'Respira profondamente... respira
profondamente... resisti... respira... respira... respira...'
Continuavo a ripetere nella mia
mente quelle parole da tempo indefinito. Ero... da quanto tempo ero
chiusa lì dentro? Ore? Giorni? Mesi? Anni? Magari nel frattempo
avevo compiuto 18 anni, 19, 20... e neanche lo sapevo...
Ero semisdraiata su un vecchio letto
arrugginito, i polsi legati alla testiera. L'unico capo che indossavo
era una camicetta da notte della peggior qualità di acrilico. Non
indossavo la biancheria intima, quei tre bastardi me l'avevano
strappata di dosso appena mi avevano sbattuta lì dentro. Mi avevano
obbligata a indossare quell'orrenda camiciola, poi mi avevano legata,
solo per i polsi, in modo tale che, però, non potessi raggiungere le
corde con i denti. E poi... oh, poi...
La stanza era semibuia, ma riuscivo
a distinguere abbastanza da capire che lo stabile in cui mi trovavo
era abbandonato. Probabilmente quei porci avevano portato il letto
apposta per me. Per il resto la sala era completamente vuota. La
stanza era piuttosto piccola, e si vedevano i muri mezzi scrostati.
Non potevo vederla, ma sapevo che c'era anche una lampada, che veniva
accesa quando quei tre entravano per “divertirsi”.
Repressi un conato di vomito. Giusto
per non farmi mancare proprio nulla, mi avevano infilato in bocca dei
luridi stracci, e poi mi avevano sigillato le labbra con del nastro
adesivo. Ero quasi morta soffocata, odiavo tenere in bocca oggetti.
Anche quando, a casa, mi lavavo i denti, dovevo stare attenta a come
mettevo lo spazzolino. L'importante era che non toccasse la lingua.
Altrimenti il vomito era quasi sicuro.
Quindi si poteva bene immaginare il
mio terrore, quando, una volta ritrovatami con quella stoffa dentro
la mia bocca sigillata, mi erano venuti dei violenti conati. Era
stato un puro miracolo il fatto che fossi riuscita a rimandare giù
il vomito senza soffocare. Anche se, visto quello che era successo
nelle ore successive, forse sarebbe stato meglio morire.
Successivamente avevo scoperto che spingendo la lingua contro gli
stracci e respirando di pancia riuscivo a non avere conati. L'unico
momento in cui mi veniva tolto quello schifo dalla bocca, era quando
i tre maiali entravano nella stanza. Allora mi nutrivano, e poi mi
stupravano. Dopodiché, straccio in bocca e via. Avrei tanto voluto
rifiutare il cibo e lasciarmi morire di fame. Ma il mio istinto di
sopravvivenza era molto più forte di quanto avessi mai sospettato in
vita mia. Ogni volta mangiavo con la voracità di un lupo. Una
lacrima rotolò sulle mie guance scavate. Volevo la mia mamma...
dov'era la mia mamma?
Un rumore mi fece trasalire. 'Dio,
no! Non di nuovo, ti prego! Mamma!' implorai, nella mia mente. Ma la
mamma non c'era, e a quanto pareva, o Dio non esisteva o era
estremamente crudele. La porta si spalancò, la luce venne accesa.
“Ciao, bambolina!” il più alto,
e il più bello dei tre, fece un ghigno perverso. Mi si avvicinò,
accarezzandomi lentamente lungo tutto il corpo. Indugiò sulla
fessura in mezzo alle gambe per un secondo, poi risalì lungo la
pancia, con la punta delle dita tracciò una lieve linea sul mio seno
destro, poi arrivò al viso. Ero completamente paralizzata dalla
paura, e probabilmente me lo si leggeva in faccia. Afferrò il nastro
adesivo e lo strappò via con un colpo secco. Sputai fuori gli
stracci con un conato, gli occhi gonfi e lacrimanti, il respiro
affannoso. Cominciai a piangere debolmente. Il ragazzo mi carezzò i
capelli, ma non era un tocco rassicurante. Mi diedero da mangiare. Un
piatto di pasta al ragù raffreddata, del tipo che propinano alle
mense scolastiche. Il ragazzo più bello rimase seduto al mio fianco,
imboccandomi. Gli altri due si misero in posizione, uno da un lato
del letto e uno dall'altro. Poi, il tipo che mi stava imboccando
portò via il piatto. Lo appoggiò a terra, e poi, lentamente, si
voltò verso di me. Mi saltò addosso. Urlai.
'Dio, fa che finisca presto! Fa che
finisca!' Ero esausta. Avevo continuato a versare lacrime per tutto
il tempo, cercando di non pensare a quello che mi stava succedendo.
Diventava ogni volta più semplice.
Il ragazzo era dentro di me da
quelle che sembravano ore. I suoi due compari mi tenevano per le
gambe, belle larghe, in modo da agevolare il loro capo. Quello uscì
da me, ansimante.
“Cazzo, così mi smonti!” urlò.
Mi diede un pugno sullo zigomo. Emisi un breve strillo. La mia vista
si oscurò. Ma non mi sfuggì il fatto che l'erezione del mio
aguzzino si era rinnovata. Mi entrò dentro di nuovo, di prepotenza.
Molta più prepotenza delle altre volte. Urlai di dolore. Il mio
aguzzino mi tappò la bocca con una mano. “Ssh, ssh...” sussurrò.
Fu quello, il momento in cui sentii
che il mio istinto di sopravvivenza aveva trovato un alleato molto
potente: la collera.
Quel “ssh” sussurrato come se
fossero dei bambini che non volevano essere beccati dalla mamma a
fare uno scherzo alla sorellina. Mi stavano stuprando, Dio solo
sapeva quante volte lo avevano già fatto, e quante ancora lo
avrebbero fatto! Provavo quel dolore ai polsi scorticati da una corda
da quattro soldi da troppe ore, avevo sentito quel dolore lancinante
come un colpo di spada in mezzo alle gambe una marea di volte, mi
sentivo le spalle sul punto di uscire dalla loro sede, e l'interno
delle cosce doloranti a causa degli strappi causati dall'allargamento
forzato delle mie gambe. Eppure non fu quello a farmi infuriare, ma
quel “ssh”, come se stessimo facendo qualcosa di non
necessariamente brutto, ma comunque privato... mi resi conto che il
modo di dire “vedo rosso”, quando una persona si infuria, non era
un semplice modo di dire. Davanti ai miei occhi apparve come un velo
scarlatto, e persi il controllo. Tirai una testata sul naso del mio
aguzzino, sentendo quasi con piacere il rumore del setto che si
rompeva. Lui si tirò indietro, gridando. Tirai calci praticamente
alla cieca, colpendo qualcosa di morbido con entrambi i piedi. I due
scagnozzi si tirarono indietro, uno tenendosi il collo, l'altro la
bocca dello stomaco. Poi presi a dimenare le braccia. Non sentii
dolore quando le mie mani scivolarono via dalle corde, lasciandoci
attaccati pezzi di pelle sanguinolenti, che mi lasciarono in carne
viva. Uno degli scagnozzi fece per afferrarmi, ma lo colsi di
sorpresa piombandogli addosso con una spallata, facendogli perdere
l'equilibrio. L'adrenalina che mi scorreva in corpo mi stava dando
energie che non sospettavo di avere. Il mio aguzzino tentò di
inseguirmi, ma afferrai la lampada e gliela tirai dietro. Non mi
voltai per controllare, ma a giudicare dal rumore lo avevo colpito.
Le mani mi tremavano violentemente, ma riuscii ad abbassare la
maniglia della porta. Forse Dio non era così crudele. L'avevano
dimenticata aperta. Con un sospiro di sollievo, la spalancai e fuggii
via nella notte.
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