
“Ma chi è?” si lamentò Mary, spettinata e con le guance color cremisi, sollevando il capo.

Spero che la tua storia abbia un finale interessante perché mi sto annoiando. E potrei seriamente considerare di prendere a testate il muro. SH

“Lavoro. Devo andare” annunciai in uno sbuffo, cercando di alzarmi da terra.
Il repentino e non molto gentile movimento del braccio della ragazza mi riportò sotto di lei, ottima posizione per poter leggerle dentro tutta la delusione e il rammarico che la mia azione le stava ispirando.
“Ma oggi non avevi il pomeriggio libero?” chiese, accigliandosi.
“Mary, sono un medico. Se un paziente sta male è mio dovere soccorrerlo.”
Pietrificata da quelle parole che a me erano sembrate delle banalissime e valide motivazioni per cui quell’incontro al parco non avesse ragione di protrarsi oltre, visto e considerato che ufficialmente non era ancora la mia ragazza, lasciò che mi alzassi, imitandomi subito dopo e non riuscendo a celare un’espressione che definirei un perfetto connubio tra oltraggio ed indignazione.
“E il nostro appuntamento?”
“Appuntamento?”
“Già. APPUNTAMENTO!”
La nota lievemente stridula che incrinò la sua voce si andò a aggiungere alle decine di altre voci stridule delle ragazze che conservavo in quella buia ed isolata stanza della mia memoria denominata “relazioni disastrose ed altri fallimenti di John H. Watson”, trapanandomi la testa al ritmo della parola “idiota”.
“Senti… ti chiamo, okay?”
Non feci in tempo a terminare la frase e a rimettermi la camicia a fiori dentro i pantaloni che un singhiozzo le troncò il respiro, facendomi odiare a morte per doverle apparire come un… approfittatore insensibile sposato col proprio lavoro, o qualcosa di similarmente stupido che a nessuno di cerebralmente normale verrebbe mai in mente di pensare.
“Oddio, no. Non… fare così, ti prego…”
Bip.

Mollala e vieni subito, se non ti dispiace. SH

Se ti dispiace, vieni comunque. SH

Quando quel breve singhiozzo evolse in singulto, andai letteralmente nel panico.
“No, no, no! Ti scongiuro. Non piangere. Ti… ti chiamo stasera, d’accordo? Ceniamo fuori e parliamo della… cosa di prima” dissi, limitandomi a cingerle le spalle sussultanti con i palmi delle mani e di cercare nel suo sguardo lucido, nascosto dai capelli scompigliati, la risposta che non avrei mai trovato, semplicemente perché per me non sarebbe mai esistita.
“Il bacio?”
“Sì… quello.”
Non volevo illuderla. Ma le donne sono facilmente illudibili e gli uomini troppo sciocchi per farne a meno, di illudere e ferire. Soprattutto certi, soprattutto quelli che d’amore vero hanno letto solo nei libri di letteratura alle superiori, o al massimo nelle poesie, e di relazioni serie e stabili sanno tanto quanto di punto croce.
Quando, dopo qualche istante di indecisione, mi concesse un malinconico sorriso, pensai che almeno non me ne sarei andato lasciandola in lacrime nel bel mezzo di quello che io stesso avevo definito appuntamento neanche il giorno prima, e che forse non mi avrebbe odiato.
Ma Mary non era programmata per odiare. Al massimo per comprare un etto di affettato e schiaffarselo davanti agli occhi. Oh, in quello sarebbe stata fantastica.
“Tutto okay?”
“Tutto okay, sì.”
“Allora, a stasera.”
La baciai su una guancia e, mentre mi allontanavo e lungo tutto il viaggio in taxi, riflettei sulla concreta possibilità di fare inserire il mio nome nell’Oxford Dictionary sotto la voce “merda”.

La stanza numero 221 era vuota.
Il letto sfatto, la scrivania sgomberata e, sopra, un solitario violino d’abete rosso con un paio di corde saltate e un archetto vicino suppuravano solitudine e abbandono. Ogni piccola crepa, ogni angolo più nascosto, ogni indumento lasciato a terra a prendere la polvere e a sgualcirsi, tutto il misero arredamento di quello che appariva un poco più grande di uno sgabuzzino urlava assenza e mancanza.
Non era disordine, quello. Era semplice negligenza, come se nulla importasse davvero o niente fosse abbastanza interessante da essere meritevole di considerazione. Solo la camera e il nido spoglio e misero di un cervello scriteriato e doubleface, imprevedibile e vacillante, geniale ma incredibilmente delicato come la migliore delle opere d’arte confinate nelle loro lugubri e solitarie teche e cornici laccate, osservate da sguardi meravigliati, talvolta critici, che durano lo spazio di una sbirciata prima di passare oltre.
Raccolsi da terra una camicia, quella viola e bella, e me la portai al naso. Sapeva di pelle e carta vecchia, forse bruciata, di mughetto e dopobarba, legno e acqua stantia.
Chiusi gli occhi e mi ci immersi completamente dentro, a quella sconfinata babele di odori e ricordi che avrei voluto tatuarmi sulla pelle, e li tenni ben chiusi, protetti da qualsiasi altro possibile stimolo visivo, anche quando la porta dietro di me si chiuse e un paio di lunghe, forti braccia strusciarono contro i miei fianchi, andandosi ad intrecciare all’altezza del diaframma, stringendo e parlando come se ne avessero davvero la facoltà.
“Puoi tenerla, se vuoi” disse la voce, calda e amica, respirandomi dentro a un orecchio.
Non persi tempo a trasalire, né tantomeno ad arrossire o a nascondere la prova che mi stava incriminando, anche perché non l’avevo sentito arrivare e le mie dita, tuffate nella stoffa morbida dell’indumento, si erano andate automaticamente a posare sui suoi avambracci e la nuca sulla sua spalla, dove trovò il sostegno di cui avrebbe sempre avuto disperato bisogno.
“E cosa dovrei farci, hm?” chiesi in un mormorio stanco.
Percepii distintamente un sorriso irrequieto nascere sulle sue labbra e posarsi con la leggerezza e il silenzio di una farfalla rara sulla porzione di pelle sotto il mio orecchio, lo stesso che stava collezionando tutti i brividi che quella vicinanza mi provocava, catalogandoli poi con minuzia per intensità e sapore.
Il labbro inferiore seguì fedelmente la linea del mio collo, giù, fino alla clavicola per poi risalire e ricongiungersi col labbro superiore, un capolavoro di scultura naturale di cui potei riconoscere l’inconfondibile arco di Cupido tendersi, pronto per scoccare la sua freccia avvelenata.
“Non so…” mormorò, camminando in punta di lingua lungo la vena giugulare, in quel momento particolarmente sovraccarica di sangue ed ormoni d’ogni tipo. “Magari quando sei solo, le tapparelle abbassate… nel buio della tua stanza…”
Non ero certo se mi dovessi sentire più offeso o smascherato, più strappato o perfettamente letto, come un libro di cui si sanno a memoria parole e pieghe, immagini e appendici. Mi piaceva essere sfogliato da lui, e questa era l’unica certezza su cui al momento potevo contare e continuare a sperare.
“Che squallore. Non mi serve fantasticare su di te visto e considerato che ti vedo quasi tutti i giorni e che, soprattutto, sono il tuo medico.”
“Ma un medico non si lascia sedurre dai propri pazienti, dico bene?”
Sollevai la testa dalla sua spalla, voltandola appena alla ricerca di uno sguardo che mi vidi negare.
“E chi ti dice che io voglia essere sedotto?”
“Oh, fidati. Non vuoi davvero saperlo” rispose, mellifluo come poche volte lo era stato, facendo forza col capo per riportarmi ad offrirgli la gola.
“Te l’hanno detto i miei polsini? O è stato forse il risvolto dei jeans?” lo stuzzicai mentre non gli opponevo resistenza, sforzandomi però di ignorare la perfetta aderenza della mia schiena a quel petto ampio che sembrava modellato apposta per accogliere le sporgenze delle mie vertebre, e l’inconsolabile vagare di quelle dita, sempre più curiose, che sembravano essersi stabilite senza regolare permesso di soggiorno ai confini della mia cintura, sfiorandone coi polpastrelli la cinghia di metallo.
Due clandestini, ecco cosa eravamo, ecco cosa saremo stati sempre, in balia di un mare senza confini in una barca piena di buchi e sprovvista di remi.
“Azzardato, dottore. Il vistoso succhiotto sul pomo d’Adamo mi è stato molto più utile.”
“E?”
“E dunque anche uno che butta a caso le deduzioni come te potrebbe arrivarci senza particolari sforzi cognitivi.”
Mi voltai con tutto il corpo, lentamente, scivolando col fianco lungo il suo torace dove trovai il perfetto incastro per il mio, ritrovandomi ad arrossire e sospirare di puro sgomento di fronte a quello sguardo traboccante di smeraldino fermento, alle capriole del verde mano nella mano con l’indaco e il cobalto e altri mille colori che neanche il più abile tra i preraffaelliti sarebbe stato in grado di riprodurre nella sua tavolozza, semplicemente perché non ci sarebbero stati pennelli o tele al mondo capaci di sopportare il peso di tutta quella bellezza.
“Ti sopravvaluti.”
“E tu sottovaluti la più che realistica possibilità di pensare a me mentre fai l’amore con lei.”

Touché.

“È stato solo un bacio.”
Solo un bacio. Tre semplici ed anguste parole, sibilate nella lingua inglese e sibilanti in un cervello indebolito come era il mio. Si rincorrevano, graffiandosi la schiena e facendosi lo sgambetto a vicenda, bambine stupide e credulone, fragili e incantevoli, dai capelli intrecciati e le guance color papavero, i vestitini sbrindellati, le scarpe color fango e le ginocchia sbucciate.
La cosa non reggeva. Non resse la prima volta, non aveva retto la seconda e non avrebbe retto mai. Perché non era stato un vero bacio con Sherlock, ancor meno con Mary, e con Sarah prima e con tutte le altre. Perché il vero bacio, quello che ti sfonda il cranio e ti annulla ogni cellula del corpo facendone esplodere il nucleo, ti impregna di tutta la magia di cui vive, con cui respira, è l’ossigeno di un organismo insecchito, la luce nell’oscurità delle parole e dei pensieri ed è tutte le stelle dell’universo insieme, sigillate in un barattolo di vetro, che brillano come due malcapitate lucciole mentre muoiono, spegnendosi pian piano quando l’aria non basta per entrambe. E l’amore è il ragazzino lentigginoso ed annoiato che assiste a quel macabro delirio ticchettando con l’indice su quel barattolo, la testa appoggiata a una mano chiusa a pugno e la mente rivolta al prossimo omicidio di insetti notturni.
Lucciole, eravamo noi. Minuscoli insetti chimici che amano la luce e vivono delle notti d’estate, nello spazio tra uno stelo d’erba e un altro, fuggendo dai bambini coi barattoli in mano, o dalle indiscrete stelle su in cielo.
Stelle. No. Troppo lontane tra loro, anni luce di domande e dita protese senza mai toccarsi o parlarsi. Lo eravamo stati, forse. Ma eravamo caduti, e in quel momento non eravamo nient’altro che lucciole di sera dentro un barattolo di vetro.
Come la maggior parte dei lettori potrà comprendere, John Hamish Watson aveva da tempo perso la testa ed ogni cognizione di ciò che è e che non può essere, scardinando ogni limite e barriera, benché ancora non lo volesse ammettere a se stesso prima che agli altri, estirpando le fondamenta piacevolmente incrinate delle sue poche certezze e deboli convinzioni riguardo a chi pensava di essere e su cosa era consapevole che gli interessasse. Un po’ come uno che si sveglia un giorno e scopre che la cioccolata gli fa semplicemente schifo, e comincia ad ingozzarsi di gambi di sedano e maionese dalla mattina alla sera. O un altro, che si mette in testa di circumnavigare l’America Latina in zattera non sapendo nemmeno nuotare.
Mi stavo facendo del male, lo sapevo, uno sporco masochista dalle pupille dilatate e una pesante dose di felicità in vena, e la cosa più strana e imbarazzante era la consapevolezza che non me ne importava un fico secco. Perché mai mi sentii più vivo di allora, stretto in quell’abbraccio che era una coperta di lana, ed insieme fuoco scoppiettante e tazza di cioccolata e panna durante una sera come un’altra di pieno inverno, e accarezzato da quelle labbra, un porto di speranza e protezione dove potevo attraccare ogni volta che ne sentissi la necessità senza cercare casa altrove.
“Solo un bacio.”
Perché non seppi quando tutto di quel madornale errore ebbe inizio, quando decisi che non mi sarebbe più interessato avere autocontrollo e giudizio tra la lista degli invitati a quelle nozze di carne e desiderio celebrate nello spazio esiguo di due toraci e venti dita intrecciate, o come mi ritrovai a raccogliere l’ultima lettera sgorgata come una minuscola goccia di ambrosia purissima da quelle fulgide labbra di rosa, sfiorandole dapprima con la delicatezza di un saggio botanico e poi appropriandomene senza più esitazioni come il più egoista tra i collezionisti di fiori, strappandone e saggiandone la consistenza corposa e morbida petalo a petalo, senza vergogna. O forse un po’ di vergogna c’era, solo un poco. Ma non era importante.
Riconobbi l’esitazione della prima volta, quell’impacciata voglia di esserci e di partecipare senza però possedere gli strumenti ed esperienza sufficienti per dimostrarsi all’altezza della situazione.
E, Dio, uno Sherlock Holmes che non è all’altezza di una situazione è un qualcosa di oscenamente eccitante, soprattutto per un John Watson con le connessioni sinaptiche di un lichene.
Gli circondai le mandibole contratte con le dita della mano destra, premendo piano sul mento e costringendolo ad aprirsi di più, a lasciarsi andare, perché le cose non dette erano tante, il luogo decisamente poco appropriato, e non c’era abbastanza spazio, non c’era più tempo per aspettare ancora e per tenersele tutte nel cuore, perché poteva scoppiare da un momento all’altro, lui, e perché sapevo che l’avrebbe fatto senza alcun preavviso; e allora io mi sarei accasciato al suolo, sul fondo del mio barattolo, una mano al petto e un dio pagano che avrebbe continuato a succhiarmi via ogni frammento di vita rimastomi in corpo al ritmo di un respiro sempre più debole.
“John…”
“Spegnilo” mormorai, respirandogli in bocca, una gran bella bocca che però ancora ubbidiva ad un cervello tiranno e vergine di fronte all’accecante verità alla quale anch’io stentavo di giurare fedeltà eterna. Semplicemente perché non credevo che fosse possibile giurare completa appartenenza a un qualcosa di così sfolgorante, quasi irreale, che già ti possedeva e che aveva impresso il suo marchio su ogni fibra del tuo essere. Nessuno ci avrebbe creduto, nemmeno io.
Nel buco nero e senza fondo di due pupille esageratamente dilatate, potei quasi distinguere, solenni e alteri, sfilare in pompa magna numeri e statistiche, percentuali, calcoli e formule inutili come quelle stupide valutazioni che vedevo accavallarsi nella sua mente con l’impeto delle onde marine nella tempesta di previsioni ambigue, nel disperato tentativo di contagiarmi della convinzione, dannatamente concreta e tangibile, che si trattasse solo di un fottutissimo errore, un macroscopico sbaglio di cui entrambi ci saremmo macchiati e pentiti a giostra finita.
Nonostante questo e nonostante tutto il resto, quando vidi Sherlock chiudere lentamente gli occhi e, in un rantolo di completo asservimento, cedere a me, abdicando da quel suo dannato trono di logicità e indifferenza e spezzando definitivamente le catene del divieto, esultai, godendo nel guardare quel fioco barlume di logicità schiantarsi dietro le palpebre e poi sbriciolarsi come una statua d’argilla asciutta, portandosi dietro quelle stupide cifre, una dopo l’altra.
Sorrisi a fior di labbra, pensando che quello sarebbe stato il fantastico preludio di un vero, atomico bacio, o il timbro per un biglietto di sola andata per l’inferno, e serrai le palpebre lasciando che ogni organo interno si accartocciasse su se stesso e che ogni domanda o dubbio evaporassero dalla mia mente per cedere il posto ad affermazioni e candide certezze come “Dio, mi sta piacendo da impazzire” o “potrei anche morire così”.
Sprofondai molto presto nell’ovattata immensità di quella nostra madreperlacea dimensione di luce e calore, plasmata a forza di denti, lingue aggrappate l’una sulla’altra e saliva, e ancora sudore e adrenalina in ebollizione a braccetto con milioni di globuli rossi impazziti, rendendomi conto piuttosto in ritardo di come i secondi, o i secoli, passavano veloci accanto al miracolo, il mio miracolo, che si stava realizzando davanti e dentro di me, e di come quel povero letto alle mie spalle vi stava assistendo, ancora così terribilmente vuoto e freddo.
“Sherlock…” esalai, interrompendo di malavoglia quel contatto tanto inebriante quanto assuefacente, generando nel mio paziente un lamento di profonda e sentita disapprovazione.
“Che c’è?” chiese aggrottando la fronte e riavvicinando il volto con veemenza al mio alla disperata ricerca di quello che, per entrambi, sembrò essere diventata la primaria fonte di sostentamento prima ancora di ossigeno e acqua, o di qualsiasi commento arrogante o deduzione.
Risi a denti stretti di quella foga, che era anche mia, e non riuscii a trattenermi dallo spostare le mie attenzioni dalle sue labbra schiuse e febbricitanti ai primi bottoni della camicia che indossava, nera e attillata, l’unica barriera fisica ancora rimasta tra noi, il famigerato bastone tra le ruote di un carro lanciato a velocità folle  giù da un dirupo con destinazione paradiso.
Le mie dita, quelle di un medico militare, di un soldato e di un fuciliere di Sua Maestà, si traghettavano sicure da un lembo all’altro dell’indumento, indugiando su bottoni e asole, pieghe e porzioni di pelle glabra che si palesavano a me come la più dolce tra le rivelazioni, l’ottava meraviglia del mondo che era quel corpo tonico ed essenziale, dove ossa e muscoli giocavano a nascondino coi miei occhi e le mie mani, insaziabili e curiose mentre, con la fretta mascherata da impazienza, si facevano largo tra la stoffa pregiata.
“John…”
Gli diedi ciò che voleva, offrendogli di nuovo la giurisdizione delle mie labbra dove avrebbe potuto sperimentare e dimostrare ogni cavolo di teoria. Sarei stato a sua completa disposizione mentre i bottoni scivolavano fuori dalle loro postazioni e il cervello mi si rinsecchiva poco a poco, privato della sua quotidiana irrorazione di sangue che cominciò ad approdare su altri lidi.
Il suono profondo e gutturale proveniente dalla sua trachea e che seguì l’ennesimo scontro delle nostre labbra scatenò in me quel genere di reazioni che normalmente ti fanno buttare nella spazzatura la biancheria intima e che non mi avevano invaso nemmeno quando Mary si stava leccando la macchia di crema dal dito, gli occhi sprofondati nei miei e il bel seno abbondante a pochi centimetri dal mio petto.
“John.”
Adoravo il suono del mio nome pronunciato dalle sue labbra, e mi eccitava in una maniera deplorevole sentirlo nascere e vagire tra le sue corde vocali. Avrei voluto sentirlo sussurrato, invocato in un orecchio, accompagnato da quella favolosa serie di lamenti e sospiri sui quali fantasticavo da un paio di minuti da quando avevamo iniziato a baciarci e io a spogliarlo, avrei voluto sentirlo tutto, dentro, donarsi a me e cadere, cadere giù, perché io l’avrei raccolto e ci saremmo mossi all’unisono dello scontrarsi di due anime gemelle che si fondono dopo essersi ritrovate e riconosciute.
“John!”
E come quando si sogna di cadere e ci si sveglia di colpo, l’orrenda sensazione di vuoto e pericolo vorticosa nello stomaco e dietro la testa, mi staccai dal suo corpo in uno scatto repentino, un arco riflesso in cui si solidificarono tutte le paure e i tentennamenti che me l’avevano tenuto lontano fino a quel momento e che pensavo di aver sconfitto.
Paura. Ne ebbi tanta. I suoi occhi sbarrati, la bocca semiaperta e dello stesso colore del viso e il rumore di un respiro e di un cuore impazziti mi fecero temere di aver rotto qualcosa della splendida armonia di forme e sensazioni che era quel ragazzo così speciale.
Le mie mani, ancora incollate al suo torace mezzo scoperto, indugiarono sui pettorali come del resto i miei occhi su quello sguardo, nudo anch’esso, diverso e inconsueto, sgomento e intimorito come se davanti gli si fosse presentata la più orrenda tra tutte le creature delle tenebre. E forse lo ero davvero.
“Stai bene?” chiesi semplicemente, facendolo suonare molto più come uno “scusami, sono un colossale idiota”.
Accennai a spostare lo sguardo dal suo viso a quel petto impazzito che si alzava ed abbassava sotto i miei palmi come se gli stesse mancando l’aria per continuare a respirare, ma le mani grandi e dalla presa salda di Sherlock si avventarono sul mio viso, stringendone gli zigomi in una morsa ferrea.
“Tieni gli occhi fissi su di me” mi supplicò, un’urgenza quasi ridicola.
“Che hai, Sherlock?”
Facevo fatica a parlare, compresso com’ero in quella trappola fatta di dita sudate e tremori, impossibilità incrementata da quello strano comportamento al limite del grottesco.
Sebbene avessi la testa bloccata e lo sguardo incatenato al suo, pieno di angoscia, le mie dita riuscirono a farsi spazio sul suo petto e, quelle della mano destra, a lambire la porzione di pelle sottostante la clavicola sinistra.
Corrugai la fronte quando, sotto i polpastrelli, avvertii l’epidermide del mio paziente, solitamente morbida e liscia, incresparsi ed indurirsi lungo linee di materia ruvida e secca, irregolare, e fu per me come un pugno allo stomaco o un proiettile in piena fronte.
Un medico, un buon medico, sa riconoscere una ferita, e non gli servono di certo gli occhi per farlo, soprattutto se le stesse lesioni le ha collezionate su se stesso, imparandone a memoria consistenza e forma.
Percorsi le incrostazioni di coagulo in punta di dito medio, seguendone la direzione e cercando dentro quegli occhi lucidi e consapevoli la risposta che non si sarebbe fatta attendere a lungo.
Un sospiro. Un sospiro e nulla più prima che mollasse la presa sulla mia faccia e, così, mi permettesse di abbassargli la camicia scoprendogli del tutto la spalla e una porzione di pettorale.
Tre lettere, incise all’altezza del cuore, spiccanti nel biancore perfetto di quella pelle d’avorio e seta come sfregi di pugnale su un Caravaggio.


I O U 




 




Author's Corner:

Oh fly. Ebbene, non so che mi prenda.
Questa storia mi sta sfuggendo di mano in maniera spaventosa e oramai sono divenuta una massa organica informe che si automaledice mentre passa da momenti di fluff più indecente a momenti di un angst disarmante. Che poi è angst, il mio? Mah!
Il capitolo nove sarà interessante. O forse no. Forse riuscirò a raccontarvi che fine fa l'usignolo.
Laterz!

miss potter

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Capitolo 9
*** Chapter nine ***





Chapter nine







L’unica cosa che in quel preciso momento avvertii, a parte l’attrito scostante della pelle dei miei polpastrelli contro quella rialzata e scabra dei tagli, eccetto il quasi impercettibile rumore simile a vetri rotti che udii provenire dal mio petto, fu un grande e disarmante senso di vuoto. Come quando si ha fame, terribilmente fame, e si legati davanti ad un piatto fumante di lasagne con la besciamella che cola da ogni lato e si è impossibilitati ad allungare una mano e saziarsi, l’unico conforto è il profumo delizioso che è contemporaneamente sollievo e tortura.
Sentii lo stomaco contrarsi, le ginocchia farsi deboli e stanche, improvvisamente troppo fragili per sostenere il peso di tutto quel nulla, o di quel troppo annichilito a se stesso, e fu così che mi ritrovai a sperare di non crollargli davanti, come un ragazzino in lacrime con il suo giocattolo preferito fatto a pezzi in grembo, e a sorreggermi come meglio potevo a quelle spalle ampie e nude, pallide, semplicemente perfette, se osservate nascoste sotto le camice di pregevole fattura, ma con un enorme fardello addosso, un segreto inconfessabile di cui non mi sentivo ancora del tutto pronto ad esserne l’umana testimonianza. O forse ci ero nato e basta, per condividere i suoi fardelli e per correre a perdifiato, senza nessuna possibilità di riposo.
Giocattolo rotto. Lo era, sì, rovinato e umiliato, ma non era un giocattolo, non per me, non il mio. Non c’erano plastica scadente e meccanismi, lucine scariche o parti piccole facilmente ingeribili. Tutto quello che mi era dato vedere erano pelle ed ossa gracili, carne tesa e lattescente, sangue rappreso e respiro reciso, la cosa più viva e allo stesso tempo più inerme e spenta che mi si potesse palesare dinnanzi, tutto occhi di giada liquida e labbra di petalo strappato e lasciato a seccare, corrugate dal dolore nel vedermi in quello stato, lì e così, un fantoccio tremulo e sbattuto qua e là dal vento delle circostanze, dai muscoli di paglia e la camicia colorata, crocifisso all’immagine di quella che mi era sempre sembrata la più straordinaria tra le creature, una divinità condannata dalla superbia alle fattezze della più fredda e immobile pietra, un idolo di marmo incrinato ed abbandonato nel suo enorme tempio di segregazione e angoscia, oscuro e remoto. Solo un uomo, ora, sepolto da una montagna di bugie ed illazioni, un uomo come tanti ne avevo visti cadere e sfregiarsi. Non mi sarei dovuto stupire, impressionare. Ma a quanto pare i traumi non sono mai abbastanza. Ci sarà sempre un qualcosa che ti farà soffrire più di quanto non abbia sofferto già.
Avrei voluto essere stato capace di piangere, sfogarmi e smettere per racimolare poi tutte le forze che mi erano rimaste in corpo e usarle per sbatterlo contro la porta chiusa alle sue spalle, picchiarlo, fargli male, almeno tanto quanto me ne stava facendo a me in quel momento senza dover muovere un solo muscolo, affidandosi solo alla silenziosa ferocia di mille lame ed altrettanti veleni, alla sola potenza di quegli occhi labirintici e in parte celati da un muro invalicabile di ciglia scurissime e lunghe, quasi femminili, belle come setose piume di corvo o di cigno nero che si trascina a capo basso sul suo specchio d’acqua grigia.
Serrai le mani a pugno, premendole con forza contro quei pettorali stanchi e abbattuti, scuotendo impercettibilmente il capo. Sentii l’istinto di graffiare crescere dentro di me, la brama sorda di lacerare brutalmente laddove lo sfregio pareva più doloroso e profondo, magari lungo le curve della O e su tutta la pancia della U, per poi avvicinare le labbra e suggere dalle ferite riaperte un poco di quel liquido di vita che altri prima di me avevano forse avuto il privilegio malato di assaporare, imprimendosi quel sapore allucinogeno nella testa dove avrebbe agito come una fottutissima dose di LSD, e, inghiottendo, impregnarsene in ogni meandro più recondito dell’organismo, fino alla prossima puntura.
Chiamatela gelosia, o semplice depravazione. Volevo sentirlo dentro, Sherlock Holmes, semplicemente ero arrivato al punto di volerlo sentire scorrere nelle vene, nelle arterie, fino ad ogni singolo capillare. Ardevo della smania di sentirlo arrivare galoppando assieme ai globuli rossi fino ad un cuore che avrebbe amato e, subito dopo, abbandonato senza scrupolo alcuno, tradendolo come la più ricercata tra le puttane con ogni singola appendice di un corpo umano in totale estasi, portando sostanza, linfa e appagamento a ciascuna cellula. Perché era il mio paziente, la mia missione speciale, ma, sopra ogni cosa e prima di tutto, la mia anima corrotta e fragile da salvare dalle fiamme dell’inferno di questa vita, colei per cui ero nato e tornato dall’Afghanistan ferito quasi a morte, anch’io poco sopra il cuore, pronto per risorgere e far risorgere dalle ceneri dell’abbandono.
Tutto quello che provai, però, si limitò a tradursi in quel vuoto orrendo, nella rabbia e nell’irresistibile desiderio di volerlo fuori dalla mia vita, una volta per tutte e per sempre. Perché le sue dannate cicatrici, quelle che in seguito scoprii esser presenti anche su parte di addome e su entrambi gli avambracci, malamente coperte da una decina di cerotti alla nicotina vecchi di giorni, erano anche le mie, come se la lama del bisturi – certo erano tagli di bisturi, quelli, precisi e netti, condotti da mano ferma ed esperta – tagliassero la sua carne e in contemporanea anche la mia, più a fondo però.
Ricorda, John. Siete Isaac Newton e la sua mela, quando l’una si ammacca l’altro impreca per il dolore alla testa. Siete perfezione e legge fisica scolpita a fuoco lento nei crateri di diamante nelle profondità gorgoglianti della Terra, e tra i vapori delle scie delle meteore. Le gemme, come le stelle, portano i vostri nomi, costellazioni di grazia e carne, e vorticate nel vostro personalissimo barattolo di luce e silenzio, ed è così che deve andare e che finirà, perché così è scritto. L’uno ha creato l’altra, perché la mela sarebbe rimasta solo il gustoso frutto rosso e tondo, e sarebbe caduta sull’erba dove poi sarebbe marcita o, se raccolta, sarebbe stata una tra tante sue simili, vendute al mercato a due sterline al chilo. L’una ha creato l’altro, perché un ragazzo inglese di ventiquattro anni ne avrebbe compiuti venticinque, l’anno dopo, e ventisei l’anno seguente, senza aver mai formulato nessuna legge gravitazionale e senza guadagnarsi nemmeno un paragrafo nei libri di storia e scienza, e allora saremmo ancora tutti qui, col naso all’insù o all’ingiù, miliardi di poveri stolti tanto simili a ignoranti formichine spione dai loro buchi nella terra a chiederci il perché la luna non ci cade addosso, o perché non ci basta un salto per appurare se sia davvero fatta di formaggio.
Eravamo il nostro miracolo, e non lo sapevo.
Desiderai con tutto me stesso di sapere e di non sapere affatto, in effetti. Desiderai di aprirgli la scatola cranica, perché la verità non me l’aveva detta mai, dunque non me l’avrebbe detta nemmeno in quell’occasione, e, dopo aver rimosso il cervello, esplorarne la superficie lucida, dissezionarlo e, magari, metterlo in formaldeide come quello del dottor Morgan.
Desiderai morire, per l’ennesima e forse prima volta da quando la mia battaglia nel deserto era finita, o risvegliarmi, nel mio letto, con la consapevolezza e il sollievo nel cuore di sapere che fosse stato nulla più se non l’ennesimo incubo. Mi sarei ubriacato, sì, avrei cercato Sarah, ci avrei fatto sesso tutta la notte e poi avrei preso un autobus, all’alba, diretto a Winchelsea, dove mi sarei tolto le scarpe e poi seduto in riva al mare, affondando i piedi nella sabbia e tutti i pensieri nelle rosate profondità dell’orizzonte.
Ma eccolo lì, il mio orizzonte cristallino e del colore dell’oceano d’inverno, riversato in quegli occhi grandi e traslucidi che non stavano chiedendo nient’altro che aiuto. E non c’era nessuno, per loro, a tendere l’orecchio per ascoltare quella richiesta formulata nel linguaggio fatto di occhiate magiche e brevi come un battito d’ali di libellula, linguaggio di Sherlock e John, John e Sherlock. Nessuno ci sarebbe mai stato, per lui, il mio piccolo e dolce fiore da guarire, e questa era una delle poche cose che ancora non potevo, non volevo rinnegare.
“È stato lui a farti tutto questo, vero?” riuscì a dire dopo non so quanti minuti passati a esaminare le ferite, recuperando non so dove le forze per parlare e per distogliere lo sguardo da quella pelle violentata.
“Nessuno poteva essere così brillante” sussurrò solamente, rassegnato, distendendo le labbra.
Cos’era quello? Un sorriso? Aveva il corpo sfregiato, io ero sulla soglia di una crisi di pianto isterico, e lui… sorrideva? Doveva esserci davvero un bel casino, uno di quelli grossi ed inestricabili dentro quella testa calda perché l’ultima cosa che ci vedevo, in tutta quella sporca faccenda, era dell’ironia.
Ma poi compresi. Non era ironia, quella, o leggerezza, o semplice pazzia, il non rendersi conto della propria posizione sull’infinita scala delle miserie umane. Le sue labbra, di nuovo pallide e carnose, si stavano imbrattando di un’amarezza sconvolgente, mai vista prima, come se tutti i nodi della sua matassa mentale si fossero stretti inesorabilmente l’uno sull’altro, l’uno dentro l’altro, rendendo impossibile qualsivoglia tentativo di salvataggio neanche da parte del più paziente e ligio tra gli esseri umani, neanche se davanti a sé questo essere umano avesse avuto l’eternità intera.
Affondando tutte le dita dentro la foresta riccioluta della sua testa, mi parve di tenerla tra le mani, quella matassa, e di soppesarne la gravità e la mole scannerizzandone i contorni e le dimensioni, come con un cancro in lenta metastasi. E, da un primo e superficiale esame, la situazione appariva disperata, lo sapevamo entrambi, una malattia all’ultimo stadio alla cui vittima si regalano ridicole parole di speranza, sottile come la distanza tra vita e morte, sogno e realtà, in cui non c’è spazio per la pietà ma solo per un insignificante barlume di comprensione che accompagna e culla, come una mamma, fino all’ultimo secondo quando il respiro si blocca e il cuore finalmente riposa.
Non seppi dire quale forza bruta e primitiva mi spinse a mettere un piede davanti all’altro, superarlo, aprire la porta e riversarmi in corridoio con la stessa potenza distruttiva di tonnellate d’acqua di fiume imprigionato giù da un diga in rovina. E molto probabilmente non ci pensai nemmeno, agendo e basta con la stessa facilità con cui le mie orecchie si sigillarono all’ascolto delle grida di Sherlock a torso nudo alle mie spalle mentre avanzavo a pugni chiusi, le lacrime agli occhi e la vista annebbiata verso l’ufficio della fonte di tutto il mio male. Il nostro male.
Entrai senza bussare e senza preoccuparmi di mandare nel panico mezzo ospedale o che qualcuno chiamasse il servizio di sicurezza, perché in quel momento l’unica cosa che importava al nuovo ed agguerrito soldato che si era impossessato della mia facoltà di giudizio era raggiungere Moriarty, prendergli la testa verniciata tra le mani e sbattergliela contro il suo muro tappezzato di onorificenze di carta e sangue con tutta la forza che avevo in corpo, almeno finché qualcuno non mi avesse fermato o che i suoi disperati tentativi di ribellione non si fossero spenti in un latrato da cane rognoso ed irrecuperabile qual era, preso a bastonate da un ubriaco d’amore all’angolo di un vicolo buio e sudicio. E l’avrei lasciato marcire, l’ignobile, avessi dovuto condannarmi anima e corpo.
Non appena misi piede nell’ufficio, un “figlio di puttana” traballante sulla punta della lingua e le mani già protese in avanti, un singolare paio d’occhi, due fessure del colore del cielo di Londra, quel particolare tono di grigio innaffiato d’indaco che sicuramente avevo già visto da qualche parte non molto tempo prima, mi si spalancarono addosso inquieti, dilatandosi come… come un ombrello. Ricordo che mi paralizzai sulla soglia, le braccia lasciate cadere lungo i fianchi e il fiatone provocatomi dall’ira, incontenibile, che in quel preciso istante scemò come carta velina messa sulle braci in un qualcosa di molto simile alla delusione, mescolata al caos mentale più totale.
Mycroft Holmes mi fissava da dietro la sua sottilissima pellicola di familiare apatia, seduto alla scrivania di vetro una volta appartenuta al dottor Moriarty, le grosse dita delle mani intrecciate su quello che mi apparve essere un registro di nomi e numeri tenuto aperto sulla lettera H, e il mio capo, in piedi al suo fianco, gli occhi bassi e un’espressione tra le più lugubri del suo intero repertorio di tetraggine.
“Dottor Watson. La stavamo aspettando” esordì Mycroft affrettandosi a celare, con successo, ogni possibile incrinatura di sentimento che svicolasse dalla sua consueta e pragmatica abulia.
Zigzagai con lo sguardo tra i due uomini, uno in camice bianco, l’altro in giacca e cravatta, immobili come statue di sale davanti a me, una misera creatura bagnata di sudore e lacrime, il cuore in gola e gli occhi lucidi e prostrati, senza capire se davvero quello fosse solamente un infame scherzo progettato da qualche decerebrato dal pessimo senso dell’umorismo o il peggiore dei miei incubi. Perché non seppi come comportarmi, travolto com’ero dagli eventi che mi stavano investendo con la forza di un caccia bombardiere in pieno petto, né tantomeno cosa dire, visto e considerato che sarebbero potuti tranquillamente sbucare telecamere nascoste e presentatore in completo rosso scarlatto di un qualche odioso programma della BBC di scherzi televisivi da un momento all’altro e io non mi sarei granché stupito.
Era tutto reale, però. Tutto troppo, dannatamente vero. Ed evitai di pizzicarmi un braccio per scongiurare ulteriori sguardi dubbiosi all’indirizzo della mia espressione, in quel momento non propriamente rappresentativa dell’equilibrio interiore che la mia professione esigerebbe, piuttosto molto più simile in effetti a quella del più brutale degli assassini nei videogiochi moderni, quelli con gli occhi iniettati di sangue e un vasto assortimento di armi da fuoco e taglio d’ogni tipo e dimensione agganciate alla cintura. Mi ritrovai a rimpiangere la mia vecchia amica Browning m1919 datami in concessione sul campo dal corpo di fucilieri di Sua Maestà, e la faccia da ermellino del signor Holmes non mi aiutava a smettere di pensare “mira e spara, soldato. Mira e spara”. Proprio per niente.
“Cosa significa?”
La voce mi tremava, e mi odiai. Detestavo dover apparire a tutti, ma soprattutto all’uomo di ghiaccio che era Mycroft Holmes, come il debole, il fragile, l’ingenuo soldato che gioca al dottore, o come il mediocre medico di città che finge che la guerra non l’abbia segnato per sempre o che non gli abbia lasciato nulla, dentro e fuori, mentre lavora e si lacera i nervi per la difesa della vita quando fino a neanche qualche mese prima le vite le spezzava come rami secchi durante una scampagnata in montagna.
La bocca sottile ed incurvata all’ingiù dell’uomo seduto si contrasse in una smorfia imbarazzata, come se stesse frugando nelle immensità di un cervello geneticamente predisposto a complicarsi le cose la risposta che era ben consapevole che meritassi.
“Mio fratello?” chiese solo.
“Il dottor Moriarty?” sputai, scimmiottandolo.
“Se n’è andato” intervenne dunque il dottor Morgan, sollevando il capo con solenne gravità. “Scappato.”
“Scappato?”
“Fuggito” confermò Mycroft.
“Sì, grazie infinite, non sto cercando un sinonimo ma uno psicopatico che si diverte a fare origami delle persone!” sbottai.
Intanto, dietro di me, la porta spalancata della stanza rivelò la figura disordinata ed arrossata del mio paziente, la camicia sgualcita abbottonata ed infilata nei pantaloni, la fronte sudaticcia liberata dai ricci più lunghi alla bell’e meglio e lo sguardo turbato piantato su un punto ben preciso oltre le mie spalle.
“Mycroft,” ringhiò “avevo la situazione sottocontrollo.”
“Sottocontrollo, fratellino?” esclamò Mycroft al suo indirizzo, alzando solo di poco la voce in quello che per lui si traduceva nel massimo dell’irritazione raggiungibile dalla sua natura essenzialmente flemmatica. “Chiami avere la situazione sottocontrollo lasciare che il soggetto, evidentemente sprovvisto di qualsivoglia forma di autocontrollo, superi ogni limite fino ad arrivare a tanto così dal provocare una strage?”
Il soggetto evidentemente sprovvisto di qualsivoglia forma di autocontrollo ero io, sì, proprio quello che in quel momento alternava lo sguardo sconvolto tra quelle due paia di iridi di ghiaccio che sembravano volersi congelare a vicenda e che tremava come una foglia dall’agitazione.
“Sempre così plateale… Non ne puoi fare a meno.”
“Scusatemi, time out!” mi intromisi. “Perché non ci sto capendo niente?”
“Perché non mi sorprende, John?”
L’acidità con cui Sherlock mi rivolse quella domanda mi annientò. Non me la meritavo, no davvero, soprattutto da uno che mi aveva definito brillante fino a neanche due minuti prima, e dal momento stesso in cui fummo tutti e quattro riuniti in quella stanza, in un continuo e violento scannerizzarsi e riflettere su cosa l’altro potesse stare pensando, non mi sentii mai così solo e tradito.
Il pesante sospiro di Mycroft, che in quel momento s’alzò dalla sedia per raggiungere me e suo fratello, dal quale si tenne a debita distanza, ruppe il silenzio tombale caduto sulla lettera finale del mio nome.
“Dottor Watson, lei ignora alcune cose su cui è mio dovere fare luce” disse.
“Sono tutto orecchi!”
E così, dopo essersi sistemato il gilet di tweed sotto la giacca ed aver preso coraggio di guardarmi dritto negli occhi mentre sputava la sua confessione, che era la mia sentenza, principiò.
“Il mio nome è Mycroft Holmes, e lui è mio fratello, Sherlock Holmes. E su questo non credo che ci siano dubbi. Quello che lei non sa, e di cui non le è stata fatta menzione al fine di garantire la sua più completa incolumità, è che i nostri nomi in codice sono A.N.T.H.E.A. e I.R.E.N.E. Siamo due agenti sottocopertura dipendenti dall’MI5 …”
“Tu sei un agente, Mycroft, io sono solo un cittadino britannico sociopatico sottocopertura, ex consulente detective di Scotland Yard, su cui è caduta la disgrazia di ritrovarsi come fratello un megalomane con un piccolo incarico nel governo inglese quando non collabora con la CIA e, quando capita, con i russi per il controspionaggio…”
Di tutte quelle parole pronunciate a velocità supersonica, mi bastò focalizzarmi su “agente”, “sottocopertura”, “CIA”, “controspionaggio” e “Scotland Yard” per rischiare una sincope, oltre ad avere il respiro mozzato già da quando Mycroft iniziò a parlare.
“In poche parole,” continuò quest’ultimo senza scomporsi, impenetrabile ed austero “lei, come tutto lo staff di quest’ospedale, fa parte di un’operazione top secret principiata nel 2003 atta ad individuare e sgominare una tra le più intricate reti di criminali internazionali che operano nel settore sanitario, specialmente nell’Europa Centrale ed oltreoceano. James Moriarty è solamente un anello, un anello molto resistente, di una catena lunga quanto la sua decennale esperienza negli ospedali psichiatrici inglesi e svizzeri, terreni estremamente fragili e complessi che sonda da quando ottenne la laurea nel ‘94 con specifici e ignobili obiettivi in mente, tra cui terrorismo internazionale, riciclaggio di denaro sporco, commercio illegale di droga, medicinali proibiti ed armi tanto per citare le imputazioni di gravità minore attribuite a lui e ai suoi collaboratori, tutti più o meno ex militari di Sua Maestà congedati per cattiva condotta o ritiratisi dal servizio in Medio Oriente.”
Lo ascoltai attentamente, il fiato sospeso, incapace di interromperlo o di battere anche solo le ciglia.
L’uomo prese un bel respiro prima di proseguire, incerto se raccontarmela proprio tutta, quella storia che, in tutta sincerità, mi stava affascinando e al contempo disgustando come se fosse una delle tante partite di Risiko a cui da bambino giocavo con Harriet che vinceva sempre, ed io, la pedina di plastica colorata sballottata qua e là da mani invisibili che non tennero conto neanche per un attimo che il mio cuore avesse bisogno di tutto tranne che di ulteriori crepe.
“Ebbene, certo si sarà chiesto che ruolo ha lei in tutta questa faccenda. A mio fratello è stato assegnato il delicato incarico che in gergo chiamiamo esca, cioè quella persona, solitamente un agente ben addestrato e temprato da anni di gavetta, che opera da diversivo nell’attirare il soggetto di nostro interesse nella speranza, per noi che osserviamo i suoi spostamenti da fuori, di riuscire a penetrare le sue difese…”
Si bloccò di colpo, evitando per un istante il mio sguardo attento, quasi assorto, facendo così crescere in me quella nauseante sensazione di insicurezza e trappola che si intonava alla perfezione agli Holmes, il loro fiore all’occhiello.
“Cosa non mi sta dicendo, signor Holmes?” mormorai, in debito di frasi che non contenessero una qualche domanda.
Percepii Sherlock, alle mie spalle, sfiorarmi la schiena in punta di polpastrelli. Ma, stranamente, non mi fece alcun effetto e continuai a mantenere il contatto visivo con l’espressione abbattuta di Mycroft.
“Qualcosa è andato storto, dottore” disse questi, riallacciando lo sguardo, improvvisamente umanizzato e vacillante, al mio, raggelato.
“Storto?”
“John…”
Sherlock pigolò il mio nome sbilanciandosi in avanti e finendo col venirmi incontro e stringermi così in un abbraccio difettoso che aveva molto in comune con quello di poco prima, in camera sua, solo più urgente ed impacciato. La sensualità e tutta l’intimità della stanza numero 221 si era spenta, però, e anch’io. Quasi non lo sentii cingermi il petto con le braccia e avvicinarmi a sé, affondando il viso nello spazio tra la mia spalla destra e il collo alla ricerca di non so che cosa, forse dell’appoggio che in quel momento non ero pronto ed intenzionato ad offrirgli, semplicemente perché da qualche parte mi ero rotto anch’io, perdendo a gradi, come le foglie di un albero in autunno, la forza per restare in piedi, gli occhi incollati a quelli di suo fratello, immobile davanti a me e pietrificato in un’espressione stranita all’indirizzo di quell’affetto così esplicito che, molto probabilmente, neanche con sua madre suo fratello s’era mai concesso di esternare.
“John…” ripeté Sherlock in un sussurro, una voce vicina ma al contempo così lontana ed ovattata al mio orecchio tradito da sembrare quasi irreale, inesistente. E lo era.
“Cosa è andato storto, Mycroft?” ribadii la domanda, lentamente, facendola uscire come un lamento di anima e creatura spezzata a metà, la stretta sul torace sempre più ferma e una lacrima, sì, una goccia di dolore a bagnarmi la clavicola. O no, forse era un bacio, quello, uno dei tanti, umidi e silenziosi, l’ennesima delle nostre bugie al sapore di miele.
“Questo.”
Mycroft pronunciò questa solitaria ed immensa parola come se fosse il suono più difficile ed impronunciabile di una lingua morta, nient’altro, accompagnata dal gesto rassegnato di una mano, allungata mollemente verso di noi ad indicare il più grande spettacolo di tutta un’esistenza, condannata dagli altri alla solitudine più cupa e ad una orrenda morte interiore, quello che si stava consumando nel minuscolo spazio vitale di due corpi e un’anima di nana bianca, destinata a ballare per tutta la vita sulle punte intorno alla sua galassia di splendore, e, infine, spegnersi, esplodendo di tutta la bellezza del mondo e dell’universo insieme, racchiusa e domata in quell’abbraccio imperfetto che sapeva e odorava di cose dette troppo tardi e con troppa violenza, detonanti.
Perché con Sherlock era tutto o niente, adesso o mai più. Lo sarebbe sempre stato e solo ora capisco e mi rendo conto quanto fossi stato stupido a non leggere tra le righe, nello spazio esiguo e capriccioso di quegli sfioramenti apparentemente casuali, di quelle occhiate complici senza dimensione né tempo, di quei baci, delle carezze di tutti i giorni e delle favole a metà, un po’ com’è sempre stata la cosa che fatico a chiamare amore.
Come poteva esserlo? Amore. Un sentimento così grande e maestoso da poter esser confinato e diviso in parti uguali in due cuori che uguali non erano, ed intermittenti, uno tutto buchi e cicatrici, straziato dalla guerra e dalle emozioni travolgenti ed insopprimibili, l’altro soffocato dal freddo marmo di una lapide di calcoli, una cattedrale mentale ed infrangibile alla quale stavo disperatamente chiedendo asilo, senza accorgermene e senza volermi far sentire davvero, in ginocchio sui gradoni a tamburellare con un dito sul grande portone di ferro e legno, un orribile gobbo incatenato ai suoi mostri di pietra e vento preso a bastonate, deriso, umiliato.
“E lei, dottor Morgan? Cosa mi dice? È davvero un medico o sotto a quell’espressione da borghese affranto e al camice si nasconde Sua Maestà la regina?”
Il medico sbiancò in volto, evitando il mio sguardo furioso, cacciandolo sulla scrivania dove, accanto al registro, era presente una cartellina nera che prese in mano e mi allungò.
“Qui ci sono le carte per il suo ritiro, dottor Watson. Le viene concessa la possibilità di scegliere tra il prepensionamento e l’alternativa di tornare a lavorare presso una struttura pubblica, in centro, con un sussidio per permettersi un affitto, almeno finché non riuscirà a trovarsi un lavoro” disse con voce piatta.
Quelle carte non avevano mai tardato ad arrivare. Erano state sepolte e nascoste in un qualche cassetto chissà dove, perché l’obiettivo era farmi restare, farmi recitare la mia parte fino alla fine, almeno fin quando non sarei stato completamente inutile allo scopo e allora mi avrebbero scaricato, come stavano facendo in quel momento.
Nessuno doveva sapere, non io. Il mio capo, Mycroft e Sherlock, gli unici ad esserne a conoscenza. Ma non io, non tutte le altre decine di persone tra medici, infermieri e pazienti sfruttati fino alla fine come pedine sacrificate per la causa. Fatto sta che il re era caduto, e la partita era finita.
“Perché solo ora?” sussurrai prendendo in mano la mia cartella, la voce rotta dal pianto e dalla collera. “Perché solo adesso?”
“John, c’è una spiegazione…” sussurrò Sherlock con voce instabile che si tradusse in un sussulto quando mi scostai violentemente da lui troncando di netto la stretta in cui mi avviluppava.
“Taci!” urlai, scoppiando in lacrime. “È stato divertente giocare con me, hm? Usarmi come diversivo tenendomi nascosta la vostra vera identità e gettarmi via quando il vero obiettivo di tutta questa messa in scena ha tagliato la corda e la missione è fallita!”
“John, ascoltami…”
“No, Sherlock! Ho ascoltato fin troppo e credimi se ti dico che ne ho fin sopra ai capelli delle tue parole. Era tutto un gioco, il tuo, non è vero? Catullo, gli SMS, tutti quei discorsi d’aria, i… baci.”
“Baci?” s’intromise Mycroft.
“Sì!” esplosi. “Baci! Suo fratello mi si è attaccato a ventosa dal primo momento, accidenti!”
Rabbrividii quando Sherlock sferrò una manata sul muro, facendo tremare insieme a me tutte le quattro pareti della stanza.
“Beh, tanto che t’importa?!” gridò, gli occhi lucidi e il viso color cremisi. “Non ti è nemmeno piaciuto!”
Lo guardai per un istante che durò una vita e mezza prima di alzare il pugno destro e schiantarglielo su uno zigomo, un gesto illogico com’era quella situazione, così veloce che né Mycroft né il dottor Morgan ebbero il tempo di fermarlo o di dire qualunque cosa atta a dissuadermi dal compierlo.
Le lacrime e la rabbia più mille altre sensazioni indescrivibili mi accecarono, annebbiandomi la visuale anche quando Sherlock barcollò all’indietro finendo con la schiena contro il muro, sbattendo la nuca.
Dovevo aver perso il senso delle distanze e la mia mira, universalmente riconosciuta come una tra le migliori di tutta la mia divisione, perché invece che la guancia avevo colpito parte del naso e la bocca, spaccandogli il labbro e forse anche il setto nasale.
La vista dello scorrere del sangue, quella linfa che avrebbe dovuto eccitarmi solo al pensiero di poterlo sentire sulla lingua, e di quella pelle perfetta sfregiata in modo irreparabile, mi disgustò oltre misura, facendomi ritornare indietro al tempo in cui sparavo alla cieca ad ogni cosa che si muovesse, nel deserto o nascosto dietro agli arbusti secchi, lasciando che ogni senso di vergogna o rimorso mi scivolasse di dosso come una insignificante goccia di sudore per poi ritornare a perseguitarmi la notte sottoforma di incubo ed allucinazione.
L’immagine del mio Sherlock, una maschera di sangue, sul quel pavimento di linoleum asettico e bianco mi avrebbe braccato per tutta la vita, insieme ai sensi di colpa e a tutte le cose che avrei potuto fare al posto di spaccargli la faccia.
Sperai che gli rimanesse la cicatrice, un’enorme cicatrice, grande tanto quanto quella che si stava formando al centro esatto del mio cuore.
“Mi è piaciuto, Sherlock” gli dissi solo, guardandolo dall’alto in basso. “È proprio questo il problema. È sempre stato questo e solo questo. Dall’inizio.”
Mycroft e il dottor Morgan erano rimasti immobili, al centro dell’ufficio, incapaci di intervenire o anche solo di soccorrere il ferito, il quale si limitò a portarsi una mano davanti alla bocca e a guardarmi come un cucciolo maltrattato, gli occhi grandi e azzurri ridotti a due crepe di dolore e acredine.
“Ho guardato ma non osservato, John. E ho perso molto più di quanto temessi.”
“Ottima osservazione, davvero. Il tuo difetto più grande però è ci che arrivi sempre troppo tardi, alle cose, nonostante la tua indiscutibile intelligenza per le deduzioni. Ma lasciati dire che nei sentimenti fai proprio schifo.”
“Forse ho fatto male a pensare che in questo frangente tu mi avresti potuto aiutare.”
Vetri rotti. Vetri rotti. Di nuovo quel rumore al centro del petto. Perché Sherlock Holmes o lo si ama o lo si odia. Per John Watson fu sempre un limbo tra le due cose.
Distolsi lo sguardo dal suo, dal quel viso martoriato e dai cocci della cosa più meravigliosa del mio mondo, frantumata come quel sentimento che speravo di poter riuscire a coltivare insieme nel giardino segreto del nostro rapporto, ed allungai una mano verso la porta già aperta.
Così per colpa tua, mia Lesbia, mi è caduto il cuore e così si è logorato nella sua fedeltà, che ormai non potrebbe più volerti bene anche se fossi migliore o cessare d'amarti per quanto tu faccia.(9)
Lasciai la stanza e i presenti senza dire altro sbattendomi la porta alle spalle e con un solo pensiero in mente: avrei chiamato Mary, dopo, l’avrei portata fuori, avremmo mangiato italiano e chiacchierato sul nostro futuro. Un bel futuro, senza socio e psicopatici né bugie.
Sherlock Holmes era morto sul quel pavimento, e io non ci sarei stato per allungargli una mano e raccogliergli la vita. Non più. 














Note:
(9) dal carme 75 (Catullo)



Author's Corner:
Non è assolutamente venuto fuori come avevo immaginato. Nel senso che avevo in mente qualcosa di molto più... epico? E invece ho partorito questo... coso che non so nemmeno come definire. Ho cercato di mantenermi sul vago per finire in bellezza nel prossimo capitolo che teoricamente dovrebbe essere quello conclusivo. TEORICAMENTE.
Non so cos'altro dire. Spero che non faccia così tanta pena.

miss potter

p.s. non mi sono dimenticata della seconda metà della favola di Wilde, don't worry ;)

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Capitolo 10
*** Chapter ten ***





Chapter ten







Passarono parecchi giorni, poi qualche settimana, ed infine tre mesi dopo quel dannatissimo pomeriggio al Maudsley.
Rassegnai le mie dimissioni e feci le valige per tornarmene al mio appartamento in centro il giorno dopo, andandomene senza salutare nessuno ed evitando, per quanto mi riuscisse, gli sguardi pieni di pietà – o era comprensione? – della restante parte dei pezzi della mia metà di scacchiera.
Non seppi più nulla di Sherlock Holmes, né di suo fratello. Tutto quello che contava, in quel momento, e che mi restava, era Mary Morstan, la donna sincera e friabile che avevo maltrattato fin troppo, dal primo istante, la vera vittima insieme al sottoscritto di tutta quella sporca faccenda di cui non le parlai mai, giustificando il mio congedo con l’offerta di un posto più vantaggioso vicino casa. Giurai a me stesso che mai più le avrei, ci avrei procurato tanto dolore.
Ero tornato dal fronte per vivere la mia vita il più serenamente e normalmente possibile, alla larga dai pericoli e dalle fatiche auto inferte della vita, dalle scelte difficili e da qualsivoglia battaglia.
Avevo combattuto quando me lo avevano chiesto, sono stato ferito, quasi sono morto, ho passato un periodo tremendo a contorcermi nel letto, di notte, perseguitato dai volti e dalle urla fin troppo reali delle vite che avevo stroncato. Ora era giunto il momento di pensare di nuovo a me, ad un futuro possibile e sicuro, magari con una famiglia, una vera, da cui tornare a casa la sera, dei figli di cui andare orgoglioso e di cui avrei mostrato le fotografie a lavoro, e una moglie meravigliosa che mi avrebbe fatto sentire un uomo libero, realizzato e felice. Era giunto il tempo di tornare ad essere un po’ egoisti.
So di aver detto di non essere fatto per queste cose così… banali, quotidiane, mediocri. Per la felicità. Ma la gente cambia idea così tante volte che quasi non si può dire di conoscerla davvero. Un giorno si pensa di parlare con un amico, la persona più trasparente che pensi di conoscere, magari davanti a una pinta di birra al pub, e ti dici di conoscerlo talmente bene che quasi potresti anticipargli le parole prima che gli escano di bocca. Andavate a ragazze insieme, all’università, tu le presentavi a lui e lui le presentava a te, e poi alla fine del mese stilavate i vostri record, prendendovi per il culo come due idioti quando uno veniva scaricato nonostante fosse convinto di aver trovato l’anima gemella. Ma poi, davanti a quella pinta di birra lasciata ad intiepidire, quell’amico viene da te, i capelli un po’ più radi e grigi, la camicia nuova e un aitante ragazzo sottobraccio che ti viene presentato come l’uomo della sua vita. E allora tu ci rimani di merda, o il fatto è che ti sembra così strano mentre ti presenta e tu allunghi la mano verso questo ragazzo che non fa per lui, giovane, la cravatta azzurra e la giacca di juta con le toppe sui gomiti come va tanto di moda adesso, che te la stringe con timidezza. Perché, insomma, lui non era gay.
Ma le persone cambiano idea così spesso che non si può mai dire di conoscerle come si spererebbe. O, molto probabilmente, sei sempre stato circondato da una manica di stronzi ipocriti che ti hanno mentito sin dal primo giorno, parlando quando c’era da inventare storie abbastanza credibili e standosene zitti quando queste storie si rivelavano nient’altro che atomiche bugie biascicate tra una canna e più di una bottiglia di scotch a Capodanno.
Non potevo dire di conoscere nemmeno me stesso, in realtà. Perché uno non si fa così tanto male di proposito, a meno che non sia masochista o si chiami John Hamish Watson. Decisamente, io non mi conoscevo affatto.
E per giunta dovetti dare ragione a mia sorella, quando quella mattina al telefono mi aveva chiesto se ero felice. Perché non avrei dovuto esserlo, poi? L’avevo toccata in punta di dita, la felicità. O in punta di labbra, è lo stesso. Ma forse non ero omologato per essere felice, come quelle persone annoiate della vita che ci passano molto vicino, ad esserlo, ma poi se ne vanno alla volta dell’ennesima illusione, sventolando la mano.
Non passò molto tempo prima che riuscissi davvero a trovare un lavoro in un ambulatorio poco distante da casa. E neanche prima che Mary mi proponesse di lasciare il mio appartamentino da single depresso ed arrabbiato col mondo per andare a vivere con lei e il carlino.
Furono tre mesi stupendi, quelli. Non andavamo molto spesso fuori a cena, un po’ perché il mio stipendio non me lo permetteva, un po’ perché Mary si rivelò essere un’ottima cuoca, ma ci andava bene così, due cuori e una capanna in centro a Londra.
Cenavamo al lume di candela tutte le sere, o quando era troppo stanca per cucinare e io per apparecchiare la tavola ci bastava addormentarci l’uno abbracciato all’altra sul divano, davanti a qualche orrenda commedia romantica e a due bicchieri di vino rosso a poco prezzo. Ma mi sarebbe bastato, continuavo a ripetermi. Mi sarebbe bastato per un bel po’.
La stavo prendendo a piccole dosi, quella relazione, un po’ come una medicina o la migliore delle droghe allucinogene che ti fanno dimenticare tutti i “se” e i “ma”, insieme a qualche volto e più di qualche ricordo scomodo: la sveglia alle sette, il caffè rigorosamente amaro, la cravatta puntualmente scoordinata con la camicia, i pensionati e i loro problemi col diabete e le nuore, i pomeriggi barcamenati in Oxford Street o al parco, i weekend al mare, le cene dai vicini e le notti d’amore. Tutto era tornato alla normalità. E anche le fitte alla gamba, puntualissime.
A luglio riuscimmo anche a passare a salutare Harriet. Presentai Mary a mia sorella che, prendendomi da parte mentre lei e Clara bevevano il tè in soggiorno, non mi risparmiò un paio di felici commenti su quanto fosse ordinaria ed insipida come donna, nonostante l’evidente avvenenza, oltre al fatto che non fosse adatta a me ed altre simili verità.
“Harry, ti prego. La amo e questo è tutto ciò che conta” avevo bisbigliato temendo che Mary potesse origliare, visto e considerato che con Clara quasi non spiaccicò parola.
“Ma guardati… Non ci credi nemmeno tu alle parole che dici. Amore… Non sai nemmeno cos’è” aveva risposto lei scuotendo la testa e distogliendo lo sguardo, malinconica come poche volte l’avevo vista.
“Oh, perché tu sì, invece. Non hai nemmeno avuto il coraggio di dire a mamma di avere una ragazza quando sul letto di morte te l’ha chiesto!”
Quell’incontro a Brighton si concluse con qualche insulto reciproco, un piatto rotto e un viaggio di ritorno a casa nel silenzio più invalicabile.
“Non le piaccio” singhiozzò Mary la sera stessa, raggomitolata nel suo bozzolo di lenzuola e amarezza ad un’ora indefinita della notte.
Non mi svegliò. Tenevo gli occhi spalancati ed incollati al soffitto di camera nostra dal momento in cui ci coricammo, congestionato da mille pensieri e domande, la maggior parte delle quali rivolte a me stesso. Sapevo che la prima volta sarebbe andata in questo modo, non sarebbe stato difficile intuirlo. Con Harriet niente era facile o immediato. A meno che non fosse ubriaca, e allora avrei anche potuto presentarle un orango in tutù da balletto come fidanzata e mi avrebbe comunque dato la sua benedizione.
“Non dire cazzate,” la rimproverai “è solo gelosa.”
“Gelosa? Perché dovrebbe esserlo?”
“Perché non mi ha mai visto felice e adesso che lo sono non riesce ad accettarlo.”
“Oh, John. È ingiusto da parte tua.”
“La vita è ingiusta, Mary. Non si ottiene mai quello che si desidera veramente, per quanto si combatta. Bisogna farsene una ragione.”
“Ma tu…” mormorò, dopo qualche secondo di silenzio “tu hai ottenuto quello che vuoi, non è vero? Ora… ora sei felice.”
Fissai il buio davanti a me ancora per un po’, ignorando la sua domanda. Ero stanco di parlare di felicità e di cose che non si ottengono ma l’avevo giurato, di non farle altro male. Era la mia promessa e l’avrei mantenuta, anche se avessi dovuto sopportare il suo sguardo annebbiato  dall’inganno per il resto della mia vita.
Allungai un braccio, cingendole le spalle, e l’attirai al mio petto dove posò la testa, addormentandosi dopo poco senza dire altro. Baciandole la fronte, sperai in cuor mio che quella domanda non me l’avrebbe mai più riproposta. Ma forse la risposta che cercava l’aveva già, perché l’avrebbe letta nei miei occhi, nei piccoli gesti quotidiani e nei freddi “ti amo” mormorati quasi sottovoce mentre fingo che mi piaccia il sesso. Solo che la notte cancella le bugie della giornata convertendole in rassicurante tepore, in quella sicurezza che dura quanto la permanenza delle stelle in cielo, prima dell’alba, la stessa che ci stava bastando, almeno per quella notte, ad entrambi.


 
Le ho chiesto di sposarmi. E ha detto sì. JW
Potevi dirmelo prima, almeno quell’ultima bottiglia di Jack Daniel’s l’avrei conservata per stasera. Harry xx

La cerimonia avrebbe avuto luogo in settembre, prima che gli alberi sfiorissero del tutto e che qualcuno potesse pensarci troppo. Matrimonio semplice, rito civile, una decina di invitati e una millefoglie triplo strato come torta nuziale. Ad esser sinceri, mi sarebbe andata bene anche una cheesecake. Senza amarene.
Mary era raggiante. Io, semplicemente sfibrato. Agosto fu un mese d’inferno tra preparativi, lista dei partecipanti, prenotazioni e scelta del colore dei fiori e degli abiti dei testimoni. Aveva espresso il desiderio di sposarsi in avorio, proponendomi l’alternativa del crema. Io le avevo sorriso, dicendole qualcosa come “per me sarai sempre e comunque fantastica”, guadagnandomi così un bacio sulle labbra ma soprattutto una giornata libera da appuntamenti con la sarta o col servizio cuttering che sfruttai per rispondere alle congratulazioni scritte per mail o via lettera di parenti e amici.
Mike Stamford si stava premurando di organizzare il mio addio al celibato, nonostante mi fossi pronunciato del tutto contrario a riguardo, invitando mezza compagnia del college, tutte le ragazze, alcune già sposate, che ci eravamo alternati e un paio di miei compagni dell’esercito.
Contro ogni aspettativa, la notte precedente alle nozze si rivelò più illuminante del previsto nonostante fossi rincasato con una notevole quantità d’alcol in corpo e la testa in fiamme.
Mary era stata invitata a fermarsi a dormire da alcune amiche e dunque, quando dopo una decina di tentativi riuscii ad inserire la chiave nella serratura ed entrare in casa, mi aspettavo di trovare l’appartamento deserto e di piombare a letto, dove avrei vegetato fino ad un’ora prima della cerimonia.
Nonostante la birra e gli incalcolabili shots di whiskey, ero ancora abbastanza lucido per rendermi conto che, in realtà, solo non lo ero. Non era necessario essere un genio per dedurre che la puzza di fumo che mi pizzicò il naso quando aprii la porta non derivava certo da una perdita, e nemmeno per capire che la sagoma scura seduta in soggiorno non fosse un banalissimo scassinatore o, molto più probabilmente, il semplice frutto della mia immaginazione.
Barcollai per un istante chiudendomi la porta alle spalle, e mi appoggiai con la schiena ad uno stipite.
Non azzardai a proferire parola. Mi limitai soltanto ad osservare i movimenti abulici del braccio dell’uomo sulla poltrona mentre si portava la sigaretta alle labbra ed inspirava, squarciando la penombra che ci separava con il puntolino rosso fuoco del mozzicone.
Ci fissammo non so dire per quanto tempo prima che, dopo l’ennesima nuvola di tabacco che si andò a disperdere nell’aria, spegnesse la sigaretta nel vaso di orchidee sul tavolo vicino e parlasse.
“Sei ubriaco” disse, laconico.
Gli ultimi rimasugli di fumo gli scivolarono dalle labbra carnose come la fitta nebbia di Londra giù dai gradini di St. Paul alle prime luci dell’alba, ricoprendone il sagrato come un lenzuolo.
Quando il suono di quella voce baritonale raggiunse le mie orecchie, sfondandomi il cranio con la solita e familiare assenza di tatto, ed andandosi poi ad annidare come la più lugubre delle creature delle tenebre al centro esatto del cervello, un violento fremito mi incrinò qualche vertebra e mi portai una mano alla tempia, sperando che l’appartamento la smettesse di girare su se stesso come una giostra impazzita. Il mio stomaco non avrebbe retto, e l’umiliazione si sarebbe aggiunta al già presente imbarazzo seduto accanto a rabbia e rancore a godersi la scena sgranocchiando popcorn.
“Come hai fatto a entrare?”
Sherlock Holmes mi squadrava con le gambe accavallate e il suo sguardo di permafrost incatenato al mio, facendo danzare gli occhi vivaci all’interno delle orbite lungo tutta la mia sciatta figura ancora addossata alla porta, la testa lievemente reclinata di lato nello sforzo di leggere quel libro così difficile che non prendeva in mano da tempo immemore.
“Mi so destreggiare alquanto bene con serrature e chiavi universali, John” rispose, senza riuscire a nascondermi un mezzo sorriso. “Per la bestiola, invece, è bastato del semplice tricloroetano(10).”
Il mio nome, di nuovo dopo tanto, troppo tempo, sprigionato da quelle labbra vestite del loro sorriso più disinibito, mi fece ripiombare in quell’irritante stato di familiarità e casa che non mi torturava da tre mesi. E il dolore alla testa sparì, insieme a quello alla gamba.
“Ah, ah.”
Mi trascinai lungo l’ingresso verso il soggiorno, passandogli poco distante e scavalcando il cagnolino in catalessi, per poi finire col dirigermi in camera da letto dove, Sherlock Holmes o no, avrei trascorso il resto della nottata in santa pace.
“Dove vai?” chiese, una punta di disapprovazione nella voce alzata d’un tono.
Stupido. Stupido ragazzino viziato, non cambi mai.
“A letto. Dovresti farlo anche tu” risposi, ed aprii la porta della stanza.
Dallo strusciare della stoffa dei suoi pantaloni sulla pelle della poltrona e dal rumore delle poche falcate che gli bastarono per raggiungermi, potei intuire che di sparire dalla mia vita non ne avesse la benché minima intenzione. Figuriamoci dall’appartamento.
“È un invito?”
“Sì. A tornartene da dove sei venuto.”
La stanza s’illuminò della luce soffusa e calda della piccola abatjour sul comodino dalla mia parte di letto, rivelandomi un uomo diverso ma, al contempo, sempre lo stesso: i capelli leggermente più corti, mossi e bruni, la carnagione chiara che risaltava sul completo nero e semplice, la camicia dello stesso colore della carnagione e le scarpe lucide, impeccabili. Aveva preso un taxi, sicuro, o si era dovuto fare accompagnare perché non è sicuro passeggiare a quell’ora di notte, a Londra, soprattutto se ci si ritrova appresso un volto di bellezza sconvolgente come quello che mi scrutava indagatore sulla soglia della mia camera da letto. Non che se fossi un maniaco Sherlock Holmes sarebbe la mia vittima ideale, chiaro, ma l’immagine fin troppo nitida del mio ex paziente sperduto in un vicolo buio, molto buio, ed isolato ebbe lo strano potere ed effetto di farmi desiderare di riaccendere l’aria condizionata, nonostante fossimo già in settembre, e di togliere i jeans, improvvisamente troppo stretti.
Dovevo finirla col whiskey, e con i viaggi mentali.
“Ti devo parlare” disse serio, sprofondando le mani nelle tasche dei pantaloni.
“Mi sembra di averti già detto che non ho alcuna intenzione di ascoltarti.”
“E a me sembra di ricordare di averti detto che non ti saresti liberato di me così facilmente, dottore.”
“Non sono più il tuo dottore, Sherlock” esalai, sedendomi pesantemente sul materasso e sprofondando la faccia nei palmi delle mani, i gomiti puntellati sulle ginocchia.
“E cosa sei, allora?”
“Un uomo stanco, che domani si sposa con la donna più meravigliosa che avrebbe potuto incontrare. Sarò un uomo stanco, e felicemente sposato. Ti basta?”
“E a te?”
Alzai il capo e, per la prima volta in quella notte, mi azzardai ad avventurarmi nei meandri azzurrini di quello sguardo ritrovato che cambiato non lo era di una virgola. Tutte le pagliuzze d’ambra erano al loro posto, e anche le sfumature verdi e cobalto intorno alle pupille dilatate dalla penombra. Persino quella macchiolina marroncina nell’iride leggermente più chiara dell’occhio destro era presente all’appello.
Era tutto al suo posto. Era tutto a posto.
Mi ritrovai a sorridere, inconsciamente, come se non fossero mai passati tre lunghi mesi e lui non fosse improvvisamente sparito dalla mia vita lasciandomi un buco a forma di Sherlock al centro esatto del petto.
Fu come vederlo di nuovo, per la prima volta e per sempre, come se fosse l’amico con cui uscivi ogni giorno e che rivedi dopo anni. L’amico, il migliore amico, che finché c’era nessuno chiedeva niente, perché ti bastava e vi bastavate, e tutto andava a meraviglia. Poi, e poi… Gli amici se ne vanno, come gli anni, e tu resti solo con te stesso e con chi resta, ma, oh, non è più la stessa cosa, non può esserlo, perché lui l’hai perso.
Il mio sentimento non era meno forte e, anzi, ad ogni attimo che i miei occhi godevano della vista di quella magia di madreperla e oceano, mi parve di sentirlo crescere, dentro di me, e dilatarsi come la pasta di una torta nel forno che rilascia a poco a poco il dolce profumo delle cose semplici e straordinarie allo stesso tempo per cui credevo di aver perso la sensibilità.
C’era il mio miracolo, davanti a me, quello per cui ero tornato a pregare, quello che portava gli occhi di un dio e quelle labbra e quel corpo soltanto modellato addosso, e lo stesso per cui gli incubi un giorno erano passati e ritornati. Il mio miracolo, il mio bellissimo prodigio, si era avverato.
“Avanti…” mormorai ad un tratto, ridendo a denti stretti.
“Cosa?”
“Dico… avanti! So che muori dalla voglia di dirmi che fine hai fatto per tutto questo tempo.”
“Tre mesi, John…”
“Appunto. Ti dovresti vergognare.”
Ed eccola, quella risata d’argento. Mi era mancata tanto e ora era di nuovo mia.
Piegati a quel suono, vibrante e carezzevole, tutto il resto dei rumori evaporarono nell’atmosfera della stanza come molecole d’acqua bollente, confondendosi l’uno nell’altro: le auto giù in strada, i clacson, il sommesso vociare degli ubriachi nel pub dietro l’angolo, il costante ronzio del frigo nuovo in cucina… Nulla. Solo io, il frastuono del mio cuore nel petto, e quella voce. Niente di più, nessun’altro fuorché noi e tutta quell’elettricità.
“Ma…” principiò, avvicinandosi a me col sorriso e la lentezza di un gatto in agguato ad un soffice ed ignaro gomitolo di lana “se te lo dico, dopo dovrei ucciderti.”
Era sicuramente il whiskey. Altrimenti non mi sarei spiegato il perché, in quel momento perfetto, Sherlock mi dovesse apparire così sexy, lo sguardo basso, le mani grandi e affusolate che dalle tasche si spostarono alle mie spalle, tracciandone i contorni coi polpastrelli, e le labbra. Dio, quelle labbra… Ci avevo lasciato la cicatrice. Piccola, ma c’era, lì, vicino all’angolo sinistro del labbro inferiore, bianca e netta, una lacrima di antico e vivido dolore che mi affrettai a spazzare via dalla mente, sostituendola subito con la visione quasi eterea della leggera curva del collo diafano scoperto dai lembi del colletto bianco, impeccabile, inebriandomene completamente.
“Fu il tuo bacio, amore, a rendermi immortale.(11)
Vicino, sempre di più. Potei quasi contargliele, quelle ciglia lunghe e folte, mentre fingeva di offrirmi le labbra che mi negò quando il whiskey ebbe la meglio sul mio senso del giudizio e mi sporsi con troppa avidità.
Che stavo facendo? Se la mattina stessa mi avessero chiesto chi fosse Sherlock Holmes, probabilmente  avrei negato di conoscerlo, o avrei risposto qualcosa come “ah, Holmes. Che stavi dicendo di tua nonna?”, e ora me lo ritrovavo sopra, a cavalcioni, sul letto della mia ragazza, la stessa a cui tra qualche ora avrei giurato fedeltà eterna, in ricchezza e in povertà, in salute e malattia. Ma quando finalmente si decise a concedermi ciò che stavo bramando più dell’ossigeno per respirare, alla salute, almeno a quella mentale, dissi definitivamente e felicemente addio, insieme alla grottesca pretesa di fingermi poeta, almeno per quella notte.
Quelle labbra, davvero, qualcuno avrebbe dovuto dichiararle illegali. Di certo mi stavano rimandando al manicomio. Sapevano di tabacco e agrodolce. Cinese, forse. Io adoro il cinese.
“Dopo che te ne sei andato…” iniziò staccandosi da me solo per riuscire a parlare, tornando poi però a torturarmi a piccoli morsi quando intuì che in realtà si stava accingendo a dare inizio a niente meno che un deprimente monologo in cui io avrei giocato il ruolo dell’apatico spettatore.
Gli cinsi la schiena con le braccia, attirandolo più vicino a me per esplorargli il palato con l’ardore e la complicità che nemmeno in dieci anni di matrimonio sarei riuscito a consacrare a nessuna donna.
Ebbi un sussulto quando le nostre anche si scontrarono, facendoci combattere contro la tentazione di strapparci i vestiti di dosso lì e così, velocemente e senza tanti inutili preamboli né racconti, come se quell’incanto dovesse svanire da un momento all’altro sebbene la mezzanotte fosse passata da un pezzo, o come se stessimo vivendo nient’altro che un sogno e la sveglia fosse terribilmente vicina.
“John… aspetta.”
Aspettare. L’avevo aspettato fin troppo, con la morte nel cuore. Ed era giunto il momento di essere un po’ egoisti, no?
Mi aggrappai con le unghie alle pieghe della sua giacca che, in un gesto rapido, gli sfilai con l’aiuto del suo stesso proprietario il quale, boccheggiando, mi offrì il collo come valida alternativa per sfamare la mia voglia di lui mentre cercava di racimolare la poca aria rimastagli per esaurire la mia curiosità.
“Dopo che te ne sei andato, mio fratello partì subito per la Svizzera, dove… dove…”
Gemette, ed io con lui, quando l’evidente eccitazione di entrambi si condensò nell’esiguo spazio dei nostri bacini, premuti l’uno sull’altro, modellandosi in qualcosa di nuovo e non poi così imbarazzante come una volta me l’ero immaginato. Perché sì, insomma… me l’ero immaginato. Più di una volta.
 “Dove?”
“… dove Moriarty ha ancora il suo quartier generale. Mentre Mycroft riuniva le forze necessarie per l’operazione, che ci auspichiamo si possa concludere in meno di un paio di mesi, io sono rimasto qui, a Londra, per raccogliere le informazioni che mi inviava e consegnarle alla base. Ma ti devo dire una cosa…”
“Ti ascolto.”
No, che non lo stavo ascoltando. O meglio, le mie orecchie stavano operando una minuziosa selezione di suoni che comprendevano rumori di ansiti e gemiti più o meno alti che avrebbero dovuto fare da sfondo a quel discorso e non, per non so quale legge chimica o anatomica, esserne gli involontari protagonisti.
Fatto sta che di tutte quelle parole mormorate al mio orecchio ne ascoltai solo una metà. Una metà davvero irrisoria.
Sentivo, ma non ascoltavo, ed è un po’ come la storia del vedere ma non osservare, e ciò che sentivo e vedevo valse molto più di qualsiasi giustificazione e deduzione.
Percorsi in punta di lingua la linea della vena giugulare, lungo la trachea, mordendo lì dove il muscolo sembrava farsi più teso e recettivo, mentre con le mani partii per un attento sopralluogo del dorso, delle vertebre mobili e contratte, fin giù, nella zona lombare.
“James ed io…” continuò, con voce malferma “siamo legati dal filo rosso della nostra genialità, io per la giustizia, lui per il crimine.”
“Legati?” rantolai, estraendogli in un gesto brusco la camicia dai pantaloni e raggiungendo coi palmi la pelle scottante ed elastica sotto la stoffa di pregevole fattura, sfiorandogli poi coi pollici le ampie fossette alla base della schiena.
Gli sorrisi sul collo quando come reazione a quella carezza, che sapeva tanto da “l’unico essere umano a cui sarai legato sarò io e nessun altro all’infuori di me”, lo sentii inarcarsi sospirando il mio nome, perché quella sarebbe stata una delle tante zone sensibili di Sherlock Holmes che man mano andai a svelare e stimolare, quella notte, come un fiore notturno che sboccia e stilla rugiada al cospetto della luna.
“I O U. I owe you. Lui mi deve ciò che è ed io a lui ciò che sono. La vanità è l’oppiaceo più naturale(12), John” disse sbottonandosi lento la camicia, che poi si scostò all’altezza della spalla sinistra rivelandomi così le ferite, ormai cicatrizzate, che portavano il peso effettivo di tutti quei tre mesi, di tutta la sofferenza e di più di qualche perché.
Tracciai con la punta del naso le vocali, incise all’altezza del cuore come fiamma e firma indelebile, badando a tenere gli occhi chiusi e la memoria lontana da quel remoto pomeriggio di giugno e sangue. Poi, passai ad accarezzarle con la lingua nel miserabile tentativo di leccare via ciò che via non sarebbe mai andato, di smacchiare il passato e riscriverci sopra il nostro presente.
Me ne sarei preso cura, di quel cuore rubato, regalato a chi lo non meritava e non l’avrebbe mai meritato, perché non si deturpa la purezza di un’opera d’arte, non uscendone indenni.
Sarei stato il custode del mio capolavoro, la teca del mio tesoro.
“Ma voglio che tu sappia” proseguì, la voce rotta da una greve amarezza mescolata ad un’ancora più sferzante eccitazione “che quello che ho fatto e detto, i momenti, le poesie, i baci… tutto, a parte inizialmente, quando era necessario convincerti della mia presunta lampante instabilità mentale, era sincero.”
E sincero, in quel momento, la fronte appoggiata alla mia e gli occhi lucidi di un blu indaco, quasi violetto, aggrappati ai miei, lo era davvero. O, molto probabilmente, ci stavo cascando di nuovo. Ma gli dovevo una caduta, dunque ci stava tutto.
“Dov’è ora?” chiesi, congiungendo le mie dita alle sue, tremanti e teneramente insicure, nel gesto lento e solenne di rimuovere i bottoni dalle loro asole.
“Ginevra. Ho l’aereo a mezzogiorno.”
Le mani mi si congelarono all’altezza tra il penultimo e l’ultimo bottone, adagiandosi sul ventre nudo e tonico di colui che avrei perso una seconda volta, e ancora non sarebbe stata colpa di nessuno dei due.
Allarmandosi, allungò entrambe le mani sul mio viso in un gesto molto prossimo alla disperazione e alla totale abnegazione, sollevandomi lo sguardo per asservirlo ancora una volta al suo, languido e immenso, oberato di parole che mai avrebbe trovato il coraggio di dirmi perché, semplicemente, non ce n’era il bisogno.
“Tornerò. Ma non garantisco di esserci, al matrimonio…”
“Non mi pare di averti mandato l’invito” mormorai mandando indietro il peso delle lacrime dietro gli occhi e soffocando quella farsa nell’ennesimo bacio disperato.
Da quell’istante in poi, fu un’escalation d’afflizione e gesti infelici, uno spogliarsi reciproco, quasi violento, di camicie gettate malamente a terra, pantaloni fatti scivolare lungo le gambe grattandone e segnandone la pelle con bottoni e cerniere, scarpe tolte senza badare a lacci e calze. E ancora sudore, denti e rabbia, tanta rabbia, e necessità. Il bisogno di esserci l’uno per l’altro, almeno per qualche ora, tutto il mondo fuori insieme alle domande scomode e alle bugie mascherate da promesse scritte nell’acqua che scorre.
Mi gettò le braccia intorno al collo, annichilendosi nel bacio più profondo ed indecente che riuscimmo a plasmare a forza di lingue assicurate l’una all’altra, di imbarazzanti scontri di nasi e menti, di respiri mutilati e saliva, saliva ovunque.
Lasciò che lo spogliassi del tutto, che ci spogliassi del tutto, mentre con un colpo di reni si spinse più vicino, premendo con i fianchi e facendo incontrare le nostre erezioni pulsanti, pelle contro pelle, nella danza di due corpi dall’anima ferita ed  immolata al puro e sudicio piacere della carne. Ed io lo lasciai fare,  sopportando a malapena il gemito riversatomi in un orecchio che sarebbe potuto bastare per tutti i successivi.
“John…” ansimò, facendomi rabbrividire “che fine fa l’usignolo?”
Mentre mi prendevo cura delle sue labbra, e poi della mandibola, o di un lobo, e poi ancora della sua bocca, dischiusa per liberare le sue sinfonie di piacere, mi arrischiai con le dita lungo le cosce nude, verso l’interno, lì dove la pelle è più sensibile e sottile, facendo viaggiare i polpastrelli sudati sulla carne, su e giù, raccogliendo i brividi che il mio tocco generava come piccole ma invitanti briciole di pane lungo un sentiero di morbida pelle e fremiti leggeri.
“‘Dimmelo’ implorò l’usignolo” iniziai, fermandomi solo per cogliere qua e là qualche bacio dalle sue labbra, rosse e turgide, sporte verso le mie in silenziosa richiesta “ ‘io non ho paura’
‘Se vuoi una rosa rossa’ disse il cespuglio di rose ‘devi crearle con la tua musica al lume della luna, e colorarla col sangue del tuo cuore. Devi cantare per me col petto contro una spina. Tutta la notte, dovrai cantare, e la spina dovrà trafiggere il tuo cuore cosicché il tuo sangue sgorghi nelle mie vene, diventando mio.’”
Quando la sua stretta si fece più ferrea, gli affondi del bacino più espliciti e la mia eccitazione molto prossima ai limiti dell’insopportabile, riallacciò lo sguardo al mio e, per la prima volta da quando lo conobbi, vi lessi davvero tutto ciò che vi si poteva leggere: passione, timore, imbarazzo, coraggio, l’irrefrenabile voglia di andare fino in fondo a quella che, ancora, si stava rivelando niente meno che una squallida partita a scacchi, l’ennesima, in cui due pedine si fronteggiano indecise sulle mosse da compiere, se ritirarsi o immolarsi al sacrificio delle emozioni, lasciando via libera all’altra in un totale annientamento.
Che poi si può parlare di distruzione? Si può davvero parlare di annullamento quando si trova ciò che si cerca una vita intera, ciò di cui si ha bisogno dopo un’eternità di vane ricerche e ridicole surrogazioni? Si può davvero definire matrigna un’esplosione che in realtà dà origine all’intero universo?
Sarebbe un paradosso, e noi, lì, eravamo due organismi lapalissiani, l’uno vivo della chimica dell’altro, nessuna eccezione. E se di eccezioni si doveva parlare, Sherlock Holmes era la mia, perché credeva nella chimica molto più di quanto facesse per le stelle.
Voleva uccidermi, ma non aveva capito che la vita me la stava iniettando in vena dal momento stesso in cui svendé le proprie labbra alle mie in cambio di tutto il mio esistere.
“Cosa succede dopo?” mormorò, tremando appena quando premette maggiormente la fronte sulla mia, quasi a darsi conforto da quegli attriti d’epidermide e dal grande dolore che avrebbe provato di lì a poco, quando i nostri petti nudi sarebbero scivolati l’uno sull’altro nella lenta discesa in cui le aderenze si sarebbero annullate definitivamente, inglobandosi a vicenda, diventando un tutt’uno di muscolo liquido e calore.
Chiusi gli occhi, forte, più forte che potevo, quando avvenne. E fece male, eccome. Non fu per niente simile a tutte le altre volte con una donna, e mi sentii catapultato alla mia prima volta, terribilmente impacciato senza sapere dove mettere le mani, dove guardare. Ma non per questo lo sentii meno naturale. Come può tanto piacere e tanto dolore non appartenere a Madre Natura? Come quando viene al mondo un bambino, sangue e lacrime, lacrime di gioia, le stesse che imperlarono le ciglia del mio miracolo quando si lasciò andare a me, le stesse che andai a lambire con le labbra ed assaggiare per calmare i lamenti.
“John…”
“Sher…”
“Parlami. Non… fermarti.”
Il sapore salato di lacrime e sudore, l’odore violento del sesso mescolato ad un altro più soave, quello dell’amore, mi esplosero in testa con la potenza di un milione di deflagrazioni atomiche, al ritmo ancora lento ed insicuro delle prime spinte e delle parole senza senso bisbigliate alla notte.
“‘La morte è un prezzo alto da pagare per un rosa rossa e la vita è così cara a tutti. Ma l’Amore è più prezioso della vita, e cos’è mai il cuore di un uccellino equiparato al cuore di un uomo?’”
Nonostante la palese inesperienza, fu Sherlock a prendere l’iniziativa, agevolato anche dalla posizione, e quell’uomo dalla carnagione eburnea, gli occhi di un azzurro intenso che sfiorava i toni del lilla quando non abbracciava lo smeraldo, spalancati e ancorati ai miei, mi apparve come l’astro più luminoso di tutta la mia galassia, una stella danzante nell’universo soffocato dal buio di John Watson, un universo sonoro e silenzioso al tempo stesso, dove pianeti e popoli avrebbero continuato ad orbitare ignari dell’incantesimo che si stava sprigionando sopra le loro teste, ben oltre il cielo visibile, al di là del Sole e di qualsiasi satellite. Perché io ero il satellite di Sherlock Holmes, il mio Sole, la Madre Terra e l’universo tutto, anni luce distanti da tutto e tutti. O forse era buco nero, il mio, dentro testa e cuore, e stavo per esserne completamente risucchiato.
L’abbraccio si fece intermittente, come i baci, come le parole strangolate dal troppo piacere e dalla storia che stentava a giungere al suo termine, semplicemente perché avrebbe significato la fine di quella stessa favola.
Quando Sherlock aumentò la cadenza regolarizzando, insieme ai movimenti, i nostri respiri e lamenti, adagiai la fronte sul suo petto, un porto sicuro per rimettere insieme la forza di proseguire e intanto continuare a farmi spazio in lui, sempre più a fondo, cercando di non svenire nel tentativo.
“Così piegò le ali brune e si librò nell’aria. Passò attraverso il giardino come un’ombra, e come un’ombra volò sopra il boschetto. Lo studente era ancora steso nell’erba, là dove lo aveva lasciato, e il pianto non s’era ancora rasciugato dai suoi occhi.
‘Sii felice’ gli urlò l’usignolo. ‘Sii felice! Avrai la tua rosa rossa! Io la formerò con la musica al lume della luna, e la colorerò col sangue del mio cuore. Tutto ciò che ti chiedo in cambio è di essere un vero innamorato, perché l’Amore è il più giudizioso della Filosofia, per quando saggia essa sia, e il più autorevole del Potere, per quando potente esso sia. Sono color di fiamma le sue ali, color di fiamma è il suo corpo. Le sue labbra sono dolci come il miele, e simile all’incenso è il suo alito.’”
Mi resi conto piuttosto in ritardo di aver aumentato la velocità della mia narrazione, e il volume della voce con essa. Forse per sovrastare i guaiti di Sherlock, arpionato con le braccia alla mia schiena dove ad ogni spinta faceva corrispondere un affondo di unghie.
Gli respirai pesantemente sul petto umido, mordendogli la clavicola quando i movimenti presero il ritmo delle onde del mare in tempesta, irrefrenabili e violente mentre si scagliano contro gli scogli erodendo la roccia più dura. Ed io mi sentivo sbriciolato, privato di ragione e di quasi tutte le energie per riprendere in mano la situazione ed emettere suoni che non comprendessero lunghi mugolii  d’estasi e il suo nome.
Mi chiesi se davvero anche lui mi stesse ascoltando davvero, perché da un certo momento in poi le mie parole si ridussero a versi biascicati, urlati al torace del mio compagno, quasi incomprensibili.
“E quando la Luna spiccò nei cieli, l’usignolo volò dal rosaio e pose il suo petto contro la spina. Tutta la notte cantò col petto contro la spina, e la fredda Luna di cristallo si chinò ad udirlo. Tutta la notte cantò, e la spina si spingeva sempre più a fondo nel suo petto, e il suo sangue vitale fluiva da lui. Prima cantò dell’amore che germoglia nel cuore di un fanciullo e di una fanciulla. E sul ramo più alto del rosaio fiorì una rosa magnifica, petalo dopo petalo come nota dopo nota. Pallida era in un primo momento, come la nebbia sospesa sul fiume, pallida come le orme del mattino, e argentea come le ali dell’alba.”
I muscoli della schiena cominciarono a mostrare i primi segni di cedimento, come quelli delle gambe e della braccia. Sarei stramazzato supino sul letto se il vigore dell’abbraccio di Sherlock mi avesse abbandonato insieme al mantra del mio nome, invocato a voce sempre più alta.
“John… John… John…”
Spalancai gli occhi quando sentii di essere praticamente ad un passo dal limite, ma tentai di farlo durare ancora un po’, quel dondolio infinito e brutale, raggiungendogli con una mano la nuca, aggrappandomi ai capelli e tirandoglieli, non troppo gentilmente, per esporgli il collo imporporato dove andai a posare le labbra.
“‘Premi più forte, piccolo usignolo’ urlava il rosario ‘o il giorno spunterà prima che la rosa sia completata.”
Ma Sherlock mi stava ascoltando, oh se stava ascoltando… dalla prima parola. Infatti, quasi seguendo le istruzioni del rosario, si spinse contro di me con più forza, strappandomi il primo, vero grido di piacere in quella notte, e temetti che la voce non mi reggesse più.
“Così l’usignolo premette più forte sulla spina, e più forte si fece il suo canto, cantava il venire al mondo della passione nell’anima di un uomo e di una donna. Una tenue striatura rosea si sparse nei petali del fiore, simile al rossore che si spande sul volto dello sposo quando bacia le labbra della sposa. Ma la spina non era giunta al cuore dell’uccellino, e il cuore della rosa restava bianco, perché solo il sangue del cuore di un usignolo può invermigliare il cuore di una rosa.
‘Premi più forte, piccolo usignolo, o il giorno spunterà prima che la rosa sia completata.”
E allora, ancora una volta, Sherlock si strinse maggiormente intorno a me, implorandomi di assecondarlo e di tirare più forte. I boccoli d’ebano mi sgusciavano fuori dalle dita della mano chiusa a pugno come le perle di una preziosa collana, raccolta da un forziere colmo d’oro dal più avido tra i predoni.
Con l’altra mano scesi lungo la schiena tesa allo sforzo, seguendo il tragitto delle decine di gocce di sudore che dal collo precipitavano lungo la linea delle vertebre, alcune fermandosi a contemplare le costole sporgenti, altre, più temerarie, giungendo fin al coccige. Accompagnai i suoi movimenti coi fianchi mentre nascosi il viso nello spazio tra spalla e collo alla ricerca di un po’ di sollievo da quella logorante sessione di elettroshock.
“Così l’usignolo premette più forte e la spina gli toccò il cuore, e un violento spasimo di dolore lo trafisse. Più e più penoso era il dolore, e più e più selvaggio si faceva il canto, poiché ora cantava dell’Amore che è reso perfetto dalla Morte, e dell’Amore che non muore nella tomba. E la stupenda rosa diventò vermiglia, come la rosa del cielo d’Oriente. Vermiglia la fascia dei petali intorno alla corolla, e vermiglio come il rubino era il suo cuore. Ma la voce dell’usignolo si fece più debole, e le sue piccole ali iniziarono a sbattere, e un velo discese suoi occhi. Più e più debole si fece il suo canto, e qualche cosa lo soffocava in gola come un pianto convulso. Allora proruppe in un ultimo slancio di musica. La bianca Luna lo ascoltò, e dimenticò l’alba, ed esitò nel cielo. La rosa rossa lo udì, e fremé tutta d’estasi, e aprì i suoi petali alla fredda aria del mattino. L’eco risvegliò dai loro sogni i pastori dormienti, ondeggiò fra i giunchi del fiume, ed essi portarono il suo messaggio al mare…”
Il respiro mi si troncò in gola su quest’ultima parola quando Sherlock proruppe in un orgasmo disperato, al quale successe il mio. E così, come l’usignolo, mi riversò addosso tutta la sua musica bianca, dipingendomene il petto e ricamando sulla pelle graffiata della mia schiena un componimento fatto di sfioramenti e carezze in punta di polpastrelli in un’inutile richiesta di assoluzione per un torto che, tra un bacio e una timida carezza, sicuramente gli avevo già perdonato, mentre con le labbra lo sentii indugiare sulla cicatrice della mia spalla, poi sulla fronte, e infine col resto del corpo tremare come un cucciolo infreddolito.
A quel punto, esangue, crollai di schiena sul materasso, trascinandomelo dietro, e mi allacciò le gambe intorno ai fianchi quando mi permise di sovrastarlo e portarmelo sotto.
Ci volle qualche minuto di sospiri e leggeri baci ristoratori a fior di labbra prima che normalizzassimo i rispettivi respiri e che la nebbia si diradasse dai miei occhi insieme ad una indefinita e fastidiosa serie di puntolini colorati.
“Beh?” esalò ad un certo punto, un accenno di sorriso sul volto congestionato ma incredibilmente disteso, le labbra rosse e umide, due gemme grezze al posto degli occhi tersi e semiaperti.
Sherlock Holmes sapeva mantenere le sembianze di un fiore appena sbocciato anche in situazioni come quella, anche nel profumo. Boss Orange(13)?
“Cosa?” chiesi inebetito, abbandonandomi con tutto il mio peso sul suo petto.
“Come finisce la storia?”
Non potei fare altro che mettermi a ridere di fronte a quella testardaggine che avrebbe potuto tranquillamente competere con quella di mille muli. Ero semplicemente sfiancato, la testa imbottigliata ed ogni nervo accartocciato insieme ai muscoli, l’uomo più sensuale della Terra a gambe aperte sotto di me… Insomma, se aveva aspettato fino adesso poteva anche concedermi un attimo di tregua. Ma, d’altra parte, era di Sherlock che si stava parlando, ed il suo John Watson doveva pagarne le conseguenze.
“Pausa, tigre” dissi, ed appoggiai la testa di lato all’altezza del cuore, chiudendo gli occhi per assaporarne il favoloso battito accelerato.
Fu come ascoltare il mio, di cuore, perché da quella sera in poi sarebbe stato suo, per sempre. Per davvero.
“Pensavo che mi preferissi gatto.”
“Vallo a dire alla mia schiena.”
Lo sentii sorridere sul mio capo e ricominciare a disegnare arabeschi in punta di dita sulla pelle del mio dorso. Cercai di concentrarmi su quei movimenti, leggeri e morbidi come soffici piume, e sul suo respiro ora calmo e sincronizzato al mio.
Il suo petto s’alzava ed abbassava uniformandosi al mio ritmo, e sono sicuro che una persona che ci avesse visti dall’esterno ci avrebbe potuto scambiare per un unico individuo.
Stemmo fermi, così, immobili ed annegati in quel fazzoletto di tempo dilatato mentre nella mia mente cominciarono a formarsi ampie e docili curve e linee nette intervallate qua e là da punti e improbabili bozzetti ambasciatori di chissà quali pensieri.
“Cos’è?” chiesi a un certo punto corrugando la fronte, cercando di immaginarmi possibili lettere come in quel gioco in cui ti scrivono con le dita sulla schiena e tu devi indovinare la parola.
“Vivaldi. La Follia” rispose, quasi sottovoce, terminando un ricciolo ed andando a capo tra una scapola e l’altra, sfiorando le prime costole.
“Non ti ho mai sentito suonare.”
“Mai?”
No, aveva ragione. Come sempre, del resto. Aveva composto musica per me tutta la notte, trascrivendone le note sulla mia carne ed imprimendomele sull’anima. Il solo pensiero di lui e del suo violino mentre suona il nostro spartito mi stava mandando in trance. Ancora.
Sollevai il capo e ricambiai il sorriso, tuffandomi nei suoi occhi mentre riavvicinavo le labbra alle sue per cogliere un altro, incantevole bacio.
Indugiai sul labbro inferiore, tracciandone i contorni da pessimo disegnatore per imprimermeli nella memoria e da ricercare ogni qualvolta, in sua assenza, ne avrei avuto bisogno.
Poi, ecco il turno di quello superiore, per il quale scoprii di aver sviluppato un incorreggibile feticismo. Un’opera d’arte di scultura dal vivo, l’arco di Cupido e la parte leggermente più carnosa al centro, quella che ogni tanto si mordicchiava quando rifletteva.
Socchiuse gli occhi mentre lasciò che spostassi quell’esplorazione più a fondo, lungo l’interno della guancia, il palato, e poi tutta la lingua, sottomessa all’invadenza della mia.
“A mezzogiorno lo studente aprì la finestra e guardò fuori” proseguii, tra un bacio e l’altro. “‘Che fortuna!’ esclamò ‘Una rosa rossa! È così bella che avrà un lungo nome in latino’
“Si sporse e la colse. Poi si mise il cappello e corse a casa della fanciulla, che sedeva in veranda.
‘Avevate promesso di ballare con me se vi avessi portato una rosa rossa, ed eccola qui! La più bella al mondo. La porterete al petto e danzeremo tutta la notte mentre vi dichiarerò il mio amore.’
“Ma la ragazza corrugò la fronte.
‘Temo che non sia adatta al mio vestito’ rispose ‘ e poi un ricco giovane mi ha mandato in dono dei gioielli veri, e tutti sanno che i gioielli valgono più dei fiori’.
‘In fede mia, siete un’ingrata!’ urlò lo studente, e in un impeto d’ira gettò la rosa in strada, dove un carro ci passò sopra con una ruota.
‘Ingrata, io? E voi allora, cosa siete? Un grande screanzato, in fondo, né più né meno che un semplice studente’ rispose la fanciulla, e s’alzò dalla sedia rientrando in casa.
‘Che balordaggine è l’Amore!’ disse lo studente andandosene. ‘Non è utile neppure la metà della Logica, perché non esprime nulla, promette sempre cose che non si concretizzano e fa credere in cose che non sono vere. In effetti, non è per niente pratico, e siccome nel tempo in cui viviamo la praticità è tutto, tornerò alla Filosofia e studierò la Metafisica.’
“Così si chiuse nella sua stanza, prese dallo scaffale un vecchio libro polveroso, e si mise a leggere.”
Allontanando di poco il viso, avvicinai una mano alla sua fronte scostandogli un ricciolo ribelle dagli occhi traboccanti di perplessità. Aspettò qualche istante prima di riprendere la parola, incerto se quella fosse davvero la fine.
“John.”
“Hm?”
“Mi stai prendendo in giro?”
“No. È così che la storia finisce ed è così che la conosco.”
“Beh, non farlo mai più.”
“Che cosa?”
“Raccontarmi simili insulsaggini.”
Confesso che ci restai un po’ male. Insomma, non per fare la figura della ragazzina innamorata ed idealista, ma il mio progetto sul far diventare questa mia favola d’infanzia la favola della nostra vita, mia e di Sherlock, sfumò all’istante, sostituita da una spessa patina di cinismo.
“Non sono… insulsaggini” protestai, tirandogli affettuosamente una ciocca di capelli. “C’è una morale.”
“Morale, John? Stai scherzando spero?”
“Tutte le storie ne hanno una.”
“E la morale di questa quale sarebbe? Se vuoi che te la dia, regalale un girocollo? Bella scoperta…”
“Sherlock! No, comunque” mi adombrai, perché in quel campo l’avrei fatto sentire più in imbarazzo di quanto già non lo fossi io.“L'amore richiede sacrificio, dedizione, e a volte ci strappa la vita. E non sempre, forse quasi mai, a tanto impegno e passione corrisponde qualcosa all’infuori dell’ingratitudine.”
La testa lievemente reclinata di lato, la fronte solcata da una grossa ruga d’espressione, Sherlock mi guardò come se gli stessi enunciando le leggi di Keplero. La confusione fatta persona.
Di solito il rituale post sesso per me si rivelava quasi più eccitante dell’atto in sé: il tenero coccolarsi, parlare del futuro, dell’amore, scherzare, prendersi in giro per poi ricominciare, tra un bacio e una carezza, per tutta la notte. Con Sherlock fu immensamente diverso, nuovo. Non sapevo mai cosa aspettarmi da lui, perché in fondo ci si poteva aspettare di tutto, come niente. Ci si doveva limitare a prenderlo così com’era fatto, cercando di non avere un esaurimento nervoso nel mentre.
Il mio patto con l’inferno l’avevo già firmato da tempo. “Odio e amo”.
“Mi dovrei sentire preso in causa?” chiese, incupendosi.
“Tu ti senti preso in causa?”
Alzò gli occhi al soffitto, sospirando come un bambino annoiato e stanco dei rimproveri della madre. Perché lui era così. Un eterno Peter Pan che, di crescere, non ne aveva mai avuto granché voglia. E io mi sentivo tanto Capitan Uncino in quel momento, o Wendy che deve render conto a qualcuno di importante che attende oltre le stelle e via da quell’isola sperduta del fatto che l’età adulta non rimanda nulla.
Avvolsi un indice intorno ad un ricciolo della tempia, osservando i riflessi ramati giocare col nero più cupo accarezzato dalla luce soffusa della lampada ancora accesa. L’epidermide era tornata a risplendere del suo naturale candore e le labbra alla loro consistenza vagamente umana, ridotte a una smorfia innervosita.
“John, lo sai che non sono bravo in queste cose. Potrei… ferirti.”
Un bisbiglio. L’ennesima coltellata al petto, sibilata senza far rumore.
“Più di quanto non tu abbia già fatto?”
Mi puntò gli occhi di ghiaccio addosso guardandomi come se l’avessi profondamente offeso. Ma Sherlock Holmes non si offende. Ci sta male, magari, si sfoga sul cadavere di un ratto mettendolo nel microonde, magari… ma dimentica piuttosto in fretta.
“Cosa devo fare, John? Cosa non ho ancora fatto?”
“Restare.”
Alzando bruscamente il capo, mi mangiò questa parola sul ciglio delle labbra facendole scontrare con le sue, timorose forse che essa potesse avere il tempo di coagularsi nella sua testa confusa e bloccare così il flusso di pensieri razionali ed arrugginire i cardini del suo Palazzo Mentale.
Si allontanò con uno schiocco, anche se di poco, per poter intingere il proprio sguardo nel mio dove forse sperava di trovare il coraggio che gli mancava e che gli sarebbe sempre mancato insieme a una buona dose di sedativo per la mia coscienza.
“Lesbia” sussurrò soltanto, e il suo respiro si andò a fondere col mio nel momento stesso in cui presi fiato per non morirgli addosso.
“Lei era una puttana, Sherlock. Una bugiarda.”
Sorrise, improvvisamente malizioso, mordendomi il mento e spostando le mani sul mio viso attirandolo a sé.
“Vuoi che sia la tua puttana, John?”
Un altro bacio, un’altra goccia di veleno mentre le sue dita scivolavano lungo il collo, e poi sulle spalle, giù sui fianchi lasciandosi dietro una scia di brividi e sangue che si rincorrevano disperati scontrandosi nel ventre.
“Perché tu lo sai, John… Lo sai che la tua sarà nient’altro che una colossale simulazione” continuò umettandosi le labbra e poggiandomele su un orecchio. “Comunque vada.”
“No.”
“Oh sì, fidati di me. Un noioso ricevimento, viaggio di nozze in qualche costosa località marittima, mobili nuovi, tendine a fiori... pannolini.”
“Bastardo” ringhiai, e cercai di non fare caso alle dita della sua mano destra che si andarono ad infilare tra i nostri bacini avvolgendo la mia eccitazione nuovamente risvegliata.
“Ma questo bastardo ti piace, hm? Dimmi, chi è il vero bugiardo tra i due?”
Sentii una lacrima suicidarsi, impiccarsi tra una ciglia e l’altra e poi cadere, giù lungo una guancia, sfracellarsi sul suo zigomo e lì decomporsi.
L’alba era prossima, io non avevo dormito un minuto e il sesso stava subordinando l’effetto dell’alcol. Non sarei mai stato pronto per presentarmi da Mary, neanche se tutte queste scuse fossero state in realtà solo menzogne.
“Resta, ti prego” gemetti, cominciando a seguire coi fianchi i lenti movimenti della sua mano, e sprofondai la faccia a lato della sua, vivendo delle parole sussurratemi e della sensazione calda di quel corpo sotto il mio che si stava vendendo al mio tormento, almeno ancora per qualche ora prima che il sole me lo portasse via e che me ne rimanesse solo il tiepido ricordo.
“Shh…”
E quando riconobbi una goccia di dolore sorgere e calare anche dai suoi occhi e, come aveva fatto la mia, scomparire nei miei, ricordai queste parole, e nel loro nome consumammo il resto che di quel tramonto ci sarebbe rimasto:

Viviamo, mia Lesbia, e amiamoci
e ogni mormorio perfido dei vecchi
valga per noi la più vile moneta.
Il giorno può morire e poi risorgere,
ma quando muore il nostro breve giorno,
una notte infinita dormiremo.

Dammi mille baci e poi cento,
e poi altri mille e altri cento,
e poi ancora una volta mille, e poi cento.
E quando saremo arrivati
a molte migliaia,
li mescoleremo tutti per non sapere il conto
o perché qualcuno maligno
non provi invidia per noi
sapendo il numero esatto dei baci.



“Ti amo.” 








Note:
(10) per gli amici, Cloroformio
(11) cit. Margaret Fuller
(12) cit. dal film "L'avvocato del diavolo"
(13) oddio, hahahaha mi vergogno un sacco. E' un profumo di Hugo Boss che ho sentito ieri e che mi ha ispirato Sherlock. NON CHIEDETEMI IL PERCHE'.

http://www.youtube.com/watch?v=7v8zxoEoA_Q link per "La Follia", di Vivaldi

Author's Corner:

Evvai, ed eccola che si accinge a pubblicare la sua prima scena hot *arrossisce violentemente e si va a nascondere*
Non ho molto da dire su questo capitolo, che teoricamente avrei scritto come conclusione. Ma come posso io essere coerente con me stessa?! OVVIO che non può essere la fine! Mi auto fucilerei senza aspettare Sebastian.... Solo vi aspetto al prossimo, l'undici, in cui i colpi di scena, forse prevedibili, non mancheranno di certo!

miss potter















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Capitolo 11
*** Chapter eleven ***



Chapter eleven







Quando riaprii le palpebre, la faccia per tre quarti schiacciata contro il cuscino e la bocca mezza aperta impastata di sale e mattina, borbottai qualche improperio contro il sottile ma potente fascio di luce solare che infido si fece strada da una fessura della tapparella andando a cozzare contro l’occhio maggiormente esposto.
“No… no, no, no” bofonchiai, sprofondando completamente col viso nel guanciale e cercando di non badare al fastidiosissimo sibilo che aveva cominciato a tormentarmi l’orecchio destro in combutta con una martellante emicrania.
Il post sbornia era sempre un’esperienza traumatica, per me, abituato com’ero a non bere mai più di una pinta di birra da quando, alla festa di laurea, mi risvegliai la mattina seguente tra le aiole del cortile della facoltà con un cappello da cowboy in testa. Con solo un cappello da cowboy in testa.
Sollevai un braccio, sfilandolo dal grumo di coperte dentro cui era avvolto, e lo allungai sull’altra metà di letto, disfatto e tappezzato di mille odori e profumi di cui riuscii a distinguerne un paio, cercando di dimenticarli all’istante per salvaguardare la mia già piuttosto precaria condizione mentale. L’odore aspro del sudore, non fastidioso, solo familiare, mescolato al dolciastro mi mise incredibilmente su di giri, annebbiandomi il cervello già ampliamente anestetizzato.
C’era una cosa, però, un piccolo ma molto significante particolare che non avevo rimosso – e che non avrei mai potuto rimuovere – che si stava facendo spazio, altero e disinibito, tra i lampi di immagini accecanti e confuse nella mia mente, uno sfacelo morfologico di pelle e occhi liquidi che ancora pulsavano e colavano abnegazione, amore. Amore ovunque.
“Sher?”
Un sussurro bisognoso, un respiro smorzato e sonoro che si fece strada nella penombra ambrata della stanza, facendosi eco.
I polpastrelli brancolarono tra le pieghe delle lenzuola ancora calde, umide, sfiorando il morbido e candido cotone ed inebriandosi di quella mera consolazione di tessuto sporco, del ricordo dell’epidermide sua sorellastra che poco prima avevano ghermito, accarezzato, graffiato, a cui si erano aggrappati indigenti destinando la propria natura.
“Sherlock?”
Ma l’unica risposta che ricevetti fu solo il monotono gorgogliare della moka, in cucina, e delle molle del materasso quando spostai il peso e mi stesi su un fianco con l’intento di inquadrare la situazione da un’altra prospettiva che non fosse il buio tepore del cuscino.
La camera da letto era invasa dal mite chiarore di una mattina di sole come un’altra, la luce calda ma poco rassicurante che preannuncia quel tipo di giornate in cui uno si chiede se riuscirà mai ad arrivare a sera integro, e, stropicciandomi gli occhi, notai lembi di stoffa sparsi un po’ ovunque: la camicia riversa a terra vicino alle scarpe con le stringhe ancora allacciate, mentre pantaloni, mutande e calze mi si erano aggrovigliati alle gambe insieme alle lenzuola come piccole ma forzute piovre.
Arrossii di colpo quando collegai tutti questi piccoli indizi incollandoli tra loro insieme ai più che ben distinti ricordi della sera precedente, o della mattina, e andai a comporre un collage di eventi più o meno scioccanti che ebbero il potere di scombussolarmi da capo a piedi. E di farmi sorridere.
Il vago profumo d’arance e tabacco e il lieve retrogusto salato, insieme ad una decina di altri sapori indecifrabili, si stavano ancora stiracchiando sulle mie labbra screpolate quando me le umettai, saggiando la ancora troppo vivida consistenza di quelle essenze, la stessa che mi fece rizzare ogni pelo del corpo quando la avvertii farsi strada zigzagando tra i segni rossi e le innumerevoli mezzelune su torace, spalle, fianchi e braccia sottoforma di piccoli ma intensi brividi disegnati attorno ad uno e un solo nome.
“Sono un idiota.”
Ammirevole, John. Non ti facevo così perspicace.
“Zitto, tu.”
Feci forza sulla parte ancora in vita dei miei addominali indolenziti e mi misi seduto: quando tutta la stanza ricominciò la sua giostra, mi portai una mano alla tempia ed inspirai a fondo dal naso cercando di canalizzare tutte le forze psicofisiche, sparpagliate un po’ ovunque, e di rimetterle lentamente in moto, a cominciare dalla facoltà visiva e motoria. Ci mancava solo che mi vomitassi addosso come un adolescente e poi la mia vita si sarebbe potuta considerare completa…
Ma se avevo creduto di non poter essere più sconvolto e coinvolto di così, la sorpresa più grande, la più meravigliosa e sconcertante di tutte, doveva ancora venire.
Si palesò sul comodino, di fianco all’abatjour che qualcuno si era premurato di spegnere: un biglietto piegato a metà, e sul biglietto un fiore dal gambo reciso a pochi centimetri dalla corolla. Una rosa rossa.
Mi resi conto dell’enorme sorriso che fece da ponte tra un orecchio e l’altro solo quando le guance cominciarono a farmi male e la necessità di lubrificare i bulbi oculari si fece sentire, protestando contro quello che giurai fosse un miraggio, o il prodotto di una notte praticamente insonne passata danzando sull’orlo tra inferno e paradiso, ubriaco di vita e del colore blu.
Allungai una mano verso il pezzo di carta, prendendo delicatamente la rosa tra le dita e portandomela alle narici.
“Che scemo…” sussurrai, una piccola risata soffiata che mi sfuggì dal naso, silenziosa, che si andò a confondere col rosso vivo dei petali, uniformandosi all’incanto.
Chiusi per un attimo gli occhi godendomi a pieno il profumo fresco e zuccherato del fiore non del tutto sbocciato, un bellissimo bocciolo adolescente color cremisi. Poi, aprii il foglio e lessi in un fiato una calligrafia tanto sbrigativa quanto inconfondibile:

Mettila all’occhiello. Così ti sarò vicino, almeno per oggi.

S.

p.s. questo messaggio si autodistruggerà tra 3..2..1… No, dico sul serio. A meno che tu non voglia un divorzio anticipato, fallo sparire.

Il matrimonio. Come quando si esce dal supermercato e ci si ricorda di aver scordato il latte. Ah, già.
Sbirciando la posizione delle lancette del mio orologio da polso sul comodino, sospirai: tra meno di due ore mi sarei dovuto presentare da Mary e firmare con lei la mia definitiva condanna su un freddo pezzo di carta patinata e sulle sue labbra sorridenti, piene d’aspettativa, davanti a decine di persone che si aspettavano qualcosa da me, via dall’isola.
Mary Watson, née Morstan. Non suonava neanche tanto male, ad esser sinceri. Non meno di quanto Sherlock Watson avrebbe fatto, in realtà… No, sarebbe suonato semplicemente orrendo, la stonatura al centro un pentagramma perfetto.
A Sherlock non l’avrei chiesto mai, perché… beh, perché “Sherlock” era Sherlock, e sarebbe sempre stato succeduto da “Holmes”, perché Sherlock era un uccello libero, il mio usignolo bellissimo e allergico ad ogni gabbia di tipo emozionale. Semplicemente perché Sherlock, tra meno di due ore, avrebbe preso un aereo per la Svizzera, ed io non sarei stato al suo fianco.
Ma come poteva chiedermi di appuntarmi al petto una così misera parte di lui, di ciò che mi aveva regalato al morire della notte tra una nota e un bacio rubato? Come poteva pensare di riassumere tutti i sentimenti e gli sbagli nella stupida allegoria di una stupida favola per bambini narrata a bassa voce mentre facevamo l’amore quando tutto il mio corpo e la mia mente ne erano già completamente impregnati, di lui e di tutto quel colore? Come si permetteva di farmi così tanto male, di nuovo, anche a distanza, anche senza toccarmi con un solo dito, solo… esistendo?
Serrai la mandibola, forte, fino a sentire i denti e tutte le ossa della testa accusare un dolore che tuttavia non avrebbe mai potuto competere con quello del muscolo un poco più in basso, grande quanto un pugno, massacrato, schiacciato tra due polmoni che si riempivano e svuotavano velocemente di tutta l’aria viziata della stanza e di tutta la forza che cercavo di raggranellare mentre gli occhi si inondavano di rabbia e le mani strappavano biglietto e rosa insieme, facendoli precipitare in una cascata di carta e petali sul pavimento, dove s’infransero senza far rumore, come anima di splendido ma fragile cristallo boemo abbandonata alle braccia insicure della gravità.
Dentro di me, urlavo.

La bocca non parla, non urla quanto le mani, quanto gli occhi, e nemmeno può tremare, dunque, come le ginocchia e come solamente la voce potrebbero fare mentre, vestito da pinguino, le giuro che sarà l’unica, per me e per sempre, e lei, radiosa, risponde con un bacio a stampo e i miei cari, che di me ricordano solo nome e numero di matricola, plaudono alla coerenza e al coraggio da reduce di guerra a cui viene finalmente concessa la possibilità di costruirsi una famiglia.
C’era una lacrima solitaria che si sporgeva incauta da una palpebra mentre, dopo la cerimonia, stringevo la mano ad amici che non vedevo dai tempi del college o dell’Afghanistan, a parenti di quattro, cinque Natali prima.
“Ti vedo bene, John” mi salutò Josh, stringendomi la mano.
Gli salvai la vita a Kabul. Un’imboscata. Perse l’occhio sinistro ed io qualche centinaio di sterline per le sedute dal fisioterapista, per la spalla. E la lunga cicatrice sul suo sopracciglio sinistro sembrò salutare di nascosto la mia, coperta sotto la camicia.
Chissà perché, ma sembrava che il deserto ce lo continuassimo a portare dentro, tatuato sotto la pelle e dietro gli occhi. Nessuno di noi sembrava esserci davvero per le cose importanti.
Ma che poi… cos’era importante?
“Josh…” risposi con distacco, facendo cenno col capo al resto dei miei compagni d’arme che, dopo aver salutato la sposa, si accingevano a venirmi incontro, sorridenti. “Grazie per essere venuti, ragazzi”
“Ti sei fatto acchiappare, eh Watson?” ridacchiò uno di loro, leggermente alticcio.
“Mary è deliziosa. Sei un uomo fortunato, capitano” disse un altro, battendomi una mano tra le scapole e sollevando il bicchiere di spumante in mio onore, imitato poi da tutti gli altri.
Fortunato, sì. Ed incredibilmente solo. Solo io con la mia lacrima, che era la cosa importante.
Ma non la sentivo. O forse è che la sentivo fin troppo bene ed era come un rumore costante, di sottofondo, uno di quelli a cui ci si abitua con una velocità disarmante. Ma non scompare, lui. C’è sempre, solo che non si sente così forte come prima, come all’inizio, mentre l’assuefazione prende il posto della dipendenza, che sono due cose diverse.
L’una consola, rammenta ogni tanto e cancella. L’altra… o beh, l’altra. Per l’altra è tutt’altra cosa. C’è gente che ci muore, di dipendenza. La dipendenza congela l’attimo e lo dilata, fino allo scoppio. La dipendenza fa male perché è assenza, perché è presenza costante e trasparente, liquida nelle vene e gas nei polmoni, e cresce, aumenta giorno dopo giorno, e stordisce. La dipendenza ero io, era lui lontano da noi, la dipendenza era il passato, solidificato dietro gli occhi mentre fingevo di essere emozionato quando invece mi stavo rompendo, ancora, spaccandomi come ghiaccio troppo duro lasciato cadere al suolo, una stretta di mano dopo l’altra, un bacio alla volta.
Sarebbe meglio morire per fusione, farebbe meno male forse. Ma il mio sole non c’era, mi aveva lasciato solo, all’addiaccio dietro una nuvola di frottole. Ancora.

Il ricevimento fu semplice, breve e… sì. Tremendamente noioso. Per questo cercai di concludere i convenevoli il più presto possibile e di congedare i pochi ospiti, tra cui anche le tre cugine di Norfolk che Harriet si era premurata ad invitare.
“Dovevi proprio, Harry?” biascicai a denti stretti sorridendo  e agitando una mano all’indirizzo dei tre cappellini color pastello che si stavano avvicinando rimbalzando insieme alle tondissime proprietarie, impregnate nella loro più britannica frivolezza.
Mia sorella, stretta in un vestito color crema a balze preso in affitto che non le donava affatto, si limitò a tracannare l’ennesimo bicchiere di punch e a sorridermi, spurgando commiserazione da ogni poro.
“Auguri e figli maschi, fratellino!” esclamò, congedandomi con un incerto saluto militaresco.
Non avrei mai pensato che mi sarei dovuto ridurre così, a mentire ad una donna che conoscevo da quand’ero nato, l’unica forse con la quale potevo avere un briciolo di dialogo serio quando non ci litigavo, e ad un’altra, colei che mi stava offrendo tutto e niente di ciò di cui avevo davvero bisogno. Una battaglia. Un altro deserto.
“Ti amo tanto, John” sorrideva Mary entusiasta, mentre mano nella mano entravamo nella Mini cabrio bianca e blu che ci avrebbe riportato a casa, tra gli applausi e gli auguri dei presenti.
“Sei bellissima. Bellissima…” riuscii a dire, ancora e solamente, perché lo era davvero, bellissima, e perché… beh. Semplicemente perché l’amore è un’altra cosa.

Crollammo sfiniti sul nostro letto, ed arrossii d’imbarazzo al solo pensiero della notte precedente, della colossale bugia di cui mi ero macchiato e mi stavo lasciando macchiare quando mia moglie cominciò a spogliarmi con foga, quando la camicia mi venne letteralmente strappata di dosso insieme al resto della mia tenuta da uomo felicemente sposato, e sussultai.
Non c’era niente, assolutamente niente di felice o di lontanamente vicino alla felicità tra tutti quei gesti frettolosi e banali, stereotipati. Nulla di nuovo, nulla di proibito. Solo quotidiano, sempre il solito, la cristallina conseguenza di una scelta per cui avrei pagato, prima o poi.
La lasciai semplicemente fare, guardandola annegare in quell’illusione dal sapore amaro, pregando che la semioscurità della nostra camera facesse da barriera contro i segni sulla mia pelle leggermente più scuri sui fianchi, come lividi, e rossi sul collo vicino alla clavicola, macchie indistinte ma al contempo limpidissime, se ben osservate, la firma indelebile di colui al quale appartenevo e a cui avevo venduto l’anima, sperando che le apparissero niente più che semplici ed innocenti contusioni, o vecchie cicatrici. Ma lo erano, in fondo, cicatrici.
“John…” sospirò carezzevole, mentre baciava il mio petto esposto e armeggiava con la cintura.
Mi sovrastava, vagamente confusa al cospetto di quella mia inerzia, gli occhi brillanti, le dita sottili e pellegrine sicure sul mio corpo inerme, intorno ai muscoli prominenti degli addominali mentre mi indirizzava le mani stanche e disossate dietro la propria schiena, sui ganci del morbido bustino di seta e sui nastri principescamente intrecciati del proprio vestito da sposa. Una bambola.
La sfogliai come una margherita, lentamente, denudandola petalo a petalo con quella domanda rappresa nella testa: l’amo o non l’amo?
L’avrei distrutta, oh sì… Le avrei tolto tutto, l’avrei umiliata, annientata, annullata. Ma che si può pretendere da un’anima a metà? Solo cose a metà. Niente di più, niente di meglio. Solo ciò che resta e che non si cancella.
Le accarezzai la schiena nuda, lunga e delicata, disegnando arabeschi tra una scapola e l’altra cercando di ricordare Vivaldi e, pensai, da dove diavolo veniva quella chiazza di muffa sull’angolo poco sopra l’armadio?
Avrei dovuto parlarne con Mary, sì. L’avrei fatto, prima o poi.
Parlargliene.
“Mary…”
“Sono qui, John. Sono tua.”
Mi spogliò completamente, solleticandomi le cosce con le unghie curate mentre mi sfilava i pantaloni e mi slacciava le scarpe. Sorrisi, colando rassegnazione dalle palpebre. Le volevo troppo bene.
“Non c’è bisogno che me lo ricordi.”
“No.”
Avrei dovuto chiamare qualcuno per quella chiazza, sul serio. E avrei anche dovuto decidermi a prenderla, quell’aspirina.
L’avrei fatto, avrei fatto tutto… dopo.
Chiusi gli occhi, lasciandomi andare all’eterea visione di quei capelli ramati, lunghi e lisci, farsi più corti, crespi e scuri, di quella pelle chiara imbrattarsi dell’avorio più puro, di quegli occhi, grandi e castani, annegare nell’indaco, e infine di quelle labbra sottili, regali, fiorire carne e sbocciare in un sorriso d’alabastro dentro al quale si sarebbe confuso il mio, per una notte ancora.
Mi lasciai cadere, mi lasciai semplicemente… ammuffire.

“Dove sei, John?”
Ora imprecisata della notte: e sì, in quell’occasione mi svegliò. Le davo le spalle, un suo braccio che mi cingeva il torace e le dita dell’altra mano affondate tra i miei capelli arruffati, carezzandone il cuoio capelluto.
Mi erano sempre piaciute le carezze, le coccole dopo il sesso. E Mary sapeva fare tutto benissimo. Amare.
“Qui” sospirai, sgranchendo la colonna vertebrale e seguendo col capo i movimenti circolari delle sue unghie.
“No.”
“Sì.”
“Dio, smettila.”
Non sono mai stato bravo a mantenerle, le promesse. E neanche a mentire. Mi veniva quella specie di sfogo cutaneo… quello con le macchie rosse sul collo. E poi continuavo ad umettarmi le labbra. Più del solito.
Ci dovevo salvare, e invece ci stavo dando il colpo di grazia.
“Buona notte, tesoro.”
Pelle d’oca. E non era per le carezze, non era mai per quel suo amore.

“Che ne diresti di una vacanza?” proposi la mattina, a colazione.
Mary alzò gli occhi arrossati su di me, portandosi la tazza di caffè alle labbra. Aveva pianto?
Certo era che sembrava stanca, più del solito, poco più che una ragazzina con un’ombra di mascara sulle palpebre inferiori e i capelli in disordine, le gambe raccolte al petto, i calzini antiscivolo e un mio maglione addosso, troppo largo per le sue spalle minute. Per me sarebbe sempre stata questo. Fuori misura.
“Vacanza?”
“Sì.”
“Come luna di miele?”
“Come luna di miele.”
S’illuminò. Ma non della luce da novella sposina, eccitata ed ebbra di felicità per la sua nuova condizione. Credo che fosse speranza, quella, la dolce aspettativa di un cambiamento, l’attesa di una nuova illusione. Abbaglio.
“Si può fare. Abbiamo l’assegno dei tuoi amici, più qualche soldo messo da parte… Potremmo organizzare un paio di settimane ai tropici. Sarebbe magnifico. Sole, mare…”
“Che ne dici della Svizzera?”
“… Svizzera?” mi fece eco, aggrottando le sopracciglia.
“Dicono che sia favolosa in questa stagione.”
“Beh John,” esclamò, accennando una risata “non è esattamente una delle destinazioni che avrei messo al primo posto nella lista delle mete per un viaggio di nozze, ma…”
“Solo… credo sia più intima, ecco. Meno turistica. E poi c’è un lago, a Ginevra. Lo sapevi che è il più grande dell’Europa occidentale?”
Avrei volentieri devoluto l’intera mia pensione e più di qualche organo vitale alla scienza per potermi vedere in faccia, in quel momento, alzarmi dalla sedia, prendere la mira e sputarmi in un occhio. Mi sentivo semplicemente un innegabile bastardo manipolatore con un peso intollerabile dentro il cuore e sull’anulare sinistro, e sì, stavo sfiorando i limiti della crudeltà, ne ero più che cosciente.
La metà della mela si uniforma alla gemella, e in quella stanza, in quella casa, c’era mezza mela e mezza arancia, grondante sangue, che si scontravano e si macchiavano a vicenda nel tentativo disperato di trovare qualcosa che le accomunasse, a parte la spessa buccia di solitudine.
“D’accordo” sospirò, trattandomi come uno di quei libri scritti male di cui non si capisce niente fin dall’inizio, uno di quelli che finiscono in una cesta polverosa, in soffitta, il segnalibro tra il primo e il secondo capitolo e troppi punti interrogativi appresso. “Potrebbe rivelarsi interessante.”
“Sì. Lo penso anch’io” sospirai alzandomi da tavola, e gettai il caffè giù dal lavandino.
Troppo dolce. 














Author's Corner:

Ehi, gente... Okay, non ho giustificazioni. La verità è che l'elemento Mary + John + matrimonio mi scombussola troppo e... beh, questo è il risultato. Per il prossimo capitolo necessiterò di una flebo.
Grazie se sarete così gentili da lasciare un commento. Spero solo che le uova non siano sode.
Thanks.

miss potter

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Capitolo 12
*** Chapter twelve ***



Chapter twelve








Il lettore coscienzioso e rispettoso delle norme per l’amata e più che legittima convivenza civile, per la sempre cara moralità e per tutte quelle dolci e rette cose che contengono in sé la formula e la motivazione utili all’essere umano per scavarsi la fossa e sotterrarcisi dentro, potrebbe pensare che fossi un emerito bastardo, uno scellerato dalle idee piuttosto confuse e dalla moglie troppo felice per ammettere che al proprio marito non importasse un fico secco se due dentifrici sarebbero bastati per il viaggio di nozze o se fosse meglio portarsi l’impermeabile piuttosto che l’ombrello. Forse questo penserebbe, tale lettore, vinto dalla vergogna o troppo perbenista per provare un sentimento così scomodo come la compassione.
Che non fossi un uomo perbene, beh, di questo ne ero al corrente. Insomma, avevo ucciso, avevo tradito, mi ero ubriacato quindici o sedici volte, avuto altrettanti orgasmi (poco seri) ed uno di questi con un uomo (molto serio). E mi ero pure sposato! Ma ora come ora sono altrettanto consapevole del fatto che suddetta categoria di lettori non sarebbe giunta fin qui senza storcere il naso almeno una volta o addirittura  esser passata a leggere tutt’altro, magari una rassicurante rivista dalla spessa copertina patinata che ritrae la classica donna in menopausa e stivaletti di gomma verde in giardino mentre sorride e semina cipolle.
Non ero certo un uomo da cipolle, io, e neanche da problemi come misura e peso della valigia, o se ci fosse la moquette, negli alberghi svizzeri. Perché non ci sarebbe dovuta essere la moquette, poi? Sono i detentori degli orologi più pregiati al mondo, dell’Emmental e giusto di qualche conto bancario a nove zeri. Figuriamoci se non avevano la moquette. Il bidè ci sarebbe anche stato, come pure una miserabile imitazione del Darjeeling. Ma la moquette…
Insomma, quale sarebbe stato il nostro prossimo argomento di conversazione?
“Buongiorno, cara. Come stai oggi?”
“Buongiorno a te, caro. Piuttosto bene, devo dire. E tu, come stai?”
“Splendidamente, tesoro. E dimmi, come se la passa Margaret?”
“Margaret?”
“Ma sì, la tua prozia.”
“La sua Yorkshire si chiama Margaret.”
“Ah. E come se la passa la Yorkshire di nome Margaret?”
“Non bene, direi. È morta l’anno scorso.”
“Oh, povera bestiola.”
“Mia prozia è morta… l’anno scorso.”
Rivoltante.

“Ciao, John.”
“Ella.”
Eh, sì. Ci ero ricascato. Dopotutto sono sempre stato un gran chiacchierone e la mia analista in quel momento mi appariva una buonissima alternativa allo specchio o al poster incorniciato di Mike Jagger in soggiorno, per chiacchierare.
Era dimagrita. Sicuramente le avevo pagato un abbonamento trimestrale in palestra o, molto più probabilmente, la mia prolungata assenza le aveva permesso di dedicarsi a tre, quattro amanti settimanali con cui sperimentare le più moderne tecniche di escapologia applicata al sesso: evidenti segni intorno a polsi e a caviglie – una corda, quasi sicuramente –, viso rilassato, nuova marca di rossetto. Elementare.
“Come stai?”
Cristo...
“Bene.”
Il diffusore aromatico attaccato alla parete sprigionava un nauseante profumo di gelsomino che pareva fosse penetrato in ogni cosa facilmente penetrabile di quella stanza: poltrone di pelle, tappeti, fogli di carta, persone… Tutto era inzuppato dell’odore dolciastro delle cose confortanti. Perché quello è l’intento, dei diffusori. Far sentire a casa ovunque ci si trovi.
La donna sollevò impercettibilmente le lunghe sopracciglia arcuate e corrugò la fronte, esibendo l’espressione sfacciatamente clinica del “ti conosco, vecchia volpe, non raccontarmi palle”. Il bello degli psicologi, o di persone del genere, è che stanno sempre al gioco delle bugie che vengono loro raccontate, si sorbiscono una, due ore di sproloquio sull’ingiustizia dell’esistenza umana o riguardo l’ultima marca di lavatrici che non lavano, sorridono, annuiscono, ricoprono di ghirigori il proprio taccuino e poi ti congedano dandoti appuntamento alla settimana dopo, raccomandandosi di non pensare troppo alle lamette del rasoio o al bucato, che non fa mai bene.
Oh, Ella.
“Mi fa piacere” sospirò. “Ma è passato parecchio tempo, John. Perché hai richiesto un colloquio proprio ora?”
Accavallai le gambe, intrecciando le dita delle mani in grembo, e mi sforzai di riesumare una qualche sorta di sorriso abbastanza convincente tra quelli che l’avevano persuasa, mesi addietro, che la guerra sarebbe stata solo un ricordo lontano, per me, una bugia abbastanza vera tanto da essere riuscito a cancellarle dal volto quel cipiglio da buona samaritana armata di ancor più buone intenzioni, bloc-notes e penna stilografica che in quel momento erano tornati a tormentarmi.
“Ho… ho incontrato una persona” iniziai, umettandomi le labbra screpolate.
“Eccellente,” disse, allietandosi “sono contenta di vedere che ti stai prendendo cura di te.”
“E mi sono sposato.”
A quel punto, la sua improvvisa radiosità si spense con la stessa velocità con cui era deflagrata. Mi scrutò di sottecchi nel tentativo di scovare l’inghippo, la fregatura, nella cruda maniera ed abitudine della gente che vive di rompicapi e casi disperati.
Nessuna fregatura, comunque. Avevo incontrato una persona, e poi ne avevo sposata un’altra.
“Come si chiama?”
“Chi?”
Perché continuavo a fare lo psicologo di me stesso? Forse era meglio Mike Jagger, almeno era fatto di carta.
“Quella che hai sposato.”
Oh, Ella. Ella…
“Mary. Si chiama Mary.”
“Mary…” ripeté, esibendo un sorriso agrodolce. “E sei felice con lei?”
No, cioè… basta.
“Cos’è felice, Ella?”
“Beh, la felicità è quando una persona arriva ad un certo punto della propria vita in cui si può ritenere soddisfatta del suo operato o delle sue ambizioni. È… appagamento.”
“Ah, ah.”
“Tu ti senti appagato, John?”
Risi a denti stretti. Risi perché i minuti volavano e le sterline pure, ed io ero più confuso di quando ero entrato e mi ero messo comodo. Dovette interpretarla piuttosto male, quella mia reazione, perché sprofondò nello schienale della poltrona affilando lo sguardo scurissimo e falciandoci le molecole d’aria e desolazione che ci separavano.
“Siete già in crisi?” domandò, scribacchiando qualcosa come “insicuro, contradditorio, si tormenta l’anulare sinistro”.
“In crisi? No. Io la amo. Lei mi ama. Non potrebbe andare meglio, in effetti. Sai, dopodomani partiamo per il nostro viaggio di nozze.”
“Ma non hai ancora risposto alla mia domanda.”
“Svizzera…”
“John.”
“Quale domanda?”
“Se sei felice. Se ti senti appagato.”
Mi salì un prepotente mal di testa, in quel momento, e un’acuta fitta alla gamba gli andò a fare compagnia.
“Appagato. Sì…” sospirai, massaggiandomi la coscia.
Ella seguì con lo sguardo la frizione del mio palmo aperto dal ginocchio lungo tutto il quadricipite, e si accigliò.
“Perché porti ancora il bastone, John?”
“Ogni tanto. Lo sa che noi due, per la maggior parte del tempo, comunichiamo attraverso domande?”
“È il mio lavoro fare domande, John. Ma tu dovresti rispondere.”
“Credo di essere alquanto sprovvisto di risposte, al momento.”
“Probabilmente perché ti poni le domande sbagliate.”

Avevo deciso di non parlargliene, a Sherlock, del mio arrivo quella stessa mattina a Ginevra con mia moglie. Volevo che fosse una sorta di sorpresa, o comunque il tentativo era quello di impressionarlo dimostrandogli che neanche io ero da meno quando si parlava di cose a cui ci si attacca perché si è nati per rimanerci, attaccati, nonostante tutto e tutti.
Dunque decollammo da Heathrow accompagnati dalla pioggia battente che ci dette il benvenuto anche in terra elvetica, scortata da una sensazione davvero poco piacevole in zona stomaco. Almeno per quanto mi riguardava.
Non so dire perché non mi sorprese più di tanto quando, superato il tapis roulant delle valige e riversatomi nell’affollatissimo terminal mano nella mano con Mary, notai un perfetto sconosciuto in impermeabile grigio che agitava nervosamente una mano al nostro indirizzo. Un tipo piuttosto anonimo, in realtà, brizzolato e con un po’ di pancia, faccia ovale dai tratti inspiegabilmente familiari, pantaloni kaki e un paio di scarpe di finta pelle completamente asincrone col resto del vestiario.
“John?” mi chiamò Mary, assumendo un’aria vagamente sospettosa. “Quell’uomo ci sta facendo segno di avvicinarci o me lo sto solo immaginando?”
Ci bloccammo nel bel mezzo del flusso di viaggiatori, incuranti delle spallate e delle rotelle dei trolley che ci passavano sopra le scarpe, con l’intento di capire se quell’individuo ce l’avesse con noi. Mi voltai indietro per un istante tanto per stabilire che non si stesse rivolgendo a qualcuno alle nostre spalle, ma quando tornai a guardarlo era ancora lì, a sbracciarsi e a confermare la mia perplessità annuendo nervosamente quando mi indicai il petto.
“Pare proprio di sì” dissi calmo, prendendo sottobraccio mia moglie ed avvicinandoci all’uomo.
“La nostra fama di gente predisposta alla fiducia ci insegue anche oltre Manica, non è vero dottore?” iniziò questi in un impeccabile accento inglese, allargandosi in un sorriso da Stregatto decisamente poco rassicurante che provocò in Mary un leggero sussulto e in me una sensazione che non prescindette dalla più corroborante angoscia.
Ma, nonostante tutto, non mi scomposi.
“Ci conosciamo?” domandai con freddezza.
“Io conosco voi. E per ora che questo vi possa bastare.”
“Scusi tanto… signore. Ma io e mio marito saremmo attualmente in viaggio di nozze e uno sconosciuto che nemmeno si presenta e afferma di conoscerci non è esattamente ciò che definirei premessa per vacanza rilassante” esclamò Mary, infervorandosi.
L’uomo dinnanzi a noi rispose dapprima con una leggera risatina cordiale, e poi con un’alzata di spalle a cui fece seguire lo svolazzamento di un lembo dell’impermeabile. Affondò una mano nella tasca interna, gesto che mi causò un improvviso trasalimento abituato com’ero a diffidare degli sconosciuti dai tempi delle elementari, attitudine che si temprò con l’esercito, tirandovi fuori un distintivo che poi ci mostrò.
“Ispettore Gregory Lestrade, Scotland Yard. È più tranquilla ora, signora Watson?”
Mary era troppo sconvolta per accorgersi del grande sorriso che in quel momento mi si dipinse sul volto e che mi fece chinare il capo e gettare lo sguardo a terra. L’ispettore riuscii a convincerla dell’assenza di qualsivoglia bisogno di preoccuparsi riguardo la sua identità e le sue intenzioni, nonché del suo ruolo di semplice accompagnatore, a detta sua, per le famiglie di reduci di guerra. Ci avrebbe scortato fino in albergo a bordo di una Jaguar, invece che di un comunissimo taxi: provvedimenti governativi, si era giustificato. E, d’altronde, chi ero io per oppormi alla volontà del mio governo?

“Tesoro?”
“Sì?”
“Sei proprio sicuro di aver prenotato in questo albergo?”
In effetti, ero più che sicuro che il mastodontico hotel a cinque stelle tutto finestroni e colonne d’acciaio e immense fontane di marmo bianco davanti al quale la nostra auto si fermò non era affatto quello dove avevo pensato di trascorrere la mia umilissima luna di miele, pagata grazie alle cospicue donazioni degli amici e dei pochi parenti.
“Ehm… Mi scusi, signor Lestrade?” lo chiamai, ticchettandogli una spalla con un indice.
“È tutto sottocontrollo, dottor Watson” disse austero, sorridendomi dallo specchietto retrovisore. “Si rilassi, siamo arrivati”
“Sottocontrollo. Certo.”
Dove l’avevo già sentita, questa?
L’autista, che non aveva spiaccicato parola dall’inizio del viaggio, spense il motore e scese dalla macchina, imitato dall’ispettore, per poi aprire la portiera dalla parte di Mary e porgerle una mano per smontare. Mia moglie scaricò tutto il suo nervosismo sulle mie dita, che non aveva lasciato da quando ci allontanammo dall’aeroporto, stritolandomele.
“Mary, amore, credo sia tutto a posto” cercai di tranquillizzarla, ma il fatto era che io mi sentivo più agitato di me e lei messi insieme.
Feci per prendere le valige dal bagagliaio ma un facchino in divisa era già accorso sbucando dalla porta a vetri dell’albergo con tanto di portabagagli placcato a rotelle, bofonchiando quello che presunsi fosse un saluto in francese al quale io risposi con un modesto cenno del capo.
“Certo che il governo deve volerti proprio bene, John” sospirò Mary quando, fatto il nostro ingresso nella reception, l’abbagliante sfavillio dei cristalli pregiati e dei marmi lucenti ci investì con tutta la sua caleidoscopica potenza, stordendoci.
Stemmo col naso all’insù per un tempo indefinito, la bocca spalancata all’indirizzo degli enormi lastroni metallici incastonati nell’alto soffitto insieme alle pareti a specchio che riflettevano le une sulle altre le nostre espressioni sbalordite e l’immagine di un gigantesco vaso di vetro, al centro, contenente una rigogliosa pianta tropicale, almeno finché la nostra nuova conoscenza non ci riportò indietro alla realtà.
“Signori Watson, da questa parte…”
Ci trascinammo dietro all’ispettore fino alla hall dell’albergo, una stanza poligonale dallo stile moderno e raffinato, piena zeppa di uomini d’affari con le relative accompagnatrici in tubino nero ed autoreggenti, seduti a chiacchierare e discutere di soldi e cavalli su dei divanetti in pelle bianca, sorseggiando Martini e strafogandosi di olive.
“Signora Watson,” continuò Lestrade, che in quel momento fu raggiunto da un tipo la cui fisionomia mi ricordò molto quella di un roditore, il classico funzionario di polizia della Corona, smilzo e pallidissimo, senza però il cappello a scacchi “il mio collaboratore, il signor Anderson, l’accompagnerà in camera sua, dove potrà rinfrescarsi e mettersi a suo agio…”
Mary mi strinse ulteriormente la mano distraendomi dall’osservazione di un gruppetto di ragazze, che non dovevano avere più di venticinque anni, perfettamente truccate ed intenzionalmente provocanti, sedute al bar che ricambiarono subito lo sguardo da sopra le spalle dei propri panciuti accompagnatori in giacca e cravatta.
“Mio marito?” chiese sommessamente, guardando con apprensione il nuovo arrivato.
“Oh, non si preoccupi” intervenne quest’ultimo con una noiosa voce nasale. “Glielo ruberemo giusto un istante. Sa… carte da firmare, burocrazia…”
Lestrade annuì con convinzione, indirizzandomi quel tipico sguardo da “non fare troppe domande, soldato, seguimi e basta” che avevo già visto, da qualche parte.
“Tesoro, vai pure. Ti raggiungerò il prima possibile” le sorrisi, baciandole le labbra contratte e accarezzandole una spalla.
“Sei sicuro?” mormorò lei, tormentandomi un mignolo.
“Sicurissimo.”
Dopo un attimo d’esitazione, mi lasciò lentamente andare la mano e la guardai allontanarsi dietro ad Anderson, e poi sparire dentro l’ascensore seguita dal facchino coi nostri bagagli, lo sguardo perso e congestionato di domande fisso nel mio, impotente.
Quando le porte si richiusero, scossi la testa e cercai con gli occhi quelli dell’ispettore a braccia conserte alle mie spalle, un sorriso soddisfatto stampato sul volto asciutto.
“Sarebbe inverosimilmente stupido da parte mia chiedere il motivo di tutta questa messa in scena, non è vero ispettore?”
Le sue labbra misero in mostra una bianchissima fila di denti che mi bastò più di qualsiasi risposta, ed io, infatti, non chiesi altro. Mi limitai ad imitarlo, ridendo interiormente di quella situazione ai limiti del ridicolo.
Avevo davvero creduto di poter sorprendere qualcuno che con tutta probabilità sapeva del mio arrivo a Ginevra ancora prima che prenotassi il volo?
“Lei non è stupido, dottore. Solo… fottutamente prevedibile. Mi segua, per favore.”
Mi condusse su per le scale, e poi davanti a una suite al terzo piano nel bel mezzo di un lungo corridoio dalla moquette blu notte e in quel momento ripensai alle inutili ansie di Mary. La stavo piantando in asso, ancora, ma il bastone l’avevo lasciato a Londra e con lui tutte le mie, di preoccupazioni.
L’ispettore bussò due volte con la nocca dell’indice destro e poi tornò a guardarmi.
“Buona fortuna, dottore” disse, salutandomi con un rapido gesto del capo.
Lo osservai allontanarsi lungo il corridoio, sparendo dietro il primo angolo, ma la mia attenzione viene subitamente catturata dalla maniglia della porta dinnanzi a me che, in un sordo rumore metallico, si abbassò di scatto come se qualcuno da dietro la porta l’avesse aperta per socchiuderla e lasciare che io facessi il primo passo. E lo feci.
Presi un bel respiro, allungai una mano, la spinsi ed entrai, il cuore in gola: la camera d’albergo era grande quanto casa mia, solo con una arredamento che valeva quanto casa mia. Un grande salotto fungeva da ingresso, con tanto di caminetto, poltroncine, tavolino di cristallo e secchio di champagne al centro, vicino ad una TV al plasma e al divano in eco pelle nera, sul quale era accomodato il mio governo.
Bienvenue à Genève, monsieur Watson.
“Mi risparmi i convenevoli, la prego.”
Mycroft mi sorrise benevolo da dietro la sua mezza coppa di brandy ramato e il suo onnipresente alone di superiorità prima di appoggiare il bicchiere sul tavolo vicino ed alzarsi, invitandomi ad avvicinarmi con un elegante gesto della mano.
Mi chiusi la porta alle spalle e ci accomodammo entrambi sulle due poltrone, accavallando le gambe.
Non ci sarebbe stata nessuna carta da firmare, nessuna diavolo di burocrazia, perché, l’ho già detto, il mio patto con l’inferno l’avevo già sottoscritto da tempo e colui che avevo dinnanzi non era altri se non il mio traghettatore, un traghettatore molto chic tra l’altro.
Fissai per qualche secondo la sua imperscrutabile apatia, chiedendomi che cosa avessi fatto di male nella mia vita per dovermi sobbarcare non uno, ma ben due portatori del gene Holmes.
“Ebbene?” domandai, allargando le braccia.
“Ho sempre saputo che di lei mi sarei potuto fidare, dottore.”
Per la seconda volta da quando lo conobbi, intravidi in Mycroft l’umanità che mi aveva letteralmente colto alla sprovvista la prima volta nell’ufficio di Moriarty, tre mesi addietro, quella sfumatura rosata nelle guance scarne e quello strano luccichio negli occhietti grigi e penetranti come spilli che sapeva di tregua, di infinita gratitudine verso qualcosa. O qualcuno.
“La ringrazio, signor Holmes. Anche se continuo a non afferrare il punto della questione.”
“Il punto è, John, che lei ha mantenuto la promessa.”
“Promessa? Quale promessa?”
“Quella che mi fece mesi fa, quando le chiesi di non togliere gli occhi di dosso a mio fratello…”
“… non è quello che sembra” completai, perché in realtà una delle tante promesse che avevo giurato di mantenere, l’unica che avrei mai potuto mantenere, ce l’avevo avuta davanti agli occhi e dentro il cuore per tutto il tempo, e lo sapevo. Non ci sarebbe stato spazio per altri giuramenti, o giustificazioni. E sapevo anche questo.
“Precisamente” sorrise, e mi indicò una bottiglia di liquore su di un piccolo tavolino ligneo rialzato in mezzo alle nostre postazioni. “Da bere?”
“La ringrazio, ma no. Se ha finito, mia moglie mi sta aspettando.”
Feci per alzarmi ma la voce calma ma ferma del mio interlocutore sembrò agire da malta sulle mie articolazioni.
“Mary,” disse, pronunciando quel nome quasi come fosse una parola acquerellata sulla strofa di una preghiera, carezzevole “donna incantevole.”
“Lo è.”
“Incantevole e… ingenua, se posso permettermi?”
Eccolo di nuovo il Mycroft che conoscevo e che mi era mancato come un attacco di dissenteria.
“Signor Holmes,” sospirai, massaggiandomi le palpebre con il pollice e l’indice della mano destra “le faccio presente, se non l’avesse ancora notato, che io e mia moglie siamo in luna di miele e gradiremmo trascorrere questa vacanza come tale. In tranquillità.”
“Tranquillità!” esclamò Mycroft, scoppiando poi in una fragorosa risata a pieni polmoni. “John, se stesse cercando la tranquillità avrebbe optato per le Mauritius, o un ameno borgo italiano, non per una rimpatriata col destino. Non crede?”
Rimpatriata col destino. Plateale era un eufemismo.
“Ed è con immenso piacere che noto che il dolore alla gamba le è passato” proseguì, indicandomela con un rapito scatto del mento appuntito. “Di nuovo.”
“Sì, la ringrazio per preoccuparsi con tanto fervore del mio stato fisico e civile ma, davvero, ora dovrei proprio andare” dissi atteggiando il sorriso più falso che mi riuscì ed alzandomi dalla poltrona. “Buona giornata.”
“La camera della signora Watson si trova in fondo al corridoio di questo stesso piano, a sinistra” annunciò, senza scomodarsi.
“Giusto per non perdermi di vista, eh?”
Riaprii la porta ma di nuovo la robusta voce dell’uomo mi immobilizzò con un piede già fuori dalla suite.
“Ah, John” esclamò. “Mio fratello cenerà in camera sua, stasera. La sua stanza è sempre in fondo a questo corridoio, ma a destra.”
Che bastardo, che fottutissimo bastardo. E terribilmente adorabile, aggiungerei, come solo un Holmes potrebbe essere.
“Sherlock non cena” esalai in un mezzo sorriso, uscendo.
“Alle nove. Saluti la signora.”
Me lo lasciai alle spalle, scuotendo il capo, e voltai il capo verso destra, osservando la porta indicatami da Mycroft in fondo al corridoio, prima di raggiungere la sua gemella a sinistra.
Non poteva andare meglio di così.

La pioggia battente lasciò ben presto spazio ad un tiepido ed umido sole che fece risplendere l’intera città nei freddi toni del bianco, del verde e del blu, l’uno riflesso nell’altro, l’uno vivo dello splendore dell’altro, nel gioco cromatico di una metropoli attiva ma, al tempo stesso, sospesa nel tempo, brillante, nata intorno a un lago enorme e scintillante.
Invitai Mary a fare un giro in centro, a visitare i monumenti più importanti. Entrammo nella maestosa cattedrale di Saint Pierre, nel rigoglioso orto botanico, al museo d’arte e storia come pure nel giardino all’inglese dove si trova il celebre orologio fiorito, un grande quadrante di piante e fiori che germogliano intorno alle tre lunghe e bianche lancette, inseguendo le ore che in sua compagnia passarono piuttosto in fretta, tra una risata e un bacio fugace.
Verso sera, ci ritrovammo a passeggiare mano nella mano lungo il Parc des Eaux-vives, immergendoci nei colori caldi e saporiti di un tramonto mozzafiato mentre, seduti a un tavolo di uno degli innumerevoli ristoranti in riva al lago, ci specchiavamo l’uno negli occhi dell’altra e ci giuravamo amicizia eterna, tra una bottiglia di vino e un’altra di tequila.
Dio, i giuramenti al tramonto sono quelli più infami. Hanno la durata del sole in cielo, del ventaglio di un crepuscolo ubriaco che promette solo dolci illusioni mascherate da sconvolgenti stelle, lasciandoti solo del grande amaro in bocca e la certezza che, davvero, questa è l’ultima volta che bevi così tanto. E le nove si facevano tremendamente vicine.
Prendemmo un taxi che ci riaccompagnò in albergo con la giovane oscurità della notte che ci faceva da silenzioso palcoscenico, Mary decisamente alticcia sprofondata con la faccia sul mio petto ed un delizioso rivoletto di bava in un angolo del labbro inferiore. Russava già quando, di peso, la portai in camera nostra e la adagiai sul letto, non senza qualche difficoltà tecnica.
Mugugnò qualcosa quando le tolsi le scarpe e la coprii col lenzuolo, ma la sua irrequietezza si spense nel giro di qualche secondo, soprattutto dopo che le scostai una ciocca di capelli dagli occhi e le baciai la fronte, dolcemente. Sorrideva pacificamente.
Prima di uscire dalla stanza, una mano ancora sulla maniglia e un’orrenda sensazione nelle viscere, mi voltai verso di lei, contemplandola ancora un istante: ubriaca, serena, semplicemente bellissima e, chiudendomi la porta alle spalle, pensai che sì, dovevo proprio essermi bevuto il cervello.
“Perdonami, se puoi.”
In poche falcate fui davanti alla suite indicatami dal fratello della mia condanna a morte, e le mani cominciarono inverosimilmente a sudarmi, immobili. Senza ovviamente contare i tripli carpiati del mio stomaco insieme alle budella tutte e le connessioni sinaptiche di centro e periferia in cortocircuito… Sollevai una mano, chiusa a pugno, e bussai con due nocche alla porta.
Il cuore, in quel momento, sembrava che avesse deciso farsi un giro dalle parti della mia gola perché altrimenti non sarei riuscito a spiegarmi quell’imbarazzante tachicardia, l’improvviso tremore a una palpebra, la secchezza delle fauci e compagnia bella quando sentii dei passi avvicinarsi, lenti e cadenzati. Quasi non mi resi conto del toc metallico della maniglia quando la porta si aprì.
Vi fece capolino uno Sherlock Holmes in vestaglia di velluto – Dio, rosso bordeaux… – i capelli arruffati e due grossi zaffiri incastonati nelle orbite di un viso semplicemente divino, le gote imporporate di rosa e, sulle labbra, carnose e schiuse a cuore, il solito sorriso petulante da “schiaffeggiami adesso o mai più”.
Il loro fulgido proprietario, baciato dalla penombra ambrata di una lampada dietro di sé, si appoggiò con una spalla allo stipite, facendo scivolare un lembo della veste lungo il bicipite ed ispezionandomi da capo a piedi col suo tipico fare da felino terribilmente annoiato e bisognoso di essere spazzolato.
“Sei in ritardo” miagolò, insolente, giocherellando col nodo della cinta.
“Dio, sta’ zitto…”
Mi avventai letteralmente su quel languido sorriso caravaggesco, addentandone i tratti oscenamente perfetti, e lo spinsi dentro sbattendomi la porta alle spalle incurante del gemito tra lo stupito e l’eccitato di Sherlock e delle più che probabili lamentele da parte degli altri ospiti dell’albergo, l’indomani
La gente avrebbe parlato? La gente fa qualcos’altro.

Mi svegliai di soprassalto, quella mattina, con l’irritante squillo del telefono fisso sul comodino nelle orecchie. Allungai un braccio nel buio grigiore della camera da letto, brancolando alla ricerca della cornetta.
“P-pronto…?” mormorai portandomela all’orecchio, la voce impastata dal sonno.
“Buongiorno, dottore!” trillò la voce dall’altra parte, facendomi sprofondare con la nuca nel cuscino in un’imprecazione sputata a bassa voce. “Ero certo che l’avrei trovata.”
“Che ore sono?”
“Le sette, cinque minuti e trentaquattro secondi. Ci sono undici gradi e una percentuale di precipitazioni intorno al quarantaquattro percento. La sveglia per sua moglie è fissata per le otto. Si faccia trovare nel vostro letto per quell’ora. Ah, e dica a mio fratello che lo aspetto al ristorante per la colazione” disse, e dovetti prendermi un attimo per comprendere a pieno quel fiume di parole sputate a velocità supersonica.
“Sherlock non fa colaz…”
Non ebbi il tempo di concludere la frase che la linea fu bruscamente interrotta ed io lasciai andare la cornetta abbandonandola da qualche parte sul pavimento, improvvisamente senza forze.
“Non ce la posso fare...”
Mi sfregai i palmi sul viso e potei percepirne la consistenza ruvida che avrebbe potuto tranquillamente fare invidia alla pelle di un rospo: ero sfatto, stanchissimo, mi scricchiolava ogni singola vertebra e l’ultimo pensiero che mi balenava in testa fu proprio quello di alzarmi e affrontare l’ennesima giornata a chilometri e chilometri da casa mia.
Mi voltai di lato, rannicchiandomi su un fianco, e tutta la spossatezza e l’irritazione per la telefonata a quell’ora improponibile della mattina mi scivolò via di dosso come un getto di acqua cristallina: il fioco chiarore del mattino, sui toni del grigio-rosa e del bianco, disegnava curiosi arabeschi di luci e ombre sulla sconvolgente tela di carne ed ossa che era il corpo di Sherlock, coperto fino ai fianchi col lenzuolo il cui candore si confondeva alla perfezione con quello della sua pelle, una distesa nivea ed ipnotizzante di epidermide e muscoli rilassati che si sollevavano al ritmo lento e regolare di un respiro quasi impercettibile, leggero come una piuma lasciata alle braccia della brezza primaverile.
Era disteso su un fianco, le braccia raccolte al petto e il capo lievemente reclinato in avanti di cui potei ammirare l’indomita selva di ricci color ebano abbandonati sul cuscino, le lunghissime ciglia scure sfiorare gli zigomi appuntiti e le labbra, appena dischiuse, dolcemente assopite nel loro candore roseo, mozzafiato.
Accarezzai con lo sguardo ogni centimetro a me visibile di quel corpo statuario, un Eros addormentato sulla sua nuvola di lenzuola e tranquillità, le poderose spalle come principio della linea dura e spigolosa di un costato infinito, fino ai fianchi, incredibilmente morbidi e al contempo aspri come cime innevate, lambiti dal cotone della loro stessa tinta, e poi l’addome scolpito, costellato da decine di piccoli puntini caffelatte intorno all’ombelico e vicino allo sterno, piccole isole in un mare di latte. Una visione.
Mi feci più vicino, indugiando col polpastrello del dito medio lungo l’interminabile curva del suo fianco sinistro, prima sul collo, poi sul bicipite, e ancora giù, rasente le costole e le anche, fino a intrufolarmi sotto il lenzuolo e terminare sulla coscia liscia e nerboruta, che andai ad accarezzare a pieno palmo riempiendone il vuoto con tutta la carne che riuscii ad afferrare.
Si mosse appena sotto quelle carezze impudiche, curiose, strofinando parte del viso sul guanciale e poi avvicinarsi al mio petto, contro il quale finì per raggomitolarsi come un cucciolo al ventre della madre bisognoso di calore e linfa vitale.
Feci passare un braccio oltre il suo fianco e piegai l’altro, appoggiandoci la testa, e in quella posizione lo contemplai rinsavire aprendo gli occhi, piano, seguendo con appena accennati movimenti dei fianchi i miei grattini nella zona lombare ai quali, davvero, potei giurare che cominciò a rispondere con un brontolio molto simile alle fusa.
Allargai il sorriso quando, con un solo occhio aperto, cercò il mio sguardo.
“Ciao, dottore” bofonchiò con la voce arrochita ed oscenamente sensuale anche alle sette della mattina, aderendo al mio torace e allungando un braccio dietro la mia schiena in un tiepido abbraccio fatto di pelle e stoffa morbida.
Risi appena, spostando le dita della mano sulla fronte per scostargli un boccolo indisciplinato dall’occhio che aveva richiuso.
“Ciao, meraviglia.”
Impercettibile, sì, ma c’era. Il più bello dei sorrisi storti dell’intero suo repertorio sorse spontaneo su quelle labbra che non aspettai un altro mezzo secondo in più prima di baciare, lambendone con la lingua i contorni definiti e polposi, soffermandomi in particolare sul labbro superiore che andai a succhiare. Il suono bagnato che ne risultò ebbe il potere di risvegliarmi completamente dal torpore e di darmi il coraggio per temporeggiare ulteriormente sui lembi di carne che lui stesso mi offriva, gli occhi chiusi e la bocca ben aperta e succube ai miei desideri di esplorazione, mentre con una mano mi spostavo dal mento al collo, all’ampio petto glabro e poi giù, tra le cosce che divaricò di riflesso.
“Dormito bene?” avanzai, sorridendogli maliziosamente sulle labbra.
Finalmente aprì gli occhi che mi trovarono impreparato, travolgendomi con tutta la potenza di quell’azzurro ultraterreno screziato di verde, e sollevò un sopracciglio, indirizzandomi uno sguardo perplesso.
“Dormito?”
“Sì beh,” ridacchiai, intensificando la mia carezza “quando abbiamo dormito.”
Incatenò gli occhi ai miei cominciando a reagire al mio tocco sempre più intraprendente, e si morse il labbro inferiore sforzandosi di non concedermi la soddisfazione di vederlo capitolare.
“Cosa ha detto la palla di grasso?” sussurrò, tremando appena.
“Che ti aspetta giù per la colazione.”
“Io non faccio colazione…”
“Gliel’ho detto.”
Gli scappò un lamento, piccolo, ma gli scappò, e a quel punto socchiuse gli occhi, abbandonando la testa sul cuscino, e mi offrì il collo che andai subito ad assaggiare, pezzo dopo pezzo, mentre alla mia mano giunse in soccorso la sua, non so se per fermare quel breve ma intenso “buongiorno” o se per farmi andare più veloce.
“E tu, John?” ansimò. “Tu la fai, la colazione?”
Gli addentai la mandibola sulla quale stampai l’ennesima mezzaluna, il mio marchio sul suo corpo di cui non esisteva centimetro quadrato che non ne avesse sperimentato l’ardore.
“Oh sì, e anche il brunch, il pranzo, la merenda delle quattro…”
“Mmh. Una dieta sana è importante…”
“E il tuo dottore approva. Considerevolmente.”
 














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Ma quanto mi sono divertita a scrivere questo capito?! TAAANTO *saltella istericamente battendo le mani*
Prometto di essere più seria nel prossimo. DAVVERO!
Hugs,

miss potter

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Capitolo 13
*** Chapter thirteen ***













Chapter thirteen









Tornai in camera all’orario prestabilito, camminando i punta di piedi, ed abbassai la maniglia il più lentamente possibile con addosso puntato lo sguardo turbato di una cameriera la quale, prima dileguarsi oltre le porte dell’ascensore tirandosi dietro il carrello dei panni sporchi, si affrettò a salutarmi con un vago cenno del capo con la discrezione che, probabilmente, dedicava alle migliaia di mariti in atteggiamenti decisamente ambigui che beccava trasferirsi da una stanza all’altra ogni mattina, un’imbarazzante macchia di rossetto sul collo della camicia sbottonata e la zip dei pantaloni abbassata.
Ma, chissà perché, non mi stavo sentendo parte di suddetta categoria. Forse perché non avevo nessuna macchia di rossetto sul colletto, o perché non c’era niente che non andava con la mia zip. O, forse, perché ricambiai semplicemente il saluto e non le sganciai neanche un penny per il suo silenzio.
Entrai chiudendomi la porta alle spalle, certo che, con la penombra e il post sbornia di mia moglie a mio favore, mi sarei rimesso sotto le coperte senza destare inopportune domande od osservazioni di alcun genere. Tuttavia, quando raggiunsi la camera da letto, sussultai di puro sgomento alla scena che mi si presentò davanti agli occhi e mi bloccai sul posto, i muscoli pietrificati insieme al mio respiro: Mary, seduta di spalle dalla sua parte di letto, era accarezzata dalla luce grigiastra proveniente dalla finestra di fronte, il capo scompigliato e chino su un oggetto avvolto in una grande carta colorata che teneva appoggiato sul grembo.
Il “tesoro, ti posso spiegare tutto” cominciò a crepitare come tanti piccoli tizzoni di brace ardente sulla punta della mia lingua, insieme ad una non propriamente gradevole sensazione di autentico panico nello stomaco che incenerì seduta stante le miriadi di tanto possibili quanto improbabili spiegazioni che avrei imbastito per giustificare la mia assenza. Ma entrambi i sentimenti furono rapidamente domati dalla cristallina risata della donna che avevo di fronte, con ancora addosso i vestiti della sera precedente, che, voltandosi verso di me, mi regalò uno dei più straordinari sorrisi che credo di non averle mai visto indossare prima di allora, mentre con gli occhi lucidi mi mostrava l’enorme e bellissimo mazzo di fiori che teneva tra le braccia accompagnato da un biglietto.
“Camelie(14), John…” pigolò, portandosi una mano davanti alla bocca. “Le mie preferite.”
La sopraccitata sensazione di panico si affievolì soltanto per lasciare spazio ad un ancora più devastante senso di smarrimento che mi investì in pieno con la forza di una locomotiva lanciata a massima velocità sui dei binari immaginari.
Era come se mi fossi preso una potente ubriacatura, ma di quelle atomiche, che ti stendono per tutto il giorno e anche quello successivo facendoti desiderare niente più che una dormita di ventiquattro ore consecutive o direttamente il colpo di grazia, e subito dopo mi fossi fatto in vena di qualcosa di molto, molto pesante perché la testa cominciò a girarmi come una trottola, il cervello a pulsare come la pallina impazzita di un flipper sballottata sulle pareti del cranio e, dietro le palpebre, qualche inopportuna macchiolina allucinogena ad offuscarmi la visuale.
Mi avvicinai, cauto, massaggiandomi una tempia e cercando di non rovinare per terra in tutta la durata dell’operazione, e con un tonfo mi sedetti di fianco a lei, lei che non aveva mai staccato gli occhi dai miei, lei che era la felicità fatta persona, adesso, contagiosa come il peggiore dei morbi o il migliore dei sogni da cui non ci si vorrebbe mai ridestare.
Sbirciai il biglietto, piuttosto semplice ed innocuo ad un primo esame in effetti, tanto inoffensivo quanto un “Con tutto il mio affetto. Per Mary” a caratteri cubitali e la mia firma poco più in basso potrebbero essere, un’eccellente imitazione della mia calligrafia, tanto perfetta che avrebbe potuto tranquillamente ingannare anche mia madre al tempo delle giustificazioni falsificate delle assenze scolastiche.
Ampliai il sorriso, uno di quelli piuttosto amari dell’intero mio repertorio, ma tremendamente sincero.
“Grazie” sussurrò mia moglie, poggiando poi le labbra sulle mie in un pallido bacio, leggero come i vaporosi petali color rosa pastello di quei fiori che stavano già zuccherando tutta la stanza del loro profumo freschissimo.
“Ma figurati” risposi, cercando per quanto possibile di stare al gioco e di non detestarmi più di quanto non fosse già necessario. Più che necessario.
In quel preciso istante, pensai che la cosa migliore da fare fosse, ecco… abbracciarla, stringerla a me con tutto il calore che, da quella stessa notte, mi era rimasto a disposizione nelle braccia e nel petto, con tutta la forza, con tutto quell’avanzo d’amore fuori misura che stavo compensando a suon di menzogne e imbottiture posticce per un cuore spinto qua e là con troppa violenza, troppo a lungo, che non era ancora pronto a sbocciare la sua verità, troppo ardente per la sua natura delicata e sostanzialmente frivola spaccata in due parti tanto uguali da far quasi pietà, sempre troppo inadeguato nascosto nella sua impeccabile confezione di carne e sorrisi spenti.
“Come l’hai capito?” mi chiese ad un certo punto, lo sguardo incuriosito indirizzato alla mia espressione assorta.
“Capito cosa?”
“Delle camelie.”
“Oh. Beh… l’ho dedotto.”
La sua curiosità lasciò improvvisamente il posto ad uno spesso ed imbarazzante alone di perplessità, tanto che mi fece dare mentalmente dello stupido per l’ennesima volta. Ma, d’altra parte, tempo addietro le avevo detto di essere appassionato di teatro e non potevo certo essere da meno a quella farsa, l’ennesima battaglia senza vincitori né vinti. Solo sangue da entrambe le parti.
“Dedotto” mi fece eco, sollevando un sopracciglio.
“Sì. Ho osservato e… ipotizzato che la camelia fosse il tuo fiore preferito.”
“E… che cosa avresti osservato di preciso?”
Già. Chissà che cosa. Perché io di quella donna non sapevo niente, se non la strana abitudine di lasciare i flaconi di profumo aperti sulla mensola sopra al lavandino in bagno, rovesciandone puntualmente il contenuto ovunque, le principali abitudini alimentari, la sua passione per i libri e i cani di taglia piccola, qualche sogno nel cassetto e il suo ciclo mestruale. Niente di più noioso, insomma. Niente di più noioso dei fiori e di tutte quelle logoranti ciarle.
“Niente di che. Quando sono arrivati, Mary?” domandai, affrettandomi a cambiare discorso.
“Li ha portati un facchino, poco prima delle otto.”
“Prima delle otto?”
“Sì. Ma tranquillo, ero già sveglia.”
“Eri già sveglia?!”
Oddio, pensai, sono rovinato. E per giunta molto, molto intenzionato a tirare il collo ad un certo fratello Holmes! Quello meno carino… e più inquietante.
“Già. Verso le sette e quaranta ha telefonato in camera un certo… Mike. O Mick, non ricordo… Aveva un nome strano!”
“Mycroft…?”
“Lui!” esclamò allargando il sorriso e facendo ondeggiare il fiocco bianco del bouquet. “Ha detto di essere un tuo amico e che non dovevo preoccuparmi se non c’eri perché eri dal fioraio.”
“Mycroft, mio amico? Dal fioraio?!”
“John, tesoro, sei sordo per caso?”
In quel momento, elaborai circa una decina tra torture, sevizie e interessanti metodi di occultamento di cadavere, in parte appresi al fronte, da mettere in atto sul corpo del maggiore tra i miei due peggiori incubi.
“Il mio udito non ha niente che non va!”
Trovai particolarmente allettante il trucchetto del panno sulla faccia, inzuppato per rendere difficoltosa la respirazione…
“Comunque, date le circostante, credo di poterti perdonare” ammiccò Mary, accarezzandomi un braccio.
O forse era meglio lo schiacciapollici? No, troppo medievale…
“E, senti… Mycroft ti ha detto qualcos’altro di interessante?”
“A parte che stasera siamo invitati a cena al ristorante dell’albergo e che vuole presentarmi suo fratello?”
A pensarci bene, lo schiacciapollici sarebbe andato benissimo.

Quella mattina e lo stesso pomeriggio passarono molto più velocemente di quanto temessi.
Io e Mary, dopo colazione, uscimmo per visitare un paio di musei e la zona degli affari della città, molto grande e piuttosto caotica, dove edifici bancari ed infiniti grattacieli si stagliavano verso il cielo con le loro lunghe dita d’acciaio e vetro creando un’impressionante selva d’architettura contemporanea che mi ricordò moltissimo quella della City, a casa.
Già, casa. Quanto mi stava mancando…

Quello psicotico di tuo fratello ci ha invitati a cena, questa sera. In albergo. Ne sei al corrente? JW

Visto che Mary, determinata a trovare qualcosa di carino per l’occasione, era intenta a destreggiarsi nella folla di manichini di un negozio d’abbigliamento e dato che voleva propormi un maglione decisamente eccessivo anche per i miei gusti, e soprattutto per le mie tasche, decisi di aspettarla fuori, scampando così all’infausto triangolo marito, moglie e shopping, e di approfittare del momento per render nota la notizia all’indiretto interessato, il quale rispose con la consueta e fulminea velocità.

Della sua dubbia integrità mentale o della cena? Sì a entrambe le cose, comunque. SH

Non si rende conto dell’ovvia inopportunità della cosa, a quanto pare. JW

Ti vergogni di me, dottore? SH

Certo che no. Però, sai, essendo tu il mio amante, nonché ex paziente, nonché collaboratore e fratello dei servizi segreti inglesi non credo che sia propriamente una buona cosa da fare nei confronti di Mary. JW

Cancella quest’ultimo messaggio. SH

Sherlock! JW

Non per farti sentire in colpa più di quanto già non ti sentirai, ma credo che sulla questione “buone cose nei confronti di Mary” tu e mio fratello vi stiate seriamente giocando il primo posto, al momento. SH

Come psicologo sei un diastro, lasciatelo dire. JW

Gli psicologi sono noiosi. I consulenti detective sono MOLTO più sexy. SH

Smettila. JW

Di fare cosa? SH

Di sorvolare sulla questione. JW

John, smetteresti di fare sesso con me se questa cena non si facesse? SH

Cristo… JW

Che c’è adesso? SH

Potresti formulare la domanda in modo più delicato? I miei nervi potrebbero non reggere. JW

John, smetteresti di venire a letto con me se questa cena non si facesse? SH

Sei impossibile. JW

John, smetteresti di copulare con me se questa cena non si facesse? SH
Ti avverto, sto finendo i sinonimi. SH

OK, credo di aver afferrato il concetto. La ringrazio per il suo aiuto, dottor Freud… JW

Sono contrario quanto te, credimi. Probabilmente Mycroft ti ha rifilato la scusa delle presentazioni tra me e tua moglie perché in realtà è lui quello che vuole conoscerla. SH

Lui vuole conoscere Mary? JW

Ne ignoro i motivi. Ma posso fare uno sforzo di immaginazione neanche tanto impegnativo. SH

Venerdì  torniamo a Londra. Penso di riuscire a reggere un Holmes per altri tre miseri giorni dopo aver sopportato l’altro per più di sei mesi. JW

Sopportato è una parola grossa. Ammetti che ti è piaciuto, starmi dietro. SH

Starti dietro è il mio mestiere. JW
Oddio, perché suona così ambiguo?! JW

Hai fatto tutto da solo, John. Accudire, se preferisci. SH

Badare è perfetto. JW

Detesto le babysitter. Ne ho fatte scappare una decina, da bambino, e ho dato fuoco ai capelli dell’ultima. SH

Che cosa hai fatto?! JW

Aveva un caschetto orrendo! SH

Che peste. Povera tua madre. JW

Da quando ha ingaggiato Mycroft come bambinaia ho maturato una speciale avversione verso di lui e verso tutte le persone che tentano di prendersi cura di me. SH

Io mi sono preso cura di te. JW

Tu sei la mia eccezione. SH

Quasi non mi accorsi di Mary che, uscita dal negozio carica di borse, si stava avvicinando, preso com’ero dalla contemplazione di quella frase nello schermo che agì da perfetto catalizzatore per una spaventosa irrorazione di sangue alle mie guance.
“Tu sei la mia eccezione” ripetei sottovoce, la gola tutt’a un tratto secca e il battito decisamente accelerato.
“Hai detto qualcosa, tesoro?” cinguettò mia moglie trotterellandomi di fianco.
“Ehm, nulla!” esclamai infilandomi velocemente in tasca il cellulare, e le circondai le spalle con un braccio. “Nulla. Cos’hai comprato di bello?”
Mary mi sorrise e cominciò a mostrarmi diversi pacchetti, contenenti stoffe colorate e pelletteria varia mentre ricambiavo con freddezza quella solarità e distrattamente annuivo, la mente lontana, inzuppata di quelle parole così poco da Sherlock ma così tanto da noi, John e Sherlock, Sherlock e John, le due eccezioni che confermarono l’esistenza delle anime gemelle ricamate insieme dalla mitica Aracne, secoli e secoli prima, condannata alla sofferenza di una forma non sua da una divinità meschina ed invidiosa.
Mentre mia moglie questionava sui prezzi effettivamente troppo alti delle cose che aveva comprato e sul fatto che probabilmente le avrebbe trovate in Inghilterra alla metà, sbirciai un’ultima volta il display e mi lasciai andare ad un rassegnato sospiro:

Questo non significa che un giorno non condurrò esperimenti pirici sui tuoi capelli. SH
Alle otto, soldato. SH

 
E alle otto ci presentammo, dopo aver aspettato mezz’ora prima che Mary decidesse quale paio di orecchini indossare e un altro quarto d’ora buono per le scarpe.
“Sei perfetta, smettila di preoccuparti” la ripresi quando in ascensore continuava a lisciarsi l’abito o a sistemarsi i capelli, graziosamente raccolti a coda di cavallo.
“Non sono preoccupata. Solo che ci tengo a farti fare una bella figura coi tuoi amici.”
Il rumore di campanello che annunciò il nostro arrivo al pianoterra ebbe per me lo stesso effetto di un pugno nello stomaco, insieme a quella frase che si andò ad aggiungere all’infinito elenco degli altri più che validi motivi per cui avrei dovuto cercare la buca più profonda del pianeta Terra, scavare ancora e seppellirmici dentro per il resto della mia grama esistenza. E quasi non ebbi il coraggio di mettere piedi fuori dalle porte automatiche quando si aprirono lentamente con un solenne fruscio metallico, le dita della mano di Mary che si andarono ad intrecciare alle mie in un gesto di maldestra complicità.
Chi dei due fosse più teso, beh… neanche il più abile degli osservatori avrebbe potuto dirlo con assoluta sicurezza. Certo era che se non fosse stato per mia moglie probabilmente avrei pigiato di nuovo il bottone del nostro piano e avrei fatto le valige, tornandomene in patria con la coda tra le gambe.
“Non potresti mai farmi fare brutta figura” le sorrisi, baciandole il dorso della mano che strinsi forte nella mia prima di fare il nostro ingresso nel salone.
Ci accolse un abbagliante turbinio di luci e lustrini generato da poderosi e lussuosissimi grappoli di cristallo appesi all’alto soffitto, riversanti tutto il loro argenteo incanto sulle posate e i bicchieri che imbandivano le varie tavolate insieme alle sontuose tovaglie e alle sedie, ricoperte con un drappo color perla che terminava in un grosso fiocco sulla parte posteriore dello schienale. La sala e il bancone del bar vicino erano modestamente affollati, la maggior parte dei tavoli occupata e qualche cameriere d’untuoso aspetto gironzolava in frac e grembiule con mento e vassoi all’aria.
Mi sembrò di venire catapultato in una di quelle vecchie pellicole in bianco e nero dove il protagonista, un altero e facoltoso giovanotto alto borghese, aspetta la sua bella in abito nero e bocchino seduto ad un tavolo, mentre con disinvoltura solleva una mano inguantata ed ordina ostriche e champagne mentre con l’altra si arriccia i baffi incerati.
Solo che disinvolto, io, non lo ero affatto, tantomeno inguantato o facoltoso. Terrorizzato era la parola più opportuna, credo, abituato com’ero alla vita frugale e ad ogni tipo di scomodità a cui è destinato un medico militare anche dopo il congedo.
In verità, non mi ero mai sentito particolarmente a mio agio in mezzo a persone sfacciatamente abbienti e in luoghi suppuranti lusso da ogni anfratto come quella sala d’albergo, la netta sensazione di non avere nessuna ragione valida per trattenersi un secondo di più e gli occhi critici di mezzo ristorante puntati addosso. E non per questione di complessi d’inferiorità o stupidaggini psicologiche simili. Piuttosto perché, forse, non avrei avuto nulla di che discutere con tutti quegli sconosciuti evidentemente annoiati della vita e dai troppi quattrini, viziati dalla fortuna e sfregiati dall’arroganza, sempre troppo occupati o troppo poco attratti dalla vita vera, quella là fuori, dove la gente si alza ogni giorno e non sa se il frutto del lavoro di quella giornata basterà per arrivare a fine settimana, per pagare affitto, mutuo, spesa e qualche piccolo, meritato sfizio. E John Watson era così, è così e così sempre sarà, semplice e nobile di cuore prima che di sangue, ricco di pazienza prima che di portafoglio, qualità di cui, sì, posso vantarmi perché mi hanno portato, allora, a ciò che oggi sono e alle persone che, adesso, mi stanno vicino e alle scelte di cui mai mi pentirò.
Per questo scacciai dalla mente tutte quelle inutili paranoie come noiose mosche in una afosa giornata estiva e, a testa alta, affrontai la folla mano nella mano con Mary, probabilmente ancor più sconvolta di me, facendo il mio trionfale ingresso in completo color lavagna e cravatta gialla con un ampio sorriso sulle labbra.
Mi guardai attorno per qualche istante prima di riuscire ad intravedere il capo lucido di brillantina di Mycroft, girato di spalle, e il volto bonario dell’ispettore Lestrade seduti ad un tavolo tondo poco distante che conversavano seriosamente, in mano una coppa di quello che immaginai fosse Dom Pérignon la cui bottiglia giaceva inclinata nel suo letto di ghiaccio in un secchio posato su un carrellino vicino. L’Inghilterra era davvero lontana.
Dovetti agitare un po’ un braccio per farmi notare dai due: Lestrade mi adocchiò quasi subito e mi sorrise con sincero entusiasmo facendo cenno di avvicinarci, mentre il signor Holmes si voltò appena portandosi il bicchiere alle labbra in un’irritante espressione tra l’annoiato e il superbo che fece da bollettino meteorologico per un’ottima serata di bufera. O per il mio definitivo deperimento nervoso.
“Buonasera, signori” miagolò questi quando li raggiungemmo, appoggiando il calice per alzarsi e rivolgere a mia moglie un sorriso che avrebbe potuto seriamente fare invidia allo Stregatto di Carroll. “Signora Watson…”
“Oh, la prego. Mi chiami Mary. Lei deve essere…”
“Holmes. Mycroft Holmes. La sua voce è ancora più deliziosa dal vivo, così come la sua bellezza” disse Mycroft, esibendosi in uno stomachevolmente britannico baciamano che fece arrossire Mary e raccapricciare il sottoscritto.
“È davvero un piacere conoscerla, signor Holmes” sorrise Mary, rivolgendomi poi uno sguardo semplicemente estasiato. “Non è galante, tesoro?”
Scrutai il maggiore degli Holmes con tutto il biasimo che riuscii a racimolare, biasimo che, tanto per non perdere l’abitudine, si andò ad infrangere sul quel dannatissimo muro di denti perfetti e apatia frantumandosi come porcellana cinese sbattuta con forza sul duro cemento armato, ancora una volta.
“Sono commosso.”
“Suvvia, dottore. Non capita tutti i giorni di avere il piacere di conoscere la moglie di un vecchio amico” ammiccò dandomi una pacca sulla spalla, e ci invitò a prendere posto volgendosi poi ancora una volta verso Mary indicandole l’uomo al suo fianco. “Conoscerà già l’ispettore Gregory Lestrade, presumo.”
“Oh sì, ed è stato davvero gentile a darci uno strappo dall’aeroporto all’albergo” rispose mia moglie.
“Sciocchezze” disse Lestrade in un’alzata di spalle. “Questo ed altro per un reduce dell’esercito di Sua Maestà e la sua famiglia.”
“Davvero straordinario,” intervenni, sfiorando in punta di polpastrelli l’infinita ed imbarazzante serie di forchette e coltelli disposti in perfetta simmetria ai tre lati del piatto “e curioso, anche. Perché ero convinto di aver prenotato in un tre stelle appena fuori dal centro e, invece, eccoci qui. Champagne, argenteria francese e papillon ovunque si posi lo sguardo.”
La cristallina risata di Mary fece da preambolo a quella più mesta dell’ispettore, mentre Mycroft Holmes rimase trincerato dietro alla sua abituale maschera di gesso e ipocrisia senza alterare il saldo ed impenetrabile permafrost del suo sorriso, malinconico ed affaticato dal peso dell’abitudine alla simulazione, al quale io risposi con una quasi impercettibile scrollata del capo.
“A chi ha sofferto è giusto che, prima o poi, venga riconosciuto il legittimo compenso. E tu hai sofferto molto, John, ed è giusto che ti venga dato ciò che meriti. E che vuoi.”
“E cosa voglio, Mycroft?”
Sembrò aprire bocca per replicare ma, a giudicare dal repentino spostamento del suo sguardo dai miei occhi a qualcosa di evidentemente più interessante alle mie spalle, potei facilmente dedurre che quell’ennesimo sorriso sibillino, e anche un po’ malizioso, potesse bastarmi più di qualsiasi risposta.
Non fu necessario per me voltare del tutto il busto per riconoscere la mano che si andò a posare con la leggiadria di un uccellino che torna al proprio nido sulla mia spalla, l’ampio palmo premuto delicatamente contro la scapola. Mi bastò infatti reclinare un poco il capo e così salutare con la coda dell’occhio quelle dita affusolate da violinista e impetuoso amante che in quel momento avrei tanto voluto sentire a contatto con la mia pelle, sotto la giacca e la camicia, via da quella sala, da tutta quella gente, sentire accarezzarla, pizzicarla, graffiarla, firmarla con l’inchiostro del proprio dominio su di un’anima che reclamava a gran voce la gemella.
“Signora Watson, posso presentarle mio fratello, Sherlock Holmes?”
Mary rivolse al detective uno di quei sorrisi gentili e terribilmente spontanei che, da donna sostanzialmente buona ed incline ai rapporti umani, riservava a tutti quelli che prima o poi, nel bene e nel male, avrebbero fatto parte della sua vita.
Allungò una mano verso Sherlock il quale, prima di sedersi, ricambiò il gesto accompagnandolo da un debole cenno del capo, abbassandolo garbatamente a mo’ di inchino. Dopotutto, era sempre un Holmes.
“Salve. Mi chiamo…”
“Mary Morstan. Lo so.”
E come tale, un Holmes non poteva certo esimersi dal mettere in imbarazzo la gente.
Si sedette al mio fianco senza neanche salutare né suo fratello né l’ispettore Lestrade che intanto si era versato un altro generoso bicchiere di Champagne.
“È molto più famosa di quanto crede, signora Watson” rattoppò Mycroft, alzando poi una mano per chiamare il cameriere che arrivò tempestivamente accompagnato dai menu e da tutta la sua boria francofona.
“Dovrei sentirmi onorata per questo?” rise nervosamente Mary, il disagio fatto persona.
“Lei cosa dice?”
“Beh, dipende dalle motivazioni per tale notorietà.”
“Mi sta chiedendo la natura della sua reputazione?”
“Lei cosa dice?”
Il leggero colpo di tosse che a quel punto ritenni necessario simulare rammendò l’inquietante silenzio che si stava man mano ergendo come un muro d’invalicabile incomunicabilità tra le nostre persone, ognuna molto impegnata a farsi letteralmente i fatti propri: l’ispettore, assorto nella contemplazione delle bollicine danzanti nel proprio bicchiere sempre troppo pieno, Mycroft in quella del volto di Mary per la quale l’aggettivo “turbata” sarebbe scaduto nell’eufemismo, Sherlock piuttosto preso dallo sbriciolamento del tappo di sughero con la forchetta da dolce, e poi… beh, e poi c’ero io. Quello che non ci stava capendo nulla ma, forse, l’unico ad essere davvero consapevole dell’incredibile presa in giro che si stava rivelando quella cena, se di cena si potesse parlare visto e considerato che Mycroft aveva poi ordinato strane cose francesi con nomi imbarazzanti e un olezzo non particolarmente invitante di cui io e mia moglie non toccammo quasi nulla, imitati dal resto della compagnia. In effetti fu piuttosto costruttiva, come serata: Lestrade fece fuori due bottiglie di vino, Sherlock i relativi tappi e Mycroft, tra un pugno di caviale e qualche foglia d’insalata, non poté sottrarsi da fare il terzo grado a Mary che, ormai, sopravviveva di monosillabi e stiracchiati sorrisi.
Fu solo al momento del dolce che mia moglie e Sherlock riuscirono a scambiarsi qualche parola, dato che Mycroft sembrava particolarmente concentrato sul suo rettangolo di meringata al cioccolato e dunque non più così propenso ad aprire bocca se non per masticare.
“Ma mi dica, signor Holmes. Che lavoro fa?” chiese Mary al detective.
“Collaboro con Scotland Yard quando la polizia brancola nel buio. Il che succede quasi sempre” disse con fare annoiato raccogliendo i miseri resti di sughero nel piatto, rimasto vuoto per tutta la serata.
L’ispettore Lestrade si limitò a sorridere e a scuotere il capo, lo sguardo lucido perso nel fondo del bicchiere stranamente vuoto davanti a sé. L’avevano appena insultato ma a quanto pare, anche se non avesse bevuto così tanto, non era tipo da prendersela per certe cose, soprattutto se provenienti dalla bocca di Sherlock Holmes. O lo si odia o lo si adora. O si impara a sorvolare su certe affermazioni o direttamente lo si strozza.
“Oh, dunque è un detective” esclamò Mary incuriosita.
“Consulente detective.”
“Non pensavo che ne esistessero.”
“Infatti l’ho inventata io questa professione.”
“Deve essere interessante.”
“Sicuramente molto più stimolante di quella del libraio.”
Dalla voce del mio compagno, oltre che alla sua universalmente nota insofferenza mescolata ad una buona ed altrettanto risaputa dose di arroganza, traspariva anche una certa sfumatura di malinconia che, ovviamente, colsi al volo. Per questo non mi scomposi più di tanto a quella provocazione gratuita nei confronti di mia moglie, la quale semplicemente impietrì di fronte a quello sguardo grigiazzurro, raggelato e raggelante, costantemente distolto dal suo, quasi avesse il timore di leggerci dentro tutti i suoi fantasmi e peccati.
“Basta parlare di lavoro” m’intromisi, prendendo la mano di Mary. “Tesoro, gradisci il dolce?”
“John, gli hai detto del mio lavoro?” mi domandò ritraendo la mano, il volto impallidito e un’espressione al limite della mortificazione.
“Io...”
“Non è stato necessario,” intervenne Sherlock “e neppure così difficile da dedurre.”
“Dedurre?”
Il detective alzò lo sguardo al soffitto e sospirò, assumendo quell’atteggiamento che conoscevo più che bene, da maestrina in procinto di tenere la sua interessantissima lezione su quanto le persone siano indicibilmente mediocri ed assolutamente indegne della sua considerazione.
“Ha una cultura generale piuttosto vasta a giudicare dagli argomenti affrontati stasera, quindi è una che legge, spesso, sicuramente anche perché costretta per motivi di lavoro. I piccoli tagli sul pollice e l’indice della sua mano destra, oltre a dirmi che è destrorsa, denotano una certa frequenza nel maneggiare libri, dettaglio che facilmente si potrebbe confondere con l’abitudine di lavorare con molta carta di qualsiasi segretaria o addetta alla burocrazia, se non fosse per il fatto che non potrebbe fare né l’una né l’altra professione per la semplice ragione che è già tanto che si possa permettere un viaggio di nozze in un albergo di periferia, aiutata da un marito con un impiego di subalterno in uno squallido ambulatorio medico, non proprio il primario di un grande ospedale dunque…”
Il classico calcio sotto il tavolo partì spontaneo, e badai di utilizzare la gamba buona, quella più forte, affinché facesse più male. Non batté ciglio. Piuttosto mi trafisse con uno sguardo ai limiti dello spietato, svuotato di tutto il calore che soleva darmi il benvenuto ogni qualvolta mi soffermassi a guardarlo negli occhi. E fu come una secchiata d’acqua gelata, inspiegabile tortura e pugnalata alle spalle tutto in una volta a cui non seppi come reagire, svuotato anch’io da qualsiasi motivazione per fare qualsiasi cosa che non fosse fissarlo e con gli occhi chiedergli pietà per quella donna, lei, così fragile e così ignorante di tutto, di lui, di noi, innocente come un candido agnellino spedito al macello.
Persino Mycroft adesso ci guardava, distante, un pezzo di meringata infilzata nella forchetta tenuta a mezz’aria, lo sguardo di ghiaccio saettante dal volto contratto del fratello al mio, semplicemente paralizzato dalla vergogna per me stesso, ed infine a quello di mia moglie, una maschera d’afflizione.
Di nuovo quel silenzio tombale ricadde pesante sul tavolo, almeno fino a che Mary, arricciando le labbra sottili come ogni volta prima di scoppiare in uno dei suoi ormai più che frequenti pianti disperati, rivolse a Sherlock le sue ultime parole prima di alzarsi e congedarci.
“È davvero notevole, signor Holmes, la sua capacità di leggere le persone senza neanche conoscerle, giudicarle… Ma sinceramente non vedo il motivo per cui io e lei dovremmo continuare questa conversazione dato che è palese che io non le piaccia non avendomi rivolto la parola per tutta la sera ed uscendosene adesso con questo mirabile exploit. E non serve certo essere lei per dedurlo, questo.”
Detto ciò, gettò il tovagliolo che teneva appoggiato al grembo sul tavolo, ringraziò Mycroft per la cena e poi si allontanò, sparendo oltre la porta del ristorante senza rivolgermi nemmeno uno sguardo.
Mi sentii morire, letteralmente. Sapevo che sarebbe stata una pessima idea permettere che si incontrassero, e mi rimproverai per aver accettato anche solo di provare a vedere come andava, uno stolto che chiude in una gabbia un gatto selvatico con un pastore tedesco, sedendosi e stando a guardare cosa succede.
Guardai Sherlock come solo si potrebbe guardare un bicchiere rotto sul pavimento di cui non si osa raccogliere i frammenti per timore di tagliarsi. Ma ormai ci stavo facendo il callo, a quelle cicatrici, dunque cosa avrebbe mai potuto significare un altro sfregio? Solo la riconferma, per me, che sbagliando non si impara un cazzo.
“Complimenti. Complimenti davvero, Sherlock” dissi solamente, e anch’io mi alzai abbandonando la comitiva, senza però ringraziare nessuno, anzi rivolgendo a Mycroft la più amareggiata delle occhiate.
Non c’era niente per cui avrei potuto, dovuto ringraziare, nessuno a cui essere grato se non a me stesso per essermi scavato la fossa da solo e aver poi affidato la pala ad un becchino che gioca a fare l’investigatore per ricomprimi di sensi di colpa e piantarmi nel cuore il fiore del suo amore di plastica.

“Mary?”
Raggiunsi mia moglie in camera nostra dove la trovai distesa sul letto a singhiozzare, e mi ricordò tanto una delle adolescenti di quegli stupidi telefilm americani, quelli che gli stessi adolescenti si guardano al pomeriggio come fossero il foglietto illustrativo di come affrontare le relazioni sentimentali, abbandonata sul letto della propria cameretta in lacrime per l’ultimo stronzo che l’ha piantata in asso.
E, beh, nella vita vera lo stronzo si avvicina ma non fa niente di sentimentalmente prevedibile, come sedersi sul letto, accarezzarle la schiena e dire che va tutto bene. Perché non andava tutto bene, e lo stronzo non era un adolescente ma un uomo di quasi quarant’anni con un peso non da poco sulla coscienza, una moglie, neanche lei più così teenager, che stupida lo era fino a un certo punto, e il pettine cominciava ad incontrare tutti i nodi che io, lo stronzo in questione, ancora mi stavo illudendo di sciogliere. Non c’era spazio per essere sentimentali, per le cose che i giovani fanno tipo chiedersi scusa per poi fare l’amore tutta la notte. Ero cenere.
“Mary.”
“Lasciami sola, John” gemette, la faccia affondata nel cuscino umido di lacrime.
“Devi perdonarlo, Sherlock… è così. Non sa starsene zitto.”
“Oh, ma tu lo sai fare benissimo invece!” urlò, mettendosi seduta. “Startene zitto…”
“Cosa?”
“John, io ti stavo aspettando. Stavo aspettando che tu mi difendessi, che gli domandassi come diavolo si permetteva di dire quelle cose, di mettermi in imbarazzo… Tua moglie! Hai lasciato che mi umiliasse, davanti a tutti. Anche davanti a te.”
Sì, l’avevo permesso. Non avevo detto niente, non avevo fatto niente, come ogni volta succedeva con Sherlock. L’avevo lasciata da sola, io, suo marito, il suo carnefice.
Mi sentivo morire. Volevo affondare, in quegli occhi, e farne riemergere un affetto che stavo guardando sbiadire dietro le quinte delle mie convinzioni, una tra tutte quella che fossi un ottimo attore. Ma mi sbagliavo.
“Non è come sembra.”
“E com’è, John? Com’è?”
Non potevo sopportare oltre quello sguardo addosso, congestionato dal dolore e traboccante di domande senza una giusta risposta, non quella che si aspettava comunque.
Gettai il mio a terra e sospirai, perché neanche io sapevo come dirglielo, com’era. Sapevo solo che il capolinea si stava avvicinando e che mi ero allontanato troppo da casa.
“Io… io ho bisogno di un po’ d’aria” esalai, portandomi una mano tra i capelli.
“Lo credo anch’io.”
La guardai alzarsi da letto e sedersi davanti alla specchiera, cominciando a togliersi gli orecchini e a trafficare con i vari prodotti struccanti. Quando cercai ancora uno sguardo che però mi vidi negare, presi la giacca e di nuovo la porta, sulla soglia della quale mi fermai un attimo senza osare voltarmi prima di lasciarmela alle spalle, le guance macchiate di mascara e delusione.
“Non aspettarmi alzata.”
“Non ti preoccupare. Ci sto facendo l’abitudine, a non aspettarti più.”

Camminai per ore, quella notte, e ad un tratto m ritrovai a pensare alla mia strana ossessione per le parole crociate.
Nell’enigmistica uno ci perde la testa, sapete? Compri un giornale, lo leggi, e poi ti accorgi che le ultime pagine sono dedicate ai vari sudoku e alle parole crociate, quando va bene. Perché a volte pubblicano solo quelle tremende freddure in puro stile inglese che sinceramente ti strappano di dosso la voglia di stare al mondo, o le solite raccapriccianti pubblicità degli aspirapolvere.
Ma, tornando alle parole crociate, inizia come una piccola sfida, che ne so… mentre sei in metropolitana, o in coda alle casse automatiche del supermercato. Poi, diventa abitudine, e dopo ancora una piccola mania, sfociando infine nella più divorante delle assuefazioni. È disarmante quando non si riesce a completare uno schema, quando ti manca sempre quella bastardissima manciata di lettere per cui non trovi l’incastro giusto. O di numeri, se preferite la matematica.
È mancanza, la dipendenza. Mancanza e costante ricerca di una soluzione che molto probabilmente non troverai mai, non se continui a rimuginarci giorno e notte. Perché è così che funziona con gli enigmi, con qualsiasi enigma: più ci rifletti, più ti ci scervelli sopra, meno sembra sbrogliarsi.
Per questo amo le passeggiate, anche notturne, all’aria aperta in una grande città. Sei circondato di persone, perplesse come te, di auto di fretta a qualsiasi ora del giorno, di edifici su cui si specchia la tua espressione oberata di problemi e rughe sulla fronte per il tanto riflettere ed interrogarsi. È rinfrescante, sia per il corpo che per la mente, passeggiare e inspirare ossigeno e un po’  di sano smog. Ti riporta indietro alla realtà e, sapete che succede? Che quella parola, o quell’operazione aritmetica, ti rincorre, saltandoti addosso come la più illuminante delle rivelazioni, implorando di tornare indietro sui tuoi passi.
Per questo non ci si deve spaventare se capita di doversi imbattere in strani individui che nei posti più impensati, quando meno ce l’aspettiamo, saltano su dal nulla urlando “Bolena! La Anna che perse la testa per un Enrico è Bolena!”.
Tutto questo per dire che mi ritrovai a pensare alle parole crociate, mentre camminavo nel buio di una strada sconosciuta, ferito da qualche sporadico lampione o dalla scritta di un solitario nightclub, le mani sprofondate nelle tasche. E lo vidi.
Un uomo, vestito con un giubbotto in pelle nera e un paio di jeans scuri, piuttosto alto e robusto, i capelli corti di un biondo quasi diafano che risplendevano come spighe di grano alla luce bianca di un distributore automatico di preservativi, giusto in fondo al vicolo in cui mi ritrovai senza sapere perché le mie gambe mi ci avessero condotto.
Cosa c’entrano le parole crociate, qui? Niente. Nessuna illuminazione o rivelazione in particolare. Me la stavo semplicemente facendo sotto e questo è quanto.
L’uomo fumava e, quando mi notò, gettò il mozzicone a terra calpestandolo con la suola di uno degli anfibi che indossava, un modello a me vagamente familiare, molto simile a uno di quelli che ci passava l’esercito insieme alla divisa e alle solite raccomandazioni di portare onore alla patria.
Mi resi conto di essermi immobilizzato proprio all’imboccatura della strettoia, davanti a me lo sconosciuto che cominciò ad avanzare con passo lento ma deciso, e dietro una più che possibile via di fuga verso la strada principale, popolata di macchine e passanti.
Questo è il vantaggio delle grandi città: avere una seconda possibilità e scegliere sempre quella meno vantaggiosa per la tua incolumità.
L’acre odore di fumo mi pizzicò le narici assieme ad un aroma anonimo. Forse benzina, o qualche strano miscuglio alcolico. Non mi piaceva per niente.
“Non scappa?” mormorò l’estraneo a pochi metri da me in un mezzo sorriso, e si accese un’altra sigaretta.
Accento ed atteggiamento tipicamente britannici. Stomachevole.
“Dovrei averne il motivo?”
Usò uno di quegli accendini placcati con lo sportellino, quelli massicci che si chiudono a scatto producendo un inquietante rumore metallico. La carta della sigaretta si bruciò in fretta, all’estremità, per via del profondo respiro che l’uomo prese inalando quanto più fumo possibile per poi soffiarmelo direttamente in faccia, investendomi con un’ondata di olezzo agrodolce e decisamente fastidioso. Doveva esserci tagliata altra roba, lì dentro, assieme al semplice tabacco.
“Non ha paura che possa derubarla o infilarle qualche ago nel collo?”
“L’avrebbe già fatto. E poi non ho niente a cui uno che possiede un accendino come quello potrebbe essere lontanamente interessato.”
L’uomo rise, sinceramente divertito da quelle mie parole, e si fece un altro tiro prima di rispondere, uno strano scintillio negli occhi verde petrolio, puntati sui miei come quelli di un bracco a caccia mentre avvista la preda.
“È coraggioso, glielo concedo. E sveglio. Mi chiedo da chi abbia imparato.”
“Talvolta il coraggio è solo sinonimo di stupidità.”
“Così si dice. Io credo invece che coraggio, intelligenza e sì, perché no, anche un pizzico di follia siano il cocktail perfetto per fare l’uomo perfetto. Non crede anche lei?”
Non so se per l’improvvisa sferzata di vento gelido o se per quello sguardo, altrettanto pungente, rabbrividii. Non mi ispirava niente di buono, quella persona, e per me avrebbe potuto benissimo essere un qualsiasi drogato in cerca di soldi per una dose che non si poteva permettere o il peggior criminale del ventunesimo secolo che, pensai, non me ne poteva importare di meno.
Che diavolo stavo facendo? Ah sì, mi stavo cacciando nei guai, ancora. E in quel momento avrei tanto voluto che la mia gamba facesse un po’ più male.
“Quello che credo, gentile signore, è che sia molto tardi e che è stato davvero un piacere parlare con lei di aghi, persone che fanno cose stupide e cocktail, ma adesso devo proprio tornare in albergo” dissi, e feci per voltarmi.
“Così presto? Ma abbiamo appena iniziato.”
Pronunciò queste parole lentamente, poco più che un sussurro, mentre altrettanto lentamente si avvicinava portandosi alle mie spalle, bloccandomi così l’unica via di fuga possibile.
“Senti,” sospirai, decisamente sotto pressione “dimmi cosa vuoi e finiamola qui.”
“Il problema non è cosa voglio io. Il problema è cosa vuoi tu, John.”
Uno scatto, un più che familiare click metallico, e la punta circolare di un oggetto premuta al centro esatto della mia nuca: ora si che ero più tranquillo.
“È una pistola, quella?”
“Marushin NBB Sturm Ruger Mk. 1, silenziatore integrato. Preferisco le canne lunghe ma è pur sempre la mia bambina. Nikita, l’ho chiamata.”
“Tanto piacere.”
“A questo punto dovrei dirti di alzare le mani, minacciandoti di aprirti in due il cranio come un melone e di lasciarti a marcire qui, in questo vicolo, dove ti troverà qualche barbone come in uno di quegli agghiaccianti film d’oltreoceano…”
“Perché ho la netta sensazione che non lo farai, invece?”
Sicuramente, pensai, quello strano formicolio che cominciò a solleticarmi la base del collo era dovuto al sorriso maligno che, nonostante non lo potessi vedere in faccia, giurai si fosse appena stampato sul volto squadrato del mio aguzzino, deformandoglielo in una specie di sfregio di guerra.
“Perché sono un gentiluomo e il mio compito non è quello di ucciderti. Per ora” mormorò, spostando la canna della pistola dalla testa alle prime vertebre cervicali.
“E qual è il tuo compito, soldato?”
“Soldato?”
“Avanti. Il taglio dei capelli, la mano straordinariamente ferma, le tue scarpe, l’assoluta indifferenza verso la possibilità di stroncare una vita umana… Stai prendendo in giro la persona sbagliata. Afghanistan o Iraq?”
Silenzio. Uno straziante, demotivante, immenso silenzio di cui mi macchiai io stesso quando mi venne posta la stessa domanda, a suo tempo.
Abbassò l’arma e fece il giro per poter tornare a guardarmi negli occhi e sussultai quando mi accorsi della dimensione della pistola, la canna lunga e grigia del silenziatore, la sicura disinserita. Faceva sul serio. E anch’io.
“Afghanistan. Colonnello Sebastian Moran, cecchino.”
“Afghanistan. Capitano John Hamish Watson, medico militare e fuciliere.”
Sebastian ridusse il suo sorriso spavaldo a poco più che un taglio netto al centro del viso che, se osservato meglio e da vicino, presentava diversi segni che mi confermavano le sue parole, uno più profondo degli altri appena sotto l’occhio destro, sullo zigomo, un lembo di pelle rialzata e malamente suturata che gli arrivava fino all’orecchio costringendolo a tenere leggermente più sollevato un angolo della bocca in un perenne ghigno di dolore.
Il deserto era di nuovo tra noi.
“Vattene, dottore” disse all’improvviso, dopo avermi guardato senza dire altro per una decina di secondi.
“Tu conoscevi il mio nome ancora prima che mi presentassi. John.”
Grugnì e mi diede repentinamente le spalle. Se ne sarebbe andato se non avessi raccolto tutto il mio coraggio e non gli avessi messo una mano sulla spalla.
“Aspetta…”
“Vattene, ho detto!” ringhiò, scostandosi bruscamente da me.
“Perché?”
Incredibile come un uomo possa cambiare atteggiamento così repentinamente passando da un potenziale assassino a… uno qualunque, incontrato in un vicolo buio con un arsenale militare sotto il giubbotto.
Sembrava turbato, abbattuto e tremendamente diviso tra il senso del dovere e una qualche sottoforma di coscienza, riaffiorata chissà da dove, chissà come, da uno degli angoli più oscuri di un cuore ridotto in cenere.
“Perché?” ripetei “Me lo devi.”
“Io non devo niente a nessuno se non a me stesso.”
“Sebastian…”
Si voltò verso di me, lo sguardo basso, la pistola ancora in mano, e tutto il buio di Ginevra sembrava che gli si fosse trasferito negli occhi, quei due smeraldi tinti di nero e di tutto il male che solo un altro soldato potrebbe sopportare senza svenirgli di fronte, la testa tra le mani mentre piange tutte le lacrime che gli sono rimaste.
“Non sono una buona persona, John” disse, e mise la sicura all’arma prima di riporla dentro alla giacca dalla quale trasse fuori una terza sigaretta. “Fumi?”
“No, grazie.”
“Certo. Sei passato dalla parte dei buoni, adesso” sospirò sputando a terra il mozzicone che aveva ancora tra le labbra ed accendendosi quella che mi aveva appena offerto.
“Non c’è nulla di particolarmente buono in me. Come credo che non ci sia nulla di particolarmente malvagio in te.”
“Ottimista.”
“Realista. A tutti viene concessa una seconda possibilità.”
Sebastian tirò forte, tanto forte che quasi non si fece fuori mezza sigaretta in un tiro solo. Poi chiuse gli occhi, le labbra semiaperte, trattenendo il respiro. Ed io con lui.
“La mia, sempre che ne abbia mai avuta una, me la sono fottuta al rientro in patria, capitano” esalò, facendo fuoriuscire il fumo in parte dalle narici, in parte dalla bocca sottile. “Solitudine, fantasmi, conoscenze sbagliate, una grande abilità nell’usare il fucile, troppi grammi di neve… Sai com’è.”
“No, non so com’è.”
“Già… Non puoi saperlo. Hai una moglie che ti vuole bene, un buon lavoro…”
“Come fai a sapere che sono sposato? Chi ti ha dato tutte queste informazioni sul mio conto?”
“Non lo vuoi sapere.”
“Non sto aspettando altro, in realtà.”
“John, fidati. È stato uno sbaglio venire qui.”
“Io sono in cerca della verità.”
“No, tu sei in cerca della signora incappucciata con la falce, te lo dico io.”
“Non ho paura.”
Scosse la testa ridendo mestamente, fece altri due tiri e poi si soffermò ancora un istante sui miei occhi, che non si erano mai scollati dai suoi, prima di sparire nell’oscurità portandosi dietro il suo segreto.
“Ne avrai.” 







Note:
(14) nel linguaggio dei fiori, la camelia simboleggia il sacrificio, in particolare il pegno per il sacrificio d'amore. Lo trovo piuttosto adatto come fiore per Mary. Voi no?







Author's Corner:

Salve salvino caro fandomino! *si automartella le dita*
Mi scuso per la lunga attesa di due settimane rispetto ai soliti sette giorni per il tredicesimo capitolo. E' stato... impegnativo. E spero che piaccia.
Forse il prossimo sarà l'ultimo. Di idee ne ho tante ma non riesco a fare pace con il mio cervello. Ha cominciato lui.
Aspettando di leggere cosa ne pensate, vi saluto e vi do appuntamento al prossimo capitolo.

miss potter
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Capitolo 14
*** Chapter fourteen ***



Chapter fourteen








Restai fermo, paralizzato da capo a piedi, le braccia strette lungo i fianchi e lo sguardo assorto, lontano, ficcato nell’oscurità fumosa di quel vicolo, immobile per non so dire quanto tempo prima che la luce fioca di un paio di fari di un auto di passaggio, riflessi sui vetri rotti di un caseggiato vicino, mi restituisse la facoltà di respirare.
La notte mi stava scivolando di fianco silenziosa come un rettile velenoso che cambia la sua pelle, portando via con sé, insieme ai fischi lontani delle sirene, tutta l’angoscia e lasciandomi le mille sensazioni che quell’incontro ai limiti del sovrannaturale impresse dietro gli occhi e dentro ogni singola cellula delle mie membra, leggermente infreddolite per la stasi.
Avevo rischiato la vita, solo, uno stolto avventuriero in quella selva di mattoni e asfalto dove bestie di ogni specie e dimensione avrebbero potuto saltarmi addosso da un momento all’altro, ferirmi a morte, cancellando ogni traccia della mia esistenza su questa valle di lacrime come si fa col misero cadavere di una zanzara schiacciata tra i palmi delle mani. Fin troppo facile.
Ma, come più volte mi era capitato nella vita, mi comportai semplicemente come mi ero sempre comportato in simili circostanze: mantenendo la calma, almeno apparentemente, guardando pericolo e morte negli occhi come fossero amici di vecchia data che, quando meno te l’aspetti, ti vengono a trovare entrandoti in casa senza neanche chiedere permesso.
Ci ero abituato, alle sorprese, e il mio corpo reagì alla stessa maniera di sempre: un leggero palpito iniziale, la straordinaria e preoccupante immobilità della mano all’estremità del braccio offeso, la totale ed appagante insensibilità all’arto inferiore destro e la schifosa, corroborante voglia di averne ancora, di sentire di più di tutti coloro che alla vita ci stanno attaccati come minuscole zecche affamate, la testa affondata nel sangue.
Ritrovai la stessa identica sensazione parecchie volte, in vita mia. Prima in Afghanistan dove ero medico la mattina, suturando e amputando, salvando e aggiustando ossa, per quanto di aggiustare vite si potesse parlare allora, per poi al pomeriggio essere messo a stroncarle, le vite, sparando ai ribelli come ai civili dai volti terrorizzati nascosti sotto i chador pieni di polvere color ambra. E poi, oh, poi. E poi negli occhi di giada di un pazzo di cui avevo fatto il madornale errore di innamorarmi e, chissà se per destino o per semplice smania di farmi del male, non ne avevo ancora abbastanza, di quel cervello speciale, deliziosamente folle, di quel corpo sinuoso suppurante veleno da ogni vena in rilievo, da ogni vertebra flessuosa insieme alle compagne, terribilmente sensibili sotto il giusto tocco, di quella voce – Dio, quella voce – e le labbra… Sarebbero potute tranquillamente essere il giaciglio per il mio corpo morente al cui capezzale avrei riunito tutti i suoni e i gemiti e le invocazioni collezionati a suon di morsi e notti d’amore clandestino per imprimerli nella memoria ripercorrendone ogni istante e suggendone alla fonte, attimo dopo attimo, centimetro di pelle dopo centimetro, un bacio alla volta.
Il problema di certa gente, gente come me e come forse, temo, qualcuno di voi, è che si lascia investire dagli eventi come farebbe qualsiasi pazzoide o suicida sul ciglio di un’autostrada, o sui binari della metro. Basterebbe un passo e, beh, andrebbe tutto a posto. Ed è così che questo tipo di persone si leva di torno, pensando di cancellarsi di dosso tutti gli sbagli del passato come con un orrendo tatuaggio fatto da ubriachi, o nel bel mezzo di una storia d’amore finita poi a insulti e valige lanciate dalle finestre.
E il mio problema è sempre stato questo, fondamentalmente: l’impossibilità di non fare niente per migliorare una situazione già precaria di per sé e, anzi, quasi combattere per vederla peggiorare e godere nel mentre, come il più solo tra gli uomini davanti ad un filmino hard di quarta categoria farebbe.
Chiamatelo masochismo, o semplice mediocrità, ma il mio problema, sostanzialmente, è che forse non ci ho mai pensato alla possibilità di guarirmi da me stesso e dai problemi auto inflitti con un destino che favorevole non lo è stato mai fino alla fine, con me e con tutti coloro che mi sono orbitati intorno.
Dunque credo fosse per questo che quella sera arrivai ad avere quella conversazione con Sebastian, in quel vicolo, di notte, senza testimoni né un briciolo di paura e amor proprio.
La verità? La verità era che non mi faceva paura e che non me ne avrebbe fatta mai, non lui, non in quel momento. Il suo sguardo ribolliva di dolore verdognolo, chimico, un continuo agitarsi di molecole legate male ed altamente instabili, facilmente esplosive, tendenti alla scissione. Mortali.
Eppure non riusciva a disintegrarmi, quello sguardo corrosivo. Forse, forse perché in quello sguardo mi ci riconoscevo, almeno un po’, perché due acidi si combinano perfettamente tra loro, fondendo i loro diversi gradi di acidità e raggiungendo un certo equilibrio, prima o poi.
E se proprio di chimica si deve parlare, con Sebastian scoccò una scintilla, un’idea malsana il cui destino sarebbe stato quello di estinguersi al prossimo sorgere del sole, come una stella cadente bella e fragile, come una vaporosa crisalide che sboccia e illumina il cielo notturno della sua caducità per un istante prima di schiantarsi al suolo e morire soffocata dai suoi stessi vapori, dalla speranza che, davvero, da qualche parte, avrebbe potuto godere di un destino diverso.
Mi stavo bruciando.

Tornai indietro all’albergo camminando lentamente, le mani in tasca, facendomi inghiottire dalla notte senz’astri che, come una spessa coperta in maglie di ferro, gravava su di me e su tutti quei pensieri graffiando le pareti del mio cranio.
Una volta arrivato, superai gli sguardi perversamente incuriositi, alcuni molli, altri fin troppo svegli delle poche persone che ritrovai sedute sui divanetti lucidi della reception tra fiumi d’alcol, carte da gioco e formose biondine a gambe accavallate che, con lo sguardo ammiccante, accarezzavano le cosce dei loro accompagnati facendomi l’occhiolino.
Presi l’ascensore e salii al mio piano, scuotendo la testa alla mia immagine riflessa nello specchio all’interno, una maschera pallida di stanchezza sotto gli occhi e un groviglio di nervi a pezzi. La profonda penombra bluastra che mi accolse allo scorrere delle porte automatiche era ferita da una solitaria cicatrice di luce dorata proveniente dalla porta, tenuta socchiusa, dove ormai buttavo l’occhio anche senza il permesso del mio cervello, in un arco riflesso spontaneo di cui avrei dovuto parlare ad Ella, un giorno o l’altro.
Ma non credo fosse malattia, la mia, quando nel mio momentaneo tepore mentale e senza pensarci due volte decisi di prendere a sinistra invece che tornarmene in camera mia, da mia moglie, e chiederle scusa per il mio deplorevole comportamento.
Ero solo… preoccupato. Magari, chissà, aveva semplicemente dimenticato la porta aperta. Di questi tempi non si è al sicuro da niente e da nessuno, nemmeno da se stessi. O, semplicemente, avevo bisogno di lui, e basta.
“Sh-Sherlock?” balbettai sottovoce, incerto, facendo forza coi polpastrelli sul legno lucido della porta, ed entrai chiudendomela poi alle spalle. “Sherlock, ci sei?”
La faccia sprofondata nei palmi delle mani e i gomiti puntellati sulle ginocchia, abbracciato dalla solita luce soffusa della solita lampada in ingresso, se ne stava seduto su una delle poltroncine in salotto davanti a un tavolino di vetro dalle gambe basse sul quale erano sparsi disordinatamente vari fogli di carta stropicciati e diversi oggetti la cui natura, data la mia postazione, non riuscii a distinguere in modo dettagliato.
Azzardai un paio di passi, trascinandomi abbastanza vicino da poter sentire il suo respiro appesantito sgusciargli fuori dalle mani, portandomi così a pochi metri da quella sagoma scura e avviluppata su se stessa nella posizione di un uomo a cui sono state strappate di dosso tutte le motivazioni per continuare a vivere, a sperare.
“Sher, stai be…”
“Vuoi scopare?”
Borbottò questa domanda con voce arrochita e quasi incomprensibile, le labbra premute contro i palmi, e ci mancò poco, davvero poco che stramazzassi al suolo come un cane dopo aver mangiato un boccone avvelenato, soffocato dalla mia stessa saliva.
Pregai di aver capito male, che fosse soltanto un brutto scherzo della spossatezza, o l’ennesimo, più che comprensibile incubo.
“Cos’hai detto?” mormorai senza fiato, sbattendo un paio di volte le palpebre.
Sherlock sollevò il capo, lentamente, prendendo un profondo respiro e trafiggendomi con uno sguardo grigio, no, color acciaio misto ad un azzurro metallico vagamente inquietante ed appena accennato intorno a due infinitamente profondi buchi neri che andavano pian piano allargandosi, ingoiando ogni possibile bagliore cromatico e tutta la sagacia di cui erano sempre stati i degni ambasciatori.
“Vuoi scopare, John?” ripeté dunque con voce piatta, stantia, e sembrò che mi potesse vedere attraverso perché quell’espressione persa, alienata, non era certo quella dell’uomo per cui ero folle d’amore. Non lo conoscevo, costui.
Mi limitai a far cadere la mascella, gli occhi sbarrati, perché l’unica alternativa sarebbe stata quella di parlare, dire qualcosa, o di prenderlo direttamente a pugni ma al momento sembravo averne perso la facoltà insieme alla forza di fare qualsiasi cosa, anche di sostenere quel soffocante contatto visivo che, così, mi stava stordendo. Avrei voluto distogliere gli occhi dai suoi, scurissimi e ridotti a due tagli netti al centro di un viso scavato, esangue, niente a che vedere con quello luminoso e leggermente rosato sulle guance del bellissimo ragazzo dagli enormi occhi verdazzurro che conoscevo, con la genialità che gli danzava addosso a ritmo di una altrettanto sfavillante arroganza.
Ma non c’era niente di arrogante, in lui, lì e così, adagiato come uno straccio maltrattato su quella poltrona nella semioscurità di una lugubre stanza d’albergo, i primi tre bottoni della camicia slacciati e una manica, la sinistra, arrotolata fino al gomito.
E fu così che la vidi. Vidi la siringa, ancora attaccata al braccio, con l’ago infilato sotto la pelle e lo stantuffo abbassato. Fu così che, in un batter d’occhio, sentii di aver fallito su ogni fronte.
Dovette accorgersi dello spostamento della mia attenzione dal suo viso al corpo estraneo perché cercò di nasconderlo piegando il braccio al petto, inutilmente.
Stupido, stupido idiota, incosciente.
Così t’ammazzi.
Non l’avresti tenuta aperta quella dannata porta se non mi volessi qui.

Stai chiedendo aiuto.
Lascia che ti salvi.

Avrei voluto, dovuto dirglielo, questo, sputarglielo in quella faccia da schiaffi e poi raccogliere tutto il coraggio e schiaffeggiarlo davvero, una volta per tutte, perché non era il mio amore, il mio aiuto ciò che avrebbe meritato in quel momento, ma niente più che uno manrovescio. Ma, come al solito, tutto quello che riuscii a fare fu aggiungere il tutto all’infinito elenco di cose che avrei dovuto dirgli e che non gli avrei detto mai per chissà quale remora nei suoi confronti, o nei miei. Ma tante cose, a Sherlock Holmes, non era necessario dirle affinché le sapesse.
“Che cazzo stai facendo?”
Guardò ancora per un po’ me, poi la scatoletta lucida e rettangolare in marocchino aperta sul tavolo, ed infine la siringa che estrasse senza la dovuta delicatezza, gettandola via sorridendo, abulico, come se non gli importasse delle conseguenze, di una possibile necrosi tessutale a cui tutte le iniezioni sottocutanee possono portare se l’ago non è perfettamente sterile. Poi si portò l’interno del gomito alla bocca leccandone in punta di lingua la cicatrice, piccola e violacea, come un animale ferito fa nella solitudine della sua tana umida.
“Formula bruta: C17H21NO4. Massa molecolare: trecentotre virgola trentasei. Temperatura di fusione: novantotto. Temperatura di ebollizione: centottantasette. Blando anestetico e vasocostrittore che a livello del sistema nervoso centrale blocca il recupero di dopamina nel terminale presinaptico una volta che questa è stata rilasciata. Agisce sulla funzionalità delle proteine di trasporto impedendo che riassorbano la dopamina all'interno del neurone. Risultato: aumento della quantità di dopamina a livello delle terminazioni sinaptiche dei neuroni dopaminergici del sistema nervoso centrale e nelle sinapsi fra le terminazioni dei neuroni che proiettano dall'area tegmentale ventrale, dei neuroni del nucleo accubens e della corteccia prefrontale mediale, portando al fenomeno della tolleranza inversa che aumenta la quantità di recettori per la dopamina postsinaptici. Effetti: distorsione cognitiva e delle capacità recettive, accentuazione della reattività fisica e mentale, riduzione dello stimolo di addormentarsi, della fame e della sete, euforia, maggiore socievolezza e facilità di relazione, infaticabilità e, per la tua gioia, incremento della libido. Abbiamo circa… un quarto d’ora.”
Non so se fossi più intontito da quel fiume di termini scientifici, che purtroppo conoscevo alla perfezione, sputati a velocità supersonica o per l’ultima parte di tale argomentazione. Quella della proposta sessuale, per capirci.
“No” rantolai intontito e scossi la testa, non credendo alle mie orecchie e, soprattutto, ai miei occhi.
In risposta ricevetti l’abituale sorriso sghembo che aveva la doppia controindicazione per me di farmi perdere la testa e prudere le mani allo stesso tempo, insieme all’atteggiamento che seguiva sempre quel genere di smorfia. Abnegazione totale.
Incredibile come la droga sconvolga completamente le abilità della persona asservita, assoggettandola o, peggio, dilatandone le potenzialità e facendone strumento di tortura per gli altri. Mi stavo accingendo a conoscere il lato oscuro che mi aveva sempre tenuto nascosto col quale, a suo tempo, avrei imparato a convivere.
S’alzò barcollando e non feci in tempo a mettere d’accordo forza di volontà e muscolatura che mi fu già addosso. Mi strattonò per un braccio facendomi voltare e atterrare seduto sulla poltrona da lui precedentemente occupata dove m’intrappolò tra le sue braccia, appoggiando le mani sui braccioli e bloccandomi così ogni possibile via di fuga
“No?” sussurrò con voce fioca, ammaliante, una minaccia al sapore di miele, i denti scoperti e lo sguardo di mercurio liquido colato nel mio, agghiacciato.
Il suo respiro, bollente, si andò ad infrangere aggressivo sulle mie labbra, tenute mezze aperte per lo sgomento.
“Sherlock, smettila.”
“Mi stai rifiutando, John?”
Avvicinò il viso al mio, sfiorandomi il labbro superiore col suo, l’arco di Cupido teso e impaziente, deviando poi però verso il mio orecchio sul quale cominciò a scaricare una serie di mugolii volontariamente provocatori intervallati da proposte oscene uscite, forse, dal vaso di Pandora di una qualche recondita stanza segreta nel suo Palazzo Mentale di cui avevo rinvenuto la chiave, tenuta nascosta troppo a lungo nella polvere degli affetti rubati e della convinzione che l’essere umani sia la condanna più insopportabile di tutte, l’ergastolo delle menti brillanti. E i minuti passavano.
Mi lasciai sfuggire un lamento di puro dolore quando mi morse il lobo di un orecchio, baciandone poi la conchiglia arrossata per poi finire con le labbra sospiranti ed umettate pressate contro l’incavo del mio collo, sulla giugulare pulsante di adrenalina.
“Non stai bene, Sherlock…” boccheggiai afferrandolo per le spalle nel tentativo di allontanarlo, invano.
Lo sentii stringersi di più a me, respirare a fondo, come se mi stesse annusando, e trasalii quando mi costrinse a riallacciare lo sguardo al suo, languido ed indagatore.
“Chi è?” chiese, impetuoso.
“Chi è chi?”
“Il figlio di puttana che ti ha fumato hashish addosso.”
Ero troppo preso da quel respiro accelerato, da quelle pupille spropositatamente dilatate, cuori di occhi incattiviti da chissà che sospetto o paura per rendermi pienamente conto che nel frattempo si era inginocchiato tra le mie gambe portando le dita affusolate e scosse dai tremori dell’eccitazione sulla mia cintura, con la quale iniziò ad armeggiare in un impudente concerto metallico.
“Ha-hashish?”
“John,” sospirò, sorridendomi mestamente dal basso “so riconoscere a naso centoquarantadue varietà diverse di tabacco e, da tossico, altrettante modalità di taglio. Chi è?”
Quando feci accorrere le mani sul suo viso, i pollici ad accarezzare dapprima gli zigomi e poi le labbra turgide, interruppe quel suo trafficare di dita e di sguardi appiccicosi per un istante che mi parve durare secoli.
“Non ne puoi proprio fare a meno, vero?” gli sorrisi, strofinandogli il labbro inferiore col polpastrello.
Dovevo placarlo ma, inconsciamente, lo stavo provocando. Il fatto era che non sapevo come muovermi, anche se avessi potuto farlo, o cosa dire per tirarmi fuori da quella situazione parossistica. E il gravoso peso del suo capo, premuto contro il mio ventre, non aiutava per niente.
Alzò lievemente un sopracciglio, gli occhi traslucidi incatenati ai miei, e rispose alla mia carezza lambendo con la lingua la punta del mio pollice.
“Di cosa?”
“Di avere sempre e comunque la situazione sotto controllo.”
Mi morsi l’interno di una guancia quando i suoi denti si strinsero attorno al dito che gli avevo appoggiato sul labbro, avvolgendolo subito nell’abbraccio tra lingua e palato quasi come a chiedermi scusa di tutto il male fisico, e non, che mi stava infliggendo. Non era perdono, però, ciò che bramava, ciò che in ogni caso avrebbe avuto sempre da parte mia. Non ne potevo fare a meno.
“Il mondo mi parla, John” mugolò, chiudendo gli occhi. “Ogni cosa, ogni persona mi parla. È un costante enigma, tutto, ed è meglio della mia dose al sette percento. Ma vedere il rompicapo ovunque, beh, ha i suoi costi.(15)
“Che vita triste.”
Si staccò da me allontanando con un gesto brusco del viso la mia mano e mi spalancò nuovamente gli occhi addosso con tutta la serietà che riuscì a rinvenire.
“Come ho detto, ha i suoi costi. Il nome, John.”
“Non ti riguarda.”
“Risposta sbagliata, dottore” gemette, fintamente amareggiato, scendendo con la bocca sorridente sul mio interno coscia e strusciandocisi contro. “Prova ancora, magari sarai più fortunato.”
“Sherlock…”
Affondargli le dita della stessa mano che aveva scacciato nei capelli e tirargli con malagrazia la testa indietro, lontano dal mio grembo, oltre a fargli emettere un lamento strozzato incrementò ancor di più la curva del suo sorriso sadico e il dilatamento delle pupille in cui l’azzurro si era confuso col nero più cupo, riducendosi a una mera e sottilissima cornice decorativa di quel quadro d’orrore e depravazione che mi stava togliendo la forza di reagire, di ribellarmi, demolendomi organo ad organo.
“Mi stai facendo male, John” rise sottovoce, guardandomi dal sotto in su, e si morse maliziosamente il labbro inferiore senza staccarmi gli occhi di dosso neanche per un attimo.
Avrei potuto alzarmi e scappare via se non fosse stato per le sue braccia magre ma vigorose che, con tutta la loro forza, premevano sulle mie cosce tenendole divaricate e in balia di una situazione che cominciava ad andarmi stretta.
Gli accarezzai la testa, grattandogli dolcemente la nuca e passando le dita tra i boccoli morbidi nella speranza che si rilassasse e che la smettesse di bombardarmi il cervello di immagini totalmente fuori luogo per quel contesto e per il mio attuale stato psicofisico, ma riuscii solo a strappargli qualche inutile mugolio d’apprezzamento così somigliante ad una sessione di fusa degne del miglior felino domestico annoiato.
“Sherlock, ascoltami” tentai al limite dell’esasperazione, massaggiandogli la cervicale.
“Dimmelo.”
“No…”
Con un ringhio e un rapido scatto della testa si liberò facilmente dalla mia presa, e nonostante qualche capello bruno che mi rimase tra le dita non sembrò provare tutto questo dolore, almeno apparentemente. Le sue dita si precipitarono ingorde sulla cinghia di metallo già allentata, facendola saltare via insieme al bottone dei pantaloni e a quel punto, per non soccombere, non mi restò altro se non rispolverare le vecchie tecniche di lotta imparate nell’esercito, cercando di non pensare al fatto che probabilmente avrei rischiato di slogargli un polso.
Lo afferrai per un braccio prima che compisse l’irreparabile, o che io ci prendessi troppo gusto, e lo feci girare portandolo così a sedere nell’esiguo spazio tra le mie gambe aperte, il dorso contro il mio torace e l’altro braccio dietro la schiena, perfettamente immobilizzato.
“Violento,” sogghignò, adagiando la nuca sulla mia spalla in un gesto di assoluta sottomissione. “Mi piace.”
Strinsi maggiormente il suo polso nel pugno, bloccando l’altro braccio sul petto in una morsa dalla quale avrebbe potuto divincolarsi solo lussandosi una spalla. Gemette alto per il vigore della mia stretta e sapevo che proprio bene non gli stavo facendo, ma non c’era altro modo per tentare di ripescare, da qualche parte nel suo inconscio sedato, lo Sherlock assopito, quello vero, brillante ma corroso dalla chimica che lui stesso diceva di ammirare e che lo stava uccidendo, grammo dopo grammo.
“Shh, calmo.”
“Ti prego, John” miagolò cercando di divincolarsi, ridotto alla stregua di un bambino capriccioso che supplica la madre per avere di più, di più di tutto e subito.
Fece forza sul braccio bloccato sul torace portandosi dietro anche la mia mano che si appoggiò sull’addome in una languida richiesta di proseguire oltre, indipendente, come su un sentiero tracciato percorso più e più volte dove ogni volta era migliore della precedente.
Lo accontentai, accarezzandogli la pancia cauto e resistendo alle sue dita che spingevano affinché mi avventurassi più in basso, tra le gambe che aveva divaricato in sordida preghiera, usufruendo di tutto lo spazio possibile.
“Dio…” sussurrai, appoggiandogli le labbra nel triangolo di pelle sensibile dietro l’orecchio e sollevandogli la camicia. “Perché deve andare sempre a finire così, eh ragazzino?”
Lo vidi sorridere, leccandosi le labbra, e socchiudere gli occhi mentre con la mano guidava la mia nella sua esplorazione sotto la stoffa, badando però a tenersi a debita distanza dal limitare dei pantaloni.
In protesta, con un leggero colpo di reni si spinse col fondoschiena contro di me schiacciandomi ancora di più contro la poltrona e, peggio, stimolando le zone che sapeva essere in quel momento più sensibili del mio corpo.
“Così come, John?” ridacchiò, continuando quel debole massaggio a ritmo della mia mano.
Gli baciai la mandibola saturandomi il naso del suo profumo intenso, sempre fresco, il palmo avido dei suoi addominali contratti, e mentalmente lo maledissi.
“Così che si scopa per dimenticare, Sher… Ogni cazzo di volta.”
“Beh, potremmo essere degli alcolizzati. Ci è andata piuttosto bene.”
Mi lasciai andare in un gemito quasi impercettibile, poco meno di un guaito, appagato dalle spinte sempre più profonde dettate da un paio d’anche incredibilmente mobili ed elastiche, e ovviamente il messaggio arrivò forte e chiaro all’orecchio in cui si riversò, agendo come una favilla scoccata in un barile imbottito di polvere da sparo.
Rise basso quando affondai le unghie nella pelle del suo addome ed abbandonai la fronte sulla sua spalla, inerme, denudato di tutto il coraggio per impormi contro un mulino a vento di domande e di risposte inesistenti, un gigante arrabbiato fatto di accuse, di bugie trascinate per troppo tempo, così tanto che quasi paiono verità, la più dolce e rassicurante di tutte quelle possibili.
Sospirai, ma non capitolai, non ancora.
“Se per bene intendi un cocainomane tanto strafottente quanto geniale e un medico masochista che non sa come curarlo e di cui sta diventando totalmente dipendente, beh… allora siamo messi da Dio.”
“Brutta cosa, la dipendenza” mormorò. “È un’esperienza unica, straordinaria… almeno finché non t’uccide. Un po’ come la vita.”
“Tu mi stai uccidendo.”
“Perché sono la tua vita?”
Una crepa, l’ennesima e la più grossa di tutte, si andò a sommare al resto delle spaccature sulle pareti incrinate di un cuore il cui battito, al ritmo di quelle carezze così sconvenienti, andava ammansendosi, prolungando il dolore frattura dopo frattura pompandolo ovunque scorresse sangue. E mi sentivo al ciglio di quel mio decesso, la morte stretta addosso e una notte, una sola, per convincerla a darmi la possibilità di risorgere dalle ceneri che mi aveva soffiato addosso.
“Perché sei la mia vita.”
I movimenti del suo bacino improvvisamente si placarono, come se i muscoli gli si fossero atrofizzati di colpo sotto il potere di chissà che incantesimo, rilassandosi, quasi sciogliendosi sotto la carezza che continuava a avvolgere senza malizia il suo addome nudo e, in uno slancio di improvvisa e forse malriposta fiducia, gli liberai il polso da dietro la schiena andando ad affondare  la mano così libera nella selva oscura dei suoi capelli, annodandomi i boccoli d’ebano intorno alle dita e stimolando il cuoio capelluto sensibile sotto i polpastrelli.
Ruotò di poco il capo facendo scontrare le nostre fronti mantenendo però gli occhi chiusi, in contemplazione silenziosa dei suoi eserciti di ombre nemiche con cui probabilmente stava giocando a scacchi, immerso nel buio invalicabile dietro a quelle palpebre mobili e tumide.
“Mi dispiace, John” mugolò, fattosi tutto d’improvviso più fragile di un pulcino lasciato all’addiaccio, il peso delle lacrime a soffocargli la voce.
“Per cosa?”
“Per Mary. Sono stato così cattivo con lei…”
“Oh, no…” dissi, stringendolo di più come avrei fatto con un bambino sconsolato, perso. “Tu non sei cattivo. Sei solo… arrabbiato.”
“Ma lei è buona, e gentile. Lei ti ama.”
Silenzio. Un silenzio che durò un sospiro.
“Non chiedermi di amarla più di quanto ami te” gemetti, anch’io con gli occhi carichi di amarezza e sale. “Non farmi… scegliere.”
Lo sentii scuotere piano la testa ed espirare, forte della convinzione che forse in me avrebbe potuto ancora trovare qualcosa di non legato a lui, di non soggiogato a tutto quel grossolano errore di carne e tormento.
“Ma tu hai già scelto, John. Hai scelto di dipendere da proiettili e adrenalina da quando il giuramento di Ippocrate te lo sei giocato al tavolo dei sentimenti. Importarsene non è mai un vantaggio…”
“Dio, sta’ zitto…” sussurrai tra i denti, colpito e affondato, strusciando la fronte sulla sua come la chiglia di una barca dilaniata dalla tempesta arrivata finalmente in porto. “Tu non sei questo. Tu non sei…”
“Una spia drogata che non sa cosa sia l’amore?”
“No. Tu lo sai cos’è, oh, se lo sai…”
“Come fai a dirlo?”
“Altrimenti non mi avresti fottuto mente e corpo insieme, dal primo giorno, solo esistendo.”
E solo come due anime destinate all’eternità possono fare, aprimmo in contemporanea gli occhi, soccombendo l’uno dell’elettricità d’arcobaleno sprigionata dall’altro, e finalmente realizzai che, in tutta quella storia, avrei fallito solamente se gli avessi staccato la spina, se ci avessi lasciati in balia del nostro buio. Ma eravamo due lucciole in un barattolo di vetro, sì, e tutto era luce e riflesso, tutto stelle e galassie e occhi di cristallo verde sopra la testa e ali e ossigeno rarefatto… Stupefacente.
“Il sesso non può guarire, tesoro. E neanche la cocaina…” mormorai quando lo sentii tremare appena, ed accostai le labbra alle sue. “Solo l’amore può.”
Accettò quel bacio come fosse l’unica cima di salvezza tra se stesso e il baratro, l’ennesima dose, solo più sana e appagante, un piacere che non dura un quarto d’ora lasciandoti poi a contorcere nella polvere del pavimento tra i più atroci supplizi, le mani nei capelli mentre gridi che ne vuoi ancora, e intanto la testa scoppia e un colabrodo, che una volta era un corpo, che si sgretola come una carcassa lasciata a marcire al sole, una statua di gesso secco svuotata di tutta la vita di cui si è fatta dura imitazione.
Non è dipendenza, almeno non una di quelle che ammazzano. È sì adrenalina, sangue e chimica, ma soprattutto semplice bisogno, bisogno di sapere che non sei solo perché esiste qualcuno venuto al mondo un giorno per amarti, nel bene e nel male, accettando ogni difetto ed adorando ogni minima qualità. Ed è per queste persone che vale la pena vivere, morire, salvare e lasciarsi salvare.
“Lascia che raccolga i tuoi pezzi, Sherlock.”
“John…”
“Shh… Dormi, amore.”
Fondemmo i respiri, un ponte sicuro sul quale appoggiare e far passare parole di conforto, dolci ninne nanne e poesie di baci e sfioramenti di cui, forse, la mattina seguente non sarebbe rimasto nulla se non il dolce sapore sulle labbra e i brividi ancora vivi e frizzanti sotto la pelle.
Lo cullai tra le mie braccia, accarezzandogli la testa come faceva mia madre per farmi addormentare, da bambino. Dormi, amore.
Lo vidi rilassarsi, assopirsi così, in braccio, come un orfano con cui il mondo è stato troppo meschino.
“Lasciati guarire” furono le mie ultime parole, soffiate direttamente sulla sua bocca, mentre anch’io cadevo tra le braccia di Morfeo trionfatore sulla morte, e così tutte quelle ombre smisero di vorticare e di pungerci l’anima con le loro spade di sensi di colpa, coagulandosi in un’unica, pacifica notte senza sogni.

Mi risvegliai con buona parte delle ossa anchilosate, in posizione fetale sulla poltrona ed entrambe le gambe doloranti, una voce familiare e fievole nelle orecchie che mi sibilavano e una mano aguzza che mi scuoteva per una spalla.
Quando riaprii gli occhi, mi trovai di fronte un volto cereo, segnato da rughe profonde sulla fronte e intorno agli occhi, due pozzi grigiastri traboccanti di pungente inquietudine.
“Mycroft…” rantolai, la cui immagine mi appariva ancora annebbiata.
“John, svegliati…” disse quest’ultimo in tono greve, supplichevole.
Non l’avevo mai visto così sconvolto.
“Dov’è Sherlock? Co-come sta?”
Idiota.
“Non c’è tempo. È Mary…”
Il cuore mi saltò di un battito, seguito dal mio respiro che mi si solidificò in gola.
“È stata rapita.” 






Note:
(15) citazione da "Elementary" (di cui mi sto riscoprendo accanita fan)




Author's Corner:

Domando perdono... *si prostra autoflagellandosi con la tastiera*
Questo capitolo è semplicemente TREMENDO. Non è assolutamente uscito fuori come pensavo, a cominciare dal fatto che avevo giurato a me stessa che sarebbe stato l'ultimo. Ho cercato di inserire un minimo di dialogo serio tra John e Sherlock, il che poteva avvenire solo in questo contesto in quanto John come al solito è un imbecille patentato e Sherlock un tossico senza un briciolo di cervello per le cose veramente importanti. Entrambi non ci capiscono più niente e sono molto autobiografici per la sottoscritta perchè sono completamente nel pallone right now e questa storia mi porterà alla soglia dell'alcolismo, ne sono certa... XD
Non ho altro da aggiungere, solo siate clementi e pazienti per il prossimo capitolo in cui mi atterrò molto di più al canon di quanto abbia fatto finora. *parte un applauso concitato*

miss potter (che vi adora)
x

p.s. Ovviamente tutto il vaneggiamento di Sherlock sulla cocaina è brutalmente stato scopiazzato dalla sottoscritta da Wiki. Odio la chimica. 





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Capitolo 15
*** Chapter fifteen ***







Chapter fifteen








Affermare che John Watson, in quel  momento, stesse vivendo un incubo sarebbe stato scadere nell’eufemismo. O peggio, nel ridicolo.
Perché da un incubo la gente si risveglia, sudata, impaurita, le mani che tremano ma poi, beh, poi si ritrova nel proprio letto, nell’oscurità familiare e sicura della propria stanza e, semplicemente, richiude gli occhi, un sorriso rasserenato dipinto sulle labbra, rimettendosi a dormire sperando che quei fantasmi, in combutta con una più che fervida immaginazione – o è questo che vuoi credere, che sia tutta colpa di una fervida, fottuta immaginazione – ne abbiano avuto abbastanza, almeno per quella notte.
John Watson, invece, per quanto sbattesse gli occhi, si mordesse le labbra e pregasse un dio in cui non credeva da tempo di riportarlo alla realtà rassicurante della sua camera da letto, si trovava sempre in quella tenebrosa suite d’albergo in una scomoda posizione fetale, per la quale la spalla gliel’avrebbe fatta pagare per le seguenti due settimane, e due lame oculari puntate contro, senza forze per fare nient’altro se non boccheggiare come uno stupido pesciolino rosso suicida saltato fuori dalla sua boccia.
“John…” chiamò ancora la voce, arrochendosi. “John, devi alzarti.”
Il groppo di puro e semplice sgomento che mi aveva serrato la gola faceva male, come se avessi ingoiato una pietra e stessi bevendo dell’acido per rimuoverla. Ero tutto un pizzicore, un fremito, un brivido di sincera paura mista ad un tremendo ma familiare senso di inadeguatezza.
“Co-com’è possibile?” biascicai, la voce strozzata.
Avevano rapito mia moglie, la mia Mary, la mia dolce ed ignara Mary, ed io non riuscivo a fare altro se non rimanere accartocciato su quella dannata poltrona chiedendomi come fosse possibile tutto ciò, come se non sapessi che, prima o poi, chi si caccia nei guai, o ci va direttamente a letto, ottiene ciò per cui ha sacrificato una vita di normalità e routine, procurandosi l’adrenalina per la quale si è svenduto anima e corpo.
Mycroft si rimise dritto, guardandomi dall’alto della sua incrinata superiorità e, a giudicare dalle profonde occhiaie sotto gli occhi gelidi, non doveva aver dormito molto quella notte.
“Tua moglie è uscita verso le due questa notte e, a detta dei receptionist, non è più tornata.”
Dimentico della lancinante fitta alla gamba, mi tirai su raggiunsi in poche ed incerte falcate zoppicate la porta della stanza, lasciandomi Mycroft alle spalle.
“Dove stai andando?” chiese questi con un tono di voce sgradevolmente fermo.
“A cercarla.”
“Sono le quattro e mezza di mattina, John. Da dove pensi di cominciare?”
“Non lo so!” sbottai voltandomi di scatto al suo indirizzo mentre tutti i cinque litri di sangue che mi scorrevano in corpo mi confluivano in faccia. “Sua grazia cosa mi consiglia?!”
Sollevò un sopracciglio a quell’epiteto e poi, con l’incredibile flemma di sempre, un lembo della giacca, traendone fuori un foglietto bianco e spiegazzato che mi allungò tra indice e medio.
“Prudenza, dottore” disse solo, intensificando il suo sguardo marmoreo.
Gli strappai di mano il pezzo di carta e lessi con foga le due semplici parole scritte di getto:


Reichenbach Falls

 

Le guardai, rabbrividendo al cospetto di quella calligrafia che conoscevo fin troppo bene, gettando poi lo sguardo su quello di Mycroft, una statua di sale e nervi.
“Cosa diavolo è Reichenbach?”

“Una pista.”
“Una… pista?”
Si riprese il foglio, ripiegandolo in quattro e riponendolo infine nella tasca interna da cui l’aveva tirato fuori. Poi, da quella dei pantaloni prese un telefono cellulare, vi digitò sopra qualcosa e non disse più nulla per un paio di minuti.
“Perdonami, Mycroft, ma in questo preciso istante mia moglie potrebbe essere chissà dove con una pistola puntata alla testa o direttamente senza, la testa, dunque non ho intenzione di stare fermo a guardarti mentre chiacchieri con chissà chi!”
“Io non chiacchiero, dottore” disse altero mettendo via l’apparecchio, ed avanzò verso l’uscita con passo deciso. “Mio fratello sarà qui a momenti.”
“Sh-Sherlock?”
“Sì, beh, ringraziando il Cielo non ne ho altri. Seguimi.”
Gli andai dietro finché non ci ritrovammo al piano terra dove mi accolse quella che aveva tutto l’aspetto di una vera e propria guerriglia in tenuta da assalto: una decina di uomini in divisa, con tanto di giubbotto antiproiettili e mitragliette, mi squadravano per tutta la mia lunghezza con fare sospetto mentre, alle loro spalle, una mezza dozzina di gorilla in completo nero e occhiali scuri parlottavano alle ricetrasmittenti attaccate dietro l’orecchio.
“E questi?” domandai, sbiancando in volto.
“Precauzione” tagliò corto Mycroft appoggiandomi una mano dietro la schiena e spingendomi delicato ma risoluto verso l’uscita. “Vi seguiranno a distanza di cinque minuti dalla Lamborghini.”
Non feci in tempo a chiedergli cortesemente di ripetere che un rombo assordante mi fece letteralmente schizzare il cuore in gola: una sfolgorante macchina sportiva color nero opaco si accostò al marciapiede davanti all’hotel in tutta la sua fulgida anonimità, e solo quando il finestrino oscurato dalla mia parte si abbassò riacquistai l’uso della mandibola.
Nell’abitacolo, Sherlock Holmes fulminò con uno sguardo di ghiaccio bollente il fratello al mio fianco, il quale rispose a quell’occhiataccia incrociando le braccia al petto e sulle labbra, sottili come rasoi, gli si dipinse un’espressione altrettanto pungente.
“Era proprio necessario, Mycroft?” ringhiò il minore dei due, indicando nervosamente il cruscotto davanti a sé tempestato di decine di spie luminose ed ambigui gadget tecnologici. “Almeno avesse il volante a destra!”
“Smettila di lagnarti, fratello. C’è gente che ucciderebbe per poter guidare questo gioiellino.”
“C’è gente che ucciderebbe per essere figlio unico!”
“Oh, te ne prego, dammi il loro indirizzo. Potremmo riunirci per fare un falò delle lettere a Babbo Natale in cui facemmo richiesta di un fratellino…”
“Dateci un taglio!” sbottai alzando le braccia al cielo ed attirandomi addosso l’attenzione degli Holmes come pure di circa metà del plotone alle mie spalle. “Che cosa significa tutto questo?”
Avevo già il fiatone, e non mi ero mosso d’un metro.
“Tutto questo cosa, John?” chiese il detective da dentro l’auto inclinando lievemente la testa.
Aveva un grande cervello, davvero, ma a volte stentavo a credere che dietro a quelle fattezze da palese trentenne in realtà non si celasse un marmocchio di due anni e mezzo con un QI lievemente superiore alla media dei coetanei e un’ossessione per le lucertole sventrate.
“Tutto questo… questo, Sherlock! La macchina da trecentomila sterline, l’esercito, Rachenback…”
“Reichenbach…” corresse lui con aria immancabilmente saccente.
“Non esageriamo,” intervenne Mycroft, scuotendo il capo “è solo una piccola divisione di esperti dalla Centrale.”
“Quello che diavolo è!”
Certo che, alla fine di quella giornata, mi avrebbero portato via in barella con un principio di infarto o, molto più probabilmente, indossando una camicia di forza, il maggiore degli Holmes si limitò a sbatacchiarmi una mano sulla spalla e sospirare, imperturbabile.
“John, sali e basta.”
“Cosa?!”
“Sali. In. Macchina.”
Guardai l’uomo al mio fianco, poi l’auto, poi di nuovo Mycroft ed infine l’altro uomo dentro l’auto che si stava allacciando una cintura la cui utilità, evidentemente, non aveva ritenuto indispensabile prima, e così seppi che John Hamish Watson era stato definitivamente messo all’angolo, di nuovo. Esercito o no.
“Con lui?!” esclamai, indicando Sherlock. “Neanche ce l’avrà, la patente!”
“John, dolcezza…” sbuffò quest’ultimo.
“Dolcezza questo cazzo, Sher! Esigo una spiegazione, e che sia la verit… Aspetta. Tu mi hai appena chiamato… dolcezza?”
Il sorriso imparagonabile che sfoderò come risposta ebbe lo stesso risultato di una mattarellata in pieno volto, su di me. Mi sentii formicolare da capo a piedi, e non erano certo i postumi del mio stramaledetto stress post-traumatico, nossignore.
“Fidati di me” aggiunse, allargando gli occhi.
Alla fine della fiera, mi ritrovai a rantolare qualcosa di molto simile ad un sermone di preghiere indù mentre salivo in macchina, allacciavo la cintura e speravo in cuor mio che fosse tutto un terribile scherzo mentre dallo specchietto retrovisore notai Mycroft rientrare in albergo, il broncio freddo di poco prima cangiato nel più radioso dei suoi sorrisetti inquietanti.
In un boato, il motore venne risvegliato e Sherlock diede briglia sciolta a tutte le centinaia di cavalli che mi ritrovai involontariamente sotto il sedere, facendoci rimettere in carreggiata.
Usciti dal centro città, stavamo imboccando quella che mi parve essere un’autostrada, i primi alberi e le case di legno all’orizzonte, come piccoli nei spruzzati nel corpo sinuoso e verde chiaro delle colline lontane. Guidò per una buona mezzora in silenzio religioso, trafitto soltanto dai profondi ringhi del veicolo ad ogni cambio automatico di marcia, prima che estraessi le unghie piantate sul bracciolo della portiera di destra e mi schiarissi la voce.
“Ehm, come… come stai?” domandai, badando a tenere lo sguardo fisso sulla strada.
“John, per piacere… Piuttosto davvero parliamo del tempo, ti va?” disse burbero, stringendo così tanto il volante che le nocche gli diventarono bianche. Più del solito, almeno.
Mi morsi l’interno di una guancia e lo stomaco mi si restrinse: chissà quanto sarebbe durato il viaggio, ovunque stessimo andando, e chissà quanto sarei durato io prima di decidermi a strangolarlo con la cintura di sicurezza.
Volsi lo sguardo al cielo e sbuffai.
“Mi sa che stasera piove” dissi dunque.
L’improvvisa e brusca decelerata che seguì a quelle mie parole mi fece intuire che neanche il tempo fosse propriamente l’argomento preferito del mio interlocutore, affetto da una strana forma di meteorismo compulsivo.
“John!” abbaiò.
“Che c’è?!”
“Sta’ zitto, okay? Sta’… zitto.”
“Stare zitto?! No, carino, forse non ti è chiaro un piccolo, insignificante particolare. Mia moglie è scomparsa, e io non so dov’è, e mi sono fatto convincere a salire su questa stramaledetta auto, con te, cioè non esattamente l’essere più affidabile del pianeta Terra, diretti chissà dove, chissà da chi!”
“Non te l’ha chiesto nessuno di farla venire qui.”
“Oh, certo. E secondo te cosa avrei dovuto fare? Dirle semplicemente: ‘Mary, tesoro, vado in Svizzera a sollazzarmi col mio amante, uomo, mentre tu te ne stai buona buonina a casa a lavar piatti mentre pensi ad un solo, misero motivo per cui dovresti meritare me come marito’?!”
Sherlock sospirò pesantemente, alla maniera cinica e completamente disinteressata con cui trattava circa il novantanove virgola nove periodico percento delle persone sulla Terra, solo noiosi e mediocri individui che con lui non hanno niente in comune se non il fatto di respirare la sua stessa aria.
“John, solo… fidati, okay?”
“Fidarmi!” esplosi, assumendo una tonalità di voce al limite dell’isterico “D’accordo. Fidiamoci del grande, immenso intelletto di Sherlock Holmes, consulente detective, spia e… distruggitore di vite.”
Mi accorsi subito di averla sparata grossa, enorme, e mi morsi un labbro quasi a sangue per questo, ma non era certo rimorso quello che mi grattava le pareti delle viscere, né pena. Forse ci stavamo solo abituando all’idea che per distruggerci le vite a vicenda, alla fine dei conti, ci eravamo semplicemente nati, e che sarebbe stata la nostra fine migliore. Avrebbe incassato quel colpo come uno dei tanti pugni nello stomaco per cui entrambi stavamo sviluppando il callo, un poco alla volta.
“Perdonami” mi riuscì solo di dire dopo uno sconquassante silenzio da parte di entrambi, e gettai nuovamente lo sguardo al paesaggio che ci sfrecciava di fianco, all’asfalto lucido, al timido sole che colorava di rosa ed ambra tutto ciò che il suo caldo ed avvolgente abbraccio d’alba sfiorava, mentre dentro, invece, mi sentivo lentamente estinguere.
Avrei dato tutto il mio cuore e tutto il coraggio che non avevo per poterlo abbracciare così, in quel momento, lui che adesso mi appariva così fragile, di cristallo ammaccato dietro a quella sua onnipresente, stramaledetta maschera d’apatia.
“Sai,” fece ad un certo punto, tirando su col naso “non sono sempre stato così.”
Dovetti socchiudere gli occhi per un momento quando il riverbero dei primi raggi solari incontrò il vetro splendente dell’auto, concentrandovi tutta la loro potenza.
“Così come?” chiesi quasi sottovoce, asciugandomi gli occhi irritati dalla luce e da un paio di pensieri altrettanto fastidiosi.
“Così che risolvo casi ben più complessi dell’amore ma che, nonostante tutto, esso rimanga sempre un mistero, per me.”
“L’amore non si spiega, Sherlock. Si vive, e basta.”
Per la prima volta da quando ero salito in macchina, distolse lo sguardo dalla strada per gettarlo nel mio, le spesse sopracciglia aggrottate, un grosso e lampeggiante punto interrogativo al centro dell’ampia fronte e gli angoli della bocca lievemente rivolti verso il basso. Ne risi mentalmente, di quel cipiglio, come se per l’ennesima volta stesse cercando di decifrarmi e si stesse maledicendo da solo per l’ennesimo buco nell’acqua.
“Non puoi pretendere che tutto possa essere spiegato attraverso la logica” aggiunsi infine, sorridendogli con tanta dolcezza quanta amarezza.
Scosse leggermente il capo e riportò l’attenzione davanti a sé, mantenendo quell’espressione tra il perplesso e il deluso, e mise la freccia per imboccare un’uscita sulla destra. Poi, prima di parlare, prese un lungo respiro che sembrò costargli più fatica di quanto normalmente un gesto simile richiederebbe.
“All’università,” principiò “c’era un ragazzo. Io ero ancora una matricola ingenua e troppo invasata di scienza quando lo incontrai in aula microscopi. Faceva da tutor agli studenti più giovani e aveva due, tre anni più di me. Ne rimasi subito estremamente colpito, e non solo per la sua grande passione verso catalizzatori ed elettromagnetismo. Era… gentile, di quel tipo di gentilezza genuina, disinteressata, l’unico ad esserlo stato con me fino ad allora, soprattutto nel contesto in cui ero stato inserito: figlio degli Holmes, in un’università pubblica. La reputazione della mia famiglia, ricconi con gli stemmi in soggiorno ma senza un briciolo di empatia verso gli umani sentimenti, padre diplomatico, madre grande dirigente d’azienda e un fratello a scienze politiche, mi precedeva ovunque andassi, influendo su chiunque. Ma non su questo ragazzo.
“Cominciammo a parlare, a scherzare – per quanto orribili fossero le sue battute – ed io a lasciare che mi desse alcune dritte riguardo ad esperimenti e strategie da adottare agli esami. Studiavamo insieme, mangiavamo allo stesso tavolo alla mensa e, qualche volta, l’avevo portato a casa, sai per… ripetizioni pomeridiane. Per fartela breve, ci finii a letto in un semestre e no, non è come pensi.
“I miei avevano divorziato da poco, Mycroft se n’era andato negli Stati Uniti in vacanza studio ed io ero rimasto solo, solo coi miei libri e un unico amico con cui potermi confidare che non fosse lo specchio o i becher.
“Era Capodanno e, beh, mi aveva invitato a una festa, a casa sua. Tutta gente che più o meno conoscevo e che non poteva sopportarmi, colleghi di università e anche qualche professore. Insomma, l’alcol scorreva a fiumi, gente che vomitava e fumava di tutto tranne che tabacco in giardino… Lui, ubriaco fino all’osso, mi prese in disparte con la scusa di presentarmi la sua ragazza, e mi portò in camera da letto dei suoi nella quale ci chiuse a chiave. Rideva in continuazione, come un pazzo, e puzzava di vodka e marijuana in una maniera allucinante. Gli dissi di smetterla, che non mi pareva il caso di comportarsi in quel modo, che non sapeva quello che stava facendo… Ma non sembrava esserci. Quello non era il ragazzo gentile e disponibile che avevo conosciuto, diverso dalla restante marmaglia di schizzati troppo occupati a rendermi la vita impossibile.
“Ad un certo punto, da un cassetto di un mobile tirò fuori una bustina che cominciò ad agitarmi sotto il naso mentre continuava a ripetere: ‘piccolo, adesso ce la spassiamo’, ‘vedrai che non te ne pentirai’, ‘voglio farti un regalo’. Ricordo come fosse adesso la mia prima volta… Cocaina e sesso, due in uno, come in una di quelle offerte da discount. La sensazione della droga, deflagrante su per le narici, e le sue mani sotto i miei vestiti mentre la percezione della realtà si affievoliva sempre di più insieme alla forza di ribellarmi a quelle carezze.
“Fece male, John. Parecchio. Mi risvegliai la mattina seguente in un letto d’ospedale e mia madre in lacrime seduta di fianco. I dottori mi dissero che ero andato in overdose, un cocktail di coca e alcol, e… beh, da medico puoi immaginare il resto del referto. Li pregai di non dire niente a mia madre di cosa fosse successo, e da stupida matricola qual ero, invasata tanto di scienza quanto di bugie, m’illusi che non gliel’avessero già detto, prima che mi risvegliassi. Lei non mi disse niente, mai, né riparlò più della faccenda. Mio fratello lo venne a sapere da ricerche fatte craccando l’archivio dell’ospedale e mio padre, vivendo all’estero, restò sempre all’oscuro di tutto. Non avrebbe mai potuto reggere il fatto di avere un figlio… come me, insomma.
“Ora ti dirai: ‘beh, l’avrà denunciato, questo tizio. Gliel’avrà fatta pagare, in qualche modo’. Lui lo rividi in facoltà due mesi dopo, in segreteria mentre mi occupavo delle carte che accertavano la mia prolungata assenza dalle lezioni. Inspiegabilmente, non sentii nulla. Né rabbia, né voglia di vendicarmi. Solo un enorme vuoto, un vuoto bruciante che avevo bisogno di colmare, in un modo o nell’altro, a qualunque costo. Perché, quella roba, la prima volta che l’assaggi… oddio, è quella definitiva. Un po’ come il sesso, in cui la prima volta va un po’ così, ma poi ti accorgi che ne vuoi ancora, dopo, e ancora, sempre di più per sapere se la prossima sarà migliore della precedente.
“Lo richiamai. Mi chiese come stavo, se avevo intenzione di rivederlo, se eravamo ancora amici. Non mi chiese mai scusa per ciò che mi aveva fatto, anche perché io non le avrei mai accettate, le sue scuse. Così, suggellammo la nostra ritrovata amicizia una mattina, durante la pausa tra due lezioni sul retro dell’edificio, brindando con due strisce sulle assi di una panchina.
“Non so per quanto andò avanti questa storia prima che mi scoprissero. Ricordo solo che non superavo un esame e che erano più le lezioni che non frequentavo di quelle a cui partecipavo strafatto. Le tirate sporadiche, così, diventarono vera e propria dipendenza, e non potendomi permettere i miei grammi quotidiani né certo di chiedere a mia madre dei soldi, mi rifornivo da lui, al solo prezzo di un paio d’ore del mio corpo.
“Poi, un giorno, quello che mi fu fatale ma per il quale stranamente avrei volentieri venduto l’anima affinché arrivasse il più presto possibile, arrivarono dei poliziotti in facoltà a seguito di alcune segnalazioni per la detenzione di sostante stupefacenti tra alcuni studenti.
“Ero prudente, non mi portavo mai la roba appresso, per questo quando me la trovarono in una delle tasche dello zaino mi crollò semplicemente il mondo addosso. L’ultima cosa che ricordo, del suo viso, è l’espressione svuotata di qualsiasi emozione, un Giuda che restò semplicemente a guardare mentre mi portavano via, il braccio appoggiato sulle spalle di una ragazza dell’ultimo anno che immaginai essere stata la sua amante mentre si vedeva con me. O forse ero io l’amante, la puttana drogata, il capro espiatorio da macchiare delle proprie nefandezze, quello che poi mi sarei sempre dimostrato essere.
“Fui espulso dall’università, ovviamente, e per intercessione di mio fratello, che intanto era tornato a Londra e si era laureato, mi fu evitata la prigione. Ero sempre stato un ragazzo intelligente, molto più della norma dei ragazzi della mia età, propenso all’osservazione, alle deduzioni, affascinato dalle applicazioni scientifiche nel campo della medicina legale.
“Questa allegra storiella insomma finisce con me che si quasi-disintossica e con Scotland Yard che mi assume prima come stagista e poi come consulente detective dell’ispettore Lestrade, senza stipendio, ma con tutte le garanzie che un ventenne genio senza speranze potrebbe meritare. La faccenda dei servizi segreti è top secret. The end.”
L’aurora lasciò velocemente spazio al chiarore di un cielo spruzzato di nuvole un po’ ovunque, sulle valli sconfinate, sulle montagne già innevate, giocando sui toni dell’verdazzurro, del grigio plumbeo e del cremisi, una tavolozza di colori stupendi che nelle grandi città è quasi impossibile ammirare ma che, in quel preciso istante a racconto concluso, mi stavo godendo come un proiettile in pieno petto.
Come psichiatra avrei fatto pena, odiavo la mia analista e non ero in grado di risolvere neanche i miei, di problemi, dunque quando aprii bocca non riuscii a fare altro se non rantolare un misero “mi dispiace” che probabilmente sentii solo io.
Fu come se qualcuno mi avesse preso per la gola ed avesse stretto, fortissimo, ma non abbastanza da uccidermi, facendomi assistere al lento ed indecoroso spettacolo dell’anima che muore lasciando il corpo in vita.
“Sei la prima persona in dieci anni a cui lo dico. Dovresti ritenerti… lusingato, come minimo” disse alzando di poco il tono, molto probabilmente per mascherare una quasi impercettibile incrinatura nella voce che si affrettò a camuffare con un breve colpo di tosse.
Mi umettai le labbra tre, quattro volte prima di riprovarci.
“Io… io non… non potevo…”
“Sapere? Certo che no. Tu sei stato il primo in tante cose, John. Nonostante tutto.”
Il primo. C’era stato qualcun altro prima del sottoscritto, ma nonostante questo mi riconosceva come primo?
“Mi è sembrato che… insomma, quando noi… la sera prima del matrimonio…”
“Il sesso, credimi, è tutt’altra cosa” m’interruppe, e lo ringraziai. Sarei stato incapace di proseguire, in effetti, di tornare sul discorso fisico, Dio, non dopo quello che mi aveva confidato.
“Sei stato il primo, John” ribadì in un mormorio, quasi più a se stesso che a me. “Mi hanno rovinato la vita, la salute, incrinato il modo di vedere e di vivere i sentimenti, e tu sei stato il primo a tendermi la mano, a restituirmi la vista…”
Si bloccò per un attimo, facendo incontrare nuovamente i nostri occhi ora così diversi, trasparenti ed incredibilmente veri, forse mai così tanto, e, tutt’a un tratto, quell’espressione vitrea fiorì nel più mesto e al tempo stesso sereno dei sorrisi che gli vidi mai sorgere sul viso, come il sole più caldo in un cielo pallido e troppo spesso tempestoso.
“Tu sei il mio conduttore di luce” disse infine in un mesto sussurro riportando lo sguardo sulla strada, mentre già io non ascoltavo quasi più, godendo soltanto di tutto quell’amore, lo stesso che diceva di non sapersi spiegare ma che, in quel momento, semplicemente ed inconsciamente lo stava invadendo in tutto il suo essere facendolo brillare come il più bello e vicino tra gli astri celesti, anche se non l’avrebbe mai ammesso, soprattutto a se stesso.
Fu quello, credo, il preciso istante in cui seppi che Sherlock Holmes mi amava. E non di quell’amore ingenuo, inerte, inconsapevole e finto. Di un amore tutto suo, forse troppo sfacciato, maldestro e deliziosamente spontaneo, svuotato di tutta l’ipocrisia e solo troppo stupido per accettare di essersi esposto troppo, arrivando al famigerato punto di non ritorno. Di un amore diverso, un po’ fisico, un po’ platonico, un po’ poetico, un po’ tanto scemo, ma un amore vero, quella razza di amore di cui avevo bisogno per sanare la mia moltitudine di sfregi.
Da ragazzo, non credevo che potessero esistere cose del genere, cose per cui la gente darebbe un braccio solo per… sentirsi così, anche solo per un minuto. Ma non è detto che qualcosa non esista solo perché ancora non si è palesata alla nostra attenzione, sempre troppo impegnata a cercare l’anima gemella quando invece dovremmo sapere aspettare, amando quando si è innamorati e non quando se ne sente semplicemente la necessità, come gli animali.
Fu quello dunque, credo, il preciso istante in cui seppi che ero innamorato di Sherlock Holmes, o che comunque ne ebbi la prova schiacciante. E non di quell’amore bisognoso, come temetti che fosse sempre stato tra noi, ma di un amore adorante e speciale e catartico, di quella specie d’amore che libera e guarisce e salva, senza chiedere nulla in cambio se non il leggero piacere di un bacio o di una carezza sotto il buio delle lenzuola.
Lucciole, eravamo, no? Vive della sola luce dell’altro nel nostro barattolo di astrusità che un po’ era quell’auto lussuosa, il mondo intero sfrecciante di fuori, i suoni attutiti, i colori amplificati e nient’altro al di fuori di noi.
Saremmo morte, noi lucciole, nello spegnersi di quella nostra luce al mattino quando la Terra si risveglia e si va sempre troppo di fretta per ricordarsi di aprire il coperchio e lasciarci uscire, libere.
“Ti amo. Lo sai questo, vero?” mormorai, allungandogli una mano dietro l’orecchio ed accarezzandoglielo in punta di polpastrelli.
Un sorriso e, Dio, si può arrivare a venerare qualcuno?
“E tu lo sai che siamo arrivati, vero?”
In tutto quel detto e non detto e finalmente detto e non del tutto detto, mi ero quasi completamente estraniato dallo spazio e dal tempo circostanti.
Mi resi così improvvisamente conto che, usciti dalla strada principale, ci eravamo addentrati in una specie di strada rurale inghiottita nel verde delle colline.
“Dove siamo?” chiesi quindi.
“Cantone di Berna, tecnicamente” rispose, tamburellandosi una tempia, gesto che probabilmente voleva indicare il GPS integrato del quale, secondo lui, avrei potuto fidarmi ciecamente senza sentire il bisogno di tormentarlo con ulteriori, boriose domande.
Parcheggiò l’auto in uno sprazzo ghiaioso senza curarsi se fosse il luogo più adatto dove lasciare un auto che, nel bel mezzo di un bosco, sicuramente non si mimetizzava con scoiattoli ed edera.
“Sherlock, sei…”
“Sì, John, sono sicuro. Goditi la natura.”
Detto questo, spense il motore e uscimmo dall’abitacolo. Una brezza leggera e fredda c’investì in pieno facendoci accapponare la pelle e, ovunque posassi lo sguardo, il verde smeraldo della vegetazione e il silenzio ventoso della foresta ci circondavano come una rassicurante coperta profumata di muschio. Se non fosse stato per mia moglie, avrei volentieri invitato Sherlock a un picnic sotto un albero, vicino al torrente di cui si sentiva distintamente il rumore impetuoso dei flutti più in basso. Almeno se fosse stato un tipo da picnic, Sherlock… e non da inseguimenti di psicopatici nel bel mezzo dell’Europa.
“E ora che si fa?”
“Mio fratello vuole che lo aspettiamo.”
“E dunque che facciamo?”
Un vago sorriso da ‘John, me lo stai davvero chiedendo?’ mi bastò come risposta per starmene definitivamente zitto e andargli semplicemente dietro, come sempre, affidandomi al suo infallibile fiuto per mettere nei guai se stesso e gli altri.
Camminammo per circa una mezz’ora, inerpicandoci per dei sentieri invasi dalla vegetazione ed immersi nella penombra, e sperai solamente che quel suo infallibile navigatore mentale fosse aggiornato perché oltre che a seguire il corso del fiume non mi pareva che rispettasse una qualche sorta di itinerario prestabilito, facendo basare il suo criptico senso dell’orientamento sullo sfioramento apparentemente illogico di rami spezzati e sassi che, a detta sua, non avrebbero dovuto stare dove stavano.
Qualche minuto e parecchie mie imprecazioni dopo aver superato un grosso albero dalle lunghe e floride fronde, tanto grandi da nascondere il ruscello che cominciava a farsi sempre più impetuoso, Sherlock inchiodò improvvisamente, annusando l’aria come un bracco e puntando verso una piccola cascata a circa cinquanta metri in linea d’aria dalla nostra postazione, sopra una roccia.
Il sole, ormai splendente ed alto in un cielo ceruleo, giocava nei suoi milioni di riflessi con la schiuma dell’acqua che, cadendo, scrosciava violenta esplodendo in tutto il suo fragore sui massi lucenti parecchie decine di metri più in basso, defluendo oltre la valle, giù, fino a scomparire dietro l’ennesima collina inghiottita dalla foresta.
“Ehm, è questa la cascata del tuo biglietto?”
“Sento puzza di domanda retorica, John…”
Mi limitai a sospirare, rassegnato al fatto che uno Sherlock nel bel mezzo di un caso e di una foresta, non propriamente il suo habitat naturale, fosse più psicologicamente instabile di una donna mestruata e che il sottoscritto si dovesse  astenere dall’aprire bocca, ad esclusione di casi eccezionali come imminente omicidio della mia persona, fine del mondo o Mycroft in costume da bagno a pois che sguazza nel ruscello in compagnia di una paperella di gomma.
Ci muovemmo facendoci strada tra gli alberi e stando attenti a dove mettevamo i piedi dato il terreno sdrucciolevole ed umido che caratterizzava la zona al di sotto della quale ci aspettava nient’altro che un piacevolissimo strapiombo sulle rocce.
C’era una grotta, sopra la cascata, piccola e buia, ma certo non abbastanza spaventevole per l’impavido detective e il molto rassegnato me che, certo, aveva combattuto una guerra, suturato nel deserto, e dunque cosa sarebbe mai stato qualche metro di caduta libera e barra o un più che probabile proiettile nel cranio?
“Silenzio!” tuonò ad un tratto il mio compagno, giunti all’imboccatura della spelonca.
“Non ho detto nulla, per Diana!”
“Stavo parlando alle tue ginocchia, John. Soffri di manie di egocentrismo?”
“Sherlock, stai facendo più casino tu che io con le mie ginocchia. E poi, se vogliamo dirla tutta, non sono propriamente io quello a soffrire di…”
Non arrivai a terminare la frase che ad un tratto mi sentii stritolare da dietro, un braccio corposo ed avvolto nella pelle di quello che doveva essere un giubbotto mi circondò la gola con la forza di un boa constrictor, e tutto quello che riuscii a fare fu guardare Sherlock impallidire e alzare le mani al cielo.
“Benvenuti, signori, alle cascate di Reichenbach” disse la voce pacata alle mie spalle, la stessa che avevo incontrato in quel vicolo la sera prima. “Cosa vi porta da queste parti?”
“Mettila giù, chiunque tu sia, e nessuno si farà del male” mormorò Sherlock con una bizzarra voce arrochita, spostando lo sguardo raggelato dalla mia faccia a quella del mio assalitore di cui potei avvertire contrarsi su una tempia il sorriso deforme.
“Oh, ma che maleducato sono. Non ci siamo neanche presentati, io e te. Forse John, qui, può rimediare a questo madornale errore.”
Per permettermi di parlare, spostò la canna della pistola, con la quale evidentemente teneva sottoscacco Sherlock, dietro la mia nuca, liberandomi così la gola.
“Tu… lo conosci?” chiese quest’ultimo, assottigliando gli occhi al mio indirizzo.
“Io…” sospirai, e non ebbi il coraggio di continuare a guardarlo in faccia. “Lui è Sebastian Moran. Noi ci siamo incontrati ieri sera, in città, e…”
“Oh,” m’interruppe il detective “il tuo amico dell’hashish.”
Sentii Sebastian irrigidirsi, la sua voce naturalmente calma incrinarsi.
“Come sai che…”
“Irrilevante. Dov’è lei?”
“Al sicuro. Per ora.”
“Se le avete torto anche solo un capello…” ringhiai io, tutt’a un tratto temerario e dimentico di avere una pistola puntata alla testa.
“Calma, capitano. Non è lei che lui vuole.”
L’ultima reazione che in quel preciso momento mi aspettavo di vedere materializzarsi sul volto di Sherlock era l’euforia.
Una risata inquietante uscì baritonale dai suoi polmoni che mi fece rabbrividire più del freddo metallo dell’arma dietro la nuca.
“Ecco il perché di tutta questa sceneggiata, allora” disse il mio complice, ancora ridendo. “Ecco il perché del far venire qui l’unica cosa che per me a questo mondo abbia un valore, renderla fragile… per colpire me.”
Ad un tratto, mi vennero in mente le parole d’avvertimento di Sebastian della notte prima.
Sapeva chi ero, qualcosa l’aveva spinto ad avvisarmi dell’imminente pericolo, della possibilità per me di salvarmi… Ma, come ben sa anche lui, le cose si salvano una alla volta e a coloro che tentano di fare gli eroi, vivendo in bilico di più di una cosa per la quale essere disposti a dare la propria stessa vita, spetta nient’altro che perdita.
Avevo fatto la mia scelta.
“E tu sei l’unica cosa che per lui abbia un valore, Sherlock Holmes” sussurrò il cecchino, non senza una punta d’amarezza. “E per ottenere le cose a cui teniamo più di ogni altra cosa al mondo, la gente oggigiorno è disposta a tutto. Tu gli devi tutto.”
“Come lui a me.”
“Allora consegnati e piantiamola qui.”
“Lo farei… se fosse vero. Che non appena sono nelle sue mani tu non premerai il grilletto.”
“Sempre così perspicace, non è vero sexy?”
Una voce, profonda come l’abisso in attesa alle nostre spalle e graffiante come quelle pareti di pietra, attirò la nostra attenzione nonostante Sherlock si fosse limitato a sorridere sotto i baffi senza la necessità di voltarsi per riconoscerne il proprietario.
“James. Sempre a bazzicare nell’illecito, non è vero?”
“Oh, ma mi conosci, bellezza” sogghignò l’uomo di tutto punto vestito, avvicinandosi.
Una mano si andò a posare da una tasca dei lussuosi pantaloni sotto il mento di Sherlock, che si scostò bruscamente. “Di certe cose non ne posso proprio fare a meno.”
“Se provi a toccarlo ancora, io giuro che…” ringhiai facendo un paio di passi in avanti, ma fui subito bloccato dalla canna della pistola dell’uomo alle mie spalle che me la premette forte sulla gola, cingendomi il torace con un braccio.
“Che cosa, dottor Watson? Mi tira addosso la cassetta del pronto soccorso? Oddio, sto tremando di paura!” mi schernì Moriarty, mimando una voce di donna. “Mi sembra ancora di sentire la sua adorata moglie gridare dallo spavento quando non voleva accettare il mio gentile passaggio. Non è proprio galante lasciare una bella donna come lei girare tutta sola, in lacrime, nel bel mezzo della notte. Ho dovuto farla sedare da quanto strillava.”
Mi sentii morire. O almeno fu per un attimo questo, il mio desiderio: che Sebastian premesse il grilletto e mi sollevasse da quell’atroce tormento, una volta per tutte, di sapere mia moglie in quella grotta umida, incosciente e sola, ignara di tutto, mentre suo marito non riusciva a fare altro se non tremare di paura e fare il leone quando non era altro che un misero animaletto spaurito messo in gabbia ad aspettare la morte.
“Sa, John,” continuò, venendo verso di me ghignando “lei è proprio patetico. E per giunta pretende di tenere i piedi in due scarpe. Oh, ma non mi guardi così… Offende la mia intelligenza e la sua, benché minima, se pensa di potermi mettere nel sacco. Vi ho capiti, voi due, sapete? Sexy non si sarebbe mai scomodato tanto per una donna che, contro ogni dubbio, è l’unico ostacolo tra se stesso e lei. Perché Sherlock ci tiene, a lei, vero? È sempre stato un po’ il suo difetto, in verità, tenere alle persone sbagliate, fidarsi. E si è sempre fatto… male.”
E ad un tratto, tutto mi fu improvvisamente, terribilmente cristallino.
“Tu. Tu sei quel figlio di puttana del college…”
Il nero pece dei suoi occhi, poco distanti dai miei, sembrò inghiottirmi da quanto li sbarrò.
“Ma ti ha raccontato di quella vecchia, vecchissima storia del college? Devi essere davvero molto, molto importante per lui, allora. Comunque non saltiamo a conclusioni affrettate perché io non l’ho sfiorato con un dito, il caro Sherlock. Quella è stata un semplice, stupida svista di quell’imbecille di Victor.”
“Victor?”
“Victor Trevor! Ero il suo pusher di fiducia, ai tempi dell’università. La facoltà di Chimica e quella di Medicina erano affiancate e lui era il mio unico appiglio per… ampliarmi. So che un giorno venne da me, con un sorriso che gli partiva da un orecchio e gli arrivava all’altro, dicendomi che aveva trovato un buon cliente, un ragazzino che tutti detestavano e che si era scopato l’ultimo dell’anno. Non era un cazzo di nessuno, Victor. Ero io quello che dava da mangiare al nostro animaletto, qui.”
“E dimmi,” intervenne Sherlock, come se stessimo parlando del risultato dell’ultima partita di football “dove è andato a finire quel povero diavolo?”
“Chi? Vic? Oh, credo in qualche buco di carcere, giù in Siberia. Ma non c’entro niente io, questa volta. O almeno, da quanto mi pare di ricordare. Ma bando al passato! Che si stava dicendo? Ah sì, del fatto che ora Sherlock si fa scopare da lei, dottore.”
“Sporco bastardo…”
“Stia calmo, John, perché non ci metto niente a farle saltare quella testolina da fedele cagnolino. Che direbbe Mary, l’amore della sua vita? Oh, ma che sbadato. Lei non la ama.”
“Io amo mia moglie.”
“Beh, allora la ama male. Avrebbe dovuto accogliere l’invito del signor Moran ad andarsene quando ancora era in tempo. Ma sa che le dico? Grazie. Grazie per avermi reso le cose più facili e soprattutto più divertenti, collega.”
Riuscii a malapena a cogliere il gesto minimo del capo del criminale prima che venissi spinto a terra in ginocchio ed avessi il tempo di trasalire per il click metallico della sicura dell’arma che veniva disinserita.
L’urlo agghiacciante lanciato da Sherlock risuonò come un allarme lungo l’intera vallata sotto i nostri piedi, e la sua eco tornò indietro frastornandomi. Credei, sperandoci in fondo anche un po’, che fosse l’ultimo suono che mi avrebbe accompagnato nella mia corsa giù nell’abisso.
“Ti amo, Sherlock” dissi solo, sottovoce, perché morire col suo nome sulle labbra mi pareva semplicemente la cosa più meravigliosa, l’unica e sola, che mi potesse capitare in quel momento.
Chiusi gli occhi, aspettando la sensazione che già avevo incontrato in battaglia, del proiettile che trapassa la carne, che sbriciola le ossa ed esce dalla parte opposta con un fischio, lasciando spazio per il defluire del sangue, e dell’anima insieme ad esso, al bianco del dolore accecante dietro agli occhi e sotto la pelle, finché tutto non si fa finalmente scuro e non si sente più nulla.
È un po’ come addormentarsi, infine.
“Sebastian! Che cazzo fai? Sparagli, adesso!”
La canna della pistola mi tremava addosso e col cervello ero già proiettato nella fossa.
“Io… io non…”
Non seppi cosa mi diede in quell’istante preciso la forza di non svenire. So solo, da quanto mi è dato ricordare, che il tutto avvenne in pochissimi istanti: sentii Moriarty inveire contro il complice, un rumore metallico, poi un tonfo secco, come di due corpi che si scontrano, uno sparo.
Riaprii gli occhi nell’esatto momento in cui, sul bordo del precipizio, il detective e il criminale erano uno riverso sull’altro, Moriarty con la giacca strappata su una spalla e una rivoltella fumante in mano, la stessa a cui era disperatamente appeso Sherlock,  l’espressione sofferente, con la camicia sotto al cappotto macchiata di sangue.
Sebastian stava singhiozzando. Molto probabilmente era nel pieno di una crisi in quanto mi guardava dall’alto al basso battendo i denti come un bambino, cianotico e sudato, il viso martoriato dalla guerra e disfatto dalla colpa, e tutto quello che riuscii a fare approfittando quel suo momento di buio fu rialzarmi e gettarmi sul corpo del mio amico, inerte a terra, mentre il suo antagonista lo spingeva sempre più verso il baratro.
Impegnato com’era nella distruzione della sua nemesi, non si accorse del mio destro che arrivò dritto a destinazione, facendolo caracollare insieme alla sua preda alla quale si teneva strettamente ancorato, come se ne andasse della sua stessa vita nonostante le circostanze.
“Sherlock!”
Lottai per qualche istante contro l’incredibile forza di quelle braccia furiose, in un disperato tira e molla che avrebbe segnato la sorte della mia vita e di quella di moltissime altre persone. Del mondo, forse.
“Se devo cadere, John, che lui cada con me!” gridò Moriarty rabbiosamente, una maschera d’orrore, attaccato con una mano a una sporgenza rocciosa bagnata e con l’altra al braccio del mio migliore amico, oramai quasi incosciente.
“Mai,” rantolai, puntandomi sui piedi “gli devo la mia vita. Non puoi portarmelo via. Non di nuovo.”
Rideva, rideva come uno psicopatico che ha perduto tutta l’antica umanità ed ogni cosa per cui lottare, se non quel piccolo ma significante dettaglio che inspiegabilmente ci univa nel filo rosso della necessità.
“Non può amarti, John!”
Erano due necessità diverse, le nostre.
“Tu non sai cos’è l’amore. Non l’hai mai provato,” e in quel momento, con la coda dell’occhio, intravidi Sebastian cadere in ginocchio, poco distante da dove eravamo noi, la pistola in grembo, il volto scarnificato dal supplizio mentre con gli occhi inondati di lacrime scuoteva la testa all’indirizzo dell’agghiacciante scena a cui stava assistendo. “E non ne hai mai concesso. Non saprai mai cos’è, sentirsi come mi sento quando sono con lui.”
Moriarty staccò il contatto visivo con me per allacciarlo a quello del suo compare, ormai piegato in un pianto disperato, immobile nell’erba e fragile come mai avrei pensato di vederlo, di vedere qualsiasi altra persona.
“Seb,” lo chiamò, la voce improvvisamente e innaturalmente dolciastra “cosa fai? Aiutami, Seb. Io…”
“Sta’ zitto!” tuonò il colonnello, ormai fuori controllo. “John ha ragione… Non c’è niente di particolarmente malvagio, in me. È che sei sempre stato tu la parte malvagia di me, in realtà…”
“Ma cosa stai dicendo?”
Percepii nella voce e negli occhi del malvagio la prima, fatale sfumatura di fallimento. Come se tutti i grandiosi piani, le congetture, le sfide e lo stesso destino gli fossero crollati addosso nel giro di quei cinque minuti scarsi in cui se la stava vedendo non più con uno, ma con ben due soldati di Sua Maestà, uno più incazzato dell’altro, se vogliamo dirla tutta, per motivi diversi ma entrambi paurosamente influenti per il suo futuro.
Ma che futuro può avere un uomo che gioca con la vita degli altri, che non conosce l’amore, che lo guarda in faccia e non sa fare altro se non chiedergli…
“Perché?”
Il colonnello lo fissò col suo sguardo verdastro, liquefatto dalla pena per se stesso e la compassione verso qualcuno che probabilmente gli aveva mentito fin dall’inizio. Poi guardò me, e lo sentii terribilmente vicino.
“In quel vicolo ti è bastato uno sguardo per sapere tutto di me, John, e anch’io lo credevo. Di sapere tutto della persona che mi salvò la vita, a Kabul, parandosi davanti e prendendo la pallottola per me. Già, ti ho portato io via da quel Tartaro, fino al campo medico per farti medicare, ma tu sei svenuto prima di potermi vedere in faccia. Col tempo ho dimenticato la tua ma non certo chi sei. Ora so a chi devo davvero ciò che sono.”
Gli occhi cominciarono a bruciarmi. Un po’ per i riflessi del sole che l’acqua scrosciante sotto di noi rendeva accecanti, un po’ per l’odore del sangue che mi tingeva le mani, un po’ per tutte quelle rivelazioni così importanti in un giorno solo, un po’ per la visione di un uomo ridotto alla stregua della cartapesta che baciò la sua Nikita prima di aprire le labbra e premere il grilletto… E seppi che nell’animo umano si combattono battaglie ben più feroci di quella a cui entrambi avevamo preso parte, perdendo entrambi qualcosa, io la testa, lui il cuore. Ma la testa, come si sa, a volte si può anche rimettere a posto, cancellando e rimuovendo qui e lì, ma quando al cuore si toglie un pezzo di sé, è difficile recuperarlo e molte volte la gente crede di poter sostituire il moncone con tristi surrogati in un puzzle di pezzi incongruenti che vivono nel loro incastro sbagliato, sformandosi, rompendosi, non riuscendo più a riunirsi con nessuno, neanche col proprio complementare se mai gli capita la disgrazia di incontrarlo.
Ci dovevamo entrambi qualcosa, io e il colonnello Moran, che forse aveva perso entrambi. La sola differenza tra me e lui, oltre alla carriera, sarebbe per sempre rimasta l’avere qualcosa per cui vivere e per cui sarebbe anche valso morire col sorriso sulle labbra e con la certezza di aver ricevuto tanto amore quanto ne avevamo dato.
Con uno strattone, sottrassi Sherlock dalla morsa di James Moriarty il quale, privato di ogni appiglio fisico e morale per continuare a combattere, si lasciò semplicemente andare alla voragine, sparendo in silenzio tra i cavalloni d’acqua e andandosi a schiantare sulle pietre con un botto quasi inudibile.
Il seguito di questa storia è vagamente immaginabile: Mycroft, puntuale come sempre, e Lestrade con mezza Scotland Yard al seguito arrivarono di corsa sguinzagliando il loro plotone di precauzione su un cadavere e su un moribondo mentre io, con quest’ultimo in un lago di sangue tra le braccia, prima che la vista mi si oscurasse del tutto feci in tempo a mormorare il nome di mia moglie.



Per la prima volta in vita mia, mi resi conto di quanto nauseabonde sono le pareti piastrellate di una camera d’ospedale. Voglio dire, come medico non dovrei farci caso. A quanto pare avevo sviluppato un’assuefazione per cose diverse, ultimamente.
“Sher… Sherlock. Dov’è Sherlock?”
Ma gli occhi che mi guardavano impassibili poco lontani dal letto in cui ero inchiodato, grandi e color nocciola, non erano quelli che cercavo. Nonostante tutto, si fecero trovare e, in un qualche modo che ancora non mi riesco a spiegare, mi sorrisero.
“John.”
La guancia destra di Mary era arrossata. Aveva inoltre un piccolo taglio sul mento e i capelli sporchi, raccolti disordinatamente in uno chignon improvvisato.
Nonostante tutto, nonostante tutto il resto, si è fatta sempre trovare.
La guardai e non seppi che dire. Chiederle perdono sarebbe stato decisamente inappropriato, chiederle di tornare oltremisura grottesco, perché conoscevo quello sguardo, fin troppo bene, perché senza il bisogno di architettare il famoso Discorso che prima o dopo avrei dovuto farle, riguardo a lui, aveva già capito tutto. Forse con un aiuto esterno – il candido sorriso di Mycroft alle sue spalle me ne faceva sospettare – forse no. Ma il risultato non cambiava.
Le allungai una mano sul viso, pallido come il muro alle sue spalle, ed altrettanto duro, di ceramica incrinata.
Dio, quanto le volevo bene…
“Io…”
“No, John” intervenne, scostandosi lentamente da me. “Non voglio le tue scuse, non… voglio niente. Sono solo contenta che questa brutta storia sia finita e che entrambi ne siamo usciti incolumi. O quasi.”
Si alzò dalla sedia e, avviandosi verso la porta, si voltò un’ultima volta verso di me sorridendomi malinconica.
Non poteva essere più forte di così.
“Ti voglio bene, lo sai questo, no? Te ne vorrò sempre tanto. Hai il mio numero” ed uscì, silenziosamente, portandosi dietro tutta la sua amarezza.
L’avrei rivista a Londra, qualche settimana dopo, per firmare le carte che ci avrebbero reso la nostra libertà e a me la possibilità di evadere dalle mie menzogne e, conseguentemente, dalla mia analista.
Sherlock fu operato d’urgenza per l’estrazione del proiettile di Moriarty che, ancora qualche paio di centimetri più in basso, gli avrebbe preso in pieno il cuore.
Non ero spaventato. Sapevo che quel cuore era mio e che niente e nessuno avrebbe avuto il diritto di deciderne il destino.
L’operazione andò bene. La sanità svizzera e i soldi del governo inglese fecero il proprio lavoro e lo dimisero quasi subito.
Nessuna parola o dichiarazione speciale. Solo un diretto per l’Inghilterra e niente più che un grazie.
“Mi viene il vomito se penso al fatto che altri dottori a parte te mi hanno toccato” mi disse in una smorfia contrariata all’indirizzo del braccio sinistro piegato sul petto con un tutore.
Risi a denti stretti sfogliando svogliatamente una rivista, e non mi servì sentire l’odore polveroso delle poltroncine di Heathrow per sentirmi a casa. 




















Author's Corner:

*si asciuga il sudore dalla fronte e successivamente le lacrime dagli occhi*
Caro fan, sì, proprio tu che hai seguito questa storia dall'inizio alla fine, a te rivolgo questo immenso GRAZIE.
Questo dovrebbe essere l'ultimo capitolo di questa mia prima long che posso comparare minimizzando a un parto plurigemellare con cesareo e con più di un mese di travaglio.
Il bimbo non mi dispiace. Ha gli occhi di Sherlock, il coraggio di John e la bellezza di Anderson. Nel senso che sarebbe potuto venire mooolto meglio ma sono comunque fiera della mia creatura =) Chiedo immenso perdono per tutte le vittime che ho mietuto: Mary in primis, Seb in secundis.
A questo capitolo 15esimo seguirà un mini epilogo che aggiornerò in settimana, giusto una finestra senza senso, la ciliegina su questa torta storta peggio di quella del sedicesimo compleanno di Aurora fatta dalle fatine...
Bene, sono ufficialmente fusa.
Mi scuso per la lunga, eterna attesa ma in preparazione agli esami di maggio e giugno la mia ispirazione e voglia di vivere sono crollate a livelli meno infinitesimali.
Grazie ancora a tutti coloro che hanno seguito e recensito, per il loro supporto e affetto, per i consigli, le critiche, gli apprezzamenti. Vi abbraccio tutti virtualmente *si commuove*
Alla prossima,

miss potter
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Capitolo 16
*** Epilogo ***




EPILOGO
 









Semplicemente, non riparlammo più della Svizzera, degli intrichi internazionali, dei reduci depressi e, soprattutto, di James Moriarty.
Semplicemente, Mycroft non si fece più di tanto sentire, se non per ricordare a Sherlock eventi ed anniversari che quest’ultimo puntualmente confermava e all’ultimo disdiceva tanto per godere della così divertente espressione stupita di mio fratello che ancora ci spera. Parole sue.
Semplicemente, ci lasciammo questa storia alle spalle, insieme a tutte le sue ombre di passaggio, lasciando che i servizi segreti, dai quali Sherlock senziente si era sollevato, spulciassero, indagassero, inseguissero, stanassero gli ultimi rimasugli della fitta ragnatela del criminale che avevamo danneggiato alle cascate di Reichenbach e di cui, ahimè, si sarebbe ricordato per ancora molto, molto tempo insieme alle prodezze del sociopatico che gioca a fare il detective e delle strane tendenze masochiste del dottorino di quartiere con quello strano disturbo psicosomatico miracolosamente curato dal suddetto individuo.
Ma non noi. Non sarebbe più stata la nostra battaglia.
Semplicemente, saremmo maturati, invecchiando all’ombra di ordinari omicidi e ricattatori, delle querce e dei pioppi dei parchi, dei neon della metropolitana e dei take-away.
Prendemmo in affitto questo appartamentino dismesso ed economico, dopo che la padrona di casa di Baker Street morì, per… evadere dalla noia, secondo il mio collega. La verità, o almeno quella a cui mi piace credere, è che ne abbia sofferto, molto, più di quanto temessi che potesse soffrire per qualcosa, o qualcuno.
Accadde semplicemente che anche Sherlock crebbe, e con lui l’empatia per chi dimostrava di volergli bene disinteressatamente.
Accadde semplicemente di vederlo diventare umano, non fragile, ma di carne e cuore, finalmente, e occhi brillanti, più del solito, verso le cose del mondo. E se qualcuno mi chiede se questi venti anni assieme siano valsi l’attesa, beh, sì. Ci possono giurare.

“Jawn…” sussurrò sul mio petto ieri mattina alle prime luci dell’alba che gli rischiaravano il capo ingarbugliato, l’unica parte del suo corpo che le lenzuola non gli coprivano.
Gli dà sempre così fastidio quando glieli faccio notare, i primi capelli grigi intorno alle tempie, perché per me è più facile, borbotta stizzito, io che ce li ho chiari già di mio.
È un testone, e non capisce che per me rimane sempre affascinante anche con qualche ruga in più e un paio di diottrie in meno.
La settimana scorsa l’ho convinto a portare le lenti a contatto, essendosi categoricamente rifiutato di mettere gli occhiali da vista nonostante la mia sfuriata dopo essersi quasi fatto uccidere da un taxi che non aveva visto arrivare.
“Jaawn…”
Ma dove volevo andare con questa voce che mi solleticava un orecchio e ci colava dentro tutto il suo affetto?
Sei proprio patetico, John Watson, sì, lo sei.
“Dimmi, signor Holmes” risposi, accarezzandogli piano la testa.
“Api.”
“Che?
Sbuffò spazientito mugugnando qualcosa su quanto odi ripetersi, di comprarmi un apparecchio acustico, bla bla bla.
Aveva la voce rotta dal sonno e le labbra secche, le stesse che mi strusciava sul torso nudo in combutta con la punta del naso.
“Insetti, Jawn. A righe nere e gialle. Ali e deliziose antennine pelose. Se infastidite pungono…”
“Amore, so cosa sono le api. Mi domandavo solo cosa c’entrino in questo momento.”
“Voglio allevare api.”
Abbandonai pesantemente la testa sul cuscino sospirando, e rabbrividii sotto la stretta sempre più koalesca di Sherlock che, evidentemente, ancora con un piede nel mondo dei sogni stava scambiando il mio corpo per un ramo d’eucalipto.
Allargai le gambe per accoglierlo meglio su di me, sperando che si mettesse comodo e sprofondasse nel sonno dimenticandosi di questa nuova idea dell’apicoltura tanto bizzarra almeno quanto quella di volersi esibire al Bolshoi prima di morire e di adottare un cucciolo di orango a distanza.
“Jawn.”
“Hm?”
“Cosa ne pensi?”
“Riguardo?”
“Api, Jawn.”
“Ah, quelle. Beh, non hai mai avuto bisogno del mio consenso per fare le cose, giusto?”
Sollevò repentinamente la testa spalancandomi un arcobaleno di tutte le tonalità possibili di cobalto addosso, come un bambino a cui la madre dà il permesso di tenere un cane.
“Posso davvero?”
Annuii ridendo di gusto e sprofondai la mano che tenevo appoggiata sulla sua testa i quei suoi boccoli infiniti, ancora folti dopo tutti questi anni, lisciandone l’indomita natura.
“Grazie grazie grazie!” esclamò tutt’a un tratto eccitatissimo, sporgendosi ed avventandosi sulle mie labbra già in posizione per ricevere il giusto ringraziamento che, alla fine, si stava rivelando niente più che un “deludente” bacio a stampo.
Fece il gesto di alzarsi da letto ma riuscii a bloccarlo appena in tempo prima che mi sgusciasse dalle braccia, atterrandolo di schiena sul materasso e bloccandolo lì col mio peso.
“Jawn, lasciami! Devo contattare i fornitori, fare ricerche su internet…”
Lo zittii tuffandomi nuovamente su quella inesauribile fonte di parole che avrebbe fatto ammattire anche i santi, aiutandomi con le dita di una mano che si andarono ad attorcigliare assieme ai ricci della nuca per aumentare la profondità della mia esplorazione, mentre all’altra lasciai campo libero su una coscia.
“E sentiamo, genietto, dove avresti intenzione di posizionare le arnie? Non in bagno accanto alla colonia di mantidi religiose, voglio sperare” sussurrai, lambendogli poi il labbro superiore – la mia morte – con la punta della lingua.
“Casa Holmes nel sud del Sussex sarà perfetta, miscredente che non sei altro” rispose, restituendomi le giuste attenzioni di cui non mi sarei mai stancato.
Ribaltò la situazione posizionandosi a cavalcioni sopra di me, avvolgendoci nel nostro tepore umido e profumato d’amore che sono le nostre lenzuola e sorrise come uno bambino al Luna Park mentre cavalca la sua giostra preferita.
“Trasferimento all’orizzonte?” riuscii a dire prima che si gettasse a capofitto sul mio collo, facendolo più suo di quanto non fosse già. “Londra cadrebbe senza Sherlock Holmes.”
“Londra starà benissimo” mugolò, soffermandosi con un accenno di denti sul mio pomo d’Adamo. “E poi è solo un esperimento, una variabile alla monotonia. Potrei anche tornare indietro.”
“Ed io dovrei seguirti in tutta questa follia?”
Lo sentii sorridere sulla pelle sottile poco sopra la mia clavicola, circa all’altezza della cicatrice.
“Tu non sei un esperimento. Tu sei la mia costante,” disse baciandola, in un gesto che per noi, per me, avrebbe sempre significato più di una notte d’amore “e sarei perso senza il mio conduttore di luce.”
Risi basso, sollevandogli per un istante il mento così da avvicinargli appena un poco il viso al mio ed appoggiargli le labbra su un orecchio.
“Ruffiano…”
“Mmh, e mi adori per questo…”
“Dio, sì.”
Un timido raggio di sole si fece spazio, prepotente, da un fessura della tapparella andandosi ad infrangere sul petto del mio compagno, rivelando la cartina geografica di cicatrici, oramai quasi invisibili, che determinarono quella che iniziò come una sfida e finì per rivelarsi il preludio per un’eccitante vita insieme, fatta di cose buone, altre di meno buone, ma comunque importanti e sempre nuove.
“Ti amo.”
Appunto.
“Come dici?”
Venti anni. Venti, lunghissimi anni.
“Ti amo, John. Ti amo, ti amo, ti amo. E questo non mi stancherò mai di ripeterlo.”
Dopo un momento di profonda catatonia, lo strinsi a me più forte che potei, immergendo il viso nello spazio tra il collo aggraziato e una spalla, le braccia incatenate al suo dorso ampio, le gambe ai suoi fianchi, non più così spigolosi, l’anima incollata al suo petto dove avrebbe per sempre trovato il proprio rifugio ideale, il proprio nido.

Il mio nome è John Hamish Watson e, giunto alla veneranda età di cinquant’anni e qualche giorno, ieri mattina mi trovai abbracciato all’unica e sola ragione del mio cuore, pelle nuda contro pelle nuda, nella nostra camera da letto del nostro appartamento di quarta categoria, situato alla periferia di Londra, così come questa mattina, così come domani e dopodomani e per sempre, fino a che in uno di noi ci sarà ancora vita.
E sì. Ne è valsa decisamente la pena. 










The End.

 

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