Questa non sarà mai casa mia.

di Friedrike
(/viewuser.php?uid=239117)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I. ***
Capitolo 2: *** Capitolo II. ***
Capitolo 3: *** Capitolo III. ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV. ***
Capitolo 5: *** Capitolo V. ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI. ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII. ***



Capitolo 1
*** Capitolo I. ***


CAPITOLO I.
 
 
 
Gli piaceva il sole. 
Gli dava un po' di speranza, vederlo splendere in alto, dopo un temporale.
Eppure erano già un paio di giorni che il cielo terso non brillava come nei pomeriggi d'estate. Lui si chiese cos'avesse fatto di male per finire in quel postaccio. 
Con un sospiro pesante, alzò l'ascia per poi abbandonarla sul ceppo di un albero, con violenza, spaccandolo in due. Ripeté l'operazione almeno venti volte, e alla sera, stanco, rientrò in casa trascinandosi dietro una parte del suo operato. 
Accese il fuoco e si sciacquò le mani con un po' d'acqua, era ghiacciata così come lo erano le sue ossa, ma ne trovò ugualmente beneficio. 
La padrona lo rimproverò di aver fatto tardi e gli mollò un ceffone. Lui s'affrettò a scusarsi e si sedette in tavola. 
Mangiarono come al solito in silenzio, lui, diciassette anni da poco compiuti, teneva lo sguardo basso sulla sua razione di zuppa.
Ogni tanto, quand'era più fortunato, poteva trovarvi un pezzo di carne, ma questa non era una di quelle sere. Solo una striscia verde non bene identificata galleggiava nel liquido rossastro.
Ascoltò i loro discorsi. A quanto pareva, volevano prendere una ragazza perché li aiutasse. La moglie continuava a sostenere ormai da giorni di aver bisogno di una mano in più per i doveri della casa ed il marito giurò di chiedere aiuto al parroco del paese perché gli procurasse qualcuna.
Lei si disse soddisfatta. 
Ludwig non parlava mai, ma quella sera si lasciò sfuggire un commento, nella lingua madre. Infuriato, l'uomo gli diede uno scappellotto piuttosto forte, insultandolo pesantemente. Lo prese per un orecchio.
-Quante volte ti ho detto di non parlare quella merda di lingua, ah?! Sai che dovrei farti adesso, ragazzino?- 
Lui chinò il capo. Detestava quel comportamento violento, si sentiva umiliato ed inutile, ma aveva già imparato che ribellarsi non portava a nulla di buono. 
-Avanti! Chiedi scusa- intervenne la donna. 
Non era mai stata bella. Aveva gli occhi troppo vicini tra loro, i capelli neri legati in una crocchia alla base della nuca stavano ormai divenendo grigi e le rughe solcavano ogni centimetro del suo viso già vecchio. 
Il giovane ragazzo mugugnò qualcosa; l'uomo sbatté il pugno sul tavolo domandargli di parlare a voce più alta.
-Ho detto che mi dispiace- ribadì lui.
La cena si concluse in fretta. 
I coniugi erano ormai prossimi alla vecchiaia.
Lui era cresciuto in una fattoria, pulendo maiali e coltivando patate. Neanche lui aveva mai avuto un volto particolarmente grazioso; e nemmeno adesso verrebbe da fare un complimento nei suoi confronti.
Ma Ludwig, quel ragazzo, aveva i lineamenti tipici della sua terra, gli occhi azzurri come l'acqua del mare laddove iniziava ad essere più profonda ed i capelli biondi come il grano che al sole sembravano quasi divenire dorati. Il suo aspetto era solo da qualche anno uscito dall'età della fanciullezza ed il suo fisico era asciutto, senza un filo di grasso. Dopotutto, capitava spesso saltasse i pasti, per vari motivi. 
Si mise a dormire con un piccolo sospiro, nello stesso luogo nel quale stava oramai da quasi due anni: un piccolo spazio angusto con un letto vero, fatto in legno e in paglia, che non doveva condividere con nessun altro. C'era una finestra ed una piccola lampada su un comodino, ricavato da un tronco d'albero, forse. La donna aveva detto che era stato il buon Dio a mandargli un posto tanto ospitale.
Lui non avrebbe preferito di meglio. 
Prima che venisse accolto alla fattoria, viveva in un orfanotrofio. Lì la vita era dura ed ogni giorno bisognava lottare per avere la propria razione di cibo, ma la lotta era silenziosa e lui, come gli altri ragazzi, sapevano bene di non poter domandare ancora da mangiare. Gli insegnanti non avevano molta pazienza e spesso i ragazzi finivano in punizione. Ma non Ludwig; lui non aveva mai disubbidito, faceva sempre tutti i compiti nel migliore dei modi. A pensarci, la scuola gli mancava molto. Non metteva piede in quella del paese da almeno un anno e mezzo. Gli piaceva così tanto imparare... 
Chiuse gli occhi. 
Anche per quella sera aveva finito. Poteva finalmente godersi un poco di riposo. 
 
 
 
Passarono due giorni, il sole spuntò di nuovo e le piante si ripresero un poco dalla troppa acqua. Sarebbe stato un bene vederle per qualche giorno libere dalla pioggia, avevano tutti paura che sarebbero marcite.
Anche quel giorno il ragazzo si svegliò prima dell'alba, non gli dispiaceva poi molto; sebbene avrebbe voluto dormire qualche ora in più, la sera era comunque costretto ad andare a letto molto presto, così recuperava il sonno perduto.
Il cielo era ancora scuro quando lui si mise a pulire le stalle. I maiali dormivano ancora. Avrebbe tanto voluto avere un cavallo. Li aveva visti una volta e se ne era innamorato, purtroppo però non erano creature particolarmente utili all'interno di una fattoria di medio-basso livello e nessuno ne avrebbe mai comprato uno là dentro.
Gli sarebbe anche piaciuto poter giocare di più col cane che stava con loro, un cane nero molto grande dall'aria forse un po' cattiva. 
La prima volta che Ludwig si avvicinò a lui, ringhiò forte e gli morse la mano.
Il padrone lo picchiò per questo. Disse qualcosa come "non devi disturbare Cesare, brutto sacco di merda" e nessuno gli curò quella ferita. Lui non si lasciò scoraggiare e s'avvicinò di nuovo alla bestia, stavolta con più prudenza, facendosi odorare con calma. Riuscì ad ottenere la sua fiducia ed adesso non aveva più paura nell'avvicinarsi, anzi: qualche volta giocavano insieme, quando nessuno poteva vederli. 
Mentre il ragazzino biondo cambiava l'acqua ai maiali, Cesare si avvicinò a lui e gli leccò la mano, come per invitarlo a giocare. Lud s'abbassò al suo livello e gli carezzò il capo con un piccolo sorriso, sussurrandogli: -Adesso non posso giocare, devo lavorare.- 
Si rialzò dunque e continuò il suo lavoro. 
Uscì dalla stalla e s'avviò verso i campi, gli era stato ordinato di controllare le patate. A piedi scalzi entrò nel campo e ne prese una, ma gli si spappolò tra le mani. "Questo non è un bene; è marcia e lo sembrano tutte. Speriamo solo che questo sole resista" pensò tra sé alzando il naso verso il cielo. 
Sentito il rumore di una macchina, si voltò per guardare e quindi riconobbe quella del prete. Accanto a lui, adesso lo vedeva chiaramente, c'era una ragazzina. 
Si sentì sgridare per la distrazione, per cui riprese il suo dovere, ma con un'occhio era sempre attento a ciò che accadeva.
Il prete pareva essersi fermato. A forza fece scendere la ragazza e la presentò alla donna, la quale appoggiò una mano sulla sua spalla e sembrò sconfortata.
-Spero non mi deluderete, Padre- sospirò all'uomo di Dio. 
Quest'ultimo se ne andò presto e la padrona trascinò dentro la ragazzina, la quale, comunque, a capo basso la seguì senza fare troppe storie. 
Quando Ludwig rientrò in casa, la vide seduta al tavolo della cucina, a piangere. 
La donna cercava di consolarla, cosa alquanto strana per i suoi begl'occhi chiari, perché lei non cercò mai di consolare lui. 
Difatti si voltò verso il biondo e gli ringhiò: -Che ci fai qui, scanzafatiche?! Ti conviene terminare i tuoi lavori in tempo per il pranzo, o non vedrai una briciola.- 
Così lui annuendo uscì di nuovo dalla stanza. 
La ragazzina gli lanciò un'occhiata asciugandosi una lacrima. 
Era davvero bella. 
Aveva lunghe trecce castane che gli coronavano il viso dai tratti ancora infantili, dolcissimo, decorato poi da due occhi grandi nocciola, dolci anch'essi. 
Portava un vestito lungo sulle ginocchia celeste ed un giacchettino beige sopra, calze lunghe e scarpe marroni. 
I due ragazzi non si rividero prima di cena. 
Seduti l'una di fronte all'altro, si scambiavano occhiate di nascosto, intanto che i padroni continuavano a litigare. 
-C'è una camera per te, Felicia- le spiegò d'un tratto la donna, gesticolando un poco. -E' tutta tua, vedi come sei fortunata? Domani mattina la sveglia per te è all'alba. Dovrai aiutarmi, hai capito?-
La ragazza annuì svelta, osservandola. Portò alle labbra un pezzo di pollo e sentendo lo sguardo dell'altro ragazzo su di sé, arrossì. 
Il padrone lo colpì di nuovo sulla nuca. -Porco! Non guardarla!-
-Non guarda lei, stupido! Guarda il pollo! Colpa tua se non lo hai: non hai fatto nulla di buono oggi. E chi è inutile, non merita di mangiarlo- interruppe la donna, con tono leggermente aggressivo. 
-Aber ich...- stava per rispondere lui. 
Ma il commento gli scappò ancora nella propria lingua, il tedesco, e questo suscitò le furie di entrambi i signori. Lui si chiedeva sempre perché la odiassero così tanto, dopotutto è solo una lingua, no? Perché suscitava in loro questo sentimento così negativo? 
L'uomo conficcò il coltello sul tavolo e lo afferrò per un braccio, facendolo alzare. Il ragazzo farfugliò delle scuse, ma ciò non servì; il padrone lo aveva già trascinato nella stanza accanto e s'era già sfilato la cintura. 
Felicia chinò il capo in avanti, rinunciando alla propria razione di pollo che subito venne presa dalla donna. Percepì di nuovo gli occhi pungerle ma non doveva piangere adesso.
-Non preoccuparti- si sentì consolare. -Lui non picchierà mai te. La cinghia è per i ragazzi. Devono imparare a comportarsi e ad ubbidire.- 
Questo non la rassicurò nemmeno un po'. 
 
 
 
Il giorno dopo non lo vide e non se la sentì di cercarlo. 
Voleva "comportarsi bene" almeno per i primi giorni e sebbene avesse passato la notte a piangere, si alzò ugualmente dal letto e seguì la donna iniziando a capire come svolgere le sue mansioni. 
L'aiutò a pulire la casa, a lavare i piatti, poi uscì di casa per stendere i panni su dei fili messi in giardino. 
Aveva una cesta pesante in mano e aveva un tragitto abbastanza lungo da fare. Mentre camminava, inciampò su un sasso e scivolò per terra e con lei, la cesta. 
I vestiti caddero sull'erba ed alcuni si sporcarono. 
Ludwig vide la scena e le si avvicinò, porgendole la mano. Aveva un graffio sul viso, che gli attraversava tutta una guancia. 
La ragazza si mise in ginocchio con una mano per terra, lo osservò a lungo e con l'altra prese timidamente la sua. 
-Ti sei fatta male?- le chiese lui. 
Lei scosse la testa, poi improvvisamente sembrò ricordarsi dei vestiti. -Oh! Che disastro!- esclamò. Il cuore iniziò a batterle forte. 
Il biondo si chinò per aiutarla ma notando alcune robe sporche ti erba o di terriccio le sue labbra s'incresparono in una smorfia.
-Devi pulirle, prima che se ne accorga. Seguimi, ti mostro dove puoi sistemarle.- 
Così Felicia prese quei pochi capi sporchi e lo seguì fino a destinazione, ove stava una lavabo con dell'acqua corrente. Si preoccupò di lavarli per bene.
-Non conosco il tuo nome- gli ricordò non guardandolo.
-Mi chiamo Ludwig- rispose lui. 
Non le stava comunque troppo vicino, non aveva mai amato il contatto fisico.
-Lud...wig?-
-Esatto- le confermò.
-E' un nome strano...- mugugnò lei. Mise via una canottiera maschile e inzuppò d'acqua un vestito di tessuto pesante. 
-Non è strano, è solo straniero- la corresse il ragazzo. -Sbrigati, non ho tutto il giorno.- 
Non gli andava di prendere altre botte per causa sua. 
Ancora due minuti e la ragazza terminò, stringendo i capi al petto lo guardò con un piccolo sorriso. -Beh... allora grazie...- 
Lo guardò dritto negli occhi ed il ragazzo si ritrovò ad arrossire. 
-Io... insomma, bitte, ehm, prego.- 
Lei si scostò un ciuffo castano dagli occhi, portandolo dietro l'orecchio, e ridacchiò, aveva una bella risata.
Il rossore dell'altro si fece più intenso. 
Ancora qualche momento e si separarono. 
Lei andò a stendere quei vestiti e venne sgridata per la quantità di tempo impiegata per un compito così semplice.
Anche lui venne rimproverato, ma era un bravo contadino, e questo lo salvò ancora una volta dalle violenze del padrone.
La notte arrivò anche quel giorno, e quello dopo, e quello dopo ancora, e in ciascuna di esse il biondo la sentiva piangere.
Le loro camere erano vicine, così lui si convinceva di poter sentire persino il battito del suo cuore, se solo si fosse impegnato un poco.
Continuò a piangere per intere settimane, senza fermarsi una sola notte.
Era strano, perché di giorno non perdeva occasione per sorridere. 
Quel sorriso era davvero bello; faceva invidia al sole. 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo II. ***


CAPITOLO II
 
 
 
 
 
La ragazza era seduta su uno sgabello a tre gambe, sotto il capannone. 
I capelli castani erano sciolti e ancora un po' bagnati, lei li stava pettinando con cura, con aria assorta. 
Il sole splendeva alto, dopotutto era ormai primavera, e si specchiava in ogni rara pozza d'acqua, residuo d'inverno. 
Quel giorno c'era qualche nuvola in cielo.
Ludwig era appena stato nella stalla con i maiali, come ogni giorno a raccogliere i loro bisogni. Si sentiva sporco, puzzava, e aveva decisamente bisogno di darsi una ripulita. 
S'avvicinò dunque al lavabo esterno alla casa, ma lì notò lei, così si fermò quasi di colpo per osservarla. 
Era così bella... si domandò quanti anni avesse. 
Magari avrebbe potuto chiederlo, eppure la sua timidezza lo bloccava ogni volta che desiderava parlarle. Oltretutto, il padrone non faceva altro che rimproverarlo per le occhiate che le rivolgeva. 
Lui però non la guardava in modo particolare.
Era solo un po' curioso, tutto qui, quegli sguardi non erano nemmeno insistenti. Erano puri, semplici, non c'era alcuna attenzione morbosa nei confronti di quell'italiana né di nessun'altra.
Silenzioso, fece ancora qualche passo e si apprestò a sciacquare il viso ed i capelli. 
Felicia sussultò, non si aspettava di avere compagnia, però le sue labbra si inclinarono presto in un sorriso.
Era la prima volta che il biondo la vedeva con i capelli sciolti e si ritrovò a pensare che così stesse bene, ma non annunciò ad alta voce questo suo pensiero. 
-Ciao- lo salutò lei. 
-Non hai da lavorare?- le chiese lui. Anni di solitudine lo hanno fatto diventare un po' scontroso nei confronti degli estranei. 
Tuttavia lei frequentava quella casa da ormai due settimane e non le sembrò per nulla corretto quell'atteggiamento. 
Gonfiando le guance indispettita, lo rimproverò: -Guarda che volevo solo farti compagnia!- 
Il ragazzo non rispose. 
Cercò di pulirsi, l'acqua calda aveva fatto arrossare la pelle così sensibile sulle mani, sui polsi e nel volto. Quella pelle ne aveva comunque passate di peggio. 
Le violenze del padrone, inaspettate e spesso gratuite, non gli facevano più così paura, ma non riusciva comunque a tollerarle. 
Con un piccolo sospiro, si passò ancora una mano sul viso. 
Sentì un rumore ed il suo istinto gli suggerì di voltarsi verso l'entrata del capannone. 
L'uomo, innervosito, gli si avvicinò e lo schiaffeggiò almeno due volte, prendendolo poi per un braccio, il sinistro. 
-Sei un buono a nulla!- tuonò. -Stavi qui ad oziore, eh, schifoso? Ah, ma questo vizio te lo faccio passare io, schifoso bastardo!- 
Felicia li guardò terrorizzata, voleva tanto aiutare l'amico -perché ormai lo considerava tale- ma non sapeva come fare. La paura l'aveva immobilizzata.
Il vecchio si sfilò la cintura e spinse il ragazzino fino a farlo cadere per terra, dopo iniziò ad agitare la suddetta su di lui, unendo a questo gesto che forse non gli sembrava abbastanza, dei calci. 
Continuava ad insultarlo, mentre lui non poteva fare altro che cercare un po' di protezioni con le braccia. 
La donna uscì di casa e si avvicinò al capanno. 
Fece ancora qualche passo verso la mensola e ne recuperò alcuni barattoli vuoti, senza degnare di uno sguardo i due maschi poco distanti. Afferrò per il polso la ragazzina e la trascinò in casa.
-Devi aiutarmi, sbrigati- le disse. 
Quando il padrone si ritenne soddisfatto, col fiatone, si allontanò da lui e si sistemò la camicia e la cintura nei passanti dei pantaloni.
-Così impari, stupido tedesco del cazzo.-
Ludwig era ancora a terra, con gli occhi socchiusi, come se chiuderli potesse liberarlo da quelle violenze, Non si mosse.
-Non ti voglio più in questa casa. Da stasera dormi con quelli come te, coi porci, nel porcile. Mi sono spiegato?-
Il giovane mormorò: -S-sì...- sottovoce ed attese che lui se ne fosse andato per mettersi seduto. Sentiva male ovunque. Avvicinò una mano al viso e poi la osservò sporcarsi ancora di sangue. 
Quei segni se ne sarebbero mai andati? Sperava tanto di sì. 
 
 
 
La notte non portò consiglio, ma si aprì con una sorpresa. 
Passata l'ora di cena alla quale il ragazzo non fu invitato, il buio cadde ben presto su tutta la fattoria e i dintorni e lui s'accoccolò su un po' di paglia per riposare. Non si sentiva ancora bene, ma gli conveniva essere comunque in forze, il mattino dopo non gli avrebbero fatto sconti di alcun tipo.
Quando sentì la porta aprirsi il suo cuore accelerò i battiti e sembrò voler uscire via dal suo petto. 
-Ludwig?- lo chiamò una voce. -Ludwig, dove sei?- 
Sussurrando, la ragazzina sporse la testa dentro ed annusando l'aria fece una smorfia per il cattivo odore. 
-Ludwig, non voglio farti mica male...- 
Stava quasi per rinunciare, girando il capo quasi usciva da lì, ma lui la richiamò.
-Sono qui...- 
Richiuse la porta alle spalle e tenendo la gonna con una mano, salì goffamente le scale fino ad arrivare ad un piccolo spazio sopraelevato nel quale provava a riposare il ragazzo. 
Scorto appena il suo volto, lei si sentì rabbrividire. 
Il ragazzo aveva, oltre al graffio sulla guancia, le labbra spaccate e un grosso livido sotto l'occhio destro. 
Ma si fece coraggio ed ugualmente gli si avvicinò. 
-Stai un po' meglio?- gli chiese. Lo vide annuire con poca convinzione, non era mai stato bravo a dire la bugie, strano, considerando davanti quali prove lo ha messo la vita. 
-Ho qui una cosa per te- gli disse ancora. Prese un pezzetto di cioccolato e glielo offrì. 
Lui, spalancando gli occhi azzurri, la osservò confuso, poi lo spezzò e ne mangiò metà lentamente. L'altra metà la fece sciogliere in bocca, aveva così tanta fame...
Felicia sorrise. Avvicinò la mano alla sua fronte per scostare una ciocca bionda, sporca di sangue, dai suoi occhi. Purtroppo però, lo fece sussultare, così s'affrettò a scusarsi.
-M-mi dispiace, non volevo metterti paura...-
-Non fa niente...- le rispode lui, concentrando la sua attenzione su qualcos'altro.
La ragazza aveva un fiocco tra i capelli sciolti, le illuminavano il viso, era così dolce da sembrare un angelo. 
E quell'angelo tirò fuori da una delle tasche del grembiule rosso, bagnato all'altezza di queste, qualcos'altro.
-Mostrami le tue ferite- gli chiese nel modo più dolce che conosceva. 
Lui non rispose. Il suono della sua voce era così melodioso che avrebbe voluto sentirla parlare per ore. 
-Voglio solo medicarti, poi andrò via, lo prometto- giurò.
Ludwig, suo malgrado, scostò le bretelle marroni e si sfilò la maglia sporca bianca sporca di sangue. Le rivolse le spalle.
Lei non commentò; si limitò a rivolgere a quella schiena così rovinata un'occhiata profondamente triste. Prese una pezza bagnata e gli ripulì delicata quelle ferite.
-Perché lo fai?- domandò lui, chiudendo gli occhi. 
Ormai il buio era sceso completamente anche lì.
-Beh, perché... non è giusto quello che ti hanno fatto. Adesso userò il disinfettante, farà un po' male, ma dopo starai meglio.- 
Gliene versò un po' sulla schiena, il biondo strinse forte la paglia sotto le sue dita per sopportare il dolore. 
Pochi minuti dopo, lei gli concesse di rivestirsi. 
-Felicia?-
-Mh?-
-Danke...-
Lei inclinò un po' il viso di lato, con questo suo gesto alcune ciocche scure le coprirono un occhio. -Cosa significa?-
-Vuol dire "grazie" in tedesco.-
-Ludwig? Perché parli tedesco? Da dove vieni?-
La ragazzina non aveva mai avuto modo di studiare, quel po' che sapeva glielo aveva insegnato la sua mamma e non era molto.
Forse non aveva un'istruzione, ma aveva un cuore grande grande, capace di contenere tantissimo amore. 
Lui accennò un sorriso triste. 
-Io sono nato in Germania, a Berlino. I miei genitori e mio fratello morirono in un incendio... mi affidarono ad un parente di mia madre che viveva qui, in Italia, ma lui ben presto mi abbandonò. Ho passato quattro anni in orfanotrofio... sono qui da due anni.-
Raccontò la sua storia senza guardarla nemmeno per un secondo e lei non cercò quegl'occhi chiari e belli. Si limitò ad ascoltare.
Poi lui le chiese: -Und du? Come sei finita qui?-
Felicia non voleva piangere ancora e si era ripromessa di non farlo, ma gli occhi le si riempirono di lacrime e non poté trattenerle. Le nascose con le mani e parlò lenta.
-Il mio papà è morto l'anno scorso. Mia mamma non è riuscita ad occuparsi bene di loro, perché non ha lavoro ed è sola, ma lei ce l'ha messa tutta, davvero! E invece quelle persone cattive hanno portato via me e mia sorella.-
-Tua sorella? Dov'è lei adesso?-
-Non lo so... vorrei tanto rivederla.-
Ludwig annuì con fare serio. -Anch'io vorrei rivedere mio fratello...- 
 
 
 
Il tedesco continuò a dormire nel porcile nei giorni successivi. 
I suoi padroni, che ancora era costretto a chiamare "signore" e "signora", come se loro lo meritassero, gli avevan detto che se voleva mangiare, allora poteva avere quello che avevano i maiali.
Lui si rifiutò categoricamente di mandar giù quella robaccia, ma presto la fame prese il sopravvento e fu costretto ad accontentarsi. Credeva che persino il cane mangiasse meglio.
Lo avevano punito e lui non aveva ancora capito bene perché. Forse semplicemente non lo volevano in giro mentre per casa c'era lei, la ragazza. 
Era una notte che sembrava non trascorrere mai ed era appena iniziata. 
Non riusciva proprio a chiudere occhio e si sentiva parecchio solo. I maiali non fanno compagnia. 
Rigirandosi inquieto tra la paglia, si decise infine ad alzarsi. Scese la scaletta ed uscì dal porcile, vagando un po' per i prati, solitario. 
Osservò la casa, finalmente anche l'ultima luce si era spenta. Accennò un sorriso. Magari poteva andare da lei. "Chissà se è sveglia..." rifletté tra sé. 
Comunque sia, corse svelto verso la casa e camminando silenziosamente vi entrò. Sapeva bene che il terzo gradino scricchiolava, così passò dal secondo al quarto e finì la rampa di scale. Nel silenzio della sera, non sentì nulla.
Poi quella tranquillità venne rotta da gemiti soffocati. Qualcuno stava ansimando. 
Lui non si fece troppe domande, ma si stupì leggermente considerando l'età dei due coniugi. Il suo istinto gli stava dicendo qualcosa. Gli gridava di andarsene.
Gli aveva sempre dato retta e lo avrebbe fatto anche stavolta.
Sentito un rumore, infatti, scese le scale e tornò in giardino, più velocemente possibile.
Felicia aveva ancora le guance sporche di lacrime, non aveva capito subito la situazione e quando riuscì a comprendere era ormai troppo tardi.
L'uomo era entrato qualche momento prima senza fare il minimo rumore nella sua piccola stanza e le aveva tappato la bocca con la mano, così grande, rovinata da anni e anni di duro lavoro. 
L'aveva guardata negli occhi e le aveva sussurrato di non muoversi. Aveva infilato la mano libera sotto le coperte ed aveva sollevato la veste bianca da notte. Dopo aveva iniziato a toccarla.
La ragazzina non riusciva a togliersi quell'immagine dagli occhi.
Si sentiva così sporca, così sola, mentre rimaneva lì, rannicchiata tra le coperte, quasi a volersi proteggere. Aveva cercato di reagire, ma non era servito. Singhiozzando, strinse forte il tessuto del lenzuolo, come a cercare un po' di conforto. Non sentiva altro che il bisogno di lavarsi. 
Avrebbe solo voluto che la sua mamma fosse lì con lei, per consolarla, o che la sorella la tirasse su di morale. Ma alla fattoria non aveva amici.
C'era solo lui, Ludwig. E non avrebbe mai potuto confessargli una cosa talmente grande.
Forse, dopotutto, i maiali fanno compagnia, in un modo o in un altro.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo III. ***


CAPITOLO III
 
 
 
 
Felicia si avvicinò al lavabo, la mattina seguente. 
Si era alzata prima del solito, si sentiva ancora male e voleva pulirsi un po' prima che i padroni s'alzassero. Non voleva dare spiegazioni a nessuno, sarebbe stata solo un'ulteriore mortificazione. 
Prese una pezza e la bagnò per bene d'acqua tiepida, poi se la passò tra le gambe e sulle cosce, quasi con ossessione, con violenza. Adesso si sentiva un po' meglio. Sospirò appena e sussultò quando qualcuno le mise una mano sulla spalla. Lo strofinaccio le cadde dalle mani. 
-Ludwig... buongiorno- lo salutò.
Riprese subito il sorriso, ma non era il solito, questo era meno dolce, più melanconico.
Il ragazzo si chinò per prendere il cencio e restituirglielo, ma lei arrossì subito e lo precedette, stringendo a sé quello straccio sporco. 
Il biondo non capì subito, ma c'era qualcosa, qualcosa nello sguardo di lei, che fece trapelare tutto il suo dolore. Felicia capì che lui aveva capito. 
Quel discorso fatto di sguardi, venne interrotto dalla padrona di casa, la quale non perse occasione per sgridare l'italiana e schiaffeggiare il tedesco. 


 
I giorni passavano monotoni e loro due non facevano altro che guardarsi e darsi conforto.
Ludwig veniva regolarmente picchiato e lei lo sapeva bene, ma non aveva mai provato a difenderlo. Aveva troppa paura. Aveva già il suo dolore troppo grande da tenere per sé. Ogni volta che poteva, però, medicava le sue ferite. Lo faceva con amore, non perché lo amasse, ma perché era l'unico di cui si poteva fidare, l'unica persona buona lì dentro, l'unica che la rispettasse. 
Invece, lui non capiva proprio nulla di ciò che le accadeva, semplicemente perché lei era troppo brava per lasciargli intuire qualche cosa.
Eppure quella scena si ripeteva tutte le notti, senza alcuna eccezione.
Tutte le notti, lei rassegnata aspettava quella piccola parte di tortura giornaliera ed ormai non si ribellava più, ma accettava silenziosa che lui terminasse e la lasciasse riposare. 
Voleva solo questo; dormire. Dormire le evitava di pensare e questo era un bene. Durante il giorno, canticchiava delle canzoni per distrarsi e lavorava intensamente. Persino quando mangiava aveva imparato a non pensare. 
Tuttavia, ci fu una notte che le crollò addosso, una notte diversa dalle altre, che la teneva sveglia. Aveva tanto male e cercava solo conforto. 
Allora scappò dal suo letto, violenza conclusa, e corse nel porcile.
-Ludwig!- lo chiamò. Le sembrava di non aver più lacrime da versare. 
Il biondo però non rispose subito. 
Lei parlava sempre di meno ed ogni volta che poteva avere una buona occasione per sentire il proprio nome pronunciato da quelle labbra, non se la faceva scappare. Si lasciò chiamare almeno quattro volte, prima di risponderle. Si affacciò dalle scale e la guardò, ancora assonnato.
-Cosa c'è?- le chiese.
La ragazza si chiuse la porta alle spalle e chinò il capo. -Fammi dormire con te, per favore. Ho paura di stare nel mio letto.- 
Il tedesco la osservò per bene. 
Aveva paura di essere punito per questo, ma lei sembrava triste ed il suo sorriso era l'unica cosa di cui gli importava veramente, ormai. 
-Perché hai paura?-
Felicia abbassò lo sguardo, umiliata. 
-Cos'è successo?- chiese ancora. Non ottenne risposta e non fece altre domande. 
Le fece posto accanto a sé, sul cumulo di paglia. 
L'italiana si accoccolò lì, finalmente serena, protetta da quella presenza. 
Appoggiò il viso al suo petto, stringendosi a lui.
-Tienimi con te- lo supplicò. -Non mi fido di nessun altro.- 
Il ragazzo arrossì lievemente. Le circondò le spalle con un braccio e le carezzò un po' i capelli. -Lo prometto- le rispose. -Rimarrai qui con me.- 
Silenziosi, vicini, s'addormentarono entrambi. 

 
 
Da quel giorno, ogni sera i due ragazzi si addormentavano insieme.
Non c'era malizia in loro, erano troppo ingenui e troppo puri perché le loro intenzioni andassero oltre le semplice e rare carezze che si concedevano.
Si lasciavano sfuggire il loro dolore in una parola di troppo, ma non si giudicavano mai per questo, anzi, silenziosi curavano ciascuno le ferite dell'altra, come se nessun altro potesse più farlo.
Anche quella notte, Felicia si era rifugiata da lui, da quelle braccia così calde e protettive che aveva imparato a conoscere. Ormai erano sei giorni che condividevano lo stesso cumulo di paglia. Il padrone non le aveva più messo le mani addosso. Ma lei al mattino aveva un po' di nausea e aveva tanta paura, ma l'appetito non cessò né aumentò, il peso rimase intatto e non ci furono altri sintomi. 
Non ne aveva fatto parola con Ludwig ed era intenzionata a non farlo. Ma era a metà mese e sapeva che presto qualcosa in lei sarebbe cambiato, come del resto accadeva per un paio di giorni a tutte le donne. Accusava dolore ai reni e pesantezza al basso ventre, ciò la rasserenò non poco.
Faceva finta che non fosse mai accaduto nulla. Si considerava ancora "pura", ancora illibata, non avrebbe mai ammesso a nessuno ciò che le era capitato. 
Il biondo non sapeva tutto. Non poteva capire per bene o forse semplicemente non voleva capire. La coccolò ogni sera, strinse la sua mano per darle fiducia. 
Gli stessi gesti si ripeterono anche quella notte. Con una differenza. 
Quando la luna era già alta, la porta del porcile si spalancò. 
I due ragazzi sussultarono e si misero seduti. 
Il padrone iniziò a sbraitare. -Tu, piccola puttana!- la schernì e Ludwig poté vedere che lei cominciò a tremare. Per istinto, appoggiò su di lei una mano a mo' di protezione ed alzandosi insieme si frappose tra loro.
-Non ti azzardare a toccarla!- gli ringhiò.
L'uomo puzzava di alcol. E di fumo. Barcollava e si muoveva come se fosse in piedi per la prima volta in vita sua, si avvicinò comunque a loro e li insultò un paio di volte.
-Tu! Bastardo... tedesco bastardo!- sbraitò. 
Fece ancora qualche passo nella sua direzione e lo afferrò per il colletto, strattonandolo un paio di volte. Gli mollò un pugno in piedi volto e Felicia si chiese, pietrificata dalla paura, perché il ragazzo rimanesse anche lui fermo e non reagisse. 
 Ma quando il padrone s'avvicinò a lei con il suo sorriso sdentato, voglioso, lui lo spinse via, facendolo cadere. Si chinò su di lei e la guardò negli occhi.
-Stai bene?- le chiese.
Lei annuì, ma i suoi occhi nocciola, così bello, così innocenti, non guardavano altro che la figura del padrone immobile per terra. 
-Bastardo...- ripeté lui. -Ti farò pentire di essere nato! Ti farò assaggiare ancora la mia cintura finché non imparerei!- 
Quelle minacce tuttavia non ebbero alcuna reazione da parte del biondo. Non gli faceva più paura. Adesso pensava solo a proteggere lei. Lei, più di sé stesso. 
-Vattene- disse ancora, tra i denti, le mani strette a pugno, le nocche così pressate da divenir bianche. 
Camminò svelto verso di lui, quasi corse, e gli diede un calcio, dritto allo stomaco. Poi, un altro. Sfogò buona parte della rabbia che aveva dentro col terzo ed il quarto, dopodiché appoggiò un piede sul suo petto. 
-Vattene- spiegò ancora. -Vattene, e non ti azzardare più a toccarla, porco schifoso.- 
L'uomo rantolò, si scusò con qualche parola masticata tra i denti ed uscì, ancora troppo poco cosciente per capire cosa fosse realmente successo. 
Infine, il biondo tornò dalla ragazza, appoggiò le mani sulle sue braccia e la guardò dritto negli occhi. 
-Dimmi la verità- la pregò. -E' stato lui a farti del male, non è così? Perché non me lo hai detto?- 
La ragazzina sentì pungerle gli occhi, che le si riempirono di lacrime. Si affrettò ad asciugarle e gli rispose: -E' così umiliante, Ludwig... Sì, è stato lui. Però non dirlo a nessuno! Promettilo!- 
Lei ricambiò lo sguardo, allo stesso modo supplicante. 
Lui non poté fare nulla se non annuire. 
Si alzò e andò a chiudere per bene la porta d'ingresso al porcile, poi si distese accanto a lei. Le sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Non la vide arrossire, ma la sentì stretta al proprio petto, in lacrime. 
Per tutta la notte, rimase sveglio, a rimuginare sul da farsi. 

 
 
Il padrone non diede loro fastidio per un paio di giorni. 
Non si avvicinò alla ragazza e lei si sentì decisamente sollevata da quella novità. 
Ludwig continuava a svolgere i suoi lavori, ma era un po' più tranquillo del solito, perché da un paio di giorni nessuno gli alzava più le mani. 
Si stava decisamente molto meglio, il clima era più sereno.
Di certo la padrona non era cambiata in nulla, continuava a sgridare la ragazza e schiaffeggiare il ragazzo e non sembrava accorgersi della situazione palesemente ostile che si era venuta a creare tra marito e garzone.
Questo, infatti, non perdeva occasione per guardare male il padrone, per sfidarlo con uno sguardo, per fulminarlo con quegl'occhi color del mare. Ma con le parole non andava mai oltre. Ubbidiva agli ordini, semplicemente perché non voleva essere cacciato da quella casa, non voleva tornare in istituto, non voleva rivivere quell'esperienza oltremodo negativa. 
Un'altra cosa positiva di quei giorni, erano le nausee di Felicia, che l'avevano abbandonata del tutto. Forse era stato semplicemente un po' di nervosismo. 
Un giorno come tanti, lei stava recandosi al ruscello per lavare lì i panni, come si faceva una volta, un fazzoletto tra i capelli ed il vestito lungo sino ai piedi. Faceva freddo, ma lei era comunque contenta dell'esperienza lontana da casa.
Una donna con la coda di cavallo e gli occhiali scuri sul naso s'avvicinò a lei e la salutò.
-Ciao, tu vivi alla fattoria, vero?- le disse osservandola.
La ragazzina annuì, accennando un sorriso. Era sempre così dolce, così affettuosa... 
-Come ti chiami?- continuò la donna.
-Felicia- spiegò lei. Inzuppò per bene i panni, stando ben attenta che non le scivolino via dalle mani, finendo al fiume laddove il corso si fa più irruento. 
-Non ti ho mai visto a scuola- affermò la donna. 
Fece un passo verso di lei, curiosa, osservando quella mani così giovani e già così rovinate. 
-Io non ci vado, a scuola- rispose la ragazzina. 
Mise le robe bagnate in un cesto pesante e si concesse un momento prima di caricarlo fino alla fattoria, in una piccola salita che era costretta a fare a piedi scalzi. Le uniche scarpe che aveva, non poteva rovinarle con i lavoro giornalieri. 
-E perché no?- domandò la maestra. 
Lei ci mise un momento a rispondere. -Devo andare- concluse in fretta. 
-Con te c'è anche un altro ragazzo, vero?- 
Perché era così insistente? 
Felicia sospirò appena annuendo. -Sì. Si chiama Ludwig.- 
L'adulta corrugò la fronte e la guardò, pareva un po' divertita. -Ludwig? Da dove viene? Austria? Germania?-
-Ha detto da Ber.... Bor....Bur....-
-Berlino?-
-Sì, quella. Dice che sta in Germania, credo.- 
L'insegnante annuì ed accennando al cesto chiese: -Lo porti sempre da sola?- vedendola annuire a sua volta, non si trattenne dal  soggiungere: -Dev'essere pesante.-
La ragazzina scrollò le spalle ed iniziò la sua camminata. -Arrivederci- salutò educata.
-Arrivederci- risponse la donna. 


 
Ogni tanto Ludwig la pregava: -Felicia, ti prego, andiamo via.-
Ma lei non voleva sentire ragione. Credeva che il ragazzo fosse un po' troppo sognatore e poco realista. Non usava queste parole difficili, perché non aveva studiato, ma il loro significato lo capiva bene, con modi più semplici. 
Certe volte rimanevano svegli per tutta la notte, a fantasticare.
Come accadde quella sera.
Erano entrambi distrutti, ma non riuscirono a chiudere occhio. 
Guardarono la luna al di fuori della finestra. 
Lei gli indicò una stella. -Guarda, Lud! Guarda che bella... così luminosa...- 
Ridacchiò appena. 
Lui annuì, seguendo la sua mano e poi guardando il cielo. -Scappiamo.-
Lei scosse la testa. 
E lui ribatté: -Potremmo vedere mille altre stelle, ancora più belle! Potremmo guardare il mare... scalare i monti... cavalcare bellissimi cavalli. Potremmo avere una fattoria tutta nostra e niente maiali. Solo cavalli. Uno per te, bianco, e uno per me, col manto marrone chiaro.- 
Chiuse gli occhi. 
Sarebbe stato fantastico. 
La ragazza si divertì molto a fantasticare. 
Non parlarono di figli, né di matrimonio, né annunciarono palesemente la loro unione, tuttavia dissero che avrebbero avuto un'unica fattoria ed un cavallo ciascuno. Non rifletterono molto su quelle parole. 
Non si diedero nessun bacio, ma quegl'occhi, quelli sguardi, facevano l'amore più semplice e più puro, ogni volta che si incrociavano.
Eppure non si toccavano mai.
Ludwig non voleva lei fraintendesse. Aveva paura di farle male e non si dichiarò. 
Però oramai lo aveva capito.
Stava male lontano da lei e stava tremendamente bene accanto a lei, ogni sera, accoccolato sotto lo stesso tetto. Non voleva altro che lei, che sentire i battiti del suo cuore, sapere che stava bene, serena, voleva farla felice.
Ed il pensiero che quel maiale le avesse messo le mani addosso, faceva ogni giorno più male.
Perché ogni giorno il suo amore cresceva. 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo IV. ***


CAPITOLO IV.





  






Ludwig non sapeva se il padrone l'avesse toccata ancora.
Lei diceva di stare bene e lui non poteva che credere a quegl'occhi così puri e docili. 
Era i suo primo amore e forse sarebbe stato anche l'ultimo. Lui la vedeva in questa maniera: lei era l'unica degna di stargli vicino, non perché le altre non fossero alla sua altezza, semplicemente perché lui non aveva idea che ci fossero altre ragazza al di fuori di lei.
Felicia quel tardo pomeriggio,  si fermò un attimo, seduta sul prato, e guardò il cielo già quasi buio.
Era terso, l'aria limpida e lei si sistemò un fiore tra i capelli. 
Strinse forte il tessuto della sua gonna, istintivamente, quando il padrone le passò accanto. Lui si voltò e la guardò negli occhi e lei ebbe paura che l'incubo potesse ricominciare.
Sospirò appena. Si abbandonò sull'erba a guardare il cielo, ad immaginare una vita diversa, come aveva fatto tante volte con il ragazzo. Ma stavolta, la immaginò il modo diverso.
Le sue labbra si dipinsero in un piccolo sorriso. 
Immaginò che forse un giorno avrebbe potuto vivere con Ludwig in una casa tutta per loro. Chissà, magari i vecchi padroni sarebbero morti ed in mancanza di eredi la fattoria sarebbe rimasta a loro.  Lei però la sognava in modo diverto. Più colorata, più allegra, tutto più dolce e gentile tra quelle mura. 
Rifletté ancora e si raffigurò a cucinare una torta, in cucina, con un bell'abito, bianco sul seno, poi fermato in vita da un nastro colorato dal quale nasceva poi una bella gonna rossa. Mentre lei cucinava, qualcuno arrivò da dietro ed appoggiò le mani alle sue. Lei sorrise nel sogno. E si voltò e baciò quelle labbra e guardò negli occhi quel ragazzo. Erano azzurri. E lui era Ludwig.  
Il biondo scostò le mani dalle sue e le appoggiò al suo ventre. Sorrise. 
Felicia, quella vera, arrossì violentemente a quel pensiero e spalancò gli occhi. Urlò quasi mettendosi seduta. Lui era lì, la guardava divertito.
-Sei tutta rossa... ma cos'hai, la febbre?- 
A volte era troppo ingenuo. 
La ragazzina scosse frettolosamente la nuca, il fiore le cadde dai capelli castani e finì sull'erba verde, bagnata dal fresco della sera.
Il tedesco si sedette al suo fianco, con una spiga tra le labbra, portando poi le mani congiunte dietro la nuca. Stese la schiena e si lasciò andare disteso. Chiuse gli occhi, godendosi ogni tanto l'alito di vento che gli allontanava i capelli dorati dal viso. 
La ragazzina, lo guardò.  Accennò un sorriso, voleva tanto stendersi vicino a lui...
-Felicia?- la chiamò.
Lei si riprese da un altro sogno ad occhi aperti.
-Mh?-
-Ma tu quanti anni hai?- chiese lui. 
Se l'era sempre chiesto.
Era strano, perché parlavano di tutto ma si erano poco soffermati sull'età. 
-Quindici- rispose lei. 
Portò al petto le ginocchia e guardò il padrone prendersela con una capretta. Sussultò quando lui la picchiò un poco con un bastone. -E' cattivo- disse quasi tra sé. 
-Già...- confermò il ragazzo. -La padrona ti sta cercando.- 
Lei sospirò appena e s'alzò. 
Rientrò lentamente in casa. -Mi avete chiamato?- chiese alla donna, la quale annuì svelta. Le mise in mano un catino e le disse di portarlo al padrone. Era vuoto, doveva riportarlo poco dopo pieno di latte fresco. 
Felicia ubbidì, lo prese e lentamente s'avviò verso il vecchio uomo. 
Quando passò accanto a Ludwig, lo guardò con la coda dell'occhio, sperando che dicesse qualcosa, ma lui aveva ancora gli occhi chiusi e le sue povere gambe erano stanche. Si stava riposando solo un momento e non s'accorse di lei. 
Dunque, la ragazzina coi capelli castani, si avvicinò al padrone gli diede il secchiello. 
Lui sorrise in quel modo rivoltante e lanciò un'occhiata alla sua gonna, così lei si coprì d'istinto con le mani, facendo qualche passo indietro, ancora a piedi scalzi. 
Riempito il secchiello, si preoccupò bene di non toccare la mano rugosa e rovinata dell'uomo che glielo porgeva, così s'avvicinò più svelta alla cucina, per scappare da lui. Sapeva che la stava ancora guardando; poteva sentire i suoi occhi su di sé. 
Entrata in casa, stava per avvicinarsi alla padrona, ma inciampò su qualcosa e finì per rovesciare il latte per terra e farsi male ad una mano. 
La donna la fulminò con uno sguardo, l'acchiappò per il polso e la trascinò con sé, incurante delle sue proteste. Prese un  paio di forbici.
-Ti ci vuole una  punizione!- continuava ad urlare. -Sono stata anche troppo paziente con te!-  
Felicia, in lacrime, la pregava di non farlo, ma lei aveva già preso in mano le sue trecce e la guardava soddisfatta. Ne umiliò una. La ciocca cadde per terra e la ragazzina non poté più trattenere i singhiozzi. 
La padrona la lasciò lì per terra, ordinandole di prendere un altro secchiello.
Ma quando uscì, Ludwig non era lì per guardarla. Né per proteggerla. 
Al pomeriggio ebbero ancora un momento per stare insieme. 
Ludwig osservò stupito la sua nuova pettinatura e lei pianse al suo petto.  
Il ragazzo non la vide mai piangere a tal modo, nessun tentativo di calmarla andò a buon fine. 
La strinse a sé e le carezzò un poco la schiena. -Sta tranquilla, ricresceranno- le disse.
Felicia però non riusciva a smettere di piangere. Fu forse "la goccia che fece traboccare il vaso."
Il biondo sospirò e la lasciò sfogare, ma quando i padroni rientrarono dal paese, dovettero entrambi fare dell'utile per la fattoria. Si lanciarono un'occhiata.
Lud voleva solo una cosa: distruggere quelle lacrime. 
 
 
La sera giunse tardi, più del solito. 
Quando la ragazzina entrò nel porcile, questo non conteneva altro che i maiali e la loro puzza alla quale però s'era ormai abituata. 
Poco dopo il ragazzo la raggiunse. Aveva un nuovo taglio sul viso, quello sulla guancia era scomparso, adesso però ne aveva un altro sul mento. Non disse nulla in riguardo. Le si avvicinò e spalancò lo sguardo. 
"Forse si sentiva brutta" pensò.
Lei abbassò il capo.
Aveva tagliato anche l'altra treccia ed i capelli corti non le stavano poi così male. 
-Come... mai?- bisbigliò lui.
L'italiana accennò un sorriso triste. -Non aveva senso tenerne una sola...- 
Lui annuì e sedette un poco distante, ma lei fece cenno di avvicinarsi ed il biondo non poté che ubbidire. Non senza arrossire, le disse impacciato: -S-sei molto carina, ehm, così, insomma...-
Anche lei si mostrò imbarazzata e le sue gote assunsero una tonalità più rosea. -G-grazie...- farfugliò. Timidamente, si avvicinò alla sua guancia e la baciò in modo dolce.
Ludwig si ritrovò a pensare che, forse, quello era il più bel giorno della sua vita.
Le sorrise goffamente. 
Osservò quegl'occhi, quelle labbra e avvicinò un poco il viso al suo, con gli occhi azzurri socchiusi. Fu qualcosa di istintivo. Gli venne spontaneo, dritto dal cuore. 
Lei rabbrividì appena. 
Iniziò ad avere paura. Cominciò a chiedersi se lui non voleva proprio questo, usarla, andare oltre, ma subito qualcosa le fece cambiare idea. Si fece comunque  indietro e mormorò incerta: -N-no, t-ti prego, io...- 
Il ragazzo riaprì per bene gli occhi ed accennò un sorriso. Appoggiò la mano sulla sua guancia e parlò in modo tenero, con una dolcezza che non gli apparteneva, che non pensava propria. Le disse: -Sono io, Ludwig; e non voglio farti del male.- 
Provò a rassicurarla con uno sguardo. Per fortuna ci riuscì. 
 Pareva ancora un po' spaventata, tuttavia, e il biondo le prese una mano carezzandola dolcemente. Appoggiò le labbra alle sue. Erano seduto l'una di fronte all'altro. Fu il loro primo dolce bacio. Non l'avrebbero più dimenticato. 




 
 
Il sole... 
C'era e non c'era quel giorno, nascosto un po' tra le nuvole giocherellone.
Ludwig era da solo, a piedi nudi, che passeggiava sul viale. Notò una donna d'un tratto, giovane con gli occhiali sul naso aquilino, un po' come il suo, con i capelli legati in una coda di cavallo. 
Non trovò motivo per avvicinarsi a lei più del dovuto e scese lento per la collinetta, con le mani in tasca e gli occhi azzurri che vagavano qui e là. Aveva un'aria più spensierata del solito. Ripensava alla sera prima, a quel bacio... 
Trovata una collinetta più isolata, si distese su di essa con le mani congiunte dietro la nuca. Il padrone non l'avrebbe di certo rimproverato, perché non sapeva fosse lì. Era uscito la mattina presto per andare in paese e non sarebbe tornato prima di pranzo. Lui aveva finito i suoi doveri e si era preso un momento di pausa.
Fischiettava la canzone della sua infanzia, quella che la sua mamma gli canticchiava dolcemente da bambino, con gli occhi chiusi, quando la donna lo interruppe. 
-Tu sei Ludwig, vero?- chiese con un sorriso.
Lui spalancò gli occhi, sorpreso, poi annuì. Non disse una parola. Gli estranei non gli piacevano tanto. Si chiese tuttavia come faceva lei a sapere come si chiamasse. La scrutò per bene. Felicia gli aveva raccontato di una maestra un po' impicciona, chissà se era la ragazza che adesso aveva davanti. Era giovane e forse troppo curiosa.
-Ti chiedi come faccio a saperlo, vero? Tu e lei siete gli unici ragazzi che non vedo mai a scuola. Mi piacerebbe vedervi, prima o poi.- 
La sua gonna leggera svolazzava col vento. Lei non se ne curò. Sorrideva sempre. Non aveva un sorriso particolare né particolarmente bello, eppure lei continuava a sorridere come se fosse l'unica sua salvezza di vita. Continuava inoltre a guardare, con i suoi piccoli occhi verdi, il ragazzo in attesa di una qualche reazione da parte sua ma nulla, proprio nulla!, faceva egli trasparire dal proprio volto. Era freddo, di ghiaccio. E non si captava alcun segnale da quello sguardo chiaro, puro, innocente. Non si vedeva tutto il dolore, aveva imparato a nasconderlo. Però lui stava male. I suoi occhi non versavano più una lacrima, ma il suo cuore piangeva ogni sera. Gli mancava tutto della sua vecchia vita. La mamma, il papà, il suo amato fratellone... 
L'avevano preso in giro tanto, il povero Gilbert, per i suoi colori malati ed il suo sguardo da demonio. E Ludwig, piccoletto, lo aveva sempre difeso, perché questo i genitori gli avevano insegnato. 
L'albino aveva sacrificato la sua vita per proteggerlo. Il biondo era rimasto l'unico in casa, scoppiato l'incendio, e lui si era precipitato a soccorrerlo, finendo però colpito da una trave che aveva ceduto. Stordito, aveva perso conoscenza. Qualcuno prese il piccolo, ma non si curarono di lui. Fu la scusa per togliere la creatura di Satana dalla circolazione. Il bambino tedesco si dimenò, chiamando il nome dei suoi familiari, ma nessuno lo aiutò veramente. Lo sbatterono in Italia, poi da un istituto all'altro ed ora eccolo lì in fattoria.
I suoi genitori non piacevano a nessuno. Probabilmente perché avevano... troppi ideali.  Si erano messi nei guai più di una volta per cercar giustizia.
Studiare gli era sempre piaciuto. Non aveva più potuto farlo.
Per questo, adesso, guardava la donna con un velo di curiosità negli occhi. 
-Noi non possiamo venire- le rispose dopo qualche momento di esitazione. Si mise seduto, aveva tra le labbra un filo di grano giallo. Il vento gli carezzò di nuovo i capelli. 
-E perché no? I tuoi tutori non lo vogliono?- continuò la donna. Era così insistente!
-Non sono i miei tutori, sono i miei padroni- la corresse lui. 
Lei rabbrividì quasi. Non le piaceva quella parola. Lo vedeva già come uno schiavo, legato e torturato e, in un certo senso, lo era. Mangiava quando i padroni glielo consentivano, dopo lunghe ore di lavoro e a volte non aveva come coprirsi dal gelo invernale. Però si sentiva relativamente libero. Era una strana condizione, la sua. 
-Cos'hai fatto sul collo? Le tue mani sono così rovinate...- costatò osservandole.
Il ragazzo scrollò le spalle e alzò il colletto della camicia malconcia per coprire i segni della cinghia.
La calma era finita per lui.
Il padrone il giorno prima l'aveva picchiato, sfogando i malesseri degli ultimi giorni ad ogni colpo di cinghia. Aveva fatto male. Lui voleva pregarlo di smetterla, ma non sarebbe servito, ne era certo. Incassò i colpi in silenzio e non ne fece parole neppure con la ragazzina italiana, perché non voleva si preoccupasse. Voleva vederla felice. Detestava la smorfia di dolore che si dipingeva sul suo viso ogniqualvolta che le dava una notizia simile. 
-Ludwig, i tuoi padroni ti picchiano? A me puoi dirlo! Io voglio aiutarti.-
"Warum?" si chiese subito il ragazzo. "Lei non mi conosce. E se lui venisse a sapere che le ho parlato, mi farebbe male di nuovo. Und ich... voglio stare bene."
Si affrettò a scuotere la testa. -Loro non lo farebbero mai. Sono un po' severi, ma mi hanno dato una casa, un letto e due pasti al giorno. Non posso lamentarmi di questo.-
Conoscendo la propria capacità di mentire, decisamente scarsa, cercò di essere più sincero possibile. Il fatto che fossero severi era certamente la verità. Anche il fatto che gli avevano dato una casa e due pasti al giorno. Beh, anche il letto, seppur fosse costituito da un po' di paglia in un angolo. E anche il fatto che non poteva lamentarsi, altroché! 
La donna sospirò sconfitta. D'un tratto in lontananza il vecchio padrone s'avvicinò svelto. Era di umore nero. Gli affari erano andati male. Aveva venduto a pochissimo prezzo la carne di mucca ricavata dall'ultima perdita che aveva avuto. Dato che l'animale era morto così, senza un apparente motivo, avrebbe voluto almeno guadagnarci qualche cosa. Invece gli affari erano andati malissimo.
S'agitò vedendo il ragazzino parlare con l'estranea ed afferrandolo per un braccio lo trascinò fin dentro casa, urlandogli addosso. Di nuovo, si sfilò la cintura.
 
 
Non persero più occasione per stare insieme. 
In quei pochi momenti di pausa, i due ragazzi, si tenevano la mano o rimanevano abbracciati. 
L'estate stava finendo e adesso il freddo era loro nemico. Alle volte con la scusa di cercare calore si stringevano forte, ad entrambi sembrava di entrare nella pelle dell'altro. Si sorridevano sempre. Ludwig non aveva mai sorriso così tanto. Voleva ancora scappare, ma con rassegnazione aveva capito finalmente l'impossibilità del loro progetto. 
Felicia invece era sempre più oppressa da tutte le attenzioni che riceveva e pensava più spesso alla possibilità di una vita migliore.
Il padrone tornò a tormentarla.
Loro non lo sapevano, ma era la moglie che lo istigava. 
Andava dal marito e gli diceva di continuo: -Riprenditela! E' tua! Sii uomo!- 
Lui non era sempre così convinto di farlo. 
La donna però insisteva. Odiava quella ragazzina, voleva soffrisse le pene dell'inferno. Non le aveva mai fatto niente, eppure lei la detestava. Forse perché era così giovane, così bella, così pura, e tutti la guardavano con ammirazione. Ancora una volta sembrava un angelo. I suoi modi così dolci, così apprensivi! Era meravigliosa.
E la padrona più vedeva che tutti le volevano bene, più si rabbuiava ed abbrutiva. Avrebbe voluto vederla mal ridotta, diventare brutta. Ma Felicia non sarebbe mai diventata brutta. Lei era bella dentro, prima di esserlo al di fuori. E malgrado avesse tagliato le sue belle trecce, la questione poco cambiava. Poco serviva avere capelli lunghi. Alla ragazzina però mancavano.
Le avevano chiesto tutti che fine avesse fatto sua chioma e lei, melanconica, aveva detto che le piaceva cambiare. Non era vero. Le novità non le piacevano. 


 
Comunque sia, la donna, brutta vecchia e cattiva, aveva intercettato quelle occhiate che i due garzoni si scambiavano. Avrebbe solo voluto lui la smettesse di guardare lei. Anche lui è bello, ha gli occhi profondi, intensi, ed i capelli liscissimi e dorati. Perché doveva guardare una sguattera? 
Cercava sempre di interrompere quei momenti dolci tra loro anche se, in realtà, i due ragazzi non si sfioravano neppure se non da soli. 
Quando Ludwig stava svolgendo le sue mansioni, la padrona lo guardava di nascosto. Lui non s'accorse mai di nulla. Era troppo ingenuo ed innocente pure lui. Certo, aveva istinti e bisogni. Ma li teneva costantemente a bada. E solo una persona aveva il suo cuore ed i suoi occhi tra le mani. 
Anche quel giorno lui, la ragazzina italiana e l'anziana donna -non così vecchia, a dir la verità- erano in cucina. Faceva molto freddo fuori e dato che il padrone non c'era, la moglie aveva dato il permesso al garzone di lavorare in casa. Lui stava utilizzando del legno ed un coltellino. Felicia stava cucinando.
La donna, mentre cuciva qualcosa, puntò lo sguardo sul ragazzo. -Tu, com'è che ti chiami?, dovresti mangiare di più. Ti vedo sciupato.- 
Il biondo non rispose subito. Non capiva il suo gioco ma era certo che stesse tramando qualcosa di losco. 
Continuò ad intagliare un pezzo di legno, glielo aveva insegnato suo padre e con anni di esercizio era diventato piuttosto bravo. Ogni volta che poteva rubava un tozzo di legno e lo portava con sé, per dargli forma. Adesso stava cercando di fare un animale e ci stava riuscendo. Aveva finito tutti i suoi compiti e si stava riscaldando un po' al camino prima di tornare al porcile. 
Felicia non dormiva più con lui. 
I padroni, di comune accordo, li avevano separati.
La moglie non voleva vederli insieme ed il marito voleva avere un passatempo per la notte.
Così lei venne chiusa a chiave in quella camera, perché "fuori, in inverno, fa freddo." Ma tutti e quattro la sapevano come una scusa. 
Il tedesco finalmente rispose alla domanda e lo fece con tono piatto. -Mangio quello che mi date da mangiare voi.-
Non gli piaceva doverli chiamare "padrone" e "padrona." Si sentiva uno schiavo. E gli piaceva pensarsi libero. Così evitava sempre, quando poteva. 
-Tu- ripeté le donna, il suo sguardo saettò sulla figura della ragazzina ed il suo tono s'era subito indurito. -Dagli qualcosa di caldo da mangiare.- 
L'italiana un po' incerta annuì e gli scaldò subito un po' di zuppa. Non era molto, era l'equivalente della sua porzione. Immaginò che il ragazzo dovesse avere quella quantità. Ma quando la donna vide la scodella mezza vuota, tuttavia, le diede n ceffone. -Cosa sei, stupida? Ha bisogno di mangiare, o prenderà un malanno.- 
D'un tratto le venne un'idea. Come un'illuminazione, dal nulla. 
-Da questa sera- esclamò. -Tu dormirai al porcile e lui nella tua camera.- 
I due ragazzini spalancarono gli occhi. Lei ubbidì svelta. Lui, no.
-Non è necessario, non mi ammalerò; sono forte.- 
La padrona prese la zuppa e gliela servì bruscamente. -La decisione è presa.- 
Non poterono rifiutarsi. 
Il padrone, fu contento anche lui. 
Quella sera fu la prima dopo molti mesi un cui il biondo dormì in un letto vero, comodo, sotto le coperte.  
La vecchia donna bussò alla sua porta chiedendo permesso. Lui, stupito, acconsentì. Lei si sedette al suo letto e gli carezzò una guancia.
-Signora... ma che fate?-
-Shh, ragazzo, riposa... Hai lavorato molto, devi essere stanco.-
-Perché mi state accarezzando?- chiese lui, mettendosi seduto. 
All'improvviso, un urlo, aprì una ferita sul suo petto. Felicia; doveva essere per forza lei. Subito s'alzò e s'avvicinò alle scale, ma la donna lo afferrò per un polso e gli diede un ceffone intimandogli di tornare a dormire. Lo spinse dentro e, con moltissima fatica, lo chiuse lì. Il ragazzo continuò a battere pugni contro la porta. 
Non gli piaceva maltrattarlo ma non si tratteneva dall'alzargli le mani. Secondo lei, lui lo meritava. -Sei un ingrato! Ti faccio dormire su quel letto, così comodo, e tu che fai? Ti preoccupi per lei.-
Nessuno fece nulla.
La notte calò. 
L'italiana ed il tedesco s'addormentarono esausti. 
 
 
Il giorno dopo il primo pensiero per il tedesco fu di andare da lei. 
Si vestì in fretta, scese le scale (era appena l'alba quando lo "liberarono") e rifiutò la colazione. Uscì svelto di casa, corse al porcile e spalancò anche questa porta. 
-Felicia! Felicia, dove sei?- la chiamò a gran voce. Si guardò intorno. Non la vide. 
Salì le scale in legno per arrivare a quel piccolo piano sopraelevato, ma un gradino si ruppe e lui cadde con un tonfo sordo sulla paglia. Non si lasciò scoraggiare. Riprese a salire e si affrettò negli ultimi gradini, perché vide la ragazza in uno stato pietoso. Era rannicchiata nell'angolino. Aveva ancora la veste alzata. C'era sangue dappertutto. E lei aveva graffi dappertutto. Aveva il viso pallido e le occhiaie. 
-Mein Gott...- disse tra sé il ragazzo. 
Le si avvicinò, incurante della sua nudità, e le prese il viso tra le mani, chino accanto a lei. La ragazzina aprì un poco gli occhi e lo guardò. Avrebbe voluto piangere ma non ne aveva più la forza. Cercava solo conforto.
-Hai bisogno di aiuto...- sussurrò lui. 
Si chinò sull'amata e le diede un bacio sulla fronte. Con gesto di rispetto, prese l'orlo della sua gonna e la coprì, senza neppure guardarla. La sua mano stringeva quella di lei, delicatamente. 
-N-non te ne andare...- lo pregò l'italiana. Lui scosse la testa e le baciò la mano. 
Era inginocchiato davanti a lei. Avrebbe fatto di tutto per farla stare bene. Qualsiasi cosa...
-Sto... morendo?- chiese lei. 
Si sentiva debolissima. Le sue parole erano poco più che un sussurro, il ragazzo doveva prestare particolare attenzione per capire cosa dicesse. Le sorrise, uno di quei sorrisi che donava solo a lei. Rassicurante. Ecco cosa voleva: calmarla. 
-Nein, nein... ci sono io qui con te, lieber.-
Portò la mano libera tra i suoi capelli e l'accarezzò in modo tanto tenero.
Sapeva bene, però, che lei aveva bisogno di cure. L'avrebbe aiuta, in qualsiasi modo, se lo era appena promesso.
Le disse di chiudere gli occhi e di concentrarsi su un pensiero che la faceva sorridere. 
Passarono alcuni minuti.
Lei accennò l'ombra di un sorriso. 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo V. ***


CAPITOLO V.

 
 
Felicia rimase lì da sola per un po'. 
Non riusciva a muoversi e rinunciò presto a mettersi seduta. Osservò il soffitto del porcile.  Con gesto lento scostò una cicca dalla fronte. Continuava a chiedersi perché le fosse capitato questo. Voleva solo che il dolore passasse, che i graffi scomparissero e che Ludwig la tenesse con sé per sempre, proteggendola da ogni male. Si era innamorata e l'aveva capito, ma non pensava a questo adesso. Continuava a guardare in direzione della scala sperando di vederlo spuntare da un momento all'altro. La porta si spalancò. 
Sentì qualcuno avvicinarsi ai maiali e versare la brodaglia di cui si nutrivano dentro l'abbeveratoio, questa persona poi borbottò: -Ah, ma se lo vedo... lo lascio morto, là per terra; scomparire così. Chi si crede di essere, quel ragazzino?!- 
E continuò a blaterare ancora a lungo. Sapeva bene che la ragazzina era lì vicino e poteva sentirlo, ma non se ne curò. Ora come ora, lei era inutile. Così diede una ripulita ai maiali, suo simili, e poco dopo uscì senza degnarla di uno sguardo. Fu molto meglio così. Lei non avrebbe saputo come difendersi. 
Sospirò triste e portò una mano sul ventre, mettendosi distesa su un lato. Sentiva le labbra secche e voleva bere, soltanto qualche sorso d'acqua le sarebbe bastato. Decise di dormire, doveva riprendere le energie e lo sapeva. Chiuse gli occhi e s'abbandonò al mondo non dei sogni, bensì degli incubi.
Il sonno non fu sereno e lei continuava a girarsi tra la paglia, praticamente in dormiveglia. Difatti aprì gli occhi sentendo ancora la porta aprirsi. Poco dopo comparì il tedesco, che subito le si avvicinò e le prese la mano.
-Ich bin hier, mein schatz...- le disse dolcemente. Si decise anche a tradurre: -Sono qui, tesoro mio...-  I pantaloni erano sporchi di sangue all'altezza delle ginocchia; il sangue era quello di lei e la macchia ormai era asciutta. 
Un viso di donna apparve alla loro destra, dalle scale, che subito spalancò gli occhi nel notare le condizioni della ragazzina. Svelta si avvicinò a loro, i capelli castani legati in una coda di cavallo, gli occhiali sul naso. Era lei, la maestra del paese. 
-Felicia! Riesci a sentirmi?- le disse, carezzandole il viso. 
Felicia annuì debolmente. Avrebbe solo voluto stare stretta tra le braccia di lui, guarire con le sue attenzioni e le sue cure. Non voleva estranei, solo lui. 
Lui però era solo un ragazzo e non sapeva come aiutarla, non era pratico di quelle cose, ferite per lui estranee. Le teneva stretta la mano carezzandola col pollice. Quando la donna gli chiese di andare via,  accettò. Procurò una bacinella d'acqua e degli strofinacci e lasciò il porcile, rimanendo fuori,  con le spalle appoggiata al muro che lo teneva in piedi, le braccia incrociate al petto e l'aria pensosa, per assicurarsi che nessuno desse fastidio alle due lì dentro. 
La padrona si fermò a pochi passi da lui, con un cesto tra le mani, e lo guardò negli occhi. 
Lei si sentiva sola. 
Il marito non faceva altro che a dare attenzioni ai due ragazzi -in modi diversi, ma entrambi negativi- ai maiali e ai campi, e lei non aveva nessun altro. La ragazzina era ben voluta da tutti e questo le dava fastidio. Il ragazzo non la guardava. Che le rimaneva? Più niente, ormai. Ma non voleva rimanere in disparte a guardare, voleva piuttosto aggiudicarsi un posto importante all'interno del gruppo, sentirsi importante per qualcuno. Così s'avvicinò al biondo.
-Non dovresti stare qui, a far nulla- gli disse. 
Lui la fissò con odio e non rispose. 
Dal canto suo, non poteva permettere qualcuno facesse del male alla sua amata ed era certo che la donna conoscesse i giochi sporchi del marito e tacesse. Detestava anche questo suo silenzio. Non riusciva a mettersi nei suoi panni? Non riusciva a capire quanto Felicia potesse soffrire sia per il dolore fisico che per quello mentale? Eppure la padrona non fece nulla. Semplicemente, annusò il cielo e gli disse che si stava avvicinando un temporale. Ancora una volta, Ludwig non disse una parola. 
Rimase seduto lì ad aspettare, nel giro di pochi minuti bagnato fradicio, l'uscita dalla maestra dal porcile. Voleva solo sapere come stava lei.
 
 
La maestra avvicinò la bacinella d'acqua alla povera vittima di quell'atrocità. Lei bevve un sorso d'acqua e si sentì un po' meglio. La donna la pulì e fece scomparire tutto il sangue dal suo corpo, medicò con le poche cose che s'era portata dietro i graffi ed infine cercò di farla alzare.
-Felicia... era la prima volta?- chiese prendendo un panno pulito per sciacquarle un poco il volto imperlato di sudore. 
Lei scosse la testa. -Lo... lo ha fatto altre volte.- 
Si tirò su seduta, non senza trattenere una smorfia di dolore, dopo si accoccolò meglio sulla paglia, per stare più comoda. Ci riuscì, per fortuna. Adesso si sentiva meglio e meno sporca.
-Per favore- la supplicò debolmente. -Fate venire qui Ludwig... ho bisogno di lui.- 
L'insegnante fece un cenno positivo col capo e le carezzò un'ultima volta la nuca. Scese le scale, portando con sé la bacinella, gli asciugamani ed alcuni unguenti che diedero un po' di sollievo alla ragazza. Uscita di lì, notò subito il ragazzino, lui s'era quasi addormentato, ma sentendola subito balzò in piedi.
-Come sta?- domandò apprensivo. 
-Così così... fa in modo che riposi e che si nutri sufficientemente, ne ha davvero bisogno. Ludwig, senti...- gli si avvicinò ed appoggiò una mano sulla sua spalla. Lo guardò negli occhi. No, non poteva dare a lui una responsabilità così grande. Scosse la testa e si impose di stare zitta.
Lui non sembrò dare peso a quella proposta non pronunciata, ma subito la pregò di fare qualcosa di veramente importante. 
-Per favore, portatela con voi... qui, lui le farebbe ancora male. Vi supplico, ha bisogno di cure...- 
Puntò quegl'occhi così dolci ed impotenti su di lei, supplicandola come mai aveva fatto in vita sua. Fece un passo verso la donna, con aria implorante. 
Solitamente, preferiva risolvere da solo le questioni, però sapeva bene che quella volta non poteva farcela. Qualcuno doveva aiutarlo.
L'insegnante però sembrò tirarsi indietro ed istintivamente, fece anche un passo nella direzione opposta. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma quello sguardo... non riuscì a dargli risposta negativa. Dovette accettare. Lanciò un'occhiata dentro.
-Lascia che per oggi si riposi. Domani mattina presto mi aiuterai a portarla in paese. Rimarrà con me per un po'...-
Ludwig accennò un sorriso e la ringraziò un paio di volte, poi lei andò via. 
Poco fuori la fattoria incontrò il padrone. Gli si avvicinò furiosa e gli parlò quasi urlando. 
-Lei è un mostro! Dovrebbe vergognarsi! Ha visto in che condizioni l'ha ridotta? E' solo una ragazzina!- 
Due donne di mezz'età si voltarono a guardare la scena, lui però  gridò ancora più forte i suoi: -Non è affar suo!- e l'abbandonò lì poco dopo.
Dunque, la donna, indignata, se ne andò via. Si chiamava Flavia. 
Era giovane e aveva tutta la vita davanti, decisa a spenderla per istruire i ragazzi, seguendo la sua passione, la letteratura. Le era stato dato quell'incarico in quel piccolo paese che poco conosceva, l'aveva accettato con gioia e mai, mai!, avrebbe pensato che le cose andassero così male. I suoi alunni non erano molto presenti e a volte si distraevano per via della stanchezza, ma più che altro tutti apprendevano qualcosa di utile. Avevano età diverse non c'erano vere e proprie classi. Solo una per piccoli e una per più grandi. 
Il suo entusiasmo venne ben presto smorzato. Non riusciva a credere a ciò che era successo a Felicia e faceva avanti e indietro per casa propria, cercando di capire. Non trovò risposta e non capiva come comportarsi, ma una cosa la sapeva: doveva aiutare entrambi i ragazzi. Dopotutto era anche per loro che si trovava lì, nelle campagne italiane. 
Quella sera, prima di prepararsi per la notte, sistemò il salotto per l'arrivo della ragazza.
Quella era appena diventata la sua nuova missione. 
 
 
I ragazzi dormirono di nuovo insieme.
Lei aveva affondato il viso sul petto di Ludwig, che la stringeva a sé con fare dolce e le carezzava i capelli castani. Continuava a parlare per distrarla, ma la ragazzina sembra sempre più persa nei suoi pensieri, gli occhi nocciola fissavano il vuoto. 
I capelli le arrivavano fino alle spalle, rimpiangeva ancora di non avere le sue lunghe trecce ed i fiocchetti che utilizzava per fermarle erano adesso diventati un unico braccialetto al suo polso sinistro. Chiuse gli occhi e si accoccolò a lui.
-Ludwig?- lo chiamò bisbigliando.
Lui aveva un nuovo graffio. Ne aveva uno quasi ogni giorno, ma non gli importava di sé, non più ormai. Abbassò lo sguardo su di lei sgranando un poco gli occhi con fare curioso. -Mh?-
-Promettimi...- iniziò Felicia. -Prometti che verrai a trovarmi?- 
Il biondo annuì e le baciò la fronte.
-Ma non metterti nei guai per questo, te ne prego- e glielo fece promettere. 
Stretta tra le sue braccia prese sonno. 
Aveva mangiato la razione del ragazzo e la propria, i padroni si comportavano come se nulla fosse accaduto, né una briciola in me né una in più. Era tutto normale per loro. 
Si sentiva meglio; aveva riposato, bevuto e mangiato. Il giorno dopo ce l'avrebbe sicuramente fatta a raggiungere quella casa, doveva farcela. 
 
 
Non aspettarono che il giorno dopo giungesse, lo anticiparono.
L'alba non era ancora sorta quando Ludwig la svegliò. A piedi nudi, con le scarpe in mano, entrambi si misero a correre per uscire dalla fattoria, quando furono abbastanza lontani, lui la fece salire sulla sua schiena. Non voleva si stancasse. Rallentato dal suo peso, prese la stradina per il paese, la stessa percorsa dalla maestra il giorno prima, e attesero quest'ultima nella collinetta del loro primo incontro, quando la donna lo sorprese a canticchiare quella canzone in tedesco. Si stesero lì per un po', silenziosi, stringendosi la mano.
Felicia si sfilò il bracciale fatto coi nastri rossi dal polso e lo sistemò con cura nel suo. Accennò un sorriso e, sicura di non essere vista da nessuno, gli baciò una guancia. 
Lui naturalmente arrossì sulle gote, ma fu felice di quel gesto. Significava che almeno un po' stava meglio. 
Passarono gli istanti, i secondi ed i minuti e finalmente Flavia si figurò dinnanzi a loro. 
Li salutò educata e fece strada verso casa propria. L'italiana era di nuovo sulle spalle del tedesco. 
Lui la portò in quella casa e la sistemò sul divano, come se fosse la sua principessa, e le sorrise un sorriso che concedeva solo e soltanto a lei. 
Accettarono entrambi la colazione, poi il biondo fu costretto ad andare via. Prima però baciò la fronte della sua bella e le carezzò la guancia. 
-Ich liebe dich- le sussurrò all'orecchio. Lei arrossì. Ormai aveva capito cosa volesse dire. Non ricambiò quelle parole a voce, ma il suo sguardo lasciò filtrare molto più di un "ti amo anche io."
La maestra li osservò intenerita, nascosta dietro una parete. Lud s'inginocchiò quasi prendendo la mano della ragazzina, accoccolata tra i cuscini.
-Vengo a trovarti presto, te lo prometto. Tu riprenditi, mi raccomando.-
Pochi minuti dopo, era tornato a lavorare nella piantagione di patate.
 
 
 
Non mancò alla promessa.
Quella sera stessa, si presentò alla porta e quando la vide, subito sorrise. 
Lei era tornata quella di sempre. Adesso, come al solito, sorrideva anche, tutta felice, con gli occhi gioiosi e docili. Quando lo vide gli corse incontro e portò le braccia intorno al suo collo. Lui arrossì appena. Lei ridacchiò.
-Come... stai?- 
-Sto bene... E tu?- chiese l'italiana con fare apprensivo. Con la punta delle dita s'avvicinò al suo viso. Non aveva più tagli, ma aveva un alone viola intorno all'occhio sinistro. I padroni s'erano arrabbiato con lui per aver portato via la ragazzina. Era stato picchiato di nuovo, ma non ci faceva più molto caso ormai. La ragazza gli carezzò la ferita con lo sguardo di nuovo triste. Ludwig non riusciva a vederla così. Le sorrise e le prese la mano destra, con la quale lei ancora accarezzava la ferita, e ne baciò il palmo. 
La maestra entrò nel salone ed interruppe quel momento. Tutt'e due arrossirono un poco. 
Il braccialetto rosso era ancora nel polso del biondo, che non voleva più separarsene, anzi, stava attento a non perderlo quando lavorava. 
Rimasero da soli qualche momento, seduto sul divano azzurrino nel salone. Lui si sentiva a disagio in una casa così grande e bella, su quel divano comodo e pulito. Non voleva sporcarlo. Si sentiva un po' sporco anche lui, ma per motivi diversi. 
Lei aveva appoggiato la guancia sulla sua spalla, lui lì sentiva un poco male ma non si lamentò. Voleva sentirla vicina, ne aveva bisogno.
-Andremo via di qui... te lo prometto- le disse. 
Circondò le sue spalle con un braccio e la strinse a sé, accarezzandola con fare dolce.
-E dove andiamo?- domandò lei. Si sporse un po' in modo da guardarlo negli occhi e gli baciò lo zigomo, dove il ragazzo aveva quel brutto livido.
-Lontano. Da soli- provò lui a rassicurarla. Non era un tipo da grandi sorrisi, però voleva che lei si sentisse sempre a suo agio. 
-Ludwig... ho paura. E se io fossi...- 
Felicia sospirò ed appoggiò una mano sul ventre, con sguardo molto triste, che lui ebbe modo di notare. 
Il ragazzo scosse la testa. -Nein. Andrà tutto per il meglio. Adesso devo andare, ma tu dormi tranquilla, tornerò domani mattina.-
Le diede un ultimo bacio dolce ed uscì di casa. 
 
Continuò ad andarla a trovare, mattina presto e sera tarda, in tutti i giorni che seguirono. 
Lei stava sempre meglio, era sempre più serena, oltretutto a casa della donna si sentiva utile. Dava ordine, cucinava, ma era libera, nessuno la maltrattava. Imparò qualcosa dalla donna, anche se non abbastanza per dirsi istruita, non sapeva ancora leggere o scrivere. Ludwig sapeva farlo. Quel giorno provò ad insegnarglielo. 
Sedettero ad un tavolo, con le sedie vicine, lui prese una penna e scrisse su un foglio il proprio nome e cognome, aveva una bella grafia, stile ottocentesco. Il papà gli aveva insegnato a scrivere in modo così bello e particolare. Lo semplificò dopo per lei, scrivendo una seconda parola in modo più chiaro, il suo nome, quello di lei. Si fece dire il cognome e scrisse anche quello. 
Le mise la penna in mano, incitandola a provare, ma lei non era molto brava e ben presto rinunciò con un sospiro affranto. 
Flavia si avvicinò a loro. Leggendo il cognome della ragazza, Vargas, su carta, spalancò gli occhi e si portò una mano sul viso. Non disse nulla per non allarmarli, ma sapeva bene cosa volesse dire quello. Felicia... che fosse lei veramente? Iniziò a chiederselo, indietreggiando fino a tornare in cucina, ricomponendosi svelta per non farsi vedere da loro due così.
Nei giorni seguenti, continuò a chiederselo. 
Ludwig continuò a frequentar quella casa, ogni sera i tagli ed i lividi erano diversi, ma lui era sempre così dannatamente tranquillo... l'amava davvero molto.
Una sera non si fece vivo. Neppure la mattina precedente.
Scomparì per tre giorni. Flavia cercò di inventare qualche scusa, tuttavia non c'era traccia di lui in paese.
Che gli fosse successo qualcosa? L'italiana pianse ipotizzando il peggio. 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo VI. ***


[ Chiedo venia per il ritardo, ma!, è estate per tutti. 
Ho fatto quello che in molti mi hanno chiesto: l'idea mi è piaciuta e l'ho semplicemente messa in atto. Buona lettura! = )
P.S. Il prossimo capitolo sarà l'ultimo! ]




CAPITOLO VI.




La ragazza iniziò a canticchiare tra le labbra mentre con la penna abbozzava un disegno sulla carta. Forse non sapeva scrivere, ma quando la punta sottile di quello strumento toccava il pallido foglio, si sposava con esso così bene da parer quasi che fossero nati insieme, come una cartolina.
Flavia si complimentava spesso con lei, era brava in molte cose e aveva un gran cuore e molto coraggio. Cercò sempre di trattarla bene ed ogni tanto guardava il suo profilo e la riconosceva così simile ad un'altra persona...
"Vargas" si ripeteva. "Sarà lei? Devo scoprirlo."
Le si avvicinò e sbirciò il suo foglio, un giorno. Stava facendo un ritratto di Ludwig, segno che non smetteva mai di pensarlo, e l'insegnate si lasciò scappare un sorriso addolcito notandolo. Era così realistico! 
-Sei davvero molto brava.-
La ragazzina arrossì e con le mani cercò di coprire il foglio e nascondere il carboncino che aveva usato per realizzare quella piccola opera d'arte. 
Decise di concentrarsi sulle sue successive parole, per dimenticare quell'imbarazzo. -Mh? La mia vita prima della fattoria? Beh... io avevo un papà, una mamma ed una sorella maggiore. Lei mi voleva tanto bene... la sera mi pettinava i capelli e se avevo un incubo mi accoglieva nel suo letto. Mi sgridava, però era buona... mi manca così tanto...- disse sospirando appena.
-E se ti dicessi che... Tu aspettami qui. Ho da fare una cosa- concluse lei.
Lasciandola nel dubbio sistemò sulle labbra un poco di rossetto e intrecciò i capelli sistemandoli poi di lato. Infine, uscì di casa.
Si mise in sella alla bicicletta ed iniziò a pedale, il vento le toccava il viso delicato, la gonna svolazzava appena, e le ruote continuavano a girare; alla sua destra e alla sua sinistra solo campagna, qualche mucca mangiava l'erba, qualche pecora la imitava. Due cavalli vecchi e con gli zoccoli incrostati di fango erano fermi l'uno davanti all'altro, come se si fissassero, intorno a loro la paglia bruciata dal sole che poco a poco ritornava a vivere grazie alla pioggia.
Giunse in paese e trascinò con sé la bici, scendendo in fretta da essa. Girò un angolo, ne svoltò un secondo, percorse una stretta strada ed ignorò lo sguardo incuriosito dei paesani che fissavano come inorriditi la straniera. 
Trovò la fonte della sua ricerca, un'osteria, vecchia, in legno, con un'insegna ormai marcia scritta con un errore, la agirò e chiamo: -Lovina? Lovina, sei qui?-
Nessuna risposta. Alzò un poco la voce. 
-Se n'è andata- le disse qualcuno. Parlava un uomo, sulla quarantina, grasso, con le mani che gli puzzavano di vino.
-Come andata? E dove?- 
-Non lo so. Forse la trova alla stazione. E' partita un'ora fa. Ha detto che doveva cercare una persona. Poco male! Combinava solo guai, quella ragazzina, così goffa! E che caratterino!- continuò scuotendo la testa con disapprovazione. 
La donna lo ringraziò appena, stringendo le labbra e si rimise in sella alla bicicletta. Sperò di cuore di trovarla e ri-iniziò a pedalare veloce, finché il fiato s'accorciò ed il polmoni non le fecero male. 
Ma di nuovo campagna, fattorie, maiali (di ogni tipo), cavalli, mucche, cani e pecore trovò sulla strada. E d'un tratto un gregge le bloccò completamente il passeggiò ed un enorme bestiaccia nera iniziò ad abbaiarle incontro. 
-Scusi?- chiamò un vecchio uomo. Lui si voltò solo dopo un po', facendosi largo a suon di bastone sul dorso di quelle povere nuvole bianco sporco col sedere incrostato dai loro escrementi -che stupidi animali, le pecore! Sbraitò un poco e le liberò un piccolo passaggio, le a fatica s'introdusse e andò via. Quest'incedente, seppur piccolo, le fece perdere del tempo prezioso. 
Quando arrivò alla stazione, il treno già sbuffava e lei si sporse per cercar di vedere la ragazza. -Lovina!- 
Una figura esile dagli occhi verdi grandi ed i capelli sciolti, scuri, sulle spalle, si volse verso la direzione dalla quale proveniva la voce, sorpresa. "Chi accidenti mi cerca? Dannazione... dovevo prendere il treno di prima!" si rimproverò tra sé sbuffando appena. Prese la sua umile valigia e si avvicinò ai binari, magari poteva prende il successivo. Questo era appena partito, fumando rumoroso. 
La ragazza aveva indosso un vestito azzurro pallido ed una giacchetta nera. Non era un abbigliamento che le piaceva, ma non aveva trovato di meglio e doveva accontentarsi. Con sé, a parte la valigia, aveva un cesto di pomodori. Li aveva rubati e non se ne vergognava. Era l'unica cosa che potesse mangiare! L'unica da prendere... che aveva avuto la possibilità di prendere. 
-Lovina! Non farlo!- la chiamò Flavia, avvicinandosi a lei. 
Lei si voltò e la guardò negli occhi, freddamente. -Non avvicinatevi. Devo farlo! Mia sorella non è qui, ho raccolto dei soldi con fatica, ed ora posso prendere il treno. Devo trovarla, voi non capite!- Fece un passo ed appoggiò il piede destro, avvolto da una scarpa logora marrone (non le piaceva l'accostamento di colore, ma non aveva trovato di meglio), sul primo gradino del treno.
-Aspetta! L'ho trovata io- le disse l'insegnante sorridendole appena. Sistemò gli occhiali sul naso diritto, non importava se il suo titolo, adesso, non contava. Era solo una persona come tante, che avesse un'istruzione o no non era nulla. Doveva semplicemente aiutare quella ragazza, la quale, sentendola dire ciò, spalancò gli occhi ed il cesto quasi le scappò di mano. Sicuramente, qualche pomodoro le cadde ma lo stupore sovrastò il dispiacere. -Co..come?- ripeté scettica. 
-Allora!, ti smuovi o no?!- la rimproverò un uomo più grande che aveva fretta di salire. La spinse facendola cadere e le passò accanto senza aiutarla.
-Lei è un cafone! Si vergogni!- lo rimproverò Flavia. 
Lovina strinse i denti e lo fissò con odio. Raccolse poi, umiliata, i pomodori riportandoli nel cesto con l'aiuto della donna e riprese la valigia. Si sedette con le su una panchina e si fece raccontare ognì cosa. Urlò la sua rabbia, vomitò le sue emozioni, tutte quante, quando seppe tutto ciò che la sorellina aveva passato e la pregò -con molta, molta fatica- di portarla da lei. 
Si misero in cammino insieme. 
 
 
 
 
Flavia aveva detto a Felicia di stare molto attenta quando qualcuno bussava a quella porta, che non doveva mai fidarsi, e che avrebbe dovuto aprire soltanto a lei e a Ludwig. 
Quando lei e Lovina bussarono alla porta d'ingresso della modesta abitazione -modesta per quella donna di mondo, non certo per chi vive nel porcile coi porci o serve a maniaci ubriachi all'osteria- Felicia esitò un po' ad aprire. 
-Chi è?- chiese, debolmente, e a sentir la risposta lentamente aprì la porta. 
Spalancò gli occhi nocciola che subito si riempirono in un pianto quasi nervoso quando vide la sorella e si strinse forte al suo petto. -Sorellona! Sorellona!- continuò a chiamarla.
Anche gli occhi di Lovina si inumidirono, ma lei badò bene a non versare una lacrima. La strinse a sé e le carezzò la testa. "Quanto mi sei mancata..." pensò ma non disse una parola almeno per dieci minuti abbondanti. Poi le asciugò le sue, di lacrime, e la guardò portando le mani sui fianchi.
-Allora! Stai ancora a piangere? Su, smettila. Ora dimmi: ti sono mancata, mh?- 
-C-certo che sì!- confermò l'altra. Le prese la mano, dolce, e si girò verso Flavia. -Non avete... notizie di Ludwig?- chiese d'improvviso rattristata. La donna scosse la testa e lei chinò la sua. -Amore mio... ma cosa ti hanno fatto...?- sussurrò tra sé con dolore. Si lasciò di nuovo andare al petto della sorella, la quale, capì di dover intervenire. 
Sbuffò appena, un po' teatrale, ed annunciò: -Andiamo a cercarlo, stupida.- 
-Cosa? Dici... davvero, sorellona?-
-Mh.-
-Ah! Lo sapevo! Sei la migliore...- commentò lei sinceramente grata. Prendendo una mantellina ciascuno tra quelle di Flavia, uscirono di casa tenendosi strette per risalire in fattoria. 
Si guardarono attorno, ricordando bene le raccomandazioni dell'insegnante, e lentamente percorsero quella salite che avrebbe portato poi a quella sorta di "casa." 
Ludwig però sembrava scomparso. Non si vedeva da nessuna parte, stando nascoste lì dietro i cespugli, né alla piantagione di patate, né vicino ai maiali... ma dov'era, allora? D'un tratto lo videro. 
-Amor...- sorrise dolcemente Felicia. -Guardalo! E' lui! E' così bello...- 
Ritrovandosi a riflettere su quel pensiero le sue guance si imporporirono. L'altra roteò lo sguardo, le afferrò la mano ed uscì dal nascondiglio. Si avvicinarono al ragazzo, lui, non appena le vide, fece cenno di nascondersi nel porcile. 
Poco dopo uscì il padrone.
-Stai ancora a non fare niente?! Schifoso! Bastardo! Sempre a perder tempo stai, ah!, maiale!- un'altra bella serie d'insulti accompagnati a qualche scappellotto e lui fu di nuovo libero. Si rifugiò ancora al porcile, si avvicinò all'amata e l'abbracciò forte. -Scusami... Scusami, non volevo abbandonarti. Hai corso un grande rischio a venire fin qui, mi farai preoccupare...- sospirò. 
Lei scosse in fretta la testa appoggiando le mani sul suo petto. -Non importa, mi mancavi così tanto! Perché non sei venuto da me, amore mio?- 
-Non me l'hanno lasciato fare; ed ho una cosa per noi. Adesso andate via, ci vediamo dopo. Verrò io a casa della maestra e porterò con me una cosa. Ma tu prepara la valigia, perché oggi stesso andremo via.- 
Poi vennero fatte le presentazioni, Lovina mugugnò sottovoce il proprio nome, con le braccia incrociate al petto, rivolgendogli quasi le spalle e guardandolo -male- con la coda dell'occhio. 
Che tipo, quel tale. Toccare sua sorella così. Ma come osa?
E' tornata, lei, ora; con tutta la sua gelosia. 
 
 
 
La luna era alta nel cielo e abbagliava le nuvole vicine col suo splendore. Di Ludwig nemmeno l'ombra, ancora. Le due ragazzine erano sedute sul divano, la più grande si era addormentata stanca mentre Felicia stava compostamente appoggiata al bracciolo, il corpo fasciato dal suo più bel vestito. I capelli le erano ormai ricresciuti e lei li aveva lasciati liberi sulle spalle e sul petto. 
"Tesoro, ma quando vieni? Ho bisogno di te come l'aria per respirare, come i pesci del mare, come l'estate del sole. Ho bisogno di toccarti ancora e di sentire le tue labbra sulle mie. Voglio il tuo petto, mi sento così bene quando posso ascoltare il tuo cuore battere allo stesso ritmo del mio!" pensò con un sospiro appoggiando una mano proprio sulla sinistra, in direzione del cuore. 
Sentì bussare quattro volte. Era il tedesco, doveva essere per forza lui! 
Quando lo vide lo abbracciò forte e casta gli baciò una guancia. Lui arrossì ed entrò in casa. Le mostrò una busta. Le disse di aprirla. C'erano dentro dei soldi. Un po' se li era guadagnati facendo dei lavoretti di nascosto era già molto che li metteva da parte, prima che lei arrivasse lì, ma non gliene aveva mai parlato. Per quanto ricorda, l'aveva sempre fatto. Una volta lo scoprirono e lo frustarono severamente finché non perse conoscenza, ma lui aveva ripreso a farlo. Erano soldi guadagnati onestamente. 
Il volto per la prima volta era privo di tagli, lividi o graffi, ma le mani erano distrutte. Arrossate, spaccate, il segno di un morso tra pollice ed indice. 
L'unico che aveva salutato era stato Cesare, il cane, che gli aveva dato tanto affetto in quegl'anni. Aveva lasciato alle spalle le attenzioni della padrona, che non l'aveva mai toccato, ma che avrebbe gradito per certo che Ludwig la guardasse almeno una volta come guardava Felicia; aveva dimenticato alle sue spalle le violenze del padrone e della sua cinghia, il letto scomodo, la puzza dei maiali, le patate marce, i fiori secchi, tutto quanto. Adesso era libero. 
Lovina si strofinò gli occhi e si mise seduta. Si avvicinò subito a loro. -Felicia... dove vai? Mi lasci sola?- le chiese, quasi istintivamente, infatti si pentì subito di questa sua sorta di "debolezza." Ma non era riuscita a zittirsi. 
La più piccola guardò negli occhi Ludwig per un lungo istante. Lui annuì ed accennò uno dei suoi piccoli sorrisi. Così, lei, Felicia, le si avvicinò e le prese la mano. -No. Non ci lasceremo più. Verrai con noi. Hai detto di avere dei soldi, vero?- 
L'altra, incerta, annuì e andò a prendere la sua valigia. Tirò fuori dei soldi. Non era molto, ma per lei sarebbero bastati per un po'. 
Flavia uscì fuori dal suo nascondiglio, un muro, e li guardò stretta nella sua giacca da camera viola-azzurro. Si avvicinò alla ragazzina che aveva preso in custodia e la strinse a sé svelta. -Abbi cura di te- le disse. 
Volse la sua attenzione all'indirizzo dell'altra. -Lovina...- abbracciò anche lei. -Mi raccomando, non fare sciocchezze, usa la testa per pensare e non per pensare a qualche nuova maledizione da lanciare! E tu, Ludwig...-
Si fece largo verso il ragazzo ed osservò le sue mani. -Sei diventato un uomo troppo presto. Ma adesso è compito tuo prenderti cura di loro.-
-Io mi prendo cura da sola di me e della mia sorellina!- interruppe Lovi. 
Flavia continuò: -Non far che accada nulla a nessuna delle due- gli sussurrò. Lui lo promise.
Uscirono di casa. 
 
 
 
Il sole era ancora nascosto e quella luce soffusa faceva male agli occhi chiari e delicati del tedesco, ma lui non se ne curò. Disteso sulla paglia, il volto della sua bella appoggiato al petto, continuava ad accarezzarle distratto i capelli, stringendola a sé ogni tanto. La paglia gli sembrava il posto più comodo e quel caretto che li trasportava fuori paese, portato da quel simpatico omino vecchio sdentato era per loro meglio di una carrozza da re e regina. 
Lovina era seduta in un angolo un poco distante, le ginocchia al petto, a sgranocchiar pomodori. E li osservava, un po' melanconica, un poco invidiosa, ma felice per la sorella.
-Ich hab dich so lieb...- 
-Cosa.. significa?- 
-"Ti amo così tanto."-
-Quanto?- chiese lei.
Lui appoggiò delicato le labbra sulla sua fronte. -Molto. Moltissimo. Und du? Mi ami?- 
-Più di quanto riesca a dirti- confessò. 
Il carretto incontrò una buca e sobbalzò. I pomodori finirono addossi ai tre, i quali erano attorniati da enormi sacchi di patate. Risero, spensierati, tutti e tre, finalmente felici. Sì, risero. Forse non l'avrebbero mai più rifatto, ridere così tanto per una cosa così sciocca, ma la vita gli aveva appena dato una nuova strada da percorrere e loro avevano finalmente voglia di vivere davvero. 






 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo VII. ***


Un paio d'occhi azzurri guardarono il cielo.
C'era solo qualche nuvola.
-Sembra un cavallino- esclamò la piccina, poi scoppiò a ridere. Sentendosi chiamare, balzò in piedi e lasciando che il vestitino stropicciato le ricadesse sulle ginocchia, iniziò a correre verso il suo papà. 
Lui si chinò appena ed allargò le braccia per accoglierla, una volta al suo petto la strinse a sé e le baciò una tempia. La sollevò per aria e la vide ridacchiare ancora. La sua bambina rideva sempre. 
Si chiamava Sophie, ed aveva ormai quasi quattro anni. Aveva gli occhi azzurro scuro ed i capelli castani raccolti in due codine laterali, un poco naturalmente arricciate, i dentini bianchi ancora non avevano iniziato a cadere. 
-Also, facciamo la merenda?- le domandò lui. La vide annuire così la portò in casa.
Non era granché, ma per loro era tutto. In legno, in mezzo alla natura, con una mucca che aveva dato latte a tutti i loro bambini ed un asinello che li aveva fatti giocare. Poco lontano, c'era un laghetto con acqua limpida, ancora incontaminata, qualche anatra ogni tanto vi faceva il bagno. 
Ludwig lasciò la piccina solo davanti la sua sediolina, non avevano molto, però avevano una sedia ciascuno, un letto ciascuno, una piattino ed giocattolo ciascuno. 
Sophie aveva la sua bambola di pezza, l'aveva chiamata Mariabella e non se ne voleva mai separare. Qualche volta confondeva il tedesco con l'italiano ed il nome lo storpiava un po' -ma guai a farglielo notare! Si offendeva!
Lei non era la più piccina tra i fratelli: Anna (che il biondo pronunciava alla tedesca) non aveva che otto mesi e stava sempre in braccio alla mamma, suscitando le gelosie degli altri. 
Poi c'erano Heide. Lei aveva ormai nove anni ed era già una signorina, con lunghe trecce bionde e gli occhi nocciola, una passione per il canto e qualche lentiggine sul viso. E Tommaso, che aveva bene sei anni e mezzo ed un amore irrazionale per il suo trenino di legno. Occhi scuri e capelli anch'essi scuri. 
Heide e Tommaso erano seduti già in tavola, lui con una camicia bianca e dei pantaloncini corti, con le bretelle, lei con un vestito largo celeste e bianco. 
Adesso seduta accanto a loro c'era anche la sorellina, che subito si mise e dondolare i piedini dalla sedia, i quali non toccavano ancora terra. 
-Che buon odore- mormorò il tedesco appoggiando le labbra sulla guancia della sua donna. Lei sorrise e gli baciò leggermente le labbra, poi gli fece l'occhiolino e gli mise in braccio la più piccola dei loro figli.
Lui non era uno dei papà della sua epoca e alle volte veniva preso in giro per questo, ma non gli importava. Amava i suoi figli, giocava con loro, dava loro da mangiare, e anche se non faceva loro il bagnetto, aiutava comunque la moglie qualche volta.
Si sedette dunque a capotavola e sistemò Anna su un ginocchio, facendola dondolare un poco, ma stando ben attento a non farla cascare.
Qualche minuto dopo, Felicia sistemò sul tavolo cinque porzioni di torta di mele ed i bambini spazzolarono la loro in fretta. Il biondo ne fece assaggiare un po' alla piccola, che la leccò con gusto dalle dita del papà. 
-Ludwig! E' troppo piccola- si lamentò la mamma, guardandolo un poco preoccupata. 
Lui, asciugandosi le dita in uno strofinaccio, le rispose: -Era solo un assaggio...- 
-Mamma, mamma!- la chiamò d'un tratto il maschietto.
-Sì, tesoro, cosa c'è?-
-Quando torna la zia?- 
-Presto, piccolo. La zia torna presto.- 
-E dov'è andata?-
-In Spagna. Sai dov'è?- vedendo il bimbo scuotere il capino, continuò. -Tanto lontano. Ma poi torna. E allora vi porta un regalo.-
I marmocchi si dissero entusiasti ed in poco tempo scapparono via di casa, per tornare a correre spensierati in gairdino, a lanciarsi la palla un po' improvvisata fatta di stracci legati insieme. E continuavano tutti a ridacchiare tra loro. 
Ludwig finì lento la sua porzione, se aveva imparato una cosa, era questa: gustarsi piano il piatto, ché chissà quando avrebbe mangiato di nuovo. Non avrebbe mai fatto mancare, però, da mangiare ai suoi figli, piuttosto sarebbe morto di fame. Capitò, una volta o due, che saltò i pasti perché non v'era abbastanza zuppa per i pargoli e disse di non avere fame perché loro mangiassero di più. 
Ogni tanto aveva qualche dolore, era giovane, aveva solo ventotto anni, ma ne aveva passati almeno venti a lavorare duramente. 
Gli era rimasta una cicatrice sulla schiena ed una piccola sotto il mento, ma l'importante per lui era essere vivo, avere una famiglia che lo amava e che amava. 
Uscito anche lui in giardino, si sedette sull'erba, con la bambina ancora tra le braccia.
-Guardali, Anna- le disse. -Non sono belli, mentre giocano? Voi dovete crescere sereni, capisci? Non come la mamma ed il papà.-   
Perciò le baciò i capelli chiari e le carezzò dolcemente la guancia rosea. Le parlava spesso in tedesco, non l'aveva mai voluto dimenticare. Lo faceva con i bambini, voleva che conoscessero il loro secondo paese d'origine (perché erano tutti nati in Italia) e allo stesso tempo voleva non crescessero ignoranti e bigotti; e allora insegnava loro a leggere e scrivere e far qualche conto. 
Anche l'istruzione dell'italiana era molto migliorata anche se talvolta, quando il marito le insegnava, lei sbuffava e diceva di avere troppo da fare con la casa per mettersi lì ad imparare notizie storiche inutili. 
Lui allora le prendeva la mano, la stringeva da dietro, per non farla scappare e le baciava il collo, e la sentiva ridere dolcemente. 
Lei si impegnava. E faceva dei disegni meravigliosi, con le poche cose che aveva a disposizione. Un giorno, per il suo ventiduesimo compleanno, lui le portò dei colori nuovi. Non erano tanti, era stato tutto quello che aveva potuto permettersi, ma lei si sentì la donna più importante al mondo. Diceva sempre: "Non importa se abbiamo poco, abbiamo noi stessi e la nostra famiglia, e allora abbiamo tutto."
Pensandoci su, ora, il biondo accennò un sorriso. 
Prese le manine della piccola e le carezzò col pollice distrattamente, gli occhi erano fissi sugli altri bambini. 
Felicia si sedette vicino a loro, aveva in mano un blocco da disegni ed uno di quei carboncini che aveva custodito religiosamente da cinque anni prima. Iniziò ad abbozzare qualcosa, mentre una ciocca di capelli le scappava dalle trecce e le nascondeva una parte del suo occhio bello, quello sinistro; il marito gliela sistemò. 
Poi notò i bambini litigare. E s'incupì. 
-Liebe, prendila un attimo- chiese, e sistemò Anna tra le braccia della madre, dopo essersi alzato. S'avvicinò i bambini che si fermarono e puntarono gli occhi su di lui, poi abbassarono il capino.
-Cosa vi avevo detto?-  domandò retorico incrociando le braccia al petto, severo. 
-Scusa...- risposero in coro loro due più grandi.
-Siete bambini, esseri umani, non dovete alzarvi le mani, klar? Gli animali si fanno male, non le persone.- 
Il maschietto osservò la sorella maggiore e sbattè un paio di volte le palpebre dubbioso. -Non volevo tirarti i capelli.-
-E io non volevo spingerti.- 
-Fate la pace, forza- intervenne il papà. 
E quando i bambini ebbero ubbidito spuntò la piccola Sophie con un libro dalla copertina ormai logora tra le mani. -Vati! Ce lo leggi?- chiese impertinente. 
Lui annuì. Ritornò a prendere Anna, perché la moglie potesse rilassarsi un po' da sola, libera dai doveri di casa e sistemandosela di nuovo tra le braccia, iniziò a leggere, una volta in cerchio coi figli.
Felicia sorrise. 
Staccò il foglio già abbozzato dal blocco e ne prese uno pulito, quello l'avrebbe continuato un'altra volta, adesso aveva davanti un meraviglioso quadretto familiare.
Abbozzò il cielo, le poche nuvole sottili, disegnò quel dono che Dio le aveva messo accanto come marito, le creature più dolci che avesse mai potuto avere in grembo per nove mesi ciascuna, il bambino più sveglio e le bambine più belle che avesse mai conosciuto e visto. 
Poi accennò al laghetto, con le sue paperelle bianche che facevano un po' di schizzi agitandosi tra loro. Riuscì a scolpire su carta la tranquillità di quel momento, poi piegò di più le ginocchia al petto per facilitare il disegno delle sfumature, appoggiandosi al tronco di un albero.
Sfiorò appena il volto di Ludwig, nel disegno appena volto verso destra, ed istintivamente sorrise. "Amore mio, sono così fiera di te. Sei diventato un meraviglioso padre, sei venuto da una situazione così brutta, ma non hai mai alzato un dito sui tuoi figli. Non potrei chiedere di meglio, al mio fianco, se non un uomo così forte e coraggioso. E.. bello." Ed il sorrisetto si colorò di furbizia. Li osservò ancora e fece qualche dettaglio, poi si voltò verso il suo Dio e lo ringraziò ancora una volta, per averle dato la forza di andare avanti. 
Ludwig non l'aveva mai costretta a fare nulla, aveva rispettato il suo dolore ed aveva aspettato fosse pronta a fare l'amore, senza affrettare minimamente i tempi. La prima loro bambina nacque quando lei aveva diciotto anni e lui ne aveva diciannove. Si erano da poco sposati ed avevano appena iniziato a sistemare la nuova casa che con mille difficoltà avevano trovato.
Lei ricordava ancora guardarsi con meraviglia e stupore allo specchio, osservarsi il pancione e promettere al nascituro tante cose. Che non avrebbe mai lasciato che gli (o le) facessero del male, che l'avrebbe sempre protetto o protetta, che gli/le avrebbe per sempre voluto bene, qualsiasi cosa fosse accaduta.
Ricordava anche Ludwig promettere qualcosa.
Ricordava aver sentito al sua mano accarezzala sul ventre, delicato, dolce, protettivo, e sussurrare con occhi tristi ma deciso: "Io non ti alzerò mai un dito, te lo prometto."
Aveva mantenuto la promessa, con Heidi e con gli altri tre. 
Felicia si sentiva realizzata così, non avvertiva la necessità di avere un altro figlio, lei stava bene con quattro meraviglie accanto, una casa ed un marito. Lui, e le sue mille iniziative per dare a tutti loro una vita migliore.
Aveva sentito di una donna con undici figli e quella notizie le aveva dato un brivido lungo la schiena. 
Quella sera, a letto, ne parlò con Ludwig, infilandosi sotto le coperte accanto a lui, i capelli sciolti le ricadevano disordinati sulle spalle. Si accoccolò al suo petto ed ascoltò i battiti del suo cuore.
-Ho sentito della signora Pia. E' di nuovo incinta. E' l'undicesimo- mormorò, attenta ad una qualsiasi reazione. 
Lui era stanco, aveva lavorato dalle prime luci dell'alba sino a poco prima l'ora della merenda, poi aveva giocato coi pargoli, ed anche quello era stato stancante, seppure bello. 
Le carezzò i capelli, fissando il soffitto. -Cosa ne pensi, du?- chiese, sinceramente curioso.
-Che non è giusto. Lei non è un oggetto che serve solo a mettere al mondo i figli. Lei è un essere umano e merita dignità.- Parlò decisa, mettendosi seduta. 
La spallina della camicia da notte le ricadde sul braccio, ma non se ne curò. Qualche ciocca di capelli le copriva le nudità che quella stessa spallina stava per lasciare scoperte. Quasi non se ne accorse. Lui però la invitò a coprirsi, così lei lo ubbidì.
Poi disse la sua. -Ich weiss das. Ma evidentemente suo marito non ha alcun rispetto nei suoi riguardi; e allora non si preoccupa di darle ancora il suo seme.- 
Le scappò un sorriso. Sfiorò il petto con le dita e poi sistemò una ciocca di capelli biondi via da quegl'occhi azzurro cielo. 
-Lo so, a che pensi. Non voglio altri figli. Sto bene così.-
-E se arrivassero, invece?- insistette lei.
-Non possiamo buttarli via, in quel caso. Ma faremo in modo, ehm, che non... avvenga.-
-Sei arrossito!- lo prese in giro l'italiana. Si distese su di lui e si strinse. -Non preoccuparti. Noi donne sappiamo sempre come fare- spiegò enigmatica facendogli l'occhiolino.
Il biondo si limitò ad annuire, anche se era alquanto dubbioso a riguardo.
La coprì per bene e la guardò per un poco addormentarsi, poi la sistemò al suo fianco, circondandole le spalle con un braccio.
-Ich liebe dich.-
-Ti amo anch'io- sussurrò lei in dormiveglia. 


Ludwig guardò il cielo. 
Buttò via la spugna centrando il secchiello di fragile materiale per un terzo pieno di acqua e sospirò. 
Non era solo il cielo grigio, quel giorno. Anche lui soffriva ogni tanto. 
Lo sapeva, che era meglio che nessuno capisse nulla, neanche Felicia, perché era lui che l'aveva sempre incoraggiata e le aveva sempre detto di lottare. 
Chiuse gli occhi per non vedere gli ambienti così sfortunatamente familiari di una stalla; s'appoggiò alla parete. 
"Mi manchi, Bruder.." pensò tra sé nella sua lingua madre, lasciandosi scappare una lacrima. Non era sua abitudine, però.. 
Non si può sempre essere perfettamente forti. 
Qualche volta la corazza va scalfita.
Asciugatosi la lacrima, deglutiti i cattivi pensieri, ritornò a pensare che il fratello albino non avrebbe mai voluto vederlo piangere per lui. Riprese il controllo e appoggiò una mano sul dorso della mucca, i piedi incrociati e la mano destra a scacciare qualche lacrima. Alzò lo sguardo e lo roteò un paio di volte in modo da scongiurare il rischio di inumidire gli occhi, poi si schiarì la voce. 
Sentì subito la moglie giungere dietro di lui, avrebbe riconosciuto i suoi passi tra mille.
-Cos'hai?- chiese lei. 
Avrebbe riconosciuto quegl'occhi tra mille e sempre avrebbe saputo interpretarli. Si avvicinò a lui e gli cinse il collo con le braccia, carezzandogli accorta i capelli biondi.
-Nulla..- rispose lui abbracciandole i fianchi. La sollevò un po', facendola ridere e sorridendo a sua volta, e le baciò le labbra. E ripetè: -Nulla.- 
-Sei molto stanco... non tornare tardi- gli fece promettere appoggiando una mano sul suo petto. Sapeva che stava male, ma non volle insistere. Lo guardò negli occhi e quando fu sicura che l'avrebbe ascoltata,  si voltò. All'uscita della stalla c'era la piccola Sophie. Le prese la mano e la riportò in casa. Lei saltellando una o due volte seguì la madre, ma non arrivarono sulla soglia di porta che una voce da dietro li richiamò all'ordine.
-Insomma! Neanche si saluta?- mugugnò una voce sentitamente offesa. 
Voltandosi entrambe spalancarono gli occhi. 
-Zia!- esclamò la piccina e corse incontro una donna con un abito non troppo semplice ed i capelli sciolti, che appoggiò la mano sul suo capo. 
-Bambini, venite, è tornata la zia!- 
Heide prese in braccio la piccola Anna e corse col fratello alla porta; poi si avvicinarono svelti e salutarono anche loro. 



Camminavano ormai da mezz'ora tenendosi per mano, finalmente avevano un momento per loro, perché i bambini erano con la zia, la quale li aveva appunto invitati ad uscire per prendere un po' di tempo da passare da soli. 
I piccoli erano rimasti a giocare con la palla nuova, tonda, perfetta, proveniente dalla Spagna, se la passavano con le manine e la calciavano, stando attenti a non sporcarla, perché era la prima volta che la usavano, e non volevano si rovinasse. 
Loro non lo sapevano, ma qualche volta anche gli adulti avevano gli incubi. 
E gli incubi dei loro genitori, scombussolavano il sonno di quei poveri due ragazzi, che si stringevano notte tempo l'uno all'altra, cercando l'affetto che per molto gli era stato negato. 
Non pensavano nient'altro che a loro, passeggiando come due ragazzini alla prima storia d'amore -ma dopotutto, cos'erano se non questo? Due ragazzini cresciuti troppo in fretta, senza altra compagnia che loro stessi e il loro amore.
D'un tratto sentirono qualcuno gridare forte e la stretta delle loro mani divenne più ferrea, s'intensificò. Il ragazzo per tranquillizzarla prese ad accarezzarla col pollice. Aveva dedotto il suo pensiero, perché era lo stesso che aveva avuto lui e che malgrado il passare degli anni non se n'era mai andato. 
Non piacevano a nessuno dei due le grida, né i rumori forti. 
La signora Pia sembrava distrutta, alle prese con troppi figli, tutta da sola a badare anche alla casa e nuovamente incinta, con quel pancione indecente che non si addice più alla sua età. Felicia si chiese come facesse ancora a procreare.
-Pare molto stanca. Non voglio ridurmi così, Ludwig- chiarì riprendendo a camminare. Aveva il terrore di diventare brutta, tozza, goffa, con la gobba. Di non sentire più il suo innamorato dirle: sei bellissima.
Lui la prese per la vita e la costrinse ad appoggiarsi al tronco di un albero poco lontano, riparato dalla vista altrui, e la baciò con passione, senza però usare violenza su di lei, senza farle male, pronto a spostarsi nel caso lei non sia favorevole a quell'approccio. 
Stavano sempre ben attenti a calibrare tono di voce e parole, sia per i bambini, sia per sé, perché per rispettare gli altri, prima di tutto sapevano di dover ritrovare l'amore per sé stessi.
L'italiana ricambiò il bacio e gli carezzò la guancia. Si strinse a lui quando sentì un brivido attraversarle la schiena. Appoggiò le mani al suo petto e con lo sguardo gli chiese un altro bacio; lui non esitò a donarglielo. 
-Sei sempre così dolce.. come fai? Non ti arrabbia mai...- domandò lei. 
-Non potrei mai arrabbiarmi con le persone che amo- ed insieme conclusero: -siamo persone, non animali.- Poi ridacchiarono. 
Quelle erano le parole più importanti per loro. 
Sebbene molto nervosi, stressati o infuriati, non potevano permettersi di alzare le mani su qualcuno; a meno che questo qualcuno non stesse ferendo un loro stretto familiare. Per esempio uno di quei ladruncoli di cui avevano sentito ultimamente. 
Per fortuna, non vi era un alto tasso di delinquenza in quello sperduto posto di campagna, terribilmente pacifico, silenzioso, paradisiaco; si chiedevano qualche volta se ai loro bambini non spettasse qualcosa in più. Se essi, crescendo, non avrebbero preferito trasferirsi in città. Studiare, studiare molto, per magari insegnare, fare il medico o l'avvocato. Non glielo avrebbero impedito e si sentivano sinceramente in colpa per non riuscire ad assicurargli qualcosa di meglio della vita alla loro modesta casetta. Li mandavano a scuola, certo, e li lasciavano tranquilli nel pomeriggio. Soltanto Heike e Tommaso aiutavano i genitori nei lavori del giorno, qualche volta anche la piccola Sophie, decisamente vivace, perché si imponeva come "bimba grande." 
Ludwig una volta si chiese se avesse sbagliato a dar a due figli su quattro nomi tedeschi; nessuno li aveva mai presi in giro, ma gli altri bambini erano spesso cattivi e persecutori. Si augurava ogni giorno che i suoi vivessero una vita piena e felice. 
Adesso lui teneva stretta quella mano, scendendo per le strade del paese guardandosi intorno. Non capivano come mai, ma la gente li osservava spesso. Fissava le loro mani unite, il modo in cui il papà prendeva in braccio i suoi bambini, qualche donna lo riteneva raccapricciante ("E quello sarebbe un uomo?"), molte altre invidiavano Felicia, perché non doveva occuparsi di ogni cosa da sola.
Scesero anche quel giorno in Chiesa, soltanto perché l'italiana lo voleva. 
Il biondo si chiedeva, inizialmente, come lei potesse riuscire a pregare tanto e forse un po' ora lo aveva capito, ma non sarebbe comunque mai diventato un ottimo credente. La affidò all'entrata della casa di Dio e la salutò con un bacio sulla guancia. -Devo fare una cosa, ci vediamo tra un po'- le disse.
Lei sistemò un fazzoletto scuro sul capo, in segno di rispetto, ed avvicinandosi ad alcune conoscenti prese posto ed iniziò a pregare con loro.
Il tedesco scese fino in piazza e voltò l'angolo alla destra della fontana, andando dieci metri più in là della libreria modestissima con l'insegna verde; allora giunse dinnanzi il salumiere, poi salutò qualcuno, cordiale.
Ed entrò in un piccolo locale. 
-Salve- fece. 
Nessuna risposta. 
Si schiarì la voce e di nuovo: -Salve.-
-Calma, calma. Cosa c'è, chi parla?-
-Sono io. Avete qualche lavoro per me?- chiese, e pregò che l'uomo che aveva ora davanti dicesse di sì.
Solitamente non era roba grossa. Piccoli aiuti che gli facevano guadagnare qualche soldo, alcune consegne da effettuare, un aiuto per il trasferimento del sindaco ad una casa più grande, dipingere una parete o due; niente più di un semplice lavoretto.
-Una proposta per te ce l' avrei- annunciò quel tale. 
Lo scrutò poi come si fa con un soldato indisciplinato, notò il suo volto magro ma le braccia forti di chi conosce il duro lavoro, le occhiaie sotto i suoi occhi, segno che la notte non era necessaria per riposarsi, i vestiti non propriamente nuovi, indice che sì, quel lavoro gli sarebbe servito ma che forse non avrebbe speso per sé il ricavato.
-Senti un po', hai famiglia?- 
-Sì, signore. Ho una moglie e quattro figli- rispose lui.
-Ah, una moglie. E come si chiama?- 
-Voglio solo lavorare, se non c'è niente, vado via.-
-Eh, quanta impazienza! Dimmi, lei è bella?- 
-Sì, signore. Per me lo è senza dubbio.- 
-Portala qui- continuò questo. Si sistemò il sigaro tra le labbra, sotto i baffi, e buttò via un po' di fumo. -Posso trovarle un lavoro.-
Ultimamente, avevano bisogno di più soldi, era vero, ma il ragazzo aveva paura di affidare ad un estraneo la sua donna, lei era sì bella, ma fragile; nessuno avrebbe più potuto sfiorarla, glielo aveva promesso.
-Non avete niente per  me?-
-No. Ma per lei sì.-
-Posso farlo io.-
-Cosa, servire ai tavoli? Non scherziamo. Ho bisogno di una donna. Mia figlia, con suo marito, ha da poco aperto una taverna. Niente di ché- minimizzò con un gesto della mano ed una smorfia -ma cercano una cameriera. Bella presenza, sorriso. Non deve fare niente di niente: servire una birra, un zuppa calda, del pane. Può riuscirci?-
-Altroché, signore. Ma non voglio lei lavori.-
-Giovanotto, giovanotto, non essere frettoloso. Pensaci bene, le cose stanno cambiando. Lei ha diritto di lavorare, chiedile se le va, riflettete insieme. Poi, mi darai la risposta. Ti aspetto qui domani pomeriggio. Sono fiducioso.- 
Ludwig uscì di lì dopo averlo doverosamente ringraziato e sospirò via un po' della sua inquietudine. Non poteva starsene solo a badar alla fattoria, mentre lei lavorava; era lui che doveva mantenere la famiglia, era lui l'uomo, e non viceversa. 
Avrebbe continuato a cercare e non gliene avrebbe fatto parola, era fuori discussione. 
Quando Felicia uscì dalla chiesa, un mano ossuta l'afferrò per il polso, lei sussultò e si voltò di scatto. 
-Signora Susanna! Mi avete messo paura..- 
-Cara, un momento, ho da dirti una parola. Il mio povero Gino è tanto stanco...-
-Oh, mamma mia, ma che c'ha? Si è preso un malanno?- domandò agitata, appoggiando una mano sul petto. 
-E' il malanno che colpisce tutti gli uomini: la vecchiaia. Pure io sono stanca! Una vita a lavorare, sono stata, una vita intera, ti dico; e i dolori mi tengono sveglia la notte. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti. Perciò, ho pensato a voi, a te e tuo marito.-
La ragazza sfoderò un bel sorriso a quella parole e si avvicinò un poco a lei per non impedire il passaggio d'uscita e d'entrata alla chiesa. 
-Io voglio lavorare, signora, ma ho una bambina piccola, dove la lascio? come faccio? Ora è con mia sorella, ma lei tra poco se ne parte di nuovo e allora devo restare io con la bambina.- 
-Oh! E che problema c'è? La porti con te. Ho sempre voluto dei nipotini.-
-Voi siete tanto buona con me, ma l'altra mia bambina c'ha quattro anni, non va ancora a scuola, e non posso angustiarvi pure con questa mia altra figlia.-
Detto ciò si voltò verso l'altare e, quasi a scusarsi, si fece il segno della croce. 
-La casa è grande: troveremo posto per tutti. Vieni domani pomeriggio.-
Felicia la ringraziò ancora una volta, poi si strinse nello scialle ed accelerò il passo. Si avvicinò al marito, che vide appoggiato al muretto immerso nei suoi pensieri a fissare il cielo. Si fermò a due metri da lui e lo osservò, giocando nella mente col suo profilo. 
D'un tratto, quando lui si sentì osservato, abbassò lo sguardo e le andò incontro, senza però baciarla, sebbene lo volesse, perché erano ancora davanti la Chiesa e non era cosa da fare. Si allontanarono di nuovo, ma entrambi muti. 
-Senti, Ludwig... la signora Susanna mi ha proposto una cosa- incalzò lei, muovendo nervosamente le mani. 
-Mh? Was?-
-Andare a lavorare da lei. E dai, ti prego, fammi spiegare. Non fare quella faccia. So che non vuoi, ma è per portare a casa qualche soldo in più. I bambini iniziano a crescere e tra poco non si accontenteranno più di una bambola di pezza o un trenino in legno.- 
-Noi ci siamo accontentati di molto meno.-
-Sono io che non voglio si accontentino- rispose più decisa la giovane donna. 
Lo guardò come solo una donna sa fare con il proprio marito e si convinse di continuare. -Vuole parlarmi domani pomeriggio ed io c'andrò. Se tu non vuoi venire, non t'obbligherò di certo, ma non mi priverai di quest'opportunità.- 



Una nuvola passò nel cielo, sorvolò il sole e andò via, esattamente come un brutto ed improvviso pensiero.
Ludwig non aveva ancora avuto modo di parlare alla sua bella moglie della proposta fattagli da quel tale e non aveva ancora intenzione di abbozzare alcunché. Lei non doveva lavorare. Forse, come molti uomini del suo tempo, aveva paura dell'emancipazione femminile? No, non era questo. Ma voleva lei potesse vivere libera da qualsiasi obbligo, ben lontana dal peso di mantenere una famiglia; e non sapeva però che era questo ciò che lei desiderava. Aiutare il marito a rendere più felici i loro figli. 
Fece finta di niente, preparò la cena, la colazione ed il successivo pranzo, quando venne l'ora era già pronta per scendere giù dalla città e recarsi poi a casa della signora Susanna, che era una delle donne più eleganti del piccolo paesino delle campagne italiane di quei tempi. 
Si diceva in giro che era stata una cavallerizza e che aveva vinto alcuni premi, ma forse erano solo voci da strada. 
Intanto, però, lei ed il marito Gino avevano alcuni cavalli nella loro fattoria e sui genitori di questi e sui loro nonni erano andati in groppa e al trotto ai tempi della loro gioventù. Felicia non aveva mai cavalcato. 
Si strinse nello scialle ancora una volta, quel giorno faceva piuttosto fresco, strano, era insolito quel clima per la stagione. Affidò i bambini alla sorella ed uscì di casa, testarda, per andare alla dimora della donna, ignorando le inutili lamentele del marito che, orgoglioso, non aveva voluto seguirla.
Da sola, con dignità, attraversò le strade del paese salutando tutti con una parola ed un sorriso cordiale. Poi intraprese con delle scarpe che ricordava di aver sempre tenuto ai piedi un stretto vicolo in salita. Lo percorse nella sua interezza e bussò poi alla porta di casa. 
Una porta di legno chiaro, con una piccola sezione in vetro nella parte centrale. Il campanello suonò e qualcuno venne ad aprire. 
Mentre il colloquio di consumava, il tedesco rimuginava zappando la terra sul da farsi. D'un tratto sospirò pesantemente, buttò via i suoi attrezzi del lavoro e si lavò le mani. Sistemò i vestiti ma li lasciò comunque macchiati di terra rossastra su una parte della braccio destro, poi a passo svelto si diresse anhe lui dai due benestanti consorti. 
Quando arrivò, Felicia era su sulla porta., pronta a tornare a casa. Sorrideva, sembrava finalmente spensierata e felice, non più angustiata dai molti problemi che l'affligevano ultimamente.
"Che idiota sono stato" si rimproverò e si avvicinò schiarendosi la voce. 
-Ludwig...- fece l'italiana sorpresa. Lo vide venirle incontro e accennò un sorriso nella sua direzione. 
Gino e Susanna sorrisero. -Devo dedurre che.. accetterete questo lavoro?- 
-Sì- rispose il biondo. 
Prese la mano della sua bella e la strinse. -Lo accettiamo entrambi, di qualsiasi cosa si tratti.-
La ragazza lo guardò innamorata ringraziandolo con quel sorriso che, Dio, nascondeva il sole. 
Decisero gli ultimi dettagli insieme. 
Avrebbero finalmente potuto avere la vita che volevano per i loro bambini e per loro, lontani da stenti e dalla cattiveria della gente.
Potevano finalmente camminare a testa alta, fieri dei loro progressi. 
E non potevano che amarsi fino alla fine dei loro giorni. 









..Salve.
Ho messo questo capitolo decisamente in ritardo, quasi stavo per cancellare tutto, ma un ultimo capitolo... beh, dovevo metterlo.
Spero mi scriviate qualche parole. Mi sono impegnata, comunque, per questa storia, mi è piaciuto scriverla, ho pianto e ho riso e vi ringrazi per essere giunti fin qui.
Questa è la fine, signori! 
Non spenderò altre parole. 

Grazie ancora. 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1947256