Amore finito

di Niki_S
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La verità ***
Capitolo 2: *** Il caffè ***
Capitolo 3: *** Messaggio ***
Capitolo 4: *** Piccolo Malato ***



Capitolo 1
*** La verità ***


Capitolo I - L'Inizio 1 - La Verità


Sono davanti a questo computer da quasi mezz’ora, ma quando mi ero seduto non avrei mai immaginato di poter finire così. Premo di nuovo la freccia a destra, ed è esattamente la settantasettesima volta che lo faccio ma ora non fa più male.
Quando ho acceso il pc ho trovato nella casella e-mail una cartella con duecentoventitre foto accompagnata da queste parole: Penso che sia giusto che tu sappia, anche se non avresti dovuto saperlo da me. Cambio ancora foto, perché ho intenzione di vedermele tutte, non voglio restare ancora nell’ignoranza. Lo skyline di New York riempie lo sfondo e per quanto sia un amante di quella meravigliosa città i miei occhi restano fissi sui due soggetti centrali. Il ragazzo ha le mani sui fianchi di una ragazza e la sta guardando dritto negli occhi, anche se lo sguardo di lei è abbassato con pudicizia. Premo ancora il tasto e passo alla foto successiva dove le labbra del ragazzo sono premute sul collo di lei, mentre questa passa le braccia attorno al suo collo. Non mi fa più male vedere queste immagini, perché ho stampato sulla retina la foto numero cinque, quella che mi ha davvero spezzato, che mi ha fatto dubitare di tutto il mio mondo.
Non serve nemmeno che torni indietro per ricordarmela: non c’è più il cielo a fare da sfondo, ma uno sgabuzzino dalle pareti gialle, con qualche armadio, però i soggetti sono gli stessi, solo più svestiti, anzi completamente nudi. Potrebbe anche sembrare uno screenshot di un video soft porn, se non per gli sguardi stupiti, terrorizzati e sconvolti che fissano la telecamera. La scena è molto semplice: lei è spalle al muro, con le braccia attorno al collo di lui e le gambe che si stringono sulla sua vita, lui invece tiene le mani sul suo sedere e i bacini si scontrano. Non ho dubbi che prima che fosse stata scattata la foto i due si stessero muovendo e non ho nemmeno bisogno di immaginare i suoni che riempivano la stanza, perché li conosco fin troppo bene.
Ecco, quella foto era stata quella che mi aveva bloccato, l’avevo osservata forse per cinque minuti, sperando che ogni volta che sbattevo le palpebre i soggetti cambiassero, che non fosse vero, ma le duecentodiciotto foto successive non mentono.
Mi sento un vero idiota a pensare che si potesse mantenere una relazione a distanza, che noi due ce l’avremmo fatta, ma ogni foto che vedo è come una voce che mi urla contro che mi prende in giro. Però so che ascolterò tutto quello che avrà da dirmi, so che guarderò ogni immagine lasciando che mi distrugga completamente perché me lo merito, mi sento in colpa per qualcosa che non ho fatto io.
Sono stupido, l’ho detto.
Sento il telefono che vibra sulla scrivania accanto alla mia mano e vedo il suo nome sullo schermo, ma non so se rispondere. Per quanto ne sa lui sto per mettermi a letto e non so nulla della sua serata precedente. Premo il tasto rispondi e posiziono la chiamata in vivavoce, mi sento schifato anche solo all’idea ti tenere in mano qualcosa che mi collega a lui.
-Hey, Olly- la sua voce suona così tranquilla, come se tutto fosse normale, ma a me sembra di vivere dentro una bolla, dove nulla va come dovrebbe – come stai?-
Mentre parla cambio ancora foto e questa volta lui ha la camicia aperta e un piccolo ciondolo nero risalta sulla pelle chiara. Gliel’ho regalato io, quando mi aveva aiutato a superare uno dei momenti più difficili della mia vita, e ora assisteva al crollo di un mondo. Ora non ce la faccio più, posso sopportare che non voglia stare con me, che si sia stancato di un ragazzo pesante e dalla lingua lunga, ma vedere quel ciondolo ancora al suo collo mi fa pensare che voglia fare il doppio gioco e a questo non posso starci.
-Rivoglio la mia collana.- Non aggiungo altro e attacco il telefono, mettendolo in silenzioso e lo giro, in modo da non vederlo illuminarsi ancora.
Continuo a guardare le foto ma la mia testa è altrove, ripenso a quello che ho passato con lui, tutti i momenti della mia vita che gli ho dedicato, ossia il tempo che ho sprecato e mi vengono le lacrime agli occhi.





Era una giornata di metà febbraio a Richmond, nell’Indiana, la mia meravigliosa città natale, e io stavo tornando a casa dopo la scuola. Ero al terzo anno in un istituto privato che sosteneva fortemente la superiorità dei ragazzi bianchi di buona famiglia, ma che almeno offriva molti corsi interessanti e con professori che venivano pagati per le loro abilità.
Ero rimasto a scuola un po’ più a lungo del solito, perché, come ogni giorno, cercavo una scusa per non dover tornare a casa, entrare nella mia enorme villa vuota e starmene da solo, così avevo passato quasi due ore nella biblioteca a studiare inglese. Però sapevo di non poter restare lì ancora a lungo o mi avrebbero chiuso fuori, così ero uscito per tornarmene, con la maggior calma possibile a casa.
Il cielo era coperto da delle nuvole grigie e tetre che preannunciavano una brutta serata e il vento cominciava a soffiare gelido. Mi strinsi nel cappotto, anche se non mi infastidiva poi tanto l’aria fredda, e comunque i pantaloni della divisa scolastica non riparavano minimamente le gambe, che ormai cominciavano a perdere di sensibilità.
Ero tranquillo, perso tra i miei pensieri come un giorno qualsiasi, ma molto attento al marciapiede, perché sapevo che il ghiaccio non aveva ancora avuto modo di sciogliersi, proprio come i cumuli di neve sulle piccole aiuole erbose accanto. Infatti quando passai accanto ad un albero posai il piede con molta attenzione a terra, perché mi aspettavo la lastra ghiacciata e per fortuna non scivolai, però non fui così fortunato anche il secondo successivo. Il ragazzo dietro di me, di cui non mi ero nemmeno accorto, non prestò la mia stessa attenzione al suolo e posò con troppa non curanza il piede a terra, scivolando pesantemente. Non mi accorsi di nulla, ma poi ricostruii la dinamica che è questa: il piede del ragazzo scivolò in avanti, lui per non cadere compensò portando il busto verso di me e posando la mano sulla mia spalla, ma non ci riuscì e scese fino ad aggrapparsi alla mia manica. Io ovviamente non me l’aspettavo e probabilmente avevo un piede in aria, perché persi immediatamente l’equilibrio, forse ero ancora sul ghiaccio, questo non l’ho mai scoperto, e finii per cadere come un pero in uno dei cumuli di neve. Fu letteralmente una doccia fredda sul viso e sulle mani, e persino sulla schiena, quando una manciata di gelo si infilo dentro la camicia, a contatto con la mia pelle. Farfugliai qualcosa, forse dissi anche, molto poco elegantemente, qualche parolaccia, ma quando riuscii un minimo a ritrovare la terra sotto ai piedi alzai lo sguardo per guardare la causa dei miei mali.
-Oddio! Scusami, non volevo, è che sono scivolato come un idiota e…-
Il ragazzo agitò le mani cercando di ricostruire la scena, senza alcun risultato e poi mi porse la mano.
-Ti prego, alzati e dimmi che stai bene…-
Sentendo la disperazione nella sua voce non riuscii a trattenere un sorriso e presi la sua mano, lasciando che fosse lui a tirarmi in piedi. Poi cominciò a passare la mano sul mio cappotto, sulle maniche e sulla schiena per liberarmi dalla neve che mi copriva. Continuava a scusarsi e a controllare che non mi fossi fatto male, e non riuscii davvero a trattenere una risata.
-Tranquillo, non è niente succede…Solo…- Mi aprii il cappotto e sfilai la camicia dai pantaloni, passandomi una mano sulla schiena per far cadere il cumulo di neve che ci si era infilata. Quando fui apposto alzai lo sguardo sul ragazzo, sorridendo.
-Vedi, non è successo niente?-
Ma il suo sguardo era ancora dubbioso e preoccupato, così decisi di trovare una soluzione.
-Dai, offrimi un caffè così mi scaldo e starò benissimo.-
Continuavo a sorridergli, per tranquillizzarlo, perché più che provare fastidio per il piccolo incidente mi stavo divertendo a vedere il suo viso torturato dai sensi di colpa per una cosa da niente. Ma alla mia proposta si illuminò e annuì.
-Ci sto- disse con entusiasmo, per poi porgermi la mano. –Comunque dopo averti quasi ucciso dovrei almeno presentarmi, sono Adam.
Ricambiai la stretta della mano sorridendogli e con un senso di simpatia e fiducia crescente.
-Io sono Oliver e il piacere è tutto mio.-
Qualcosa mi diceva che quell’incontro particolare fosse solo l’inizio, e avevo ragione, anche se ora mi pento di aver offerto quel caffè.

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Capitolo 2
*** Il caffè ***


Capitolo II - Il Caffè Come mi aveva promesso, tralasciando che la proposta fosse stata mia, mi accompagnò alla caffetteria più vicina che, per un fortuito caso, era anche la migliore di tutta Richmond. Mentre camminavamo prestai attenzione al ragazzo che mi aveva mezzo investito, e mi accorsi che non lo avevo ancora guardato, anche se il suo volto mi risultava vagamente familiare. Aveva i capelli castani, ma di una tonalità davvero stupenda come se avesse ogni ciuffo di un colore diverso, e lo stesso valeva per gli occhi che erano anch’essi marroni, ma era impossibile non perdersi dentro. Infatti dovetti scuotere un attimo la testa per ritornare nel mondo reale dominato più dal grigio tetro che da quei colori ramati. E ci stavo ricadendo in pieno. Presi la saggia decisione di spostare lo sguardo dal suo viso, perché aveva troppi pregi su cui rischiavo di fissarmi, e guardai come era vestito. Crescendo nell’alta società, come amava chiamarla mia madre, avevo imparato la nobile arte di giudicare le persone dal loro aspetto e, anche se era una cosa che cercavo di reprimere la maggior parte delle volte, era una mia abilità talmente raffinata che di solito non sbagliavo. Così per una volta decisi di approfittarne. Indossava un lungo cappotto liscio e pulito, ed ero sicuro che se lo avessi annusato avrebbe avuto il profumo del pulito, esattamente come il mio. Abbassai ancora gli occhi, anche se solo per un istante, per guardargli i pantaloni, perché mi davano l’impressione che fossero identici ai miei; e avevo quasi indovinato, tranne che per un piccolo dettaglio: i miei avevano una corta striscia verticale, che dal bordo saliva per non più di cinque centimetri, di un blu chiaro, mentre la sua era verde scuro. Sapevo esattamente cosa significasse quella differenza. Infatti il mio liceo era una scuola privata molto importante dello stato e negli ultimi anni aveva aperto un’altra sede, ad appena qualche chilometro di distanza dalla precedente. Il perché non l’ho mai capito, mi aspettavo invece che si ampliassero al di fuori dell’Indiana, ma chi sono io per capire i ricconi? Comunque la sede nuova aveva rimpiazzato il blu storico con un verde “più moderno, anche per le nuove famiglie che potranno entrare nel nostro istituto privato”, o almeno così diceva il depliant. Tirate le somme Adam era un ragazzo di buona famiglia, simpatico e bello. Su questo almeno non avevo dubbi. Raggiungemmo il bar e lui mi aprì persino la porta, per farmi entrare, un gesto di galanteria che apprezzai e lo ringrazia con un sorriso, per poi precederlo ad un tavolo vuoto in un angolo. Eravamo lievemente isolati dal resto degli altri clienti e quella scelta, per quanto mi illusi fosse casuale, era più che mirata. Volevo parlare da solo con lui, volevo scoprire se avevo fatto bene i conti. Si sedette accanto a me parlammo, ordinando i caffè. Ammetto che se provo a ricordare quel pomeriggio sono poche le cose che ho ancora ben impresse nella memoria. Il suo sorriso, per esempio, che era uno di quelli impossibili da non ricambiare, caldo, solare, ma semplice, come se le tue parole lo divertissero sul serio. E poi i suoi occhi. Ancora adesso che pensare a lui mi fa male non riesco a non amare i suoi occhi, mi ci perdevo ogni volta, senza possibilità di fuggirgli. Ricordo molto bene quello che pensavo, però. Ero affascinato dalle sue mani, che si muovevano in continuazione, anche in gesti piccoli, ma se parlava non stavano mai ferme. Dal canto mio cercavo, nei modi che conoscevo, di fargli capire che ero interessato a lui, ma non riuscivo a vedere se i miei segnali andavano a segno. Probabilmente ero solo impedito in quelle cose, visto che di appuntamenti non ne avevo mai avuti molti, finchè non era stato lui a spiegarmi come fare. Ma in quel pomeriggio mi limitavo a girare la tazza di caffè tra le mani, passandomene, di tanto in tanto, una tra i capelli, cercavo di tenere lo sguardo sul suo, ma spesso cadeva sulle sue labbra. Sì, con il senno di poi quelli potevano essere segnali normali, ma io avevo la testa altrove e si sa che più si pensa alle cose peggio escono. Restammo lì per ore, non saprei nemmeno dire quanto perché parlavamo di tutto e intrattenevamo discorsi così interessanti che il tempo non aveva più importanza. Fu lui a dire di doversene andare.
- Scusami, Oliver – Oh, come pronunciava il mio nome! Lo faceva sembrare più lungo, più sensuale. – Devo assolutamente tornare al campus, o finisco per non trovare niente per cena. –
Dalle sue parole capii che era passato davvero tanto tempo e, ora che ci ripenso , credo che lui avesse guardato spesso l’orologio, cosciente in ogni istante dei minuti che passavano. Ma all’epoca quel pensiero non mi passò nemmeno per l’anticamera del cervello e mi alzai con lui, insistendo per pagare almeno la mia parte, ma lui non cedette. Era un altro gesto educato, pensai. Presi la tazza, che non avevo ancora finito, e lo seguii fuori dal bar, dove io dovevo andare a sinistra e lui a destra, salutandoci per rivederci chissà quando. Ma lui non era della stessa idea. Mi prese la tazza dalle mani e ci scrisse sopra il suo numero.
- Devo ancora assicurarmi che tu non ti sia fatto male. – fu la sua giustificazione, accompagnata da uno scrollare di spalle, per poi andarsene, salutandomi con un gesto della mano. Mentre io me ne stavo lì in piedi, con la tazza in mano e il sorriso sulle labbra.
Che stupido che ero, solo un illuso che voleva credere a tutto, ma l’ho capito troppo tardi. Mi giro sulla sedia per guardare la libreria alle mie spalle ed eccola lì, quel piccolo cilindro di cartone con i numeri scritti in penna, a guardarmi come se lei fosse l’arma del delitto, un’accusa schiacciata davanti alla mia faccia. Mi alzo e la accartoccio tra le mani, questo almeno mi fa sentire un po’ meglio.

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Capitolo 3
*** Messaggio ***


Capitolo III - Messaggio Duecentoventitre foto. Le ho viste tutte e mi sembra di uscire da una bolla. Ho passato le ultime due ore, perché ci ho messo tanto a guardarle, assicurandomi che non mi perdessi nemmeno un dettaglio, in un altro mondo, un posto tra New York e il dolore, dove ogni luce, ogni colore brillante era una lama affilata. Spengo il computer e mi alzo dalla scrivania, per sgranchirmi le gambe, ma anche per allontanarmi da quella tortura. Eppure le immagini sono impresse a fuoco nella mia testa, senza lasciarmi la possibilità di fuggire, non che lo voglia fare. Da quando ho ricevuto la e-mail riesco solo a pensare a quanto sono stato stupido a non accorgermene, non riesco nemmeno a dare la colpa a lui! E questo fa di me una persona ancora più stupida! Come posso prendermi io le colpe per gli errori altrui? Se non voleva stare più con me poteva dirlo, poteva chiamarmi e dirmi quanto sono insopportabile, elencarmi tutti i miei difetti, mi avrebbe perfino fatto un favore! Mi lascio cadere a terra, appoggiando la schiena al divano e chiudo gli occhi, tanto aperti o chiusi che siano le foto non spariscono dalla mia testa. Non so se ridere o piangere, ridere per l’assurdità della mia reazione, piangere per le sue azioni, ma non voglio dargli alcuna soddisfazione. Prendo un respiro profondo e mi alzo, prendendo il cellulare, per poi tornarmene a terra. Si sta bene seduti sul tappeto, è fresco, è morbido, mi fa concentrare su qualcosa che non siano le sue mani su di lei. Stringo il telefono tra le dita e poi mi obbligo a guardarlo. Cinque messaggi e altrettante chiamate perse, wow. Mi aspettavo qualcosa di più, ma ormai ho capito che sono bravo solo ad illudermi. Leggo i messaggi e sono tutte domande.

- Cosa succede? Perché rivuoi la collana? Cosa hai saputo? Chi te l’ha detto? Oliver, perché?-

Perché? Ed è allora che scoppio a ridere. Chiede perché a me. Si sta veramente chiedendo perché ho reagito così. E rido ancora di più, fino ad avere le lacrime agli occhi, solo che ora sto piangendo, e non volevo, non dovevo. Mi costringo a prendere un respiro profondo e poi a trattenere il fiato finchè non sento la testa leggera, così ora le lacrime sono sparite come la risata. Restano solo le sue parole stupide su un telefono. Lui è stupido, non io. Non sono io quello che si è comportato come un ragazzino, irrispettoso, doppiogiochista e falso. Lo è sempre stato ma io non l’ho mai capito o non l’ho mai voluto vedere. Premo il tasto per rispondere e scrivo in fretta, senza pensare, lasciando che tutte le parole peggiori che mi riempiono la testa finiscano sul messaggio, una dopo l’altra, ma poi cancello tutto. Questo non sono io, non sono volgare né maleducato, per quanto una persona se lo meriti, e lui se lo merita, senza dubbio.

- Sei stato con un’altra. –

Mi limito a rispondere così e non voglio delle scuse, non le accetterei mai, ma voglio davvero sentire come intende giustificarsi, perché, se almeno un po’ lo conosco ancora, non ho dubbi che presto mi risponderà dichiarandosi innocente. E infatti la risposta è quasi istantanea.

- Non è vero, chi te l’ha detto? Oliver, io amo te. –

Mi trattengo dallo scagliare via il telefono, perché so che quelle parole non sono vere e non voglio nemmeno soffermarmi sul chiedermi se mai lo sono state.

- Me l’ha detto il ragazzo di lei, che vi ha visti.-

Mi chiedo come abbia fatto quel ragazzo a contattarmi, una domanda che non mi ero posto prima. Forse tramite i social network, una persona capace di usarli dovrebbe riuscire a rintracciare tutti, da quel che so. Io mi ero iscritto solo per Adam, ed ecco che il mio tentativo di pensare ad altro è fallito di nuovo.

- Oliver, qualsiasi cosa ti abbia detto non è vero, lei è solo una mia amica! –

Eccolo che pronuncia ancora il mio nome, lo sento nella testa, la sua voce così sensuale che lo rende più dolce, più bello come faceva con tutto. Scuoto la testa, perché lui non è lì con me e io non ho ancora le allucinazioni. Quel gesto mi deve aver risvegliato perché realizzo che lui sa della foto.

- Vi ha visti baciarvi. –

Nell’immagine numero cinque, la peggiore di quelle duecentoventitre, i suoi occhi che avevo tanto amato sono fissi nell’obbiettivo, come se vedessero anche oltre lo schermo, e quello sguardo stupito e spaventato non è finto. Lui sa che gli è stata scattata una foto, sa che il ragazzo di lei probabilmente l’ha vista, eppure pensa che io non ce l’abbia impressa nella retina.

- È stato un fraintendimento! È stata lei a baciare me, io non ho voluto! –

Riesco solo a vedere le sue mani su di lei, che le alzano il maglioncino. Quelle foto erano ad una tale risoluzione che si riusciva persino a vedere la pelle d’oca su entrambi! Come posso pensare che fosse un fraintendimento?

- È tutto qui? Solo un bacio sbagliato? –

Niente sesso in uno sgabuzzino? Un unico bacio all’ombra della Luna di New York? Eppure sono duecentoventitre foto diverse, una peggio dell’altra, anche se ce n’è una peggiore delle altre.

- Sì. Sai che non ti mentirei mai. Ti amo. –

No, infatti, solo la verità, non mi hai mai detto altro, penso con sarcasmo. Accedo al server di casa con il cellulare e scarico la foto numero cinque, non mi serve nemmeno controllare che sia quella. Oltretutto potrei anche prenderne una a caso per fargli vedere che so, ma quella è la foto che mi ha distrutto ed è quella che deve vedere anche lui. La allego ad un messaggio.

- No, non mi hai mai mentito, ogni singola parola che hai detto o scritto era la pura verità. Un anno è passato, un anno in cui non credo più. Bugie, falsità, finzione, questo è stato. Questo sei tu. Capace di mentire anche davanti alla verità, incapace di ammettere i tuoi errori, persino con me. Non voglio più avere a che fare con te, non voglio più vederti, né sentirti. Rivoglio la mia collana e tu riavrai le tue cose, per il resto… Sparisci. –

Lascio il cellulare sul divano e mi alzo, buttandomi sul letto ancora vestito. Voglio che sparisca dalla mia vita, che sparisca persino dalla mia testa, ma contro i ricordi non posso farci nulla, se non stringere i denti.










********
Vorrei riuscire a pubblicare in maniera un po' più regolare, ma un po' il fatto che non ho lettori assidui e il fatto che riesco a scrivere solo quando sono in treno, chissà perchè XD, rendono l'impresa complicata...
Il mio intento è solo quello di scrivere la storia di un personaggio che mi è entrato in testa, che mi ha fatta innamorare di lui e penso di doverglielo. Oliver è nato come personaggio di un gdr, ispirato solo a quello che mi viene in mente, ma è diventato così complesso che ha bisogno di una storia. E cosa c'è di meglio di una brutta esperienza? XD Se qualcuno ha pietà di lui posso dirgli che nel gdr Oliver sta vivendo una vita migliore, a tratti, ma io mi sto impegnando XD
Vorrei anche darvi un'idea di come è fatto, ma l'unico che si avvicina abbastanza a come lo vedo io è Mitch Hewer, Maxxie di Skins, anche se alcuni tratti sono un po' diversi.
Per Adam, invece, non ho ancora trovato un prestavolto che mi soddisfi, quindi eventuali suggermienti sono più che graditi!
Detto questo, se qualcuno sta leggendo voglio ringraziarlo e mi piacerebbe ricevere un qualche commento, anche una critica, perchè vorrei davvero che questa storia sia la migliore che abbia mai scritto e senza feedback è impossibile migliorarsi.
Grazie
~ Niki

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Capitolo 4
*** Piccolo Malato ***


Capitolo IV - Piccolo Malato Non ho chiuso occhio tutta la notte, per colpa delle immagini che continuavano a riempirmi la testa. Ma, per mia sfortuna, non erano gli incubi a tormentarmi, erano solo ricordi. Maledetti ricordi, per quanto ci provi non li dimenticherò mai, rimarranno per sempre sospesi tra la bellezza di quel momento e la falsità di cui ora sono a conoscenza. Il giorno dopo quel caffè mi ero svegliato sullo stesso letto su cui sono ora e proprio come adesso avevo passato la notte tormentato dagli incubi e non riuscivo ad alzarmi. Solo che allora la causa non era della sofferenza psicologica, ma di un vero e proprio malessere fisico. Evidentemente passare tutto il pomeriggio con la neve sulla schiena non faceva molto bene. Mi ero svegliato con qualche linea di febbre e il mio primo pensiero non era stato sul mio malessere, ma sul fatto che dovevo dirlo ad Adam. Lo conoscevo da nemmeno un giorno e non facevo che pensare a lui. Ora mi chiedevo se anche lui si fosse perso a pensare a me o fosse stata tutta una farsa fin dall’inizio, ma non so se sapere la verità possa davvero aiutarmi. Mi rigiro nel letto, cercando di lottare con me stesso, con quella parte di me che continua a rivivere i momenti salienti della nostra relazione, perché ci sono state delle occasioni in cui mi era impossibile non amare Adam, lui era capace di… Di rendere la mia vita migliore, degna di essere vissuta, ed è stato questo il mio punto debole, permettermi di vivere la vita con lui, quando dovevo accettare la realtà. Mi premo il cuscino sul viso per soffocare la malinconia che sento crescere in me, perché non posso permettermi di stare così per lui! O forse sì. Forse ho bisogno di cedere, di lasciarmi cadere in un baratro oscuro pieno solo di rimpianto per un giorno, per riuscire ad accettare tutto questo, per chiarire a me stesso che no, non è colpa mia, nemmeno un po’, visto che ancora non ne sono sicuro. Sposto il cuscino e prendo un respiro fondo e sfido il mio stesso corpo, ignorando l’emicrania lancinante, il dolore al petto e mi alzo, diretto in bagno. C’è un posto dove so di potermi fermare, isolare dal mondo e pensare e basta, ricordare se voglio, ma comunque restare solo con me stesso. Mi spoglio senza nemmeno accorgermi dei miei movimenti, lasciando che tutto cada a terra e apro l’acqua, infilandomi sotto la doccia, ma non mi muovo nemmeno quando sento il getto gelido sulla pelle, è un sollievo.




Fuori nevicava di nuovo e io, per quanto fossi sotto a tre strati di coperte, mi sentivo come se fossi in giardino in mutande. Continuavo a tremare e mi stringevo a me stesso come una pallina, cercando un minimo di calore, ma senza tanti risultati. Eppure, anche se stavo male, e ricordo che ero quasi convinto di essere in punto di morte, non riuscivo a smettere di pensare ad Adam, al suo sorriso e a quanto si sarebbe sentito in colpa appena avesse scoperto che stavo male. Ovviamente davo per scontato che avesse una coscienza e la capacità di sentirsi in colpa, anche se ora ne dubito profondamente. Comunque quella mattina ci misi almeno mezz’ora a trovare il coraggio per sottrarre un braccio al calore delle coperte per prendere il telefono e tornare a nascondermi in quella sottospecie di tana tiepida. E altrettanto tempo mi ci volle per decidere cosa scrivere. Mio padre mi dice sempre che sono peggio di una femminuccia e ora che ripenso a com’ero un anno fa per lui penso che avesse ragione, visto che continuavo a scrivere e cancellare, esitando fino all’ultimo. Alla fine il messaggio che inviai fu per errore, perché non ero riuscito ad annullarlo in tempo.
-Ciao, spero di non svegliarti, ma volevo ringraziarti per il caffè :) -
Mi ci erano voluti dieci minuti solo per decidere se non mettere la faccina e non mi ero nemmeno accorto che erano le dieci del mattino, quindi lui era senza ombra di dubbio a scuola, non a letto come me. In quel momento non ci avevo pensato, ma i miei genitori non erano mai venuti a controllare come mai non fossi a scuola, era passata la cameriera per sistemare la mia stanza e quando mi aveva visto si era scusata ed era uscita. Forse era per questo che avevo scritto ad Adam, perché nonostante lui fosse un completo sconosciuto sembrava l’unico che si preoccupava realmente per me, per la mia salute. E questo non lo posso negare neanche ora, aveva sempre sprecato un minuto del suo tempo per assicurarsi che stessi bene, era solo da quando si era trasferito che quel minuto era diventato tutto il tempo in cui parlavamo. Comunque quella mattina la sua risposta fu quasi istantanea, come se avesse il telefono in mano in attesa di un mio messaggio, o forse stava per scrivermene uno lui, o stava parlando con qualcun altro, ma io speravo nelle prime due.
- Mi sa che tu invece ti sei appena svegliato, mentre io sono a scuola già da un po’! Non è che per caso il mio caffè non è stato sufficiente per prevenire qualsiasi malessere derivato dal nostro piccolo incidente?? –
Ero rimasto affascinato dal suo modo di scrivere, molto intellettuale, come avevo sempre cercato di essere io, anche se nelle condizioni in cui ero mi ci vollero diversi tentativi per tradurre le sue parole.
- Temo proprio di sì, a meno che i brividi e il freddo siano dovuti da altro… -
Come un ragazzino di dodici anni che pensava solo al sesso aggiunsi mentalmente che volevo che quei brividi fosse lui a causarmeli.
- Oddio, mi dispiace! Vorrei poter essere lì per scaldarti, ma questa scuola non è tanto diversa da una prigione! –
Voleva essere con me! Dal mio punto di vista si era praticamente offerto di prendersi cura di me e nessuno l’aveva mai fatto, era una proposta così inaspettata ma gradita che sentii già un po’ di calore invadermi.
- Non preoccuparti, non è nulla di che, magari è solo una febbre stagionale che già covavo, magari non è colpa tua… -
Me ne stavo avvolto tra le coperte, affondato tra i cuscini e con il telefono in mano, mentre il sorriso sulle mie labbra non faceva che diventare sempre più grande e non potevo farci nulla. Non che volessi, qualcuno sembrava mostrare sincero interesse per me e io me lo stavo godendo, volevo che venisse lì, che si sedesse sul letto con me, volevo fare il malato. Parlammo ancora per diverse ore, probabilmente per tutta la mattina, e mi costrinsi anche ad ignorare il sonno che mi stava assalendo, troppo concentrato sui nostri commenti sulla scuola, i professori e gli stereotipi del mondo in cui eravamo cresciuti. Mi disse che anche lui, come me, non aveva mai avuto dei genitori molto presenti e doveva sempre prendersi cura di se stesso. Pensai che forse era per questo che si stava preoccupando per me, perché sapeva quanto fosse dura stare soli e sorrisi ancora di più. Quando lui mi disse che le lezioni erano finite la mia lotta con il sonno stava diventando sempre più insostenibile e probabilmente gli risposi che già ero nel mondo dei sogni, ma lo avvisai che mi stavo addormentando e so che sentii il cellulare vibrare dalla sua risposta, ma non avevo forza di restare ancora sveglio.




L’acqua scivola lenta sul mio corpo e mi sento senza forza, come se fosse solo l’inerzia a tenermi in piedi, toppo faticoso anche lasciarsi andare. Non so quando mi sono innamorato di Adam, non so nemmeno se quello che provavo, perché devo smettere di provare qualcosa per lui, si poteva chiamare amore. Ma se devo indicare un momento in cui ho seriamente iniziato ad avere qualcosa di più di una cotta per lui è stato in quel giorno, quando non riuscivo nemmeno ad alzarmi dal letto. Dopo il mio pisolino aprii gli occhi e vidi il suo viso, accanto al mio e con un piccolo sorriso sulle labbra, un’immagine che anche ora mi stringe lo stomaco. Sì, è stato allora che ho deciso di volerlo nella mia vita, in un modo o nell’altro.

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