Ananke

di l_s
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

…capo chino. Nerissimi capelli a celare lo sguardo. Trascinava i piedi nudi sull’asfalto. Le pietre vi si insinuavano taglienti, aprendo profonde vesciche in essi. Ella non pareva farvi caso. Non pareva far caso a niente. A nessuno. Visi vuoti si voltavano ad osservarla. Forse ridevano. Forse indicavano. Forse. Ella nulla vedeva. Nulla udiva. Trascinava i suoi piedi feriti. A capo chino. A nessuno era dato vedere i suoi occhi. Pelle bianca come morta. Figura esile. Polsi sottili. Polsi che conservavano tracce di sangue. Sangue fresco. E, quasi a far loro il verso, sbiaditi vestiti colorati, memori di una speranza ormai morta. Di un sogno infranto. Testimoni di un’agonia malcelata dalla barriera di vuoto che la circondava. Ma la ragazza indifferente trascinava i piedi sull’asfalto, lasciandosi alle spalle una luccicante scia scarlatta. Alcuni indicavano. Altri ridevano. O gettavano soldi. Ringraziavano per lo spettacolo. Ella camminava. L’immagine confusa della massa indistinta dei corpi circostanti non la sfiorava. Non riusciva a penetrare quel buio torpore che la avvolgeva e che, paradossalmente, la proteggeva. E giunse in un vicolo. Grigio e cieco. Alcune ragazze la salutarono. Non un cenno da parte sua. Crollò al suolo, schiena al muro. Le ragazze si scambiarono uno sguardo. Muta compassione. Disapprovazione e pietà. Tossica, pensavano, meglio girare alla larga. Ma la ragazza accasciata contro il muro sapeva, anche se non udiva. Poggiò il capo sulle ginocchia e il crine le nascose interamente il viso. Non desiderava compassione. Desiderava solo restituire la sua vita per un’altra. Forse migliore. Forse. E le sue labbra si schiusero, per la prima volta, in un sussurro. “Difficile mantenersi in vita” mormorò. Poi, più niente. Le altre condivisero una seconda occhiata, perplesse. Scrollarono le spalle. Nei loro occhi si poteva leggere ancora una finta pietà, mescolata al disprezzo, prima che tornassero ad ignorarla…

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1

Non avrebbe saputo dire quale giorno fosse, né quale mese o anno. Non che le importasse. Le giornate trascorrevano lente e monotone, una scivolava nell’altra senza alcun apparente cambiamento. Del resto, quello era il destino che lei stessa aveva scelto, firmando la propria condanna ad una sopravvivenza passiva senza dolori, gioie o emozioni. Chissà da quanto viveva così… Non riusciva a ricordare la sua vita passata, quella piena di sentimenti, di speranza e ottimismo.
Una voce semisconosciuta la chiamò, con quel surrogato del suo nome che tutti laggiù credevano le appartenesse.
 “Any” le disse, mentre lei sollevava leggermente il capo dal rifugio delle ginocchia, “come va? Sei bellissima oggi!”.
Era una delle sue pseudo-ammiratrici, ragazzine che si atteggiavano da alternative e che avevano trovato in lei il loro vitello d’oro da idolatrare. Probabilmente pensavano che si facesse di eroina, il che alle loro menti bacate appariva decisamente figo.
“Guarda!” continuò imperterrita quella, “mi sono fatta i capelli come i tuoi!” esclamò indicando orgogliosa la frangia che le copriva quasi interamente gli occhi. Any non rispose, ma nessuno se ne stupì: da lungo tempo non lo faceva più, e le fan che lei non distingueva nemmeno erano quasi le uniche che osavano avvicinarla. Intimoriva e non era nemmeno una compagnia molto interessante, a dirla tutta, sempre protetta da quelle infrangibili mura di indifferenza. Non era stato un avvenimento particolarmente sconvolgente a fargliele erigere, come spesso succede, ma il disprezzo crescente verso quel mondo piatto e ipocrita, il disgusto per la gente crudele che tutti i giorni usciva di casa celando il volto e travestendosi da persona gentile. Il fuoco generato dalla sua ira l’aveva dapprima accesa, illudendola, come una giovane candela che sprizza allegra la sua prima scintilla, poi scottata e consumata. L’ira avvelena, le avevano detto, ma lei lo aveva compreso troppo tardi, e a sue spese. E il piccolo mozzicone si era ricoperto di uno spesso strato della sua cera, per impedire di essere del tutto divorato da quel fuoco violento ed ingordo.
 Si alzò a fatica, come faceva sempre, e si trascinò di nuovo in mezzo alla folla, a testa china, barcollando pericolosamente ad ogni passo, ma nessuno si preoccupò di lei: era un contenitore vuoto, un fantoccio di carta e chi le aveva parlato almeno una volta stentava a credere che un cuore avesse mai battuto nel suo petto. Ma una piccola sagoma affiorò e sfuggì a quella massa indistinta e subito Any la riconobbe: era Marta. Si fermò, per andare incontro ad una bellissima bambina sui cinque anni, che saltellava allegra verso di lei. Per quella creatura sfoderò la cosa più simile ad un sorriso che ancora possedeva. I bambini erano gli unici esseri puri e incontaminati in quel mondo: crescendo, venivano avvelenati dalla stoltezza dei ‘grandi’ e la loro semplicità naturale annientata. Di questo era convinta, mentre ricordava il tenero pianto di Marta, la sua cieca fiducia in un’estranea mai incontrata prima, e la sua dolce risata quando finalmente erano riuscite a trovare la sua mamma.
Riuscì appunto a distinguere vagamente la genitrice, impettita e impellicciata, che, altezzosa, guardava sua figlia con aria interrogativa, prima di rivolgere ad Any un’occhiata di puro disgusto e trascinare via la bambina urlante. Any si voltò e procedette per la sua strada, per niente colpita da quel gesto. Non ne soffrì. Solo gli esseri viventi soffrono nel nostro mondo, e lei non lo era più. Era soltanto un fantasma, un’ombra di ciò che era stata. E, poco dopo, le sue gambe la condussero alla casa dei suoi. Vi entrò, chiudendosi la porta alle spalle, senza una parola e, al buio, si recò in cucina, dove trangugiò un po’ della cena che sua madre le aveva lasciato, senza gustarla, come al solito. Si sollevò lentamente, senza fare alcun rumore e si trascinò in camera sua. Benché non ci vivesse affatto, la stanza la rappresentava bene: le pareti anticamente scarlatte erano state ricoperte da un furioso strato di vernice biancastra, la lampadina fulminata non era mai stata cambiata e manteneva la stanza in una penombra perenne. L’ordine perfetto era inquietante: nessun poster adornava le pareti, nessun vestito spuntava dall’armadio freddo e metallico, unico mobile della stanza ad esclusione del letto duro, senza cuscino, ricoperto da un copriletto nero. L’aria era intrisa di una tale desolazione ed agonia da rendere impossibile a chiunque tranne che alla proprietaria sostarvi per più di due minuti senza cadere in una depressione profonda. Any si sfilò con calma i vestiti, riponendoli immediatamente nell’armadio. Il suo corpo esile e pallido riluceva nell’oscurità; avrebbe fatto invidia a tutte le aspiranti anoressiche, ma era passato molto tempo dall’ultima volta che qualcuno lo aveva guardato con più interesse di quello di una bambola di porcellana. Indossò il pigiama e si recò in bagno per lavarsi. Intrappolò i capelli in un elastico e sollevò i lunghi ciuffi che le coprivano gli occhi. Lo specchio le restituì un’immagine che lei nemmeno guardò: quella di una giovane ragazza privata di una bellezza che sicuramente aveva posseduto. Degli intensi occhi verdi, brillanti e intelligenti non rimanevano che due vacue imitazioni; il verde era rarefatto e debole e l’unica cosa che vi si poteva leggere era il vuoto dell’anima. Ricordava ancora la reazione di sua madre quando li aveva visti per la prima volta, il suo viso pallido e i suoi occhi sbarrati e terrorizzati che l’avevano fissata, poco prima che la donna si accasciasse al suolo, singhiozzando di aver perso sua figlia. Any era consapevole del dolore creato, ma era convinta che di lì a poco sarebbe scomparso, cancellando il suo ricordo dall’altrui memoria. E con la mente svuotata da qualunque pensiero, si sdraiò nel letto e scivolò in un sonno leggero, solo per rialzarsi poche ore dopo per andare a scuola. Quando uscì di casa, l’aria fredda le sferzava il viso senza che lei se ne accorgesse. Camminava come sempre, con quella lentezza esasperante e senza alcuna volontà, barcollando e lasciando una scia rossa e luccicante alle sue spalle. Arrivata nella sua classe, si sedette come sempre all’ultimo banco. Passava le lezioni appoggiata allo schienale della sedia, a guardare il banco, senza parlare con nessuno e spaventando tutti. I professori la interrogavano solo quando non potevano farne a meno e la rimandavano a posto poco dopo con la solita sufficienza stentata che riusciva sempre a strappare, essendo stata una studentessa brillante. Avevano persino cercato di farle tagliare i capelli, all’inizio, per poterle vedere gli occhi, tentativo che, ovviamente, si era rivelato vano, dato che sua madre aveva prontamente sconsigliato il provvedimento. Al trillo della campanella uscì dall’edificio, recandosi nel solito vicolo buio e gettandosi a terra con il capo reclinato sulle ginocchia. Ancora una volta una sua fan l’avvicinò, dichiarando emozionata di volerle presentare un ragazzo fighissimo il cui nome era Mike. Any scrollò le spalle con aria indifferente e si preparò a vedere questo tizio. Probabilmente pensavano di aver trovato un ‘compagno’ degno della loro dea. Sollevò il capo a guardarlo: era uno dei tipici bei ragazzi che non sanno di niente con la fama di donnaioli incalliti e ai quali tutte le femmine sbavano dietro, pensò freddamente. Mike le tese una mano e, con uno sguardo e una voce che a lui evidentemente sembravano seducenti, si presentò: “Io sono Mike” disse “felice di conoscerti, permettimi di dire che sei bellissima” continuò, con un sorriso che doveva essere sexy, perché le sue fedeli ammiratrici lanciarono un gridolino emozionato. Qualcuno, più saggio di altri, scosse la testa, scettico, a quel goffo tentativo di sedurre un fantoccio. Any gli strinse la mano senza fingere alcun interesse, il che, a quanto pareva, risultò ancora una volta figo al suo interlocutore, che la guardò ammirato e le si sedette di fianco, esaltato come se fosse stata lei ad invitarlo. Cacciate le sue fan, infatti, cominciò a parlare a vanvera e a vantare le sue innumerevoli doti in tutti i campi, mentre Any nascondeva ancora una volta il volto con i capelli e lo ignorava deliberatamente.
Quando Mike smise di parlare, il sole era già sceso e lui scrutò il vicolo, felice di trovarlo deserto. Le si fece più vicino, appoggiando una mano sul suo braccio livido, e le chiese se non avesse freddo. Any fece cenno di no con la testa, egli ancora non sapeva che lei non provava alcuna sensazione. Lui ignorò la risposta e si avvicinò ancora, negli occhi un’espressione folle e bramosa che la ragazza non conosceva: il rituale era terminato. Le sue mani, ora più decise e pesanti, spinsero a terra le ginocchia di Any, fino a tenderle le gambe. Premette il proprio corpo contro il suo, quasi con furia, e spinse la propria testa nell’incavo del collo di lei, il respiro accelerato e irregolare. Il sudore gli imperlava la fronte e grondava lungo le sue guance, e la sua bocca, avida e bagnata, si aprì per baciare la pelle pallida di lei, procedendo verso l’agognato traguardo del volto, lasciando una viscida scia dietro di sé. La passiva sopportazione della ragazza, venne interpretata come totale sottomissione, e il ragazzo continuò, eccitato e brutale, fino a violare il puro biancore della guancia e la serena castità delle labbra. Ma la quasi sconosciuta non reagì, e la lingua di lui marciò trionfante in quella nuova bocca arrendevole, mentre le mani pesanti e cupide stringevano con forza quei fianchi magri. Si staccò da lei per respirare, con affanno, la soddisfazione evidente sul volto e finalmente ella fu libera di andare, di cedere al sonno illusorio che avrebbe congiunto quella sera con le successive, in cui la brama del ragazzo sarebbe stata ancora soddisfatta.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

Destino...a volte ci pensava...abbiamo davvero il potere di sceglierlo da soli? Sua madre avrebbe voluto che fosse così, almeno per lei, da lì il suo nome. Ma Any non aveva fiducia nel destino. Non più. Non era più una ragazza seduta sul ciglio della strada nell’attesa di un miracolo, dell’amore eterno; era rassegnata allo squallore e alla desolazione dell’esistenza. Forse la scelta di Mike era stata giusta: una ragazza in meno sarebbe stata maltrattata e costretta a piegarsi alla volontà di uno stupido prepotente. Dietro le sue mura di torpore, si sentiva quasi come se avesse fatto del bene ad una di quelle persone che riteneva troppo ingenue o troppo impure.
Era appoggiata al muro, le ginocchia piegate, la mente sgombra come al solito, e poco dopo egli arrivò, con l’abituale stuolo di oche. Le afferrò la mano e la sollevò con violenza, il corpo della ragazza sbatté contro il suo e Mike, con il suo braccio sudato, le strinse la vita, sussurrandole finte parole dolci. Poi, non ancora contento, introdusse bruscamente le sue grosse dita tra i capelli neri, strappandone alcuni ciuffi, prima di avvicinare con foga il suo viso al proprio e violare nuovamente le sue labbra rosse. Non gli bastava averla: tutti dovevano sapere che un'altra femmina era stata piegata alla sua volontà. Tutto lo stormo starnazzò all’unisono, emozionato. Il ragazzo si voltò verso le sue fan, leccandosi le labbra con aria ‘sexy’. “Noi siamo una coppia aperta, però...” le oche sospirarono, “vero, amore?” domandò poi, rivolgendosi alla ragazza. Quella scrollò le spalle, con la solita indifferenza. Glielo chiedeva continuamente, ma sempre con dei testimoni, perché, pensava, le avrebbero impedito una risposta negativa; evidentemente non vedeva l’ora di arraffare un’altra ragazza, o forse l’aveva già fatto...Any si scrollò di dosso il ragazzo e ciondolò via, con il vano accompagnamento della sua voce che tentava di fermarla o almeno di salutarla. Riprese a trascinare con esasperante lentezza i piedi feriti sull’asfalto, fino a raggiungere un portone di legno, nel centro della città. Batté tre colpi ed una donna la accolse con un calore che ella non conosceva ormai da molto tempo. No, decisamente la donna non aveva avuto alcun figlio come lei. Quella si informò sulla sua salute, ma Any non rispose. Non era lei che voleva vedere. Finalmente, l’oggetto della sua impazienza si palesò: una bambinetta dall’aria simpatica, con una massa indistinta di capelli scuri corse ad abbracciarla. Il corpo freddo di Any fu invaso da quel calore impetuoso, cercando a sua volta di trasmetterne quanto più possibile, e in quell’intreccio di corpi un triste sorriso affiorò spontaneamente alle labbra della ragazza, prima che si riscuotesse per aiutare la bambina nel disegno o in qualunque altra cosa avesse voluto fare. Ma c’era un altro paio d’occhi che la osservava, uno sguardo scuro che analizzava e comprendeva appieno il suo stato d’animo, due occhi che morivano dalla voglia di prenderla per le spalle e strattonarla, di urlarle in faccia che stava sbagliando, ma che rimanevano celati dal buio, ad osservare ogni suo gesto con infinita tristezza e impotenza...
Giunse la sera, che portò via con sé le poche ore di luce trascorse e la restituì alla perenne oscurità di un’abitudine assassina. Rientrò a casa, tetra come al solito, nutrì, lavò e riposò le sue membra.
Udì una figura esitante avventurarsi fino alla sua porta socchiusa, e colse uno scorcio del viso di una bellissima donna, invecchiata e devastata dalla delusione di un amore assoluto e sconfinato come solo quello materno può essere. Aveva negli occhi lo sguardo di chi non conserva più lacrime da spendere: le ultime le aveva usate per spegnere il fuoco di speranza che vi aveva arso, per essere poi sostituito dallo squarcio profondo e definitivo che rispecchiava la sua anima.
Un sole freddo e annoiato decise di invadere il cielo anche quel giorno e anche quel giorno Any si alzò, a fatica, e trascinò il suo corpo fino a scuola; dopo qualche ora si trascinò a casa, poi ancora nel vicolo scuro, deserto, giacendo a ridosso del muro grigio, le gambe piegate e i capelli che celavano il suo viso cadaverico. Ben presto il vicolo si riempì di fan preoccupate o esaltate, che le rivolgevano parole confuse, volti ignoti o indistinti schiamazzavano intorno a lei in una lingua a lei sconosciuta. Abbracciato ad una ragazza bionda arrivò infine Mike, che blaterò qualcosa che suonava come: “Siamo una coppia aperta, vero?”
Ma lei non ascoltò nessuno di loro, rinchiusa nella solitaria torre del suo castello fortificato.

Finché, attraverso una feritoia, giunse la debole eco di un canto antico...

...una melodia...

...delle parole...

...da quanto non le sentiva? Da anni? Secoli?...

...e l’eco si fece più forte, più deciso, soggiogandola, risvegliando qualcosa dentro di lei...

...qualcosa che aveva il gusto amaro dei ricordi...

E qualcuno, da qualche parte dentro di lei cominciò a cantare, a volteggiare e a ridere a crepapelle, a sentire, a desiderare di correre via e di percepire il vento sulla faccia...

Com’era?

 

...poi d’improvviso mi sciolse le mani,

e le mie braccia divennero ali

quando mi chiese “conosci l’estate?”

io per un giorno, per un momento

corsi a vedere il colore del vento...*


*Il sogno di Maria - F. De Andrè
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Vorrei ringraziare spleen (dopo aver letto la tua recensione sono stata euforica per una buona mezz'ora) e lucillaaaaaaa  (grazie per la sincerità, in effetti questa  roba è nata in un momento di depressione)...spero che vi piacciano i futuri sviluppi della 'trama'...a persto...

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

Una lacrima solitaria le rotolò lungo la guancia, per poi abbandonare il suo sostegno e lanciarsi nel vuoto, sostituita da un tremito che si diffuse per tutto il suo esile corpo, trasportandovi sensazioni estranee, e gli occhi sbarrati videro con stupore l’indifferenza tramutarsi in dolore, paura, vergogna, mentre un fiume caldo e inafferrabile si riversava nel suo cadavere.
 Scattò in piedi, spaventata, e fuggì via più veloce che poté, nella vana speranza di lasciarsi tutto indietro, ma sentì una dolorosa fitta ad un piede, e si sedette per terra, osservandone con disgusto la pianta. Ingoiò un paio di volte a vuoto, prima che un senso di nausea le attanagliasse lo stomaco, e tutto intorno a sé iniziasse a girare. Cadde al suolo, sulla schiena e con dolore, mentre ascoltava con sorpresa un respiro affannato, che riconobbe come proprio, rallentare fino a farsi regolare. Si sollevò, questa volta facendo più attenzione, e sentì freddo, tanto che prese ad esaminare le sue braccia nude, e, sempre più stupita e disorientata, si guardò intorno trovando una marea di volti sconosciuti e ostili, e ne ebbe paura. Si sentì terribilmente debole, vulnerabile e...umana. Si sentì a disagio, desiderò poter scappare lontano, dove nessuna di quelle figure crudeli avrebbe potuto trovarla, ma ogni passo le rammentava lo spettacolo raccapricciante dei suoi piedi, di minuto in minuto percepiva l’odore del suo stesso sangue sempre più distinto e ripugnante.
Con difficoltà immane, barcollò verso il lato della strada, là dove pareva che gli sguardi ingordi non potessero raggiungerla, e vi si accasciò, disperata. Sentiva freddo, fame e dolore. Era sperduta in una città ignota ed avversa. Era una bambina. E, come una bambina, iniziò a singhiozzare, lasciando che debolezza e terrore avessero la meglio sul suo corpo fragile.
Rimase in quello stato per quella che le parve un’eternità, finché si sentì sollevare dal suolo e trascinare via, incapace di opporsi. Ma, probabilmente, non ne valeva la pena. Probabilmente non esisteva un posto peggiore di quello da cui era appena stata tratta...
 Quando finalmente riuscì a schiudere i suoi occhi, trovò una familiare penombra a confortarla e riuscì a pensare lucidamente. Avrebbe dovuto trovare una soluzione a ciò ch’era accaduto. Come avevano potuto le poche, miserrime parole d’una canzone infiltrarsi tra le dure fortificazioni che con tanta fatica aveva eretto? Si avviò decisa verso l’armadio, vi frugò dentro, ed infine estrasse dei CD ed un lettore. Per tutta la notte, ascoltò le canzoni che avevano segnato la sua labile vita, fino a che esse non suscitarono più alcuna reazione in lei.
E l’indomani si levò fantoccio. Non udì sua madre che lodava il misterioso salvatore della sera prima, fino a vanificare le sue tenui speranze d’una svolta, non percepì il vento sulla faccia, non sentì freddo né dolore. Si recò nel vicolo buio, lasciò che Mike fosse soddisfatto, sedette per terra nascondendo il viso con i capelli, tornò a casa, dormì. Riprese velocemente la solita, logorante, ma rassicurante abitudine, decisa a non abbandonarla più. Tutto andò secondo i suoi piani, ed ella tornò ad essere l’apatica eroinomane di sempre.
 Mesi, settimane o soltanto giorni dopo, era ancora seduta nel buio del vicolo, stranamente molto affollato, e veniva continuamente infastidita da ragazzine che avevano recentemente scoperto il fascino dell’alcool, quando lo udì.
Una voce calda e profonda pronunciò il suo nome. Non quello con cui la conoscevano lì. Il nome che sua madre aveva voluto che le appartenesse, il nome a cui la sua anima rispondeva. “Ananke”. Ma la voce non la stava chiamando. No di certo. Pronunciava quel nome come se leggesse ad alta voce una parola di cui amava il suono. Lo immaginava, ad occhi chiusi, concentrato sul sapore della parola mentre gli sfiorava le labbra e, dopo che essa le aveva abbandonate, attento a non lasciarsene sfuggire nemmeno l’ultima lontana eco. Suo malgrado, Ananke si voltò verso di lui e si fermò, meno fredda del previsto, ad osservare il modo in cui i ricci castani corteggiavano le guance lisce, solo per disinteressarsene un attimo dopo, calamitati dalle irresistibili spalle larghe, su cui si posavano, discontinui, lasciando intravedere la pelle olivastra del collo. Egli si volse poco dopo a guardarla, e la ragazza prese a scrutarne il volto. La pelle vellutata, scura, su cui si rifletteva la luce del lampione dirimpetto, accompagnava le labbra piene in un sorriso, riscaldato dall’espressione dei profondi occhi neri. Si scoprì due volte a guardarlo, ma neppure quella visione paradisiaca riuscì a distoglierla dalla sua rinnovata risoluzione, che ora più che mai le pareva un capriccio.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4

Erano giorni che continuava a sedersi lì. Che bastardo. Voleva forse metterla alla prova? Allora lei l’avrebbe superata. Ormai riteneva che sarebbe stato necessario ricorrere alla sua ultima difesa...
Di certo, se avesse potuto farlo, avrebbe riso: le sembrava di elaborare una tattica di guerra. E di una guerra si trattava. Ma non contro di lui. Contro se stessa. Da una parte erano schierate la sua ragione e la sua prudenza, spalleggiate dagli anni di addestramento, dall’altra le sue emozioni, la sua brama di vita e il suo corpo, spalleggiati dalla sua misera natura umana. Un’indecisione che sicuramente le sarebbe stata fatale la consumava lentamente, dietro il suo volto risoluto. Lasciò vagare lo sguardo lungo il muro: anche quel giorno era a pochi metri da lei, pensò freddamente. In realtà, non era di una bellezza eccezionale. Di certo era più brutto di Mike, ma ispirava fiducia e il modo in cui era appoggiato al muro appariva assolutamente incantevole alla gente comune. Ogni tanto scambiava cordiali parole con i vari ragazzi che lo fronteggiavano. Ogni giorno sedeva più vicino ad Ananke, che si stava rapidamente abituando alla sua presenza. Ella sapeva di essere il suo obiettivo e deduceva dalle sue mosse incerte di poterlo affrontare. Non sarebbe stata una gran difficoltà, lo avrebbe battuto come aveva fatto con Mike, facendogli credere di aver vinto.
Quando infine le fu vicino, la ragazza era preparata ad un suo attacco, ma egli non le rivolse nemmeno una parola. Quanto a lei, il suo autocontrollo era perfetto ed entro un paio di giorni avrebbe potuto smettere di pensare a quel ragazzo.
La reazione di Mike fu estrema: folle di gelosia verso il nuovo arrivato, costrinse Ananke, parecchio infastidita, a sedersi continuamente sulle sue gambe per diversi giorni, finché non si accorse che ella non nutriva alcun interesse per il ‘negro’ –così lo chiamava- e si decise a lasciarla libera. La bufera era passata, si disse Ananke, ora sarebbe stata bene come al solito. Bene. Con un’anima rinchiusa in una cella da qualche parte e un corpo devastato. Bene. Con un mondo all’interno che marciva lentamente.
Fu allora che udì la sua voce. Canticchiava soprappensiero, armoniosa e la ragazza riconobbe la melodia che già una volta aveva sentito provenire da quelle labbra. I suoi occhi erano chiusi, ma la pace del volto non era che una maschera per celare ad un occhio indiscreto il suo tormento interiore, che tuttavia si percepiva chiaramente dalla ruga che increspava la sua fronte liscia. Smise di cantare, riaprì gli occhi e guardò lontano, verso la luce che proveniva dalla strada principale e, per un momento, i suoi occhi non mostrarono altro che un’infinita tristezza, che subito si preoccupò di dissimulare come se avesse sentito gli occhi nascosti della ragazza su di sé.
“Scusa” mormorò inaspettatamente, ed Ananke seppe che la parola era rivolta a lei. Avrebbe voluto domandargliene il motivo, tuttavia si trattenne, non aiutandolo nel suo intento. Con uno sforzo immane, egli si voltò a guardare il suo volto nascosto da crine e continuò. “Sono stato io a cantare quella canzone.” la sua voce accorata era colma di sincero dispiacere e dai suoi occhi traboccava la sofferenza “Non avevo idea che potesse sortire su di te un simile effetto, e me ne rammarico immensamente. Ti prego di non portarmi rancore.”
Detto questo, abbassò lo sguardo, mordendosi il labbro inferiore. Il tono con cui aveva pronunciato quelle parole avrebbe commosso chiunque, al punto da rendere completamente inutile la sua preghiera, e persino Ananke non riuscì a restare completamente indifferente. Per la prima volta dopo tanto tempo, decise di parlare. Furono due parole, fredde come il ghiaccio, tanto fioche da essere poco più d’un sussurro.
“Non importa.”
Il ragazzo sollevò il capo di scatto, facendo molleggiare i ricci sulle spalle e le rivolse un travolgente sguardo caldo pieno di immotivata gioia. Le labbra si tesero e si schiusero in un abbagliante sorriso. La ragazza abbassò bruscamente la testa, abbacinata.
“Grazie” disse lui, la voce ancora fremente per quelle due misere parole.
Si esaltava per troppo poco, pensò glaciale Ananke, alzandosi per tornare a casa, cercando di distrarre la mente da un’immagine che vi si affacciava troppo spesso per i suoi gusti.
E quella notte, per la prima volta dopo anni di finti sonni, sognò. Sognò un ragazzo dalla pelle scura e un sorriso abbagliante, e un muro spesso, senza alcuna falla, che le impediva di raggiungerlo. Lei cercava disperatamente un’uscita, ignorando una donna che pretendeva di chiamarsi Ragione che le diceva che all’interno sarebbe stata al sicuro; cercava furiosamente qualsiasi attrezzo che potesse rompere la barriera, o almeno scheggiarne la superficie, mentre la petulante donna continuava a ripetere che lui non l’avrebbe mai amata, le ricordava un altro nome, ma la ragazza non vedeva altri che lui, non sentiva altro se non il suono della sua voce.
Di colpo si svegliò, con il fiato grosso e, mentre richiudeva gli occhi, capì di essere in svantaggio.
Prudenza era stata assassinata.

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Salve a tutti quelli che sono arrivati a leggere fin qui...Volevo scusarmi per il ritardo e per i mancati ringraziamenti delle scorse volte. Detto ciò, vi ringrazio infinitamente per essermi rimasti fedeli, anche dopo il capitolo 3, che in realtà nemmeno a me era piaciuto tanto...

Ringrazio in particolar modo Spleen -spero che la tua curiosità troverà soddisfazione, ti adoro-, il mio amico Mr Obscurus che finalmente è riuscito a leggere questa roba -spero che le carte ti consiglino di scrivere la storia del prete^^-, maddina, ma mi sembra decisamente esagerato che definisca Ananke un capolavoro, e il mio adorabile amico Dario, anche se non lascia mai commenti...

Ciao a tutti! Spero di rivedervi!

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5

“Ananke”
Ancora un sussurro di quella voce calda, impossibile da ignorare. La ragazza si morse il labbro inferiore, mentre sentiva la sua anima fremere e un brivido risalirle la schiena. Conosceva già le idee di quel corpo traditore, ma oramai anche la mente la stava abbandonando.
Avrebbe voluto passare la vita a sentirsi chiamare così.
E ancora una volta, incapace di resistergli, si voltò impercettibilmente a guardarlo. Un sorriso incurvò le sue belle labbra morbide, prima di cedere il posto ad una domanda: “Cosa ti spinge ad alzarti ogni giorno?”
Nella sua voce s’intuiva serietà, accompagnata da quel velo di tristezza che Ananke aveva imparato a riconoscere in lui.
Si concentrò sulla domanda, donandogli, come sempre, una semplice e fredda risposta, che egli pareva apprezzare più d’ogni altra cosa: era un compromesso tra le due fazioni in lotta.
“L’abitudine”
La ragazza pronunciò a fatica quelle parole, ma i suoi occhi scuri compresero, e si volsero altrove.
Ricominciò a canticchiare, con la sua dannata voce travolgente, e la ragazza, percorsa da continui tremori, credette di detestarlo. Si alzò per andare via, ma si bloccò d’improvviso.
“Ananke” aveva sussurrato ancora lui, “Perché sei così fredda con me?”
Non nutriva nessuna speranza di un cambiamento di quell’atteggiamento, lo si intuiva facilmente.
Ma la ragazza non rispose. Non poteva dirgli il vero, o sarebbe diventato più tenace. Ma non sapeva mentire. Non a lui.
“Perché ti ostini a parlarmi?” gli chiese, glaciale.
Attese per qualche secondo una risposta che non arrivò, senza guardarlo, quindi si trascinò fino a casa.

Il giorno dopo lo trovò seduto ad aspettarla. Fu subito affascinata dal suo rigirarsi i riccioli tra le dita, soprappensiero.
Gli sedette di fianco, meritandosi come premio uno dei suoi caldi sorrisi e, paradossalmente, si sentì felice, in pace con se stessa e non riuscì a capire come avesse potuto odiarlo solo il giorno prima. Percepiva quasi fisicamente il corpo di lui irradiare calore e si sentiva invasa, ammaliata, assuefatta, sebbene restasse rigida e cauta. Non riuscì a staccare lo sguardo da lui e seguì ogni movimento delle sue labbra, ogni cambiamento d’espressione nei suoi occhi, finché quella creatura meravigliosa che solo per caso solcava incerta l’impuro suolo terrestre si voltò e le parlò.
“Ananke” la cullò la sua voce, con un filo d’impazienza, “Ti prego, dammi una possibilità...”
Quel sussurrò la soggiogò completamente. Avrebbe fatto qualsiasi cosa lui le avesse chiesto, l’avrebbe seguito ovunque pur di respirare ancora una boccata di quella voce.
“Sì” sussurrò di rimando.
Lui esitò, tenendo il capo basso, poi si decise ad alzarlo e a fissarla in volto. “Scruta nei miei occhi...”, mormorò infine, con voce apparentemente serena.
Ananke arretrò, spaventata da quell’invito troppo pericoloso per poter essere accettato, ma troppo attraente per poter essere rifiutato. Posò virtualmente dei fiori sulla tomba fresca di Prudenza e sollevò la testa.
Scrutò nei suoi occhi neri, splendenti, vivi, e vi scorse la quiete, la speranza. Li vide sorridere, confortanti, prima di trovare l’inganno.
C’era un’emozione ch’essi tentavano di nascondere, che la ragazza non riusciva a cogliere ma della quale percepiva l’esistenza.
La realtà le piombò addosso con tutto il suo peso, mozzandole il respiro, e la freddezza riprese possesso di lei.
Non era poi tanto diverso dagli altri ragazzi, da Mike. Anche lui voleva usarla e gettarla via, in fondo.
Lui, ignaro di tutto, continuò nel suo intento. La sua voce dolce sussurrò ancora, più decisa: “...e ora, te ne prego, lasciami vedere i tuoi”
La ragazza non protestò, troppo sconvolta dalla rottura di tutte le sue illusioni, e gli permise di abbattere anche quell’ultima, assoluta, difesa.
Lui, esitante, protese la sua mano leggera e le scostò delicatamente i capelli del volto. Per un momento, si guardarono negli occhi. E fu nero contro verde. Caldo contro freddo. Sentimento contro vuoto. E fu Ananke a vincere, quando lui cedette ed abbassò la mano, stringendola in un pugno. I suoi occhi si ancorarono al suolo, rendendo palese tutto ciò che aveva tentato di trattenere. Una sofferenza ch’era quasi agonia sgorgava copiosa dai suoi occhi, e i denti mordevano a sangue il suo labbro inferiore. Tutte le barriere della ragazza crollarono in un solo colpo, abbattute dalla sorpresa, sostituita dopo un attimo da una tristezza immotivata. Istintivamente, gli si avvicinò e provò l’irrefrenabile impulso di consolarlo, o almeno di toccarlo. Levò una mano, incerta e tremante, e sfiorò il dorso della sua. La reazione fu immediata: egli si voltò di scatto, guardando con stupore le dita sottili che timidamente si erano insinuate tra le sue, ma esse non si fecero spaventare, e condussero lentamente quelle di lui verso il crine, dove le abbandonarono. Egli comprese, le scostò nuovamente i ciuffi neri dagli occhi, e prese a fissarli. Era stanco di combattere, non ne avrebbe avuto la forza. Con stupore crescente, vide la fatica affliggere anche quel verde intenso, vivo e cangiante.
La tristezza del nero si riflesse nel verde.
La speranza del nero si riflesse nel verde.
La gioia del nero si riflesse nel verde.
E il corpo freddo e pallido cercò timidamente colore e calore in quello vicino, che lo accolse, completandosi. Le sue braccia la avvolgevano delicatamente, cullandola e il fiato dolce del suo respiro le carezzava l’orecchio. Ananke si strinse al suo petto e, rabbrividì, suo malgrado, per il freddo. Lui se ne accorse e si alzò prendendola tra le braccia, e la ragazza lo abbracciò stretto, con la pelle d’oca.
“Fa freddo” bisbigliò, guardandolo.
“E’ novembre” rispose lui, con un sorriso più dolce del solito.

FINE

Ebbene sì, questo essere assolutamente pigro e incostante ha terminato la sua prima storia...dobbiamo festeggiare!

Sono davvero grata a tutti coloro che sono giunti fin qui.

In particolare, vorrei che spleen fosse più sicura di sé, sia quando scrive(l’ho aggiunta anche ai preferiti), che quando commenta (ogni volta che leggo le sue recensioni comincio a saltellare euforica per la casa, esasperando tutti)...

Beh, questa è la fine...alla prossima!

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