Il padre di mia figlia

di nephylim88
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primo flash back ***
Capitolo 2: *** capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Secondo flashback ***
Capitolo 4: *** capitolo 2 ***
Capitolo 5: *** Terzo flashback ***
Capitolo 6: *** capitolo 3 ***
Capitolo 7: *** epilogo ***



Capitolo 1
*** Primo flash back ***


'Respira profondamente... respira profondamente... resisti... respira... respira... respira...'

Continuavo a ripetere nella mia mente quelle parole da tempo indefinito. Ero... da quanto tempo ero chiusa lì dentro? Ore? Giorni? Mesi? Anni? Magari nel frattempo avevo compiuto 18 anni, 19, 20... e neanche lo sapevo...

Ero semisdraiata su un vecchio letto arrugginito, i polsi legati alla testiera. L'unico capo che indossavo era una camicetta da notte della peggior qualità di acrilico. Non indossavo la biancheria intima, quei tre bastardi me l'avevano strappata di dosso appena mi avevano sbattuta lì dentro. Mi avevano obbligata a indossare quell'orrenda camiciola, poi mi avevano legata, solo per i polsi, in modo tale che, però, non potessi raggiungere le corde con i denti. E poi... oh, poi...

La stanza era semibuia, ma riuscivo a distinguere abbastanza da capire che lo stabile in cui mi trovavo era abbandonato. Probabilmente quei porci avevano portato il letto apposta per me. Per il resto la sala era completamente vuota. La stanza era piuttosto piccola, e si vedevano i muri mezzi scrostati. Non potevo vederla, ma sapevo che c'era anche una lampada, che veniva accesa quando quei tre entravano per “divertirsi”.

Repressi un conato di vomito. Giusto per non farmi mancare proprio nulla, mi avevano infilato in bocca dei luridi stracci, e poi mi avevano sigillato le labbra con del nastro adesivo. Ero quasi morta soffocata, odiavo tenere in bocca oggetti. Anche quando, a casa, mi lavavo i denti, dovevo stare attenta a come mettevo lo spazzolino. L'importante era che non toccasse la lingua. Altrimenti il vomito era quasi sicuro.

Quindi si poteva bene immaginare il mio terrore, quando, una volta ritrovatami con quella stoffa dentro la mia bocca sigillata, mi erano venuti dei violenti conati. Era stato un puro miracolo il fatto che fossi riuscita a rimandare giù il vomito senza soffocare. Anche se, visto quello che era successo nelle ore successive, forse sarebbe stato meglio morire. Successivamente avevo scoperto che spingendo la lingua contro gli stracci e respirando di pancia riuscivo a non avere conati. L'unico momento in cui mi veniva tolto quello schifo dalla bocca, era quando i tre maiali entravano nella stanza. Allora mi nutrivano, e poi mi stupravano. Dopodiché, straccio in bocca e via. Avrei tanto voluto rifiutare il cibo e lasciarmi morire di fame. Ma il mio istinto di sopravvivenza era molto più forte di quanto avessi mai sospettato in vita mia. Ogni volta mangiavo con la voracità di un lupo. Una lacrima rotolò sulle mie guance scavate. Volevo la mia mamma... dov'era la mia mamma?

Un rumore mi fece trasalire. 'Dio, no! Non di nuovo, ti prego! Mamma!' implorai, nella mia mente. Ma la mamma non c'era, e a quanto pareva, o Dio non esisteva o era estremamente crudele. La porta si spalancò, la luce venne accesa.

Ciao, bambolina!” il più alto, e il più bello dei tre, fece un ghigno perverso. Mi si avvicinò, accarezzandomi lentamente lungo tutto il corpo. Indugiò sulla fessura in mezzo alle gambe per un secondo, poi risalì lungo la pancia, con la punta delle dita tracciò una lieve linea sul mio seno destro, poi arrivò al viso. Ero completamente paralizzata dalla paura, e probabilmente me lo si leggeva in faccia. Afferrò il nastro adesivo e lo strappò via con un colpo secco. Sputai fuori gli stracci con un conato, gli occhi gonfi e lacrimanti, il respiro affannoso. Cominciai a piangere debolmente. Il ragazzo mi carezzò i capelli, ma non era un tocco rassicurante. Mi diedero da mangiare. Un piatto di pasta al ragù raffreddata, del tipo che propinano alle mense scolastiche. Il ragazzo più bello rimase seduto al mio fianco, imboccandomi. Gli altri due si misero in posizione, uno da un lato del letto e uno dall'altro. Poi, il tipo che mi stava imboccando portò via il piatto. Lo appoggiò a terra, e poi, lentamente, si voltò verso di me. Mi saltò addosso. Urlai.


'Dio, fa che finisca presto! Fa che finisca!' Ero esausta. Avevo continuato a versare lacrime per tutto il tempo, cercando di non pensare a quello che mi stava succedendo. Diventava ogni volta più semplice.

Il ragazzo era dentro di me da quelle che sembravano ore. I suoi due compari mi tenevano per le gambe, belle larghe, in modo da agevolare il loro capo. Quello uscì da me, ansimante.

Cazzo, così mi smonti!” urlò. Mi diede un pugno sullo zigomo. Emisi un breve strillo. La mia vista si oscurò. Ma non mi sfuggì il fatto che l'erezione del mio aguzzino si era rinnovata. Mi entrò dentro di nuovo, di prepotenza. Molta più prepotenza delle altre volte. Urlai di dolore. Il mio aguzzino mi tappò la bocca con una mano. “Ssh, ssh...” sussurrò.

Fu quello, il momento in cui sentii che il mio istinto di sopravvivenza aveva trovato un alleato molto potente: la collera.

Quel “ssh” sussurrato come se fossero dei bambini che non volevano essere beccati dalla mamma a fare uno scherzo alla sorellina. Mi stavano stuprando, Dio solo sapeva quante volte lo avevano già fatto, e quante ancora lo avrebbero fatto! Provavo quel dolore ai polsi scorticati da una corda da quattro soldi da troppe ore, avevo sentito quel dolore lancinante come un colpo di spada in mezzo alle gambe una marea di volte, mi sentivo le spalle sul punto di uscire dalla loro sede, e l'interno delle cosce doloranti a causa degli strappi causati dall'allargamento forzato delle mie gambe. Eppure non fu quello a farmi infuriare, ma quel “ssh”, come se stessimo facendo qualcosa di non necessariamente brutto, ma comunque privato... mi resi conto che il modo di dire “vedo rosso”, quando una persona si infuria, non era un semplice modo di dire. Davanti ai miei occhi apparve come un velo scarlatto, e persi il controllo. Tirai una testata sul naso del mio aguzzino, sentendo quasi con piacere il rumore del setto che si rompeva. Lui si tirò indietro, gridando. Tirai calci praticamente alla cieca, colpendo qualcosa di morbido con entrambi i piedi. I due scagnozzi si tirarono indietro, uno tenendosi il collo, l'altro la bocca dello stomaco. Poi presi a dimenare le braccia. Non sentii dolore quando le mie mani scivolarono via dalle corde, lasciandoci attaccati pezzi di pelle sanguinolenti, che mi lasciarono in carne viva. Uno degli scagnozzi fece per afferrarmi, ma lo colsi di sorpresa piombandogli addosso con una spallata, facendogli perdere l'equilibrio. L'adrenalina che mi scorreva in corpo mi stava dando energie che non sospettavo di avere. Il mio aguzzino tentò di inseguirmi, ma afferrai la lampada e gliela tirai dietro. Non mi voltai per controllare, ma a giudicare dal rumore lo avevo colpito. Le mani mi tremavano violentemente, ma riuscii ad abbassare la maniglia della porta. Forse Dio non era così crudele. L'avevano dimenticata aperta. Con un sospiro di sollievo, la spalancai e fuggii via nella notte.

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Capitolo 2
*** capitolo 1 ***


Quindici anni dopo

“È lei la madre di Greta?” un dottore mi venne incontro non appena misi piede nella sala d'attesa della terapia intensiva. Annuii, tendendogli la mano.

“Giorgia Casiraghi, piacere. Cos'è successo?” chiesi poi, tremando. La migliore amica di mia figlia, Lisa, mi aveva chiamato, in lacrime. Non ero riuscita a capire molto, ma avevo interpretato i suoi singhiozzi come un segno che a mia figlia era successo qualcosa di estremamente grave.

“Venga. C'è la polizia.”

Con la tentazione di mandare al diavolo quel dottorino idiota, lo seguii. Ero spaventata non poco. Cos'era successo alla mia piccola? Ci fermammo davanti ad una finestrella, da cui vidi Greta stesa su un letto, completamente priva di sensi, il volto pieno di lividi, un occhio gonfio, la testa bendata. Mi sentii mancare.

“Dottore, cos'è successo a mia figlia?” la mia voce, remota alle mie stesse orecchie, era come spezzata.

Il dottore respirò a fondo. Era evidente che avrebbe tanto voluto scaricare quella patata bollente ai poliziotti, ma il referto medico lo doveva fare lui per forza. “Signora” esordì, guardando ostinatamente il pavimento “sua figlia è ferita gravemente. Presenta ecchimosi in varie parti del corpo, ha una costola fratturata e un brutto trauma cranico...” si interruppe, come indeciso se andare avanti oppure no.

“Continui, dannazione!”

“Abbiamo eseguito un kit stupro. Le analisi mostrano che è stata violentata, presenta lesioni nella zona genitale e anale...”

Sentii le mie gambe cedere. Mi rimisi in piedi quasi subito, ma dovetti cercare un posto dove vomitare. La prima cosa che trovai fu un cestino, in cui rigettai anche l'anima, piangendo disperata.

“Signora?” alzai la testa, ansimando pesantemente. Era stato un poliziotto a parlarmi. Lo guardai attraverso il velo delle lacrime.

“So che è un brutto momento, ma devo parlare con lei.”

Lentamente, mi tirai in piedi. Barcollavo come se avessi bevuto. Mi aggrappai al braccio del poliziotto, che mi scortò fino a una poltroncina. Per un quarto d'ora lo ascoltai inebetita.


Era andata così. Greta, come io sapevo, era andata dalla sua migliore amica per un pigiama party. Prima di andare a letto, le ragazze, cinque in tutto, avevano deciso di andare a prendere un gelato alla gelateria del quartiere. Non era un giro così pericoloso, la zona era piuttosto tranquilla, e la gelateria era ad un chilometro scarso da casa di Lisa. Tornando verso casa, ad un certo punto si erano accorte che Greta era scomparsa. Non sapevano dire esattamente da quanto mancasse, Greta ogni tanto si isolava dal gruppo, restando indietro. Era tipico del suo carattere, ma questo isolamento durava non più di due minuti. Si erano rese immediatamente conto che qualcosa non quadrava, non era da Greta nascondersi e fare scherzi cretini. L'avevano cercata per mezz'ora, prima di arrendersi e tornare a casa di Lisa per dare l'allarme. Lisa e suo padre avevano girato il quartiere in lungo e in largo con l'auto, mentre la madre di Lisa chiamava la polizia, e alcuni vicini la cercavano girando a piedi nei dintorni. Era stato uno dei vicini a trovarla, lasciata per terra come un mucchio di stracci, in un praticello incolto. Avevano chiamato immediatamente un'ambulanza e l'avevano portata al pronto soccorso. Poi mi avevano cercato.

Ora ero lì, a guardare la mia bambina in coma su quel letto di ospedale. Sembrava così piccola... mi ricordava molto quando era nata... era altrettanto fragile, e io avevo giurato di proteggerla a tutti i costi. All'idea di non aver tenuto fede alla mia promessa, mi si spezzò il cuore. Scoppiai in singhiozzi disperati. Perché mia figlia aveva dovuto subire la mia stessa sorte? Che cosa avevano di così marcio, gli uomini, da volersela prendere in modo così brutale con delle ragazzine? Io avevo diciassette anni, quando tre ragazzi mi avevano rapita e stuprata per dieci giorni. Lei ne aveva appena quattordici. Avevo forse attaccato una maledizione a mia figlia?

Strinsi i pugni. Le nocche scrocchiarono. Le cicatrici sui dorsi delle mie mani si tesero. Chiunque avesse fatto questo a mia figlia, l'avrebbe pagata cara e salata!

“Signora Casiraghi?” alzai la testa. Un'infermiera mi guardava con aria comprensiva.

“Sì?”

“Sono arrivati i suoi genitori.”

Feci un cenno con la testa. Non volevo lasciare Greta lì da sola, ma dovevo rassicurarli. Già... ma rassicurarli di cosa? Mi alzai. Strinsi la mano di mia figlia. Poi mi avviai verso la porta.

“Signora...” la voce dell'infermiera era titubante. La guardai. Sollevai leggermente il mento per spingerla a parlare.

“Mi perdoni la domanda, ma suo marito non è stato avvisato?”

Mi si indurì lo sguardo. “Non sono sposata. Mia figlia non ha un padre.”

Feci per uscire. Poi mi bloccai. “Le avete somministrato la pillola del giorno dopo?”

L'espressione mortificata dell'infermiera si attenuò solo un pochino. “Stavo giusto venendo a chiederle l'autorizzazione per somministrarla.”

“Fatelo.”

Poi uscii.


“Come sta?” mia madre. Tremendamente ansiosa. Giustamente. Si parlava di sua nipote, giusto?

“Coma. È stata malmenata e stuprata.” curioso come riuscissi a dirlo così tranquillamente...

Mamma e papà impallidirono. Suppongo fosse normale. Prima la figlia passa l'inferno a causa del sadismo umano. Poi la stessa cosa succede alla nipote neanche vent'anni dopo. Quanto a me... la rabbia era talmente tanta che aveva cancellato ogni singola emozione che potevo provare. Persino l'angoscia per la sorte di mia figlia era un'eco remoto nella mia mente. Anzi, erano proprio le sue condizioni a mettermi addosso quella furia quasi incontenibile. Che, a quanto pareva, era destinata ad aumentare.

“Signora Casiraghi?” mi voltai. Era l'agente di polizia che mi aveva soccorso poche ore prima.

“Sì?”

“Abbiamo i risultati del test del DNA effettuato sui liquidi trovati col kit stupro.”

“Quindi?”

“Il DNA corrisponde esattamente a quello di un pregiudicato, arrestato per violenza quindici anni fa, e rilasciato il mese scorso: Samuele Leto.”

Il mondo intorno a me si fermò. Sentii la testa girare da una parte e lo stomaco dall'altra. Mi misi la mano sulla fronte e respirai profondamente. Mia madre stava singhiozzando disperatamente alle mie spalle, potevo sentire i suoi singhiozzi soffocati contro la spalla di mio padre.

“Signora Casiraghi? Tutto bene?”

Ci misi un po', prima di rispondere, con voce mortifera: “Mi sta dicendo che il bastardo che ha violentato mia figlia è il suo stesso padre biologico?”

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Capitolo 3
*** Secondo flashback ***


Lo avevano arrestato. Era stato condannato a vent'anni di carcere per il mio rapimento e il mio stupro! Buon Dio, ce l'avevo fatta! Ero salva! Li avevano condannati tutti e tre!

Ora, non mi restava che ricominciare la mia vita da capo. Più semplice a dirsi che a farsi. Ci misi un po' prima di uscire di casa. Ci misi un altro po' a uscire di casa senza sobbalzare ad ogni rumore. I miei genitori, i miei amici...furono tutti meravigliosi, mi stettero vicino in ogni momento. Anche quando cominciai a notare che il mio ciclo ritardava in modo sospetto.

Mi sentii mancare il terreno sotto i piedi quando, a due mesi e mezzo da quei disgraziati dieci giorni, il test di gravidanza risultò positivo. E certo! La pillola del giorno dopo me l'avevano data, ma avrebbe fatto effetto solo sugli ultimi stupri, quelli dei primi giorni non erano coperti!

Ah, beh, non avrei certo tenuto dentro il proseguimento genetico di quel bastardo!

E tuo, non dimenticartelo!”

Cosa?” sobbalzai. Diavolo, di nuovo quella mia vecchia abitudine di intavolare finte discussioni con gli oggetti intorno a me per mettermi in ordine le idee! Questa volta, era il rotolo della carta igienica a parlare, mentre me ne stavo seduta sul water fissando quel bastoncino bianco con due righette rosse nella griglia del risultato.

Intendo dire” proseguì il rotolo, con tono paziente “che il bambino che porti dentro non è solo il proseguimento genetico di quel Leto. È anche un tuo proseguimento.”

Può darsi.” annuii “Ma che importanza può avere? Come faccio a crescerlo?”

Ti basterà ricordare che quel bambino è te, almeno per metà.”

Già, mentre l'altra metà è un sadico narcisista.”

Lo sai anche tu che i geni non valgono granché. Dipende tutto da te.” questa volta fu la bilancia, a prendere la parola.

Ma io non posso dimenticare chi è suo padre. Che vita darei a un bambino nato in queste circostanze? Destinato a essere disprezzato da sua madre per colpa di un pezzo di merda che gli ha fornito metà dei cromosomi...”

La vasca pretese di dire la sua: “Ma lo sai anche tu che non ha colpa di questo.”

Lo so. È per questo che andrò ad abortire. Non voglio condannare un piccolo innocente ad una vita d'inferno. Non sarei in grado di sopportare l'idea di non volergli completamente bene a causa di suo padre. Che razza di madre sarei? No, no, sarà molto più felice se se ne tornerà in mezzo agli angeli.”
“Ti chiedi che madre saresti? Saresti un'ottima madre. Stai facendo questi ragionamenti preoccupandoti seriamente per lui.”

Emisi un verso sprezzante. “Andiamo! Un'ottima madre! Ho diciassette anni e mezzo! Che madre sarebbe, una diciassettenne stuprata?”

E sia,” lo specchio si aggiunse alla discussione “vai pure ad abortire. Ma prima fatti una domanda: sei sicura che sia veramente questo, quello che vuoi? Che sia la decisione giusta per la tua vita?”

Uscii dal bagno.


Una settimana più tardi ero in ospedale. Avevo appena fatto la visita per l'aborto. E stavo aspettando il mio turno per entrare in sala operatoria. Mi si avvicinò un'infermiera. “Sei sicura di volerlo fare? Non si torna indietro.” annuii. In verità, non ne ero così sicura. Ma era la cosa migliore. L'infermiera mi guardò con evidente disprezzo. Scrollai le spalle. Che facesse pure. Dopo dieci giorni di stupro e la scoperta di una gravidanza decisamente indesiderata, cosa mi importava di una perbenista del cazzo!!

Eppure... eppure... non potevo non pensare a quel piccolino che mi cresceva nella pancia. Lui stava lì, tranquillo e fiducioso, non immaginava che entro breve sarebbe stato praticamente buttato via. Davvero potevo fare una cosa simile a un esserino indifeso? Non sarebbe stato crudele? Ma come potevo farlo crescere nella mia pancia e farlo nascere, sapendo che tipo era il padre? Oltretutto, avevo solo diciassette anni! Ok, quando sarebbe nato ne avrei avuti diciotto, ma non cambiava poi molto! Non potevo mantenerlo io da sola, andavo ancora al liceo! In più, sapevo già che darlo in adozione era decisamente fuori questione. Conoscevo la mia indole, non avrei mai potuto abbandonarlo. Me lo sarei tenuto, anche solo per senso di colpa nei suoi confronti. No, no, meglio l'aborto! Ucciderlo prima ancora di immergerlo in una vita segnata dalla sofferenza e prima di un qualsiasi coinvolgimento emotivo da parte mia! Sì, sì, meglio così! Oppure no?

Un rumore mi fece sobbalzare. Era appena uscita una donna dalla sala operatoria. Era stesa in un lettino. La scena che vidi subito dopo mi ghiacciò il sangue nelle vene. La ragazza piangeva. Era rintronata dall'anestesia, ma potevo vedere le lacrime che nonostante tutto scendevano copiose sul suo viso. La stessa infermiera che mi aveva chiesto se volevo davvero abortire le si avvicinò. La sentii chiaramente dire alla ragazza “è inutile che piangi, ora, assassina!”. La ragazza cominciò a singhiozzare. Il tempo attorno a me sembrò rallentare. Mi alzai e mi avvicinai al lettino. Presi la ragazza per mano. Lei ricambiò la stretta. Vidi la sua disperazione. Capii che non aveva voluto disfarsi di suo figlio. Si era solo sentita costretta dalle circostanze. Ma quell'evento l'avrebbe segnata a vita. Mi dispiacque per lei. La accarezzai sul viso, sperando di calmarla un po' e di farle capire che aveva qualcuno vicino. Mi guardò, con espressione sorpresa. Poi fece un mezzo sorriso e mimò un grazie con le labbra. Lasciai andare la sua mano. Mentre gli infermieri si allontanavano con il lettino, cominciai ad avvertire qualcosa di strano dentro di me. Sentivo qualcosa che si muoveva nel mio basso ventre, come un pesciolino che nuotava da una parte all'altra. Possibile che...

Mi scusi?” fermai un dottore che passava di lì per caso.

Mi dica.” rispose quello, un po' sorpreso.

Sono incinta di quasi tre mesi. Può essere che riesca a sentire il bambino muoversi dentro di me?”

Beh...” lui sembrò un po' perplesso “sì, in realtà sì. Il feto” Dio, come odio questo termine! “comincia a muoversi presto, e capita che la madre lo senta anche a inizio gravidanza, anche se può sentirlo solo lei.”

Oh... grazie...”. Il medico fece un mezzo sorriso, poi si allontanò.

Il 'pesciolino' continuava ad agitarsi dentro di me. Mi resi conto che... beh, questo cambiava davvero tutto. Oh, certo! Finalmente i miei dubbi avevano risposte! Sapevo esattamente cosa fare.

Giorgia Casiraghi?”

Mi voltai. Feci un cenno con la mano.

Tocca a lei.” quell'infermiera sembrava più cordiale della simpaticona che insultava le donne intenzionate ad abortire.

No.” risposi.

Come, prego?”

Dica al dottore che annulli l'intervento. Non voglio più abortire.”

Feci per andarmene. Mi ritrovai di colpo davanti all'infermiera 'simpatica'. “Alla fine non abortirò,” le dissi “ma si lasci dire che lei è proprio una grandissima stronza!”

Davanti alla sua espressione esterrefatta e offesa mi sentii ancora meglio. Me ne tornai a casa canticchiando.

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Capitolo 4
*** capitolo 2 ***


Era tarda mattinata. E io ero al commissariato a scatenare un putiferio.

“COME SAREBBE A DIRE CHE LO AVETE RILASCIATO???” urlai. Il commissario Brandi sembrò rimpicciolire davanti alla mia ira. Non potevo biasimarlo. Una mamma di trentadue anni furiosa col mondo intero non doveva essere esattamente un problema da affrontare a cuor leggero. Ma nessuno poteva biasimare neanche me. Scoprire che quello che mi aveva violentata tanto tempo prima era uscito senza che ne sapessi nulla e, guarda caso, se l'era presa con mia (e sua!) figlia... beh, diciamo che non era una cosa che volevo lasciar correre.

“Signora, la prego si calmi!”

“Giorgia, non serve a niente urlare così.” la voce della psichiatra, Loredana, era sorprendentemente calma. Ormai la conoscevo bene, era una dottoressa che collaborava con la polizia, e che mi aveva seguita quando avevo intrapreso un percorso terapeutico per superare quello che mi era successo. Eravamo praticamente amiche, ormai. Io la ammiravo per la sua calma e decisione. Lei mi ammirava perché, nonostante tutto quello che mi era successo, io comunque amavo mia figlia. In effetti, sapere di essere incinta e aver accettato di portare a termine la gravidanza era stato un ottimo stimolo a intraprendere la terapia. Non esisteva al mondo che io riversassi la mia rabbia su mia figlia!

La sua voce tranquillizzante, però, non servì a niente. Anzi, fu come sventolare un telo rosso davanti a un toro.

“NON SERVE A NIENTE??? MIA FIGLIA È IN OSPEDALE, DANNAZIONE! È IN COMA, NON SI SA QUANDO SI SVEGLIERÀ! E TUTTO PER COLPA DI QUEL FIGLIO DI PUTTANA! CHE PERALTRO AVETE RILASCIATO VOI! E MI DICI CHE NON SERVE A NIENTE URLARE? LOREDANA, HAI DECISAMENTE SBAGLIATO APPROCCIO, CON ME!” ormai urlavo talmente forte che la mia gola cominciava a irritarsi. Loredana mi rifilò un'occhiata gelida. Ecco. Quella funzionò. Mi calmai. Brandi assunse un'espressione più rilassata.

“Signora, mi spiace molto per quello che è successo...”

“Lo spero bene! Perché diavolo Leto è fuori di galera?”

“È stato rilasciato per buona condotta.”

“Per buona condotta.”

“Sì.” il commissario prese un'espressione circospetta. Intuiva che stavo per esplodere di nuovo.

“Cioè, mi sta dicendo che lui si è comportato da bravo bambino negli ultimi quindici anni, e voi gli avete detto 'bravo, esci!'?”

Questo giro, Brandi si offese sul serio. Il che mi fece quasi ridere. Dopotutto, avevo passato l'ultima ora a urlare come una psicopatica per tutto il commissariato, sbraitando contro tutti, dal poliziotto in portineria, fino a lui stesso, tanto che avevano dovuto chiamare Loredana per calmarmi, e lui se la prendeva perché criticavo il fatto che avessero rilasciato uno psicopatico!

“Signora!” esclamò.

“Mi chiami pure Giorgia, tanto siamo tra amici, no?”

“Veda di non offendere più il nostro modo di lavorare! Non prendiamo così sottogamba il nostro lavoro! L'uscita per buona condotta avviene attraverso un procedimento piuttosto complesso, che va da una perizia psichiatrica al sentire diversi testimoni sulla condotta del detenuto! E Leto ha passato l'esame!”

“Fantastico! E la prima cosa che fa è stuprare una ragazzina! Peggio, salta fuori che la ragazzina in questione è la sua figlia biologica!” gli risposi, in un crescendo sarcastico.

Loredana fece per parlare. Poi tacque.

“Che c'è? Loredana, che c'è?” sbottai, tagliente.

“Niente, davvero.”

Stavolta l'occhiata gelida partì da me. Lei sospirò.

“Volevo dire che potrebbe essere che non l'abbia neanche riconosciuta. In fondo era buio, stando alle ricostruzioni, e non sa di essere padre.”

“Ne dubito. Non so se hai presente la faccia di Leto.” la mia voce si spezzò “è uguale. Mia figlia è uguale a lui. Lo so che potrebbe non averla riconosciuta, razionalmente lo so. ma... ma... insomma, non ci credo, ecco. Ora mia figlia è in coma, e non si sa che danni potrebbe averle provocato quello stronzo...” repressi un singhiozzo. Loredana e Brandi annuirono, comprensivi. Mi passai una mano sugli occhi.

“Perché lo avete rilasciato? Dannazione, perché?” singhiozzai. Brandi fece per alzarsi e venirmi vicino, ma Loredana lo fermò. Sapeva che non mi andava di venire toccata, in certi momenti.

“Giorgia, mi dispiace davvero. In effetti, la mia perizia psichiatrica andava presa sul serio, più di quanto io stessa abbia fatto. Leto è un soggetto estremamente pericoloso. È preda di un disturbo ossessivo-compulsivo. Quando vede una donna che gli piace, la deve stuprare, punto. È una droga. Ma durante gli anni di prigione non ha manifestato alcuna tendenza violenta. Anzi, era molto tranquillo. E a questo punto sospetto che sia perché non c'erano donne in carcere. Credo che la sua ossessione si manifesti solo in presenza di ragazze sui diciassette, diciotto anni, o anche un po' più giovani, come tua figlia. Finché non le frequenta, e per frequentare intendo anche semplicemente l'incrociarle per strada, il suo problema non sussiste. Purtroppo, però, la perizia psichiatrica comprendeva anche il comportamento tenuto in carcere, quindi non ho potuto fare niente per lasciarlo dentro.”

Fu come se avessi inghiottito del piombo. Fu con un certo sforzo che chiesi “Avete guardato dappertutto? Dico, per i luoghi dove può essersi nascosto.”

“Sì, signora Casiraghi. Anche nel posto dove... dove...”

“Dove mi aveva tenuta prigioniera l'altra volta.”

“Sì.”

Stetti zitta ancora per un po'. Poi... “E i suoi complici? Che ne è di loro?”

“Uno è ancora in carcere. L'altro è morto per le percosse subite dal compagno di cella.”

Mi alzai.

“Fatemi sapere se avete sue notizie. Io vado a casa a cambiarmi, poi vado da mia figlia.”

“Certo, Giorgia. E tu chiamami se ci sono novità.” rispose Loredana.

Annuii, poi me ne andai.


Una volta in strada, dovetti stare ferma per un attimo a respirare profondamente per calmarmi. Ancora non potevo crederci. Davvero Leto era uscito di prigione? Davvero aveva ricominciato a stuprare ragazze? Davvero aveva stuprato anche mia figlia?? Sua figlia?? Inspirai un'altra boccata di smog. Fottuto bastardo nato dal didietro di quella gran vacca di sua madre! Avevo bisogno di una sigaretta. Era da quindici anni che non fumavo più. Da quando ero rimasta incinta. Ma ora ne sentivo un bisogno atroce. Mi diressi verso una tabaccheria lì vicino, comprai un accendino e un pacchetto di sigarette con l'intento di fumarmele tutte, una dietro l'altra.

Con il pacchetto in mano, camminai nervosamente verso casa. Una volta entrata, mi fissai allo specchio dell'appendiabiti. Una donna sulla trentina, con i capelli castani tagliati corti e pettinati all'indietro, tipo Trinity di “Matrix”, mi guardava di rimando. In realtà, dopo una nottata e una mattinata infernale come quella, i miei capelli non erano poi così messi bene. Per di più avevo delle borse profonde sotto agli occhi, la mia polo azzurra era tutta stropicciata, e la mia carnagione in quel momento si intonava perfettamente alla maglietta. Andai in salotto, svaccandomi completamente sulla poltrona a sacco verde acido, che mia figlia adorava, ma io trovavo alquanto ributtante.

“Dovrei lavarmi e andare da lei” sospirai. Forse non era un pensiero tipico da mamma, ma in quel momento non ce la facevo proprio a pensare che dovevo tornare in ospedale. Anche se mia figlia aveva bisogno di me. Anche se sapevo che, se si fosse svegliata, trovare la nonna invece della mamma al suo fianco l'avrebbe ferita. Feci per aprire il pacchetto di sigarette.

“È più che giusto che tu voglia prenderti una pausa, no?”

'Oh, no! Non di nuovo!' pensai.

“Forse” risposi “Ma è mia figlia. È solo mia. Ha solo me. È mio dovere assisterla.”

“Uh” continuò il pacchetto di sigarette “che parole fredde, da dire!”

“Ma è quello che sento!” quasi strillai. Dannato pacchetto, che ne sapeva lui dell'inferno che stavo passando?

“Non è solo quello che senti, vero? Quelle belle parole su tua figlia suonano così forzate per un altro motivo.”

“Ma io le voglio bene...” borbottai, afflitta.

“Certo che le vuoi bene, tesoro!” intervenne l'accendino “nessuno lo mette in dubbio. Ma c'è qualcosa che ti lacera dentro, vero?”

Rimasi zitta per un po'. Poi... “Leto la deve pagare.”

“Oh, ecco qui la mia ragazza!” esclamò la poltrona a sacco.

'Sì' pensai 'Leto la pagherà!'. Buttai via pacchetto e accendino. Poi andai a lavarmi.

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Capitolo 5
*** Terzo flashback ***


Come ti senti?”

Loredana mi guardava, sorridendo gentilmente. Ero nel suo studio, seduta su una poltrona morbida. Ormai era da un po' che ci andavo. Non so quanto funzionasse, in verità, quella terapia. Ma ero decisa ad andare avanti, non si trattava più solo di me, ma anche dell'esserino che mi portavo dentro. Sarebbe stato da irresponsabili smettere, con la collera e la vergogna che mi dilaniavano, e il rischio di trasmetterle alla mia bambina.

Ehi!, ha scalciato!” strillai. In verità era da un bel po' che la sentivo muoversi, ma ogni volta era una sorpresa. Loredana rise. Io calmai subito la mia eccitazione nel sentire la piccola che scalciava.

In verità” dissi alla fine “non lo so come mi sento. Quando sento la piccola muoversi dimentico quello che è successo, almeno per un po'. Ma devo dire che sono terrorizzata.”

E da cosa?”

Sollevai un sopracciglio, come a dire 'secondo te?'. Lei ridacchiò, come sempre quando vedeva il mio sopracciglio sollevarsi.

Giorgia, io lo so cosa ti terrorizza. Ma è meglio se esprimi ciò che senti.”

Ho paura di vedere il suo viso. Non so cosa farò se scopro che è uguale a suo padre. E se per questo motivo mi ritrovo a trascurarla, o maltrattarla?”

Loredana annuì. Poi mi disse “Sai, forse non dovrei dirti una cosa del genere, anche perché non ho vissuto neanche lontanamente l'orrore che hai vissuto tu. Però, insomma, fossi in te non mi preoccuperei troppo. Se sei qui è perché ti importa di lei. E lo vedo da come strilli ogni volta che si muove che già la ami. Secondo me, sarai abbastanza matura da prenderti cura di lei a prescindere dal suo aspetto. Hai un vero cuore di mamma. E comunque, fidati, quando la terrai tra le braccia, sarà tutto diverso. Avrai meno dubbi in proposito.”

Come lo sai?”

Perché ci sono passata anch'io per i tuoi stessi dubbi. Quando mio marito mi ha lasciata, io ero incinta dei miei due figli. Ero terrorizzata all'idea di ritrovarmi delle copie in miniatura del mio ex. Cosa che è successa, alla fine. Ma sai una cosa? Me ne sono fregata. I miei bambini non sono il mio ex marito. E tua figlia non è il tuo stupratore. È fondamentale ricordarselo.”

Tacqui, con una lacrima che mi solcava la guancia.

Come la chiamerai?”

Mi riscossi “Beh, non lo so ancora, di preciso. Pensavo al nome Greta.”

Loredana sorrise. “È un bel nome.”

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Capitolo 6
*** capitolo 3 ***


Mi ci volle un po' per elaborare un piano. Anche se in verità ero perfettamente consapevole che probabilmente non avrebbe funzionato, che mi avrebbero presa. Non ero certo una criminale incallita! Ma ero disposta a tutto pur di impedire a quel bastardo di fare del male ancora. E poi, lo ammetto, non era solo una questione di nobiltà d'animo. Volevo vendetta. Quell'uomo doveva morire. Ma lentamente. Soffrendo atrocemente. Non gli avrei concesso l'onore e la pietà di una morte rapida. Greta era ancora in coma. Non dava segni di vita. I medici erano abbastanza ottimisti, era stabile, e comunque le probabilità che si risvegliasse in tempi brevi erano piuttosto buone. Ma questo non mi distoglieva dal mio obiettivo. Leto doveva morire. E dovevo essere io a ucciderlo. L'unico problema era: quando?

Ebbi un colpo di fortuna, mia madre mi disse, con il suo tono da 'non sento ragioni', che sarebbe ritornata quella sera, e con Greta ci sarebbe rimasta lei fino al mattino successivo. Vedendo la mia occasione, feci un po' di finto tiramolla, prima di cedere. Rimasi con Greta tutto il giorno, senza mai staccare gli occhi da lei.

Quando arrivò mia madre, corsi a casa. Decisi che tanto valeva fare le cose in grande stile. Mi vestii di nero, pantaloni in pelle e maglia aderente, per potermi muovere più agilmente nel buio. Mi caricai in spalla una mia vecchia sacca, con dentro una torcia, un coltello, una corda, una pallina di gommapiuma, del nastro adesivo, guanti monouso e un dildo in plexiglass. Me l'avevano regalato per la mia laurea, prendendomi in giro per il fatto che non volevo uomini nella mia vita, almeno fino a quando Greta non fosse stata abbastanza grande da accettarli senza sentirsi spodestata. Detta in modo egoistico, mi bastava quello che avevo passato, non volevo altre rogne in casa.

Mi diressi verso la casa abbandonata dove ero stata tenuta prigioniera. L'avevano già perquisita, ma, non so perché, ero convinta che sarebbe ritornato lì. Mi infilai i guanti, per non lasciare impronte. È vero che forse mi avrebbero beccata, ma non avevo certo voglia di facilitare le cose! Cercai dappertutto delle tracce di quello scarto d'uomo. In effetti avevo ragione, Leto era stato lì di recente, c'erano delle impronte nella polvere sul pavimento e non c'era puzza di chiuso, segno che le finestre venivano regolarmente aperte. In fondo poteva permettersi questa piccola imprudenza, la casa era in una zona molto isolata. Ghignai. Poi mi diressi verso la stanza dove per me era cominciato quell'inferno.

Mi rannicchiai in un angolo, dietro alla porta, constatando che quello stronzo ci dormiva abitualmente, in quel posto. Il vecchio letto era ancora lì. L'idea che magari alla sera, una volta steso a letto, si eccitasse all'idea di quello che ci aveva fatto sopra, con me e chissà con quante altre, accrebbe la mia ira. Una cosa mi stupì non poco, comunque. Quello era il covo di Leto. Ne ero sicura. Come mai i poliziotti non tenevano sorvegliata la zona? Ero entrata lì dentro con una facilità estrema. Non c'erano testimoni della mia presenza lì, come già detto, la zona era troppo isolata perché dei vicini potessero notare movimenti sospetti. Possibile che sottovalutassero così il pericolo che rappresentava quel sociopatico? O magari l'avevano già preso? No, impossibile, Loredana o Brandi mi avrebbero avvisata. Ma allora perché...

In quel momento la porta si aprì. Nell'oscurità, a cui mi ero abituata, intravidi il profilo inconfondibile di Leto. Afferrai l'abat-jour che avevo a fianco, e prima che potesse emettere un solo fiato, gliela scagliai in testa. L'uomo crollò come un sacco di patate.

“Si dia inizio al divertimento.” sogghignai.


Si svegliò dopo un quarto d'ora. Avevo fatto a tempo a spogliarlo, sistemarlo sul letto, e legarlo mani e piedi alla ringhiera. Tenevo la lampada accesa (miracolosamente funzionante), in modo che mi vedesse.

“Che cosa... chi sei tu?” sbottò, spaventato.

“L'ultima persona a cui hai fatto del male, stronzo.”

Cominciò a dimenarsi come un matto, inutilmente. Sghignazzai.

“Chi sei?” ripeté, bianco come un lenzuolo.

“La madre di tua figlia.”

“Figlia? Io non ho figlie! E neanche figli!”

“Non che tu sappia, Samuele, non che tu sappia.”

“CHE COSA VUOI DA ME?”

“Guardami in faccia, Samuele.”

Mi guardò. Se possibile, diventò ancora più pallido.

“Tu... tu... sei quella troia che mi ha fatto finire in carcere!”

“Ahiahiahi, Samuele! Tua madre non ti ha insegnato a non dire parolacce?”

Tirai fuori la pallina e il nastro adesivo. Feci per mettergli in bocca la pallina, ma mi resi conto che era troppo grossa. Così la tagliai a metà. Non volevo che soffocasse prima ancora di cominciare a divertirmi con lui. Mi avvicinai, ma lui mi sputò addosso. Schivai lo sputo, e fu a quel punto che mi stufai.

“Fai il ritrosetto, eh?”

Gli diedi un colpo in testa. Abbastanza forte da stordirlo, non abbastanza da fargli perdere i sensi. Perfetto! Poi presi il dildo dalla sacca, rigirai per quanto possibile quel lurido verme, infilai la punta del dildo nel suo ano. Mi alzai in piedi sul letto, un po' a fatica. Quando trovai un po' di equilibrio, calciai forte il dildo dentro di lui. Recuperò la coscienza in meno di un secondo, urlando come un maiale. Oh, sì! Calciai una seconda volta. All'urlo si unì un pianto disperato, un'invocazione di pietà.

“Hai avuto pietà di me, quando ero legata a questo letto? Hai avuto pietà di tua figlia, l'altra sera, quando l'hai stuprata e ridotta in coma? RISPONDI!” diedi un altro calcio.

“BASTA! IO NON SAPEVO CHE QUELLA FOSSE TUA FIGLIA!”

“Cos'è, sei sordo? Io ho detto che la figlia è tua!”

“Cosa?” anche in mezzo all'agonia, mise su un'espressione sorpresa.

“Samuele, io, in quei disgraziati dieci giorni, sono rimasta incinta. E ho partorito una bambina. Che ho cresciuto con amore, nel rispetto degli altri, nel tentativo di farla crescere senza rabbia nei confronti di te, suo padre. Aveva anche funzionato, nonostante tutto. Ma poi hai rovinato tutto! Pensa alla ragazzina che hai stuprato l'altra sera.”

Inorridì “vuoi dire che era lei?”

“Sì, figlio di puttana! E ora la pagherai!”

Decisi di facilitarmi ulteriormente le cose. Uscii fuori dalla stanza, alla ricerca di qualcosa di pesante. Trovai un tubo di metallo. Tornai in stanza. Gli spaccai le ginocchia. Non esisteva proprio che si liberasse come avevo fatto io, con un insperato colpo di fortuna. Urlò. E io quasi gemetti di piacere. La vendetta aveva un sapore inebriante.

“TI PREGO!” gridò.

“Credi sia il caso di pregare? Va bene, va bene... ma sappi che sarà inutile!”

Presi il coltello in mano. E in quel momento mi accorsi che, diavolo!, avevo dimenticato il sale! Va beh, nessun problema, la casa era impolverata, bastava un po' di sporcizia a raggiungere il mio scopo. Certo, all'inizio non sarebbe servito granché, ma una volta sparsa la polvere in tutto il corpo...

Cominciai a tagliuzzarlo. Stetti bene attenta a non tagliare vene e arterie. Poi cosparsi le ferite di polvere. Funzionò. Cominciò a dimenarsi, per quanto poteva con le ginocchia frantumate, nel tentativo di grattarsi. Credo, ma non ne sono sicura, che la zona vicino ai genitali fosse tremenda per lui. Sghignazzai. A ripensarci ora, credo proprio che avessi perso il lume della ragione.

“Ti scongiuro! Ti scongiuro! Io non volevo farle del male, se avessi saputo che era mia figlia non l'avrei toccata!” singhiozzò. Era quasi patetico, un uomo di trentotto anni che biascicava come se fosse mezzo ubriaco. E per di più si era pisciato addosso! Credo che avrebbe mollato anche qualcosa di più consistente, ma l'uscita posteriore era bloccata... ooops!

“Vorresti dirmi” sibilai “che comunque avresti fatto del male? Che se anche avessi saputo che lei era tua figlia, magari lei l'avresti evitata, ma avresti comunque stuprato una ragazza innocente?”

“Tu non capisci. Non capisci com'è... essere me... io so... sono malato...” esalò.

“Non provare a giustificarti con me in questo modo così ignobile. Tu sei malato, è vero, ma non hai fatto niente per curarti. Niente. Hai tenuto me prigioniera per dieci giorni. Sospettano di te in altri casi di stupro, e in altri rapimenti avvenuti prima della mia prigionia. Se tu ti rendessi veramente conto della tua malattia, parecchi di quei casi non si sarebbero mai verificati. Tu eri pienamente consapevole di quello che facevi. Hai scelto tu di fare del male.”

Lo vidi quasi perdere i sensi. E mi resi conto che non avevo molto tempo. Non potevo rischiare che mia madre mi cercasse sul cellulare, e non trovandomi venisse a casa mia. Non avevo un orologio, ma a occhio e croce avevo fatto almeno tre ore di assenza. Sospirai, e feci quello che mi ero prefissata di fare. Quello che avrebbero dovuto fargli una volta incarcerato. Afferrai il suo pene. E lo recisi. Non era come tagliare una salsiccia, ci misi un po'. Considerando che, nonostante i taglietti fossero poco profondi, aveva perso una discreta quantità di sangue, e sicuramente era in agonia per via delle ginocchia e del dildo infilato nel didietro con tanta brutalità, aveva degli ottimi polmoni. Aveva urlato per tutto il tempo. Alla fine la pallina non mi era servita a niente. Mi piaceva sentirlo urlare. Mi faceva sentire bene, una specie di angelo vendicatore, la mano sinistra di Dio.

Sventolai il suo organo genitale con un ghigno perverso, quasi a dire 'indovina cos'ho preso?'. Poi lo gettai a terra. Guardai Leto che tremava, convulso.

“Avresti dovuto saperlo che prima o poi l'avresti pagata.”
Lui non rispose. Rantolava. Io sbuffai. Poi gli piantai il coltello nel cuore. Morì in pochi minuti.

E io urlai, come un animale ferito. Piansi e risi insieme. Ululai. Finalmente era finita! Raccolsi la mia sacca, recuperai l'unico oggetto che potevano collegare a me (il dildo) e tornai a casa.

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Capitolo 7
*** epilogo ***


Il ritorno a casa fu tranquillo. Una tranquillità che aveva del miracoloso. Non incontrai nessuno. Non posso giurare che nessuno mi avesse visto, ma quanto a quello non potevo farci niente. Non intendevo minimamente costituirmi, ma ero disposta ad andare in carcere. L'importante era che Leto fosse morto. A mia figlia, se fosse stato necessario, avrei spiegato quello che avevo fatto, e perché. Lei sapeva che era nata da uno stupro. Non era stato semplice dirglielo, ma lo trovavo necessario. Doveva sapere perché era senza un padre. Ero stata fortunata, ad ogni modo. L'aveva presa bene, e aveva accettato di farsi seguire da Loredana, per un po'. Ma, a meno che non fosse stato necessario (leggasi: a meno che non mi avessero scoperta e arrestata), non le avrei mai detto che il bastardo che le aveva fatto del male era il suo stesso padre. Certo, in caso mi avessero arrestata, avrei sempre potuto stare zitta e non infliggerle altro dolore, ma la stampa avrebbe scoperto della paternità di Greta. E scoprirlo così l'avrebbe distrutta. No, ero io che dovevo dirglielo. Ma solo se mi avessero scoperto!

“Oh, ragazza, su! Non hanno ancora scoperto il cadavere di Leto e già ti fai questi viaggi mentali?” la sacca che avevo mollato nell'ingresso mi fece sussultare. Le sorrisi.

“Meglio essere pronti a qualsiasi evenienza!” risposi.

Ripulii tutto e misi la roba al suo posto. Misi i vestiti in ammollo nell'acqua fredda per togliere il sangue di Leto. Una parte di me era tentata di buttare via tutto, ma sarebbe stata un'ammissione di colpa troppo evidente.

Mi lavai. Poi mi concessi un paio di drink belli forti, prima di tornare in ospedale, anche se mancava ancora un bel po' allo scadere del mio turno di riposo. Erano le 3 del mattino, dopotutto. Ma avevo trascurato mia figlia già troppo. Fu a quel punto che il mio telefono squillò. Corsi a rispondere.

“Mamma?”

“Giorgia, tesoro, si è svegliata! Si è appena risvegliata!”

Interruppi la chiamata, mi vestii con i primi indumenti che trovai nell'armadio e corsi all'ospedale.


Due mesi dopo


Greta sembra stare meglio, fisicamente. Psicologicamente, dubito che si riprenderà mai del tutto. Ma Loredana è ottimista, dice sempre che, con una mamma come la sua, Greta supererà tutto splendidamente. Mi piacerebbe poter dire lo stesso, ma da una cosa così non ci si riprende mai del tutto. Con quello che ho fatto, ne sono diventata la prova vivente.

Hanno scoperto il cadavere di Leto una settimana dopo il risveglio. A dire la verità, ero una dei sospettati principali. Avevo il movente e non avevo l'alibi. Mi hanno interrogata per ore e ore. Non avevano comunque prove certe, i vestiti che avevo utilizzato, scarpe comprese, le avevo donate in beneficenza insieme a parecchia altra roba che davo via periodicamente, quindi non potevano arrestarmi. Ma Brandi sosteneva di sapere che ero stata io, e l'avrei pagata cara. Ho passato giorni piuttosto difficili, comunque, combattuta tra l'esigenza di assumermi le mie responsabilità e il bisogno di mia figlia di avere la mamma accanto. Propendevo più per il restare accanto a mia figlia, che ormai aveva il terrore di uscire di casa da sola. Anzi, addirittura, tante notti le passava dormendo con me, e se doveva andare al bagno o prendere un bicchiere d'acqua, mi svegliava perché la accompagnassi. Come potevo farmi arrestare in un momento simile? D'altra parte, avevo ucciso un uomo. Non ero pentita del mio gesto, anzi, tornando indietro l'avrei rifatto, magari aggiungendo una buona dose di crudeltà alle torture che avevo inflitto a Leto, ma davanti alla legge ero colpevole, e ho sempre ritenuto giusto che la legge venisse applicata.

Era un bel problema. Sennonché, Dio, il Destino, la Provvidenza, chiamatelo come volete, mi venne in aiuto in due modi diversi. Mi fecero una perizia psichiatrica, in cui venne fuori che difficilmente sarei risultata colpevole. Risultavo troppo furiosa con Leto per torturarlo in quel modo, troppo premeditato. In preda alla furia della vendetta avrei sicuramente lasciato qualche impronta, qualche traccia del mio passaggio. Trovai la cosa ridicola, visto che comunque ero stata io. Subito dopo la perizia, una vicina venne a testimoniare che era impossibile che fossi colpevole, visto che giurava e spergiurava di avermi visto in un bar a bere, giusto all'ora in cui, in teoria, io sarei dovuta essere in casa. La ragazza che avevano visto doveva assomigliarmi parecchio, visto che anche il barista confermò la versione della vicina. Quanto a me, mi inventai qualche storiella strappalacrime sul fatto che mi vergognavo profondamente di aver ceduto ad un impulso così autodistruttivo, per questo avevo mentito sul luogo dove mi trovavo. L'esame del capello confermò che effettivamente avevo bevuto, grossomodo in quel periodo. Dio benedica quei due drink forti! Mi fecero una ramanzina sul rischio di ritrovarmi in carcere solo per non passare per ubriacona, poi mi lasciarono andare. Non trovarono mai il colpevole, e la misteriosa ragazza non si fece mai viva per confutare la storia del barista e della vicina. Suppongo che in realtà non sia mai esistita, visto la faccia strana che hanno fatto il barista e la mia vicina quando sono andata a ringraziarli. Comunque sia, l'ho fatta franca.

Gli oggetti non mi hanno più parlato. È un bel sollievo.

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