You can teach me how to see.

di alwaysbeenweird
(/viewuser.php?uid=208245)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** You can teach me how to read. ***
Capitolo 2: *** Liar you'll pay for your sins. ***
Capitolo 3: *** Can I touch you? ***
Capitolo 4: *** The light inside of me. ***



Capitolo 1
*** You can teach me how to read. ***


 Pete non era un ragazzo problematico.
Aveva sedici anni, parlava poco, ma non era problematico.
Sua zia però continuava a definirlo così. Lo ripeteva da anni.
Pete era invece fermamente convinto che i suoi unici problemi fossero di avere una chitarra acustica verde fosforescente e di non saperla suonare e di possedere un bellissimo libro, ma di non saperlo leggere.
Intendiamoci, non che fosse un analfabeta. Non che non sapesse scrivere.
Però non sapeva leggere. E non parliamo di un semplice leggere, uno sfogliare le pagine superficialmente, senza comprendere il senso di ciò che scorre fra le mani del lettore.
Un leggere vero, profondo, che permette di comprendere cose che ignori fino al momento in cui non le vedi impresse sulla carta e che ti rimangono scritte sulla pelle per tutta la vita.
Ciò lascia a intendere che fosse un po’ strano.
Beh, forse tanto comune non era, ma a Pete poco importava del giudizio della gente.
C’erano molti libri che aveva sfogliato. Alcuni gli avevano anche regalato qualcosa, ma nessuno gli aveva mai lasciato scritto nulla sulla pelle. Nessuno di loro gli aveva mai marchiato l’esistenza per sempre.
C’era un libro che, però, Pete desiderava leggere ardentemente, con tutto se stesso.
Un libro che da anni custodiva come il più grande tesoro e che rimaneva inutilizzato.
Ci aveva provato spesso, spessissimo, a leggerlo, e si era spremuto le meningi fino a farsi salire il sangue alla testa e a diventare tutto rosso, ma non c’era mai riuscito. Prendeva il libro in mano, fissava la copertina.
La accarezzava, come si accarezzano le guance dei bambini. Col dorso della mano.
Poi percorreva con l’indice il volto di Dorian Gray ritratto sul morbido cartoncino.
Sempre con l’indice, ripassava la scritta “Wilde” blu cobalto sopra il disegno del giovane e poi tentava di aprirlo.
E quando ci riusciva (se ci riusciva) non faceva in tempo a leggere mezza parola, che quegli appunti ai lati della pagina, scritti con quella grafia ricurva e ordinata, gli facevano accapponare la pelle e inumidire gli occhi.
“Dubito che ci sia qualcuno capace di crescere senza una madre. Se invece qualcuno avesse questa capacità, allora significherebbe che mio figlio è proprio quel qualcuno”.
Suo padre lo diceva sempre, quasi con orgoglio, a chiunque gli chiedesse come avesse reagito suo figlio alla morte della madre. E lo diceva convinto, con una bottiglia di birra in mano e il suo contenuto nello stomaco.
Pete non si sorprendeva, però. Suo padre non sapeva. Non gliene faceva certo una colpa, d’altronde, se non se n’era accorto. Pete era bravo a nascondere le cose. Cose come il tatuaggio sull’avambraccio che si era fatto fare da un tatuatore incontrato per strada.
Si era fatto scrivere “Sorry, mom” con la scrittura di Paula. Sì, proprio quella che aveva trovato ai lati del libro.
Forse era stupido. Forse non avrebbe dovuto.. ma si sentiva pienamente, completamente, assolutamente responsabile della morte della madre. Se suo padre credeva fosse difficile crescere senza una madre non poteva certo immaginare quanto lo fosse invece convivere col senso di colpa di averla uccisa solo nascendo.
Perché era così che era morta. Lui era uscito fuori, aveva aperto gli occhi al mondo, e al contempo lei, senza fare in tempo nemmeno a vederlo, si era spenta. Aveva chiuso le palpebre e se n’era andata.
E Pete, il suo primo abbraccio non l’aveva certo ricevuto da sua madre. Era stato messo tra le fredde braccia di un’ostetrica che poi l’aveva rinchiuso in un’incubatrice, che di solito riscalda il piccolo, ma che a Pete, sin da subito, aveva congelato l’anima. Perché non posso continuare a stare dentro quella pancia per sempre?, si era chiesto. Chiuso in quella pellicola che era la placenta, senza nessun rumore a parte quello della voce della mamma, soffusa e dolce, che lo colpiva qualche volta. Magari per cantargli una ninna nanna, o, all’occorrenza, per ricordargli che gli voleva tanto bene, come diceva lei.
E questo era un motivo in più per sentirsi in colpa. Gli voleva bene e lui l’aveva uccisa.
Come puoi uccidere qualcuno che ti ama? Come puoi uccidere qualcuno che ti ha donato la vita?
Non riusciva a convincersi di non averlo fatto apposta, di non averne colpa. Credeva che dentro di sé ci fosse qualcosa di cattivo, qualcosa che si nascondeva, che era stato taciuto al mondo da parte di qualcuno di più grande.
Ed era sicuro di covare quel qualcosa dentro sé, convinto che prima o poi, il mostro sarebbe uscito fuori e lui avrebbe fatto del male a qualcun altro.
Erano fantasie alquanto improbabili, sarebbe stato difficile crederci per chiunque altro.
Ed era proprio per questo, per questa mentalità, per queste contorte convinzioni che nascondeva nel profondo, che Pete era taciturno, chiuso in se stesso poiché sicuro che meno avesse parlato con gli altri, più facile sarebbe stato non far uscire il mostro.
Richiuse il libro, con l’impeto di lanciarlo in un angolo della stanza, coprirsi le orecchie e mettere a tacere la voce che sentiva dentro e che gli urlava “assassino” e ancora “l’hai uccisa tu”,“tu sai qual è il prezzo da pagare” , ma non lo fece. Se lo strinse al petto e chiuse gli occhi, comprimendoli così forte da farli quasi scoppiare. Iniziò poi a dondolare, avanti e indietro, come a cullarsi da solo. Sentiva il polso sinistro pulsare, dolorante, grondante di sangue. E quello del sangue che scorreva era un altro rumore che si aggiungeva, nella sua mente, caotico e fastidioso. Infine i nervi cedettero, non ce la fece più.
Cadde come un palloncino sgonfio sul parquet, esausto, privo di conoscenza.
Si risvegliò nel bianco candido di una camera d’ospedale. Gli ospedali non dovrebbero essere accoglienti? Beh, quello non lo era di certo. Che fossero tutti dei pazzi maniaci dell’igiene lì dentro? Guardi, non per criticare, ma la stanza puzza d’alcool e disinfettante e per quanto un posto del genere debba essere mantenuto pulito, non credo che alle persone che, come me, si risvegliano qui senza comprendere cosa stia succedendo, faccia piacere sentirsi entrare quest’odore nelle narici e salire fino al cervello, aveva pensato di dire all’infermiera che era arrivata a cambiargli la flebo, ma poi si era limitato a guardarla con fare interrogativo, senza aprire bocca. Quella tizia aveva la delicatezza di un triceratopo. Sicuri che questa sia tagliata per fare l’infermiera? si era fermato a pensare fingendo indifferenza: gli aveva sfilato e rinfilato l’ago nel braccio come se il ragazzo non potesse sentire che glielo stava bucando violentemente.
Quando la sciatta infermiera se ne fu andata tentò di sfilarsi l’ago, forse perfino con meno delicatezza di quanta ne aveva usata la donna vestita di verde. Si lasciò quindi sfuggire una smorfia di dolore accompagnata da un “e ma che cazzo!” alla vista del sangue che era riuscito a farsi uscire dal braccio nonostante il buco per la flebo fosse stato piccolo al punto da non vedersi nemmeno!
Tentò di alzarsi, ancora imprecando, quando si rese conto di non riuscire a tirare su la testa da quanto il suo corpo si sentiva stanco e pesante.
“Dannazione!” poi si fermò un attimo. Perché tutta questa agitazione? Era sempre così calmo e pacato, invece da quando si era risvegliato aveva preso a imprecare contro qualsiasi cosa gli passasse davanti, aveva persino tentato – e dico “tentato” perché non aveva la forza di far nemmeno quello- di lanciare un tovagliolo di carta contro una mosca. Che poi perché prendersela con una mosca? E perché lanciarle un tovagliolo di carta?
Col pollice e il medio si massaggiò le tempie sbattendo le palpebre più volte.
“Dio, ma che ci faccio qui?” continuava a chiedersi a bassa voce.
Ma niente, non gli veniva in mente nessun motivo valido, non sapeva nemmeno come ci fosse finito in quel posto.
O forse sì? L’ultima cosa che ricordava erano le voci, ma quelle erano costanti, c’erano più o meno sempre, non sarebbero state un valido motivo per ritrovarsi in quell’odioso ospedale.
Che poi, probabilmente, odiava gli ospedali così tanto perché era lì che era iniziata la sua vita ed era lì che aveva compiuto il suo primo omicidio. Non che ve ne fossero stati altri, anche se nel cuore di Pete, c’era sempre la paura costante di fare del male a qualcuno, ma non riusciva a levarsi di mente, nemmeno in un momento come quello, quello che aveva compiuto alla nascita.
Si guardò il polso. Quello sinistro.
Sì, a quello destro era un po’ più complicato infliggere i tagli.
Notò senza troppo stupore che gli avevano tolto i polsini. E che si vedevano i segni della lametta ancora freschi. DANNAZIONE!
Dico, va bene questo camice da pazzo furioso che mi hanno messo addosso, ma almeno le mie cose potevano lasciarmele.. non so, sul comodino!  si ritrovò a pensare mentre tastava la superficie del comodino con la mano. Niente, liscio come il marmo, pieno di polvere e oleoso, ma niente di suo. Poi, per sbaglio, al passaggio della sua mano cadde qualcosa. Si tirò su facendo resistenza alla pesantezza del suo corpo e si appoggiò sui palmi delle mani.
Ma che diavolo..?
Un biglietto. Si piegò per raccoglierlo, sempre debolmente.
E che cavolo. Sembro imbottito di sedativi. Mi sento tutto rincretinito.
Raccolse non senza sforzo il biglietto poi, buttando un sospiro di sollievo, si lasciò cadere stanco sul materasso. Aprì il biglietto dicendosi almeno questo dovrei essere in grado di leggerlo!

Scusa, Peter. Scusami davvero, ma non ce la faccio più. Qui ti aiuteranno meglio di come potrei mai fare io. Ho sempre pensato di non essere tagliato per fare il padre. E i tuoi polsi me l’hanno dimostrato quando, ieri sera, dopo che sei svenuto e ho chiamato l’ambulanza, ti ho levato i polsini per sentire il tuo battito cardiaco. Avevi il braccio sporco di sangue. Come hai potuto infliggerti simili sofferenze? E come ho potuto, io, non accorgermene? Perché c’erano anche altri tagli, più o meno profondi, ormai vecchi, cicatrizzati, che io non avevo mai notato. Perché hai tentato il suicidio l’altra sera? Perché lo hai fatto? Qui ti aiuteranno, ti aiuteranno a capire, Peter. Forse tua zia ha ragione a dire che sei problematico. Forse lo siamo tutti e due. Ma io non posso proteggerti, né aiutarti. Chiamami pure codardo, ma non ne ho la forza.
Addio, Peter.”

Proprio un gran bel padre aveva!
Aggrappandosi alla ringhiera del letto scese dal materasso con le poche forze che aveva, poggiando le punte dei piedi sul pavimento gelido come la pietra.
Si sentiva spaventato, confuso, la vista gli si stava annebbiando. Continuava a domandarsi perché, perché, perché?
"AH, DANNATO!" fece in tempo a urlare, prima di cadere, storcendosi la caviglia.
"Oh, guarda, Pete, ora hai un motivo in più per stare in ospedale!" sentiva la voce di suo padre prenderlo in giro, mentre lui, tutto meno che divertito, si massaggiava la caviglia, coi capelli corvini che gli ricadevano sulla faccia e che si bagnavano, in un miscuglio di sudore freddo e lacrime.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Liar you'll pay for your sins. ***


Era stato trasferito. Inizialmente era in un normalissimo ospedale, e quasi si pentiva di essersi lamentato di stare lì, poiché ora la situazione era di gran lunga peggiorata. Si trovava in un vero e proprio manicomio, con le sbarre alle finestre e i letti ai quali era possibile legare coloro che diventavano incontrollabili. Che poi era strano, quel manicomio. Perché non poteva mettersi i suoi vestiti? Perché dovevano dargliene di “nuovi” -per così dire, dato che puzzavano di muffa e ricordavano lo stile degli anni 40-? Non era già una tortura abbastanza pesante quella di dover stare chiuso là dentro tutto il giorno a far nulla? Perché obbligarlo anche a vestirsi come un ragazzino del periodo nazi-fascista? 
Si grattò le gambe, dannati calzini di lana lunghi fino alle ginocchia! pensò. 
Era tutto così strano in quel posto. Aveva visto diverse crisi da parte di alcuni pazienti da quando era arrivato. Il suo compagno di stanza, Michael, era uno schizofrenico che si faceva chiamare il mentitore professionista, poiché non solo era pazzo, ma dopo aver visto il film "Ragazze Interrotte" si era addirittura convinto di essere un bugiardo cronico. Ah, d'altronde, come se non bastasse quella, di convinzione, si era definito perfino psicopatico carismatico, ritenendosi irresistibile. , aveva pensato Pete, irresistibile per ogni tipo di sfiga esistente. A quanto gli avevano raccontato i medici e le infermiere, i sintomi del suo "difetto", se così lo si vuol chiamare, si erano fatti vivi da moltissimo tempo.
Sin da piccolo era sempre stato strano e non aveva mai brillato per intelligenza. Eccelleva solo nella scrittura, data la sua assurda e incontrollabile fantasia. 
Sin da quando era solo un bambino raccontava storie di mondi lontani, di persone che non sarebbero mai potute esistere nemmeno a crearle apposta. E tutto ciò andava bene, finché lo scriveva su carta e si limitava a quello. I suoi genitori e i suoi insegnanti avevano iniziato a lamentarsi con lui quando aveva iniziato a mettere se stesso al centro della storia spacciando le avventure che immaginava per vissute da lui. Non per nulla si classificava psicopatico carismatico.
 
"Li-li-liar, liar you'll pay for your sins. 
So tell me how does it feel? How does it feel to be like you? I think your mouth should be quiet, 'cause it never tells the truth!"
"Ti piace proprio cantare, eh, Mike?" gli aveva chiesto un po' infastidito dopo l'ennesima volta che ripeteva quella strofa. 
"Tu credi pagherò per i miei peccati?" aveva detto lui.
Pete non aveva compreso il senso di quella domanda. 
Perché chiedere una cosa del genere? A lui, poi.
"Liar you'll pay for your  sins! La canzone dice così! Io pagherò perché sono un bugiardo. La mia bocca dovrebbe star zitta: non dico mai la verità. Credi che finirò all'Inferno? Credi che rimarrò qui per sempre? Oh, forse son già all'Inferno! Qui, qui dove tutti pensano che io sia solo un folle. Anche tu lo pensi, vero? SI'! PAGHERO' PER I MIEI PECCATI! Anzi, lo sto già facendo! Sto scontando la mia pena qua dentro, dannato mentitore quale sono me lo merito!" 
Pete non sapeva che dire. Era spaventato dalle urla di Michael però.. coglieva la lucidità in quelle parole, nei suoi occhi. Non sembrava il solito pazzo al quale tutti erano abituati là dentro. Sembrava rendersi conto della sua posizione. Di quello che gli capitava. Del suo "difetto".
"I-io.. ecco.." continuava a non sapere come reagire. Aveva visto una lacrima avventurarsi fuori dall'occhio sinistro del compagno di stanza. Non sopportava vedere le persone piangere, e se lui avesse iniziato Pete si sarebbe paralizzato, incerto sul da farsi, continuando a balbettare. 
Intanto Michael si era sdraiato a terra, in posizione fetale, e aveva cominciato a lamentarsi emettendo strani gemiti, dondolandosi senza un ritmo preciso. Pete non capiva cosa stesse cercando di dire, sapeva solo che c'era stato qualcosa di strano nella reazione che il ragazzo aveva avuto. Come un momento di vuoto totale, di pentimento, di lucidità. Ma pentirsi di cosa, poi? Quella di Mike era una vera e propria sindrome, una malattia, non poteva certo sfuggirle o ignorarla.
"Il dannato bugiardo cronico, il dannato bugiardo cronico..." le sue parole si facevano più chiare e Peter iniziava a comprenderle.
"Smettila.." si sentiva la testa scoppiare. Il suo dondolio scostante, i suoi gemiti, i sussurri che pian piano passavano a urla, per poi tornare indietro sui loro stessi passi. 
"HO DETTO SMETTILA, CAZZO!"
Pete si era preso la testa tra le mani, se la sentiva scoppiare, aveva iniziato a sudare freddo e le vene del collo gli pulsavano, risaltando in modo spaventoso.
Eppure non riusciva ad uscire dalla stanza.
Gli sarebbe sembrato di abbandonarlo, facendolo.
Sentendo i rumori che entrambi emettevano, a poco arrivarono gli infermieri, che senza troppo interessamento misero in piedi Michael e guardandosi negli occhi si dissero "l'ennesima crisi". 
Peter si era calmato, un'infermiera gli aveva passato un fazzoletto sulla fronte bagnata e gli aveva preso le mani nelle sue.
Va tutto bene, aveva detto. 
Ma che cazzate volevano fargli credere in quel posto? Il suo compagno di stanza schizofrenico aveva appena avuto un attacco di isteria e loro pensavano che con un semplice "va tutto bene" si sarebbe calmato?
"Cristo, non ne posso più.." disse strofinandosi gli occhi che minacciavano lacrime.
Si lasciò andare sul letto, non riusciva più a reggersi in piedi. 
Forse ha ragione, forse siamo tutti qui per essere puniti si era ritrovato a pensare.
Io ho ucciso mia madre però, la mia colpa è ben più grave della menzogna. Perché io e Mike veniamo puniti allo stesso modo?
Poi, senza fare in tempo a darsi una risposta probabilmente inesistente, si addormentò profondamente, con gli occhi rossi e gonfi per le lacrime trattenute che iniziarono a sgorgare nel sonno.
----------------------------------------------------------------------------------------
Aveva fame.
Era da molto che questa sensazione non lo assaliva, da molto che non sentiva il bisogno di mettere qualcosa nello stomaco.
Beh, forse tagliarsi lo distraeva al punto da non fargli provare cose come quella. O semplicemente non voleva mangiare perché avrebbe preferito morire piuttosto che ingerire una di quelle schifezze precotte "preparate" da suo padre.
Ora non c'erano né suo padre né la lametta, quindi anche le scuse per non ingerire nulla erano state annullate. 
Percorse il corridoio dell'ospedale ignorando gli infermieri che gli lanciavano strane occhiate e trascinando i piedi intrappolati nei mocassini. 
Raggiunse le scale a chiocciola - la mensa si trovava al piano di sotto - e lanciò un occhiata a uno spazio vuoto nel muro, dove lui, se fosse stato l'ingegnere, avrebbe sicuramente fatto costruire un ascensore. Peccato solo che non fosse l'ingegnere e che forse non era stata una cattiva idea non mettere l'ascensore, se si teneva conto del fatto che era in un ospedale psichiatrico e i malati non erano certo affidabili e autonomi. Insomma, non erano in grado di prendere l'ascensore. Però lui odiava le scale. Guardò i gradini e poggiò la mano destra sul corrimano. Freddo, pensò.
Ho le scarpe scivolose.. e se cadessi giù per le scale? Eccolo che ricominciava con le paranoie, le solite seghe mentali. 
Si fece coraggio, si disse di smetterla con queste stupide convinzioni, con questa fissa delle scale, sopratutto. 
Prese un gran respiro, si riempì i polmoni d'aria, poi, guardando le scale vuote sotto di sé, iniziò a scendere i gradini. 
Uno, due, tre, quattro...
Per fare le scale teneva il tempo, scandendolo precisamente.
Un gradino al secondo.
Undici.. aveva quasi finito la prima rampa.
Venti... ora aveva completato la seconda.
TRENTASEI! quando arrivò all'ultimo gradino disse il numero ad alta voce, e l'infermiera che stava entrando in cucina si girò a guardarlo, rivolgendogli un sorriso compassionevole. 
Ecco un'altra che mi crede matto! 
Ancora eccitato per essere riuscito a fare le scale senza vomitare o farsi prendere dal panico, si diresse verso la porta della mensa, incrostata di senape e unta con olio d'oliva.
Che dolci questi pazzi che si preoccupano per i cardini della porta disse con voce derisoria nella sua mente.
Quando stava per varcare la soglia, non senza un fare schizzinoso, sentì dei rumori provenire dalla stanza dove era entrata l'infermiera dal sorriso compassionevole. Persone che ridevano. Credeva, almeno.
Sì, e ridevano sguaiatamente. Non ricordava di aver mai riso a quel modo. Si chiese chi potessero essere. I pazienti non potevano entrare in cucina, questo era certo. Il personale, forse?
Poi vide la porta aprirsi e un pugno di farina gli arrivò in faccia, imbiancandogliela. Si era avvicinato troppo alla porta, accidenti a lui. 
I cuochi e l'infermiera guardarono Pete rimanere immobile e sbuffare per farsi uscire la farina dalla bocca, poi si avvicinò un ragazzo, completamente ricoperto di farina, solo gli occhi azzurri risaltavano in quel manto di polvere bianco candido. 
Il ragazzo cercava tastoni di trovare qualcosa, o qualcuno davanti a sé. Quando trovò la sua spalla fece scorrere la mano fin sul suo volto, arrivando alle sue labbra sporche di farina. 
Peter era paralizzato. Non capiva cosa stesse succedendo.
Vide poi gli altri ragazzi accanto al personale dell'ospedale, che si reggevano ai mobili della cucina e guardavano il vuoto. 
Chi lo stava toccando era forse... cieco
"Scusami tanto!" disse il ragazzo quando capì di aver beccato in faccia proprio Pete. 
Come aveva fatto a non accorgersi subito che era cieco?
E perché non gli aveva dato il minimo fastidio il suo toccargli il volto?
Solitamente si sarebbe infuriato, e di norma si sarebbe accorto del suo barcollare, del protendere le mani in avanti per trovare il suo corpo. 
"Mi hanno detto che era entrato un altro ragazzo troppo tardi! Non volevo, davvero perdonami!" continuava a scusarsi. E Pete rimaneva immobile. 
Si avvicinò l'infermiera, che prese il ragazzo cieco per le spalle. 
"Tranquillo, Jess! Pete non è un tipo che se la prende." mentre lo diceva, però, guardava Peter come a minacciarlo, i suoi occhi dicevano non farti prendere una crisi e non ti azzardare a toccarlo, o ti ammazzo e se ne rendeva conto perché era un po' lo sguardo che si rivolgeva a tutti i malati lì dentro. 
Pete si riscosse, ancora comunque sconvolto. 
Sentì di nuovo quella mano sul suo corpo, sul braccio sinistro, che scendeva e arrivava al polso, per poi stringere la sua.
"Scusa ancora!" disse di nuovo quello che doveva essere Jess. 
Poi un uomo tozzo e alto con un cappello da cuoco lo prese per le spalle, come aveva già fatto l'infermiera, conducendolo al centro della stanza con gli altri ragazzi ciechi. 
Poi due donne (una era quella dal sorriso compassionevole) lo presero per le braccia e lo portarono fuori.
Peter continuava a non staccare gli occhi da Jesse, che gli appariva una visione, un angelo. 
"Non ti azzardare a toccare Jesse. Ora oltre che i pazzi ci troviamo anche i gay qui dentro! Paula, fai qualcosa, dannazione!" l'infermiera si rivolgeva alla cuoca. 
Lui continuava a non capire. Perché gli davano addosso a quel modo? Che aveva fatto di male?
"E SMETTILA DI MANGIARTELO CON GLI OCCHI!" beh, in effetti era quello che Pete stava facendo. Non aveva smesso di guardarlo un attimo, nemmeno quando erano usciti, dato che le porte della cucina 
avevano a loro volta delle piccole finestrelle di vetro e lui poteva vederlo benissimo.
"Sembra un angelo." si lasciò sfuggire. Anche perché l'aveva pensato dal primo momento che l'aveva visto. 
"Sei solo un frocio di merda. Quel ragazzo è puro, sano, se non si contano i suoi occhi, pulito, bellissimo. Non ti azzardare a toccarlo o ti farò fuori con le mie mani" disse l'infermiera. Sembrava davvero volerlo uccidere. 
Poi si allontanò, lasciando Peter solo con la cuoca. Lui le rivolse uno sguardo privo d'emozione, per lo meno nei suoi confronti. 
"Tranquillo, non è sempre così. Solo quando qualcuno tenta di avvicinarsi a Jess."
Pete percepiva le sue parole flebili e lontane.
Continuava a pensare a quegli occhi azzurri, completamente privati della vista, e ai riccioli biondi ricoperti di farina.
Un angelo. 
"E' bellissimo." si azzardò a dire. 
"Lo so." fu la risposta della donna che, dolcemente (per quanto possa essere dolce il tocco di una donna di più di novanta chili), gli posò una mano sulla spalla, accarezzandogli poi la schiena.
Bellissimo, ripeté Pete nella sua testa, più e più volte; mentre pranzava, nel tempo durante il quale era abituato a sedersi davanti alla televisione senza guardare seriamente nulla, e durante tutta la notte.
Era davvero bellissimo. 












Molto piacere a tutte!! 
O tutti.. o.. chiunque voi siate.. accetto anche ibridi, transessuali e ragazzi che sparano laser magnetici dalle ascelle, sapete? 
Fatto sta, so che spesso questi angoli autrice/autore sono strazianti e nessuno ha voglia di leggerli (non per nulla io li metto alla fine o non li metto mai, eheh), però questa volta sentivo davvero il bisogno di scriverne uno, insomma, vorrei instaurare un certo rapporto con i lettori perché sì, lo ammetto, mi sento tremendamente sola qui *si dimena, rotola e piange*.
Di solito scrivo per me e non mi importa di ciò che la gente dice, però qui su Efp è un po' diverso e ci tengo a sapere se a voi ciò che scrivo piace, interessa... non so, suscita qualche emozione!.. (?) 
Per me questa storia ha un valore molto importante, come tutto ciò che scrivo del resto, perché si avventura in un contesto che mi tocca molto (non personalmente, tranquilli eh, non sono né cieca, né autolesionista psicopatica abbandonata in un manicomio da mio padre) perché amo le situazioni fragili, amo le persone difficili da trattare ma che se curate con amore possono molto. 
Quindi, che dire, se vi piace, per favore, recensite e.. muovetemi qualsiasi critica se credete ne abbia bisogno, non mi offendo assolutamente, anzi ci tengo!
Ah, dimenticavo, mi chiamo Alessia, 
mi firmo Abnormal. 
Se ci siete fatevi sentire, mi fareste davvero felicissima! Io sono qua.

Abnormal

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Can I touch you? ***


Hey there Delilah, what's it like in New York City? I'm a thousand miles away but girl tonight you look so pretty, yes you do...
Times Square can't shine as bright as you, 
I swear it's true...
Quel giorno, durante l'ora di svago, alla radio passavano la canzone "Hey there Delilah" dei Plane White Ts'. Non che Peter la conoscesse, si limitava a sentire i titoli delle canzoni che venivano trasmesse alla stazione radio meno conosciuta al mondo e a scriverli su un taccuino.
Forse era per ammazzare la noia. 
Forse perché quella stazione dimenticata dal Mondo gli piaceva particolarmente. 
Che discorsi! Semplicemente non ho nulla da fare, si era detto.
Però sentiva che c'era qualcosa di più. 
Da quando aveva visto quel ragazzo in cucina qualcosa l'aveva assalito. Una sensazione strana, mai provata prima. 
Percepiva un cambiamento nel suo stesso essere, una gioia che si alternava alla malinconia. O forse che si fondeva alla malinconia. 
Era strano sentirsi così, erano sentimenti già provati, -magari solo la malinconia- ma che mai avrebbe pensato si potessero fondere. 
Si chiedeva se fosse merito di... Jess? era così che si chiamava? oppure dei sedativi che gli davano quando aveva le crisi. 
Sì, aveva iniziato ad averne. 
E sì, cominciava davvero a pensare di essere pazzo.
Qualcosa che non andava in lui c'era sempre stato, ma era stato taciuto al Mondo sin dalla nascita, e ora che stava venendo fuori... non sapeva davvero come affrontarlo. 
Il mostro lo spaventava. Non sapeva come reagirgli. Non riusciva più a nasconderlo, a respingerlo, a reprimerlo e chiuderlo dentro di sé. 
E come se la situazione non fosse stata già abbastanza complicata ora ci si metteva anche quel ragazzo. Quel ragazzo e quei dannati occhi. 
Si era dato dello stupido subito dopo aver affermato che era bellissimo. Non era gay, dannazione. Non era nulla. Non poteva innamorarsi, o provare attrazione fisica o sentimentale per qualcuno. Il solo pensiero lo spaventava e lo obbligava a mettersi sull'attenti. Sarebbe stato troppo pericoloso. Per se stesso e per la persona interessata. Non sarebbe stato possibile, per lui, amare qualcuno senza metterlo in pericolo. 
Sicuramente il mostro avrebbe fatto di tutto per uscire e ucciderlo con le sue mani. Si sarebbe impossessato del suo corpo e avrebbe risucchiato la sua volontà in un buco nero, facendo sì che ogni pensiero, ogni tentativo di respingerlo, fosse inutile.
Non poteva assolutamente provare qualcosa per qualcuno. Non doveva interessarsi a niente al di fuori di se stesso. 
E, se possibile, nemmeno a quello. 
"E ora, dopo lo sketch comico di quei deficienti che ci ritroviamo in radio, passiamo With ears to see and eyes to hear degli Sleeping With Sirens!"
Pete, riscossosi dai suoi pensieri, scrisse il titolo della canzone e il nome del gruppo sul taccuino, poco prima che la voce del cantante iniziasse a infiltrarsi nelle sue orecchie.
"True friend lie underneath, this witty words I won't believe, I can't believe a damn thing they say anymore..."
Il ritmo gli riportò alla mente qualcosa, poi arrivò la parte successiva a scuoterlo completamente.
"Li-Li-Liar! Liar you'll pay for you sins.. 
 so tell me, how does it feel? How does it feel to be like you?
 I think your mouth should be quiet, 'cause it never tells the truth now!"
Ebbe un sussulto. Certo che gli era familiare, era la canzone che stava cantando Mike poco prima di avere la crisi. 
Dannato bugiardo cronico, aveva bisbigliato nel più piccolo dei sorrisi. Dopo quella volta era stato messo in isolamento. 
A Pete non era sembrato nulla di grave, ma a quanto pare i medici non la pensavano allo stesso modo. 
Gli mancava il suo compagno di stanza, anche se faticava ad ammetterlo persino a se stesso. Michael era una delle poche persone ancora vive che aveva visto da quando era entrato lì dentro. 
Tutti gli altri sembravano degli zombie ambulanti. 
Accecati dalla luce di un sole che lì nemmeno c'era. 
Schifose finestre.
Quasi non permettevano di far passare l'aria quei buchi quadrati o rettangolari scavati nel muro. Per non parlare della luce del sole, che filtrava a stento. 
Gli sembrava di essere intrappolato sotto una cupola di cemento, magari fosse stata di vetro, almeno avrebbe potuto vedere ciò che c'era intorno. Ora si trovava invece semplicemente rinchiuso in un cerchio di pietra freddo e duro.
Aveva spento la radio e stava sdraiato sulla poltrona di pelle tarocca marrone posizionata nel centro della sala del "centro ricreativo" -o come cavolo lo chiamavano- e giocherellava con la penna. 
Spingeva il pulsante per far uscire la mina e lo lasciava andare. 
Lo pigiava nuovamente e poi toglieva il dito.
Andava avanti così da circa un quarto d'ora. Gli piaceva il movimento che faceva, su e giù, ritmico, e il rumore della molla che veniva compressa e che poi scattava, libera. 
I muri della sala del centro ricreativo erano di un verde sporco, non per via del colore stesso quanto per le manate che i malati vi lasciavano sopra. 
Si guardò intorno. Gente che giocava a Scarabeo. Gli sarebbe piaciuto imparare quel gioco. L'aveva sempre affascinato. 
"Sbullalello!" urlò un uomo sulla quarantina dopo aver messo in fila le sue lettere. 
"Prima cosa, come diavolo hai fatto ad avere così tante lettere L?;
 seconda cosa, quando porca vacca l'hai sentita 'sta parola? Sbulla.. Sbulla-non-so-che-cosa, non esiste! HO VINTO IOOOOO!" rispose l'altro. 
Pete li guardava con la testa inclinata verso sinistra. Era incerto sul da farsi. Ridere o scuotere  la testa in segno di resa davanti a tanta demenza? 
Si alzò dalla poltrona: a quel punto la voglia di imparare a giocare a Scarabeo l'aveva del tutto abbandonato. 
Si diresse verso il corridoio, varcando la porta della sala. 
Per fortuna a quell'ora non c'erano infermiere in giro, sopratutto non quella che aveva scoperto chiamarsi Hannah, e che lo fulminava con lo sguardo ogni volta che lo vedeva in giro -perlomeno da quando aveva, a detta sua, "adocchiato" Jesse-.
Che stronzetta bisbigliò sorridendo. 
Spesso qui mi chiedo se siano più pazzi i pazienti o chi li dovrebbe controllare.
La sala del centro ricreativo era sullo stesso piano della cucina. Tentando di tornare al piano di sopra non poté far a meno di passarci accanto. 
Si fermò un secondo davanti alla porta. Posò la mano sullo sportello, tentando di spingerlo in avanti. 
Si sentiva però privo di forze. Il braccio gli ricadde lungo il fianco.
Abbassò il viso in uno sbuffo. Tornò indietro sui suoi passi, fece le scale non senza prima deglutire più volte e si ritrovò, dopo trentasei gradini e venti secondi di corridoio, nella sua stanza. 
La 307.
Aprì la porta. Vuota. 
Sì, gli mancava decisamente la compagnia di quel deficiente di Michael. Ma era abituato a stare solo, con un padre come quello che si era ritrovato. 
Si sedette sul davanzale, oggi non piove, pensò. 
Poi notò un edificio, proprio accanto all'ospedale.
Era un edificio non troppo imponente, anzi, se visto dalla finestra della sua camera, anche piuttosto basso. Le pareti esterne erano tinteggiate di celeste ed era circondato da miriadi di finestre di vetro.
Lì filtra eccome la luce, si disse Pete. 
Poi vide una finestra aprirsi e una testa sbucare fuori. 
Non era abbastanza vicino da poter distinguere se fosse uomo o donna, alto o basso, o se avesse gli occhi di un colore piuttosto che di un altro, ma notò i riccioli biondi. Boccoli dorati che non avrebbe dimenticato nemmeno per tutto l'oro del mondo, che mai avrebbe potuto eguagliare la loro lucentezza. 
I capelli di Jesse. 
Gli sembrò prematuro, ed azzardato, ma non poté fare a meno di pensare che quei dannati capelli li avrebbe riconosciuti fra mille. E anche quegli occhi, che dalla distanza da cui lo ammirava, non potevano essere scorsi.
E se non fosse lui? si domandò. D'altronde come poteva esserne così certo? L'aveva visto una volta, per puro caso, non sapeva nemmeno cosa ci facesse nel posto in cui l'aveva incontrato. 
Si sentiva così curioso, come quando si era fermato davanti a quella porta, così attirato da lui, come quando l'aveva varcata senza averlo nemmeno mai visto.
Scese dal davanzale con un salto, si scompigliò i capelli corvini con una mano e si avviò a passo svelto verso le scale. 
Questa volta, senza indugio, le percorse, addirittura rapidamente, facendo due gradini per volta, con gli occhi socchiusi per non avvertire i capogiri, riducendo i secondi in cui riusciva a percorrere tutte le rampe a diciotto.
Arrivò così al piano terra, affrontando tutte le scale a chiocciola che incontrava noncurante, troppo curioso, troppo attirato da quell'edificio e da quei capelli dorati. 
Che diavolo gli avevano fatto quei capelli? Erano stati forse una maledizione? O al contrario lo avrebbero salvato dalle pene dell'Inferno? 
Si sentiva così stupido mentre correva verso l'entrata, quasi convinto di poterla varcare senza problemi.
Un uomo sulla trentina, alto e robusto, gli si parò davanti a braccia aperte poco prima che arrivasse alla porta. Lui si fermò di scatto, tornando indietro di riflesso. 
Ancora col fiatone per le scale percorse correndo e il cuore a mille per la voglia di vedere Jesse non riusciva a credere di essere stato fermato pochi secondi prima di riuscire a raggiungere l'obiettivo.
"Pensate tutti che sia così facile uscire di qui? Tsk, poveri illusi!" gli aveva riso in faccia il sorvegliante.
Ecco un altro coglione. Se continuo a incontrarne così spesso perderò il conto. 
Tornò indietro sui suoi passi, con le mani che gli prudevano per l'insistente voglia di prendere a pugni l'ostacolo che gli aveva bloccato l'uscita. 
Si girò nuovamente a guardarlo. Il coglione stava con le braccia incrociate appoggiato alla porta, e lo fissava minaccioso.
"Ah, scusa amico, ho dimenticato di dirti una cosa!" gli urlò quand'era ormai in fondo alla sala, con le mani a coppa intorno alla bocca per amplificare la voce. 
"VAF-FAN-CU-LO!" e la sua voce si ruppe in una risata isterica accompagnata da una sezione di un quarto d'ora di acchiapparella con il sorvegliante che i medici punirono con due dosi di sedativo e l'esonero per due giorni dall'ora di svago. Inoltre, come se tutto ciò non bastasse, iniziò a essere tenuto sotto stretta sorveglianza, per via della mancanza di rispetto che aveva mostrato verso il personale, e sopratutto per il fatto che aveva tentato di scappare. O almeno così era stata interpretata la sua corsa da pazzo furioso verso l'uscita. 
"E che palle! Ma pure mentre piscio? Porco Giuda, volete venire a tenermi il pisello nel caso le mani mi tremassero e mi scappasse via?" 
Non ne poteva più del fiato sul collo degli infermieri, erano così opprimenti. Non era mica invalido. 
Ma guarda tu che rottura. 
Iniziava a mancargli la lametta. 
I riccioli biondi di Jesse l'avevano tenuto lontano dal pensiero per un po', ma poi si era detto dannazione, non sono mica gay io! e il suo caro amico rasoio aveva ricominciato ad essere al centro dei suoi pensieri. 
Il mostro è tornato. Ci ha provato, il caro angioletto, a salvarmi dal buio. Bella presa per il culo.
Da quand'era entrato là dentro si era fatto sempre più volgare. Volgare, cinico e ancor più pessimista di quanto già non fosse, se possibile. 
Però parlava di più. Forse perché lì dentro stavano tutti zitti e lui era abituato a essere diverso dagli altri. Infatti, a scuola, tutti parlavano ed era lui a stare zitto. 
Ammutolito da non si sa quale sconosciuta forza dalla mattina alla sera.
Ma guarda questi che mi rubano pure il mio esser diverso. 
Si chiuse in camera  307, 307, 307 ... aveva iniziato a ripetersi. Era difficile stare lontano da tutto. Per quanto sembrasse apatico, noioso, indifferente, anche lui aveva degli interessi. E aveva una vita, seppur nascosta nel suo cervello. Provava emozioni, anche se non le dava a vedere. Si chiese come sarebbe stato essere normale. 
Come sarebbe cresciuto se avesse avuto una madre, o anche se solo non l'avesse uccisa lui. Magari non avrebbe passato così tante notti insonni torturandosi il braccio e macchiando il tappeto di sangue. Al solo pensiero di quelle gocce che cadevano a terra si rendeva conto che la cosa che gli faceva più male di tutte era l'indifferenza che suo padre mostrava nei suoi confronti. Non si era mai interessato minimamente. 
Nonostante vedesse il sangue su quel dannato tappeto e sulle lenzuola, non si era mai accorto che c'era qualcosa che non andava. O perlomeno aveva fatto finta, di non accorgersene.
Non mi sembra di essere una ragazza e non mi sembra nemmeno di aver mai avuto il ciclo, accidenti a lui.  
Suo padre era solo uno schifoso codardo, ma ormai l'aveva capito e ci aveva fatto l'abitudine.
Si toccò il braccio. Chiuse gli occhi. Passò il dito sulle cicatrici. La prima, nonché la più vecchia, era proprio sul polso, quasi sul palmo. Stava lì, come a segnare l'inizio di una lunga serie di tagli che non sapeva se avrebbe mai avuto un traguardo, profondi o superficiali, dolorosi o dei quali non si era nemmeno mai accorto, segnali che c'era qualcosa di sbagliato, qualcosa che nessuno aveva visto in tempo. 
Si grattò l'avambraccio: fremeva dalla voglia di placare le strane sensazioni che si facevano strada nel suo corpo con la lama - , la bellissima, dolce, pulita, splendente lama - , ma in quel dannato posto anche i coltelli erano di plastica, e le cose più taglienti che aveva trovato erano un foglio di cartoncino e del filo interdentale (che ovviamente aveva solo intravisto nella tasca di un'infermiera, figuriamoci se sarebbero stati imprudenti al punto di lasciarlo in giro, con la gente che tentava il suicidio). 
Niente da fare. Non aveva le unghie abbastanza lunghe da lasciarsi dei graffi, figuriamoci da tagliarsi.
Sbuffò e distese i nervi, i capelli sudati appiccicati alla fronte, il volto grondante, sul collo correvano le gocce che cadevano sul cuscino. 
In un attimo si ritrovò in un letto fradicio, dal quale dovette alzarsi velocemente, per evitare i capogiri e le vampate di calore.
"Grandioso, ora sono una cazzo di donna in menopausa." bisbigliò mentre ansimava. 
"Non ce la faccio. Non sono abbastanza forte, davvero, non ce la faccio." disse scuotendo la testa e premendo le mani contro le orecchie il più forte che poteva per isolarsi. Non era possibile: isolarsi, andare via, scappare all'incubo, alla paura che lo stava assalendo. Era inconcepibile, non c'era via d'uscita. Ma no, non da quel posto, non dal fottuto ospedale, bensì dalla sua vita. Non c'era modo di mettere fine al dolore, di scacciare il mostro, di sopprimere il senso di colpa.  
E voleva smettere di sentire, annullare tutto. 
I rumori, i profumi, i sentimenti... qualsiasi cosa.
O, se proprio non poteva annullare quel tutto così opprimente da schiacciarlo, almeno coprirlo, sovrastarlo, con un sentimento più profondo, un rumore più assordante, un profumo più forte. 
Voleva cancellare dalla sua mente i brutti pensieri, presenti da sempre, a quanto ricordava. 
E la sofferenza accumulata negli anni, nascosta nel profondo, che non aveva dato a vedere mostrandosi semplicemente lo sfigato della situazione. 
Iniziò a singhiozzare violentemente, mentre gemiti e movimenti spasmodici lo assalivano. Mancava poco perché gli infermieri venissero a prenderlo per sedarlo. Pochi secondi perché cadesse in un sonno senza sogni, e di buono c'era che sarebbe stato un sonno pulito, sì, ma di un nero vuoto al punto da spaventare molto più del più terrificante degli incubi. Nonostante tutto andava bene. Per quanto potesse far paura, l'unica cosa che desiderava era mettere a tacere il frastuono che gli risuonava in testa, assalendolo, divorandolo, facendo di lui un ammasso di carne e ossa in grado di muoversi, ma non di vivere. 
Voleva solo porre fine a tutto quello che sentiva. 
Allora perché quei dannati infermieri non arrivavano? Perché non gli iniettavano quel fottuto liquido nelle vene e non lo spegnevano per quanto più tempo era possibile? 
Adesso anche le medicine lo stavano lasciando, così come aveva fatto la lametta, in balia della sofferenza. Non c'era più nulla a distrarlo, non una chitarra verde che non era in grado di suonare, non un bellissimo libro che non sapeva leggere, non un tappeto sporco di sangue o un compagno di stanza frastornato, o dei capelli biondi e degli occhi azzurri angelici.
Non riusciva più nemmeno a gemere o a contorcersi: il respiro si era fatto affannoso al punto da obbligarlo a calmarsi, a fargli prendere fiato.
Poi sentì qualcosa appoggiarsi sulla sua testa. Non riusciva a capire cosa fosse - una mano che lo accarezzava, forse? Sì, iniziava ad assomigliare a una di quelle carezze infinite che danno le mamme ai bambini quando si risvegliano da un brutto sogno in preda al panico. Quelle dove le dita si fondono con i capelli e tranquillizzano il piccolo terrorizzato, convincendolo che non è successo niente e che ora che non è più solo andrà tutto bene.
Pete iniziò così a calmarsi, prendendo fiato. Poi sentì l'alitata fresca della mamma che non aveva mai avuto posarsi sulla sua guancia in un sibilo "Shhhhh, va tutto bene. Stai tranquillo"
La mano non si staccava dai suoi capelli, continuava ad accarezzarli insistentemente. 
E d'un tratto capì. Gli bastava quello? Una carezza? Una coccola era abbastanza per placare tutto? Per annullare gli odori, i sentimenti, i rumori?
Sì, era così. In tutti quegli anni gli sarebbe bastato quello. Una carezza, una coccola. Una dimostrazione d'affetto, un dannato gesto semplice come quello mentre soffocava il viso bagnato di lacrime nel cuscino gli sarebbe bastato.
Non voleva aprire gli occhi. Non voleva sollevare il viso. Aveva paura che quel dolce tocco angelico sparisse. O di rendersi conto che si stava solo illudendo, che non era vero, che nessuno lo stava rassicurando e si stava prendendo cura di lui. 
"Smetti di tormentarti. Ci sono io qui con te. Non sei solo."
Quanto avrebbe voluto sentire quelle parole nelle notti durante le quali si infliggeva ferite di una guerra che veniva combattuta solo nella sua testa. Ma nessuno le aveva mai pronunciate. Nessuno prima di allora, perlomeno. A quel punto non gli importava più se guardando chi lo toccava quella presenza sarebbe scomparsa. Voleva sapere chi era. Chi gli stava dando la forza di non affogare nelle lacrime. Chi aveva un tocco tanto dolce. Alzò lentamente il volto dal cuscino, ma sentì la presenza scattare sopra di lui. Riaffondò così nella piuma d'oca, girando il volto dall'altra parte.
"Chi sei?" disse Pete in un sibilo.
"Non importa. Basta che non mi guardi" continuò la voce, delicata. Non era una donna. 
"Perché?" 
"Non potrei reggere il tuo sguardo" rispose, quasi in tono di scusa. 
Pete aprì gli occhi, ancora girato dall'altro lato del letto. Era buio. Le persiane erano state abbassate. La luce spenta.
"Ma è buio. Non ti vedrei comunque" disse Peter.
"E' sempre buio, Pete" replicò la voce.
E' sempre buio, Pete e come lo sapeva?
"Posso toccarti?" insistette il ragazzo dai capelli corvini. 
Si alzò un silenzio incerto.
"Non ti romperò, te lo prometto" disse, tentando di spezzare la tensione. 
"Non sono così fragile" replicò l'angelo.
"Allora permettimi di toccarti." 
L'angelo non si oppose. Pete si tirò su a sedere, girando finalmente il volto nella sua direzione. Non vedeva nulla, ovviamente. E il nulla era quello che voleva vedere. Tutto ciò che desiderava era sentire. E sentiva quella presenza accanto. Rassicurante, dolce. Ora il frastuono taceva, ed era merito suo. 
Si accorse che l'angelo era seduto sul bordo del letto.
E lo sentì tremare quando gli si avvicinò col corpo per toccarlo. 
"Chi è che ha paura, adesso?" azzardò Pete, nel più piccolo dei sorrisi. 
Sentì il respiro del ragazzo che gli era davanti farsi affannoso, poi avvertì il tocco dell'altro, che gli prese la mano nella sua, avvicinandosela al petto e poggiandola su un cuore folle, che scalciava e si dimenava, battendo all'impazzata, quasi a voler sfondare la cassa toracica e raggiungere non sapeva bene quale obiettivo.
"Anche io muoio dalla paura" continuò, riproducendo il gesto dell'angelo su se stesso. Ora si ritrovavano entrambi l'uno con la mano sul petto dell'altro. 
Perché tutto questo tremore, perché tutta questa paura?
"Non sparirò" disse l'angelo. Quelle parole diedero coraggio a Pete.
Iniziò toccandogli la guancia. La sfiorò con una delicatezza inumana, come non aveva mai toccato nulla in vita sua. Anzi, nessuno per l'esattezza. Accarezzava quella pelle come accarezzava il libro della madre che aveva a casa, probabilmente ancora sporco di sangue, magari calpestato dai luridi scarponi del padre. Insomma, la stava trattando come quanto di più caro e prezioso aveva al mondo. Percorse la linea del suo viso con le dita, come faceva col volto di Dorian Gray in copertina. 
Non sapeva se comparare le due bellezze o sostenere che l'angelo fosse mille volte più splendido, e puro di cuore, in aggiunta.
"Sei bellissimo" sussurrò mentre con l'indice gli sfiorava le labbra.
Bellissimo. 
Poi gli tornò in mente lui. Gli occhi del colore del cielo, le labbra scarlatte, e i riccioli biondi. 
"Sei tu..." disse mentre gli stringeva il volto tra le mani, rendendosi conto di chi aveva davanti. Jesse.
Pete cercò con la mano il tasto per accendere la luce. Dov'era adesso quel dannatissimo pulsante?
"Peter non lo fare!" ma lui stava già accendendo la lampada.
Quando premette il pulsante, non seppe mai bene come, la mano sul suo petto scomparve. Smise di avvertire quella presenza. E mentre si alzava dal letto tentando di comprendere dove fosse finito il suo angelo si sentì soffiare nell'orecchio...
"Te l'avevo detto di non guardarmi." 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** The light inside of me. ***


Ci tengo a precisare che questo è un capitolo di intermezzo che conservo da tanto, troppo tempo. Sono sette pagine scritte di getto, è Jess. Ancora non lo conoscete, così ho deciso di parlare sotto il suo punto di vista. Questi sono i suoi pensieri. 
Spero lo amiate come faccio io, buona lettura.






Jess si svegliò nel silenzio più totale.
Era sudato, completamente sudato.
I vestiti bagnati appiccicati al corpo e il prurito che lo assaliva lo fecero alzare di scatto.
Era buio, sentiva il nero della notte abbracciarlo.
Anche se la cecità regnava sovrana, aveva sviluppato la capacità di stare in un posto e rendersi conto se l'oscurità lo circondava davvero o se erano solo i suoi occhi a impedirgli di vedere, qualche anno prima.
Sentiva l'odore della notte.
Percepiva la quiete che si faceva strada nei corridoi dell'istituto quando le luci erano davvero spente e tutto taceva.
A volte i ciechi vedono più di coloro che hanno occhi sani aveva detto una volta un professore della Saint James. E Jesse aveva amato la sua voce. La forte convinzione di cui era impregnata. Gli aveva dato speranza, gli aveva fatto capire che alla fin fine poteva non essere così diverso. Poteva vedere anche lui. Non allo stesso modo, bensì meglio degli altri.
Scostò le coperte e si alzò dal letto. Freddo.
Questa fu la prima cosa che sentì. Un freddo pungente e insopportabile, al quale era sfuggito fino a qualche secondo prima solo grazie al pesante piumino che lo avvolgeva.
Poggiò i piedi a terra. Il pavimento dell'istituto era uguale a quello dell'ospedale psichiatrico: di un marmo liscio e gelido. Non sapeva di che colore fosse, ma se lo immaginava verde. In realtà non sapeva nemmeno come fosse il verde, non l'aveva mai visto, però gli avevano detto che l'erba era verde, e lui conosceva il profumo dell'erba.
Anche se il pavimento di marmo non aveva il profumo dell'erba e anche se di solito il marmo è bianco. Che poi chissà com'era il bianco.
Ah, giusto, il bianco è come le camicie pulite che mi posa sul letto Mary di mattina si disse.
Cominciò a camminare verso quella che sapeva la porta d'ingresso della sua stanza, tastoni, cercando di non sbattere il mignolo del piede da nessuna parte come era invece solito.
Quando raggiunse lo stipite vi si aggrappò, contando mentalmente i passi che avrebbe dovuto fare per arrivare alle scale che lo avrebbero portato al piano di sotto.
Gli era venuta la strana e sconsiderata voglia di camminare sull'erba.
Sapeva che uscire, soprattutto se di notte, al Saint James era proibito, ma non poteva resistere, e sapeva di poter contare sull'appoggio della maggior parte dei tutori e dei dipendenti del luogo in cui si trovava per non essere punito da Padre Sullivan.
Strisciò contro il muro del corridoio finché non raggiunse l'iniziò del corrimano, che identificò anche come quello delle scale. Ci si aggrappò forte e fece per scendere il primo gradino, quando un tonfo sordo raggiunse il suo orecchio, il cui udito era sin troppo sviluppato, quasi per compensare l'occhio che invece aveva deciso di morire senza essere mai servito davvero a qualcosa.
Il rumore lo fece sobbalzare, questo è certo, ma sapeva che se si fosse fermato in quel momento, sfortunato com'era l'avrebbero subito raggiunto i tutori e l'avrebbero obbligato a tornare in camera.
Quindi si fece forza e, maledicendo il mignolo che rischiava di sbattere praticamente ovunque, prese a scendere i gradini, uno alla volta, lentamente. Temeva di percepire la luce o di sentire i rumori del personale dell'istituto che si alzava, ma per fortuna riuscì a raggiungere il piano inferiore senza troppa fatica, seppur con un senso di oppressione all'altezza del petto non indifferente.
Quant'era ansioso. E quanto si malediceva per questo.
Fosse stato per lui, i momenti sarebbero potuti essere tutti come quelli che passava nell'ospedale psichiatrico, in particolare nella cucina, a lanciarsi farina con cuochi, inservienti, e compagni d'istituto.
Jesse non ricordava quando avevano iniziato a portarli lì. E non ricordava nemmeno il motivo. Sapeva solo che succedeva di martedì, di giovedì, e di sabato, e che quelle erano le giornate che aspettava per tutta la settimana da quando aveva memoria.
Si avvicinò a quello che sapeva il portone d'ingresso. Non gli serviva certo per uscire, sapeva che l'avrebbe trovato sbarrato, ma quello era il punto di riferimento di cui aveva bisogno per arrivare alla porta sul retro. Quando arrivò all'entrata si girò a destra, contò undici passi finché non si ritrovò faccia al muro, svoltò ancora nella medesima direzione, per poi percorrere tutto il corridoio, che sapeva lungo e stretto, e che, alla fine, dava su una porticina che celava uno sgabuzzino, al fondo del quale si trovava un'altra piccola porta: quella che lui cercava. Quando, toccando le pareti, si rese conto di essere arrivato nello stanzino, si diresse finalmente verso la porta, alta più o meno un metro e mezzo e larga una sessantina di centimetri. Quando la spinse, non sapendo come aprirla, si rese conto che era bloccata, ma che se si applicava una forza maggiore la si poteva sentire aprirsi, anche se di poco, e lasciar filtrare l'aria fresca della notte.
Chiavistello, pensò Jess. C'è sicuramente un chiavistello.
Cercò con mani insicure e tremanti sulla porta. Nessuna maniglia.
Freddo continuava a pensare Jess. Lo spiffero che era riuscito ad entrare qualche secondo prima l'aveva fatto rabbrividire.
Trovò il chiavistello. Sorrise nel buio. Lo sbloccò e finalmente sentì la porta meno rigida e invarcabile. Spinse leggermente. Sentì lo scricchiolio tipico del legno vecchio.
"Ah!" urlò sottovoce quando qualcosa gli punse il polpastrello. Vi passò sopra con l'altra mano, accorgendosi che una spina gli si era infilata nel dito medio. La manutenzione era un optional in quel posto.
Quel dolorino appena accennato, ma tanto fastidioso, che gli percorreva il dito, gli ricordò una scena. Allora chiuse gli occhi, inspirò il dolce odore dell'erba e, sorridendo, si lasciò sfuggire una lacrima.

*Flashback*
"Ahi! Ahi! Ahi! Mami! Mami, fa male!" dice il bimbo biondo cenere, in mezzo al campo d'erba verde, tenendosi la manina destra e puntando l'indice verso la donna con la salopette in jeans qualche metro davanti a lui. Il bambino si mette a correre. I capelli biondi sono lunghi il tanto giusto per svolazzare un po' e finirgli davanti alla faccia. Gli finiscono negli occhi. Il bimbo inciampa e quasi cade, ma le braccia pronte della madre lo salvano in tempo. Lei ride mentre lo prende in braccio e se lo stringe al petto. Lui mette su il broncio e le agita il ditino dolorante davanti al viso. La donna prende la manina candida fra le sue, lisce e morbide. "C'è una spina, mami. Proprio qui!" dice il piccolo succhiandosi l'indice. Lei gli tira fuori il dito dalla bocca e lo porta verso la sua, lasciandoci sopra un bacio casto e amorevole.
"Sparita la bua!" urlano insieme. Le labbra della mamma sono meglio dei cerotti, meglio delle pomate, meglio delle medicine, per il bimbo biondo cenere. Quando la mamma lo fa scendere gli guarda bene la manina e, individuata la spina, la tira via coi denti.
"Ora il mio piccolo tesoro non ha più la bua nemmeno sulla pelle!" gli sussurra. Perché i baci della mamma fanno sparire il dolore del cuore ma ben poco possono fare per quello della carne.
Il bimbo sorride, trova la figura sfocata della donna fra le ombre che gli vorticano intorno. Riesce a prenderle la mano. La bocca di lei si apre in un sorriso a trentadue denti. La stringe forte.
"Ti voglio bene, Jesse."
"Anche io, mami."

 
Era a piedi nudi.
A piedi nudi sull'erba gelida e bagnata. Sentiva il terriccio sotto ai piedi. I fili verdi che sbucavano dalla terra gli si infilavano fra le dita dei piedi, gli facevano il solletico, lo facevano sorridere.
Quello che provava Jess in quel momento era un certo, strano senso di libertà. Uno di quelli che si percepiscono nel fare le più piccole e insignificanti cose, che però hanno la capacità di farti sentire in pace col Mondo.
"Therapy, I'm a walking travesty, but I'm smiling at everything. Therapy, you were never a friend to me. You can keep all your misery.*" si mise a sussurrare. Quelle parole erano parte di una canzone. Anzi, della canzone.
Jess non sapeva chi la cantasse, né quale fosse il titolo. Era una di quelle che si sentono spesso in occasioni diverse e alla fin fine non puoi fare a meno di ricordarle. Ti entrano in testa che tu lo voglia o meno. E, in momenti come quello, non riusciva proprio a rinunciare a cantarla sottovoce, a sussurrarla come un cantico antico e a ripetere all'infinito le strofe. Per sentirsi libero. Libero e in pace. Come di rado gli succedeva. Lo faceva chiudendo gli occhi. Avrebbe potuto farlo tenendoli aperti, certo, tanto cosa sarebbe cambiato, ma voleva sentirsi come gli altri. Voleva azzerare tutto. Come quando nei film i ragazzi dicono alle donne che amano "chiudi gli occhi" mentre le abbracciano da dietro. E fanno veder loro il Mondo. Quello vero. Quello sotto la superficie. Quello che non a tutti è permesso scorgere. Quello che non sempre si può vedere con le palpebre sollevate.
"NO! NO! NON ANDARE VIA! NO, JESSE!"
La "e" finale del suo nome prolungata. Le parole urlate, urlate a un cielo terso e buio, a una luna pallida e indifferente. A chi altri, sennò?
"NO! LASCIATEMI STARE! E' VERO! IO L'HO VISTO, ERA QUI! JESSE!"
Un urlo sovrumano, di quelli che fanno vibrare il petto di chi lo produce come fosse la cassa di un tamburo.
"JESSE!"
Non riusciva ad ignorarlo. Non ce la faceva. Era una voce spaventosa, disperata. Una voce che usciva dal profondo, che sembrava provenire dallo stomaco, che era risalita fino alla bocca con fatica e che ora stava venendo liberata.
Quella voce aveva rotto il suo silenzio. Il suo silenzio perfetto colmato solo dalle parole di quella canzone. Era stato uno scatto, il suo. Appena aveva sentito il suo stesso nome venir pronunciato con quella foga, con quella forza, era saltato su. Un urlo carico di disperazione. Sentiva le parole sbattere contro il metallo freddo della finestra sbarrata.
Sapeva da dove proveniva la voce. Lo sapeva benissimo.
Non era la prima volta che udiva qualcuno urlare. D'altronde, viveva accanto ad un manicomio.
Ma ogni qualvolta era successo, si era semplicemente girato dall'altra parte del letto e, ormai abituato a dormire con quel frastuono, si era lasciato cadere tra le braccia di Morfeo.
Perché quel giorno, in quel preciso momento, no? Perché non stava ignorando quel rumore? Perché, anzi, ne era quasi attirato, rapito?
Era forse perché si sentiva chiamato in causa? Quella persona urlava il suo nome. Lo urlava a gran voce. Lo urlava con tutta l'aria che aveva nei polmoni.
"JESSEEEEEEEE-..." sedato. Lo percepì nel modo in cui si spense la voce. In quello in cui, fino a un attimo prima, aveva lottato per resistere e non si era arresa fino all'ultimo. Aveva spinto per uscire finché aveva potutoo e, anche se non ce l'aveva fatta, si era assopita con orgoglio.
Era abituato, sì. Sin troppo abituato. In un attimo percepì tutto l'ospedale ribaltarsi. Gente che si alzava e accendeva le luci, che urlava per sapere che era successo, e lui lì, a piedi nudi sull'erba bagnata a fingere di non essere parte di quella cosa, quando invece ne era il fulcro.
Jesse continuava a cantare sotto voce. Percepiva qualcosa di strano nell'aria quella sera. Qualcosa che sapeva di sudore freddo e di sofferenza. Dava il voltastomaco.
Era una delle fortune/sfortune provocate della cecità.
Qualcosa doveva pur compensarla, così udito, olfatto e tatto erano talmente sviluppati da sembrare surreali.
Nessun altro provava quella sensazione in quel momento. Forse perché lì, accanto a lui, non c'era nessuno. Ma non era una scusa plausibile, perché Jess sapeva che, anche se ci fosse stato qualcuno, lui sarebbe stato l'unico a percepirla. La sentiva completamente sua. Se l'avesse assaporata, rigirata sulla lingua e ingoiata, avrebbe potuto sputarla e sentire ancora lo stesso sapore.
Pensò che avrebbe voluto conoscere più canzoni. In realtà, la sua conoscenza era molto limitata a prescindere dal fatto che si trattasse di musica, letteratura o cinematografia.
Beh, d'altronde i sordi e i muti possono leggere e guardare i film, che fosse perlomeno permesso ai ciechi di ascoltare la musica! Al Saint James quasi non era concesso. Possibile che tutti dovessero sempre e solo riposare? Ogni volta che Jess chiedeva di accendere la minuscola radiolina regalatagli da sua madre la risposta era un secco "NO": c'era sempre qualcuno che stava per andare a dormire, che stava dormendo o che si era appena svegliato. Per non parlare della scusa "Al signor Patterson potrebbe venire l'emicrania!"
No dico, seriamente? si diceva ogni volta dopo aver sentito per l'ennesima quella scusa. Il signor Patterson ha 83 anni, non solo non ci vede, ma è pure mezzo sordo, l'emicrania la fa venire lui a noi con le sue urla da vecchiaccio e le botte che da con quel cavolo di bastone che, agitando come un ossesso, spesso finisce per sbatterci in testa!
Si chiese come sarebbe stata la sua vita se non avesse vissuto lì.
Se fosse potuto uscire all'aria aperta senza la paura che qualcuno lo prendesse per un braccio e con tono disperato lo obbligasse a tornare dentro.
Un recluso. Ecco cos'era. Un recluso circondato dal Braille e dai tutori che lo accarezzavano e programmavano ogni momento della sua vita.
Se così quella poteva essere definita.
Avrebbe voluto avere una casa. Una con una camera tutta sua. Una camera accogliente. Con le pareti in cemento e non in cartongesso. Con l'aria che sapeva di shampoo, cioccolata calda e vita.
Non di disinfettante e alcool puro. Lì dentro erano così ossessionati dal pulito. Era una cosa maniacale.
Gli unici momenti in cui poteva dire di essere sicuro di esistere, di vivere, erano quelli che passava nell'ospedale psichiatrico.
Dio, quanto parlava la gente lì dentro! Non se ne stavano zitti un attimo, era un continuo esprimersi, buttar fuori parole e urla. Sentiva l’aria carica di vita quando entrava lì. L’avrebbe respirata per sempre, fosse stato per lui, ma le sue visite la maggior parte delle volte non duravano più di qualche ora.
Pensò che se fosse stato pazzo sarebbe stato meglio. Per lui e per la sua vita. Certo, sarebbe stato considerato anormale, anche più di un cieco, e non avrebbe avuto modo di uscirne. Ma non si sarebbe sentito morto dentro.
Jess in realtà non aveva idea di cosa si provasse a non essere normale, a non avere tutte le rotelle a posto. Quel poco che aveva visto l’aveva convinto che fosse meraviglioso, che le persone in quello stato si sentissero libere di esprimersi e potessero fare ciò che volevano, e questa era una più che ovvia dimostrazione del fatto che il ragazzo fosse tremendamente ingenuo.
Chiuse gli occhi. Sapeva che non sarebbe cambiato molto, ma chiudere gli occhi rappresenta la scelta di non vedere, di isolarsi.
Non l’obbligo da parte di qualcuno, o qualcosa, per meglio dire.
Chiuse gli occhi e si stese sull’erba bagnata.
Era fresca. Che buon odore aveva.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1943626