un giorno di sole di mxm_november rain (/viewuser.php?uid=407474)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo ***
Capitolo 2: *** capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** capitolo 7 ***
Capitolo 1 *** prologo ***
Prologo
Questa è la storia di due ragazzi che non hanno mai conosciuto l’amore.
Che sono stati schiacciati dalla crudeltà del mondo e ridotti a misere ombre,scure ed erranti, perse in una notte vuota.
E di come, solo trovandosi, siano tornati a sorridere e a brillare, simili a stelle del cielo.
E a scoprire l’amore.
Questa , è la vera storia di come si impara ad amare.
…
Un altro giorno di pioggia alla Wammy’s house. Uno come tanti altri: freddo, umido e spento. Eppure a Mello piaceva la pioggia e quando la gelida acqua dell’Inghilterra precipitava violenta e inondava le campagne lui era sempre lì, appollaiato sul balcone della finestrella nella sua stanza ad osservare. Precisamente non guardava nulla in particolare. I suoi occhi azzurri vagavano nel grigio del cielo e si tingevano a loro volta dello stesso colore. Forse cercavano qualcosa. Forse attendevano qualcuno. Mello non sapeva dire con certezza cosa fosse, eppure era da tutta la vita che aspettava. Magari un raggio di sole, rosso e luminoso, che arrivasse a cancellare tutto quel grigio opprimente.
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Capitolo 2 *** capitolo 1 ***
Matt
Il cielo si colorava di un azzurro
limpido il giorno in cui Mail Jeevas era venuto al mondo, tuttavia,
già in
quella tiepida mattina di settembre si sentiva nell’aria che
l’estate ormai era
finita, non era più tempo di indugiare ma bisognava
prepararsi per un altro
gelido inverno.
Qui, in una casetta quasi da fiaba, spuntata chissà come fra
le dolci
colline dell’Irlanda, c’era una donna, poco
più che una ragazzina, con grandi
occhi verdi. Lei pareva essere sempre stata lì, un raggio di
luce le illuminava
il viso puerile e i capelli arruffati in nodi indistricabili. Guardava
fuori,scrutando
il paesaggio leggermente assorta poiché pensava che
l’inverno non le piaceva
affatto. Anzi, la verità era che lo odiava, ne detestava il
freddo perfido, e
l’idea che presto sarebbe tornato con il suo manto ghiacciato
era solita
toglierle di colpo il sorriso. Tuttavia non quel giorno. Oggi nessuno
avrebbe
potuto impedirle di essere felice, perché proprio quella
mattina di settembre
era nato il suo bambino. Un batuffolo assonnato che subito, dopo aver
pianto
per cerimoniale ed aver ciucciato un po’ di latte, si era
rimesso a dormire un
sonno profondo tra le braccia della mamma. La donna con gli occhi verdi
sorrideva sorpresa che quell’esserino innocente dai cappelli
rossi e fini, il
quale in quel momento ronfava beato, fosse lo stesso che le aveva fatto
sudare
sette camicie, poche ore prima. “Mostriciattolo”
sbuffava
la ragazza, ma fingeva solo di crucciarsi.
Certo, il parto era stato difficile ma ora erano in due in quel lettino
e si
sarebbero aiutati. Mail Jeevas, il suo bimbo. Nome scelto in tutto e
per tutto
dalla mamma: Mail si chiamava il padre della ragazza mancato da poco e
quindi
la creatura avrebbe avuto il nome del nonno. Invece Jeevas era il suo e
così
quel bebè portava avanti il cognome della madre per ancora
una generazione. Ma
in fondo cosa importava? Eccolo finalmente, ripagata delle sue attese:
il suo
Matty, così lo avrebbe soprannominato lei per abbreviare, il
nomignolo
affettuoso di una mamma.
Tutti gli altri lo avrebbero
chiamato Matt, carino; eppure quella “y” di Matty
era solo riservata a lei. Ma
tutto questo sarebbe venuto comunque dopo, una volta cresciuto. Una
fastidiosa
fitta allo stomaco fece mancare il fiato alla ragazza, ma solo per un
momento.
Sarebbero stati bene, lei e il suo Matty, sempre insieme.
I grandi occhi della donna vagavano ora sui
capelli scompigliati e rossastri. Rossi come quelli del padre.
Un’altra fitta
di dolore, più acuto; questa volta era il cuore a bruciarle
nel petto. La
verità era che Mail non avrebbe mai conosciuto suo padre. Ma
perché così tanti,
brutti pensieri? In fondo mica tutti i bambini nascono con la mamma e
il papà e
lei avrebbe semplicemente finto che “lui” non fosse
mai esistito. Avrebbe fatto
tutto da sola, come sempre, e tutto per bene; così non
avrebbe permesso che la storia
del suo bambino diventasse una storia triste. Se solo non fosse stato
per quei
buffi capelli... Comunque confidava sul fatto certo che gli occhi erano
i suoi.
Occhi verdi come foglie, e grandi, grandi e sinceri. Appena Matty
avesse sollevato
le sottili palpebre in un giorno luminoso lei li avrebbe visti
e…
Un colpo
di tosse ruppe bruscamente il filo dei suoi pensieri e la ragazza
rantolò per
qualche istante premendosi un fazzoletto bianco sulle labbra.
Qualche
goccia di sangue.
Rossa,
come quei fili di sole, si sorprese a riflettere.
Raggi di sole rosso per
capelli.
La sua attenzione tornò
immediatamente al bimbo; una tosse davvero secca
che lo aveva fatto sobbalzare, ma non abbastanza forte da svegliarlo.
Com’era
bello Mail. E lei
si sentiva così
stanca, davvero, molto stanca. “Ecco”era tornata a
pensare senza dare troppo
peso al male allo stomaco” il suo sorriso sarà il
più bello del mondo.” E
poiché Matt nel sonno le stringeva in una debole morsa il
dito indice tra le
manine, la ragazza dagli occhi verdi sorrise fino a prorompere in una
calda
risata, che illuminò la stanza. Rideva poiché
quella mattina era nato il suo
bambino e non era proprio il caso di essere così tristi.
Mello
Mihael
Keehl era nato , biondo
e arrabbiato, in pieno inverno, nell’immensa villa dei Keehl.
E le prime
braccia nelle quali fu posato erano state quelle della cameriera Susy
che lo
avevano subito riposto nella grande culla tra orsetti ed elefantini
minacciosi.
Mihael non era neanche riuscito ad incastrare il visino nella pelle
profumata
di sua madre che già lei aveva preso l’ultimo volo
per Los Angeles, avvolta in
una morbida e bianca pelliccia. Si era solo lamentata di come la
gravidanza le
avesse fatto prendere qualche kilo e del suo aspetto terribilmente
sciupato.
Arrivata in California Henry, l’autista di famiglia, la
sarebbe venuta a
prendere e l’avrebbe portata nel lussuoso Hotel, vicino al
casinò, dove suo
marito, il signor Keehl, sorseggiava champagne. La signora Keehl
avrebbe fatto
un bagno caldo, forse una maschera ai cetrioli e dopo, solo dopo
ciò,
appoggiando le labbra su quelle del suo sposo per un bacio leggero, tra
i vari
discorsi, avrebbe accennato al fatto che, già da un
po’, erano diventati mamma
e papà.
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Capitolo 3 *** capitolo 2 ***
Matt
Intanto
qualche chilometro più a ovest,oltre
l’oceano, nello stesso istante in cui il piccolo Mihael,
appena giunto nel
mondo, tendeva spasmodicamente le manine alla ricerca di qualcosa (
qualunque
cosa) di caldo e famigliare, Matty gattonava incerto sul tappeto ispido
e
polveroso. Aveva appena cinque mesi e già si aggirava per
casa gorgheggiando
acutamente, pieno di curiosità. Era iniziato tutto un
giorno, aveva spalancato
gli occhi di un verde intenso e si era deciso a esplorare la
vastità della
stanzetta; da quel momento non aveva più smesso di muoversi,
piangere e
sgusciare via subito dopo. Sgambettava a destra e a sinistra per poi
crollare
addormentato in qualche punto imprecisato della casa. Poi quando si
allontanava
troppo veniva immediatamente riacciuffato di malo garbo da una brutta
signora
con mani ruvide e rugose , la quale aveva lo stesso odore che
c’è dentro ai
bauli vecchi, ammuffiti e pieni di polvere che non vengono mai aperti.
La donna
in questione era sua zia, ma Matt questo non poteva saperlo. Tuttavia
non solo
non la sopportava perché rappresentava un enorme ostacolo
per le sue
esplorazioni ma soprattutto poiché quelle mani erano le
stesse che ogni mattina
lo strappavano dal letto dove stava sua madre, per portarlo in
un’altra stanza,
così lontana da quel bel sorriso.
Lui e
la sua mamma ridevano spesso insieme. Nei
pochi momenti in cui gli era permesso di stare con lei (
chissà perché poi? )
si guardavano occhi negli occhi, verde nel verde e poi, appena uno dei
due
accennava un sorriso, l’altro iniziava a sghignazzare e
così si scatenavano una
serie di risate spensierate che risollevavano il cuore di entrambi.
Però spesso
capitava che sua madre dormisse, anche durante il giorno e Matt non
riusciva a
sorridere da solo. Quindi,
poiché aveva
capito che se mandava gridolini per destare la sua mamma arrivava la
vecchia
zia urlando un
“stai zitto!” minaccioso
a portarlo via , beh, aveva imparato ad accoccolarsi buono buono vicino
a lei
e, cullato dal suo respiro pacato, anche lui si addormentava, provato
dalla
giornata intensa appena trascorsa. Così le ore si
susseguivano pacifiche e
nonostante fuori di
casa Jeevas
infuriasse l’inverno, Matt non conosceva il freddo, malgrado
gli spifferi
gelidi che facevano capolino nelle giornate ventose. Anzi era un bimbo
vivace e
pareva volesse inglobare ogni cosa con quegli occhi di un verde chiaro
e
trasparente. Osservava con notevole stupore la neve che vedeva volare
al di là
dei vetri appannati e sorrideva sempre più spesso. Invece
non era contento
quando sconosciuti vestiti di bianco andavano e venivano dalla
stanzetta di sua
madre, le
espressioni tristi e gravi che
avevano sul volto gli mettevano paura. Lui desiderava solo che tutti se
ne
andassero e li lasciassero in pace, così avrebbe potuto
finalmente stare di
nuovo con la sua mamma, rivedere i suoi occhi comprensivi e il suo
limpido
sorriso. E magari, più tardi, lei lo avrebbe portato fuori a
vedere la neve.
Mello
L
a vita era stata piuttosto chiara con
Mihael e lui era stato altrettanto svelto a capirne le regole. Gli
veniva
proposta una legge spietata, una verità crudele, ma doveva
adeguarsi sin da subito
se voleva sopravvivere, e Mihael lo voleva davvero; perciò
era ancora capace di
aggrapparsi alla vita con una sorprendente tenacia, perché
la sua esistenza,
sbocciata così, all’improvviso, e solo per lui,
era l’unica certezza che gli
restava, e lui non vi avrebbe rinunciato per nulla al mondo. Ecco perché aveva
tentato di spegnere fin da
subito la fiamma ribelle che sentiva ardere nel petto, ecco
perché aveva
soffocato la voce che gli urlava disperatamente che c’era
qualcosa di
profondamente sbagliato in tutta quella paradossale situazione. Ma una
delle
sue più grandi capacità stava proprio nello
stringere i denti, andare avanti
senza guardare indietro, lasciandosi alle spalle tutto, si era spinto
persino a
rinnegare se stesso. Si sarebbe abituato anche a quello, avrebbe
giocato con
astuzia, imbrogliato ove avrebbe potuto, e,infine, vinto la partita
giocata
contro il suo stesso, lento e logorante vivere. Un vuoto enorme, uno spazio
sconfinato. La sua
stanza era immensa, quasi da non vederne la fine, popolata da
bambolotti,
draghi, soldatini sorridenti replicati fino alla nausea, un’
infinità di occhi
neri e lucidi, fatti di bottoni e biglie di vetro. Erano ancora tutti
nuovi,
Mihael non ne aveva mai sfiorato uno, di quei giochi. Ne era
sinceramente disgustato,
poiché rappresentavano una prova fin troppo tangibile di
quanto fosse
terribilmente solo. Aveva cessato quasi subito di mandare urla
isteriche per
attirare l’attenzione delle domestiche che puntualmente gli
facevano visita,
sfondando il suo fragile mondo di cristallo, poiché aveva
compreso che tanto
esse potevano poco e facevano nulla. Non si dimenava più
quando lo cambiavano
con gesti meccanici e distaccati, nonostante qualcosa, una piccola e
selvatica
scintilla, protestasse in fondo al suo animo costretto. Mangiava
poco. Aveva smesso persino di piangere. Ci aveva provato davvero
all’inizio,
con tutte le sue forze, ma nessuno aveva indovinato il motivo di quelle
lacrime. E lui? Lui lo sapeva perché piangeva?
C’era una valida ragione che
giustificasse quel semplice, eppure così doloroso gesto? Ma,
in fondo, era un
bambino e i bambini sono soliti frignare, almeno qualche volta. Mihael
comunque
aveva cessato da molto di versare lacrime vergognose ed inutili, o
almeno lo
avrebbe fatto fino a che non avesse compreso davvero il significato di
un
pianto. Così semplicemente se ne stava lì,
rannicchiato in un angolo a caso della
sua vasta culla,
aspettando sulla pelle
lo scorrere del giorno e, poi, della notte. Gli occhi azzurri dalla forma sottile,
sempre aperti, fissi e
attenti. Mihael osservava il mondo nel quale era capitato e lo faceva
con una
consapevolezza sconcertante. Se solo qualcuno, per un istante, si fosse
fermato
a contemplare attentamente il suo sguardo, avrebbe visto gli occhi di
un adulto
intrappolati nel corpo di un bimbo biondo e pallido. E vi avrebbe letto
dentro,
senza troppa difficoltà, una tristezza indicibile.
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Capitolo 4 *** capitolo 3 ***
Matt
Una
buffa particolarità del piccolo
Mail era che, quando dormiva, niente e nessuno poteva destarlo, nemmeno
scuotendolo
energicamente.
Eppure, la notte che sua madre morì silenziosa, il pianto di
Matt
riecheggiò forte e disperato, nonostante la neve candida
provasse a
smorzarlo.
E la primavera era ancora troppo lontana.
Mello
Il
nome dei Keehl era un nome
importante, questo Mihael lo aveva capito; la sua famiglia era ricca,
nobile e
rispettata, Mihael aveva compreso anche questo.
Il bambino era stato
gettato in quell’angolo di mondo e in quel preciso luogo,
senza che potesse
proferire parola e , lentamente, i contorni di una vita domestica si
erano
andati a dipingere lievi, assorbiti e accettati a poco a poco, grazie
al lento
scorrere del tempo. Prima erano in due, i Keehl, ora in tre, copia
l’uno
dell’altro, ma poco cambiava, in realtà
l’unico che davvero contava era suo
padre, colui che portava quel cognome dalla pronuncia tipicamente
tedesca,
prepotente e secca come uno schiocco di redini. Questa sua analisi era
lecita,
se non obbiettivamente necessaria: come uno stratega, Mihael analizzava
pazientemente il terreno di gioco.
Li aveva delineati subito quei due individui
slanciati, coloro che dovevano essere i suoi genitori. Suo padre era il
pilastro, sua madre viveva felicemente riparata all’ombra di
lui. Tuttavia
chiunque sarebbe stato capace di saltare a queste conclusioni, ma la
verità era
che il bambino aveva assunto una particolare capacità, e lo
aveva fatto con
puerile naturalezza, senza neppure accorgersene. Forse non se ne
accorgeva neppure adesso.
Un’abitudine che mai avrebbe
apertamente dichiarato, poiché cozzava contro i suoi solidi
principi, e tuttavia
era perfettamente consona ad ogni bambino di questa terra. Eppure
inquinava
fastidiosamente l’immagine che lui aveva creato per se
stesso, facendolo quasi
vergognare poiché, con rabbia, doveva ammettere di essere in
grado di
descrivere ad occhi chiusi il contorno dei visi, la curva della
schiena, le
sfumature degli occhi chiari e delle espressioni. Avrebbe potuto
tracciare,
senza troppe difficoltà, i capelli lunghi e lisci di sua
madre, di un biondo
pallido, rappresentandoli delicatamente raccolti sulla spalla sinistra,
come
lei era solita fare; e le sue labbra perfette, dipinte di un rosso vivo
e
pungente. Assottigliando lo sguardo scorgeva invece una lieve fossetta
scavata
nel mento marcato di suo padre, il suo sorriso accattivante che
conquistava
davvero tutti, muscoli appena accennati sotto una camicia bianca, la
quale gli
cadeva alla perfezione. E i suoi occhi, laghi di un azzurro ghiacciato,
non era
mai riuscito a sostenerli. Anche in questo percepiva un’altra
cocente
sconfitta, ma che in fondo lui aveva voluto e ricercato. Era il boccone
amaro
da inghiottire quotidianamente; abbassare gli occhi con devozione e
attendere
un momento: l’istante propizio del riscatto. Ma nuovamente
non vi era solo
questo. Non lo capiva, eppure in fondo a lui c’era davvero
una sincera ricerca
di affetto che lo spingeva a indagare qualcosa di buono in quello
sguardo
altezzoso e ipnotico che, per qualche strana ragione, apparteneva
proprio a suo padre.
E se poteva fare ciò, se poteva catalogare le sfumature di
rosa sulle
guance di sua madre ed indovinare la grandezza rassicurante del palmo
delle mani
del signor Keehl era solo perché (e questo non lo avrebbe
davvero ammesso per
nulla al mondo) Mihael passava le giornate a scrutarli avidamente da
lontano.
Dal principio aveva avuto qualche difficoltà a capire chi e
cosa erano i
genitori, poi quella parola aveva perso per lui ogni significato e
consistenza,
ma restava la certezza che quelle due figure che giungevano nella sua
stanza
come fantasmi per poi scomparire subito dopo erano, di fatto, coloro
che lo
avevano messo al mondo e questo semplificava ogni cosa.
Poiché, anche se le
mani del bambino non si erano mai intrecciate con quelle della madre e
lui non
conosceva come si vedeva il mondo dall’alto delle larghe
spalle di suo padre,
era certamente loro figlio e ciò rivendicava ogni diritto
che Mihael aveva sul
signore, e, sulla signora Keehl. Per questo inglobava con lo sguardo
ogni
minimo movimento, dapprima con semplice curiosità, poi con
palese ossessione,
perché i suoi genitori gli appartenevano e lui apparteneva a
loro, un contratto
senza vincoli; e visto che non si spiegava il motivo per cui non
riusciva ad
accoccolarsi timidamente tra le loro braccia cercava con un feroce
accanimento
di ricordarsi almeno l’aspetto, divorando foto su foto, e, le
misere volte che
passavano veloci e indaffarati per i lunghi corridoi della villa, il
cuore di
Mihael fremeva nel petto, con violenza, senza che potesse fermarlo. Poi
,se
scorgeva una nuova ruga sulle fronti crucciate, o si accorgeva di saper
riconoscere la cadenza dei passi e l’andatura elegante, si
sentiva felice, una
felicità dolorosa che si rimproverava aspramente, la quale
durava il tempo di
un attimo e lasciava ore di vuoto opprimente. Mihael chiudendo gli
occhi vedeva
una donna e un uomo, la sua mamma, il suo papà, e poteva
dire solo che erano
belli, di una bellezza perfetta da mozzare il fiato. Nulla
più di questo.
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Capitolo 5 *** capitolo 4 ***
Matt
Poco
dopo la prematura morte di sua
madre l’esistenza di Mail aveva inaspettatamente cambiato
rotta, abbandonato lo
spiraglio di luce si dirigeva ora verso un baratro nero.
I
fatti più o meno si erano svolti in questo modo.
La vecchia zia di Mail probabilmente non ci aveva pensato poi
così a
lungo, e non si era fatta neppure troppi scrupoli, a dire il vero.
Semplicemente, rimasta sola con il neonato, aveva fatto un rapido
resoconto
della sua vita e si era ricordata ancora una volta di come il bel viso
colmo di
buffe lentiggini di sua sorella minore la avesse sempre messa in ombra,
del
modo in cui lei riuscisse sorprendentemente a risultare ogni volta
più vivace e
divertente, di come tutti la preferivano, mamma e papà
compresi. Lei,
casualmente nata per prima e costretta a compiacere quella bambina,
bella e
luminosa che pareva uno spruzzo di sole. E, arrivata a queste
conclusioni,
aveva deciso che no, non avrebbe mantenuto la promessa fatta al
capezzale della
sua sorellina perché ormai era vecchia per badare ad un
marmocchio dispettoso.
I soldi? Assolutamente troppo pochi per entrambi. Ma, più
semplicemente, quello
non era affatto un problema suo.
Così Matt si era ritrovato letteralmente catapultato fuori
in pieno
inverno, strappato dal tepore casalingo così impregnato del
profumo materno.
Mal vestito e strapazzato dal vento, tra le braccia secche e spigolose
di sua
zia, aveva potuto constatare da sé cosa fossero quei petali
bianchi che precipitavano
dall’alto provandoli direttamente sulla pelle diafana, e
mentre la gelida neve
dell’Irlanda del nord gli frustava e gli faceva pizzicare il
viso delicato,
aveva percepito con chiarezza il fiato caldo della sorte sul collo, che
soffiava
un respiro opprimente di cambiamento.
La meta di quella mattina di Gennaio era un edificio grigio e austero
che quasi scompariva tra il vento e la neve, nel tranquillo quartiere
di
Bogside.
Ovviamente era solo
l’inizio, poiché quello non rappresentava altro che il primo
orfanotrofio di molti altri,
ma per il momento lì Mail avrebbe vissuto. Tuttavia quella
mattina il bambino
non sapeva dove fosse ne tanto meno cosa stesse succedendo, e comunque
non gli
interessava, sentiva solo freddo e fame, ma soprattutto aveva sonno.
Così non
si accorse delle diverse braccia nelle quali fu passato nei minuti
seguenti e
finalmente, quando venne riposto in un lettino duro e per niente
famigliare,
poté chiudere gli occhi.
Per
quella notte sognò una ragazza che, felice, gli sorrideva.
Mello
Ed
ecco che un’altra primavera giungeva al
termine.
Tutto era rimasto immutato; la villa imponente, la stanza, i giocattoli
salvi dallo scorrere dei giorni. Soliti domestici, facce già
viste o visi nuovi
che andavano sovrapponendosi, come noiose foto, simili tra loro ed
ugualmente
insignificanti.
Le stagioni si
erano susseguite in un cerchio vorticoso, e Mihael era cresciuto. Non
aveva
potuto farci nulla in fondo, il tempo crudele lo aveva reclamato
conducendolo
avanti lungo la strada della vita, che lui volesse o no.
Ora si trovava più
alto, più grande, più consapevole. E a cinque
anni non era altro che un bambino
triste.
Aveva
realizzato fin da subito di essere diverso e ciò lo
costringeva ad esitare, ma,
contemporaneamente, gli conferiva una strana sensazione di potere.
Infatti
vedeva ogni cosa con un’intelligenza disarmante, capiva gli
adulti senza
difficoltà, il loro mondo, comprendeva sentimenti come odio,
gelosia, rancore.
A volte, li provava.
Sapeva cosa erano i soldi e perché
regolassero la società. Ovviamente tutto questo con una
coscienza infantile, ma
Mihael sprofondava nello sconforto poiché gli era negato
pesino il vizio di
vivere nell’ignoranza del bimbo, non potendo convincersi che
tutto andava bene,
non riuscendo a costruire un mondo immaginario dove rifugiarsi.
Però, con una punta di pallido ottimismo,
aveva tentato di cogliere il meglio da questa sua acutezza di pensiero,
e
poiché lui era figlio del famoso signor Keehl, voleva
dimostrare di essere
all’altezza di quel nome e magari, chissà, per una
volta qualcuno sarebbe stato
orgoglioso di lui. Così, dopo molte titubanze, si era
convinto ed aveva
profanato con passo agile lo studio raffinatamente arredato, che si
trovava due
stanze oltre la camera dei suoi (
spesso fantasticava di rifugiarsi nel loro letto, se soltanto ci
avessero dormito, qualche volta), aveva curiosato negli archivi dove
erano custodite le
azioni finanziare della società paterna, sbirciato un
po’ di grafici
memorizzandoli, capiva ed era pronto a spiegarlo con voce limpida e
sicura. Ma
perché faceva tutto questo? Chi meritava la prova tangibile
delle sue abilità? In
verità il bambino desiderava avere in cambio un pugno di
attenzioni, o anche
solo uno sguardo di reale interesse nei suoi confronti e non soltanto
la oramai
nota occhiata di vuota indifferenza.
Tuttavia, non appena i suoi erano rientrati
dal grande portone nell’ingresso principale ( infatti il
viaggio a Berlino si
era concluso proprio quella mattina), Mihael aveva leggermente
vacillato e la
realtà gli si era parata davanti, spappolando con
malignità le dolci fantasie.
Sua madre vedendolo era solita sorridere appena, distratta; e ancora
una volta
gli aveva schioccato il solito bacio da copione sulla fronte ( fremito
di
felicità repressa) recitando l’usuale frasetta
“Quanto cresci, tesoro caro, di
più ogni giorno”. Poi, dopo essere saltellata via
graziosamente, era arrivato
il turno di suo padre che gli aveva battuto la spalla con una pacca
leggera, la
quale voleva sembrare paterna, ma non era altro che una brutta copia
della
classica scena di un film americano. E così, prima che
andasse anche lui
sparendo dietro a qualcuna di quelle porte che parevano infinite, il
bambino lo
aveva pregato per due minuti, due miseri minuti di attenzione, ma la
solfa era
la stessa, totalmente priva di originalità : “ Non
ora, Mihael, scusa, sono un
po’ stanco. Magari un’altra volta, che ne
dici?” E quel “ magari un’altra
volta”
non era mai arrivato.
Così
Mihael aveva vissuto ancora per un po’ nello sconforto, a cui
ormai era
abituato.
Sbiaditi i suoi scopi, si crogiolava nell’indecisione,
poiché sentiva
di essere fortemente combattuto dall’idea di un futuro
migliore, insinuatasi
illusoria nel piccolo squarcio della sua debolezza. Poteva davvero
cercarla lì
quella felicità tanto segretamente ambita? Era
così sbagliato desiderare senza
posa, notte e giorno, una carezza sincera?
Eppure
il nuovo giorno, appena ai suoi albori, pareva, in qualche modo,
diverso. Quella di oggi si presentava come una fresca e soleggiata
mattinata,
l’estate giungeva spensierata portandosi appresso venti lievi
che avevano il
profumo dolce e inebriante della speranza. Mihael ne era stato travolto
perché,
sorprendendo il sole fare capolino tra le valli, aveva aperto la grande
finestra respirando a fondo. Quando l’aria frizzante gli era
penetrata nei
polmoni bruciando aveva potuto giurare di aver sentito distintamente il
proprio
cuore farsi un poco più leggero. E non ci aveva riflettuto
quasi niente;
semplicemente, dopo essersi vestito, si era precipitato verso lo studio
di suo
padre, i capelli biondo grano svolazzavano allegri. Ed ora bussava alla
sua
porta, quasi con disperazione. Eccolo lì, il signor Keehl,
chino sulla
scrivania di legno scuro meticolosamente ordinata, intento a compilare
chissà
cosa. I capelli dipinti d’oro limpido, più chiari
di quelli del figlio, gli
coprivano gli occhi, i quali invece erano uguali in tutto e per tutto a
quelli
di Mihael. Occhi di un taglio sottile e perfetto, che catturavano
inesorabilmente.
“Cosa vuoi Mihael? Non vedi che sono un po’
occup…”
“Vuoi giocare a baseball con me?”
Indugiò un poco sulla prossima parola
“…papà?”
E quasi gli era scappato di
dare del “lei” al suo stesso padre, come ad un
adulto sconosciuto con il quale
bisogna essere cortesi, come si addice chiamare un superiore o un
datore di
lavoro.
( Ma non era forse proprio
quello?)
Subito dopo pensò a che idea stupida fosse
stata quella di proporgli quel gioco infantile e già si
stava rimproverando mentalmente. ( eppure suo padre, a volte, lo
seguiva, il baseball.)
Intanto
il signor Keehl aveva sospirato tra il rassegnato e lo scocciato,
sollevando
finalmente lo sguardo dai fogli sparsi. Poi si era alzato lentamente,
come se
gli costasse un’immensa fatica, e adesso gli si avvicinava,
le labbra incurvate
in un sorriso splendido e indecifrabile che era solo capace di rendere
il
bambino ancora più impacciato. Aveva posato una mano sulla
fragile spalla di
Mihael (il quale aveva sussultato, tanto era poco avvezzo al contatto
fisico) chinandosi
appena, ed ora si trovava alla sua altezza, i visi paralleli, le fronti
ben
allineate. Lo fissava dritto negli occhi, piuttosto divertito e, dopo
poco, il
bambino si trovò costretto ad abbassare lo sguardo. Era sicuro che avrebbe
risposto di no alla
sua domanda infantile. E invece disse “ Certo Mihael, certo.
Ci farebbe bene
respirare un po’ d’aria, a tutti e due. Quindi,
perché no? Devo solo sbrigare
una piccola commissione ma fra mezz’ora sono da te,promesso;
prepara la mazza.”
Gli aveva ammiccato e non aveva smesso di sorridere, poi era uscito,
con passo
terribilmente elegante.
E così Mihael aveva notato con euforia che la calda
mano di suo padre quella volta lo aveva stretto un po’
più forte, ed ora si
sentiva svuotato, come quando passa la febbre alta e ci si accorge
all’improvviso di essere guariti. Risucchiato da un vortice
enorme, percepiva
di essere finalmente sazio di pura felicità e il cuore, ne
era certo, gli
sarebbe esploso nel petto da un momento all’altro.
E mentre la vita gli sorrideva e la macchina nera dai vetri oscurati
portava suo padre lontano, ( ma per questa volta non così
lontano
) , Mihael non perdeva
tempo e uscendo fuori percepiva il sole scaldargli la pelle in una
tiepida
carezza, poi si domandava come mai non fosse andato più
spesso a correre nel
parco, quando passava le ore a scrutarlo diffidente attraverso un
vetro. Così
preparava nei minimi dettagli l’angolo dell’immenso
giardino in fiore dove
avrebbero giocato, signor papà e figlio, e si affannava
frettoloso spostando
foglie secche, reduci dall’ultimo autunno. Sistemava una
mazza e un guantone
l’una di fronte all’altro, la pallina la collocava
al centro perfetto dopo
averla ispezionata a lungo con manine tremanti. Osservava soddisfatto
il suo
lavoro, ed ancora di più ne era compiaciuto
poiché era riuscito a finire
l’opera prima che suo padre tornasse, e no, non sarebbe stato
affatto decoroso
se lui lo avesse colto impreparato, rischiava di stufarsi.
Ora aspettava, il piccolo Mihael, seduto a gambe incrociate nel prato,
sopra di lui un cielo blu infinito.
E quella mattina d’estate avrebbe atteso ancora e ancora,
tanto da
essere in grado di osservare il sole compiere lento la traversata di
tutta la
volta celeste, fino a quando non si sarebbe fuso con le montagne
sprigionando
una luce dorata. Mihael,
quel giorno,
che forse era il primo d’estate, teneva lo sguardo fisso
sulla strada sperando
fino all’ultimo di scorgere una macchina.
Memorizzò poi il profilo tagliente
delle montagne e la forma mutevole delle nuvole; si accorse
dell’esistenza di
un mondo di cui ora lui vedeva solo un misero spicchio. Poi, quando
provò a
piangere senza riuscirci in alcun modo, comprese quanto tutto fosse
terribilmente bello e terribilmente spietato.
A sera tardi una domestica lo
venne a chiamare, lo apostrofò
“signorino” e gli disse di rientrare
perché
veniva freddo, ma in realtà le faceva solo molta pena.
Eppure nel momento in
cui lo vide le si
raggelò il sangue
nelle vene. Lo sguardo del bimbo infelice si era trasformato, modellato
da
tante ore di aspettativa, speranza tradita, e una buona dose di
umiliazione. E
se prima gli occhi di Mihael erano stati limpidi e velati di tristezza,
ora
parevano più cupi, seppure sempre di un azzurro cristallino.
Avevano preso un
taglio ancora più sottile, fine e delicato, ma erano occhi
spietati, di chi
ormai non ha più nulla da perdere, di chi ha smesso di
crederci con tutte le
forze.
Quando
suo padre tornò due giorni dopo era di buon umore,
così decise di fare un salto
nella camera del figlio, credendo di dovergli almeno le solite, vecchie
giustificazioni. Spalancò la porta con ben poca grazia, e fu
lieto di trovarci
dietro il bambino, seduto sul pavimento freddo, poiché non
aveva voglia di
cercarlo altrove. Così ,sempre più soddisfatto ,
gli disse con tono allegro che
si scusava, ma non ce l’aveva proprio fatta; che, si, di
certo potevano
rimandare ad un’altra volta. Era una promessa.
…Eppure
quando gli occhi di Mihael si piantarono nei suoi come due spilli il
sorriso
gli morì sulle labbra e, per un istante, ne ebbe paura.
Uscì silenzioso dalla
stanza, e si sentì stranamente sollevato quando si richiuse
la porta alle
spalle. Non pensò più a quello sguardo, se non
ancora una volta, tre mesi più
tardi, ma per il momento non ci diede troppo peso. Si diresse solo
verso il suo
studio: aveva una montagna di lavoro da fare.
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Capitolo 6 *** capitolo 5 ***
Matt
E
infine il viaggio era iniziato anche per
lui.
Mail
non era altro che un tratto di pastello brillante, ma lieve; marcato
con mano
leggera in un foglio affollato da scritte di inchiostro disordinate,
confuse e
prepotenti.
Rosso,
come i suoi capelli che spuntavano
dalla culla e risaltavano nella stanza incolore, dove l’aria
era perennemente
umida e densa, tanto che pareva di essere immersi in una nebbia
lattiginosa.
Gelido. Questo
l’aggettivo adatto per il primo orfanotrofio che
ospitò Matt. Ma forse la
sensazione era quella poiché il bambino visse lì
il suo primo inverno e già
all’arrivo della nuova stagione si trovava in un posto
differente. Matt
comunque non ricordava nulla dell’ambiente, solo immagini
sfocate popolate da
una moltitudine impressionante di personcine chiassose e dispettose. Bambini, tanti
volti, specchi
che riflettevano la stessa triste sorte. In principio un po’
confuso, poi
confidente, perché il tempo trascorreva anche per lui ed era
capace di rendere
il tutto almeno più famigliare. Ma Matt era davvero piccolo;
i mesi che aveva
consumato vivendo si potevano contare sulla punta delle dita e
poiché il freddo
incombeva minaccioso e la neve continuava a cadere sui castelli e sui
boschi fatati
tipicamente irlandesi, lui se ne stava accoccolato in coperte
rattoppate,
giocava placidamente a scucire la fodera del lettino, si stufava,
piangeva e,
stanco anche di frignare, dormiva.
Le sue giornate erano
lunghe, ma non si potevano definire noiose poiché popolate da volti, ognuno
dei quali diverso
che, ogni tanto, si affacciavano all’insegna del suo
giaciglio. Ragazzini ,
vecchi, adulti, donne; un signore coi baffi. Occhi grigi, verdi come
l’erba dei
pascoli, ambrati o neri e profondi. E poi nasi e capelli e orecchie.
Tutti loro
erano speciali per Matt, nessuno escluso, e, sebbene fosse difficile
ricordare
quei visi, lui ci riusciva, li trovava gentili, premurosi, e
poiché gli erano
così cari risultava impossibile dimenticarli.
Così, sia che venissero per
cambiarlo o nutrirlo, o anche solo per salutarlo, il bimbo regalava a
ciascuno
uno splendido sorriso infantile e non c’era una volta che se
ne dimenticasse.
Alcuni volti lo ricambiavano e Mail poteva godere di un riso estraneo
come di
una straordinaria novità, molti invece lo guardavano
solamente, perplessi o
addirittura tristi, scuotevano la testa con rammarico, altri ancora non
lo
notavano nemmeno.
Ma a lui non importava.
Poi
l’inverno si era concluso, la neve tanto temuta magicamente
scomparsa e, senza
alcun preavviso, Matt
era stato preso, sbatacchiato un po’ a destra , un
po’ a sinistra, adagiato per
qualche attimo, risollevato con vigore e in seguito nuovamente posato.
Il
lettino dove dormiva ora pareva, si può dire, piuttosto
simile ma non era certo
quello di prima; Mail si sentiva come appena destato da un
imperturbabile
letargo, ed era vagamente infastidito. Dov’era la sua tana?
Ancora una volta un
materasso freddo da riscaldare.
Eppure non si presentava come un grande
problema; avrebbe semplicemente riniziato tutto da
capo.
Il
nuovo orfanotrofio era situato a Lisburn, cittadina non troppo
distante dal luogo dove Matt era nato, e si chiamava “ Dolce
casa”; il
nome non brillava certo per fantasia,
tuttavia quella sarebbe stata la “dolce casa” di
Mail per i prossimi due anni.
Ed ecco che erano comparsi molti bambini con le loro storie, storie di
vite di
strada, e poi altri adulti, dall’aria malinconica.
Il nuovo arrivato
era il più piccolo tra quelle pareti e ad osservarlo, pareva
leggermente
spaesato. Matt non riconosceva più gli occhi scuri che verso
sera lo
osservavano sfuggenti o la risata amorevole che svelava brutti denti
del
mattino presto. “ Ma quante persone esistono? “ E
se lo chiedeva spesso,
divertito.
Ora
aveva due anni, camminava anche
se al gattonare si prestava più volentieri, spesso capitava
di vederlo
addormentato lungo il corridoio, ( non era davvero importante che ora
fosse)
scansato nella corsa frenetica dagli altri marmocchi. Dorothy lo
raccoglieva
puntualmente ,posandolo con pazienza nella culla e non trascurava mai
di
avvolgerlo in coperte e lenzuoli che ora sapevano nuovamente di Matt.
Impregnate di un odore dolce, custodivano il tepore della sua pelle
chiara.
Mail
si era fatto nuovi amici, ma d’altronde era difficile non
badare ad un bebè
così spensierato e sorridente. Metteva allegria,
poiché era come farcito da un
affetto inestinguibile.
Tutti
se ne meravigliavano, ma aveva memorizzato con straordinaria
facilità una
moltitudine di nomi. Matt li ripeteva con insistenza quando scorgeva
con gli
occhi verdi le persone a cui appartenevano. Certi li strillava
scalciando,
altri li storpiava e batteva le manine. C’era la zia Racie (
che in realtà era
l’altezzosa signora Rachel) e un ragazzotto piuttosto in
carne, Tomas, ma Mail
ridendo lo chiamava Tom: molto confidenziale. Anche Tomas rideva. A
volte giungevano per fargli visita una
banda di bambini sui dieci anni capitanati da Luca, che gli si
affollavano
rumorosi intorno quando dovevano prendersi una pausa dalle loro
avventure.
Erano lì prima che Matt arrivasse, solo due di loro
sarebbero stati adottati
negli anni successivi. Quei monelli invece avevano dato un soprannome a
lui: “
Carota”, probabilmente riferendosi al colore dei capelli che,
però, virava più
ad un rosso cupo.
Tutti gli altri lo chiamavano semplicemente
Matt.
E poi c’era Dorothy e c’era la sua treccia nera e
lucente,tanto lunga
che al bimbo pareva infinita. Lei lo cullava la sera, gli dava la
minestra
calda trasformando ogni boccone in un naviglio sperduto
nell’oceano, gli
soffiava nelle orecchie facendolo ridere sguaiatamente. Dorothy. Matt
il suo
nome non lo aveva mai sbagliato.
E così erano arrivate, simili
ad una pioggia primaverile, risate fresche, certe dolci, alte insolite.
Come
quella di Rachel,donna dall’età indecifrabile, la
quale, le rare volte che la
esibiva, ricordava vagamente un animale straziato dal soffocamento,
però a Mail
non dispiaceva. La sua era una strana collezione, ma amava scoprire
nuove
espressioni di felicità.
“ Le persone diventano più belle quando
ridono.” Una
certezza per Matt; eppure
nulla, nulla al mondo poteva eguagliare quello che, senza alcun dubbio,
era il
sorriso più meraviglioso che gli fosse mai capitato di
vedere. Quando rideva, e
lo faceva esclusivamente a notte fonda, le labbra rosse si incurvavano,
dando
vita ad una risata limpida e quasi commuovente, così radiosa
da mozzare il
fiato. Apparteneva ad una donna premurosa, una ragazza bellissima, una
bambina
giocosa.
Non aveva età, la figura del suo sogno.
Matt la scorgeva quando la luna era ormai alta
nel cielo scuro, solo dopo essersi assopito.
...E lei arrivava, puntuale.
Rideva, e ridevano insieme e lui
era estasiato da quei capelli leggeri arrotolati in boccoli soffici
come
nuvole, da quegli occhi verdeggianti che si confondevano con colline di
cui riconosceva
le curve miti e aggrazziate. Purtroppo
però il sogno finiva, scoppiando veloce simile ad una bolla
di sapone, e, come
tutti i bei sogni, lasciava a Matt la mattina seguente un senso di
forte smarrimento
accompagnato dalla malinconia, sentimenti sorprendentemente non poi
così
sconosciuti.
Una notte
invece si era svegliato di colpo e la sensazione era quella di essersi
destato
da un incubo, come a volerne fuggire. Aveva ripreso a dormire poco
dopo, ma con
notevole ed insolita fatica. Il giorno seguente Matt piangeva in
silenzio
poiché all’improvviso aveva realizzato che non
riusciva, per quanto si
concentrasse, a ricordare chi era quella donna. Poteva solo sperare di
scorgerla in sogno e rivedere i suoi occhi così simili ai
propri, e il suo
sorriso, che lo faceva sentire a casa. Era a conoscenza che poi si
sarebbe
svegliato e la luce avrebbe spazzato via il suo sogno senza
pietà, ma non
riusciva ad evitarlo; la sera seguitava a dormire e, inevitabilmente,
continuava a sognare. Infine era arrivato l’autunno con tutti
i suoi colori e
il raggio di sole che solitamente scaldava il viso del piccolo al
mattino
presto, filtrando dalla finestrella, si era presentato freddo e spento.
Spento
come Dorothy, la quale lo aveva destato senza il solito entusiasmo,
tanto che
Mail era rimasto confuso e intorpidito per un po’. Poi lei
gli aveva fatto
“ciao” con la manina e, nonostante quello fosse il
suo lavoro, le si erano
velati gli occhi di lacrime. Si era anche sforzata di sorridere, ma da
tempo a
questa parte gli orfanelli erano sempre di più, e questo
stava a significare
anche che il numero delle persone spregevoli che abbandonavano i figli
andava
aumentando. La conseguenza era che i bambini piccini come Matt dovevano
cambiare casa, ancora e ancora. Almeno, quello era il parere di
Dorothy, che
stava già tornando sui suoi passi, borbottando.
Matt
era stato caricato su una vettura cigolante dalla carrozzeria scrostata
e
trasportato dall’altra parte della città.
All’inizio era eccitato: gli
piacevano le macchine. Nella confusione generale aveva registrato solo
vagamente la presenza di altri bambini ,ma loro avevano
l’aria spaventata. Una ragazzina
sbirciava fuori dal finestrino, assorta. Erano tutti più
grandi di lui.
Poiché il ronzio del motore somigliava ad un
respiro calmo e ridondante,Mail si assopì un poco durante il
viaggio. Quando
aprì gli occhi, lentamente prese forma una stanza dalla
carta da parati popolata
da elefantini scoloriti. Uno spazio modesto e tristemente arredato.
Strisce di
letti tutti uguali vicino alla sua nuova culla, tanti bambini
fastidiosi. E non
più Tomas, non più Luca.
Non si stupì, non più.
Senza alcun preavviso un
ragazzo che somigliava incredibilmente a… non ricordava
più chi (ma comunque
non aveva importanza perché in fondo se somigliava non era)
fece capolino
osservandolo e Matt rimase lievemente interdetto, come colto alla
sprovvista.
Poi sorrise, tuttavia quella volta il suo sorriso risultò
incrinato. Quando il
visitatore sparì alzando le spalle Matt scoprì di
non riuscire a ricordarne il
volto.
…E
i mesi si sbriciolavano, dissolvendosi
come polvere, fluendo leggeri, tiepida sabbia tra le dita. Matt
cresceva e
scopriva sempre più cose.
Prima: non aveva
genitori. Era un bambino, nel mondo probabilmente ci era arrivato da
solo, a
passi incerti e in salita, scansando rovi e sassi appuntiti.
Seconda cosa: importante. Necessitava prima la
domanda: “ quante persone si possono amare? “, che
poteva anche essere posta
diversamente poiché in fondo Matt non ne comprendeva appieno
il significato.
Dunque: “ per quante persone c’è spazio
nel nostro cuore?” Ecco,
così andava decisamente meglio. Matt se
lo era chiesto spesso, poiché aveva perso facilmente il
conto di coloro che
affollavano il suo, di cuore, e comunque quando ripensava a
quell’ammasso di
volti sfocati la sensazione nel petto era fastidiosamente fredda, una
luce
troppo flebile per essere solo presa in considerazione. Matt a questo
ci era
arrivato senza bisogno di ragionamenti complessi oltremisura. Il
secondo punto
quindi, presentando un quesito, doveva avere una risposta.
Probabilmente era
che si può volere bene a molti ma amare pochi. Di nuovo Mail
non riusciva a
capire. Ma cos’era “amare”? un verbo
sconosciuto che usava a sproposito, il cui
suono lasciava un’ eco vuoto. Allora stava a significare che
lui non amava
nessuno.
Terza questione. Una massima crudele, ma da tenere a
mente. Matt non
possedeva genitori ma doveva, o almeno, avrebbe dovuto trovarli, era
lì
apposta. Ecco svelato il suo scopo; piuttosto misero, in fondo.
Se n’era accorto quando
ogni tanto vedeva sparire dei ragazzini come lui. Tim diceva che se li
mangiavano le suore, ma Matt non ci credeva affatto. Così
non riuscendo a
concepire una teoria migliore una mattina aveva sbirciato cautamente
l’itinerario di una bimba alquanto carina e l’aveva
vista andare via con due
adulti. Il sorriso sulle sue giovani labbra faceva intendere benissimo
la situazione.
Quindi: trovarsi dei genitori; e competere con altri bambini.
Ecco.
La lista di certezze e faccende da sbrigare si fermava qui,
poiché Matt non
aveva voglia di continuarla. E non voleva neanche impegnarsi nella
stupida
competizione di chi sorride con il ghigno più largo e
convincente, di chi
appare più gentile e meno birichino, solo per ambire al
cuore di signori e
signore venuti in visita per scegliersi, dopo aver sfogliato il
catalogo, colui
che sarebbe diventato il figlio perfetto che non sono mai riusciti ad
avere.
Mail un po’ dava la colpa al suo orgoglio; come poteva
sottostare a tali
regole?
Ma in verità era
davvero troppo pigro anche per quello.
Perciò,
le rare volte che potenziali genitori si spingevano fino alla periferia
di Belfast e
parcheggiavano nel giardino arido e
brullo vicino all’orfanotrofio, lui stava in disparte,
sentendo il loro sguardo
selezionatore passare spietato anche sulla propria, di pelle,
nonostante il
bambino fissasse con ostinazione le improvvisamente interessanti
piastrelle del
pavimento . Quindi non lo avevano mai scelto e Matt tentava di
convincersi che
andava bene così, era lui stesso a non volerlo,
però il cuore gli faceva sempre
un po’ male. In quei momenti sentiva freddo, come a dicembre.
Ecco perché
odiava l’inverno; eppure ogni anno la stagione si
ripresentava, insistente, con
le sue bufere di neve e i suoi spifferi infidi. E dato che attualmente
non era
più il piccolo infante dell’orfanotrofio, ma altri
bebè avevano preso il suo
posto, ora che aveva il letto tra altri letti tutti in fila, doveva
arrangiarsi
da solo e crescere più in fretta di quanto, comunque,
sospettasse. La
conseguenza era che se provava freddo non poteva piangere, altrimenti
arrivava
una grassa donnona di mezz’età, la suora madre (
dalla quale Matt si curava di
rimanere il più distante possibile) che menava scappellotti
piuttosto forti.
Alla fine questo voleva dire
diventare adulti. Matt aveva compreso di essere salito di
“grado” quando lo
avevano portato assieme ai suoi compagni a fare la famosa scelta della
maglietta. Abiti sporchi e ampiamente usati, buttati o dimenticati
lì da
generazioni di monelli troppo ( davvero troppo) cresciuti o adottati; tuttavia si presentavano
vivacemente colorati
e soprattutto belli caldi. Erano una garanzia per l’inverno
ma rappresentavano
anche una sorta di iniziazione alla vita da “uomo”.
Almeno questa era l’idea
che vigeva nei corridoi dell’edificio, che veniva sussurrata
la notte tra i
lettini sfatti. Così Matt aveva scelto nel mucchio una
maglia a righe,larga,
ingombrante , che gli arrivava alle ginocchia, e aveva sentito come se
un
piccolo tassello andasse a posto. Il primo pezzettino del puzzle si era
incastrato, e prima o poi il disegno sarebbe stato completo. Matt aveva
così
tanta strada da percorrere ancora… Ma ora era ufficialmente
un bimbo grande.
Ispezionava il nuovo dono
minuziosamente, poiché quella che indossava non era soltanto
un capo
stropicciato: quando non si ha niente ci si aggrappa con disperazione
alle più
piccole cose; ed ecco che anche quelle righe orizzontali erano
diventate parte
di lui, come una seconda pelle. Erano Matt.
Un Matt dai capelli
rossi, pigro ma sempre sorridente, con una maglietta striata che lo
teneva
piacevolmente al caldo. Matt, misero puntino in un mondo vastissimo.
Matt con i
suoi sogni, a cui non rinunciava,ostinato; con le sue paure, le sue
insicurezze. “ Mi chiamo Matt, ma chi sono io?”
Dicono
che solo trovando l’amore si trova se stessi.
Ancora una volta lui non capiva.
Mello
“…E
se avesse potuto ricordare, di certo,
avrebbe ripensato anche al giorno in cui disse la prima parola della
sua vita: “papà”
, con voce acuta e infantile; nessuno se ne accorse. Il Mihael di oggi
sputerebbe a terra, disgustato di aver sprecato anche solo poche
sillabe per
quell’uomo. Ma il Mihael, o meglio, il Mello di adesso, non
rammenta di aver avuto
dei genitori, o forse, non vede il bisogno di farlo. In fondo la sua
vita è
iniziata più avanti. Lui
è nato in un
pomeriggio piovoso a fine inverno, in Inghilterra. Il pomeriggio tanto
atteso
in cui, finalmente, lo ha incontrato. Forse
questo è uno dei pochi pensieri che ancora sono capaci di
farlo sorridere, o
almeno, di permettergli di provarci. Ma il Mello del presente
è cresciuto,
quando invece, in un passato lontano ed impalpabile, era un bambino
molto
piccolo, e anche molto solo. Un pargoletto che ha appena parlato per la
primissima
volta e ha detto papà. Un misero nome, tutto qui. E di come, dopo averlo
urlato per un po’con
ostinata prepotenza nella stanza vuota, ha deciso di conservarlo solo
per sé;
constatando il fatto che, si, era la prima e più bella
parola del mondo.”
Tutto
era pronto. Squisitamente preparato
nei minimi dettagli da una mente lucida, niente poteva andare storto.
Lo
avrebbe fatto a notte fonda, quella stessa. Innanzitutto aveva preso un
bel po’
di soldi, abbastanza per permettergli di sopravvivere, ma non
così tanti da
destare sospetto. Anche se, effettivamente, era difficile accorgersi di
qualche
banconota in meno in quella casa. Eppure, meglio non rischiare,non
aveva
intenzione di essere obbligato a provarci un’altra volta.
Quindi, il denaro,
che rappresentava l’unico vero mezzo di possibile, se non
certa, riuscita; poi,
conoscere l’itinerario da seguire, fare un calcolo
approssimativo del tempo che
presumibilmente avrebbe impiegato. Una meta. Oh si, quella era
importante. Un
punto di arrivo dove realizzare i suoi sogni. Quali poi? Quali erano i
suoi
sogni? Ripeteva a se stesso che dopo aver letto e riletto sul
quotidiano di suo
padre la notizia relativa alla Wammy’s house ( pagina sei, in
un piccolo
specchietto in basso, a destra) ne era rimasto fortemente colpito.
Ovviamente
il giornale non diceva che quella specie di orfanotrofio raccoglieva
sotto il
suo tetto solo i bambini prodigio, dotati di un’intelligenza
fuori dal comune,
ma Mihael non ci aveva messo molto ad intuirlo, compiendo accurate
ricerche. E
in fondo lui stesso non era altro che uno di loro, vedeva con chiarezza
quanto
fosse sublime il suo intelletto e non aveva paura di ammetterlo.
Quindi, forse
era quello il suo destino. Però non capiva. Come mai
radunavano quel mini
esercito di geni, a che fine poi? Questo mistero stuzzicava
particolarmente la
sua curiosità e, qualunque fosse la risposta, presagiva
qualcosa di immenso. Un
futuro grandioso assicurato.
Così, Inghilterra. Lì avrebbe avuto
l’occasione di dimostrare chi era,
veramente, Mihael Keehl.
Tuttavia
non si trattava solo di quello. C’era…qualcosa,
qualcosa di importante. Mihael
tentava di ignorare quell’insensato pensiero, nonostante
tornasse spesso a
tormentarlo, soprattutto per il suo raziocinio, il quale si rifiutava
di
crederlo. Ma, in qualche, inevitabile modo, sentiva che era fin
là che doveva
andare, perché era giusto così.
Nessun’altra possibile spiegazione. E, finalmente,
avrebbe realizzato i suoi sogni.
Ma, per il
momento, fondamentale era andarsene, fuggire da quella casa, da tutto
ciò che
era e che, di certo, non sarebbe più stato.
Aveva deciso la
sera prima, però Mihael sospettava di aver scelto
già molto tempo addietro.
C’era
stata una festa nella villa dei Keehl, poiché la
società di suo padre aveva
ulteriormente acquistato prestigio. Quale migliore occasione per i suoi
genitori di presentare a tutti i loro altezzosi amici colui che sarebbe
diventato
successore della ditta? E quindi quella era stata anche la celebrazione
di
Mihael, una sorta di mostra di cui lui era l’attrazione
principale. Doveva
ringraziare di poter conoscere tutte quelle personalità
influenti e soprattutto
di essere nato in una famiglia prestigiosa, di cui era il fortunato
erede . Un
bellissimo futuro già totalmente programmato, ma con ogni
probabilità avrebbe
vissuto un’altra volta un’ esistenza oscurata dalla
figura di suo padre, così
ancora per nulla intenzionato ad allentare la presa su tutto
ciò che il denaro
e il potere comportavano. No grazie, non era per lui.
Il bambino ricordava con particolare isteria
una quantità immensa di uomini in giacca e cravatta, donne
dai profumi così
dolciastri da dare la nausea e, il punch all’arancia. Di come
grasse signore
pigiate in vestiti decisamente troppo stretti lo fermassero,
osservandolo con
occhi farciti da languida e per nulla disinteressata gentilezza,
cinguettando
complimenti con le boccucce arricciate come passerotti intorno al
verme. Dal
suo canto Mihael non poteva permettersi troppe storie, lui stesso era
stato
lucidato per bene ed infilato dentro un lussuoso completo da sera,
tanto che
pareva davvero un piccolo omino di affari. Era bello in modo
particolare,
malgrado l’espressione terrificante sul suo volto; i capelli
biondi e lisci
accuratamente pettinati nel caschetto, la frangetta sottile sopra occhi
celesti.
E quindi, almeno riguardo al suo aspetto, nessuno mentiva in quella
sala, ma
proprio per questo a Mihael veniva da vomitare. Tutta quella situazione
era un
paradosso, imitazione grossolana di qualcosa che, in realtà,
non aveva
consistenza.
Poi
c’era stata la foto. Si era improvvisamente visto
intrappolato tra sua madre e
suo padre, quali non era riuscito a scorgere per tutta la serata. Colto
senza
preavviso da disagio e confusione era stato stordito dal sorriso dolce
che la
signora Keehl rivolgeva con impazienza all’obbiettivo, dalle
mani di entrambi che
gli si attorcigliavano, simili ad edera, intorno alla vita. E
così, con un
semplice “click” seguito da un flash accecante,
l’immagine di una famiglia
davvero perfetta era rimasta impressa sulla carta. Mihael la osservava
adesso,
quella foto amorevolmente incorniciata, tenendola tra le mani che gli
tremavano
impercettibilmente. Con occhi socchiusi e distanti, come a rivivere
piacevoli
ricordi del passato, vedeva una mamma, non vi era dubbio su questo, dai
capelli
lunghi e chiari, raccolti in modo delizioso sulla spalla sinistra. La
sua
sagoma delicata si presentava immortalata mentre lui la confrontava con
quella
della sua mente: braccia candide ornate da catenelle brillanti ed un
sorriso
dolce sulle labbra, più amorevole del necessario, in fondo,
almeno per quel
particolare contesto.
Ma forse era solo un’impressione.
A destra un papà alto, tuttavia anche
un uomo
avvenente, perfettamente a suo agio in quella foto, quasi fosse sempre
stato
lì, in posa. Occhi vivaci e giocosi, tipici di tutti i
padri.
E
al centro, proprio in mezzo tra i due, un bambino che, con ogni
probabilità,
appena veniva scorto ci si domandava come mai non lo si avesse notato
prima.
Era un ragazzino, ed era ,senza dubbio, il più bello; gli
occhi azzurri
risaltavano incredibilmente, così meravigliosi da non
poterli non guardare.
(spietati)
Pareva
di cristallo, fragile e al contempo prezioso.
Ogni
particolare nell’insieme poteva essere definito assolutamente
esatto…eppure
stonava un po’. Un rettangolo di perfezione stridente dove il
bambino aveva
assunto un’aria vagamente estranea, come fosse stato lasciato
in disparte. Era
impercettibile, ma c’era di sicuro uno spazio ben delineato
tra i corpi che
ricordava il contatto proibito, un tacito accordo stipulato negli anni
da quei
tre individui. Ma tutto questa andava dimenticato vedendo la
spensierata risata
nata sulle labbra di lui. Il bambino sorrideva, magnifico, il volto
illuminato,
l’espressione allegra. Solo osservandolo fioriva soave la
parola “felice”.
Mihael
strinse la cornice con più forza, fino a farsi male: non era
lui
quel bambino. Non poteva esserlo, in nessun modo. Quel ragazzino biondo
dall’aria sbarazzina, immortalato stretto stretto tra i suoi
genitori esisteva
solo in quella foto ed era una sporca illusione.
Scaraventò
la cornice sul pavimento di marmo bianco e il vetro spesso che
proteggeva
l’immagine andò in frantumi, producendo un suono
spaventosamente cupo. Mihael
rimase un secondo interdetto, contemplando le schegge luccicanti sparse
un po’ ovunque,
poi raccolse la foto liberata, i movimenti rapidi e distaccati. Ora
aveva
quella superficie lucida a contatto con i polpastrelli, gli occhi
sbarrati nel
buio. La scrutò ancora per qualche secondo, come perso in un
sogno e, per un
istante ( solo per un istante), credette di poter dare
un’altra possibilità a
quel bimbo sorridente.
Lo strappo fu unico ed incredibilmente
preciso, poi Mihael sgattaiolò via veloce, i passi leggeri e
sinuosi come
quelli di un gatto e, una volta fuori, non si guardò
più indietro. Sul
pavimento freddo di una casa troppo grande e ormai vuota solo una foto,
divisa
nettamente in due parti. Da un lato una mamma, dall’altro un
papà, essi sono
incolumi, eternamente imprigionati in un luogo ove il tempo
è stato eclissato.
Il bambino invece è crudelmente squarciato a metà
ed ora condivide un posto
speciale in ognuno dei due frammenti. Il taglio irregolare gli
attraversa il
viso gentile e gli lacera tutta la parte sinistra, tanto da sembrare
un’orrenda
cicatrice.
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Capitolo 7 *** capitolo 6 ***
Matt
Lo
fissava da più di dieci minuti, ormai.
Era certo che il suo sguardo insistente risultasse alquanto fastidioso,
ma non
poteva farci nulla, c’erano solo loro due lì, e,
nel silenzio, quella musichetta
risultava incredibilmente orecchiabile, Matt era come ipnotizzato. Ogni
tanto
il ragazzino alzava gli occhi, distogliendo per un attimo
l’attenzione dal
gioco e scrutava Mail con sguardo minaccioso, poi ricominciava,
imperterrito, a
spingere i vari tasti ad una velocità sorprendente. Nel
frattempo Matt,
raggomitolato su una seggiola in quella stanza mai vista, (ma allo
stesso tempo
simile a tutte le altre stanze di orfanotrofi, i muri dipinti di un
bianco
vagamente affumicato) aspettava e, non sapendo bene cosa, seguitava ad
osservare quel bambino (non era poi tanto più grande di
lui), il quale sembrava
totalmente impegnato nel fare qualcosa a cui Mail non trovava nome, ma
che voleva
assolutamente scoprire.
Aveva cambiato nuovamente
casa, ne era certo. Probabilmente pure città,
ma anche se si trovasse in un altro stato, o mondo; beh, per lui non
faceva
davvero differenza. Era un po’ stanco, il piccolo Matt.
Stanco di provare ad
affezionarsi a qualcuno per poi vederselo strappare via subito dopo. In
fondo
non gli sembrava di domandare poi così tanto: solo una
persona, una persona nel
mondo che aspettasse lui e lui soltanto.
Nulla più di questo.
“ Si può
sapere che cosa vuoi?” Una
voce
squillante lo distolse dai suoi drammi interiori e poiché
quel bambino lo
fissava imbronciato Matt sospettò fortemente di essersi
incantato
osservandolo.
Poteva
benissimo ignorarlo e far finta di niente, ma la noia lo attanagliava
da molto
ormai. Nuovamente solo e terribilmente annoiato. Tanto valeva
chiederglielo: “
Cosa stai facendo?”
Quel ragazzino
dai capelli neri ed arruffati lo contemplava con aria sempre
più sorpresa: “
Cosa ti sembra stia facendo scusa? Gioco”. Brillante
conclusione, infatti
pareva alquanto soddisfatto della sua risposta poiché
ricacciò subito il muso
sullo schermo luminoso. Ma Matt non era intenzionato ad arrendersi.
“ A cosa?”
Il faccino proteso in avanti, occhi verdi brillanti di
curiosità. Il ragazzo
brontolò sommessamente. “ Uffa, non ci vedi per
caso? È un game boy e sto
cercando di giocarci”. Evidenziò con la voce quel
“ sto cercando”, sperando che
Matt ricevesse il messaggio; eppure la “O” di
meraviglia che la sua bocca
disegnava faceva intendere tutt’altro. Infatti Mail si
alzò incespicando, colto
finalmente da un vivo ed infantile interesse e si avvicinò
all’altro bambino
incurante del volere di quest’ ultimo. Poi quasi lo travolse,
scavalcandolo con
le manine, fino a quando una testa rosso pomodoro non andò
ad oscurare del
tutto il piccolo schermo quadrato.
“ Voglio vedere! Voglio
vedere!”
“ Hey, stai
attento! Mi farai perdere!”
Matt
era sempre più perplesso, in quella scatolina un omino si
muoveva saltellando
allegramente.
“ Come si gioca?”
“ Sei solo un moccioso, non puoi
capire! Ed ora levati” Lo cacciò via di malo
garbo, appiopandogli un deciso
spintone; Mail roteò un paio di volte le braccia, giusto per
rimanere in
equilibrio.
“
E poi, sei troppo piccolo” Aggiunse infine, come a
giustificare ulteriormente
il moto d’ira. Invece fu tutta una sorpresa la
velocità con cui gli occhi di
Matt si riempirono di lacrime ancora intatte che, miracolosamente,
rimanevano
intrappolate tra le palpebre e facevano luccicare lo sguardo triste del
bimbo.
Il ragazzino
lo scrutò, allibito: “ Non ti metterai mica a
frignare ora, spero!”
Una prima grossa e calda lacrima solcò la guancia
di Matt, lasciandosi
alle spalle una striscia tremolante, per poi infrangersi sulla maglia a
righe,
dove inevitabilmente scomparì,
risucchiata.
“ Sei solo un poppante! Se adesso ti metti ad urlare
penseranno che ti
ho picchiato!” Il ragazzino pareva più preoccupato
che arrabbiato, anche perché
ormai il viso dell’altro era bagnato da un pianto struggente,
ma ancora
abbastanza silenzioso, rotto solo da alcuni singhiozzi.
“ Ok! Ok! Ti faccio fare una partita se
smetti di piagnucolare, mi sembri una bambina viziata” Detto ciò gli
porse in game boy bruscamente
ma, per un attimo, rimase meravigliato da come ora Matt sorridesse
felice, le
mani protese verso di lui, totalmente dimentico del piagnisteo di poco
prima.
Il ragazzo fece una smorfia,
sdegnato. “ Tanto non sai neanche come si tiene. Questo non
è un gioco per
bambini, è per adulti. Pure io, che ho undici anni, non
riesco a superare il
quattordicesimo livello, e sono bravo sai?”
Matt comunque non aveva udito parola di
quell’ultima predica, si era
solo accucciato comodamente al suolo studiando il video-game. Il suo
viso
risultava totalmente concentrato adesso ( incredibile la
quantità di emozioni
che era riuscito ad esprimere in un tempo tanto breve) e la sua
espressione
così terribilmente seria che anche l’altro,
nonostante lo squadrasse sempre con
sufficienza, ne era rimasto incuriosito. Dopo poco gli si sedette
affianco,
riluttante. Era già pronto a ribadire le sue massime ma
bastò un’occhiata per
zittirlo e fargli dimenticare ogni forma di ostilità. Matt
non solo aveva
superato il famigerato quattordicesimo livello, ma si dirigeva ora
verso il
diciottesimo, con una naturalezza alquanto umiliante.
“ Wow! Come caspita ci sei riuscito?” Era
sinceramente sorpreso, quasi
ammirato.
Matt non provò neppure a rispondergli,
pareva assorto; per quei pochi e preziosi minuti si era dimenticato di
un po’
di tutto e un po’ di tutti, i contorni perdevano nitidezza e
si confondevano, restava
solo quello schermo brillante, somigliante ad una piccola candela nelle
tenebre.
Una voce amorevole gli fece alzare gli occhi di scatto, come se quello
che aveva udito fosse stato uno sparo.
“ Ecco, ora è tutto sistemato.
Se non fosse per questi documenti e moduli da
firmare… oh, adesso non importa. Andiamo piccolo! Andiamo a
casa”
Per
un momento Matt pensò che quella donna si stesse rivolgendo
a lui, ma
ovviamente si sbagliava. Vicino a lei un signore alto e pallido teneva
sotto
braccio varie pratiche, che sicuramente sentiva star per cadere e
spargersi sul
pavimento, vista la sua andatura impacciata. Eppure la mano era tesa e
sicura
verso di loro.
“ Su Geremy! Saluta il tuo amico e vieni qui.”
Geremy
( ecco svelato il suo nome) trotterellò docile docile verso
quella strana
coppia, senza degnare di un solo sguardo Matt, che stringeva ancora tra
le mani
il gameboy.
“
Hey, aspetta! Stai dimenticando questo!” Il suo era stato
più un grido
disperato, forse un modo per prendere tempo, come se volesse trattenere
quel
bambino sconosciuto ancora per un po’. Un’estrema
richiesta di aiuto. Geremy
si voltò, regalandogli uno sguardo
distratto e fuggevole.
“ Tienilo pure, tanto non ero
neanche poi così bravo” Rise, una risata
estremamente eccessiva.
Ma ciò che la
alimentava era ben altra gioia.
Così
Matt rimaneva solo ed osservava con uno sguardo indecifrabile quel
ragazzino
allontanarsi per sempre da lì, poiché era stato
scelto. Compagno di una vita
intera, probabilmente una vita felice. E mentre Geremy era stretto nel
forte
abbraccio di due genitori nuovi di zecca, lui percepiva tra le mani
solo gli
spigoli freddi del regalo che il destino gli aveva fatto.
Non sapeva perché si trovasse lì, ne aveva fatto
caso a come ci fosse
arrivato, ma capiva che per il momento il suo compito era aspettare.
Cosa? Forse l’attesa
stessa.
Ma almeno ora avrebbe potuto ingannare la
noia.
Mello
Mihael
giunse in Inghilterra nel tardo
pomeriggio, ad ottobre inoltrato.
Aveva iniziato a camminare
subito, e svelto anche, ma poi si era fermato, giusto un attimo, solo
per
salutarlo. Non aveva ancora dimenticato le buone maniere, e infondo, se
si
trovava lì lo doveva in gran parte al sostanzioso aiuto di
quel signore. Per
questo lo ringraziò, e fu un grazie davvero sincero: un uomo
anziano dalla
barba bianca, era il capitano di un battello piuttosto malandato; lui
stesso,
piuttosto malandato, non aveva più neppure un
dente,poverino. Eppure, era la
prima persona veramente buona che Mihael incontrava in tutta la sua
vita.
L’aspetto del bambino, poi,
doveva essere
altrettanto trascurato poiché il vecchio, mosso da
chissà quale profonda
compassione, si era anche offerto di tenerlo con lui, nonostante quel
marmocchio non avesse proferito parola per tutto il viaggio, se non
giusto
qualche cenno da far capire che intendeva.
Chissà come sarebbe stata
la sua vita con quell’uomo… se lo era chiesto,
forse un paio di volte. Non era
facile immaginarlo. Eppure Mihael aveva educatamente declinato
l’offerta e, a
quanto pare, era apparso convincente visto che aveva indotto il
marinaio dai
modi paterni a lasciare un bambino, probabilmente un orfano, tutto solo
nel
mondo vasto e selvaggio. Ma Mihael non aveva paura, e così
camminava da molto,
ormai. Un solo obbiettivo, e passo dopo passo, lo seguiva. Lasciatosi
il porto
alle spalle, teneva un'unica direzione, ed essa era sempre dritta
davanti a
lui, il mare si allontanava, riducendosi ad una fessura azzurra, le
colline si
gonfiavano e i campi gli sfilavano intorno come immensi oceani verdi.
Non
poteva dire da quanto tempo fosse in viaggio,
chissà, magari meno, di una settimana. Non sapeva neppure di
preciso dove si
trovasse e stentava a chiedere informazioni, e non più per
la lingua, ma poiché
quelle campagne parevano deserte. Aveva fatto di tutto per imparare
almeno
qualche parola di inglese ed i risultati non erano stati neppure troppo
deludenti per aver avuto poche ore a disposizione; eppure non bastava.
Un lungo
viaggio largamente sottovalutato,e tuttavia, per non aver mai messo
naso fuori
prima di allora, era già un buon esito essere arrivati vivi
sin là, nonostante
tutto. Ma la situazione forse gli era un po’ scappata di
mano, doveva
ammetterlo; ora i suoi vestiti erano logori e i suoi capelli biondi
più lunghi
e scompigliati. Aveva una
macchia di fuliggine sulla guancia destra, un ginocchio sbucciato.
Fame;
freddo. Iniziava a piovere, esattamente in quel momento.
Eppure, non una volta gli
era passata per l’anticamera del cervello l’idea di
tornare indietro. Mai si
era voltato, con sguardo malinconico, a scrutare la vita che aveva,
volutamente, abbandonato.
La verità era che,
nonostante la situazione fosse alquanto disperata, lui si sentiva
finalmente
libero, come non gli era capitato prima.
Per quel medesimo
motivo ora respirava a pieni polmoni un’aria diversa, e non
più quella putrida
e stagnante della sua stanza. Poche, pochissime volte aveva ripensato a
ciò che
era stato in precedenza e, malgrado non fosse passato, obbiettivamente,
poi
così tanto tempo, i suoi giorni in Germania gli parevano
straordinariamente
lontani.
Si
fermò di colpo, osservandosi i piedi. Quello destro gli
doleva appena, e
comunque quel sottile tormento gli dava sui nervi. Qualche attimo dopo
un paio
di scarpe volava nell’aria, per poi atterrare scompostamente
a terra. Poco più
avanti c’era un calzino e dietro, subito un altro.
Lo sentiva
chiaramente, ora: la terra umida, l’erba fresca.
Un’energia nuova che partiva
dal basso per fluire poi in tutto il corpo. Passi sempre più
svelti, divenuti
in seguito corsa; Mihael guardava i suoi piedini muoversi prima con
incertezza,
incespicando; e poi vedeva la sua falcata prendere slancio e
regolarità,
diventare un galoppo possente. Correva con tutta la forza che aveva, il
piccolo
Mihael, nonostante fosse stremato, nonostante il vento gelido gli
sferzasse il
viso. Contro tutto e tutti, scappava ancora da una prigionia che lo
aveva
impedito per troppo tempo, come un’animale braccato che
intende mettere più
spazio possibile tra lui e i suoi aguzzini; Mihael in quel momento
sentì che
non vi era alcuna differenza tra lui e le nuvole o le montagne: era
aria e
terra, libero e immenso come tutto il cielo.
Una
signora si affacciò dal balcone della sua casetta sperduta
e, inizialmente
sorpresa, rise di gusto vedendo in lontananza quel bimbetto scalzo che
sgambettava lungo il sentiero. Si ricordò di quando era
piccola e libera, e di
come anche lei amasse giocare sotto la pioggia.
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Capitolo 8 *** capitolo 7 ***
Matt
Matt
quella notte si era svegliato di colpo,
portandosi istintivamente le mani sulla bocca per strozzare un grido
disperato.
Non voleva che Tom si svegliasse, almeno non di nuovo. Era certo che se
no si
sarebbe messo a frignare e, per l’ennesima volta, la colpa
sarebbe stata sua.
Ancora un brutto sogno.
Sempre il solito, per giunta. Si tastò la fronte imperlata
di sudore, fece un
profondo respiro per calmarsi. Andava già meglio, se non
altro era sveglio, e per
quella notte non avrebbe più sognato; eppure il suo corpo
era ancora scosso da intensi
brividi e il cuore batteva freneticamente, come se stesse tentando di
fuggire
dal piccolo petto.
Matt si
voltò con rinnovata ansia verso il lettino di Tom, per
controllare ancora una
volta che non si fosse svegliato; lo guardò poi con
disprezzo, così
raggomitolato in coperte perfettamente ordinate.
Tom
era stupido e tutti lo odiavano.
Faceva la spia su ogni
piccola marachella e poi non gli si poteva dire niente che subito si
esibiva in
un pianto disperato. Strillava talmente forte e con una
tonalità talmente acuta
da far male alle orecchie e inoltre così non faceva altro se
non affrettare il
sopraggiungere del mangia - carote. Quest’ultimo era Duffy,
il custode, ma
tutti lo chiamavano così perché nel tempo libero
coltivava, in un orticello
assolutamente privato rasente all’orfanotrofio, le sue amate
carote, di cui
andava particolarmente orgoglioso. Matt rifletté un attimo
sull’origine del suo
soprannome: chissà perché poi proprio le carote,
Duffy piantava anche molta
altra verdura.
Ma
il problema essenziale stava tutto nel suo bastone, un bastone lungo e
pesante.
Se lo trascinava sempre appresso, quasi fosse un pastore di greggi.
Comunque
non bisogna credere che gli servisse per camminare, Duffy era veloce,
in salute
e di corporatura robusta; semplicemente gli faceva comodo in svariate
situazioni: nell’orticello praticava buchi profondi dove
piantare i semi,
all’occorrenza schiacciava, con una punta di perfidia, i
numerosi scarafaggi
che percorrevano i corridoi scrostati dell’istituto e
soprattutto, attività che
lo divertiva immensamente, lo tirava sulla testa e sulle gambe dei
bambini. Ma
questo non piano, e di certo i suoi non erano scappellotti affettuosi;
come
diceva George ai nuovi arrivati “ se ti becchi una di quelle
legnate, puoi star
certo di finire dritto, dritto con il muso per terra.” Poi
aggiungeva sottovoce
“ e dopo, se ancora ci riesci, devi alzare le chiappe e
filare via come il
vento.”
Il magia - carote non distribuiva mai le sue “ buone
lezioni” , come le
definiva, con un senso logico; potevi averla fatta grossa ma spesso ti
centrava
in pieno all’improvviso e senza un reale motivo,
probabilmente perché in quel
momento a lui andava bene così. In realtà una
motivazione c’era sempre, il
problema era che la sapeva Duffy e nessun altro.
In
quelle circostanze c’era qualcosa di particolare nel suo
sguardo, qualcosa di
indefinito ed incomprensibile che faceva venire la pelle
d’oca a Matt e a tutti
gli altri bambini.
Un giorno c’era stata una rissa tra due ragazzi: il
più piccolo, Henry,
era amico di Matt; e, disgraziatamente, i due se le erano date fin
sopra
l’orticello di Duffy, nonostante fosse stato sapientemente
recintato. Duffy e
la sua verga si erano come materializzati all’improvviso,
dato che nessuno di
tutti i marmocchi che assistevano alla zuffa aveva sentito nulla, poi
il
bastone era calato sibilando una, due, tre volte su uno dei due
litiganti, ma
già alla prima botta cupa e sorda tutti gli altri bambini
erano fuggiti veloci
come cerbiatti. Anche Matt era scappato ma dopo qualche metro si era
voltato e
aveva visto Duffy continuare a darle di santa ragione al povero Henry,
ormai
ridotto ad una pallina tanto si era rannicchiato al suolo. Matt aveva
ancora
fatto in tempo ad osservare lo sguardo assente del magia - carote e la
macchia
di sangue scuro che si andava a raccogliere sulla fronte del suo amico,
poi
Lucy lo aveva strattonato gridandogli di andare via da lì.
Il giorno dopo Henry
non c’era più e l’orticello era tornato
perfetto e ordinato. La direttrice
aveva detto con qualcosa di simile ad un sorriso che Henry era stato
adottato,
ma si era curata di tenere lo sguardo incollato al pavimento.
Anche
Matt se ne era prese parecchie di quelle mazzate, poi aveva
imparato a tenersi alla larga (calcolando un raggio di circa due metri
e mezzo);
tuttavia, dopo quel particolare fatto, la lezione era stata compresa da
ognuno
e ognuno parlava del mangia - carote con un’espressione grave
dipinta in volto.
In
realtà, l’unico a non averlo capito
pareva essere solo il gracile Tom, ma il problema era che le bastonate
se le
prendeva anche lui, e forse più di tutti, ogni qual volta
strillava o si
lamentava.
Matt si
soffermò sul grande livido violaceo che deturpava il viso
del bimbo e sul suo
labbro sottile spaccato; il suo sguardo di rimprovero si
addolcì un poco. “ Se
continua così” pensò Matt “
quello scemo finirà proprio come Henry.”
Si
voltò, stringendosi nelle coperte ruvide.
Era incredibile; persino dalla loro angusta stanza Mail riusciva a
sentire distintamente il ritmico suono dello zappare di Duffy. Lavorava
con
impegno per le sue verdure, zappava e piantava, ogni notte. Matt lo
sapeva,
poiché ogni notte si svegliava. Infatti, se il mangia -
carote gli metteva
davvero i brividi, con quei suoi grandi occhi vuoti, in confronto ai
suoi
incubi l’ignaro Duffy era ben poca cosa. In realtà
il sogno era sempre lo
stesso: una buffa ragazza e il suo sorriso che, di per sé,
non aveva nulla di
lugubre. Matt davvero non se lo spiegava ma quasi ogni notte si
svegliava per
fuggire dalla morsa del sonno che lo costringeva a quello che,
nonostante la
premessa, altro non era che un terribile
incubo. A volte al proprio risveglio si scopriva in lacrime, ma quasi
sempre
doveva mettere a tacere l’urlo di profondo terrore. Solo in
poche occasioni gli
era capitato di bagnare il letto e Matt conservava ancora i lividi che
ne erano
derivati. Era ovvio che così non si poteva andare avanti; le
ore di riposo in
meno si facevano sentire, ma quella storia proseguiva da molto ormai.
Matt
poteva conservare solo il vago ricordo di quel sogno che, un tempo, era
stato
magnifico. Di questo il bambino era certo: anni prima, forse, non si
sarebbe
svegliato con la paura dipinta in volto ma, semplicemente, avrebbe
continuato a
dormire. Un sonno calmo e profondo, lungo quanto tutta la notte. Come a
trovarsi in un luogo lontano e impalpabile, e allo stesso tempo
famigliare; una
casa, una casa tutta per lui, dove avrebbe trovato rifugio dai tormenti
del
giorno. Almeno la notte, almeno in quelle poche ore, quando la luna
galleggiava
nel nero più scuro con il suo chiarore incantante, lui
sarebbe stato al sicuro
dalle ombre, vicino alla risata puerile di uno sconosciuto che gli
sussurrava
qualcosa, che gli svelava un segreto, era un sorriso bellissimo e
gentile e allora
Matt non aveva più paura.
Ma adesso
era diverso. Il sorriso spesso si tramutava in un orribile ghigno e a
volte il
volto da bambina della ragazza sbiadiva, sovrapponendosi a mille altri
volti,
mille altri visi confusi e, allo stesso tempo come conosciuti, che poi
si
mischiavano e si scioglievano, simili a maschere di cera. Bambini e
vecchi,
uomini e donne, sognava il volto di Duffy, sognava Henry che lo
guardava, lo
scrutava fin dentro l’anima con un’espressione
triste.
Matt
spalancava gli occhi e si ritrovava in una stanza. Quella non cambiava
mai, i
soliti letti, i soliti respiri dei molti bambini ammassati vicini,
proprio come
lui. E, a quel punto, strappato dalle sue angosce, si scopriva sveglio
mentre
tutti gli altri dormivano, si scopriva solo. Allora, proprio in
quell’istante,
ecco che il buio lo assaliva. Un’ oscurità
vischiosa e senza forma che
inghiottiva il bambino. Faceva male respirare quelle tenebre,
così viscide e
luride, si appiccicavano alla gola ad ogni respiro e Matt allora
rantolava.
Ma poi si
ricordava di un trucco, un’ idea astuta che funzionava ogni
singola volta. Nel
buio più profondo, tastava agitato sotto il cuscino e
afferrava qualcosa, una
scatolina quadrata: era la sua unica scappatoia e conteneva una magia,
una
magia incredibile. A quel punto la apriva e una luce tenue illuminava
il volto
spaventato di Matt. Un chiarore debole e fioco il quale,
però, sapeva scavarsi
un varco tra le tenebre. Allora il bambino iniziava a giocare, premendo
i tasti
e ricominciava la partita. Ridava la vita ad un gioco intero
già fatto
centinaia di volte, e vinceva, vinceva sempre. Ma a Matt non importava,
si aggrappava
soltanto con muta disperazione a quel fioco bagliore e pregava, pregava
con
tutto il cuore che non si spegnesse mai. Anche ora gioca, mentre Tom
sogna,
gioca da solo tra altri bambini addormentati. Sente i loro respiri
pacati e
immerge ancora di più il viso nella tiepida luce. Matt
aspetta che la notte
vada via, e che il sole ritorni a splendere. Fuori, Duffy zappa ancora
sotto
una luna grande e silenziosa.
Mello
Il
paese era apparso all’improvviso,
nascosto dall’ultima montagna. Gli alberi si erano pian piano
diradati,
lasciando posto alle prime abitazioni e ai primi cancelli, ed ora
Mihael si
trovava a camminare sull’asfalto grigio, fradicio ed
affamato. Se non fosse
stato stremato dal sonno e dalla fatica del lungo cammino, avrebbe
comunque
apprezzato quel luogo così accogliente. Pareva uno di quei
paesini descritti
dettagliatamente nelle fiabe, dove gli abitanti sono fate e gnomi
ridanciani e
tutti trascorrono le giornate vivendo in armonia; le casette erano
piccole e
graziose, costruite sapientemente tutte in fila e circondate da un
giardino
ricco di fiori dai colori tenui. Non vi erano edifici imponenti o
austeri, ma
regnava una placida e pacifica atmosfera che provocava un piacevole
effetto
soporifero. Mihael era certo che la mattina presto, forse ancora prima
che il
sole sbucasse nel cielo, si potesse sentire l’odore caldo e
inebriante del pane
appena sfornato, e magari scorgere tanti bambini come lui che giocavano
a rincorrersi,
udire le loro risa spensierate.
Lo sguardo di
Mihael si rabbuiò tutto ad un tratto; improvvisamente si
domandava che cosa si
prova.
Il
pensiero gli era nato senza un preciso scopo, come quei fiori
selvatici, pur
così belli, ma che non si sa mai dove andranno a germogliare.
…Cosa si prova mentre si gioca con
altri
bambini, quali sono le tattiche per vincere a nascondino.
Cosa
significa avere una famiglia e cosa, realmente, è una casa.
Era buffo. Nessun
ragazzino avrebbe potuto fare quello che aveva fatto lui, nessuno aveva
una
capacità di adattamento tanto ampia, o una conoscenza
particolareggiata come la
sua. Eppure su quegli argomenti così semplici Mihael si
trovava del tutto
impreparato, e non trovava risposta a così numerosi
interrogativi. E allora,
ecco che si infuriava e stringeva forte i pugni, fino a quando non
sentiva le
unghie penetrare nella carne.
Tuttavia
quel
paese racchiudeva un dolce ripieno, come la promessa di trovare un
focolare
caldo a qualsiasi porticina si bussasse; e se in quel momento avesse
potuto
scegliere un luogo ove passare il resto della sua vita, avrebbe
indicato con il
dito proprio lì, senza rifletterci più di tanto.
Ma quelli erano pensieri sconnessi, pallide lusinghe
della mente. Lo scopo che si era imposto, prima di mettersi in viaggio,
era un
altro, ed ora si domandava se mai sarebbe riuscito a perseguirlo.
Doveva
rimettersi in cammino al più presto, senza ulteriori perdite
di tempo e
chiedere informazioni, nonostante il suo aspetto spaventoso, domandare
dove
fosse la cittadina chiamata Winchester,
e se per caso qualcuno conoscesse il luogo esatto
dell’orfanotrofio del
rinomato professor Quillsh Wammy. Capiva che sarebbe stato difficile,
ma
poteva, anzi, doveva contare solo sulla resistenza delle sue gambe, e
unicamente così avrebbe avuto qualche possibilità
di riuscita. Mihael non
nutriva dubbi su questo e, di conseguenza, non vi era spazio per il
timore di
un fallimento; ancora una volta inesorabilmente solo con se stesso, lui
e
Mihael Keehl; nessun altro. E, rispetto a tutto il resto, quella
consapevolezza
era l’unica a creargli un profondo terrore.
E
magari fu questo
ultimo, lugubre pensiero, o forse solo il caso; Mihael non lo sa,
tuttavia,
mentre rimuginava su queste premesse, non si accorse minimamente del
movimento
lento e quasi ipnotico delle sue labbra, le quali andavano a sussurrare
qualcosa; come un riflesso istintivo, un’azione recondita che
mai avrebbe
immaginato di poter compiere.
“Ti
prego.” Si sentì, in un bisbiglio.
Cos’era quella? Una richiesta di aiuto,
forse? A chi, poi? A chi? Nessuno, né dio né
uomo, gli aveva mai teso la mano,
mentre sprofondava in acque incerte e melmose; si era semplicemente
adagiato
sul fondo, sollevando appena una putrida polvere. Tutto qui.
Mihael
percepì chiaramente la gravità dello squarcio che
aveva nel petto; una ferita
infetta, che mai avrebbe avuto occasione di rimarginarsi. Era la sua
condanna:
avrebbe trasudato per sempre un sottile rivolo di sangue, che striscia,
ancora,
sulla pelle candida. Ed
era proprio
questa conoscenza innegabile che, lentamente, lo stava conducendo verso
luoghi
oscuri. Un’esasperazione tale da rassomigliare
all’albore di una follia.
Eppure non riusciva a
smettere di pensare a quella debole preghiera, lanciata a caso e
rivolta a
nessuno in particolare, la quale racchiudeva una miriade di sogni
infranti e,
ancora, custodiva gelosamente quelli che Mihael sperava di vedere
realizzati,
nonostante tutto. Proprio quei sogni fragili come cristalli che
così tanto
temeva di poter spezzare.
Sobbalzò
visibilmente sentendo il peso di una mano posata
con ben poca grazia sulla sua spalla, e nel momento stesso in cui si
sentì
costretto in una salda
morsa percepì
di essere stato strappato,
ancora una volta, dal tiepido abbraccio delle sue illusioni.
“ Hey, little brat, what are you doing?”
Mihael
boccheggiò, confuso. A
stento registrò che quello che aveva
davanti era con ogni probabilità un carabiniere, o
poliziotto britannico, il
quale per giunta gli aveva appena dato del moccioso, sputandoglielo in
faccia
con tono sprezzante. Quella nuova comparsa si era rivelata piuttosto
crudele,
pensò Mihael. D’altronde lo aveva colto
impreparato, piombandogli addosso come
un avvoltoio.
Mihael
sbuffò stizzito, esibendo una nuova espressione di completa
insolenza. Gli bastò
un istante per realizzare con lucidità di essere appena
stato catturato, così
ingenuamente, per giunta. Era un bel guaio; ora avrebbe dovuto fornire
delle
spiegazioni più che convincenti. Avrebbe dovuto sorridere,
fingere ancora, e
mostrarsi innocente, desideroso di collaborare.
Era con ovvietà la cosa più giusta
da
fare, eppure, in quell’istante, nulla nella sua testa gli
proponeva di agire
razionalmente. Una sola parola gli veniva suggerita: “
Scappa!” , perché Mihael
sapeva che se fosse stato rinchiuso, ancora una volta, in qualche luogo
angusto
dove si sarebbe sentito soffocare, dove il suo progetto di sarebbe
lentamente
sgretolato, era certo che sarebbe impazzito definitivamente.
Gli argini
rotti e lui sommerso; il suo grido silenzioso, soltanto un pianto muto.
Provò quindi a liberarsi
dalla presa dell’uomo con uno strattone improvviso, e
tuttavia si sorprese di
quanto fosse risultato debole quel tentativo: si scoprì
ancora e del tutto
imprigionato da quelle mani rudi che avevano aumentato la stretta sulla
sua carne,
già così dolorante. Lo sguardo del suo aguzzino
si era fatto ostile; non aveva
scelta, avrebbe dovuto ascoltarlo.
“ Where are your parents?” Mihael non
rispose. Genitori. Quali genitori?
L’uomo lo scrollò, quasi potesse
pensare che il bambino stesse dormendo profondamente tra le sue
braccia,
domandandogli se fosse sordo, per caso.
Mihael comprendeva con chiarezza
cosa stava per succedere: niente genitori significava essere un orfano,
un
ladruncolo sudicio e allo sbando nel mondo. Doveva fuggire, ad ogni
costo. Se
non in quel momento, se non in quel luogo, era certo che sarebbe
scappato,
prima del concludersi di quel giorno.
E, fra i suoi mille
progetti, non constatò neppure la palese realtà
di essere, ormai, senza più
forze.
Fu in quel momento che si accorse dello sguardo
dell’uomo, divenuto
all’improvviso insistente, quasi cercasse di riconoscere in
Mihael un lontano parente
o, chissà, forse un amico. La sua mano fasciata nel bianco
guanto andò, tutta
tremante, a frugare tra le pieghe della divisa, da dove riemerse
stringendo un
foglio di giornale stropicciato. Per
un istante a Mihael ricordò un prestigiatore.
Ora
i suoi occhi si erano fatti attenti e guizzavano frenetici dalla carta
al
bambino, dal bambino alla carta; un lampo di qualcosa del tutto simile
alla
paura ( o speranza forse) li attraversò. Infine si decise
con un gesto brusco a
condividere anche con lui quel foglio logoro, improvvisamente tanto
prezioso.
Iniziò a farfugliare parole agitate ed incomprensibili,
additandolo con fare
piuttosto maleducato, indicando poi l’articolo.
Dal canto suo Mihael si trovò davanti se
stesso, o almeno, quella che
sembrava essere una foto di lui, in prima pagina, ingrandita
orribilmente e
sovrastata da una scritta nera che recitava, inesorabile, la parola
“MISSING”;
e il primo pensiero di Mihael risultò nel constatare che,
più che altro, pareva
un necrologio; che tristezza: quasi gli si stringeva il cuore.
Quindi
lo stavano cercando.
Quella
consapevolezza non gli suscitò nessuna particolare reazione;
come un
osservatore esterno, valutò soltanto che era giusto
appendere manifesti e
annunci un po’ ovunque, avvertire la polizia,
poiché non era affatto decoroso
per una famiglia così in vista perdere l’unico
figlio tanto facilmente.
A Mihael quasi
facevano pena; che genitori disgraziati, privati or ora del loro
bambino;
chissà che fine avrà fatto, il marmocchio.
Pensò che probabilmente era annegato
in qualche fiume, o inciampato su un roccione.
Comunque pazienza;
in fondo non erano affari suoi.
Ma
come spiegarlo a questo qui? L’uomo lo stringeva
spasmodicamente, temendo ora
più che mai una sua fuga, lo fissava con grandi occhi
febbricitanti e ricolmi
di speranza. Mihael poté facilmente rivedere nelle sue iridi
lo sguardo
languido e ormai conosciuto di chi ha trovato il modo per fare un
po’ di soldi o
fortuna, l’atteggiamento ripugnante dei vermi che si
prostrano con umiltà ai
piedi dei potenti, mendicando un’occasione.
Era quasi
mortificato, il bambino, di dargli la notizia; eppure nel fondo del suo
cuore
quella scena così pietosa lo divertiva.
“
Mi dispiace, ma non sono io.” Disse.
Terribilmente convincente, ma in quel momento non aveva avuto bisogno
di
mentire o recitare, infatti lo aveva già chiarito una volta,
e quella non era
altro che la verità.
L’uomo raccolse la risposta
con un sussulto; lo fissò con disprezzo,
ispezionò i suoi vestiti stropicciati,
paragonandoli con aria disgustata a quelli, splendidi, della foto. La
sua
carnagione rosea non aveva nulla a che fare con il colorito pallido e
principesco di quel Mihael Keehl.
Fece
poi un gesto rassegnato con la mano, non curandosi in alcun modo di
nascondere
la cocente delusione, solo si ricacciò il giornale in tasca
e strattonò il
bambino per indurlo a seguirlo.
Eccone
un altro,pensava, un altro bastardo che gli procurava
l’ennesima scocciatura.
E, come se non bastasse, dal cielo cadeva quella pioggia da sempre
tanto
detestata, così fastidiosa e che mai accennava a diminuire;
solo, precipita
lenta e non si ferma, regolare come il placido ticchettio
dell’orologio.
Così
si strinse nella giacca di tela, ormai fradicia, rimuginando e
borbottando.
Anche per oggi, non aveva nessuna voglia di lavorare.
“ Hai proprio
ragione moccioso” proferì, voltandosi ancora un
momento verso Mihael. “ in
fondo non sei altro che uno sporco orfano.”
Sogghignò , e un filo di bava gli
fece capolino sul mento senza che lui se ne accorgesse; da
quell’istante in poi
non lo degnò più di uno sguardo.
Ma
il bambino era comunque soddisfatto: quello stesso giorno aveva
finalmente
messo la parola fine all’esistenza di Mihael Kheel, il quale,
proprio in quel
momento, stava esalando l’ultimo respiro, dopo essere
rovinosamente ruzzolato
sul fondo di qualche gola scoscesa. Boccheggiava, le braccine sottili
orribilmente contorte dalla caduta, spezzate come rami secchi; la pelle
diafana
scorticata è ammirata da occhi azzurri e increduli che
vedono per la prima
volta il colore vermiglio del sangue.
“ Avresti
fatto meglio a restartene accoccolato tra le mura sicure del tuo
castello,
senza andartene troppo a spasso, poiché in fondo te la sei
cercata. Piccolo e
stolto essere di cristallo, guardati: sei appena venuto al mondo e
già ti rompi
in mille pezzi, mille specchi di speranza tradita.”
Mihael
sorrise, innocente, trotterellando mansueto dietro a
quell’uomo così patetico nella
sua pomposa uniforme, poiché mai avrebbe potuto immaginare
che già il moccioso
pensava a come fuggire, silenzioso, nella notte.
In
Germania intanto il signore e la signora Keehl si
sarebbero presto rassegnati, e magari lei ha già in progetto
di prendersi uno
di quei cani che entrano perfettamente nelle borsette, e che tremano,
ininterrottamente, colpiti da continue convulsioni.
I così eccessivi manifesti raffiguranti il bel
visino di Mihael presto
diradati, strappati dal vento gelido e dalla pioggia battente, per poi
scomparire definitivamente un giorno, di cui nessuno ricorda la data.
Anni dopo la
società del signor Keehl sarebbe fallita miseramente,
sorpassata in azioni
dalla Yotsuba, che ormai primeggiava a livello mondiale.
Così, quando il signor
Keehl si portò alla testa la pistola, che conservava
sapientemente nel
comodino, e si sparò, tutti lo cedettero opera di Kira, solo
un’ennesima ed
ignara vittima della sua furia omicida, e tuttavia non vi è
da escludere
nemmeno questa possibilità, visto lo straordinario
attaccamento alla vita di
quell’uomo.
Da parte sua, la ormai vedova signora Keehl ( la quale detestava quel
nuovo titolo che la invecchiava terribilmente) non sprecò
neppure un istante e
dette subito inizio alla disperata ricerca di un nuovo ( e ricco)
marito; dopo
neppure un anno eccola felicemente sposata con qualche altro parassita
sociale,
senza figli. Lei e il suo barboncino bianco vivono ora sulla soleggiata
costa
Californiana, finalmente al caldo.
Per quanto riguarda la villa, che un tempo fu imponente ed
aristocratica,
adesso è stata comprata ad una somma ridicola da un
fortunato impresario e,
data la tranquillità del luogo, divenuta
un’accogliente pensione.
La stanza di Mihael ora
ne è il refettorio, e puzza di carote bollite.
Ciò che è certo è che
quell’odore non se ne andrà mai.
Tuttavia
il mondo è da tempo oppresso dalla follia di
Kira.
Troppe morti sono passate inosservate, la terra è intrisa di
sangue e
non dà nuovi germogli.
Nessuno ha più tempo per badare alle piccole cose, tutti
hanno
paura.
Non passò
molto. Il bambino smarrito fu presto dimenticato.
Quando
Mihael e il poliziotto giunsero all’orfanotrofio
cittadino che, fortunatamente per i piedi martoriati di Mihael, si
trovava
appena a pochi minuti da lì, e quando il bambino, dilatando
gli occhi si
accorse, leggendo la scritta “ Wammy’s
house” incisa sulla lastra di spesso
ottone, che non avrebbe dovuto più scappare, allora, proprio
in quel momento, i
suoi pensieri tornarono ratti alla preghiera fatta inconsapevolmente
poco
prima.
Il bambino
non sapeva che quella non era la prima volta che pregava, non poteva
saperlo in
alcun modo. Ma a volte lo faceva, distrattamente, e senza mai
accorgersene;
spesso chiedeva, sussurrava aiuto nel suo sonno leggero e tormentato.
Ed
ora, mentre se ne stava con la bocca spalancata a fissare
l’imponente cancello
di quella che, a quanto sembrava, era la tanto bramata meta, non poteva
dire,
davvero, se fosse opera di qualche dio o se fosse solamente pura
fortuna;
comunque questo, non aveva importanza. Perché, per la prima
volta della sua
vita, tra mille sconfitte e mille domande senza risposta, nonostante
innumerevoli volte avesse disperatamente chiesto aiuto, un aiuto
assolutamente
necessario e sempre negato; ecco che in quell’ultima e
piccola preghiera,
Mihael aveva riposto anche la sua ultima speranza: e finalmente
qualcuno lo
aveva ascoltato.
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