Amore finito di Niki_S (/viewuser.php?uid=15303)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La verità ***
Capitolo 2: *** Il caffè ***
Capitolo 3: *** Messaggio ***
Capitolo 4: *** Piccolo Malato ***
Capitolo 1 *** La verità ***
Capitolo I - L'Inizio
1 - La Verità
Sono davanti a questo computer da quasi mezz’ora, ma
quando mi ero seduto non avrei mai immaginato di poter finire
così. Premo di nuovo la freccia a destra, ed è
esattamente la settantasettesima volta che lo faccio ma ora non fa
più male.
Quando ho acceso il pc ho trovato nella casella e-mail
una cartella con duecentoventitre foto accompagnata da queste parole: Penso che sia giusto che tu
sappia, anche se non avresti dovuto saperlo da me.
Cambio ancora foto, perché ho intenzione di vedermele tutte,
non
voglio restare ancora nell’ignoranza. Lo skyline di New York
riempie lo sfondo e per quanto sia un amante di quella meravigliosa
città i miei occhi restano fissi sui due soggetti centrali.
Il
ragazzo ha le mani sui fianchi di una ragazza e la sta guardando dritto
negli occhi, anche se lo sguardo di lei è abbassato con
pudicizia. Premo ancora il tasto e passo alla foto successiva dove le
labbra del ragazzo sono premute sul collo di lei, mentre questa passa
le braccia attorno al suo collo. Non mi fa più male vedere
queste immagini, perché ho stampato sulla retina la foto
numero
cinque, quella che mi ha davvero spezzato, che mi ha fatto dubitare di
tutto il mio mondo.
Non serve nemmeno che torni indietro per
ricordarmela: non c’è più il cielo a
fare da
sfondo, ma uno sgabuzzino dalle pareti gialle, con qualche armadio,
però i soggetti sono gli stessi, solo più
svestiti, anzi
completamente nudi. Potrebbe anche sembrare uno screenshot di un video
soft porn, se non per gli sguardi stupiti, terrorizzati e sconvolti che
fissano la telecamera. La scena è molto semplice: lei
è
spalle al muro, con le braccia attorno al collo di lui e le gambe che
si stringono sulla sua vita, lui invece tiene le mani sul suo sedere e
i bacini si scontrano. Non ho dubbi che prima che fosse stata scattata
la foto i due si stessero muovendo e non ho nemmeno bisogno di
immaginare i suoni che riempivano la stanza, perché li
conosco
fin troppo bene.
Ecco, quella foto era stata quella che mi aveva
bloccato, l’avevo osservata forse per cinque minuti, sperando
che
ogni volta che sbattevo le palpebre i soggetti cambiassero, che non
fosse vero, ma le duecentodiciotto foto successive non mentono.
Mi
sento un vero idiota a pensare che si potesse mantenere una relazione a
distanza, che noi due ce l’avremmo fatta, ma ogni foto che
vedo
è come una voce che mi urla contro che mi prende in giro.
Però so che ascolterò tutto quello che
avrà da
dirmi, so che guarderò ogni immagine lasciando che mi
distrugga
completamente perché me lo merito, mi sento in colpa per
qualcosa che non ho fatto io.
Sono stupido, l’ho detto.
Sento il
telefono che vibra sulla scrivania accanto alla mia mano e vedo il suo
nome sullo schermo, ma non so se rispondere. Per quanto ne sa lui sto
per mettermi a letto e non so nulla della sua serata precedente. Premo
il tasto rispondi e posiziono la chiamata in vivavoce, mi sento
schifato anche
solo all’idea ti tenere in mano qualcosa che mi collega a lui.
-Hey, Olly- la sua voce suona così tranquilla, come se tutto
fosse normale, ma a me sembra di vivere dentro una bolla, dove nulla va
come dovrebbe – come stai?-
Mentre parla cambio ancora foto e questa volta lui ha la camicia aperta
e un piccolo ciondolo nero risalta sulla pelle chiara.
Gliel’ho
regalato io, quando mi aveva aiutato a superare uno dei momenti
più difficili della mia vita, e ora assisteva al crollo di
un
mondo. Ora non ce la faccio più, posso sopportare che non
voglia
stare con me, che si sia stancato di un ragazzo pesante e dalla lingua
lunga, ma vedere quel ciondolo ancora al suo collo mi fa pensare che
voglia fare il doppio gioco e a questo non posso starci.
-Rivoglio la mia collana.- Non aggiungo altro e attacco il telefono,
mettendolo in silenzioso e lo giro, in modo da non vederlo illuminarsi
ancora.
Continuo a guardare le foto ma la mia testa è altrove,
ripenso a
quello che ho passato con lui, tutti i momenti della mia vita che gli
ho dedicato, ossia il tempo che ho sprecato e mi vengono le lacrime
agli occhi.
Era una giornata di metà febbraio a Richmond,
nell’Indiana, la mia meravigliosa città natale, e
io stavo
tornando a casa dopo la scuola. Ero al terzo anno in un istituto
privato che sosteneva fortemente la superiorità dei ragazzi
bianchi di buona famiglia, ma che almeno offriva molti corsi
interessanti e con professori che venivano pagati per le loro
abilità.
Ero rimasto a scuola un po’ più a lungo
del solito, perché, come ogni giorno, cercavo una scusa per
non
dover tornare a casa, entrare nella mia enorme villa vuota e starmene
da solo, così avevo passato quasi due ore nella biblioteca a
studiare inglese. Però sapevo di non poter restare
lì
ancora a lungo o mi avrebbero chiuso fuori, così ero uscito
per
tornarmene, con la maggior calma possibile a casa.
Il cielo era coperto
da delle nuvole grigie e tetre che preannunciavano una brutta serata e
il vento cominciava a soffiare gelido. Mi strinsi nel cappotto, anche
se non mi infastidiva poi tanto l’aria fredda, e comunque i
pantaloni della divisa scolastica non riparavano minimamente le gambe,
che ormai cominciavano a perdere di sensibilità.
Ero tranquillo,
perso tra i miei pensieri come un giorno qualsiasi, ma molto attento al
marciapiede, perché sapevo che il ghiaccio non aveva ancora
avuto modo di sciogliersi, proprio come i cumuli di neve sulle piccole
aiuole erbose accanto. Infatti quando passai accanto ad un albero posai
il piede con molta attenzione a terra, perché mi aspettavo
la
lastra ghiacciata e per fortuna non scivolai, però non fui
così fortunato anche il secondo successivo. Il ragazzo
dietro di
me, di cui non mi ero nemmeno accorto, non prestò la mia
stessa
attenzione al suolo e posò con troppa non curanza il piede a
terra, scivolando pesantemente. Non mi accorsi di nulla, ma poi
ricostruii la dinamica che è questa: il piede del ragazzo
scivolò in avanti, lui per non cadere compensò
portando
il busto verso di me e posando la mano sulla mia spalla, ma non ci
riuscì e scese fino ad aggrapparsi alla mia manica. Io
ovviamente non me l’aspettavo e probabilmente avevo un piede
in
aria, perché persi immediatamente l’equilibrio,
forse ero
ancora sul ghiaccio, questo non l’ho mai scoperto, e finii
per
cadere come un pero in uno dei cumuli di neve. Fu letteralmente una
doccia fredda sul viso e sulle mani, e persino sulla schiena, quando
una manciata di gelo si infilo dentro la camicia, a contatto con la mia
pelle. Farfugliai qualcosa, forse dissi anche, molto poco
elegantemente, qualche parolaccia, ma quando riuscii un minimo a
ritrovare la terra sotto ai piedi alzai lo sguardo per guardare la
causa dei miei mali.
-Oddio! Scusami, non volevo, è che sono scivolato come un
idiota e…-
Il ragazzo agitò le mani cercando di ricostruire la scena,
senza alcun risultato e poi mi porse la mano.
-Ti prego, alzati e dimmi che stai bene…-
Sentendo la disperazione nella sua voce non riuscii a trattenere un
sorriso e presi la sua mano, lasciando che fosse lui a tirarmi in
piedi. Poi cominciò a passare la mano sul mio cappotto,
sulle
maniche e sulla schiena per liberarmi dalla neve che mi copriva.
Continuava a scusarsi e a controllare che non mi fossi fatto male, e
non riuscii davvero a trattenere una risata.
-Tranquillo, non è niente
succede…Solo…- Mi aprii
il cappotto e sfilai la camicia dai pantaloni, passandomi una mano
sulla schiena per far cadere il cumulo di neve che ci si era infilata.
Quando fui apposto alzai lo sguardo sul ragazzo, sorridendo.
-Vedi, non è successo niente?-
Ma il suo sguardo era ancora dubbioso e preoccupato, così
decisi di trovare una soluzione.
-Dai, offrimi un caffè così mi scaldo e
starò benissimo.-
Continuavo a sorridergli, per tranquillizzarlo, perché
più che provare fastidio per il piccolo incidente mi stavo
divertendo a vedere il suo viso torturato dai sensi di colpa per una
cosa da niente. Ma alla mia proposta si illuminò e
annuì.
-Ci sto- disse con entusiasmo, per poi porgermi la mano.
–Comunque dopo averti quasi ucciso dovrei almeno presentarmi,
sono Adam.
Ricambiai la stretta della mano sorridendogli e con un senso di
simpatia e fiducia crescente.
-Io sono Oliver e il piacere è tutto mio.-
Qualcosa mi diceva che quell’incontro particolare fosse solo
l’inizio, e avevo ragione, anche se ora mi pento di aver
offerto
quel caffè.
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Capitolo 2 *** Il caffè ***
Capitolo II - Il Caffè
Come mi aveva promesso, tralasciando che la
proposta fosse
stata mia, mi accompagnò alla caffetteria più
vicina che,
per un fortuito caso, era anche la migliore di tutta Richmond. Mentre
camminavamo prestai attenzione al ragazzo che mi aveva mezzo investito,
e mi accorsi che non lo avevo ancora guardato, anche se il suo volto mi
risultava vagamente familiare. Aveva i capelli castani, ma di una
tonalità davvero stupenda come se avesse ogni ciuffo di un
colore diverso, e lo stesso valeva per gli occhi che erano
anch’essi marroni, ma era impossibile non perdersi dentro.
Infatti dovetti scuotere un attimo la testa per ritornare nel mondo
reale dominato più dal grigio tetro che da quei colori
ramati. E
ci stavo ricadendo in pieno. Presi la saggia decisione di spostare lo
sguardo dal suo viso, perché aveva troppi pregi su cui
rischiavo
di fissarmi, e guardai come era vestito. Crescendo nell’alta
società, come amava chiamarla mia madre, avevo imparato la
nobile arte di giudicare le persone dal loro aspetto e, anche se era
una cosa che cercavo di reprimere la maggior parte delle volte, era una
mia abilità talmente raffinata che di solito non sbagliavo.
Così per una volta decisi di approfittarne. Indossava un
lungo
cappotto liscio e pulito, ed ero sicuro che se lo avessi annusato
avrebbe avuto il profumo del pulito, esattamente come il mio. Abbassai
ancora gli occhi, anche se solo per un istante, per guardargli i
pantaloni, perché mi davano l’impressione che
fossero
identici ai miei; e avevo quasi indovinato, tranne che per un piccolo
dettaglio: i miei avevano una corta striscia verticale, che dal bordo
saliva per non più di cinque centimetri, di un blu chiaro,
mentre la sua era verde scuro. Sapevo esattamente cosa significasse
quella differenza. Infatti il mio liceo era una scuola privata molto
importante dello stato e negli ultimi anni aveva aperto
un’altra
sede, ad appena qualche chilometro di distanza dalla precedente. Il
perché non l’ho mai capito, mi aspettavo invece
che si
ampliassero al di fuori dell’Indiana, ma chi sono io per
capire i
ricconi? Comunque la sede nuova aveva rimpiazzato il blu storico con un
verde “più moderno, anche per le nuove famiglie
che
potranno entrare nel nostro istituto privato”, o almeno
così diceva il depliant. Tirate le somme Adam era un ragazzo
di
buona famiglia, simpatico e bello. Su questo almeno non avevo dubbi.
Raggiungemmo il bar e lui mi aprì persino la porta, per
farmi
entrare, un gesto di galanteria che apprezzai e lo ringrazia con un
sorriso, per poi precederlo ad un tavolo vuoto in un angolo. Eravamo
lievemente isolati dal resto degli altri clienti e quella scelta, per
quanto mi illusi fosse casuale, era più che mirata. Volevo
parlare da solo con lui, volevo scoprire se avevo fatto bene i conti.
Si sedette accanto a me parlammo, ordinando i caffè. Ammetto
che
se provo a ricordare quel pomeriggio sono poche le cose che ho ancora
ben impresse nella memoria. Il suo sorriso, per esempio, che era uno di
quelli impossibili da non ricambiare, caldo, solare, ma semplice, come
se le tue parole lo divertissero sul serio. E poi i suoi occhi. Ancora
adesso che pensare a lui mi fa male non riesco a non amare i suoi
occhi, mi ci perdevo ogni volta, senza possibilità di
fuggirgli.
Ricordo molto bene quello che pensavo, però. Ero affascinato
dalle sue mani, che si muovevano in continuazione, anche in gesti
piccoli, ma se parlava non stavano mai ferme. Dal canto mio cercavo,
nei modi che conoscevo, di fargli capire che ero interessato a lui, ma
non riuscivo a vedere se i miei segnali andavano a segno. Probabilmente
ero solo impedito in quelle cose, visto che di appuntamenti non ne
avevo mai avuti molti, finchè non era stato lui a spiegarmi
come
fare. Ma in quel pomeriggio mi limitavo a girare la tazza di
caffè tra le mani, passandomene, di tanto in tanto, una tra
i
capelli, cercavo di tenere lo sguardo sul suo, ma spesso cadeva sulle
sue labbra. Sì, con il senno di poi quelli potevano essere
segnali normali, ma io avevo la testa altrove e si sa che
più si
pensa alle cose peggio escono. Restammo lì per ore, non
saprei
nemmeno dire quanto perché parlavamo di tutto e
intrattenevamo
discorsi così interessanti che il tempo non aveva
più
importanza. Fu lui a dire di doversene andare.
- Scusami, Oliver – Oh, come pronunciava il mio nome! Lo
faceva
sembrare più lungo, più sensuale. –
Devo
assolutamente tornare al campus, o finisco per non trovare niente per
cena. –
Dalle sue parole capii che era passato davvero tanto tempo e, ora che
ci ripenso , credo che lui avesse guardato spesso l’orologio,
cosciente in ogni istante dei minuti che passavano. Ma
all’epoca
quel pensiero non mi passò nemmeno per
l’anticamera del
cervello e mi alzai con lui, insistendo per pagare almeno la mia parte,
ma lui non cedette. Era un altro gesto educato, pensai. Presi la tazza,
che non avevo ancora finito, e lo seguii fuori dal bar, dove io dovevo
andare a sinistra e lui a destra, salutandoci per rivederci
chissà quando. Ma lui non era della stessa idea. Mi prese la
tazza dalle mani e ci scrisse sopra il suo numero.
- Devo ancora assicurarmi che tu non ti sia fatto male. – fu
la
sua giustificazione, accompagnata da uno scrollare di spalle, per poi
andarsene, salutandomi con un gesto della mano. Mentre io me ne stavo
lì in piedi, con la tazza in mano e il sorriso sulle labbra.
Che stupido che ero, solo un illuso che voleva credere a tutto, ma
l’ho capito troppo tardi. Mi giro sulla sedia per guardare la
libreria alle mie spalle ed eccola lì, quel piccolo cilindro
di
cartone con i numeri scritti in penna, a guardarmi come se lei fosse
l’arma del delitto, un’accusa schiacciata davanti
alla mia
faccia. Mi alzo e la accartoccio tra le mani, questo almeno mi fa
sentire un po’ meglio.
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Capitolo 3 *** Messaggio ***
Capitolo III - Messaggio
Duecentoventitre foto. Le ho viste tutte e mi
sembra di
uscire da una bolla. Ho passato le ultime due ore, perché ci
ho
messo tanto a guardarle, assicurandomi che non mi perdessi nemmeno un
dettaglio, in un altro mondo, un posto tra New York e il dolore, dove
ogni luce, ogni colore brillante era una lama affilata. Spengo il
computer e mi alzo dalla scrivania, per sgranchirmi le gambe, ma anche
per allontanarmi da quella tortura. Eppure le immagini sono impresse a
fuoco nella mia testa, senza lasciarmi la possibilità di
fuggire, non che lo voglia fare. Da quando ho ricevuto la e-mail riesco
solo a pensare a quanto sono stato stupido a non accorgermene, non
riesco nemmeno a dare la colpa a lui! E questo fa di me una persona
ancora più stupida! Come posso prendermi io le colpe per gli
errori altrui? Se non voleva stare più con me poteva dirlo,
poteva chiamarmi e dirmi quanto sono insopportabile, elencarmi tutti i
miei difetti, mi avrebbe perfino fatto un favore! Mi lascio cadere a
terra, appoggiando la schiena al divano e chiudo gli occhi, tanto
aperti o chiusi che siano le foto non spariscono dalla mia testa. Non
so se ridere o piangere, ridere per l’assurdità
della mia
reazione, piangere per le sue azioni, ma non voglio dargli alcuna
soddisfazione. Prendo un respiro profondo e mi alzo, prendendo il
cellulare, per poi tornarmene a terra. Si sta bene seduti sul tappeto,
è fresco, è morbido, mi fa concentrare su
qualcosa che
non siano le sue mani su di lei. Stringo il telefono tra le dita e poi
mi obbligo a guardarlo. Cinque messaggi e altrettante chiamate perse,
wow. Mi aspettavo qualcosa di più, ma ormai ho capito che
sono
bravo solo ad illudermi. Leggo i messaggi e sono tutte domande.
- Cosa succede? Perché rivuoi
la collana? Cosa hai saputo? Chi te l’ha detto? Oliver,
perché?-
Perché? Ed è allora che
scoppio a ridere. Chiede
perché a me. Si sta veramente chiedendo perché ho
reagito
così. E rido ancora di più, fino ad avere le
lacrime agli
occhi, solo che ora sto piangendo, e non volevo, non dovevo. Mi
costringo a prendere un respiro profondo e poi a trattenere il fiato
finchè non sento la testa leggera, così ora le
lacrime
sono sparite come la risata. Restano solo le sue parole stupide su un
telefono. Lui è stupido, non io. Non sono io quello che si
è comportato come un ragazzino, irrispettoso,
doppiogiochista e
falso. Lo è sempre stato ma io non l’ho mai capito
o non
l’ho mai voluto vedere. Premo il tasto per rispondere e
scrivo in
fretta, senza pensare, lasciando che tutte le parole peggiori che mi
riempiono la testa finiscano sul messaggio, una dopo l’altra,
ma
poi cancello tutto. Questo non sono io, non sono volgare né
maleducato, per quanto una persona se lo meriti, e lui se lo merita,
senza dubbio.
- Sei stato con un’altra.
–
Mi limito a rispondere così e non
voglio delle scuse, non le
accetterei mai, ma voglio davvero sentire come intende giustificarsi,
perché, se almeno un po’ lo conosco ancora, non ho
dubbi
che presto mi risponderà dichiarandosi innocente. E infatti
la
risposta è quasi istantanea.
- Non è vero, chi te
l’ha detto? Oliver, io amo te. –
Mi trattengo dallo scagliare via il telefono,
perché so che
quelle parole non sono vere e non voglio nemmeno soffermarmi sul
chiedermi se mai lo sono state.
- Me l’ha detto il ragazzo di
lei, che vi ha visti.-
Mi chiedo come abbia fatto quel ragazzo a
contattarmi, una domanda che
non mi ero posto prima. Forse tramite i social network, una persona
capace di usarli dovrebbe riuscire a rintracciare tutti, da quel che
so. Io mi ero iscritto solo per Adam, ed ecco che il mio tentativo di
pensare ad altro è fallito di nuovo.
- Oliver, qualsiasi cosa ti abbia detto
non è vero, lei è solo una mia amica! –
Eccolo che pronuncia ancora il mio nome, lo sento
nella testa, la sua voce
così sensuale che lo rende più dolce,
più
bello come faceva con tutto. Scuoto la testa, perché lui non
è lì con me e io non ho ancora le allucinazioni.
Quel
gesto mi deve aver risvegliato perché realizzo che lui sa
della
foto.
- Vi ha visti baciarvi. –
Nell’immagine numero cinque, la
peggiore di quelle
duecentoventitre, i suoi occhi che avevo tanto amato sono fissi
nell’obbiettivo, come se vedessero anche oltre lo schermo, e
quello sguardo stupito e spaventato non è finto. Lui sa che
gli
è stata scattata una foto, sa che il ragazzo di lei
probabilmente l’ha vista, eppure pensa che io non ce
l’abbia impressa nella retina.
- È stato un fraintendimento!
È stata lei a baciare me, io non ho voluto! –
Riesco solo a vedere le sue mani su di lei, che
le alzano il
maglioncino. Quelle foto erano ad una tale risoluzione che si riusciva
persino a vedere la pelle d’oca su entrambi! Come posso
pensare
che fosse un fraintendimento?
- È tutto qui? Solo un bacio
sbagliato? –
Niente sesso in uno sgabuzzino? Un unico bacio
all’ombra della
Luna di New York? Eppure sono duecentoventitre foto diverse, una peggio
dell’altra, anche se ce n’è una peggiore
delle altre.
- Sì. Sai che non ti mentirei
mai. Ti amo. –
No, infatti, solo la verità, non mi
hai mai detto altro, penso
con sarcasmo. Accedo al server di casa con il cellulare e scarico la
foto numero cinque, non mi serve nemmeno controllare che sia quella.
Oltretutto potrei anche prenderne una a caso per fargli vedere che so,
ma quella è la foto che mi ha
distrutto ed è quella che deve vedere anche lui. La allego
ad un
messaggio.
- No, non mi hai mai mentito, ogni
singola parola che hai detto o
scritto era la pura verità. Un anno è passato, un
anno in
cui non credo più. Bugie, falsità, finzione,
questo
è stato. Questo sei tu. Capace di mentire anche davanti alla
verità, incapace di ammettere i tuoi errori, persino con me.
Non
voglio più avere a che fare con te, non voglio
più
vederti, né sentirti. Rivoglio la mia collana e tu riavrai
le
tue cose, per il resto… Sparisci. –
Lascio il cellulare sul divano e mi alzo,
buttandomi sul letto ancora
vestito. Voglio che sparisca dalla mia vita, che sparisca persino dalla
mia testa, ma contro i ricordi non posso farci nulla, se non stringere
i denti.
********
Vorrei riuscire a pubblicare in maniera un po' più regolare,
ma un po' il fatto che non ho lettori assidui e il fatto che riesco a
scrivere solo quando sono in treno, chissà perchè
XD, rendono l'impresa complicata...
Il mio intento è solo quello di scrivere la storia di un
personaggio che mi è entrato in testa, che mi ha fatta
innamorare di lui e penso di doverglielo. Oliver è nato come
personaggio di un gdr, ispirato solo a quello che mi viene in mente, ma
è diventato così complesso che ha bisogno di una
storia. E cosa c'è di meglio di una brutta esperienza? XD Se
qualcuno ha pietà di lui posso dirgli che nel gdr Oliver sta
vivendo una vita migliore, a tratti, ma io mi sto impegnando XD
Vorrei anche darvi un'idea di come è fatto, ma l'unico che
si avvicina abbastanza a come lo vedo io è Mitch Hewer,
Maxxie di Skins, anche se alcuni tratti sono un po' diversi.
Per Adam, invece, non ho ancora trovato un prestavolto che mi soddisfi,
quindi eventuali suggermienti sono più che graditi!
Detto questo, se qualcuno sta leggendo voglio ringraziarlo e mi
piacerebbe ricevere un qualche commento, anche una critica,
perchè vorrei davvero che questa storia sia la migliore che
abbia mai scritto e senza feedback è impossibile migliorarsi.
Grazie
~ Niki
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Capitolo 4 *** Piccolo Malato ***
Capitolo IV - Piccolo Malato
Non ho chiuso occhio tutta la notte, per colpa
delle immagini
che continuavano a riempirmi la testa. Ma, per mia sfortuna, non erano
gli incubi a tormentarmi, erano solo ricordi. Maledetti ricordi, per
quanto ci provi non li dimenticherò mai, rimarranno per
sempre
sospesi tra la bellezza di quel momento e la falsità di cui
ora
sono a conoscenza. Il giorno dopo quel caffè mi ero
svegliato
sullo stesso letto su cui sono ora e proprio come adesso avevo passato
la notte tormentato dagli incubi e non riuscivo ad alzarmi. Solo che
allora la causa non era della sofferenza psicologica, ma di un vero e
proprio malessere fisico. Evidentemente passare tutto il pomeriggio con
la neve sulla schiena non faceva molto bene. Mi ero svegliato con
qualche linea di febbre e il mio primo pensiero non era stato sul mio
malessere, ma sul fatto che dovevo dirlo ad Adam. Lo conoscevo da
nemmeno un giorno e non facevo che pensare a lui. Ora mi chiedevo se
anche lui si fosse perso a pensare a me o fosse stata tutta una farsa
fin dall’inizio, ma non so se sapere la verità
possa
davvero aiutarmi. Mi rigiro nel letto, cercando di lottare con me
stesso, con quella parte di me che continua a rivivere i momenti
salienti della nostra relazione, perché ci sono state delle
occasioni in cui mi era impossibile non amare Adam, lui era capace
di… Di rendere la mia vita migliore, degna di essere
vissuta, ed
è stato questo il mio punto debole, permettermi di vivere la
vita con lui, quando dovevo accettare la realtà. Mi premo il
cuscino sul viso per soffocare la malinconia che sento crescere in me,
perché non posso permettermi di stare così per
lui! O
forse sì. Forse ho bisogno di cedere, di lasciarmi cadere in
un
baratro oscuro pieno solo di rimpianto per un giorno, per riuscire ad
accettare tutto questo, per chiarire a me stesso che no, non
è
colpa mia, nemmeno un po’, visto che ancora non ne sono
sicuro.
Sposto il cuscino e prendo un respiro fondo e sfido il mio stesso
corpo, ignorando l’emicrania lancinante, il dolore al petto e
mi
alzo, diretto in bagno. C’è un posto dove so di
potermi
fermare, isolare dal mondo e pensare e basta, ricordare se voglio, ma
comunque restare solo con me stesso. Mi spoglio senza nemmeno
accorgermi dei miei movimenti, lasciando che tutto cada a terra e apro
l’acqua, infilandomi sotto la doccia, ma non mi muovo nemmeno
quando sento il getto gelido sulla pelle, è un sollievo.
Fuori nevicava di nuovo e io, per quanto fossi sotto a tre strati di
coperte, mi sentivo come se fossi in giardino in mutande. Continuavo a
tremare e mi stringevo a me stesso come una pallina, cercando un minimo
di calore, ma senza tanti risultati. Eppure, anche se stavo male, e
ricordo che ero quasi convinto di essere in punto di morte, non
riuscivo a smettere di pensare ad Adam, al suo sorriso e a quanto si
sarebbe sentito in colpa appena avesse scoperto che stavo male.
Ovviamente davo per scontato che avesse una coscienza e la
capacità di sentirsi in colpa, anche se ora ne dubito
profondamente. Comunque quella mattina ci misi almeno
mezz’ora a
trovare il coraggio per sottrarre un braccio al calore delle coperte
per prendere il telefono e tornare a nascondermi in quella sottospecie
di tana tiepida. E altrettanto tempo mi ci volle per decidere cosa
scrivere. Mio padre mi dice sempre che sono peggio di una femminuccia e
ora che ripenso a com’ero un anno fa per lui penso che avesse
ragione, visto che continuavo a scrivere e cancellare, esitando fino
all’ultimo. Alla fine il messaggio che inviai fu per errore,
perché non ero riuscito ad annullarlo in tempo.
-Ciao, spero di non svegliarti, ma volevo ringraziarti per il
caffè :) -
Mi ci erano voluti dieci minuti solo per decidere se non mettere la
faccina e non mi ero nemmeno accorto che erano le dieci del mattino,
quindi lui era senza ombra di dubbio a scuola, non a letto come me. In
quel momento non ci avevo pensato, ma i miei genitori non erano mai
venuti a controllare come mai non fossi a scuola, era passata la
cameriera per sistemare la mia stanza e quando mi aveva visto si era
scusata ed era uscita. Forse era per questo che avevo scritto ad Adam,
perché nonostante lui fosse un completo sconosciuto sembrava
l’unico che si preoccupava realmente per me, per la mia
salute. E
questo non lo posso negare neanche ora, aveva sempre sprecato un minuto
del suo tempo per assicurarsi che stessi bene, era solo da quando si
era trasferito che quel minuto era diventato tutto il tempo in cui
parlavamo. Comunque quella mattina la sua risposta fu quasi istantanea,
come se avesse il telefono in mano in attesa di un mio messaggio, o
forse stava per scrivermene uno lui, o stava parlando con qualcun
altro, ma io speravo nelle prime due.
- Mi sa che tu invece ti sei appena svegliato, mentre io sono a scuola
già da un po’! Non è che per caso il
mio
caffè non è stato sufficiente per prevenire
qualsiasi
malessere derivato dal nostro piccolo incidente?? –
Ero rimasto affascinato dal suo modo di scrivere, molto intellettuale,
come avevo sempre cercato di essere io, anche se nelle condizioni in
cui ero mi ci vollero diversi tentativi per tradurre le sue parole.
- Temo proprio di sì, a meno che i brividi e il freddo siano
dovuti da altro… -
Come un ragazzino di dodici anni che pensava solo al sesso aggiunsi
mentalmente che volevo che quei brividi fosse lui a causarmeli.
- Oddio, mi dispiace! Vorrei poter essere lì per scaldarti,
ma
questa scuola non è tanto diversa da una prigione!
–
Voleva essere con me! Dal mio punto di vista si era praticamente
offerto di prendersi cura di me e nessuno l’aveva mai fatto,
era
una proposta così inaspettata ma gradita che sentii
già
un po’ di calore invadermi.
- Non preoccuparti, non è nulla di che, magari è
solo una
febbre stagionale che già covavo, magari non è
colpa
tua… -
Me ne stavo avvolto tra le coperte, affondato tra i cuscini e con il
telefono in mano, mentre il sorriso sulle mie labbra non faceva che
diventare sempre più grande e non potevo farci nulla. Non
che
volessi, qualcuno sembrava mostrare sincero interesse per me e io me lo
stavo godendo, volevo che venisse lì, che si sedesse sul
letto
con me, volevo fare il malato. Parlammo ancora per diverse ore,
probabilmente per tutta la mattina, e mi costrinsi anche ad ignorare il
sonno che mi stava assalendo, troppo concentrato sui nostri commenti
sulla scuola, i professori e gli stereotipi del mondo in cui eravamo
cresciuti. Mi disse che anche lui, come me, non aveva mai avuto dei
genitori molto presenti e doveva sempre prendersi cura di se stesso.
Pensai che forse era per questo che si stava preoccupando per me,
perché sapeva quanto fosse dura stare soli e sorrisi ancora
di
più. Quando lui mi disse che le lezioni erano finite la mia
lotta con il sonno stava diventando sempre più insostenibile
e
probabilmente gli risposi che già ero nel mondo dei sogni,
ma lo
avvisai che mi stavo addormentando e so che sentii il cellulare vibrare
dalla sua risposta, ma non avevo forza di restare ancora sveglio.
L’acqua scivola lenta sul mio corpo e mi sento senza forza,
come
se fosse solo l’inerzia a tenermi in piedi, toppo faticoso
anche
lasciarsi andare. Non so quando mi sono innamorato di Adam, non so
nemmeno se quello che provavo, perché devo smettere di
provare
qualcosa per lui, si poteva chiamare amore. Ma se devo indicare un
momento in cui ho seriamente iniziato ad avere qualcosa di
più
di una cotta per lui è stato in quel giorno, quando non
riuscivo
nemmeno ad alzarmi dal letto. Dopo il mio pisolino aprii gli occhi e
vidi il suo viso, accanto al mio e con un piccolo sorriso sulle labbra,
un’immagine che anche ora mi stringe lo stomaco.
Sì, è stato allora che ho deciso di volerlo nella
mia
vita, in un modo o nell’altro.
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