Ananke di l_s (/viewuser.php?uid=38085)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Prologo
…capo chino.
Nerissimi capelli a celare lo sguardo.
Trascinava i piedi nudi sull’asfalto. Le pietre vi si
insinuavano taglienti,
aprendo profonde vesciche in essi. Ella non pareva farvi caso. Non
pareva far
caso a niente. A nessuno. Visi vuoti si voltavano ad osservarla. Forse
ridevano. Forse indicavano. Forse. Ella nulla vedeva. Nulla udiva.
Trascinava i
suoi piedi feriti. A capo chino. A nessuno era dato vedere i suoi
occhi. Pelle
bianca come morta. Figura esile. Polsi sottili. Polsi che conservavano
tracce
di sangue. Sangue fresco. E, quasi a far loro il verso, sbiaditi
vestiti
colorati, memori di una speranza ormai morta. Di un sogno infranto.
Testimoni
di un’agonia malcelata dalla barriera di vuoto che la
circondava. Ma la ragazza
indifferente trascinava i piedi sull’asfalto, lasciandosi
alle spalle una
luccicante scia scarlatta. Alcuni indicavano. Altri ridevano. O
gettavano
soldi. Ringraziavano per lo spettacolo. Ella camminava.
L’immagine confusa
della massa indistinta dei corpi circostanti non la sfiorava. Non
riusciva a
penetrare quel buio torpore che la avvolgeva e che, paradossalmente, la
proteggeva. E giunse in un vicolo. Grigio e cieco. Alcune ragazze la
salutarono. Non un cenno da parte sua. Crollò al suolo,
schiena al muro. Le
ragazze si scambiarono uno sguardo. Muta compassione. Disapprovazione e
pietà.
Tossica, pensavano, meglio girare alla larga. Ma la ragazza accasciata
contro
il muro sapeva, anche se non udiva. Poggiò il capo sulle
ginocchia e il crine
le nascose interamente il viso. Non desiderava compassione. Desiderava
solo
restituire la sua vita per un’altra. Forse migliore. Forse. E
le sue labbra si
schiusero, per la prima volta, in un sussurro. “Difficile
mantenersi in vita”
mormorò. Poi, più niente. Le altre condivisero
una seconda occhiata, perplesse.
Scrollarono le spalle. Nei loro occhi si poteva leggere ancora una
finta pietà,
mescolata al disprezzo, prima che tornassero ad ignorarla… |
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Capitolo 2 *** Capitolo 1 ***
Capitolo
1
Non
avrebbe saputo dire quale giorno fosse, né quale
mese o anno. Non che le importasse. Le giornate trascorrevano lente e
monotone,
una scivolava nell’altra senza alcun apparente cambiamento.
Del resto, quello
era il destino che lei stessa aveva scelto, firmando la propria
condanna ad una
sopravvivenza passiva senza dolori, gioie o emozioni. Chissà
da quanto viveva
così… Non riusciva a ricordare la sua vita
passata, quella piena di sentimenti,
di speranza e ottimismo.
Una voce semisconosciuta la chiamò, con quel
surrogato del suo nome che tutti laggiù credevano le
appartenesse.
“Any”
le
disse, mentre lei sollevava leggermente il capo dal rifugio delle
ginocchia,
“come va? Sei bellissima oggi!”.
Era una delle sue pseudo-ammiratrici, ragazzine che
si atteggiavano da alternative e che avevano trovato in lei il loro
vitello
d’oro da idolatrare. Probabilmente pensavano che si facesse
di eroina, il che
alle loro menti bacate appariva decisamente figo.
“Guarda!”
continuò imperterrita quella, “mi sono fatta i
capelli come i tuoi!” esclamò
indicando orgogliosa la frangia che le copriva quasi interamente gli
occhi. Any
non rispose, ma nessuno se ne stupì: da lungo tempo non lo
faceva più, e le fan
che lei non distingueva nemmeno erano quasi le uniche che osavano
avvicinarla.
Intimoriva e non era nemmeno una compagnia molto interessante, a dirla
tutta,
sempre protetta da quelle infrangibili mura di indifferenza. Non era
stato un
avvenimento particolarmente sconvolgente a fargliele erigere, come
spesso
succede, ma il disprezzo crescente verso quel mondo piatto e ipocrita,
il
disgusto per la gente crudele che tutti i giorni usciva di casa celando
il
volto e travestendosi da persona gentile. Il fuoco generato dalla sua
ira
l’aveva dapprima accesa, illudendola, come una giovane
candela che sprizza
allegra la sua prima scintilla, poi scottata e consumata.
L’ira avvelena, le
avevano detto, ma lei lo aveva compreso troppo tardi, e a sue spese. E
il
piccolo mozzicone si era ricoperto di uno spesso strato della sua cera,
per
impedire di essere del tutto divorato da quel fuoco violento ed ingordo.
Si alzò a
fatica, come faceva sempre, e si trascinò di nuovo in mezzo
alla folla, a testa
china, barcollando pericolosamente ad ogni passo, ma nessuno si
preoccupò di
lei: era un contenitore vuoto, un fantoccio di carta e chi le aveva
parlato
almeno una volta stentava a credere che un cuore avesse mai battuto nel
suo
petto. Ma una piccola sagoma affiorò e sfuggì a
quella massa indistinta e
subito Any la riconobbe: era Marta. Si fermò, per andare
incontro ad una
bellissima bambina sui cinque anni, che saltellava allegra verso di
lei. Per
quella creatura sfoderò la cosa più simile ad un
sorriso che ancora possedeva.
I bambini erano gli unici esseri puri e incontaminati in quel mondo:
crescendo,
venivano avvelenati dalla stoltezza dei ‘grandi’ e
la loro semplicità naturale
annientata. Di questo era convinta, mentre ricordava il tenero pianto
di Marta,
la sua cieca fiducia in un’estranea mai incontrata prima, e
la sua dolce risata
quando finalmente erano riuscite a trovare la sua mamma.
Riuscì appunto a distinguere vagamente la genitrice,
impettita e impellicciata, che, altezzosa, guardava sua figlia con aria
interrogativa, prima di rivolgere ad Any un’occhiata di puro
disgusto e
trascinare via la bambina urlante. Any si voltò e procedette
per la sua strada,
per niente colpita da quel gesto. Non ne soffrì. Solo gli
esseri viventi
soffrono nel nostro mondo, e lei non lo era più. Era
soltanto un fantasma,
un’ombra di ciò che era stata. E, poco dopo, le
sue gambe la condussero alla
casa dei suoi. Vi entrò, chiudendosi la porta alle spalle,
senza una parola e,
al buio, si recò in cucina, dove trangugiò un
po’ della cena che sua madre le
aveva lasciato, senza gustarla, come al solito. Si sollevò
lentamente, senza
fare alcun rumore e si trascinò in camera sua.
Benché non ci vivesse affatto,
la stanza la rappresentava bene: le pareti anticamente scarlatte erano
state
ricoperte da un furioso strato di vernice biancastra, la lampadina
fulminata
non era mai stata cambiata e manteneva la stanza in una penombra
perenne.
L’ordine perfetto era inquietante: nessun poster adornava le
pareti, nessun
vestito spuntava dall’armadio freddo e metallico, unico
mobile della stanza ad
esclusione del letto duro, senza cuscino, ricoperto da un copriletto
nero.
L’aria era intrisa di una tale desolazione ed agonia da
rendere impossibile a
chiunque tranne che alla proprietaria sostarvi per più di
due minuti senza
cadere in una depressione profonda. Any si sfilò con calma i
vestiti,
riponendoli immediatamente nell’armadio. Il suo corpo esile e
pallido riluceva
nell’oscurità; avrebbe fatto invidia a tutte le
aspiranti anoressiche, ma era
passato molto tempo dall’ultima volta che qualcuno lo aveva
guardato con più
interesse di quello di una bambola di porcellana. Indossò il
pigiama e si recò
in bagno per lavarsi. Intrappolò i capelli in un elastico e
sollevò i lunghi
ciuffi che le coprivano gli occhi. Lo specchio le restituì
un’immagine che lei
nemmeno guardò: quella di una giovane ragazza privata di una
bellezza che
sicuramente aveva posseduto. Degli intensi occhi verdi, brillanti e
intelligenti non rimanevano che due vacue imitazioni; il verde era
rarefatto e
debole e l’unica cosa che vi si poteva leggere era il vuoto
dell’anima.
Ricordava ancora la reazione di sua madre quando li aveva visti per la
prima
volta, il suo viso pallido e i suoi occhi sbarrati e terrorizzati che
l’avevano
fissata, poco prima che la donna si accasciasse al suolo, singhiozzando
di aver
perso sua figlia. Any era consapevole del dolore creato, ma era
convinta che di
lì a poco sarebbe scomparso, cancellando il suo ricordo
dall’altrui memoria. E
con la mente svuotata da qualunque pensiero, si sdraiò nel
letto e scivolò in
un sonno leggero, solo per rialzarsi poche ore dopo per andare a
scuola. Quando
uscì di casa, l’aria fredda le sferzava il viso
senza che lei se ne accorgesse.
Camminava come sempre, con quella lentezza esasperante e senza alcuna
volontà,
barcollando e lasciando una scia rossa e luccicante alle sue spalle.
Arrivata
nella sua classe, si sedette come sempre all’ultimo banco.
Passava le lezioni
appoggiata allo schienale della sedia, a guardare il banco, senza
parlare con
nessuno e spaventando tutti. I professori la interrogavano solo quando
non
potevano farne a meno e la rimandavano a posto poco dopo con la solita
sufficienza
stentata che riusciva sempre a strappare, essendo stata una studentessa
brillante. Avevano persino cercato di farle tagliare i capelli,
all’inizio, per
poterle vedere gli occhi, tentativo che, ovviamente, si era rivelato
vano, dato
che sua madre aveva prontamente sconsigliato il provvedimento. Al
trillo della
campanella uscì dall’edificio, recandosi nel
solito vicolo buio e gettandosi a
terra con il capo reclinato sulle ginocchia. Ancora una volta una sua
fan
l’avvicinò, dichiarando emozionata di volerle
presentare un ragazzo fighissimo
il cui nome era Mike. Any scrollò le spalle con aria
indifferente e si preparò
a vedere questo tizio. Probabilmente pensavano di aver trovato un
‘compagno’
degno della loro dea. Sollevò il capo a guardarlo: era uno
dei tipici bei
ragazzi che non sanno di niente con la fama di donnaioli incalliti e ai
quali
tutte le femmine sbavano dietro, pensò freddamente. Mike le
tese una mano e,
con uno sguardo e una voce che a lui evidentemente sembravano
seducenti, si
presentò: “Io sono Mike” disse
“felice di conoscerti, permettimi di dire che
sei bellissima” continuò, con un sorriso che
doveva essere sexy, perché le sue
fedeli ammiratrici lanciarono un gridolino emozionato. Qualcuno,
più saggio di
altri, scosse la testa, scettico, a quel goffo tentativo di sedurre un
fantoccio. Any gli strinse la mano senza fingere alcun interesse, il
che, a
quanto pareva, risultò ancora una volta figo al suo
interlocutore, che la
guardò ammirato e le si sedette di fianco, esaltato come se
fosse stata lei ad
invitarlo. Cacciate le sue fan, infatti, cominciò a parlare
a vanvera e a
vantare le sue innumerevoli doti in tutti i campi, mentre Any
nascondeva ancora
una volta il volto con i capelli e lo ignorava deliberatamente.
Quando Mike smise di parlare, il sole era già sceso
e lui scrutò il vicolo, felice di trovarlo deserto. Le si
fece più vicino,
appoggiando una mano sul suo braccio livido, e le chiese se non avesse
freddo.
Any fece cenno di no con la testa, egli ancora non sapeva che lei non
provava alcuna
sensazione. Lui ignorò la risposta e si avvicinò
ancora, negli occhi
un’espressione folle e bramosa che la ragazza non conosceva:
il rituale era
terminato. Le sue mani, ora più decise e pesanti, spinsero a
terra le ginocchia
di Any, fino a tenderle le gambe. Premette il proprio corpo contro il
suo,
quasi con furia, e spinse la propria testa nell’incavo del
collo di lei, il
respiro accelerato e irregolare. Il sudore gli imperlava la fronte e
grondava
lungo le sue guance, e la sua bocca, avida e bagnata, si
aprì per baciare la
pelle pallida di lei, procedendo verso l’agognato traguardo
del volto,
lasciando una viscida scia dietro di sé. La passiva
sopportazione della
ragazza, venne interpretata come totale sottomissione, e il ragazzo
continuò,
eccitato e brutale, fino a violare il puro biancore della guancia e la
serena
castità delle labbra. Ma la quasi sconosciuta non
reagì, e la lingua di lui
marciò trionfante in quella nuova bocca arrendevole, mentre
le mani pesanti e
cupide stringevano con forza quei fianchi magri. Si staccò
da lei per
respirare, con affanno, la soddisfazione evidente sul volto e
finalmente ella
fu libera di andare, di cedere al sonno illusorio che avrebbe congiunto
quella
sera con le successive, in cui la brama del ragazzo sarebbe stata
ancora
soddisfatta. |
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Capitolo 3 *** Capitolo 2 ***
Capitolo 2
Destino...a volte ci
pensava...abbiamo davvero il
potere di sceglierlo da soli? Sua madre avrebbe voluto che fosse
così, almeno
per lei, da lì il suo nome. Ma Any non aveva fiducia nel
destino. Non più. Non
era più una ragazza seduta sul ciglio della strada
nell’attesa di un miracolo,
dell’amore eterno; era rassegnata allo squallore e alla
desolazione
dell’esistenza. Forse la scelta di Mike era stata giusta: una
ragazza in meno
sarebbe stata maltrattata e costretta a piegarsi alla
volontà di uno stupido
prepotente. Dietro le sue mura di torpore, si sentiva quasi come se
avesse
fatto del bene ad una di quelle persone che riteneva troppo ingenue o
troppo
impure.
Era
appoggiata al muro, le ginocchia piegate, la mente sgombra come al
solito, e
poco dopo egli arrivò, con l’abituale stuolo di
oche. Le afferrò la mano e la
sollevò con violenza, il corpo della ragazza
sbatté contro il suo e Mike, con
il suo braccio sudato, le strinse la vita, sussurrandole finte parole
dolci.
Poi, non ancora contento, introdusse bruscamente le sue grosse dita tra
i
capelli neri, strappandone alcuni ciuffi, prima di avvicinare con foga
il suo
viso al proprio e violare nuovamente le sue labbra rosse. Non gli
bastava
averla: tutti dovevano sapere che un'altra femmina era stata piegata
alla sua
volontà. Tutto lo stormo starnazzò
all’unisono, emozionato. Il ragazzo si voltò
verso le sue fan, leccandosi le labbra con aria
‘sexy’. “Noi siamo una coppia
aperta, però...” le oche sospirarono,
“vero, amore?” domandò poi, rivolgendosi
alla ragazza. Quella scrollò le spalle, con la solita
indifferenza. Glielo
chiedeva continuamente, ma sempre con dei testimoni, perché,
pensava, le
avrebbero impedito una risposta negativa; evidentemente non vedeva
l’ora di
arraffare un’altra ragazza, o forse l’aveva
già fatto...Any si scrollò di dosso
il ragazzo e ciondolò via, con il vano accompagnamento della
sua voce che
tentava di fermarla o almeno di salutarla. Riprese a trascinare con
esasperante
lentezza i piedi feriti sull’asfalto, fino a raggiungere un
portone di legno,
nel centro della città. Batté tre colpi ed una
donna la accolse con un calore
che ella non conosceva ormai da molto tempo. No, decisamente la donna
non aveva
avuto alcun figlio come lei. Quella si informò sulla sua
salute, ma Any non
rispose. Non era lei che voleva vedere. Finalmente, l’oggetto
della sua
impazienza si palesò: una bambinetta dall’aria
simpatica, con una massa
indistinta di capelli scuri corse ad abbracciarla. Il corpo freddo di
Any fu
invaso da quel calore impetuoso, cercando a sua volta di trasmetterne
quanto
più possibile, e in quell’intreccio di corpi un
triste sorriso affiorò
spontaneamente alle labbra della ragazza, prima che si riscuotesse per
aiutare
la bambina nel disegno o in qualunque altra cosa avesse voluto fare. Ma
c’era
un altro paio d’occhi che la osservava, uno sguardo scuro che
analizzava e
comprendeva appieno il suo stato d’animo, due occhi che
morivano dalla voglia
di prenderla per le spalle e strattonarla, di urlarle in faccia che
stava
sbagliando, ma che rimanevano celati dal buio, ad osservare ogni suo
gesto con
infinita tristezza e impotenza...
Giunse la sera, che portò via con sé le poche ore
di
luce trascorse e la restituì alla perenne
oscurità di un’abitudine assassina.
Rientrò
a casa, tetra come al solito, nutrì, lavò e
riposò le sue membra.
Udì una figura esitante avventurarsi fino alla sua
porta socchiusa, e colse uno scorcio del viso di una bellissima donna,
invecchiata e devastata dalla delusione di un amore assoluto e
sconfinato come
solo quello materno può essere. Aveva negli occhi lo sguardo
di chi non
conserva più lacrime da spendere: le ultime le aveva usate
per spegnere il
fuoco di speranza che vi aveva arso, per essere poi sostituito dallo
squarcio
profondo e definitivo che rispecchiava la sua anima.
Un sole freddo e annoiato decise di invadere il
cielo anche quel giorno e anche quel giorno Any si alzò, a
fatica, e trascinò
il suo corpo fino a scuola; dopo qualche ora si trascinò a
casa, poi ancora nel
vicolo scuro, deserto, giacendo a ridosso del muro grigio, le gambe
piegate e i
capelli che celavano il suo viso cadaverico. Ben presto il vicolo si
riempì di
fan preoccupate o esaltate, che le rivolgevano parole confuse, volti
ignoti o
indistinti schiamazzavano intorno a lei in una lingua a lei
sconosciuta.
Abbracciato ad una ragazza bionda arrivò infine Mike, che
blaterò qualcosa che
suonava come: “Siamo una coppia aperta, vero?”
Ma lei non ascoltò nessuno di loro, rinchiusa nella
solitaria torre del suo castello fortificato.
Finché,
attraverso una feritoia, giunse la debole
eco di un canto antico...
...una
melodia...
...delle
parole...
...da
quanto non le sentiva? Da anni? Secoli?...
...e
l’eco si fece più forte, più deciso,
soggiogandola, risvegliando qualcosa dentro di lei...
...qualcosa
che aveva il gusto amaro dei ricordi...
E
qualcuno, da qualche parte dentro di lei cominciò
a cantare, a volteggiare e a ridere a crepapelle, a sentire, a
desiderare di
correre via e di percepire il vento sulla faccia...
Com’era?
...poi
d’improvviso mi sciolse le mani,
e
le
mie braccia divennero ali
quando
mi chiese “conosci l’estate?”
io
per
un giorno, per un momento
corsi
a vedere il colore del vento...*
*Il
sogno di Maria - F. De Andrè
__________________________________________________________________________________________
Vorrei ringraziare spleen (dopo aver letto la tua recensione sono stata
euforica per una buona mezz'ora) e lucillaaaaaaa (grazie per
la sincerità, in effetti questa roba è
nata in un momento di depressione)...spero che vi piacciano i futuri
sviluppi della 'trama'...a persto...
|
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Capitolo 4 *** Capitolo 3 ***
Capitolo
3
Una
lacrima solitaria le rotolò lungo la guancia,
per poi abbandonare il suo sostegno e lanciarsi nel vuoto, sostituita
da un
tremito che si diffuse per tutto il suo esile corpo, trasportandovi
sensazioni
estranee, e gli occhi sbarrati videro con stupore
l’indifferenza tramutarsi in
dolore, paura, vergogna, mentre un fiume caldo e inafferrabile si
riversava nel
suo cadavere.
Scattò in piedi, spaventata, e fuggì
via più veloce
che poté, nella vana speranza di lasciarsi tutto indietro,
ma sentì una
dolorosa fitta ad un piede, e si sedette per terra, osservandone con
disgusto
la pianta. Ingoiò un paio di volte a vuoto, prima che un
senso di nausea le
attanagliasse lo stomaco, e tutto intorno a sé iniziasse a
girare. Cadde al
suolo, sulla schiena e con dolore, mentre ascoltava con sorpresa un
respiro
affannato, che riconobbe come proprio, rallentare fino a farsi
regolare. Si
sollevò, questa volta facendo più attenzione, e
sentì freddo, tanto che prese
ad esaminare le sue braccia nude, e, sempre più stupita e
disorientata, si
guardò intorno trovando una marea di volti sconosciuti e
ostili, e ne ebbe
paura. Si sentì terribilmente debole, vulnerabile e...umana.
Si sentì a
disagio, desiderò poter scappare lontano, dove nessuna di
quelle figure crudeli
avrebbe potuto trovarla, ma ogni passo le rammentava lo spettacolo
raccapricciante dei suoi piedi, di minuto in minuto percepiva
l’odore del suo
stesso sangue sempre più distinto e ripugnante.
Con difficoltà immane, barcollò verso il lato
della
strada, là dove pareva che gli sguardi ingordi non potessero
raggiungerla, e vi
si accasciò, disperata. Sentiva freddo, fame e dolore. Era
sperduta in una
città ignota ed avversa. Era una bambina. E, come una
bambina, iniziò a
singhiozzare, lasciando che debolezza e terrore avessero la meglio sul
suo
corpo fragile.
Rimase in quello stato per quella che le parve
un’eternità, finché si sentì
sollevare dal suolo e trascinare via, incapace di
opporsi. Ma, probabilmente, non ne valeva la pena. Probabilmente non
esisteva
un posto peggiore di quello da cui era appena stata tratta...
Quando
finalmente riuscì a schiudere i suoi occhi, trovò
una familiare penombra a
confortarla e riuscì a pensare lucidamente. Avrebbe dovuto
trovare una
soluzione a ciò ch’era accaduto. Come avevano
potuto le poche, miserrime parole
d’una canzone infiltrarsi tra le dure fortificazioni che con
tanta fatica aveva
eretto? Si avviò decisa verso l’armadio, vi
frugò dentro, ed infine estrasse
dei CD ed un lettore. Per tutta la notte, ascoltò le canzoni
che avevano
segnato la sua labile vita, fino a che esse non suscitarono
più alcuna reazione
in lei.
E l’indomani
si levò fantoccio. Non udì sua madre che lodava
il misterioso salvatore della
sera prima, fino a vanificare le sue tenui speranze d’una
svolta, non percepì
il vento sulla faccia, non sentì freddo né
dolore. Si recò nel vicolo buio,
lasciò che Mike fosse soddisfatto, sedette per terra
nascondendo il viso con i
capelli, tornò a casa, dormì. Riprese velocemente
la solita, logorante, ma
rassicurante abitudine, decisa a non abbandonarla più. Tutto
andò secondo i
suoi piani, ed ella tornò ad essere l’apatica
eroinomane di sempre.
Mesi, settimane o soltanto giorni dopo, era ancora
seduta nel buio del vicolo, stranamente molto affollato, e veniva
continuamente
infastidita da ragazzine che avevano recentemente scoperto il fascino
dell’alcool, quando lo udì.
Una voce calda e profonda pronunciò il suo nome. Non
quello con cui la conoscevano lì. Il nome che sua madre
aveva voluto che le
appartenesse, il nome a cui la sua anima rispondeva.
“Ananke”. Ma la voce non
la stava chiamando. No di certo. Pronunciava quel nome come se leggesse
ad alta
voce una parola di cui amava il suono. Lo immaginava, ad occhi chiusi,
concentrato sul sapore della parola mentre gli sfiorava le labbra e,
dopo che
essa le aveva abbandonate, attento a non lasciarsene sfuggire nemmeno
l’ultima
lontana eco. Suo malgrado, Ananke si voltò verso di lui e si
fermò, meno fredda
del previsto, ad osservare il modo in cui i ricci castani corteggiavano
le
guance lisce, solo per disinteressarsene un attimo dopo, calamitati
dalle
irresistibili spalle larghe, su cui si posavano, discontinui, lasciando
intravedere la pelle olivastra del collo. Egli si volse poco dopo a
guardarla,
e la ragazza prese a scrutarne il volto. La pelle vellutata, scura, su
cui si
rifletteva la luce del lampione dirimpetto, accompagnava le labbra
piene in un
sorriso, riscaldato dall’espressione dei profondi occhi neri.
Si scoprì due
volte a guardarlo, ma neppure quella visione paradisiaca
riuscì a distoglierla
dalla sua rinnovata risoluzione, che ora più che mai le
pareva un capriccio. |
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Capitolo 5 *** Capitolo 4 ***
Capitolo
4
Erano giorni che
continuava a sedersi lì. Che bastardo.
Voleva forse metterla alla prova? Allora lei l’avrebbe
superata. Ormai riteneva
che sarebbe stato necessario ricorrere alla sua ultima difesa...
Di certo, se
avesse potuto farlo, avrebbe riso: le
sembrava di elaborare una tattica di guerra. E di una guerra si
trattava. Ma
non contro di lui. Contro se stessa. Da una parte erano schierate la
sua
ragione e la sua prudenza, spalleggiate dagli anni di addestramento,
dall’altra
le sue emozioni, la sua brama di vita e il suo corpo, spalleggiati
dalla sua
misera natura umana. Un’indecisione che sicuramente le
sarebbe stata fatale la
consumava lentamente, dietro il suo volto risoluto. Lasciò
vagare lo sguardo
lungo il muro: anche quel giorno era a pochi metri da lei,
pensò freddamente.
In realtà, non era di una bellezza eccezionale. Di certo era
più brutto di
Mike, ma ispirava fiducia e il modo in cui era appoggiato al muro
appariva
assolutamente incantevole alla gente comune. Ogni tanto scambiava
cordiali
parole con i vari ragazzi che lo fronteggiavano. Ogni giorno sedeva
più vicino
ad Ananke, che si stava rapidamente abituando alla sua presenza. Ella
sapeva di
essere il suo obiettivo e deduceva dalle sue mosse incerte di poterlo
affrontare. Non sarebbe stata una gran difficoltà, lo
avrebbe battuto come
aveva fatto con Mike, facendogli credere di aver vinto.
Quando infine le fu
vicino, la ragazza era preparata
ad un suo attacco, ma egli non le rivolse nemmeno una parola. Quanto a
lei, il
suo autocontrollo era perfetto ed entro un paio di giorni avrebbe
potuto
smettere di pensare a quel ragazzo.
La reazione di
Mike fu estrema: folle di gelosia
verso il nuovo arrivato, costrinse Ananke, parecchio infastidita, a
sedersi
continuamente sulle sue gambe per diversi giorni, finché non
si accorse che
ella non nutriva alcun interesse per il ‘negro’
–così lo chiamava- e si decise a
lasciarla libera. La bufera era passata, si disse Ananke, ora sarebbe
stata
bene come al solito. Bene. Con un’anima rinchiusa in una
cella da qualche parte
e un corpo devastato. Bene. Con un mondo all’interno che
marciva lentamente.
Fu allora che
udì la sua voce. Canticchiava
soprappensiero, armoniosa e la ragazza riconobbe la melodia che
già una volta
aveva sentito provenire da quelle labbra. I suoi occhi erano chiusi, ma
la pace
del volto non era che una maschera per celare ad un occhio indiscreto
il suo tormento
interiore, che tuttavia si percepiva chiaramente dalla ruga che
increspava la
sua fronte liscia. Smise di cantare, riaprì gli occhi e
guardò lontano, verso
la luce che proveniva dalla strada principale e, per un momento, i suoi
occhi
non mostrarono altro che un’infinita tristezza, che subito si
preoccupò di
dissimulare come se avesse sentito gli occhi nascosti della ragazza su
di sé.
“Scusa”
mormorò inaspettatamente, ed Ananke seppe
che la parola era rivolta a lei. Avrebbe voluto domandargliene il
motivo,
tuttavia si trattenne, non aiutandolo nel suo intento. Con uno sforzo
immane,
egli si voltò a guardare il suo volto nascosto da crine e
continuò. “Sono stato
io a cantare quella canzone.” la sua voce accorata era colma
di sincero
dispiacere e dai suoi occhi traboccava la sofferenza “Non
avevo idea che
potesse sortire su di te un simile effetto, e me ne rammarico
immensamente. Ti
prego di non portarmi rancore.”
Detto questo,
abbassò lo sguardo, mordendosi il
labbro inferiore. Il tono con cui aveva pronunciato quelle parole
avrebbe
commosso chiunque, al punto da rendere completamente inutile la sua
preghiera,
e persino Ananke non riuscì a restare completamente
indifferente. Per la prima
volta dopo tanto tempo, decise di parlare. Furono due parole, fredde
come il
ghiaccio, tanto fioche da essere poco più d’un
sussurro.
“Non
importa.”
Il ragazzo
sollevò il capo di scatto, facendo
molleggiare i ricci sulle spalle e le rivolse un travolgente sguardo
caldo
pieno di immotivata gioia. Le labbra si tesero e si schiusero in un
abbagliante
sorriso. La ragazza abbassò bruscamente la testa, abbacinata.
“Grazie”
disse lui, la voce ancora fremente per
quelle due misere parole.
Si esaltava per
troppo poco, pensò glaciale Ananke,
alzandosi per tornare a casa, cercando di distrarre la mente da
un’immagine che
vi si affacciava troppo spesso per i suoi gusti.
E quella notte,
per la prima volta dopo anni di
finti sonni, sognò. Sognò un ragazzo dalla pelle
scura e un sorriso
abbagliante, e un muro spesso, senza alcuna falla, che le impediva di
raggiungerlo. Lei cercava disperatamente un’uscita, ignorando
una donna che
pretendeva di chiamarsi Ragione che le diceva che all’interno
sarebbe stata al
sicuro; cercava furiosamente qualsiasi attrezzo che potesse rompere la
barriera, o almeno scheggiarne la superficie, mentre la petulante donna
continuava a ripetere che lui non l’avrebbe mai amata, le
ricordava un altro
nome, ma la ragazza non vedeva altri che lui, non sentiva altro se non
il suono
della sua voce.
Di colpo si
svegliò, con il fiato grosso e, mentre
richiudeva gli occhi, capì di essere in svantaggio.
Prudenza era stata
assassinata.
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Salve a tutti quelli che
sono arrivati a leggere fin qui...Volevo scusarmi per il ritardo e per
i mancati ringraziamenti delle scorse volte. Detto ciò, vi
ringrazio infinitamente per essermi rimasti fedeli, anche dopo il
capitolo 3, che in realtà nemmeno a me era piaciuto tanto...
Ringrazio in particolar
modo Spleen -spero che la tua curiosità troverà
soddisfazione, ti adoro-, il mio amico Mr Obscurus che finalmente
è riuscito a leggere questa roba -spero che le carte ti
consiglino di scrivere la storia del prete^^-, maddina, ma mi sembra
decisamente esagerato che definisca Ananke un capolavoro, e il mio
adorabile amico Dario, anche se non lascia mai commenti...
Ciao a tutti! Spero di
rivedervi! |
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Capitolo 6 *** Capitolo 5 ***
Capitolo
5
“Ananke”
Ancora un sussurro di quella voce calda, impossibile
da ignorare. La ragazza si morse il labbro inferiore, mentre sentiva la
sua
anima fremere e un brivido risalirle la schiena. Conosceva
già le idee di quel
corpo traditore, ma oramai anche la mente la stava abbandonando.
Avrebbe voluto passare la vita a sentirsi chiamare
così.
E ancora una volta, incapace di resistergli, si voltò
impercettibilmente a guardarlo. Un sorriso incurvò le sue
belle labbra morbide,
prima di cedere il posto ad una domanda: “Cosa ti spinge ad
alzarti ogni
giorno?”
Nella sua voce s’intuiva serietà, accompagnata da
quel velo di tristezza che Ananke aveva imparato a riconoscere in lui.
Si concentrò sulla domanda, donandogli, come sempre,
una semplice e fredda risposta, che egli pareva apprezzare
più d’ogni altra
cosa: era un compromesso tra le due fazioni in lotta.
“L’abitudine”
La ragazza pronunciò a fatica quelle parole, ma i
suoi occhi scuri compresero, e si volsero altrove.
Ricominciò a canticchiare, con la sua dannata voce
travolgente, e la ragazza, percorsa da continui tremori, credette di
detestarlo. Si alzò per andare via, ma si bloccò
d’improvviso.
“Ananke” aveva sussurrato ancora lui,
“Perché sei
così fredda con me?”
Non nutriva nessuna speranza di un cambiamento di
quell’atteggiamento, lo si intuiva facilmente.
Ma la ragazza non rispose. Non poteva dirgli il
vero, o sarebbe diventato più tenace. Ma non sapeva mentire.
Non a lui.
“Perché ti ostini a parlarmi?” gli
chiese, glaciale.
Attese per qualche secondo una risposta che non
arrivò, senza guardarlo, quindi si trascinò fino
a casa.
Il
giorno dopo lo trovò seduto ad aspettarla. Fu
subito affascinata dal suo rigirarsi i riccioli tra le dita,
soprappensiero.
Gli sedette di fianco, meritandosi come premio uno
dei suoi caldi sorrisi e, paradossalmente, si sentì felice,
in pace con se
stessa e non riuscì a capire come avesse potuto odiarlo solo
il giorno prima.
Percepiva quasi fisicamente il corpo di lui irradiare calore e si
sentiva
invasa, ammaliata, assuefatta, sebbene restasse rigida e cauta. Non
riuscì a
staccare lo sguardo da lui e seguì ogni movimento delle sue
labbra, ogni
cambiamento d’espressione nei suoi occhi, finché
quella creatura meravigliosa
che solo per caso solcava incerta l’impuro suolo terrestre si
voltò e le parlò.
“Ananke” la cullò la sua voce, con un
filo
d’impazienza, “Ti prego, dammi una
possibilità...”
Quel sussurrò la soggiogò completamente. Avrebbe
fatto qualsiasi cosa lui le avesse chiesto, l’avrebbe seguito
ovunque pur di
respirare ancora una boccata di quella voce.
“Sì” sussurrò di rimando.
Lui esitò, tenendo il capo basso, poi si decise ad
alzarlo e a fissarla in volto. “Scruta nei miei
occhi...”, mormorò infine, con
voce apparentemente serena.
Ananke arretrò, spaventata da quell’invito troppo
pericoloso per poter essere accettato, ma troppo attraente per poter
essere
rifiutato. Posò virtualmente dei fiori sulla tomba fresca di
Prudenza e sollevò
la testa.
Scrutò nei suoi occhi neri, splendenti, vivi, e vi
scorse la quiete, la speranza. Li vide sorridere, confortanti, prima di
trovare
l’inganno.
C’era un’emozione ch’essi tentavano di
nascondere,
che la ragazza non riusciva a cogliere ma della quale percepiva
l’esistenza.
La realtà le piombò addosso con tutto il suo
peso,
mozzandole il respiro, e la freddezza riprese possesso di lei.
Non era poi tanto diverso dagli altri ragazzi, da
Mike. Anche lui voleva usarla e gettarla via, in fondo.
Lui, ignaro di tutto, continuò nel suo intento. La
sua voce dolce sussurrò ancora, più decisa:
“...e ora, te ne prego, lasciami
vedere i tuoi”
La ragazza non protestò, troppo sconvolta dalla
rottura di tutte le sue illusioni, e gli permise di abbattere anche
quell’ultima, assoluta, difesa.
Lui, esitante, protese la sua mano leggera e le
scostò delicatamente i capelli del volto. Per un momento, si
guardarono negli
occhi. E fu nero contro verde. Caldo contro freddo. Sentimento contro
vuoto. E
fu Ananke a vincere, quando lui cedette ed abbassò la mano,
stringendola in un
pugno. I suoi occhi si ancorarono al suolo, rendendo palese tutto
ciò che aveva
tentato di trattenere. Una sofferenza ch’era quasi agonia
sgorgava copiosa dai
suoi occhi, e i denti mordevano a sangue il suo labbro inferiore. Tutte
le
barriere della ragazza crollarono in un solo colpo, abbattute dalla
sorpresa,
sostituita dopo un attimo da una tristezza immotivata. Istintivamente,
gli si
avvicinò e provò l’irrefrenabile
impulso di consolarlo, o almeno di toccarlo.
Levò una mano, incerta e tremante, e sfiorò il
dorso della sua. La reazione fu
immediata: egli si voltò di scatto, guardando con stupore le
dita sottili che
timidamente si erano insinuate tra le sue, ma esse non si fecero
spaventare, e
condussero lentamente quelle di lui verso il crine, dove le
abbandonarono. Egli
comprese, le scostò nuovamente i ciuffi neri dagli occhi, e
prese a fissarli.
Era stanco di combattere, non ne avrebbe avuto la forza. Con stupore
crescente,
vide la fatica affliggere anche quel verde intenso, vivo e cangiante.
La tristezza del nero si riflesse nel verde.
La speranza del nero si riflesse nel verde.
La gioia del nero si riflesse nel verde.
E il corpo freddo e pallido cercò timidamente colore
e calore in quello vicino, che lo accolse, completandosi. Le sue
braccia la
avvolgevano delicatamente, cullandola e il fiato dolce del suo respiro
le
carezzava l’orecchio. Ananke si strinse al suo petto e,
rabbrividì, suo
malgrado, per il freddo. Lui se ne accorse e si alzò
prendendola tra le
braccia, e la ragazza lo abbracciò stretto, con la pelle
d’oca.
“Fa freddo” bisbigliò, guardandolo.
“E’ novembre” rispose lui, con un sorriso
più dolce
del solito.
FINE
Ebbene sì,
questo essere assolutamente pigro e incostante
ha terminato la sua prima storia...dobbiamo festeggiare!
Sono davvero
grata a tutti coloro che sono
giunti fin qui.
In
particolare, vorrei che spleen fosse più sicura
di sé, sia quando scrive(l’ho aggiunta anche ai
preferiti), che quando commenta
(ogni volta che leggo le sue recensioni comincio a saltellare euforica
per la
casa, esasperando tutti)...
Beh,
questa è la fine...alla prossima! |
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