Pioggia di vetro

di S t r a n g e G i r l
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Pioggia d'acqua. ***
Capitolo 2: *** Pioggia di lacrime. ***
Capitolo 3: *** Pioggia di sale. ***
Capitolo 4: *** Pioggia di silenzi. ***
Capitolo 5: *** Pioggia di lame. ***
Capitolo 6: *** Pioggia di coriandoli di ghiaccio. ***
Capitolo 7: *** Pioggia di stelle. ***
Capitolo 8: *** Pioggia di paura. ***
Capitolo 9: *** Pioggia d'acido. ***
Capitolo 10: *** Pioggia di parole. ***
Capitolo 11: *** Il sole dopo la pioggia. ***



Capitolo 1
*** Pioggia d'acqua. ***


Pioggia Di Vetro

1. Pioggia d'acqua.


- Did I do something wrong? -
- I dont' have anyone -

Piove, fuori.
L'acqua scroscia sul tetto di casa mia come se volesse sfondarlo.
Milioni di proiettili bagnati vengono sparati dal cielo senza discriminazione e colpiscono vittime ignare, uscite sprovviste di ombrello.
Sulla finestra della mia camera, le gocce si rincorrono come bambini felici, che giocano ad acchiapparella, ed io ne seguo il percorso col dito.
Piove, fuori, ma anche dentro le mura della villetta accanto alla mia.
Piovono vetri, i cui frammenti affilati lo feriranno di nuovo ed io lo guarderò in silenzio domani a scuola, per non porgli domande che non vuole sentire.
L'eco dei tuoni copre a tratti le urla disumane che filtrano fino a me.
Vorrei correre da lui. Abbracciarlo, rassicurarlo.
Proteggerlo col mio corpo.
Poggio la fronte contro il vetro freddo, che si appanna al contatto con la mia pelle tiepida, e sospiro.
C'è la luce accesa in cucina e l'ombra imponente del padre in piedi davanti le tende serrate.
Gesticola, lancia oggetti contro il muro opposto e so che stanno piovendo altri cocci su di lui. Che si stanno aprendo nuove ferite che non tutti sapranno vedere e che molti fingeranno di non scorgere per timore o indifferenza.
Controllo con un'occhiata stanca il cellulare accanto a me, conscia che non troverò chiamate perse da parte sua, senza riuscire a impedire a me stessa di sperare.
Basterebbe uno squillo di un secondo, un'unica parola in un messaggio, un qualcosa.
Una qualunque cosa.
E nella quiete muta che preannuncia l'ennesimo roboante tuono, quel qualcosa arriva.
Il portone di casa Lahey sbatte violentemente ed una figura d'ombra dai tratti indistinti, che sembrano disegnati con pennellate evanescenti d'acquerello, corre verso la bicicletta appoggiata al lampione lì davanti.
Scatto in piedi, afferro una felpa e mi precipito fuori di casa, ignorando la pioggia gelida e gli abiti che si inzuppano subito.
Corro e tremo, scostando le ciocche fradicie dal viso con impazienza.
Le scarpe da ginnastica di tela scivolano sul marciapiede infangato e affondano con uno sciabordio cupo nelle pozzanghere torbide.
Piove ancora ed io annaspo fra le gocce, raggiungendo senza più fiato il parco.
So che è lì, che si nasconde fra i cespugli come un coniglio impaurito, che piange con sollievo sapendo che il temporale cela le sue lacrime.
La bici, con una ruota ancora in movimento, è accasciata contro lo scivolo azzurro a forma di elefante e di lui nessuna traccia.
« Isaac? » sussurro, guardandomi attorno con gli occhi socchiusi, le ciglia umide.
M’incammino lentamente verso uno degli alberi più grandi, dietro le altalene gocciolanti smosse dal vento, e lo individuo a fatica, rannicchiato sul retro del tronco.
« Isaac. » m’inginocchio di fronte a lui senza toccarlo, per paura che si ritragga. Che si spaventi. Che mi cacci.
Non voglio che mi tema. Non voglio lasciarlo solo. Non voglio andar via.
Lo chiamo di nuovo, bisbigliando come se dovessi svegliarlo piano piano, e lui solleva il viso verso di me con reticenza.
Stringe ancora le ginocchia al petto con le braccia, ma mi fissa incerto con i suoi occhi grigi e annacquati, come il cielo sopra di noi.
« Pulcino, che ci fai qui? » domanda passandosi la mano aperta sul viso, cercando di cancellare il pianto e le tracce di sangue residue dei tagli procurati dal vetro.
Dalla pioggia di vetro.
« Avevo voglia di camminare un po'... » mi stringo nelle spalle e lui mi fa posto accanto a sé, sotto le fronde del maestoso albero che ci protegge in parte dalla tempesta.
« E non potevi aspettare che smettesse di piovere? Sei proprio un pulcino, con le piume arruffate dall'acqua. » mi sorride con dolcezza, prendendo al volo una goccia caduta dalle mie labbra, e poi reclina la testa all'indietro, sulla corteccia.
« Smettila di chiamarmi così. Non sono più una ragazzina, Isaac. » replico brusca, mordendomi l'unghia del pollice.
« Lo so, Violet. Lo so. » dice con tono incolore, chiudendo gli occhi come se faticasse a tenerli aperti.
Sotto lo zigomo destro gonfio, comincia a delinearsi il profilo di un livido scuro.
« E perché continui a chiamarmi in quel modo? »
« Perché è carino e tenero, esattamente come sei tu. Vuoi sembrare forte, ma sei delicata e fragile, dentro. E in pochi conoscono questo tuo lato. »
« Allora sei un pulcino anche tu, Isaac. » dichiaro con un pizzico di divertimento nella voce e cerco la sua mano, per stringerla fra le mie.
Sulla pelle tesa del dorso ci sono frammenti di vetro conficcati nella carne viva accanto a vecchie cicatrici simili.
Ferite mal richiuse sono ovunque sul suo corpo.
La prima volta che l'avevo visto, poco dopo essermi trasferita nella casa accanto alla sua, anni addietro, era raggomitolato dietro una panchina in quello stesso parco, con le unghie delle mani spezzate e insanguinate e la maglietta strappata da segni di cinghia.
« Dovresti disinfettare questi tagli. » asserisco dopo un po' e lui s’irrigidisce, togliendo la mano dalla mia portata.
« E tu dovresti andare a casa. » dice e sembra un singhiozzo.
« No. Non me ne vado. Resto qui con te. »
« Violet... » sospira e apre gli occhi. La pioggia, ora, cade con più lentezza, quasi a rallentatore.
Non fa più rumore; l'unico suono che si sente è lo scalpiccio del mio cuore.
« E' inutile: non ti lascio solo. Non in queste condizioni. »
« E' che non voglio che proprio tu mi veda così, pulcino. Va via ti prego. » ha la voce spezzata, rotta, come i cocci di quelle porcellane che suo padre gli lancia contro.
« Posso chiudere gli occhi, se ti da fastidio che ti guardi. Basta che non mi chiedi di andarmene. » strizzo le palpebre forte, come facevo da bambina quando avevo paura del mostro verde con i tentacoli, che ero sicura si nascondesse sotto il letto.
Isaac, poco dopo esserci conosciuti, mi confidò che quello che spaventava lui aveva le sembianze di suo padre.
Io avevo riso come se fosse stata una barzelletta e lui non mi aveva rivolto parola per mesi, fino a quando non ero andata a casa sua con un dolce fatto da mia madre per farmi perdonare e, dalla finestra, avevo intravisto anche io il suo mostro.
« Perché? » domanda lui dopo un po' e le sue nocche rovinate mi accarezzano la guancia.
« Cosa? »
« Perché ti ostini a restare? » il suo respiro solletica la mia pelle umida e mi provoca un brivido caldo.
Perché ti amo.
« Perché voglio proteggerti. Sei un pulcino, ricordi? »
« E chi proteggerà te, poi? » le sue labbra sfiorano il mio collo mentre parla.
Poi si fermano, premendo appena sotto l'orecchio.
Sta piovendo di nuovo, le gocce si fanno strada fra le fronde dell'albero e atterrano a caso fra me e Isaac. Fra le nostre mani che lui ha intrecciato. Fra le nostre bocche che si sono cercate e, infine, trovate con incredulità.
E baciare lui, freddo e bagnato, è come baciare la pioggia.
Pioggia d'acqua, non di vetro.
« Sai di pioggia, Violet. Mi piace. La pioggia, sai, lava via il sangue. » poggia la fronte contro la mia e sorride.
E' uno spicchio di sole fra le nubi, un'alba timida che nasce a fatica.
« Anche tu sai di pioggia, Isaac. Ma a me non è mai piaciuta molto...fino ad oggi. »






Mi sono follemente innamorata di questo personaggio.
Più si evolve, più scopro sfaccettature del suo carattere che apprezzo (a proposito, armatevi di fazzoletti e guardate questo video
).
Ha un trascorso difficile, un passato atroce e quel suo "I don't have anyone" confidato a Scott mi ha spezzato il cuore.
Così quel qualcuno gliel'ho dato io, affinchè il suo dolore potesse essere un po' meno pesante.
Fatemi sapere che ne pensate, ci tengo molto.
Un forte abbraccio.

Strange.

Ps: Emi sei contenta? Ti amo, ma giuro che a volte ti strozzerei.


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Capitolo 2
*** Pioggia di lacrime. ***


Pioggia Di Vetro

2. Pioggia di lacrime


- Did I do something wrong? -
- I dont' have anyone -

"Pulcino, ti decidi a scendere o no?"
Il display del cellulare, appoggiato su uno scatolone già chiuso con lo scotch da pacchi, s'illumina all'arrivo del messaggio di Isaac.
Lo prendo al volo, sorridendo, e poi infilo la giacca, stando ben attenta a non far scricchiolare le assi del corridoio.
In punta di piedi, aggrappata al corrimano, faccio le scale più silenziosamente possibile: se i miei genitori scoprissero queste passeggiate notturne al parco mi legherebbero al letto.
Una volta fuori, mi getto fra le sue braccia già aperte e gli chiedo scusa per il ritardo con un sorriso.
« Ti fai sempre aspettare. » Isaac mi pizzica il naso in modo giocoso, brontolando quel rimprovero fra i miei capelli corti.
« Come ogni donna che si rispetti. » replico, alzandomi sulle punte per arrivare alla sua bocca.
« Fa' piano. » mi avverte in un sussurro, indicando il taglio fresco a metà del labbro inferiore.
« Un bacino e passa tutto. » gli faccio l'occhiolino e lo sfioro appena, incamminandomi poi, mano nella mano con lui.
Isaac tira su il cappuccio della felpa e quasi si fa trascinare; sul suo viso galleggia l'aria assente di chi sta pensando ad altro e nei suoi occhi vedo passare le immagini sbiadite dello scontro cui è sfuggito per un soffio.
Ci sono state sere in cui quell'impresa non gli è riuscita; sere in cui non è venuto sotto casa mia e che io ho speso alla finestra a guardare la luce spenta nella sua stanza.
Immaginavo di poter fare irruzione nel sottoscala e liberarlo dalla sua prigione, ma lui mi ha sempre impedito un qualunque coinvolgimento.
« Non deve succederti nulla. Non per colpa mia. Se qualcuno intervenisse, non cambierebbe nulla. Lui non smetterebbe. » continuava a ripetermi come fosse una filastrocca imparata a memoria all'asilo.
Non smetterebbe. Non smetterà mai.
Alzo gli occhi in alto, verso il cielo sgombro in cui le stelle non si distinguono a causa della luce artificiale dei lampioni, e lascio che sia lui a guidarmi nella giusta direzione.
Non piove.
Oggi no.
Veramente da un bel po', ormai.
Niente pioggia d'acqua, niente pioggia di vetro.
Eppure l'albero sotto cui, infine, ci sediamo è lo stesso, tanto che quasi m'illudo che questa sia ancora la sera in cui Isaac mi ha baciato per la prima volta.
Invece a quel bacio ne sono seguiti altri e altri ancora, fino a non poterli più contare sulle dita, tanti erano.
Troppi. Sempre troppo pochi.
Mi rannicchio al suo fianco e resto in quella posizione fino a quando il calore del suo abbraccio non mi penetra sottocute, infondendomi il coraggio necessario a schiudere la bocca.
C'è un qualcosa che da giorni mi porto dentro e che non posso più tacere.
Il suo peso aumenta in modo proporzionale al tempo che scorre, sottraendolo a quello che mi resta.
Per quanto male faccia -a lui, a me, a noi- ha il diritto di sapere in anticipo quel che sta succedendo, senza doverlo poi apprendere a giochi fatti.
« Devo dirti una cosa, Isaac. » sussurro e alzo gli occhi nei suoi, che sembrano universi infiniti colorati di stelle e nuvole celesti.
Lui mi sorride e poi fa una smorfia per la ferita sul labbro inferiore che si è riaperta.
Il suo mostro è instancabile e lui, nonostante venga ferito e maltrattato fin da quando ha memoria, non si ribella perché in fondo suo padre è tutto quello che ha.
Credo che a modo suo gli voglia bene, anche se poi le conseguenze di quell'amore malato si palesano sotto forma di ecchimosi, abrasioni e contusioni un po' ovunque sul suo corpo asciutto.
« Tutto quello che vuoi, pulcino. » posa le labbra calde sulla mia tempia ed io accarezzo le sue nocche sbucciate con dolcezza.
Sospiro, bevo le mie stesse lacrime e tento di parlare.
« Io... come faccio? Non ci riesco. Ci provo, ma le parole non mi escono dalla bocca. »
Lui si scosta da me con uno sguardo palesemente preoccupato ed io mi torturo le dita, cercando di non far venire a galla i segni del pianto che sta sfociando nella mia gola.
Mi ero riempita le braccia di pizzichi, quando i miei genitori mi avevano comunicato la notizia, ma non mi ero svegliata.
Non ero nel mio letto, non dormivo.
Ero in cucina e stavo ascoltando la peggiore prospettiva di realtà mai udita in vita mia.
A nulla erano servite le mie proteste, le porte sbattute, l’isteria e i rifiuti di mangiare: la loro decisione era irrevocabile.
Per giorni avevo cercato di convincermi di essere finita in un incubo da cui era solo più complesso svegliarsi: credevo fosse tutta una questione del trovare il giusto innesco del risveglio e nel frattempo fingere che tutto scorresse in modo normale.
La mia vita sarebbe continuata senza deviazioni improvvise o sterzate dell'ultimo minuto, mi ripetevo in una specie di litania instancabile... poi avevo visto scatoloni, riempiti di pezzi della mia vita, ammassarsi all'ingresso e mi ero dovuta arrendere.
« Mi stai spaventando, Violet. Che succede? » le sue mani mi contornano il viso, scostando i capelli dalle guance.
Mi fissa smarrito ed io non riesco a reggere quella disperazione nelle sue iridi troppo a lungo.
Abbasso lo sguardo e mi mordo l'interno della guancia con ferocia.
« Domani sera parto. »
Isaac abbozza un sorriso, uno di quelli forzati che per anni gli avevo visto rivolgere ai compagni di classe quando provavano a coinvolgerlo nelle loro battute scadenti e nei loro scherzi idioti.
Lui non era mai stato parte della massa. Non aveva voglia di recitare la parte dello studente qualunque, senza un solo problema al mondo: era troppo impegnato a cercare di non essere mangiato vivo dai suoi stessi demoni.
« Vai a trovare qualche parente fuori? Quando torni? » chiede con un filo di voce così sottile che non servirebbero forbici per spezzarlo.
Si trancia da solo sul finale.
Tace, trattenendo il respiro.
Scuoto la testa e un paio di gocce cadono sulle mani, che tengo annodate in grembo fino a non sentire più le punte delle dita. Fino a farmi male, perché vorrei che un dolore fisico coprisse quel che mi sta dilaniando dentro, graffiando le pareti della cassa toracica con artigli affilati.
Piove?
Non lo so. E' acqua quella sul mio vestito e sulle mie nocche. E anche sulle mie guance. Acqua salata.
Piove, adesso lo so. Piovono lacrime.
Le mie.
« Non torno. Non torno più. »





Ebbene sì, sono ancora qui a rompervi le scatole con Isaac.
Quella che era nata come una OS, ho il piacere di comunicarvi che ha assunto le sembianze di una multicapitolo breve (non voglio tirarla troppo per le lunghe perchè altrimenti finirei per intrecciarmi con la trama della nuova stagione e non potrei stargli troppo dietro).
La colpa/merito è di LilyHachi e Postergirl84 (al solito, stai sempre in mezzo).
Bene, finiti i convenevoli posso dire che la storia parte come angst ma ha il lieto fine assicurato, tranquille. Non sono un'autrice così sadica che vi fa piacere un personaggio e poi in qualche modo lo toglie dalla circolazione.
Come risolverò le situazioni critiche potrete saperlo solo continuando a leggere...e spero davvero lo facciate.
Lasciatemi un commentino piccino picciò, sù <3
Un forte abbraccio.
A presto.

Strange.

Ps: Emi... penso che "grazie" non sia più sufficiente. La segnalazione mi riempie di orgoglio. Ti amo.

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Capitolo 3
*** Pioggia di sale. ***


Pioggia Di Vetro

3. Pioggia di sale


- Did I do something wrong? -
- I dont' have anyone -

 


« Tesoro, hai preso tutto? Dai un'ultima controllata in camera tua e poi scendi giù. Papà sta già caricando la macchina! »
Grido una risposta frettolosa a mia madre e torno a guardare fuori dalla finestra, strappandomi le pellicine dalle labbra a morsi.
Casa Lahey è silenziosa, senza luci accese o rumori di vita quotidiana che arrivino fin qui.
Sembra disabitata, ma io lo so che lui è dietro quei vetri al primo piano e che non si affaccerà per non vedermi. Per non vedermi andar via e lasciarlo solo.
L'idea di abbandonarlo mi fa sanguinare dentro, come se qualcuno mi avesse tranciato un'arteria che vomita fiotti di sangue nell'addome senza che io riesca a impedirlo.
Isaac, di sicuro, prova quel dolore centuplicato. Prima sua madre, ora io.
Come ancora non sia morto a causa dell'emorragia è un mistero.

« Se è uno scherzo, non mi fa ridere. »
Le sue iridi azzurre diventano lastre di ghiaccio, di quelle spesse che nemmeno un lanciafiamme scalfirebbe.
Isaac si scosta da me, quasi ora gli fosse impossibile stare a contatto con la mia pelle.
« Credi che a me faccia piacere andarmene? Credi che non soffra, lasciandoti? A lasciare una vita intera qui? Beacon Hills era diventata casa mia, ma non posso dar completamente torto a mia madre e mio padre: si sono verificati troppe morti ultimamente. Attacchi di animali, sparizioni... » gesticolo, afferro l'aria della notte fra le dita e poi la libero.
Vorrei tenere le sue mani, ma lui le stringe attorno al busto e mi impedisce l'accesso al suo corpo, al suo cuore.
Sta cercando di preservarsi dall'ennesima perdita.
Una volta mi aveva detto «Io non ho nessuno. » ed io, dopo un bacio, gli avevo detto che non era vero. Non più.
« Tutto questo finirà prima o poi. Sarà un allineamento astronomico particolare, che fa impazzire i predatori, o un'altra cazzata simile. Si calmeranno le acque e tutto tornerà normale. » dice, ma guarda lontano.
« Papà ha ricevuto un'offerta di lavoro a Sacramento e l'ha accettata, quindi non potrei rimanere neppure se lo volessi. E guardami, maledizione! Non ti sto lasciando perché non ti amo, perché non me ne frega niente di te, mi hai stancato o chissà cos'altro! »
Isaac gira il capo e l'occhiata che m’indirizza è dubbiosa.
La luna piena, sopra di noi, sembra essere incastrata fra i rami del vecchio albero, tanto è vicina.
Si smuove un vento freddo ed io rabbrividisco, allungando fin sulle dita le maniche della felpa.
« E' giusto che tu vada. Forse è anche meglio. » sussurra lui dopo un po', con la piega di un sorriso amaro sulla bocca ferita.
« Che stai dicendo? » domando allarmata. Quel suo tono di voce non mi piace.
E' terribilmente simile a quello che usa quando deve spiegare a qualche insegnante i motivi per cui ha dei segni di percosse sul viso.
« Che ci saremmo lasciati comunque, Violet. IO stavo per lasciarti. » prende una pausa e il mio cuore lo imita.
Tace, fermandosi, il tempo che lui impiega a mettere insieme le parole successive.
Poi si arresta del tutto.
« Mi stai risparmiando la parte dello stronzo. Non poteva funzionare tra di noi: tu mi ami, io no. »

« Violet! Andiamo! » la voce di mio padre mi desta dai ricordi della sera precedente.
Mi asciugo le lacrime, che non sono riuscita a tenere in gola, con il dorso della mano e con uno sguardo faccio un rapido giro della stanza spoglia.
Niente più poster alle pareti o fotografie di quando ero bambina in cornici di conchiglie sulle mensole; niente più scarpe da ginnastica buttate in un angolo invece che riposte nella scarpiera o vestiti ammassati sulla sedia davanti al computer; niente più stelle fosforescenti sul soffitto o libri dalle copertine consumate dalle mie dita sul comodino e sulla libreria.
Niente di niente.
Mi volto verso la porta ed il vuoto mi abbraccia.
E' come se la mia camera riflettesse in maniera estesa il nulla che alberga nel mio petto.

Tremo appena, il respiro imprigionato nei polmoni come acqua stagnante.
Isaac non mi guarda. Fissa il suo polso ancora adornato da quel braccialetto portafortuna, che avevo preso su una bancarella per lui, e sembra sul punto di strapparselo via, quasi temendo che possa prendere fuoco d'improvviso.
« Se volevi lasciarmi perché, appena ti ho detto che sarei andata via, sei sembrato più triste che sollevato? » chiedo, ripescando la voce non so neppure io dove.
Lui tentenna qualche secondo, passando una mano distratta in mezzo ai capelli, e sospira.
« Perché è normale che mi dispiaccia che tu te ne vada. Ci tengo a te, ma non allo stesso modo in cui fai tu. Sei più una sorellina per me, Violet. » incespica sull'ultima frase e strizza gli occhi, come se si stesse concentrando per non lasciarsi sfuggire qualcosa.
« Vuoi convincere me o te stesso di questo? » sbotto dura, alzandomi in piedi di scatto.
Isaac segue il mio movimento repentino con curiosità ed i suoi occhi blu oceano mi confermano che quelle sue parole sono solo un patetico tentativo di proteggersi dalla sofferenza.
Ferisci prima di essere ferito.
« Se mi avessi considerato una sorella non mi avresti accarezzato, abbracciato, baciato come hai fatto in questi mesi. Non era affetto fraterno, il tuo. Non sono stupida, Isaac, perciò non trattarmi come tale. Vuoi chiudere? Fa' pure, ma dimmi qualcosa a cui io possa credere sul serio. »
Stringo le mani a pugno per la rabbia e lo sdegno per il modo in cui lui cerca di svalutare quello che abbiamo condiviso.
« Parli come se tu non avessi preso in considerazione l'idea di finirla. Cos'è che ti aspetti da me? »
Che lotti per noi.
« Sincerità. »
Isaac si alza in piedi e torreggia su di me, un accenno di frustrazione sul viso stremato.
« A cosa servirebbe? Fa male anche solo così, Violet. »
« Lo so. »
« Non chiedermelo. Non riesco a dirti addio. »
« Allora non dirlo. Dì che mi ami. »
Mi prende con foga e mi stringe in un abbraccio che sa di pianto non versato, di sale piovuto dal cielo sulle nostre ferite aperte.
Mi tiene premuta contro il suo petto come se tentasse di farmi entrare nel suo corpo, fra le sue costole vicino al cuore.

Scendo le scale con lentezza, passando le dita sugli intarsi di legno del corrimano.
Ogni passo in più mi allontana dalla Violet di Beacon Hills, dalla Violet di Isaac, proiettandomi verso la Violet di Sacramento, che resterà comunque di Isaac anche quando sarà lontana chilometri.
Mia madre mi lancia un'occhiata preoccupata, mentre consegna nelle braccia di mio padre l'ultimo scatolone appena sigillato.
« Tutto bene, tesoro? »
No.
« Sì. Sono solo un po' triste. »
« Lo capisco, ma vedrai che ti ambienterai con facilità nella nuova scuola e ti farai tanti nuovi amici. » mi rassicura, stringendomi in un abbraccio che mi fa venir voglia di piangere ancora.
Altro sale cade in abbondanza sui tagli freschi derivati all'assenza di Isaac e brucia in maniera insopportabile.
Come si può guarire se ogni volta le ferite si riaprono e s'infettano di nuovo?

E' il suo silenzio che, alla fine, mi risponde.
Non pronuncia quella frase, Isaac, né una che ci somigli.
Non dice niente.
Niente di niente.
« Portami a casa. »
La mia richiesta ha il retrogusto di una supplica.
Lui annuisce fra i miei capelli e poi mi prende per mano, precedendomi.
Cammina svelto, impaziente.
Sembra scappare da qualcosa che lo insegue tenacemente.
Sembra scappare da me.
Il suo ritmo aumenta e mi strattona per incoraggiarmi ad andare più veloce, ma io inciampo sui lacci delle mie scarpe, che si sono allentati, e quasi cado a terra.
Isaac mi sorregge e, quando mi guarda in faccia, assume un'espressione ferita ed attonita.
« Pulcino, non piangere. »
Mi asciuga le lacrime coi pollici e mi bacia in modo così struggente che il dolore che sgorga dai miei occhi aumenta la portata.
« Ti amo, Isaac. » confesso sulle sue labbra che sanno di sangue secco.
Annuisce appena.
« Non te lo chiederai mai, ma sappi che vorrei rimanessi. Ho solo te, Violet. »
Lo bacio con forza, cercando d'imprimere la mia bocca di tutto l'amore che ho.
« E' quasi l'alba. Devi andare. »
Si stacca a malincuore e fa per incamminarsi di nuovo.
« Isaac? » lo richiamo, trattenendolo per un polso.
« Io... non dovrei chiedertelo, ma... ecco se... i-io riuscissi a tornare...tu...? »
Sorride del mio impaccio ed io sbuffo.
« Lascia stare, è una cosa stupida. »
Lui mi fissa qualche attimo, poi scrolla le spalle e torna a dirigersi verso casa mia.
Dopo qualche minuto, quando ormai mancano pochi metri al mio portone, sussurra un « Sì. » quasi indistinguibile.

Abbasso il vetro e l'aria fredda della sera mi gela la punta del naso.
Papà guida tranquillo, una mano sul volante e l'altra fuori dal finestrino, mentre mamma cambia stazione radio, cercando una canzone che le piaccia.
Sorpassiamo casa Lahey in pochi attimi, il tempo di sporgermi per vedere una figura nera alla finestra della stanza di Isaac che tiene la mano premuta sul vetro a mo' di saluto.
«Sì, cosa? »
«Ti aspetto. Ti aspetterei in ogni caso, pulcino. »
 




Terzo capitolo fresco fresco.
Sono particolarmente fiera e soddisfatta di questa storia, dei consensi positivi che sta ricevendo e di come la sto portando avanti (anche se poi mi scervello ogni volta per cercare un qualcosa che possa "piovere" e quindi dare il titolo al capitolo XD).
E' una cosa sciocca, ma volevo dedicare questo capitolo a Lilyhachi, che aspetta le mie pubblicazioni sempre con impazienza e sostiene addirittura di attendere aggiornamenti di "Pioggia di vetro" con quasi più ansia di quella che precede l'uscita di un nuovo episodio della terza stagione.
A proposito... avete visto che cucciolo che è Isaac, nella 3x06? *-* Solo io mi sarei intrufolata sotto il letto per coccolarlo?
Però non mi abbandonate, ragazze. Please <3
Un forte abbraccio.
A presto.

Strange.

 

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Capitolo 4
*** Pioggia di silenzi. ***


Pioggia Di Vetro

4. Pioggia di silenzi

- Did I do something wrong? -
- I dont' have anyone -



Maggio.
“Ho visto una pubblicità scema di una marca di uova, poco fa in televisione. C’era un pulcino paffuto e curioso. Ti ho pensata.”
Leggo l’sms con un sorriso e poi infilo di nuovo il cellulare nella tasca posteriore dei jeans, chinandomi sullo scatolone aperto davanti a me per tirarne fuori il suo contenuto.
Romanzi, fumetti e riviste di moda e gossip risalenti al periodo in cui mi ero messa in testa di diventare una stilista. Ambizioni e progetti di vita che contavo di realizzare in un college vicino Beacon Hills, così da poter tornare a casa nei weekend.
Se quello fosse stato ancora il mio sogno, ora non sarebbe altro che l’ennesima scritta sbavata dalla pioggia su di un muro e coperta maldestramente da una mano di vernice pallida.
Cercare di erigere costruzioni sicure e stabili su fondamenta traballanti non era proprio un granché, ma col tempo c’avevo fatto l’abitudine.
Di certo e sicuro, io, non avevo mai avuto niente.
« Violet, tesoro, è pronto in tavola! » la voce di mia madre fa capolino dalla porta socchiusa della stanza.
Lei entra poco dopo senza chiedere permesso, vagando con sguardo curioso per la stanza.
« E’ molto più ariosa e spaziosa di quella di Beacon Hills, ti pare? E poi ha la vista sul parco invece che su altre case. » il suo tono raggiante mi provoca la nausea.
« Avrei dormito in una gabbia per criceti pur di non dovermi trasferire. » borbotto a denti stretti, dando un calcio allo scatolone ormai vuoto ai miei piedi.
« Hai detto qualcosa? » chiede mia madre, lasciando perdere le tende arancioni che aveva appeso quella stessa mattina.
« Niente di importante. Avevi detto che era pronto. Andiamo, ho fame! » Le prendo un polso e cerco di trascinarla via dalla mia camera, prima che se ne esca con qualche altro commento entusiasta su quella nuova sistemazione che a me farebbe solo venire l’orticaria.
« Oh, aspetta! Chi è il ragazzo in quella foto? » lei si libera della mia presa e si dirige verso il letto, dove sul comodino ha notato una cornice nuova.
Me l’aveva regalata Mery prima che partissi ed inizialmente avevo avuto intenzione metterci una foto mia e sua, poi ero riuscita a strapparne una ad Isaac mentre era distratto e così…
« E’ il tuo fidanzato? Non sapevo ne avessi uno. » domanda mia madre con espressione meditabonda.
Accarezza il vetro della cornice con l’indice e poi me la porge con un sorriso.
« E’ solo il figlio del nostro ex vicino di casa. Ma tu non puoi saperlo, visto che non c’eri mai. » sputo velenosa, rimettendo la foto al suo posto e marciando verso la cucina.
Mia madre rimane immobile dov’è, freddata dalle mie parole taglienti e risentite.
La verità è che me la sono cavata con le mie forze in ogni occasione, anche se lei e papà erano sempre fuori per lavoro e io passavo gran parte del tempo con l’unica compagnia dei giocattoli che mi compravano per compensare l’assenza o degli amici immaginari che mi figuravo in testa poiché farmene di veri non ero mai stata granché brava, però in quel momento non sono riuscita a tenere in bocca l’amarezza.
Forse se lei fosse stata più presente, avrebbe capito i motivi per cui avevo fatto tante storie per rimanere a Beacon Hills.
Forse avrebbe conosciuto Isaac, forse non ce ne saremmo mai andati.
Prima di raggiungere la tavola apparecchiata, estraggo di nuovo il cellulare dai jeans e invio in fretta un messaggio, proprio mentre mio padre mi si affianca per cercare di impicciarsi.
“Avrei bisogno di un tuo abbraccio. Mi manchi.”


Giugno.
“Sono più una tipa da lettere scritte a mano che e-mail, ma devo adeguarmi.
So che sarai a scuola, l’unico posto in cui hai accesso ad un computer, quando leggerai  queste mie parole, perciò cercherò di non dilungarmi troppo. Non vorrei che la professoressa Gillian ti mettesse in punizione.
Tuo padre non ne sarebbe contento e…
Non importa. Volevo solo dirti che mi sto ambientando qui, sai?
Non è poi così male, una volta superato l’imbarazzo con i nuovi compagni di classe e l’impaccio con dei professori che non fanno che metterti alla prova per testare le tue capacità.
Forse ti sembro un po’ acida e prevenuta.
La verità è che ancora non sono riuscita a mandare giù questo trasferimento.
Vorrei non essere in questa casa, dove affacciandomi vedo alberi in fiore, bensì in quella che avevo a Beacon Hills, dove guardando alla finestra potevo vedere te fare altrettanto.
Scusami. Alle volte mi comporto come una ragazzina capricciosa e mi prenderei a schiaffi da sola, ma io odio questo posto.
Odio la nuova scuola, le sue pareti grigie, l’aria incurante che hanno in viso tutti quanti e…
No, non è vero.
Io non sto poi così male qui. Semplicemente non sopporto di stare dove non sei tu, Isaac.
E non mi prendere per una fidanzata sdolcinata e appiccicosa. Sai che non lo sono.
Solo… ogni tanto lasciamelo dire.
A voce, quando ci sentiamo, non ci riesco mai.
Ho paura di darti noie o di far essere triste anche te. E non vorrei mai.
Comunque… cerco di stringere i denti e pensare che cinque mesi passano in fretta.
Ah, giusto. Ti avevo scritto solo per dirti questo in realtà: torno per Halloween.
I miei genitori mi hanno concesso di trascorrere il giorno di Ognissanti con Mery.
Beh, con lei e con te, ovviamente, anche se loro non lo sospettano minimamente.
Ora ti lascio. Ti mando un bacio.

Il tuo pulcino.
Ps: scusa se ho fatto il contrario di quanto avevo detto. E’ che non riesco mai a frenare le dita o la voce, quando si tratta di te.”


Luglio.
« Ci sei ancora? » chiedo, incastrando il cellulare fra la spalla e l’orecchio mentre infilo in borsa un blocco da disegno ed una bottiglietta d’acqua.
C’è un sole incandescente fuori che mi chiama, perciò ho deciso di andare al parco a godermi l’ombra di qualche albero, disegnando paesaggi bagnati di luce.
« Sì. » replica lui.
« La vuoi smettere di sgranocchiare patatine mentre parliamo? E’ fastidioso, Isaac. » mi lamento, guardandomi intorno alla ricerca di un berretto con la visiera da indossare.
Lui ride e anche attraverso l’etere quel suono sa farmi accelerare i battiti del cuore.
Li sento in gola, nei polsi, nelle tempie, nelle caviglie.
Li sento in modo così vivido che, per un solo istante, mi illudo che voltandomi me lo troverei alle spalle.
Mi volto ed ovviamente lui non c’è.
« Tanto stai parlando solo tu quindi io posso ascoltare e mangiare, no? »
« Voi maschi siete programmati per fare un’unica cosa alla volta, perciò se mastichi non mi dai retta. »
« Potrei offendermi, sai? » sogghigna e il rumore di un sacchetto che viene accartocciato sovrasta la sua risatina divertita.
« Ah sì? Allora cosa ho detto prima che parlassimo di patatine? » domando, sdraiandomi sul letto.
Gli occhi corrono alla foto sul comodino, al suo viso assorto e la nostalgia mi stringe lo stomaco come se qualcuno mi stesse abbracciando con troppa forza.
« Che hai trovato un cucciolo di dinosauro nel giardino. »
« Ma lo vedi che… »
« … che sei una credulona permalosa. Stavo scherzando, pulcino. » replica e la sua voce si flette in modo dolce su quel nomignolo con cui solo lui mi chiama.
Sospiro e stringo fra le braccia il cuscino. Dio, quanto mi manchi.
« Mi stavi parlando della vacanza in Europa che farai a breve con i tuoi genitori. Blateravi di Parigi, di Londra, di Roma e del Colosso… »
« Colosseo, scemo. »
« Mi piace quando fai la maestrina. » il suo tono diventa rauco e brividi mi colano giù per la schiena.
Scende il silenzio fra noi, un silenzio che vorrei riempire di baci, di carezze.
E’ come una pioggia d’estate, questa caduta leggera di vuoti di parole, che rinfresca ma ti fa rimpiangere il sole.
Dovrebbe esserci sempre il sole, ma io non riesco a vederlo quasi mai, dietro le mie cupe nubi di tristezza.
« Violet? » lui mi richiama e vorrei che non smettesse mai di sussurrare il mio nome.
« Mmh? »
« Sbrigati a tornare. Io ti sto aspettando. »
« Lo so. Non smettere, ti prego. »
« Non c’è pericolo. Ora devo andare. » chiudo gli occhi e nella mia mente lo vedo accennare un movimento con la testa, come faceva quando mi riaccompagnava a casa quasi all’alba.
« Ciao, pulcino. »
« Ciao. » rispondo con una voce che ha lo stesso sapore delle mie lacrime, cadute sul cuscino in silenzio.


Agosto
« Posso? »
Alzo gli occhi dal mio disegno e mi ritrovo a fissare il viso sorridente di un ragazzo che se ne sta impalato al mio fianco, in attesa di una risposta.
Ha i capelli rossicci e un po’ mossi, gli occhi piccoli e scuri su di un naso aquilino e l’aria sbarazzina.
Un sorriso largo, di quelli che vanno da guancia a guancia, è appiccicato alle sue labbra sottili e una macchina fotografia dall’aria costosa gli penzola dal collo.
« Certo. » gli faccio un po’ di spazio nell’ombra dell’albero, raccogliendo i miei schizzi sparsi e le matite buttate nell’erba.
Torno a concentrarmi sul mio blocco da disegno, usando il dito per sfumare il contorno di una nuvola.
« Caspita, sei brava! » esclama dopo qualche attimo, sporgendosi.
Ha ancora quel sorriso, che quasi sembra finto, in faccia e mi mette a disagio con la sua irruenza.
Mi ritraggo un po’, come a voler proteggere i miei lavori, e lui sembra accorgersi solo in quel momento di aver esagerato.
« Scusa. » borbotta, scompigliandosi da solo i capelli in un gesto imbarazzato « Devo esserti sembrato piuttosto invadente. E maleducato. Piacere, io sono Daniel. »
Fisso la sua mano tesa nella mia direzione e, per un solo secondo, m’illudo di vederla coperta di cicatrici.
Poi guardo il proprietario di quelle dita sottili e, con delusione, non trovo il viso che cerco.
Dio, quanto mi manchi.

« Violet. »
Daniel trattiene la mia mano più a lungo del necessario, fin quando io stessa non la ritraggo infastidita.
« Ho notato che vieni qui spesso. Non ti stanchi di disegnare sempre lo stesso panorama? » mi chiede, cercando di adocchiare i fogli che avevo raccolto prima e messo alla rinfusa nello zaino alla mia destra.
« No perché raffiguro dei particolari, mai l’insieme. Squarci di nuvole con forme stravaganti, fiori colorati con una coccinella sopra, fili d’erba e frutti caduti dagli alberi, coppiette mano nella mano… tutto quello che attira la mia attenzione, insomma. »
« Suppongo di non essere su quegli schizzi, allora. » ha il tono allegro di chi vuole farti ridere, ma colgo anche una punta di rammarico.
Mi sta forse chiedendo se mi sono mai accorta della sua presenza e l’ho ritratto?
« Non ti avevo mai visto prima. » mi sento quasi in dovere di giustificarmi e allora lui mi porge una polaroid che teneva nella tasca posteriore dei bermuda.
« Io sì. » sussurra, in attesa di una mia reazione.
Ed io mi ritrovo a guardare il mio profilo chino su un foglio bianco ed un carboncino fra le dita, in quello stesso posto ma qualche giorno prima, dati gli abiti diversi.
« Mi hai fotografato di nascosto? » chiedo, non sapendo bene se arrabbiarmi o sentirmi lusingata.
« Fotografo tutto quello che attira la mia attenzione. » mi sorride di nuovo in quel modo estatico che mi mette a disagio per l’intensità ed io resto in silenzio, la polaroid ancora fra le mani.
Di nuovo piovono silenzi attorno a me, in modo così scrosciante che mi stupisco di come lui ancora non si tappi le orecchie per il frastuono.
Perché un estraneo cerca un contatto con me? Cosa vuole dimostrarmi con quella foto?
« Violet, ti andrebbe di… non so… uscire insieme qualche volta? Un gelato, una passeggiata… »
Mi mordo l’interno della guancia con forza, poi di colpo mi alzo in piedi, afferrando alla bell’e meglio tutte le mie cose.
« Mi dispiace. Io… non posso. » gli rispondo con un’espressione contrita in viso e sulla pelle il ricordo delle carezze di Isaac.
Ho fatto una promessa, Daniel, e non ho intenzione di infrangerla.
Anche se lui non dovesse volermi più, io so che continuerei ad appartenergli sempre.
Nonostante il tempo che passa. Nonostante i chilometri a dividerci.
Nonostante le mute parole fra noi, come gocce di pioggia.



Settembre
“[…] La polizia ha fatto irruzione nell’istituto superiore di Beacon Hills, dove alcuni studenti erano rimasti intrappolati in un laboratorio di chimica, e ora cerca il presunto cadavere del custode che sembrerebbe essere stato assassinato.”
Sconvolta, rileggo quella frase un altro paio di volte, prima di comprenderne il senso.
Un altro cadavere, alunni chiusi di notte nella scuola col rischio di essere a portata di mano dell’assassino del custode…
Con mani tremanti compongo il numero di cellulare di Isaac a memoria e mi tiro le pellicine dalle labbra per il nervoso, aspettando che risponda.
Tipregotipregotiprego.
Mai, in cinque mesi di lontananza, ho sentito il bisogno di udire la sua voce come in quel momento.
Voglio accertarmi che stia bene, che non sia uno degli studenti che ha vissuto quella brutta esperienza – l’ennesima, per lui, che ne subisce almeno una al giorno- , che…
“Segreteria telefonica del numero 375-“
Sbuffo e riprovo altre tre volte prima di arrendermi.
Non risponde.
Gli scrivo un messaggio accorato e riadagio il telefono sulla scrivania, fissandolo così intensamente che alla fine si sdoppia davanti ai miei occhi.
Mi passo le mani sul viso, la preoccupazione a pungolare le ghiandole lacrimali, e alla fine mi butto sul letto con la faccia nel cuscino.
Singhiozzo piano, come se temessi di disturbare qualcuno, e mi rannicchio su me stessa.
Ogni chilometro che ci separa, alla fine, si è trasformato in una parola di meno, in un abbraccio mancato, in un sorriso spento.
Non è più una relazione, questa, e non possiamo andare avanti così.
Non posso io.


Ottobre.
Il silenzio si è esteso in maniera esponenziale, come un impasto di pizza che lievita in modo smisurato e alla fine fuoriesce dalla ciotola.
I vuoti nelle giornate si sono raddoppiati, triplicati. Centuplicati.
Non ho sue notizie da due settimane.
Sto iniziando a dimenticare la sfumatura della sua risata, il contorno delle sue battute, il colore del suo amore.
Mi sono illusa che ce la saremmo cavata, che saremmo riusciti a resistere, a far fronte comune contro l’assenza l’uno dell’altra, ma così non è stato.
Ho cercato in ogni modo di tener duro almeno io, per entrambi, ma ho dovuto arrendermi.
Sembra svanito nel nulla.
Sembra scappare da me.
Alla fine ho esaurito le lacrime, consumato tutta la disperazione nel mio petto e convinto me stessa che non posso stare con qualcuno che non mi vuole accanto.
Salvare qualcuno che non vuole essere salvato.
Amare qualcuno che non vuole essere amato.
Perciò mi sono asciugata il viso e ho proseguito a testa alta in questa nuova vita a Sacramento.
Non è poi così difficile: sono riuscita a crearmi una piccola cerchia di amicizie e piano piano il mio sorriso sta tornando alle dimensioni di un tempo.
Alle dimensioni che aveva a Beacon Hills, sotto un albero al parco mentre la pioggia cadeva.
Ci sono volte, però, in cui mi guardo allo specchio e non ricordo quali muscoli facciali debba usare per stendere gli angoli della bocca all’insù.
Volte in cui riesumo la foto di Isaac dal cassetto e la tengo al petto tutta la notte, sperando di sognarlo.
Volte come questa.
Sdraiata sul letto a pancia in giù, fisso lo schermo del cellulare, combattendo una guerra con me stessa per non comporre il suo numero di telefono.
Se lo chiamassi col privato, mi risponderebbe?
E’ solo me che evita?

D’improvviso lo schermo si illumina ed io sobbalzo, il cuore fra le tonsille, fatto schizzare dall’illusione che sia lui a cercarmi.
Ma il nome che lampeggia sul display è un altro e, perciò mentre rispondo, il cuore torna al suo posto.
Silenzioso, quasi completamente muto.
« Ciao, Mery. » la saluto col tono più allegro che riesco a trovare nel mio animo.
« Sei seduta? » chiede lei, saltando i convenevoli.
« Più o meno, perché? »
Ho un brutto presentimento e la voce ansiosa della mia amica non mi aiuta a calmarmi.
« C’è una cosa che devi sapere e che sono sicura ti farà correre qui, anche se avevi deciso di non venire più per Halloween. »
Chiudo gli occhi e tremo.
Chiudo gli occhi ed il viso di Isaac torna nitido nella mia testa; lui e la sua voce ed il suo modo di chiamarmi “pulcino”.
Dio, quanto mi manchi.

« Se vuoi spaventarmi, ci stai riuscendo. » sussurro a fatica, come se avessi qualcosa incastrato in gola.
Qualcosa come un amore reciso, soppresso.
« Si tratta di Isaac, Violet. »
Scatto in piedi, come una di quelle scatole da cui spunta fuori un pupazzo a molla quando l’apri.
« Sta bene? Dimmi che sta bene, Mery. »
« Suo… suo padre è morto e lui era uno dei sospettati. Ora è scomparso. »
Alzo il viso ed osservo cadere ai miei piedi le parole della mia amica come granate.
Padre. Morto. Sospettato. Scomparso.
Esplodono di colpo tutte insieme e mi riducono ad un mucchio di polvere.
Ed il suo silenzio delle ultime settimane diventa d’improvviso un vociare assordante di scuse, di tentativi goffi di spiegazioni, di dimostrazioni di protezione nei miei confronti ed io mi sento una stupida.
Crollo a terra, fra i resti di me stessa, e quasi mi cade il telefono di mano.
« Arrivo. » riesco infine a mormorare, prima di chiudere la chiamata e precipitarmi a preparare la borsa.

 




Questo capitolo mi ha fatto penare più degli altri perchè non ero sicura di cosa volevo evidenziasse e non sono sicura tutt'ora di cosa davvero c'ho messo dentro.
Un po' di tutto, un po' di niente.
Siccome questa è una mini-long non potevo scrivere...che so un capitolo diverso per ogni mese che Isaac e Violet trascorrono distanti, quindi ho compresso il tutto ed ho sottolineato solo fatti interessanti o rilevanti che accadono a lei mentre è distante da lui.
Vediamo come all'inizio si sentano spesso e in diverse maniere e come poi, infine, la distanza li separa.
Tormenta con i dubbi lei e le da il colpo di grazia col silenzio di lui, che sembra voluto.
Poi, bum. Il colpo di scena.
Prima o poi dovevo ricongiungermi alla storyline originaria e perciò eccoci al punto in cui il mostro personale di Isaac viene fatto fuori e lui trasformato.
Quanto cambierà le cose con Violet il suo divenire licantropo?
Per scoprirlo non vi resta che continuare a seguirmi.
Al prossimo episodio, carissime lettrici dolciose :3 Vi adoro.
Un abbraccio.

Strange

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Capitolo 5
*** Pioggia di lame. ***


Pioggia Di Vetro

5. Pioggia di lame.


- Did I do something wrong? -
- I dont' have anyone -


« Sì, mamma, sì. »
Sbuffo e sposto il telefono, incastrandolo fra l’orecchio e la spalla.
Mi servono le mani per disfare in fretta i bagagli.
Mi serve un tempo che mi sembra di non avere.
« Ho dormito quasi tutta la durata del viaggio. » borbotto ancora, distratta, roteando gli occhi.
Mery, seduta sul suo letto dal copriletto giallo, sogghigna.
« Certo che c’erano i suoi genitori ad aspettarmi. Come credi ci sarei arrivata da lei, altrimenti? Volando? Casa sua dista chilometri dalla stazione, lo sai bene. »
Batto un piede a terra, l’ansia che aumenta di portata nella mia voce.
« Mmh bene, d’accordo. Ora devo andare, la cena è pronta. La sua famiglia si mette presto in tavola. Ti chiamo domani, ok? Ok. Ciao, mamma. »
Chiudo svelta la telefonata, come se temessi che un’altra sua parola possa farmi esplodere, e torno di fronte alla mia amica, l’espressione disperata in faccia.
L’espressione di chi ha perso tutto.
La mia espressione solita senza Isaac.
« Ripetimelo. Spiegami ancora come diavolo fa un ragazzo a sparire sotto il naso della polizia e a far perdere le sue tracce come fosse semplicemente… evaporato. » gesticolo agitata, mimando un soffio di aria calda che esce da una pentola che bolle.
« E’ tutto quello che so, Violet. Cosa potrei sapere io più dello sceriffo? » Mery si stringe nelle spalle e guarda altrove, quasi non sopportasse quel che vede nel mio sguardo.
O, semplicemente, come se non ci fosse proprio niente da vedere in esso.
« Io vado da lui. » decido d’improvviso, animata dall’impossibilità di star ferma a contemplare gli eventi che si susseguono come in una pellicola al cinema.
Mery torna a fissarmi controvoglia, sondando il mio viso alla ricerca di qualcosa che somigli ad un sintomo di follia repressa fino a quel momento ed emersa tutta d’un colpo.
Frugo nel borsone ai miei piedi alla ricerca di una sciarpa.
« Tu sai dov’è? » mi chiede sconcertata.
Le lancio un’occhiata ironica.
« O a casa sua o alla stazione di polizia, dove vuoi che sia? »
Infilo la giacca, adagiata sull’attaccapanni solo qualche minuto prima, e mi guardo intorno, sperando di intravedere la mia tracolla.
« Non credi che, se fossi in uno di quei due posti, non lo riterrebbero “scomparso”? »
Mery si alza e poggia le sue mani, dalle unghie mangiucchiate, sulle mie spalle.
Ho iniziato a tremare senza nemmeno accorgermene.
« Sto parlando dello sceriffo Stilinski. Del padre di quel ragazzo che tutti chiamano Stiles perché non hanno idea di quale sia il suo vero nome. Devo andare da lui a sentire se ci sono novità. Non so e non posso starmene qui ferma. Devo trovarlo. Io devo farlo. Lui… lui… »
Le parole s’incagliano fra le mie corde vocali e non ne vogliono sapere di uscire, di formulare una frase sciocca come “lui ha bisogno di me”.
Perché non è vero, lui non necessita affatto della mia presenza, del mio conforto, dei miei abbracci, dei miei baci.
Di me.
Se così fosse, non sarebbe sparito un mese prima ancora che succedesse tutto questo.
Se così fosse, io saprei della morte di suo padre da lui, non da Mery.
Se così fosse, saprei con certezza che sta bene. Non dove si trova, magari, ma perlomeno che non gli è successo nulla.
Che è al sicuro.
Invece non so niente più del fatto che è scomparso.
E non solo dalla mia vita.
« Lo capisco, Violet. Ma cosa pensi di poter fare? Peggiorerai la sua posizione andando dallo sceriffo. »
« Non è vero. »
« Sì che lo è. Ascolta: la polizia ha già la deposizione di Whittermore, il co-capitano della squadra di Lacrosse, vostro vicino di casa, in cui emerge il carattere violento del padre di Isaac e le torture che infliggeva a suo figlio. Questo, loro, lo chiamano movente! »
La voce di Mery è inflessibile, dura; quella che le maestre usano con i bambini indisciplinati prima di metterli in punizione.
La ascolto e capisco che ha ragione, eppure le orecchie sono l’unica parte del corpo che resta nella stanza.
Il resto viene catapultato indietro nel tempo, alla prima volta che avevo visto Isaac nel parco.
Mi sembra di avere tatuate sulla retina degli occhi tutte le ferite e le cicatrici che lo hanno segnato negli anni.
Marchiato.
Ed ora solcano anche la mia pelle, come se avessi subito gli stessi suoi supplizi.
Perché io mi sono resa complice di suo padre, col mio silenzio.
Avrei potuto farmi avanti, denunciare quel mostro di carne ed ossa – non come i miei, di paure e fantasia – al posto suo e porre fine alle notti di Isaac nel congelatore.
Ma non l’avevo fatto.
Lui mi aveva implorato di stare fuori da quella questione.
Era in grado di cavarsela, diceva.
Aveva me e gli bastava. Era, anzi, più di quanto avesse mai osato sperare, diceva.
Ma ora cos’è che diceva quella sua assenza, quella sua fuga?
Perché non era rimasto alla stazione di polizia, aspettando che i fatti assumessero una luce più chiara?
E nonostante tutto urli il contrario, lui è innocente. Io lo so.
« Se parlassi con lo sceriffo, scoprirebbe che sapevi quello che succedeva a casa Lahey. Saresti coinvolta. Verresti sospettata di complicità. Violet, ti prego. Ti prego, non farlo. Lui non lo vorrebbe. » insiste Mery.
Una volta Isaac mi aveva detto «Io non ho nessuno. » ed io, dopo un bacio, gli avevo detto che non era vero. Non più.
Adesso, è di nuovo così? E’ tornato ad essere solo?
Chi gli è rimasto?
Il nostro rapporto è morto ed anche l’ultimo legame di sangue che possedeva è stato tranciato.
Come sopravvive?
O meglio… sopravvive? Lo sta facendo, nascosto da qualche parte in attesa che le acque si calmino?
O ha concesso, infine, la sua vita alla solitudine?
Crede che io l’abbia abbandonato?
« D’accordo. D’accordo. » alzo le mani e mi scosto dalla mia amica, che sospira sollevata.
Individuo la tracolla e l’afferro al volo, correndo poi alla porta della sua stanza prima che possa fermarmi.
« Non andrò dallo sceriffo, ma non rimarrò neppure qui ad aspettare che mi dicano che l’hanno trovato morto in qualche vicolo, come suo padre. Vado a cercarlo. Dì ai tuoi che… non lo so. Ho mal di testa, mal di pancia, mal d’amore. Qualunque cosa. Cercherò di non far tardi, ti faccio uno squillo sul cellulare così mi apri dalla porta di servizio in cucina, ok? » dico tutto d’un fiato, con un piede già fuori dalla stanza.
Poi, ci ripenso. Torno indietro e l’abbraccio forte.
Come avevo fatto con Isaac prima d’andar via.
Come ogni volta che saluto qualcuno senza sapere se poi lo rivedrò.
« Ti voglio bene. »

L’aria della notte mi raschia la pelle come fosse fatta di schegge di ghiaccio.
La giacca sembra di cartone umido e spugnoso e rende impacciato ogni mio movimento.
Le dita si sono intorpidite alle estremità e non sento più l’indice destro, che tengo spasmodicamente premuto su una bomboletta di spray al peperoncino.
La torcia del mio cellulare illumina piccole porzioni di terreno, sufficienti solo a non farmi inciampare in qualche buca, ma per il resto, intorno a me, l’oscurità è quasi assoluta.
Non ci sono stelle, solo uno strato di nuvole così compatto da sembrare panna grigia stesa in cielo.
Deve essere saltata la corrente nel quartiere in cui abitavo: i lampioni non danno segni di vita e le case nelle vicinanze hanno tutte le finestre buie, di un nero che ha inglobato ogni particella di luce esistente.
Lo stesso colore che ha rosicchiato anche parte dei miei sentimenti per Isaac, in tutti quei mesi di lontananza.
Avevo guardato in ogni stradina, ogni angolo scuro davanti cui ero passata venendo da casa di Mery, ma di lui neppure l’ombra.
Il parco era deserto -e anche un tantino lugubre, con un vento rabbioso che faceva muovere da sole le altalene in una sinfonia sinistra di cigolii-, perciò casa Lahey era l’unico luogo che mi era rimasto, perlomeno per quella notte.
L’indomani, se non avessi trovato Isaac neppure lì, sarei andata a chiedere in giro anche ai suoi compagni di Lacrosse e allo stesso figlio dello sceriffo, se fosse stato necessario.
Sospiro e a tentoni raggiungo il retro della casa, cercando un accesso: magari la porta di servizio è rimasta aperta o c’è una botola che conduce al seminterrato…
Il cellulare vibra nella mia mano fredda e, dopo aver letto un messaggio preoccupato di Mery che mi chiede che fine ho fatto, la mia attenzione viene catturata dalla porta a vetri della cucina che ho di fronte.
Provo a girare la maniglia ma, come supponevo, è chiusa.
C’è però lo sportellino d’accesso per i cani che si muove al vento.
Mi chino a quell’altezza e, prima ancora di essermi soffermata a chiedermi se ci possa passare o meno, lo sto già facendo.
Fortuna che sono bassa e magra!
Infilo la testa ed una spalla nella porticina, sentendomi un po’ Alice nel Paese delle Meraviglie quando mangia il cibo che la fa ingigantire di colpo, e piano piano, contorcendomi e probabilmente lussandomi il gomito sinistro, riesco ad intrufolarmi in casa.
Resto seduta a massaggiarmi l’articolazione del braccio per un paio di minuti buoni, poi mi decido a muovermi, col cellullare in mano che proietta luce in modo tremulo qui e lì.
Isaac raramente mi aveva invitato da lui e quelle poche volte erano i giorni in cui suo padre era a lavoro ed io e lui marinavamo scuola per stare un po’ insieme.
Di notte, comunque, non ho mai messo piede fra quelle pareti… e a dirla tutta non sono entusiasta della cosa neppure in questo momento.
La casa sembra un gigantesco mausoleo, arredato con mobili in ciliegio invece che con lapidi di marmo.
Foto di quella che di sicuro era la madre di Isaac e di Camden, suo fratello, sono appese su ogni muro.
Ma non mi sento come se guardassi con una nota malinconica i bei ricordi in un album di fotografie di famiglia, no; è più come assistere allo strenuo sforzo di qualcuno di credere che loro siano ancora vivi, ancora in questa casa, fra i sorrisi nelle foto e le piccole azioni quotidiane immortalate.
Davanti a cosa mi trovo, quindi? All’ennesima sadica tortura che Isaac subiva ogni giorno?
Guardarsi intorno e dover fare i conti con la perfezione di chi non c’è più, che lui non avrebbe mai potuto eguagliare neppure volendo?
Rabbrividisco e illumino il salotto, anch’esso colmo di cornici in cui però Isaac non compare mai.
E’ come un fantasma, uno spettro che non resta impresso sulle pellicole.
La nausea si aggrappa al mio stomaco ed io sono costretta a reprimere un conato.
La polizia è entrata qui dentro?
Ha visto questo posto?
Come possono ancora credere che Isaac sia colpevole?
Un omicidio resta sempre un omicidio, vero, ma in questo caso io lo chiamerei, piuttosto, giustizia.
Chiunque sia stato, ha salvato un ragazzo che altrimenti avrebbe continuato a subire le angherie del padre per anni e anni, fino a morire consumato di un dolore somministratogli a piccole dosi ogni giorno della sua vita.
Piccole quanto le schegge di vetro che calpesto dirigendomi verso la porta in fondo al corridoio, quella che ora è socchiusa e che Isaac non ha mai aperto in mia presenza, additando la scusa di non averne la chiave.
Le tenebre, oltre quell’uscio, sembrano più corpose, quasi mi stessi andando ad aggrovigliare in pesanti sipari di teatro color pece.
La fioca luce del mio cellulare illumina una scalinata che scende verso il fondo -un fondo che non vedo- ed ogni gradino, consumato dalle tarme, scricchiola.
Tutto, in questo posto, mi grida di scappare, d’andar via, ma non riesco a fermare i miei piedi, calamitati verso qualcosa che so con certezza si trova proprio in quel seminterrato.
Scendo l’ultimo scalino con un sospiro di sollievo e mi controllo le dita, trovandole piene di schegge di legno del corrimano.
C’è un odore pungente che mi pizzica il naso e che non riesco ad identificare bene.
Sembra un misto di muffa, sudore e anche… sangue?
Mi muovo un poco, cercando di non inciampare in nessuno degli oggetti accatastati a sinistra della scalinata in modo davvero poco stabile: ci sono cassette di legno sia intere che rotte e fogli sparsi, strappati e macchiati, in terra; una testa di cervo che pende da un lato sulla parete di fondo, vicino ad un’aquila impagliata e teli polverosi di plastica scura che penzolano dal soffitto un po’ ovunque come pure pesanti catene arrugginite.
Una sedia dalle zampe piegate è afflosciata addosso al muro davanti a me e sopra vi riposa un vecchio peluche a forma di scimmia. Come serpenti che strisciano, in cima ad ogni parete, ci sono tubature da cui cola qualcosa di viscido che si accumula dietro uno specchio rotto alla mia destra.
Ma è su un oggetto in particolare che tengo puntata la luce, come se fosse il protagonista di un’opera di teatro illuminato da un occhio di bue al centro del palco.
Un congelatore, di quelli capienti da bar, dall’aria malconcia giace di fronte a me.
A terra, una scia di graffi traccia un percorso proprio verso quel freezer.
Mi avvicino timidamente, la mano premuta sulla bocca per non far scappar fuori un urlo d’orrore, e quando sono ad un passo noto che un lucchetto lo sigilla.
Ma il lucchetto è aperto, constato con un’occhiata più attenta, e allora le mie dita si muovono senza il permesso del cervello e lo tolgono dalla cerniera.
Prendo un respiro, due, tre, tutti quelli che entrano nella manciata di minuti che mi servono ad accumulare sufficiente coraggio, e poi adagio le mani sul congelatore.
E’ spento ma freddo, di un freddo metallico e inanimato, che quasi mi risucchia il calore dai polpastrelli.
Mi mordo con ferocia il labbro inferiore e con uno scatto sollevo il coperchio, senza sapere bene cosa aspettarmi.
Poi i miei occhi individuano le unghiate profonde, scavate più volte dalle stesse dita, e il sangue secco e le ammaccature e mi sfugge un singhiozzo di bocca.
E al singhiozzo seguono le lacrime -una cascata-, mentre con la mano accarezzo i segni degli inutili tentativi di Isaac di liberarsi di quell’orrenda prigionia.
« Non dovresti essere qui. »
Una voce –la sua voce- mi coglie di sorpresa alle spalle ed io piango di più, continuando a percorrere con occhi increduli quei graffi e immaginando di udire le sue richieste d’aiuto, mai raccolte da nessuno.
« Nemmeno tu. » replico dopo un po’ ed il suo respiro gioca con i capelli corti sulla mia nuca.
E’ dietro di me.
Ma non mi abbraccia, non mi prende per mano, non mi sfiora neppure.
Sento solo un fruscio, forse dovuto ad un suo movimento, e poi l’ambiente circostante si colora di una debole luce ocra: Isaac ha acceso una lampadina penzolante dal soffitto proprio sopra la mia testa.
« Ti piace il mio letto? E’ un po’ stretto e decisamente scomodo, ma… »
« Smettila, non è divertente. » lo zittisco con un singulto represso e poi mi volto per fronteggiarlo a faccia aperta, senza vergognarmi delle mie lacrime.
Dio, mi sei mancato.
Isaac mi guarda e in quel chiarore giallino i suoi occhi sono del colore dell’oceano, giù nelle profondità dove le alghe lo sfumano di verde.
Ha le labbra strette in una maschera d’impenetrabile amarezza che mi spaventa.
Guarda quel congelatore con disgusto ed io, scioccamente, mi chiedo se sia stato fatto un funerale per suo padre e se ci sia andato qualcuno.
Ma so bene che la risposta è negativa; che di fronte a quell’ipotetica bara nessuno si dispererebbe, nessuno piangerebbe, invocando il suo nome.
In fondo, la sua morte rappresenta solo un mostro di meno al mondo.
Ma, in questo caso, è un mostro che ha lasciato anche un orfano completamente abbandonato a se stesso.
Io avrei partecipato al rito funebre solo per essere vicina ad Isaac, per non lasciarlo solo a lottare contro l’ennesimo dolore dovuto ad una perdita.
Gli avrei tenuto la mano, senza dire nulla, e poi l’avrei portato via di lì, a casa mia dove avrei cercato di colmare il suo vuoto col mio amore.
« Devi andartene, Violet. » asserisce lugubre, distante più che mai ed ogni sua parola mi ferisce come un coltello.
E più parla, più resto lacerata.
E’ come se addosso a me, soltanto a me, stessero piovendo lame affilate.
« Non vado da nessuna parte senza spiegazioni. Me le devi, Isaac. Almeno quelle. » ribatto pronta, puntandogli un dito al petto.
Lui mi lancia un’occhiata ardente come brace ed emette quello che pare un ringhio animalesco.
« Vuoi davvero sentirmelo dire? Non lo immagini da sola quello che è successo e perchè? » chiede e forse è una mia fantasia, ma mi sembra che dietro quella domanda ci sia una supplica a non andare oltre.
« Dimmelo. Dimmi perché hai promesso qualcosa che non hai mantenuto, perché mi hai illuso per mesi, lasciandomi poi ad aspettarti ad un telefono muto. Se volevi lasciarmi, dovevi dirmelo in modo esplicito. Sei un codardo! » esclamo e vorrei darmi uno schiaffo da sola perché so bene che quello era uno degli insulti preferiti di suo padre.
Glielo ripeteva continuamente, come una cantilena. Come l’antica tortura della goccia cinese. L’ennesima.
Forse, dopotutto, quella pioggia di lame non è ad opera solo di Isaac ma anche mia.
Forse è un sadico gioco, il nostro, a chi riesce a farsi più male.
La sofferenza di uno solo non basta, meglio essere coinvolti entrambi.
Lui digrigna i denti e respira forte dalle narici. Mi prende un polso e mi fa male.
« Sto con un’altra adesso, contenta? Si chiama Erica ed è come me. Tu non potresti capire. Vattene. »
Mi spinge lontano in modo brusco ed io mi ritrovo accasciata contro il congelatore, senza respiro.
Se per il dolore del colpo alla schiena contro il metallo o per quello che mi ha appena sputato in faccia, non saprei dirlo con certezza.
« Cazzo, pulcino ti sei fatta male? »
Alzo gli occhi e me lo trovo davanti, il viso preoccupato e l’espressione colpevole addosso.
E lo riconosco.
Questo è il mio Isaac.
« Come hai fatto a lanciarmi così? Tu non sei mai stato particolarmente forte o violento. Che ti succede, Isaac? » gli chiedo, accarezzandogli una guancia.
La rabbia e la delusione nel mio corpo sono evaporate, come acqua marina sulla spiaggia che lascia solo cristalli di sale.
In me, quel sale è l’amore.
« Non posso… non posso. » mi fissa addolorato e bacia il palmo della mano che tengo sul suo viso.
« Cosa? Dimmelo, ti prego. »
« Devi andartene, non è sicuro qui. Nessun posto è sicuro per te, con me. » ha la voce spezzata, tagliata dall’ennesima lama caduta fra noi.
« Non mentirmi. Se vuoi che stia lontana da te, devi dirmi il vero motivo! » insisto, assottigliando gli occhi per una fitta di dolore alla colonna vertebrale.
« Perché sei così testarda? » esplode di colpo e si alza, allontanandosi da me.
Calcia una di quelle casse di legno malandate ai suoi piedi e la manda in frantumi.
Poi afferra la sedia e la scaraventa contro il muro opposto, riducendola ad un ammasso di plastica e metallo informe.
Trattengo il fiato, terrorizzata come mai.
« Anche se ti dicessi la verità sarebbe inutile: non l’accetteresti, lo vedo dai tuoi occhi. » mormora inspirando forte.
Troppo.
Nasconde d’improvviso le mani e continua a rivolgermi le spalle, a capo chino.
« Ti ho sempre accettato, Isaac. Le cose non sono cambiate! »
Mi alzo a fatica, reggendomi al freezer, e arranco verso di lui.
« Sì, invece. L’Isaac che conoscevi tu è morto insieme a suo padre. Quello che sono ora non va bene per te. Torna a Sacramento, alla tua vita che non pullula di omicidi e attacchi d’animali e sii felice. » dice talmente piano che a malapena riesco ad udirlo.
Poi, un battito di ciglia dopo, è sparito.
« Isaac! » lo richiamo, guardandomi intorno disperata.
Sento la porta d’ingresso sbattere, segno che se n’è andato e mi ha lasciato qui.
Crollo a terra, fatta ormai interamente a pezzi dalla pioggia di lame, che smette di scendere solo in quel momento.






Ero terrorizzata per questo capitolo.
Ero piena di dubbi a causa della storyline e temevo che avrei inconsciamente copiato la scena della lite dalla fanfiction di un'altra ragazza, sempre su Isaac.
Invece il risultato non mi pare male.
Per la gioia di alcune di voi, il capitolo è anche bello lungo.
Spero di non aver esagerato con i polpettoni-descrizioni e non aver abbondato in dettagli.
Si sa: il troppo stroppia sempre.
Questo è il mio augurio per tutte voi di buone vacanze -finalmente sono arrivate anche per me @_@ - perciò non aspettatevi di sentirmi tanto presto.
Sto fuori circa due settimane e non appena torno non posso pubblicare, in quanto non ho ancora scritto nulla.
Ma rimedierò, promesso.
Bon, credo di aver detto tutto.
Vi lascio con tanti abbracci dolciosi e tanto amore.
Grazie di tutte le belle parole che sempre riservate a questa storia, mi rendete felice ed orgogliosa.

Strange.

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Capitolo 6
*** Pioggia di coriandoli di ghiaccio. ***


Pioggia Di Vetro

6. Pioggia di coriandoli di ghiaccio.

- Did I do something wrong? -
- I dont' have anyone -


Resto a fissare il filamento incandescente della lampadina impolverata sopra la mia testa per diversi minuti. O forse diverse ore. O anche diverse intere vite. Guardo quel chiarore pallido, che dipinge i contorni del seminterrato di un giallo annacquato, e tremo. Tremo come se avessi freddo, come se il sangue mi si fosse ghiacciato nelle vene e stessi morendo per assideramento poco a poco. Ho smesso di respirare nel momento in cui ho compreso che Isaac non era più davanti a me e ancora non riesco a ricominciare. L'ossigeno nell'aria se l'è portato via lui ed io tremo sempre di più, le mani strette a pugno lungo i fianchi e gli occhi bagnati. Bagnati di luce ocra, la stessa che dava ai suoi occhi azzurri una sfumatura verde, e lacrime. Lacrime che avevo represso in sua presenza e che ora non so tenere a freno. Non ne ho più motivo. « Sii felice. » aveva detto. « Sii felice. » ripeto ora io ora sottovoce, come una cantilena. Come se potessi diventarlo davvero solo borbottando quella frase a denti stretti. Poi, in quell'immobilità straziante, un suono. Un suono dolce, pacato, che però si ripercuote nel silenzio e sembra quasi un grido disperato. La suoneria del mio cellulare, ancora stretto spasmodicamente fra le dita. E quella canzone -la nostra canzone- è un pugno duro sull'addome che non ho visto arrivare; il colpo finale che mi spedisce k.o. Sono ginocchioni a terra, quando rispondo. Piegata su me stessa. Accartocciata. Spezzata. « Dove diavolo sei? Sono le tre del mattino! » La voce di Mery è pregna di rimprovero malcelato, preoccupazione evidente e sollievo palese. Apro la bocca e le rispondo, ma le parole non prendono consistenza. Ci riprovo, più e più volte, ma è come provare a parlare sott'acqua o con le corde vocali tranciate. « Violet! Violet! Stai bene? Dove sei? Dimmi qualcosa! » mormora lei, concitata al telefono, cercando di contenere l'ansia che la sta divorando per non svegliare i suoi genitori. « Sto tor-nando. » riesco, infine, a dire con fatica. Poi chiudo la conversazione e costringo il mio corpo a tornare in posizione eretta. Le gambe, però, non collaborano molto: annaspo, mulinando le braccia, e mi aggrappo alla prima cosa che trovo per non cadere. E le mie dita sfiorano del freddo metallo graffiato.
Il congelatore.
Mi viene voglia di gridare, gridare più forte che posso, come faceva Isaac nelle notti in cui era stato rinchiuso lì dentro.
Mi sembra di starci io, ora, rannicchiata fra la lamiera in attesa dell'alba e del suono liberatorio del lucchetto che scivola fuori dalla cerniera.
Corro fuori, inciampando e rialzandomi senza badare alle sbucciature che mi procuro sulle ginocchia e i palmi delle mani.
L'aria della notte mi accoglie con una frustata gelida in viso, ma non mi fermo; se lo facessi, ho paura che metabolizzerei le parole di Isaac -il nostro addio che sapeva di definitivo- e non voglio.
Ansimo, accelero e le lacrime si freddano sulle mie guance.
Quando ho ripreso a piangere? Ho mai smesso?
D'improvviso incespico nei lacci troppo lunghi delle scarpe e cado in avanti, a braccia protese per attutire il colpo.
« Ehi tu! Guarda dove vai! »
Apro gli occhi, che avevo chiuso d'istinto in attesa di scontrarmi con l'asfalto, e vedo di fronte a me un uomo col cappuccio tirato sul viso che si sta rialzando da terra.
Si pulisce i jeans con un grugnito contrariato, poi mi si piazza davanti e mi scruta.
Io, il suo volto, non riesco a vederlo, invece: il tizio copre la luce del lampione con la sua stazza ed i suoi tratti facciali sono completamente ingoiati dall'ombra.
« Mi scu-scusi. Non l'ho proprio vista, io... » balbetto, arretrando involontariamente.
Ed ad un mio spostamento indietro corrisponde un suo passo in avanti.
Puzza di vodka e birra, di dopobarba scadente e tabacco; se il pericolo avesse un odore, sicuramente sarebbe quello.
Con dita ansiose cerco inutilmente lo spray al peperoncino, che ho sentito rotolare poco più in là dalla borsa perennemente aperta, e di nuovo cerco di prendere le distanze.
L'uomo, in una sola falcata, mi raggiunge.
Si china sulle ginocchia alla mia altezza e mi studia in silenzio.
« Non sei mica male, sai ragazzina? » mugugna infine, con un tono di voce nasale e arrogante.
E quando si protende verso di me, per ghermirmi un braccio, io inveisco contro le mie dannate gambe inerti che hanno tranciato i ponti col cervello e si rifiutano si collaborare.
Non oppongo resistenza, non mi muovo.
Non riesco neppure a gridare, cristallizzata in un bozzolo di paura che non non fa altro che farmi assistere alla scena che sto vivendo non come protagonista, ma bensì come spettatrice esterna.
Non avverto quasi le mani sudicie dell'uomo sulla pelle nuda della mia pancia sotto la camicetta, nè la sua disgustosa erezione contro la coscia.
Chiudo gli occhi, continuando a piangere senza provare neppure a divincolarmi, e mentre il dolore sul polso, che lui stringe, aumenta, dietro le mie palpebre strizzate esplode il ricordo della prima volta che io e Isaac avevamo fatto l'amore.
Il modo in cui mi aveva sfiorato con impaccio, timidezza e timore di ferirmi, di essere davvero come suo padre lo dipingeva: incapace, pezzente, inadeguato.
Il modo in cui mi aveva baciato ad ogni spinta, quasi a volersi scusare di ogni fitta di cui non era davvero responsabile.
Il modo in cui aveva ripetuto tutto il tempo a bassa voce di amarmi, mentre le fiamme delle candele attorno a noi morivano senza più cera da bruciare.
Ed allora grido.
Grido il suo nome con disperazione, iniziando a strattonare il braccio per liberarlo e muovendo a casaccio le gambe nella speranza di colpire il mio aggressore.
Lui, infastidito, m'insulta e mi assesta uno schiaffo vigoroso sulla guancia sinistra a mano aperta, facendomi crollare a terra.
Sbatto la testa violentemente al suolo e resto di fianco, nella posizione in cui sono caduta, con gli occhi malfunzionanti impigliati alla figura nera che si sta di nuovo avvicinando a me.
Poi, d'improvviso, compare qualcun altro.
Un'altra sagoma sfocata -e decisamente più piccola dell'uomo mastodontico che mi ha assalito- si pone fra di noi.
E mi pare di vedere la scena su di un vecchio televisore anni '40; uno di quelli in bianco e nero con l'immagine che si sgrana, le voci a tratti metalliche e il video che si spegne di tanto in tanto.
Mi sento la testa pesante, come se fosse stata riempita di piombo, e seguo a malapena il volo che fa il mio aggressore contro un muro poco lontano.
Il mio interesse è incentrato sull'ultimo arrivato, di spalle a me, che ansima e ringhia.
O forse anche le mie orecchie sono fuori uso, non so.
Vorrei che si voltasse, che mi mostrasse il suo viso per poterlo ringraziare meglio, però probabilmente lo chiamerei col nome sbagliato poichè per me, la salvezza, ha sempre avuto un solo volto.
Isaac.
Con fatica formulo il suo nome, ma non sono neppure certa di aver mosso le labbra.
Isaac.
Forse sto solo immaginando di invocarlo e di tendere una mano verso lo sconosciuto, o magari ci sto davvero riuscendo, chi lo sa.
L'incoscienza striscia verso di me e mi avvolge a poco a poco come una coperta che mi ripara dal gelo.
Ha iniziato a piovere, credo. O magari no. Eppure mi sembra che piovano coriandoli di ghiaccio sulla mia pelle perchè ho freddo e tremo di nuovo, come poco prima nel seminterrato.
L'ultima cosa che riesco a cogliere di quello strano mondo che sfarfalla e gracchia, prima di annegare nel tepore rassicurante del nulla, è la voce di Isaac.
Violet, mi senti? Pulcino, apri gli occhi, ti prego. Sono qui, Violet; sono qui.



Sono stata in vacanza... e forse esarebbe stato meglio non andarci XD
Dire che me ne sono capitate di tutti i colori è un eufemismo. Devo ancora riprendermi del tutto. E a chi interessasse, no, non sto parlando di qualcosa di bello.
Coooomunque, eccomi qua.
Vi sono mancata? XD
Non credo...
Ma per quelle tre povere anime pie che mi seguono, beh ecco il continuo della nostra storia.
Temo di starmi andando ad incartare come al mio solito, ma spero vivamente di no. Incrociate le dita con me, perchè altrimenti vi farò penare per gli aggiornamenti.
In ultimo... il titolo è troppo lungo? Ditemi di no, vi prego.
Vi lascio con un mare di abbracci coccolosi. Voi a me siete mancate tanto. Davvero.
Tornare a scrivere dopo due settimane di astinenza è una sensazione unica.
Lasciatemi due, tre, quindi, settantamila paroline se viva. Io rispondo a tutto <3
Ps non preoccupatevi, niente di grave per Violet. Promesso ^^

Strange.

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Capitolo 7
*** Pioggia di stelle. ***


Pioggia Di Vetro

7. Pioggia di stelle.

- Did I do something wrong? -
- I dont' have anyone -


Sto sognando.
Non so cosa di preciso mi faccia capire che non sono sveglia, ma lo avverto.
E' come un bruciore lieve sulla pelle, un malessere nello stomaco appena accennato: piccolezze traditrici del mondo onirico in cui sono immersa.
Un mondo inizialmente fosco e lugubre, costellato di ombre oscure terrificanti e schizzi di sangue, che ha poi assunto tinte più tenui.
Il tutto è stato, infine, inghiottito da un turchese elettrico, culminante in un blu cupo.
Un alone chiaro, come una pennellata di colore annacquato, sui contorni delle cose.
Ma a riconsegnare al mio corpo il senso di realtà sono il calore rassicurante di una mano grande stretta nella mia ed una voce insistente.
« Apri gli occhi, Violet. »
La sua voce.
Dischiudo piano le palpebre, con lentezza misurata, e lui è lì, accanto a me.
Isaac.
E di colpo mi rendo conto che quello che vedevo nei miei sogni non era altro che il colore delle sue iridi.
Lui mi ha riportato indietro da qualsiasi cosa fosse quella che mi teneva imprigionata nel sonno. Lui mi ha salvata.
Mi sorride ed io riesco a contare una ad una le screziature scure attorno alle sue pupille.
Ha gli occhi di un azzurro abbacinante, come il cielo d’estate col sole allo zenit, Isaac.
Come l’acqua cristallina dell'oceano che si rifrange sui ciottoli tondi e lisci del fondale.
« Ehi, pulcino, mi stavi facendo preoccupare. » si sporge e mi bacia la fronte sudata, scostando le ciocche più corte della frangia che la coprono.
Mi volto verso di lui e mi rannicchio sulla sua spalla nuda, baciandogli la clavicola.
« Quanto ho dormito? » domando, sfregando i piedi freddi fra loro.
« Un paio d'ore, credo. Non ho badato molto all'orologio. » risponde lui e infila un braccio dietro la testa, fissando il soffitto scuro sopra cui sono incollate decine di stelle fluorescenti.
Appena trasferitami a Beacon Hills, avevo voluto ricreare una piccola galassia nella mia stanza e ad ogni costellazione immaginaria avevo dato persino un nome strampalato.
C'era quella del coniglio salterino, quella della rana in gonnella, quella del cane a testa in giù... e quella dell'amore.
Isaac sembra fissare proprio quella, mentre mi accarezza distratto un braccio con la mano libera.
« Tra quanto devi andare? » chiedo, sperando che la risposta somigli anche solo vagamente a "mai".
« Tra circa tre ore. Se tuo padre mi trova qui, mi spara un proiettile in fronte... nella migliore delle ipotesi. » sorride con un solo angolo della bocca e poi, d'improvviso, di gira su un fianco e m'imprigiona sotto di sè.
« Hai una qualche interessante proposta su come impiegare questo tempo? » ha un'espressione sorniona in viso e scende a leccarmi le labbra, in attesa di una risposta.
« Non so... facciamo un gioco di società? »
Isaac annuisce e si sposta leggermente, arrivando a baciarmi appena sotto l'orecchio destro.
Ansimo e cerco di rimanere lucida. Non voglio cedere con così tanta facilità.
« Prendo le carte? » propongo allora e lui ride roco, sussurrando la sua risposta sulla mia bocca.
« Sì. Giochiamo a strip poker. Ops, sei già nuda. »
***
Non sto sognando.
E' difficile spiegare perchè abbia la precisa sensazione di non essere addormentata, ma è proprio così.
Questo non ha niente a che vedere col mondo onirico; questo, più che altro, sembra un ricordo.
Un ricordo disgustoso e inquietante, a tratti distorto, forse suscitato da un qualche film dell'orrore visto con Mery.
Sono in strada, sto fuggendo da qualcosa.
Corro, corro fino a non sentire più nemmeno le proteste delle mie gambe e a non riuscire ad ossigenare a dovere i polmoni. Mi collasseranno nel petto, temo.
Corro nel buio. Forse è notte o forse è solo il colore della mia paura a circondarmi.
Corro e inciampo. Poi cado duramente e sbatto contro qualcosa.
No, qualcuno.
E' un uomo enorme, grottesco e maleodorante.
Si avvicina e io non arretro, resto ferma, in attesa.
C'è qualcun altro lì vicino.
No, qualcos'altro.
Si direbbe un animale, dai versi che fa.
E' di lui che ho paura, mi rendo conto mentre cerco di fuggire.
E' ingobbito però si regge su due zampe come un uomo, ma non può essere umano: le sue dita culminano in artigli appuntiti, ha le orecchie allungate e ulula.
Si avventa sull'omone mastodontico e lo atterra, affondando le fauci nella sua giugulare.
Poi, lentamente, alza il muso al cielo ed il sangue gli cola dal mento; la sua preda non si muove nè lamenta più.
Vorrei gridare d'orrore, ma non ci riesco. Provo e riprovo e la voce collabora solamente quando l'essere si volta verso di me.
E quegli occhi, io, li riconoscerei anche se di colpo divenissi cieca.
Sono di un azzurro abbacinante, come il cielo d’estate col sole allo zenit.
Come l’acqua di cristallina dell'oceano che si rifrange sui ciottoli tondi e lisci del fondale.
« Violet, svegliati. » dice la creatura, con le sembianze di Isaac, in un ringhio.
Ed io, spalanco di scatto le palpebre.
La prima cosa che noto è che il soffitto che mi sovrasta è spoglio: non ci sono stelle, nè artificiali nè naturali. Forse sono tutte piovute giù, come comete.
E' un banale soffitto qualunque di una casa qualunque, quello.
La seconda cosa che entra nel mio campo visivo è un'espressione corrucciata e vagamente allarmata. Il colore delle iridi, però, è sbagliato: verde erba appena tagliata.
Mery.
« Ehi, stavo cominciando a preoccuparmi. » mormora e poi mi poggia una mano fresca sulla guancia, aspettando che mi tiri un po' su da sola per tornare a parlare.
« Come ti senti? »
« Cosa è successo? » rilancio, tenendomi la testa come se in quel modo potessi arrestare l'oscillazione della stanza attorno a me.
« Non... non te lo ricordi? » domanda ancora la mia amica, strappandosi le pellicine dalle labbra con morsi violenti.
Scuoto appena il capo e la nausea mi ribolle nello stomaco.
« Sei uscita a cercare Isaac, senza darmi il tempo di impedirtelo... »
« Mmm, sì. Un qualcosa del genere mi pare di ricordarlo. Ma è tutto confuso. » borbotto contrariata, allungandomi verso il comodino per prendere il bicchiere d'acqua che vi sta sopra.
« Poi sei stata aggredita... »
Mery squittisce, quasi. Mi stringe le mani con tanta forza che per un attimo la mia attenzione si focalizza sulle nostre dita cianotiche intrecciate invece che su quello che so per certo essere un ricordo, ora.
Non stavo sognando. Non stavo affatto sognando.
L'uomo, il mostro, sono entrambi veri.
« Isaac ti ha trovato svenuta a terra e mi ha telefonato. Poi ti ha portato qui e... »
« ... se n'è andato. » concludo io, con un tono tetro e scoraggiato.
Il bicchiere d'acqua trema fra le mie mani o forse sono proprio quelle a tremare.
Ed il cuore le imita.
« Io volevo portarti al pronto soccorso, sai. Lui, però, ha detto che avevi solo battuto la testa e che non dovevo preoccuparmi... Ho fatto male, vero? Oddio, potresti avere una grave commozione cerebrale e... »
Mery parla e parla e parla ancora.
Io ho smesso di ascoltare, per cercare di concentrarmi sulle diapositive sbiadite e frammentate che compongono il ricordo di quelle ore traumatiche.
Isaac ha detto alla mia amica di avermi trovato già svenuta, ma io ho la precisa sensazione che non sia così.
Ricordo una terza figura, fra me e l'aggressore.
Ricordo un essere non del tutto umano.
E sì, forse avevo battuto la testa violentemente al suolo e poi la mia fantasia ci aveva ricamato sopra abbondando in dettagli macabri quale sangue, giugulare squarciata e via dicendo... ma sono piuttosto certa di quel poco che ho visto.
« Mery? » la interrompo d'improvviso e lei alza gli occhi di giada su di me con aria colpevole.
« Che hai? Stai male? Chiamo i miei e andiamo all'ospedale! » si alza in piedi e riesco a malapena ad acciuffarla per un gomito prima che corra fuori dalla stanza come avevo fatto io poco prima.
« No. Niente del genere. Sai dove è andato Isaac dopo avermi lasciato qui a casa tua? » le chiedo e non riesco a soffocare la fiammella della speranza che so mi sta incendiando gli occhi.
« Non me lo ha detto. » sussurra lei, e lacrime di tristezza, miste a quelle dovute al trauma vissuto, innafiano il mio viso.
Avrei voluto che lui fosse accanto a me, al mio risveglio.
Non avrebbe dovuto essere per forza dolce come era stato dopo aver fatto l'amore, no. Mi sarei fatta bastare la sua sola presenza.
Avevo solo bisogno che mi mostrasse i suoi occhi rassicuranti, anche solo per due minuti, il tempo di dirgli "Grazie di avermi salvata."
Invece...
« Ma gliel'ho sentito riferire al telefono. »

 
« L'ho già detto che è una pessima idea? » domanda Mery, inciampando sull'ennesimo pezzo di ferro arrugginito a terra che non aveva visto.
Sbuffo e la sorreggo, illuminando con la luce del cellulare il pavimento sconnesso su cui camminiamo.
« Sì, almeno dodici volte, ma chi le conta più. Non eri costretta a venire. » le faccio notare con un pizzico di acredine nella voce, che non era mia intenzione usare.
Mery, difatti, si ferma al centro di quel casermone spoglio e sinistro e prende a giocare con il ciondolo della sua collana lunga, con indecisione.
Sospiro -dandomi mentalmente della stupida- e torno verso di lei, stando ben attenta a dove metto i piedi. La raggiungo e l'abbraccio forte, cercando di assorbire un po' della sua inesauribile forza, che lei non sa neppure di possedere. « Perdonami, non volevo essere dura. Sono... soltanto preoccupata, stanca e spaventata. » ammetto riluttante, domandando nel frattempo a me stessa il motivo che mi spinge ad insistere, a non lasciarlo andare.
« Devi andartene, non è sicuro qui. Nessun posto è sicuro per te, con me. » mi aveva confessato.
Eppure gli avvenimenti di quella notte dimostravano il contrario: lui non era il cattivo da combattere, ma il supereroe che interveniva tempestivamente e mi traeva in salvo.
Mery ricambia il mio abbraccio esalando un respiro rassegnato e mi accarezza i capelli per infondermi coraggio. Sa bene che ne ho bisogno.
« Perchè non torniamo domattina, quando è giorno? Non siamo nemmeno sicure che sia davvero qui. Io gli ho solo sentito dire "Ci vediamo alla stazione." »
« E secondo te, essendo dato per scomparso, se ne va in giro a prendere la metro come niente fosse? Deve essere qui per forza, in questa stazione abbandonata. Ricordi? Da piccole ce ne tenevamo alla larga perchè si vociferava fosse infestata... Credo che Isaac confidi proprio sul fatto che quella leggenda metropolitana, ad oggi, tenga ancora lontani i curiosi. »
« Non avrei dovuto dirti niente. Mannaggia alla mia lingua! » borbotta contrariata Mery, rubandomi poi il cellulare e avanzando per prima verso la porticina che s'intravede in fondo. Si volta, mi tende la mano a palmo aperto rivolto verso l'alto, e mi sorride incoraggiante.
« Visto che siamo arrivate fin qui, tanto vale dare un'occhiata. Ci sono io con te, dai. »
Afferro con forza la sua mano e, aggirando massi e pezzi solitari di panchine in ferro, arriviamo alla porta sgangherata.
Però, prima che possiamo anche solo provare ad aprirla, essa si spalanca e, dalla scalinata che c'è dietro, emerge una figura dall'aria sorpresa.
« Toh, non sapevo avessimo visite. » esclama la ragazza di fronte a noi, strizzata in un abitino di pizzo che io indosserei come maglietta.
Ci fissa a lungo dall'alto in basso con un ghigno soddisfatto dipinto sulle labbra rosse e poi incrocia le braccia sotto il seno prosperoso.
« Vi siete perse, conigliette? » si prende gioco di noi, scostandosi con noncuranza una ciocca così bionda da parere bianca da davanti agli occhi scuri, perfettamente truccati.
Io arretro involontariamente, come se qualcuno mi avesse schiaffeggiato, mentre Mery avanza decisa.
« Dov'è Isaac? » chiede risoluta al posto mio, intuendo che la lingua mi si è atrofizzata in bocca.
Quella lì, la Dea bionda che è scesa in terra solo per farmi sentire miscroscopicamente insignificante, non può che essere...
« Erica! » la sua voce.
Il cuore mi va in arresto cardiaco qualche istante, il tempo che lui impiega a raggiungerci e ad accostarsi alla ragazza con espressione sbalordita in viso.
« Guarda chi ho trovato qui fuori. Le conosci? Sono amichette tue? » fa una risatina sommessa e Mery pesta, inviperita, un piede a terra.
« Veramente Violet ed Isaac stanno insieme! » sibila e per un momento temo che voglia saltare al collo di Erica.
« Mi risulta che si siano lasciati. Sbaglio? » quella sbatte le lunghe ciglia più del dovuto e si rivolge ad Isaac con una voce che ha il retrogusto stucchevole del miele.
Io, dal canto mio, non riesco a formulare una sola parola sulle labbra, eppure di domande la mia testa è piena.
« Sto con un’altra adesso, contenta? Si chiama Erica ed è come me. » aveva ammesso lui poche ore prima nel seminterrato, ma io non gli avevo creduto.
Stupida ingenua.
Ora che li hai di fronte a te, a cosa ti aggrapperai per non affogare nella mareggiata impetuosa della tua disperazione?
E' finita.

« Che siete venute a fare? Come ci avete trovato? » chiede Isaac, ancora palesemente scosso dalla mia presenza.
Non mi guarda, si concentra solo su Mery, fingendo che io non sia davvero lì.
Sono venuta a farmi ammazzare.
Come ti senti nei panni di un assassino, Isaac?
E non c'entrano nulla il sangue, i reciproci mostri e le vecchie ferite. Non si tratta di tuo padre, del suo omicidio e del fatto che sei il primo sospettato.
Parliamo di me. Parliamo di come mi stai uccidendo lentamente, senza neppure sfiorarmi.
Parliamo di noi. Di come stai gettando palate di terra su quello che eravamo, seppellendoci vivi.

E' Mery a rispondere anche per me. E' Mery a tenermi a galla, a non farmi annegare nel mio dolore.
« Ti ho sentito parlare al telefono. » spiega paziente e in replica ottiene un ringhio da parte di Isaac. Mi pare familiare, un suono che ho già sentito da qualche parte, forse in un sogno...
« E quindi siete venute a venderci biscotti, piccole scout? » ride ancora, Erica, e la sua mano si stringe quasi casualmente attorno a quella di lui.
« Vuoi stare un po' zitta, tu? Perchè non vai a buttarti in qualche angolo, in silenzio, in attesa di un attacco epilettico? » sbotta la mia amica, infuriata come non l'avevo mai vista: Mery non è una ragazza aggressiva e questa è la prima volta che le sento dire un cosa cattiva e sprezzante all'indirizzo di qualcuno. Trattengo il fiato, troppo allibita dalla sua uscita per accorgermi che qualcosa, nel frattempo, è cambiato: il sorriso di Erica è evaporato dalle sue labbra scarlatte.
Di riflesso, il suo respiro si è ingrossato ed il suo corpo ha preso a scuotersi.
Che si stia sentendo male?
Lei china la testa di scatto, lasciando che i boccoli chiari le coprano il viso, e le sue dita si contraggono spasmodicamente.
« Isaac... no-non rie-sco a... » geme, con una voce che non sembra neppure sua: è colorata di una sfumatura roca e gutturale, che mi fa accapponare la pelle. Lui impallidisce e la prende per le spalle, cercando di trascinarla con sè e intimandoci, al contempo, di andar via.
Mery ha gli occhi stralunati e si morde il labbro inferiore con pentimento, ma nè io nè lei ci muoviamo.
Osserviamo, sgomente, Erica dimenarsi fra le braccia di Isaac, che sembra non riuscire a tenerla, ed infine liberarsi dalla sua stretta, scagliando lui giù dalla scalinata.
Poi, con un gesto fulmineo che quasi non riesco a cogliere, salta addosso alla mia amica come un animale feroce.
Cadono a terra con uno schianto sordo, alzando una nuvola di polvere densa e granellosa, fra le urla terrorizzate di Mery ed i versi animaleschi dell'altra.
Erica si tira un po' su e serra una mano sulla gola della mia amica, stringendo fino a farla tossire.
« Lasciala! Sei pazza?! » grido, correndo nella loro direzione d'istinto.
Ma prima che possa anche arrivare solo a toccarla, mi ritrovo stretta nella stessa morsa di Mery, tenuta per la gola con i piedi che non toccano il suolo.
Erica emette di nuovo quel suono che pare un ringhio e si volta a guardarmi.
Ed io, allora, urlo.
 

Il capitolo che avete appena letto... avrebbe potuto non essere così.
L'avevo immaginato in maniera diversa, ovvero incentrato solo sull'iniziale parallelismo, ma poi veniva corto e non diceva nulla di interessante, quindi ci ho aggiunto un altro pezzo che mi sembra un po' più "succulento" a livello di trama e colpi di scena.
Spero di non far storcere il naso a nessuno con l'entrata in scena di Erica.
Io non l'ho amata molto, ma non le ero neppure ostile... qui devo ancora capire che ruolo farle avere.
Se avete suggerimenti, io vi ascolto volentieri ^^
Vi bacio immensamente. Siete un dono per me, voi che leggete.


Strange.

Ps: Twin, non so che dire. La pubblicità che mi fai e la passione con cui mi segui mi spegne le parole in gola. GRAZIE <3

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Capitolo 8
*** Pioggia di paura. ***


Pioggia Di Vetro

8. Pioggia di paura.

- Did I do something wrong? -
- I dont' have anyone -


Solo quando l'eco del mio grido si spegne, riesco ad identificare cosa l'ha fatto scaturire.
La più primordiale delle emozioni, quella che piove a gocce grosse attorno a me come un temporale invernale che ti coglie senza ombrello in una strada priva di ripari.
La paura.
La sento vibrare nei polsi, nella gola stretta da dita artigliate, nelle caviglie che hanno perso il contatto col suolo e nelle palpebre che non riescono a chiudersi per nascondermi la vista della creatura animalesca che fino ad un attimo prima era Erica.
Come è possibile? Cosa l'ha trasformata?
Da quando i mostri hanno abbandonato i film horror e se ne vanno in giro indisturbati, indossando la pelle umana come un vestito?
Guardo in basso, verso Mery che è inchiodata al suolo, livida, ed anche sul suo viso riconosco la paura.
La stessa mia, derivata dalla percezione di un pericolo che è tutt'altro che irreale.
Tutto questo non ha il sapore di un incubo e nè io nè la mia amica ci sveglieremo nei nostri letti, urlando e cercando conforto in braccia calde.
Chissà se mai avremo ancora l'occasione di destarci da un qualsiavoglia tipo di sonno...
Scalcio con forza, cerco di allentare la presa di quelle dita conficcate nella mia carne come uncini e Mery singhiozza per le lacrime e la mancanza d'aria.
Le mie mani scivolano sul mio stesso sangue, che cola dai punti in cui la pelle tesa si è lacerata, e tossisco, reclinando la testa per tentare di respirare un po'.
Vorrei piangere anche io, ma gli occhi restano asciutti.
La paura beve le mie lacrime e si ciba dell'unica cosa che mi spinge a lottare ancora: iridi, il cui chiarore è pari a quello del cielo e la cui profondità batte quella dell'oceano.
Un nome, il suo, che non voglio far uscire dalle labbra perchè il ringhio animalesco del mostro lo coprirebbe.
Lo tengo in bocca, stretto fra i denti, e lo mastico insieme al dolore. E' speranza, è voglia di vivere, lui.
Allungo le dita e cerco di arrivare al viso deformato di Erica, che se non fosse per i capelli biondi e gli abiti non riconoscerei: occhi di lucente oro liquido, denti lunghi ed acuminati come zanne, espressione grottesca e orecchie appuntite che spuntano dalla chioma.
Ho già visto un essere simile, ne sono certa.
Non era proprio identico, ma aveva gli stessi tratti. E mi aveva salvata.
I mostri avevano forse crisi di identità e non ricordavano più che nelle storie di paura non erano loro gli eroi?
« Erica, lasciala andare. »
Una voce, la sua.
Mi corre il cuore nel petto.
Vorrei potermi girare per vederlo, chiedergli se quando Erica l'ha spinto lontano si è ferito e rassicurarlo sulle mie condizioni.
So che è preoccupato, come lo sono io per lui. Non stiamo più insieme, è vero, ma quel filo spesso che ci univa non s'è mai spezzato del tutto.
Lo sento io, lo sente lui.
Isaac ha il tono di voce basso, minaccioso.
Ripete ad Erica di togliermi le mani di dosso e lei si gira verso di lui, le gengive scoperte a mettere in evidenza i canini.
Ringhia e a quel suono se ne sovrappone un altro identico.
Infine, di fronte a me, due bestie speculari.
Frammenti sbeccati di uno specchio con la medesima immagine riflessa.
E poi ci sono solo versi inquietanti, scricchiolii di ossa che si crepano con la facilità della porcellana, polvere che s'addensa intorno a me e Mery.
Sono a terra, inginocchiata accanto alla mia amica e la stringo fra le braccia che tremano, mentre più in là qualcuno cerca d' ucciderci e qualcun altro di salvarci.
Eppure nessuno dei due è umano. Non più.
Il sangue delle nostre ferite ci inzuppa le maglie e le lacrime lavano via il rosso come pioggia.
Isaac, la sera in cui mi baciò la prima volta, mi disse esattamente quello.
Ma Isaac non c'è più.
Non ci sono i suoi baci, le sue mani, i suoi occhi di nuvola.
Isaac adesso è incarnazione stessa di ciò che lo ha terrorizzato una vita intera e che non avrebbe mai voluto diventare: un mostro, come suo padre.
Nel corpo e forse anche nello spirito.
Quando non avverto più i rumori di lotta, poco distante da noi, alzo il viso e lo vedo venirmi incontro.
Sembra lo stesso ragazzo impaurito e ferito che trovavo ogni sera sotto il grande albero del parco; sembra quello di cui mi sono innamorata, con un'unica differenza: ciò che lo spaventa, ora, sono io.
Ed è assurdo, perchè io non ho artigli e non mi trasformo in una creatura che potrebbe affettare una persona con una carezza, eppure lui esita.
Erica, alle sue spalle, si rialza massaggiandosi un spalla e scuotendo la testa per far cadere i calcinacci impigliatisi fra le ciocche nella rissa.
E' tornata normale anche lei ed io allora cerco di convincermi di aver avuto un'allucinazione, dovuta magari al trauma cranico dopo l'aggressione, ma ho sangue fra le dita e un grido di paura ghiacciato nei polmoni.
Abbasso lo sguardo per non vederlo -Dio, mi sei mancato-, aiuto Mery ad alzarsi -Non posso proteggerti da un mostro che adesso è parte di te- e la sostengo, conducendola fuori -Stai lontano... ma non troppo -.
Lei piange, balbetta e si tiene la gola, dove lividi violacei compaiono lentamente.
Parla a fatica e mi chiede spiegazioni che non ho.
Cosa è successo davvero dentro quella stazione abbandonata?
Quanto, di ciò che è avvenuto, è reale? E "realtà", ora, che significato ha?
« Pulcino... » la sua pelle a contatto con la mia è un assaggio di temporale nel petto.
Sobbalzo, mi scosto e la mia amica si ripara dietro la mia schiena, singhiozzando forte; così forte che mi vien voglia di imitarla.
« Cosa sei, tu? » sputo velenosa, proteggendo Mery in un abbraccio rassicurante.
Isaac arretra come se l'avessi colpito, le iridi di piombo impenetrabile e l'aria disperata di un bambino che non sa come aggiustare quel che ha rotto.
« Non mi crederesti mai... » scuote il capo con rassegnazione ed un piccolo sorriso amaro gli increspa le labbra.
Fatti baciare. Fammi illudere che con quel gesto io possa ridarti quel che hai perso: l'umanità.
Ma qui non siamo in una favola, vero? Non c'è nessun "E vissero felici e contenti" che ci attende alla fine del libro.
« Dillo e basta. »
« Un licantropo, Violet. Sono un licantropo. » afferma e mi pare che stia per piangere.
« Non esistono cose del genere, non prendermi in giro! Dammi una spiegazione razionale per quello che è successo qui, per quello che ho visto! » grido e mi brucia la trachea.
Ed il fuoco proviene dal basso, giù, dai carboni bollenti, che ancora sprizzano scintille, del mio cuore. E' tutto quel che ne resta.
« Te l'avevo detto che non mi avresti accettato. Avrei voluto proteggerti. Avrei dovuto. » sussurra più a sè che a me.
Tende una mano che non arriva a sfiorarmi. Fisso le sue dita pallide e rovinate da una pioggia di vetro, che aveva smesso di cadere solo con la morte di suo padre, e vorrei accarezzarle una ad una.
Poi mi ricordo che quelle stesse dita mutano in quelle di un essere mostruoso ed allora arretro.
Trascino via Mery con me ed Isaac sembra intenzionato a rincorrermi, sebbene i suoi piedi restino inchiodati nello stesso punto.
Vorrei non mi permettesse di andare via ed allo stesso tempo non vorrei che correre lontano.
« Tu hai paura di me. » constata tetro e si passa una mano sul viso stanco, sospirando.
« Avevi ragione tu. » mormoro piangendo, prima di uscire definitivamente da quello scenario di orrore « L'Isaac che conoscevo io è morto insieme a suo padre. »
E lo sente lui come lo sento io: lo strappo.
Di quel filo che ci aveva unito un tempo non restano che due pezzi slabbrati; uno in mano mia, uno in mano sua.



Gesù, quant'è passato? Un secolo e mezzo?
Lo so, avete messo su le ragnatele aspettandomi, però l'importante è che sia ancora qui, no?
Sono ben decisa a concludere questa storia e non vi mollerò così facilmente. Sono più testarda di un mulo, se mi ci metto.
E poi ho bisogno anche io di una dose di Isaac, ogni tanto, visto che siamo in pausa col telefilm fino a Gennaio.

Perciò ecco a voi i risvolti che tanto aspettavate (fatemici almeno credere) della storia. Sorprese?
Credevate che Violet avrebbe accettato il licantropo senza remori? Mi spiace deludervi.
E' scioccata e Mery non vorrà sentir parlare di lui per un bel pezzo, ma cercherò comunque di rincollare i pezzi, vedrete ^^ Abbiate fiducia in me.
Vi chiedo scusa per l'attesa, ma ho passato un periodo un po' conflittuale con la scrittura e poi, inzialmente, avevo pensato ad un modo totalmente diverso di impostare il capitolo, perciò ci ho impiegato più del previsto per schiarirmi le idee e decidere cosa raccontarvi e come.
Ad ogni modo l'escamotage che ho accantonato qui, credo lo userò prossimamente.
Sono curiosa: cosa vi aspettate succeda?
Beh, direi che chiudo qui le comunicazioni post-capitulum(?) che sennò diventano più lunghe del brano stesso.
Mi auguro di sentirvi tutte e non perdermi nessuna per strada. Siete sempre dolcissime e calorose.
Mi sento fortunata ad avervi <3
Vi bacio ed abbraccio. Oh, come mi siete mancate.

Strange.
 

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Capitolo 9
*** Pioggia d'acido. ***


Pioggia Di Vetro

9. Pioggia d'acido.

- Did I do something wrong? -
- I dont' have anyone -


"Caro diario,
...
E' una frase classica che si usa quando, come nel mio caso, ci si ritrova a mettere pensieri casuali su carta.
Tuttavia non ho intenzione di tenere un diario, anche perchè in fondo non ne ho bisogno: non c'è nulla d'interessante che voglia raccontare.
Mi chiamo Violet ed ho una vita banale: due genitori assenti, tanti traslochi alle spalle da aver perso il conto -l'ultimo circa otto mesi fa-, una sola vera amica che ho lasciato nella città precedente ed una vita studentesca piatta e regolare.
Eccomi qui, riassunta in una o forse due righe.
Potrei aggiungere dettagli quali colore e lunghezza di capelli, sfumatura degli occhi, forma del naso, altezza e corporatura, ma a cosa servirebbe?
E cosa sto facendo, qui, ora?
Sono seduta scomposta alla scrivania ed è appena passata mezzanotte; mi ha svegliata un incubo ed allora, cuore sui polpastrelli e battito impazzito, mi sono messa a scrivere su un qualunque quaderno a righe cercando di ritrovarmi.
Mi sono persa, questa è la verità.
Violet è solo un nome. Quel che vedo nello specchio solo un riflesso esteriore.
Se ci fosse una qualche superficie in grado di mostrarmi ciò che celo nel petto, probabilmente vedrei un campo di fiori marci. O uno scheletro d'ossa rosicchiate dal tempo su cui si dondolano piccoli demoni ghignanti.
Ecco cosa sono. Cosa sono adesso. Cosa sono diventata. In cosa mi sono trasformata."

Mi alzo, mi trema la mano.
Sto piangendo di nuovo, come ogni sera da un mese e mezzo, ormai.
Sul letto sono sparsi dvd di film dell'orrore, libri di mitologia e decine di pagine scaricate da wikipedia e forum vari.
Non riesco a togliermi dalla testa quegli occhi d'oro liquido e la voce di Isaac -la sua voce- che confessa di essere un...
Con le dita malferme mi sfioro la gola, dove i lividi sono scomparsi e i tagli si sono richiusi.
Non c'è più alcuna traccia che testimoni che quello che è successo alla stazione abbandonata sia accaduto davvero... a parte la psicoterapia a cui si sta sottoponendo Mery.
Sospiro e alzo il viso, incontrando lo sguardo inquieto di una ragazza pallida e scarna nello specchio. Un fantasma traslucido, uno spettro senza pace.
Un nuovo mostro sorto dal tumulo sotto cui la ragazzina, ingenua ed innocente che ero, è stata sepolta quella notte a Beacon Hills.
Quella notte in cui tutto è cambiato e dove ogni cosa è stata messa in discussione, distorta, stravolta.
Alzo la mano, come se mi stessi salutando, e la mia immagine riflessa fa lo stesso.
Ciao, Violet.
Ciao, pulcino spaurito.
Mi sto dicendo addio? Sto accettando il cambiamento che è avvenuto in me, che io l'abbia voluto o meno?
Sospiro, mi asciugo il viso e torno alla scrivania.
Devo affrontare questi demoni, prima che mi spediscano k.o., ma so bene che per riuscirci la prima persona con cui devo fare i conti sono io stessa... e, quella, è una guerra persa in partenza.

"Ho sempre desiderato avere un fratellino o una sorellina di cui prendermi cura, ma i miei genitori non avevano tempo per me, figurarsi per mettere al mondo un'altra vita.
A volte mi chiedo se io stessa non sia il risultato di una disattenzione.
Ho iniziato a prendere lezioni di autodifesa qui a Sacramento non appena tornata dal breve weekend a Beacon Hills.
Volevo sentirmi meno fragile, meno impotente... meno umana.
Ero stata ad un passo dal morire soffocata e dal vedere la mia migliore amica fare la stessa fine e non avevo quasi opposto resistenza.
Odiavo la sensazione di debolezza che mi aveva intorpidito gli arti e anche la cieca fiducia riposta in qualcuno che speravo accorresse, ci salvasse.
Quando era, infine, giunto, non aveva le spoglie di un eroe. Era solo un secondo mostro.
Ed i mostri non sono capaci di amare.
Ma forse possono essere amati."

Blocco la penna sul foglio e la stringo con forza fra le dita livide.
Le immagini confuse dalla paura di quella notte ancora popolano i miei incubi e se non sono capace di affrontarle nel dormiveglia, come posso illudermi di essere in grado di tenergli testa da sveglia?
Ero partita con l'intento di scrivere di me, di ricordarmi chi ero e di cosa ero capace, ma sto solo tentando di tralasciare una grossa parte.
Una parte che reca un nome maschile e senza cui non posso esistere.
Perchè Violet -pulcino- è viva solo se lo è anche lui. Soltanto grazie a lui.
Respiro piano, come se non volessi svegliare altri demoni appisolati chissà dove, e ricomincio.

"Mi chiamo Violet, vivo attualmente a Sacramento.
Da piccola desideravo un cucciolo, ma i miei genitori sono allergici al pelo animale quindi la sola compagnia che io abbia mai avuto, quando loro erano lontani, è stata quella dei peluche.
Ne avevo a dozzine, di ogni forma e dimensione, ma il mio preferito era Lilly, un piccolo orsacchiotto rosa con il tutù da ballerina.
Quando mi svegliavo la notte dopo un brutto sogno, non chiamavo mai a gran voce mamma o papà; stringevo quel peluche e mi rintanavo sotto le coperte, piangendo in silenzio e pregando che i mostri non riuscissero a vedermi.
Quelli che più mi terrorizzavano avevano tentacoli viscidi o lunghe zampe da ragno pelose. Si nascondevano sotto il mio letto e ascoltavano il mio respiro, per sapere con certezza quando dormivo e potevano così attaccare in tranquillità.
Poi avevo conosciuto Isaac e lui mi aveva mostrato che esistevano diversi altri tipi di mostri.
Mostri strani, che a primo impatto non incutevano alcun timore. Mostri celati dalla pelle umana, che indossavano come fosse un vestito e dismettevano quando non c'erano occhi estranei a sbirciare.
Isaac conosceva bene quel genere di creature spaventose: una abitava sotto il suo stesso tetto. "

Sospiro e faccio per accartocciare la pagina del quaderno, poi ci ripenso.
E' un mese e mezzo che vado avanti così e sono stanca.
Non dormo, non mangio, non so nemmeno più dire con certezza se respiro oppure no.
Non riesco a pronunciare quella parola -ciò che lui è davvero- e di conseguenza sono immobile.
Non sono in grado di andare oltre, di camminare per strada senza sbirciare alle mie spalle ad ogni minimo fruscio.
Mi sento costantemente minacciata e a nulla serve stringere nella tasca del giacchetto la bomboletta di spray al peperoncino ed il coltello retrattile acquistato qualche settimana fa.
Nulla mi da più sicurezza.
Tutte le mie certezze sono evaporate e ne è rimasta solo una: i mostri sono ovunque. Potrebbero essere chiunque. Nessuno è più al sicuro.
Il cellulare vibra sulla scrivania, attirando la mia attenzione; il display illuminato segna un messaggio non letto da parte di Mery.
Fisso la bustina lampeggiante e di nuovo la penna fra le mie mani.
Mi mordo il labbro inferiore, indecisa, poi riprendo a scrivere da dove mi sono interrotta, seguendo un attorcigliato filo emozionale.

"Isaac ha la pelle nivea, così chiara che quando è infreddolito sembra fatto di cristalli di neve. I suoi occhi sono pennellate d'azzurro di un pittore che abbonda sempre col colore: quando è felice ha le iridi celesti come l'acqua delle sorgenti cristalline di montagna; quando è triste o arrabbiato il suo sguardo sembra provenire dalle profondità di un pozzo oscuro, in cui ogni particella di luce è ingoiata dal nero.
Ha i capelli mossi e perennemente scompigliati. A volte dal vento, a volte dal cuscino... e spesso dalle mie dita scherzose.
Le sue labbra sono sempre rovinate dai denti, che affondano nella carne senza pietà, e quando sorride incurva prima il lato sinistro della bocca.
Mi chiamo Violet e sono innamorata di Isaac, del ragazzo appena descritto.
Per anni è stato vittima delle violenze di un mostro... fin quando lui stesso non è diventato tale.
Quella notte -quella maledetta notte- alla stazione abbandonata di Beacon Hills, Erica ha aggredito me e Mery a causa di una frase un po' cattiva, che le era stata rivolta dalla mia amica nel misero tentativo di metterla a tacere e dare a me e Isaac la possibilità di parlare.
Fatico a ricordare ogni istante ed ogni dettaglio, in realtà.
E' come se la mia mente avesse calato un velo di foschia sull'intera scena per mascherare i particolari più cruenti.
Ricordo bene, però, il viso deformato di Erica; un viso trasformato in quello di una bestia.
E le mie grida di terrore e le lacrime di Mery e l'aria che non rientrava nei miei polmoni una volta uscita e i ringhi animaleschi che saturavano l'ambiente.
E, infine, Isaac. "

Il cellulare vibra di nuovo, insistentemente.
Gli dedico appena un'occhiata, tirando su con il naso e asciugandomi un poco il viso con la mano.
Devo andare fino in fondo; devo sviscerare la mia paura, estirparla dal mio petto definitivamente.

"Il licantropo, detto anche uomo lupo o lupo mannaro, è una delle creature mostruose della mitologia e del folclore poi divenute tipiche della letteratura dell'orrore e successivamente del cinema dell'orrore.
Secondo la leggenda, il licantropo è un essere umano condannato da una maledizione a trasformarsi in una bestia feroce ad ogni plenilunio.

***
Wikipedia riporta ciò sotto la voce "Licantropo", che io ho imparato a memoria.
E' questo essere che io ho visto quella notte, lo so.
Isaac è un licantropo, divenuto tale chissà come, chissà quando, chissà perchè.
Isaac è un licantropo, munito di zanne, artigli, occhi di canide e movimenti animaleschi.
Isaac è un mostro ed allora per quale motivo mi ha salvato la vita?
Le bestie come lui dovrebbero essere macchine programmate per uccidere, questo insegnano i film dell'orrore e i libri di mitologia.
E poi quella notte non c'era la luna piena in cielo, ne sono certa.
Come diavolo funziona, allora, questa specie di licantropia da cui è affetto Isaac?
Come posso... farlo guarire? E' auspicabile una simile speranza?
Io lo so che lui è ancora lì, rintanato da qualche parte dove spera di non essere visto, impaurito e raggomitolato su se stesso.
Si nasconde dietro i ringhi e ciuffi di pelo, forse per sentirsi meno vulnerabile una sola volta nella vita, ma c'è.
E se è così... io allora non ho paura. Non posso averne.
Lo amo e anche se i mostri non sanno amare, posso spendere una vita a tentare di insegnarglielo.
Lui mi ha salvato come ha sempre fatto.
E' ancora buono, è ancora il ragazzo fatto a pezzi dalla pioggia di vetro dei bicchieri che il padre gli lanciava addosso.
Dentro al licantropo, Isaac vive e non c'è motivo di temere, allora, perchè ha ancora umanità in sè e non mi ferirebbe mai.
Ha sempre e solo cercato di proteggermi.
Io -sciocca umana intimidita da leggende- mi sono ritratta quando si è avvicinato, quando tentava di spiegare e di calmarmi.
Avevo bisogno di tempo, avevo bisogno di capire, di scavare a fondo e far piovere acido sui miei demoni cosicchè di loro non rimanessero che pozzanghere melmose di timore e follia.
Ora posso guardarmi allo specchio di nuovo senza essere aberrata da ciò che vi vedrò riflesso. Ora posso di nuovo affrontare il mondo. E, soprattutto, posso andare a salvare il ragazzo che amo. "

Poggio la penna mangiucchiata dal nervosismo accanto alle pagine scritte e le fisso con un pallido sorriso sulle labbra.
Bentornata, pulcino.
Mi pare di sentire la sua voce mentre lo penso e sorrido più forte, con più convinzione.
Ci hanno abituato sin da piccoli ad accettare l'idea che mostri, streghe, vampiri, mummie e simili esistano davvero, perciò qual'è la novità?
Ognuno di questi esseri ha un punto debole ed io ho trovato quello della bestia che bestia non è: il suo cuore.
Prendo in mano il cellulare e compongo il numero di Mery a memoria, d'improvviso curiosa di sapere cosa ci faccia sveglia a quest'ora e perchè mi stia così insistentemente cercando.
« Ciao! Che ci fai in piedi a ques...? »
« Non riesco a far finta di niente, ok? » la mia amica è agitata e quasi mi grida nell'orecchio, coprendo la mia voce.
« Calmati, di cosa stai parlando? » le chiedo, accarezzando la superficie ruvida delle pagine dentro cui Violet ha ritrovato il coraggio di vivere.
Chissà se anche lo psichiatra di Mery le fa scrivere di continuo ciò che pensa, come una specie di autoanalisi terapeutica.
« Quanto ti ci vuole per arrivare qui con l'aereo? » domanda lei diretta ed io tremo.
« Perchè? » riesco a chiedere in un soffio.
« Io... io non lo so di preciso. Non ci capisco niente e ho provato ad ignorare tutto perchè ne sono terrorizzata, ma non ci riesco. »
« Mery, ti prego... »
« Ero alla partita di Lacrosse e Scott McCall era in panchina e stavamo perdendo. Fin qui, nulla di così strano, no? Poi è arrivato Isaac e ha iniziato a mettere k.o i nostri stessi giocatori, finchè in uno scontro non è rimasto a terra e l'hanno portato via in barella. Credo... credo non sia nulla di grave ma... abbiamo vinto lo stesso. Stiles Stilinski ha segnato diverse volte ed eravamo tutti allibiti, compreso suo padre, lo sceriffo, comunque... alla fine della partita si sono spenti i riflettori e siamo rimasti al buio per un po' e quando...quando la luce... Oddio, oddio Violet, corri qui ti prego. Jackson Whittermore è morto, Stiles Stilinski è scomparso ed io ho paura che... »
« No! » esclamo, balzando in piedi e battendo una mano sulla scrivania. « Dammi un paio d'ore, al massimo. Arrivo. »




Non credevo avrei aggiornato così in fretta, ma Madre Ispirazione ha avuto pietà di me e non mi ha abbandonato, perciò eccoci qui.
Siamo agli sgoccioli, la storia volge al termine ed io spero vivamente che non mi abbandoniate proprio ora.
Mi scuso per la pallosità e ridondanza di questo capitolo, ma mi serviva un'escamotage per far affrontare a Violet la questione "licantropo" e pensa, che ti ripensa, che ti ripensa... questo è quanto di meglio sono riuscita a sfornare.
La parte finale vi sembrerà un deja-vù -capitolo 4- ma Mery è l'unico collegamento di Violet con Beacon Hills ed era giusto fosse lei ad informarla.
Ve l'avevo detto che avrebbe avuto un ruolo di non poco conto!
Curiose del finale? Spero di sì.
Cercherò di non impiegarci secoli ad aggiornare. Nel frattempo vi bacio ed abbraccio tutte.
Se mi lasciate due paroline mi fate felice. Su, è la vostra buona azione giornaliera :3


Strange.

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Capitolo 10
*** Pioggia di parole. ***


Pioggia Di Vetro

10. Pioggia di parole.

- Did I do something wrong? -
- I dont' have anyone -


« Violet! Violet, non correre! »
Mery annaspa alle mie spalle, il respiro così pesante che risulta spezzato.
Io corro fra i corridoi, incurante delle occhiatacce che ricevo dagli infermieri, il cuore in ansia che non si disturba neppure a battere: una sua pulsazione equivarrebbe ad una timida speranza e non posso concedermene.
Lo scenario dipinto da Mery al telefono -condito poi di dettagli nel tragitto dall'aeroporto all'ospedale di Beacon Hills- ha solo suscitato terrore e panico in me, che ora scorrono prepotenti nelle mie vene mischiati col sangue.
Devo trovarlo, devo assicurarmi che stia bene.
E' l'unico pensiero che mi rimbomba in testa e nelle orecchie e in gola e nella cassa toracica.
Sposto malamente una signora in carrozzella e sguscio fra due dottori, che indossano un camice da sala operatoria, dirigendomi verso la reception con gli occhi che bruciano e le labbra che a stento trattengono il suo nome.
Isaac.
Mery mi raggiunge, incespicando sui lacci sciolti delle scarpe, e mi blocca per una spalla, spingendomi contro un muro.
E' senza fiato e ha il viso scavato e pallido, occhiaie rossastre sotto gli occhi e sudore fra i capelli. A fatica la riconosco. E, di sicuro, a fatica lei riconosce me.
Io non so chi sono, senza di lui.
« Mi spieghi perchè hai voluto precipitarti qui non appena atterrata? Credi che un... » si guarda attorno con circospezione e deglutisce sonoramente prima di proseguire, abbassando ulteriormente il tono di voce « ... un licantropo abbia bisogno di un'iniezione per rimettersi in sesto? Non so neppure se l'ago riuscirebbe a bucare la sua pelle! » strepita in un sibilo strozzato, gesticolando e scuotendomi per un braccio.
Atona, mi sento risponderle:
« Ti stai confondendo con Clark Kent. »
Poi mi libero della sua stretta e mi sporgo oltre il bancone dell'atrio, dove diverse infermiere parlano in modo concitato al telefono o battono frettolosamente sulle tastiere dei computer.
Nessuna mi presta attenzione e, in breve tempo, vengo spintonata via da pazienti lamentosi, che gemono di dolore con fasciature improvvisate, e medici agitati, che rispondono al cercapersone.
« Violet, maledizione! Dimmi che cosa facciamo qui! » Mery mi ghermisce per un gomito e mi fa voltare, gli occhi accesi d'irritazione.
« Io... io non lo so bene, ok? E' l'unico posto che mi è venuto in mente. L'unico dove una persona dovrebbe essere se viene portata via in barella. L'unico dove possono aver portato Jackson Whittermore, anche se non ho idea di come sia invischiato in tutta questa... Aspetta! » esclamo di colpo, indicando una porticina sulla destra che si è appena chiusa.
Muovo qualche passo in quella direzione, ma lei mi blocca ancora.
« Cosa? Che hai visto? Oddio, non so se lo voglio sapere. La tua faccia non è affatto rassicurante. »
« Vieni con me, devo controllare una cosa. » l'afferro per un polso e me la trascino dietro, incurante delle sue proteste e dei suoi tentativi di frenarmi.
Nella confusione generale nessuno bada a noi, così riusciamo ad intrufolarci indisturbate dentro la stanzetta che reca il cartello "Obitorio".
« Perchè siamo qui? Non mi piace, non mi piace per nie... » Mery scuote energicamente la testa e la treccia, con cui ha legato i lunghi capelli, le frusta le guance.
La sua lamentela viene interrotta da una voce femminile, tesa e sorpresa al contempo.
« Ragazze! Cosa pensate di fare? » Melissa McCall compare davanti a noi, tirando una tenda per coprire un sacco nero adagiato su un tavolo operatorio d'alluminio.
Era stata lei ad attirare la mia attenzione: mi aveva incuriosito con i suoi sguardi attenti e preoccupati lanciati a destra e sinistra prima di sgattaiolare lì dentro, pensando di non essere vista.
« E' il corpo di Jackson Whittermore quello che ha nascosto, vero? Gesù, credo che mi stia venendo da vomitare. » Mery ci volta le spalle e si appoggia alla porta con i maniglioni antipanico, respirando profondamente.
Io le lancio un'occhiata preoccupata, poi torno a fissare decisa in viso la madre di Scott e, infine, mi decido a parlare.
« Lei sa che fine ha fatto Isaac? E' con Scott? Sta bene? Lo può rintracciare? » chiedo in rapida successione, come se le mie domande fossero proiettili di un mitra. E Melissa arretra, colpita e sgomenta, con una mano sulla bocca socchiusa.
« I-io non lo so. E voi non potete rimanere qui. Andate via, ragazze. Non voglio che ... »
« ...veniamo coinvolte? Lo siamo già, signora McCall. » Mery, ripreso un po' di colore, interviene ed estirpa sul nascere i tentativi della donna di farci uscire dall'obitorio.
Incrocio le dita dietro la schiena, sperando che lei sappia esattamente di cosa stiamo parlando e non ne sia, invece all'oscuro.
Come potrebbe reagire venendo a sapere, da due ragazzine viste solamente per le medicazioni di qualche frattura saltuaria, che suo figlio è un licantropo?
Un mostro. Come Isaac. Come suo padre.
No, un eroe in realtà. Come Isaac. Come solo chi ha un cuore può essere.
Mery, venuta a conoscenza dell'identità di Scott da Stiles Stilinski -che l'ha aveva anche ragguagliata su Boyd e Derek Hale, l'alpha-, mi aveva raccontato quell'episodio mentre venivamo in ospedale dall'aeroporto in taxi.
Lui l'aveva avvicinata perchè aveva notato lo sguardo smarrito e confuso che aveva anche lui all'inizio di tutta quella vicenda, ma non si era preparato una scusa in anticipo. Così aveva attaccato bottone con lei chiedendole in prestito la pochette che svettava in cima ad una pila di libri, che la mia amica aveva in mano, credendo contenesse penne e matite; lei, invece, ci teneva gli assorbenti...
« Oddio, ragazze mi dispiace. E' che io... Oh, accidenti, venite a dare un'occhiata! » Melissa si volta e sposta di nuovo la tenda che ci impediva di vedere il cadavere del capitano della squadra di Lacrosse della nostra scuola.
Giace immobile, chiuso in una sacca nera sigillata da una cerniera appena aperta, illuminato da una lampada dalla fredda luce azzurrina; a terra, dalle fessure, gocciola quella che ha tutta l'aria di essere gelatina.
« Che cos'è? » domando, indicando il liquido trasparente e denso che continua a colare.
« Non lo so. Cercavo di scoprirlo. Mi date una mano? Non credo di farcela da sola. Io... è tutto nuovo per me e non vorrei per nulla al mondo sbirciare, ma devo farlo! » esclama lei risoluta, sollevando i lembi di plastica nera per far scorrere meglio la zip.
Mery emette un singulto poco rassicurante e corre di nuovo dall'altro lato della stanza con il palmo della mano schiacciato sulle labbra.
Io getto uno sguardo incuriosito ed intimorito alle dita tremanti della signora McCall e poi mi unisco a lei con un assenso.
« Bene, pronta? Al tre. » dichiara con poca convinzione.
« Uno. » mormoro, spostandomi appena perchè quel liquido non mi cada sulle scarpe.
« Due. » fa eco lei.
« Tre. » esclamiamo insieme.


Arrivano pochi minuti dopo la chiamata agitata di Melissa, lui e Scott.
Lui, Isaac.
Riconosco il rumore della suola delle sue scarpe da ginnastica, che stride sul pavimento del corridoio a cui hanno dato la cera, ed il modo affannoso in cui respira. Come se volesse prendere sufficiente aria per poi andare in apnea; faceva lo stesso, quando ci baciavamo. Lo sento mormorare qualcosa al suo amico ed infine la porta si socchiude e loro sgusciano dentro in maniera accorta e quasi felina.
« Mamma! »
Scott McCall corre ad abbracciare sua madre per tranquillizzarla e lei tenta d'imitare il suo gesto.
Fra i due, non riesco a definire bene chi abbia più bisogno di conforto.
« Cosa... cosa? » si sporge oltre le spalle di lei e scorge Jackson Whittermore, avvolto in un bozzolo gelatinoso.
« Che gli succede? » chiede Scott, avvicinandosi lentamente, come un predatore che studia la sua preda per capire se sia davvero morta o stia solo fingendo ed aspetti un attimo di distrazione per fuggire.
« Speravo che me lo dicessi tu. » replica lei e poi è Mery a parlare, uscendo dall'ombra in cui si era appartata.
Si mangiucchia le unghie nervosamente e trema senza controllo.
« Credete che sia grave? » sussurra appena.
Il ragazzo passa lo sguardo dalla mia amica a sua madre, che fa spallucce come a dire "Non guardare me, io non c'entro" ed infine sospira, rassegnato.
« Che ci fa lei qui? » chiede a nessuno in particolare, ma Isaac lo scavalca e si para davanti a Mery, che intimidita, arretra e va a sbattere contro un altro tavolo operatorio.
« Dov'è? Dov'è Violet? »
Il mio nome, pronunciato dalle sue labbra, ha un retrogusto che sa di disperazione e preoccupazione.
« E'... è colpa mia. Mi ha aiutato ad aprire la cerniera del sacco di Jackson Whittermore e... »
Isaac non la lascia finire: si precipita nell'angolo buio in cui mi trovo e mi stringe a sé. Sa, che anche volendo, non potrei respingerlo.
« Cosa credevi di fare, maledizione?! Dovevi rimanere a Sacramento! Io... io non sono sicuro di poterti proteggere da questo. » sbotta con un'irritazione che è più per se stesso che per me.
Mi accarezza il viso ansioso, cercando segni evidenti di percosse o qualsiasi altra cosa possa incentivare -e giustificare- la sua ansia, ma non ne trova.
« Non posso... lascia...rti solo due minuti che... che ti cacci...nei pasticci. » biascico a fatica, come se avessi quella roba gelatinosa anche in bocca a rendere appiccicose le mie parole.
Isaac sgrana gli occhi chiari -ridotti a specchi d'acqua torbidi- e pare aver ricevuto un destro in pieno viso.
« Sei venuta per me? » si soffoca con quell'esclamazione sorpresa e non sembra affatto contento.
« Tu non...non sei un...mostro. Non...sei...tuo padre. Non potrei m-mai ritenerti tale. » sussurro, con la voce tagliata da quelle lacrime che non riesco a versare.
Vorrei poterlo abbracciare e baciare, rassicurandolo così di non aver paura di lui, ma non sento braccia, gambe, piedi, mani né un qualunque muscolo. E' come essere immersa in una vasca di ghiaccio fino al collo e avere il corpo interamente intorpidito.
« Non dovresti, non dovresti essere qui. Guarda cosa ti è successo. Se non ti avessi coinvolta... » s'interrompe, le mani calde sulle mie guance, la tristezza a piegargli le labbra e a disegnargli ombre scure sul viso « Ti metto sempre in pericolo, anche quando non vorrei che proteggerti. »
D'improvviso si sporge in avanti, o meglio si sbilancia, e mi cade addosso, bocca su bocca. Dopo il primo attimo di sbigottimento, addolcisce quel bacio casuale facendolo diventare quasi una carezza.
Scorgo Mery, dietro di lui, che fa spallucce e strizza l'occhiolino a Melissa e Scott McCall: ha dato -letteralmente- la spinta che serviva ad Isaac per oltrepassare la linea invisibile fra "sono un pericolo" e "posso essere salvezza".
« Perdonami. » soffia lui sulle mie labbra.
« Non hai...nulla di cui...scus-arti. » cerco di sorridergli, ma non credo di riuscirci granché bene con i muscoli facciali semi paralizzati. Lui pare capire e accontentarsi, ricambiando la mia smorfia con il sorriso più luminoso che gli abbia mai visto fare: la sua faccia è, per la prima volta, un cielo sereno e sgombro da nuvole minacciose.
« Non ha una buona cera. » osserva Mery d'un tratto, riferendosi a Jackson Whittermore, ancora immobile e imprigionato come una mummia nel suo sarcofago di gelatina.
Isaac mi solleva fra le braccia, passando una mano sotto le mie ginocchia e l'altra dietro la schiena, e si avvicina al capitano della squadra di Lacrosse con curiosità, permettendo anche a me di osservare la situazione.
« Cosa facciamo? » chiede a Scott e le sue dita si stringono sulla mia pelle, come se avesse bisogno di sentirmi, di convincersi che sono io, che sono accanto a lui e che ci resterò, anche se da quest’incubo non dovessimo più svegliarci.
« La domanda è un'altra: cosa diavolo è questo ragazzo? Non ditemi che anche lui è una specie di licantropo! Cioè voi avete quella... quella schifezza addosso? E perchè Violet si è paralizzata sporcandosi le mani? E' tossico? Ha un effetto temporaneo, spero! » Mery solleva ad alta voce i suoi dubbi ma, ottenendo in risposta solo occhiate confuse, sospira: «Scusate, tendo a blaterare come una mitragliatrice quando sono nervosa e... ODDIO! » fa un salto indietro, fissando inorridita il cadavere di Jackson che ha uno spasmo.
Isaac s'allontana, mettendosi di profilo per farmi da scudo col suo corpo.
« Non dovrebbe essere morto? » squittisce Melissa, con occhi stralunati.
« Sì. No. Che ne so. E' un kanima e... » Scott viene interrotto da un nuovo scatto di Whittermore, che spalanca la bocca per mostrare una dentatura mostruosa e all'apparenza letale.
« Cosa accidenti è un kanima? » interviene Mery tremando, aggrappandosi al gomito dell'altro capitano della squadra di Lacrosse. Per tutta risposta lui da una pacca sulla schiena di sua madre, facendole fare un passo avanti.
« Mamma, puoi chiuderlo per favore? »
Melissa lo scruta sconcertata e poi emette un sospiro rassegnato.
« D'accordo... Va bene, va bene, va bene. » si avvicina esitante e cerca di tirare su svelta la zip, che però s'incastra appena sotto il mento di Jackson, che sibila e schiocca la mascella.
« Mamma, sbrigati. »
« D'accordo. D'accordo. » replica lei agitata, forzando la cerniera.
L'essere, che perde sempre più le fattezze di Whittermore, si agita compulsivamente e quasi affonda i denti nella mano di Melissa.
« Muoviti! Mamma, mamma forza, chiudi! » grida Scott, senza tuttavia muoversi.
Ed allora, inaspettatamente, è Mery ad andare in soccorso della donna con una prontezza di riflessi ed una calma sconcertante: le sue dita ferme si sovrappongono a quelle dell'altra ed insieme riescono a sbloccare la zip, tirandola interamente su.
« E tu saresti un uomo? Bella dimostrazione di coraggio! » sbuffa canzonatoria la mia amica, in direzione del figlio di Melissa.
« E ora? » gracchio io, inerme fra le braccia di Isaac, guardando orripilata il cadavere agitarsi, intrappolato nella plastica nera.
Scott deglutisce e ci osserva uno ad uno in viso: sembriamo tutti appena usciti dalla peggiore casa degli orrori mai costruita.
« Chiamiamo Derek e risolviamo questa faccenda. » asserisce lugubre, tirando fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloni.


Chris Argent trasuda controllo e sicurezza -nonostante abbia la mascella tesa e le nocche livide per la forza con cui stringe il volante- mentre sfreccia fra le stradine di Beacon Hills senza mai sfiorare il pedale del freno.
Scott è al suo fianco, sul sedile del passeggero, e fischietta una canzoncina che non conosco probabilmente solo per tentare di smorzare le tinte vivaci della tensione.
Isaac continua a stringermi fra le braccia calde, sciogliendo poco a poco la rigidità dei miei arti. All'orecchio mi sussurra parole rassicuranti e tenta di definire i contorni ancora in ombra di quel quadro: la famiglia Argent che caccia i licantropi da generazioni, Jackson Whittermore che rigetta il morso e si trasforma in kanima -una creatura mitologica serpentiforme controllata dal nuovo preside della scuola e nonno di Allison-, il suo suicidio sul campo di Lacrosse...
Ascolto quel racconto rapita e terrorizzata al tempo stesso, fissando Mery, pallida e provata, appoggiata al finestrino in cerca di refrigerio: dopo aver mollato i piedi del cadavere -trasportato con l'aiuto di Melissa e Scott- nel bagagliaio della Jeep di Chris Argent, si è trincerata dietro un silenzio denso di ansie e paure e non ha più guardato in faccia nessuno.
La follia concreta di questa notte demolisce tutti i giorni di psicoterapia a cui si è sottoposta, cercando di convincersi di non aver davvero rischiato di morire per mano di un'Erica Reyes trasformata in una bestia.
Vorrei abbracciarla, ma le dita ancora non mi rispondono ed il gelo non ne vuole sapere di abbandonarmi del tutto: resta incastrato fra le fibre dei miei muscoli come tanti piccoli cristalli di neve.
Isaac, che continua a sfregare i palmi delle mani sulle mie braccia, è la mia unica fonte di calore.
« Sono stato uno stupido, pulcino. Volevo essere una persona migliore, una di cui tu potessi andare fiera e che sapesse proteggerti... ma il morso non era la soluzione giusta. » mormora fra i miei capelli, tenendo gli occhi chiusi.
Ha la voce carica di dolore e rimorso ed io mi odio perchè in parte è colpa mia.
Prende fiato e coraggio e continua a parlare sottovoce, senza accorgersi di star raccogliendo, con ogni nuova ammissione, un pezzo del mio cuore, rinsaldandolo con gli altri fino a ricomporre il puzzle originale.
« Ti ho persa. Non potevo starti vicino, non sapevo controllarmi e la sola idea di essere una minaccia per la tua incolumità mi uccideva. Sono morto ad ogni chiamata senza risposta, ad ogni messaggio ignorato... »
« Is-aac... » farfuglio, ma lui non mi lascia dire nulla. Vuole espellere i sensi di colpa, la frustrazione e i rimpianti che lo soffocano fino a quando riuscirà a respirare di nuovo.
« E quando ti ho vista nel mio seminterrato io... io non c'ho capito più niente. Ti ho spinta via con tanta forza da buttarti a terra e farti male, così sono andato nel panico ed ho fatto l'unica cosa che mi sembrava giusta: allontanarti per tenerti al sicuro. Il pericolo più grande per te ero io, non il kanima. »
« Sme-tt-ila. » ansimo, intimandogli con gli occhi di chiudere quel rubinetto di scuse. Non ne ho bisogno, so già tutto senza lui che me lo spieghi nei dettagli.
Cercava di proteggermi, così come io ho sempre voluto proteggere lui, pur non avendone i mezzi.
« No, ti prego. Ti prego fammi finire, Violet. » sospira e le sue parole sembrano gocce di pioggia fredda sulla pelle « Credevo che facendomi odiare sarebbe stato più semplice per entrambi, ma... »
Non riesce a terminare la frase, poiché proprio in quel momento Chris Argent inchioda davanti la stazione abbandonata e scende dalla vettura con Scott.
« Jackson ha smesso di muoversi. » constata Mery sovrappensiero, senza neppure spostare lo sguardo su di noi.
Sento diverse voci che parlottano fitto a pochi passi di distanza e mi pare d'intravedere anche una figura nera che s'avvicina correndo a quattro zampe come un lupo.
Non ho il tempo di chiedere chi sia, che Scott e il padre di Allison rientrano in macchina e portano la Jeep nella stazione, scaricando il cadavere di Whittermore con poca grazia come fosse un sacco di patate marce.
« Mery, ti affido Violet. Rimanete qui dentro e non fate niente d'avventato. Sarete al sicuro. » afferma deciso Isaac, depositandomi sul sedile accanto alla mia amica con un bacio leggero sulla fronte.
« Non ci tengo a farmi aggredire di nuovo, grazie tante. » replica secca lei, cercando di mascherare il tremore delle mani ficcandole nelle tasche del giacchetto blu.
Il ricordo di quella sera maledetta è ancora vivido in lei, tanto da paralizzarla come lo sono io, sebbene per altri motivi.
« N-on lasciarmi...qui. Io so...difendermi! » obietto, sentendo formicolare le dita dei piedi e i polsi, come se finalmente il mio corpo si stesse svegliando.
Non riesco a credere di essere considerata ancora alla stregua di una bambola di porcellana o di un burattino con i fili tranciati, ormai inservibile; mi ero allenata tanto per non esserlo più e, invece, a quanto pare le situazioni cambiano, le persone no.
Isaac è solo, solo con l'unica compagnia delle sue ansie fameliche, che lo rosicchiano dall'interno a piccoli morsi senza fretta.
Prima sua madre, poi Camden, suo padre...
« Se ti succedesse qualcosa... » lui tace e scuote la testa, con gli occhi che sembrano affogare nel buio della paura di perdere anche me.
Non riesco neppure a replicare che, con uno scatto secco, chiude la portiera della Jeep e fa scattare la sicura, accarezzando infine il finestrino con le dita senza neppure vedermi davvero a causa dei vetri oscurati.
Sospiro e guardo Mery, abbracciandola con gli occhi: se ne sta tutta accartocciata in un angolo, stretta a se stessa perchè è tutto quel che ha, sperando di sfuggire ai suoi demoni personali così come avevo fatto anche io per oltre un mese e mezzo. Ma se c'è una cosa che ho imparato è che non importa quanto veloce corri: loro sono sempre due passi avanti a te e ti guardando sogghignando. L'unica cosa da fare, quindi, è puntare i piedi a terra e prepararsi alla battaglia.
« Parlami. » la incoraggio con un sussurro, tentando di captare anche qualche suono proveniente dall'esterno.
« Non credo di esserne in grado. » mormora, gli occhi sgranati fissi sul parabrezza e il labbro inferiore fra i denti.
« Dì qualunque cosa. Tu-tutto que...llo che ti passa per la t-esta. » inspiro e mi pare che la lingua si scongeli appena nella mia bocca, dandomi modo di articolare meglio le frasi.
Mery singhiozza in silenzio e lascia che un paio di lacrime rotolino giù sulle sue guance di perla senza asciugarle: le sue mani sono serrate convulsamente a pugno ed aprirle significherebbe lasciarsi andare. E' un lusso, quello, che la mia amica non vuole concedersi.
« Il mio psichiatra mi ha ripetuto incessantemente per settimane che ho avuto delle allucinazioni. Ho visto qualcosa che non esiste, mi sono immaginata tutto. "Ripeti dopo di me, Mery: i mostri non sono reali", diceva con voce cantilenante. » rantola e si fa uscire del sangue dal labbro inferiore « E cercavo di convincermene, sebbene il viso animalesco di Erica non ne volesse sapere di uscire mia testa. Io... » la sua voce va in frantumi e lei viene scossa da spasmi atroci, tanto da farmi temere che stia avendo un attacco epilettico « Io volevo solo stare bene, capisci? Sentirmi di nuovo al sicuro, normale, padrona della mia banalissima vita. Non volevo essere coinvolta, non ne volevo sapere nulla di tutta questa follia! » grida ancora ed è inarrestabile.
Mery è un fiume trattenuto troppo a lungo da una diga costruita maldestramente in fretta, ora finalmente libero di scorrere e portare a valle tutta la sporcizia accumulata nelle sue acque per poter essere di nuovo cristallino.
« Ti odio, Violet. Odio te e Isaac e suo padre e Derek e chiunque altro sia implicato nella vicenda. Io sono umana e voglio nella mia vita persone come me, che non rischiano di essere uccise ad ogni respiro. »
Acqua che scroscia, dirompe, spacca gli argini, inonda la terra e la disseta.
« Io sono umana e ogni inspirazione potrebbe essere l'ultima per me. Così come per te. Non posso vivere con l'ansia costante nelle ossa. Non posso salutare qualcuno ogni volta chiedendomi se mai lo rivedrò, non ce la faccio. Io non ce la faccio, Violet. » singhiozza e poi si getta addosso a me e piange come una bambina spaventata da un fruscio sinistro di notte fuori la finestra.
Con uno sforzo immane muovo le dita e le accarezzo piano i capelli sfuggiti alla treccia, che odorano del disinfettante dell'ospedale.
Lei si aggrappa alla mia giacca di pelle e la strattona, fra un lamento e l'altro.
« Volevo fregarmene. Ci ho provato sul serio ad alzarmi con indifferenza dalla panchina a bordo del campo di Lacrosse e a tornare a casa, fingendo che nessuno di quegli avvenimenti strani mi avesse toccata. Non ne sono capace. Ho pensato a te, ad Isaac, a cosa poteva essere successo, a Lydia Martin in lacrime, a Stiles che era scomparso e sono andata nel panico: ho iniziato a misurare la stanza con passi lunghi e concitati, ripetendo la litania del mio psichiatra, ma non funzionava. Non funzionava più. »
Ha il tono, Mery, di chi sta confessando un segreto.
Non piange più: si è calmata quel tanto che le basta per tornare a respirare.
Tra le due ero sempre io la vittima dell'apnea da lacrime -così la chiama lei- ed è strano esserci scambiate i ruoli. Strano ma piacevole: mi sento utile, mi sento più forte di quanto sia mai stata.
« Alla fine, non sapendo più che pesci prendere, ti ho chiamato correndo anche il rischio di essere mandata a quel paese o di farti venire un infarto precoce... »
« Hai fatto la scelta più giusta, nonché la più coraggiosa, Mery. » la rassicuro, cullandola ancora.
« Mi sento tutto tranne che coraggiosa, al momento. Cosa credi stia succedendo lì fuori? » domanda sottovoce, gettando un'occhiata circospetta ai finestrini da cui non s'intravede nulla.
Giro il collo e con sollievo sento i muscoli del corpo rispondere agli impulsi del cervello. Sebbene con ancora qualche difficoltà, sono di nuovo padrona di me.
« Non era uno sparo, vero? Oddio Violet, era uno sparo quello! » esclama la mia amica concitata, scrollandomi con un tono pregno d'ansia.
« L'ho sentito. Non ti muovere da qui, vado a dare un'occhiata. » mi sporgo verso la maniglia della portiera, ma lei mi trattiene per un polso, gli occhi cioccolato mescolati alla paura più buia e amara: la stessa che avevo visto anche nelle iridi di Isaac.
« Non ti lascerò uscire. Qui siamo al sicuro, fuori no. Sono licantropi: se la sanno cavare anche senza di noi e sicuramente meglio. Ti prego, Violet. Ti prego, non posso perderti. » mi supplica ed è di nuovo sull'orlo delle lacrime, che le si incastrano fra le ciglia senza tuttavia cadere.
Un altro colpo di pistola la fa tremare, ma scuote definitivamente me. L'abbraccio con slancio e cerco d'imprimerci dentro tutto il mio affetto.
« E io non posso perdere lui, Mery. Devo andare, capisci? »
Dopo una piccola esitazione, lei annuisce tetra e allenta la presa su di me continuando a torturarsi le labbra.
Apro la portiera di uno spiraglio e proprio in quel momento il parabrezza esplode.
Mery grida e si accuccia, mentre altri due proiettili si conficcano nella lamiera della Jeep.
« Sta’ giù! Mettiti dietro un sedile e resta a terra! » le ordino, sgusciando fuori veloce e riparandomi dietro un pilastro di cemento armato per studiare la situazione.
Sul tettuccio dell'auto un essere -che sembra un incrocio fra una lucertola, un alligatore ed un serpente- sibila in direzione di Chris Argent, che gli punta contro una pistola dal caricatore ormai vuoto.
Il kanima avviluppa la sua coda al braccio del padre di Allison e gli toglie l'arma di mano con facilità, mettendosi poi all'inseguimento della sua preda che è corsa via per temporeggiare ed estrarre un coltello.
Non appena Chris Argent finisce a terra, fra pile di tubi in ferro e cataste di legna, un licantropo che non riconosco –Derek, forse?- si fa sotto, ringhiando, ed a lui si aggiungono Isaac e Scott a zanne sguainate.
Attaccano il mostro -l'unico vero, fra tutti quelli presenti- a turno senza successo, venendo sbalzati lontano, chi contro un muro, chi addosso ad un cancello o ad uno scaffale.
Trattengo il fiato ad ogni fendente, ad ogni pugno e calcio andato a vuoto o parato dal kanima e poi, prima ancora che possa dire a me stessa "Violet, non andare, è un suicidio" sto già sgattaiolando cauta verso l'arena dello scontro, cercando di passare inosservata.
Isaac è accasciato al suolo e raschia a terra con i suoi artigli, cercando di rialzarsi. Ansima e fissa orripilato Jackson e poi i suoi compagni, a terra come lui, risollevandosi con smorfie di dolore.
Corro nella sua direzione senza curarmi di esporre me stessa -girando bene alla larga dal kanima- ma Allison giunge prima e gli si para davanti con delle intenzioni che mi paiono tutt'altro che pacifiche.
Con incredulità, la vedo affondare due pugnali nel petto di Isaac fino a trapassarlo più volte.
Annaspo, l’aria nei polmoni evaporata, e mi chiedo in quale dozzinale film dell’orrore siamo finiti tutti quanti e quali sono i ruoli assegnati: le persone che più sembrano innocue dentro l’addome celano mostri e quelli dall’aria minacciosa in realtà sono eroi.
Il mondo –il mio mondo colmo di angoli sicuri e strade tranquille- precipita, così come Isaac.
Grido muta il suo nome e quando il suo corpo finisce nella polvere, la rabbia e la sete di vendetta mi danno una forza che non sapevo di avere: con una calma glaciale mi guardo intorno e afferro un tubo di piombo alla mia destra.
Poi, con uno scatto, raggiungo Allison di spalle e la colpisco al fianco con così tanta violenza da farla accasciare di lato.
Le armi volano lontano dalle sue dita protese e lei si volta a fissarmi con astio, sputando arrabbiata.
« Piccola stronza... » borbotta a denti stretti, premendo la mano sul fianco colpito.
Mi paro davanti ad Isaac con un ghigno di trionfo e l'aria protettiva, ascoltando il suono del suo respiro spezzato dalla sofferenza.
E’ vivo. Ed allora lo sono anch’io.
« Non ti conosco se non di vista e non so quale è il tuo ruolo in tutta questa vicenda... ma avvicinati di nuovo a lui e ti spedisco all'ospedale. » minaccio furente.
Allison si rialza con un sorrisino derisorio che è tutto per me e sembra tentata di raccogliere la sfida.
Poi, invece, si limita a scrollare le spalle e a sorpassarci, girando i pugnali fra le mani con la sicurezza di un giocoliere del circo. O di un assassino ben addestrato.
M'inginocchio accanto ad Isaac, che perde sangue copiosamente, e dopo aver esaminato le ferite -nessuna delle quali esageratamente grave- gli prendo il viso fra le mani e lo bacio con disperazione.
Sei qui, sei qui. Potevo perderti, ma sei rimasto con me.
« Pazza incosciente! Dovevi restare in macchina! » mi rimprovera lui rabbioso, tossendo sangue.
« E perdermi tutto il divertimento? » provo a scherzare, strappandomi un pezzo di t-shirt per tamponare i suoi tagli e fermare eventuali emorragie.
« Allison! » grida qualcuno, che forse è Scott, nel frattempo e, alzando gli occhi, la vedo dinnanzi a me, la gola strette fra gli artigli del kanima.
Isaac impreca e si mette seduto, il sangue che non scorre più e le ferite già coperte da una crosta.
Mi stringe a sé e arretra piano piano, jeans che strusciano sul cemento grezzo.
« E adesso? » sussurro debolmente, senza riuscire a staccare lo sguardo dalla scena.
« Stiamo a vedere. » mormora lui di rimando.






Dite la verità: avevate perso le speranze di avere ancora mie notizie...o forse ci avevate sperato, chissà.
However, I'm back.
Ci ho messo un casino di tempo a partorire questo capitolo perchè dovevo necessariamente ricollegarmi alla storyline della seconda stagione ed ero terrorizzata all'idea di far interagire Violet con i personaggi originali della serie e infilarla in scene che si conosco e amano già così come sono.
Mi auguro di non aver fatto un pastrocchio ed essere, al contempo, riuscita a costruire una storia altrettanto realistica e possibile.
Mi dispiace lasciare Isaac e Violet, ma questo è il capitolo finale. Aggiungerò un epilogo per darvi un senso di compiuto ed un'idea di quel che verrà dopo, ma salterò a piè pari il modo in cui Jackson viene salvato, tanto lo sapete tutte, no?
Non credo neppure che mi lascerò convincere a scrivere un sequel, ma qualche OS ogni tanto aspettatevela perchè questi due mi sono entrati nel sangue.
Li amo alla follia ed è anche merito di chi mi ha sempre supportato.
Perciò grazie di cuore.
"Pioggia di Vetro" è nata per merito vostro ed è proseguita per lo stesso motivo.
Un forte abbraccio.


Strange.

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Capitolo 11
*** Il sole dopo la pioggia. ***


Pioggia Di Vetro

11. Il sole dopo la pioggia.

- Did I do something wrong? -
- I dont' have anyone -


Fa caldo.
Il sole splende raggiante fra i rami degli alberi del parco, che non riescono a bloccare completamente la sua luce per offrire ombra e frescura a sufficienza per tutti.
Nonostante abbia legato i capelli ormai lunghi in una coda, ho la fronte e la nuca umide di sudore, ma un sorriso enorme che mi spacca le labbra.
« Sì, te lo saluto, Mery. Ci vediamo fra poco al solito posto. » rispondo frettolosa alla mia amica e poi rimetto il cellulare in tasca, proseguendo sul sentiero di terra battuta che taglia il parco a metà.
Il cuore accelera prima ancora che i miei occhi si posino sulla sua figura e di conseguenza affretto il passo, l'ansia addosso come un vestito ingombrante: non vedo l'ora di stringermi a lui e perdere i confini del mio corpo, chè quando Isaac mi abbraccia non capisco mai dove finisco io e dove inizia lui.
E' seduto su una panchina e mi rivolge le spalle; con il corpo in parte al sole ed in parte in ombra, sta osservando qualcosa con un'espressione assorta ma serena.
Le sue iridi sono il riflesso del cielo.
Se ne sta curvato in avanti, i gomiti sulle ginocchia e i ricci dorati sugli occhi perchè non ne vuole sapere di tagliarsi i capelli dato che a me piace giocarci. Indossa pantaloni neri e maglia a maniche corte bianca. E' bellissimo. E' bellissimo e mi chiedo come sia possibile che nessun'altra ragazza lo fissi inebetita come faccio io di solito.
So che ha sentito il mio respiro non appena ho varcato il cancello -con i suoi sensi lo riconoscerebbe anche fra una folla di maratoneti affaticati-, ma continua a comportarsi come se fosse del tutto ignaro della mia presenza, permettendomi così di arrivargli alle spalle e di circondargli il collo con le braccia, un bacio sui capelli ed un altro sulla guancia destra.
Ride, Isaac, in quel modo spontaneo e dolce che fa ridere anche me di riflesso.
Sembriamo due bambini; forse lo siamo davvero, ancora, e non smetteremo mai di esserlo.
« Ciao pulcino! » sussurra frettoloso sulla mia bocca, prima di baciarmi.
E non si accontenta solo di girare il viso per incontrare il mio: pone le sue mani dalle dita affusolate e completamente lisce -nessuna pioggia ora gli lascia più segni addosso- sui miei fianchi e mi trascina sopra lo schienale della panchina, fino sulle sue gambe.
« A quanto pare ti sono mancata... » mormoro, staccandomi da lui col fiatone.
« Per niente. Accolgo con questi baci infuocati ogni ragazza che entra nel parco...oh, a proposito, è appena arrivata Margaret, ora vado a salut...Ahia! » si lamenta, massaggiandosi il naso che io gli ho pizzicato giocosamente.
Si vendica allo stesso modo e per un po' lottiamo con la faccia imbronciata, dita fra dita che non si staccano, che sembrano far parte di una stessa mano.
« Riproviamo: a quanto pare ti sono mancata... » dico con finto tono minaccioso, la fronte contro la sua; i suoi ricci mi danno prurito.
Mi sorride e prova a baciarmi, ma mi scosto in attesa di sentire una risposta soddisfacente.
« Quando sei lontana, impazzisco. » asserisce, di colpo serissimo, ed allora sono io a sporgermi, a trovare le sue labbra piene e a bere il suo sapore.
« Ci tengo alla tua sanità mentale, perciò sono felice di comunicarti che ho esaurito gli scatoloni: sono ufficialmente di nuovo una cittadina di Beacon Hills. » mi appoggio all'indietro al suo petto e cerco d'individuare cos'è che aveva catturato la sua totale attenzione prima, mentre mi aspettava.
« Ma non mi dire! Bisogna festeggiare! » esclama con troppa enfasi, tradendo il suo scherzo.
Lo guardo incuriosita, alzando in obliquo il viso, e lo vedo frugarsi le tasche dei pantaloni, frenetico.
Inarco un sopracciglio, in attesa, e lo prendo in giro scoccandogli un bacio sul collo.
« Sei riuscito a far entrare una bottiglia di champagne in una tasca? » chiedo e rido; lui ride con me ed il sole sembra ancor più caldo, più abbagliante.
Con Isaac tutto è amplificato: più vivo, più colorato.
Il mio mondo si muove e anima solo quando lui è nei paraggi.
E' come un raggio di sole durante una tempesta; è come una spiaggia nascosta col mare calmo d'estate; come un prato fiorito in cui stendersi per sognare forme strane nelle nuvole; come un libro appena comprato che profuma di nuovo, un thè caldo fra le mani in pieno inverno.
Ogni cosa bella a cui riesco a pensare porta il suo nome.
« No, qualcosa di meglio. »
Sul palmo della sua mano brilla una chiave argentata legata ad un fiocco rosso un po' stropicciato.
Gli trema la punta delle dita mentre aspetta una mia reazione ed io non so bene che dire, che fare.
Siamo giovani, è presto, ma abbiamo vissuto lontani per così tanto tempo che anche solo quantificarlo mi fa paura.
Eppure siamo sopravvisuti, siamo ancora insieme e nonostante questo posto richiami eventi ed esseri sovrannaturali come il miele gli orsi, per me ed Isaac è speciale.
E' dove ci siamo conosciuti, dove ci siamo innamorati, dove ci siamo amati, lasciati, ritrovati. E' casa.
Lui, che a casa non voleva mai stare perchè era la tana di un mostro.
Io, che una casa non l'ho mai avuta perchè i traslochi erano sempre troppo frequenti, troppo veloci, troppi in generale.
« Violet... » mi sollecita lui, lo sguardo un po' incerto, le iridi subito scurite dall'angoscia di aver fatto una mossa azzardata.
Prendo la chiave in mano e la soppeso, lasciando passare volontariamente qualche secondo giusto per farlo penare un po'.
Casa, è dove sei tu.

« Il lato sinistro del letto è mio. » dichiaro solenne e lui rilascia un sospiro enorme, che io interrompo con un bacio.
Mi stringe tra le braccia, Isaac, con una tenerezza che ha sempre riservato solo a me. Come fossi fragile, come fossi preziosa. Come se fossi ancora la ragazzina spaventata nella stazione che cercava una spiegazione razionale all'essere mostruoso che aveva aggredito Mery, non la donna testarda e forte -oltre che cintura nera di karate- che più di una volta ha salvato il fondoschiena suo e dei suoi compari lupi pur restando un'umana qualunque.
No, non una qualunque; la mia. replica sempre lui, quando gli ricordo un qualche salvataggio degno di Superman. Ad Isaac proprio non piace fare la parte di Lois Lane, dato che fra i due è lui ad avere quel che di più simile c'è a dei super poteri.
« E se qualcuno dei tuoi amici -o nemici- distrugge il salotto, tu pulisci e ripaghi. » aggiungo ghignando.
« E tu poi pagherai me in un altro modo. » ridacchia lui fra i miei capelli, abbracciandomi da dietro.
Restiamo in silenzio qualche minuto, a goderci quel sole che sembra tutto per noi, poi i miei occhi vengono catturati da un qualcosa che mi blocca il respiro in gola e mi fa accelerare nuovamente il cuore, fino a sentirlo vibrare nei polsi.
Dietro le altalene, sotto l'enorme albero in fiore che è stato teatro di mille incontri segreti fra me ed Isaac, ci sono un bambino ed una bambina inginocchiati l'uno accanto all'altra, le mani unite ed il viso rivolto all'insù verso il sole che gioca a nascondino fra i rami.
Lei è minuta, ha occhi grandi e vispi, scuri come i capelli; lui ha una chioma color miele tutta scompigliata e uno sguardo illuminato dal verde delle foglie dell'albero.
« Ti ricordano niente? » bisbiglia Isaac al mio orecchio ed io allora capisco che era proprio quella scena che stava contemplando quando sono arrivata.
Stava sbirciando con nostalgia, ma anche dolcezza quei bambini, che sicuramente i suoi occhi trasfiguravano in noi.
« No. » mento, ingoiando lacrime di gioia.
« C'è una cosa che non ti ho mai rivelato, sai pulcino? » dice lui, d'improvviso.
« Sarebbe? » gli chiedo distratta, senza riuscire a distogliere lo sguardo dai piccoli che ora si sono alzati e stanno correndo verso lo scivolo a forma di elefante.
« Da quando sei arrivata a Beacon Hills, da quando sei arrivata nella mia vita, non credo più che la pioggia sia bella solo perchè lava via il sangue: la pioggia mi ha portato te. »
Mi volto, le mani sul suo viso, fra i suoi capelli, altre lacrime fra le mie ciglia e sulle guance e, infine, fra le nostre labbra unite.
Chè baciare lui, per me, è sempre come baciare la pioggia.



La terza stagione sta volgendo al termine e mi fa presagire sempre peggio per il personaggio protagonista di questa piccola storia, perciò almeno qui, fra queste poche righe, ho voluto dedicargli un lieto fine.
Perdonate il miele che questo epilogo trasuda, ma ho fatto soffrire Violet ed Isaac anche troppo a lungo; non gli ho mai regalato un attimo quieto, una risata spensierata e dovevo assolutamente rimediare.
Volutamente non ho specificato quanto tempo è passato nè cosa è successo nel mentre: lascio che quegli spazi li colmiate voi con la vostra fantasia.
Immaginateli adulti o poco più grandi di quanto è lui nella serie; immaginate Mery e tutti gli altri e gli eventi che io non vi ho raccontato.
E' il regalo migliore che possiate farmi: continuare a sognare su una storia che era nata proprio con quello scopo.
Se vi ho emozionato anche solo un pizzico allora posso ritenermi soddisfatta.
Un grazie infinito a chi ha creduto in Violet ed Isaac prima ancora di me, più di me.
Un grazie infinito anche a chi ha preferito, seguito e ricordato, ma soprattutto a chi durante il viaggio mi ha lasciato una recensione sebbene poi mi abbia abbandonato:

E v e r y w h e r e I g o
lilyhachi
Melmon
postergirl84
Rose____
Sar_
spring__
Lelahel
eighteen
Killybian
LoveLostFaithDream
katherineDS8


Spero di ritrovarvi alla prossima storia.
Un abbraccio.
Strange.

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