Counting bodies like sheep.

di Yandeelumpy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cap. 1 ***
Capitolo 2: *** Cap. 2 ***
Capitolo 3: *** Cap. 3 ***
Capitolo 4: *** Cap. 4 ***
Capitolo 5: *** Cap. 5 ***
Capitolo 6: *** Cap. 6 ***



Capitolo 1
*** Cap. 1 ***


 Qui dentro il respiro si fa sempre più pesante, come se qualcosa mi stesse schiacciando da ogni lato del mio corpo. Non posso vedere nulla, ma sento benissimo gli occhi addosso di queste dannate mosche intorno a me, che si rifiutano di perdermi di vista per mezzo secondo. Insisto e respiro forte, quasi divoro tutto l’ossigeno presente all’interno di queste tre mura fatte di cemento, l’unica parte che non è coperta dai mattoni sono le sbarre poste proprio davanti a me.
Le sbarre…non avrei mai pensato di finirci dentro, mai in vita mia avevo pensato di finire qui, su questa sedia, neanche per un attimo. Sono letteralmente bloccato da questa roba che mi costringe a tenere ferme le braccia dietro la schiena, con il ferro tagliente che al minimo movimento potrebbe lacerarmi la pelle.

…Per tenermi fermo, eh? Per impedirmi di fare ciò che voglio, eh? No, questo è uno strumento di tortura che non riuscirà a tenermi bloccato. Niente sarebbe riuscito a fermarmi, niente che sia presente sulla faccia della terra, perché io stesso sono una macchina di tortura per voi. Dovrete spaccarmi fino a distruggere ogni ingranaggio.
Io sono Jeff, un tempo chiamato Jeffrey, e ora citato con il nome di “Jeff the killer”. È per questo che sono finito qui dentro: Perché ogni notte mi sporco del sangue umano, perché ogni notte mando a dormire la gente per non vederle sveglie il giorno dopo, per farle emettere l’ultimo respiro gelato dalla paura sulla lama del mio coltello.

Passi fermi e decisi si avvicinano alla mia cella, sembra il tacco di uno stivale, probabilmente si tratta di una donna, forse quella stessa che insieme ad altre mosche mi aveva condotto qui dentro, rinchiuso dietro le sbarre, messo a sedere su una sedia, con gli occhi coperti da una benda e avvolto in questa ferraglia bastarda chiamata camicia di forza. È colpa sua se sono qui dentro, e una volta che sarò fuori di qui, io le reciterò in gran bellezza le ultime tre parole della sua vita, lasciando che il mio coltello assapori il suo sangue sporco, quello stesso che ha avuto il coraggio di circolare nelle vene quando mi ha chiuso le sbarre in faccia.


- Jeff chiamato killer, sono qui per la seconda volta. Vuoi parlare o ti rifiuti ancora? -

- …Cosa ti fa pensare che io abbia cambiato idea? -

Rispondo a quella voce che sembra volermi mettere i piedi in testa senza prima avermi conosciuto sul serio. Non mi sbagliavo, è proprio una donna, e dalla voce sembra anche quella di prima. Perfetto, non potevo chiedere di meglio: Conoscere la voce della prossima vittima è già tanto, così sarò capace di distinguerla anche senza averla vista.
Sento un sospiro di disapprovazione, rumore di carta accartocciata, e subito dopo la voce riprende ad infastidirmi con provocazioni repentine.

- Non rifiutarti ancora di rispondermi. Potresti essere condannato a morte da un momento all’altro a causa di tutti i tuoi omicidi, di conseguenza quel che ti conviene di più è rispondere alla mia domanda: Vuoi parlare o ti rifiuti ancora? -
- Lo sai che se mi uccidi non potrò mai più parlare, vero? -

Sento improvvisamente battere qualcosa sul ferro delle sbarre. L’ho irritata, è palese, l’ho sentito chiaramente in quel rimbombo. Rispondo alla rabbia della donna con un largo sorriso, lasciando che gli squarci ai lati della mia bocca si riaprano, mostrando così la mia perfetta dentatura.

- Sarò costretta a prendere dei provvedimenti, ti concederò un’ultima notte, una soltanto, pazzo omicida!! Continua così, e morirai di fame!! -

…Una notte, eh? Peccato che la notte sia mia amica, non tua. Il buio è mio amico, io e il buio facciamo squadra, questo non aiuterà te. Torno a sentire il suono dei tacchi battenti che va scomparendo lentamente, chiaro segno che si è allontana insieme alle altre mosche. Abbasso il capo lasciando ricadere le ciocche bruciate sulla benda e in parte sul mio volto ormai completamente bianco, emettendo un respiro soddisfatto: Si, mi sentivo soddisfatto, avevo vinto perché mai le avrei dato risposta riguardo come sono diventato così. Io non sono più quello di prima, Jeffrey non esiste più, adesso sono Jeff the killer e basta, rinato dalle bende che mi hanno tolto dal viso che ho sempre sognato.

Sono passate ore dall’ultima volta che ho sentito la voce della donna e i passi di qualcuno, e questi sfortunatamente si fanno risentire. Mi sento nuovamente osservato, ho gli occhi di qualcuno puntati addosso, riesco a sentire chiaramente il suo respiro tremante.
…Ha paura di me? Hanno mandato qui qualcuno che ha paura di me? Ahahah!! Ma facciamo sul serio!? No, davvero! Com’è possibil…no, aspetta, sì che siamo seri…farò in modo che la situazione volga a mio favore. Non poteva capitarmi occasione migliore, e questo mi fa sorridere di nuovo. Sorrido passandomi la lingua sui denti, sospirando falsamente stanco.

- Va…bene…io non conosco te…e tu non conosci me…va bene? Si, va bene…ora…ora io devo fare da guardia alla tua cella…se tu non farai nulla…io…io non ti creerò fastidi di nessun tipo…o-okay? -

E’ un uomo e la sua voce risulta piuttosto tremolante, le sue parole sono sconnesse e il suo respiro vibra in continuazione. Non mi sbagliavo, ha una dannata paura di me e di questo me ne compiaccio, anche se dovrò dimostrarmi tutt’altra cosa agli occhi di questo povero idiota. Sospiro ancora, pensando al fatto che dovrò trovare il modo di convincerlo, e per poterlo fare dovrò mettere in mostra le mie doti da attore.

- …No, ti prego! Basta! Sono innocente! Non vedi come mi ha ridotto quell’assassino psicopatico?! Ha distrutto la mia vita!

Esclamo drizzando il capo, lasciando che parte del mio viso scoperto si trasformi in un’espressione di puro terrore e disperazione, mentre fingo di cercare l’uomo destinato a farmi da guardia durante la notte. Cerco falsamente di liberarmi dall’attrezzatura che mi tiene immobile da giorni, emettendo singhiozzi innocenti.

- D-Di che stai parlando? C-Come sarebbe a dire? N-Non sei tu il killer? Non sei tu Jeff…the killer? Ma…l’agente Mitchell ha detto che… -

Mi risponde sussultando di sorpresa e paura allo stesso tempo. Sta abboccando al mio amo, ahh, non poteva andare meglio di così! Ahahahah! …No, non è ancora il momento di esultare. Devo continuare a fingere finché non si decide ad entrare in cella, devo fare in modo che si avvicini a me.

- No, si stanno sbagliando tutti sul mio conto! Guarda come mi ha ridotto! È piombato in camera mia e mi ha sfigurato il volto senza pensarci su due volte, è un pazzo! Un pazzo! E io per colpa sua mi ritrovo in questa situazione! Aiutami, ti prego…aiutami! Non voglio passare il resto della mia vita qui! È già tanto se la continuerò con una faccia del genere! -

Silenzio. Un lungo minuto di silenzio che sembrava non essere interrotto nemmeno dai respiri di entrambi. Venne improvvisamente spezzato solo dal dolce rumore ( o almeno alle mie orecchie ) della serratura che scattava, seguita dal cigolio delle sbarre che si aprivano, finalmente. L’uomo si avvicinò a me a passo molto lento, poi ne giunse uno più sconnesso ( probabilmente era inciampato, l’idiota ) e in seguito altri due. Mi aveva raggiunto, sentivo l’odore nauseabondo di quella persona ancora tanto umana, ancora capace di provare pena per uno come me.

- Io ora…ti libero, farò finta che sei scappato, così riavrai la tua vita visto che sei innocente…non pensavo di dover fare questo al mio primo giorno di lavoro, dovevo aspettare l’agente Philipps…doveva essere con me, lui almeno ha otto anni di esperienza…-

…Primo giorno di lavoro? Ecco perché è così idiota, ahah! Ora i conti tornano! Ahh, quanto sei ingenua, maledetta bastarda. Quanto lo sei stata a sottovalutarmi così, peccato che tu non sappia recitare, peccato che tu non abbia un aspetto perfetto come il mio. Questo è sicuro.
Le manette venivano sganciate, le cinture della camicia allentate, e poi…la benda scese lenta lungo il mio viso. Potevo vedere, POTEVO VEDERE DI NUOVO! Solo quando torturavo le mie vittime riuscivo a provare una simile soddisfazione. Andai a cercare l’uomo con lo sguardo, era dietro di me, e…

Gli occhi intrisi di terrore, spalancati e tremanti. Le labbra serrate e il corpo più in carne del mio irrigidito dalla testa ai piedi.
Ha lo sguardo pieno d’orrore e disgusto, solo perché ora mi guarda in faccia. Che c’è, non ti piaccio?!

-…Che c’è, non ti piaccio!? -

Nulla, non parla. Mi alzo e mi massaggio i polsi, uno alla volta, sentendo i muscoli irrigiditi a causa di tutta quella merda che mi teneva immobile. Ignoro totalmente questo cretino, facendo qualche passo verso l’uscita, ma poi…
Il mio sguardo si posa verso il basso, andando a rintracciare al di fuori della cella, una grossa spranga di ferro poggiata al muro.
…E così è questa l’arma con cui mi hanno colpito il primo giorno di carcere, così insistentemente, così…FORTE. Il mio sguardo si fece colmo d’ira, ma allo stesso tempo sorrisi, mettendo ben in risalto i miei magnifici squarci rossi.
Mi avvicinai all’oggetto, afferrandolo saldamente in una mano, tornando poi con lo sguardo sull’uomo che ancora non era riuscito a muoversi per la paura.

- Siediti. -
- …P-Perché?!-
- Ho detto…SIEDITI.-

E così fece, non appena si accorse che cominciai a spazientirmi. Prese posto proprio sulla sedia dove prima c’ero io. Mi riavvicinai a lui standogli davanti, battendo il ferro della spranga sulla mia mano libera, mentre sgranai gli occhi e sorrisi: La mia vendetta sarebbe stata amara, così amara che non sarebbe stata facile da digerire.

-Ora diventerai anche tu bellissimo.-




Primo capitolo concluso, spero vi sia piaciuto come inizio! Appena avrò tempo pubblicherò subito il secondo, cercherò di farlo almeno una volta a settimana. Al prossimo capitolo! :) 

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Capitolo 2
*** Cap. 2 ***


Prima di tutto, mi scuso con tutti per il tremendo ritardo...in questo periodo ho avuto molto da fare, e di conseguenza, non ho potuto lavorare a questo secondo capitolo. Mi impegnerò per pubblicare al più presto gli altri, così da non deludervi per questo, beh...detto questo, spero che questo secondo capitolo valga l'attesa! ;u;


Quel patetico idiota sembrava non voler smettere di implorarmi. Chiedeva pietà con la voce, con gli occhi, con il respiro e con quel misero battito che si ritrovava.
Piegai il capo a destra, osservandolo mentre pregava sotto il mio sguardo, e quella vista…mi fece di ridere. Letteralmente crepare dal ridere, a momenti.
Quanto sanno fingere le persone quando la loro vita non è appesa ad un filo, quanto sanno essere false se il loro destino non è tra le mani di qualcun altro. Fingono di avere coraggio, mentono, mentono, mentono…

Ma c’era in lui qualcosa che non andava. Solitamente le mie vittime avevano uno sguardo diverso, lui sembrava quasi dirmi…”uccidimi, e fallo subito.”. Non che la cosa mi importasse particolarmente, il mio unico pensiero ora era quella donna, colei che mi aveva condotto qui, riducendomi in questo pietoso stato.
Cominciai a girargli intorno, come un leone pronto ad attaccare una gazzella già ferita, lento ma deciso. Aveva gli occhi puntati su di me: Era terrorizzato, di questo ne ero sicuro. Pochi passi e mi fermai davanti a lui.

- No, aspett…! –
Roteai il braccio, colpendolo con la spranga proprio sulla guancia, con una tale forza da scaraventarlo a terra.

*

Stavo osservando tutto dalla telecamera, e per la prima volta in vita mia, quasi volevo rinunciare al mio mestiere da agente. Mi sentivo abbattuta per quanto stava succedendo a quel detenuto suicida, che coraggiosamente si era fatto avanti per permetterci di testare le capacità di Jeff the killer.
Lo vedevo urlare e venir colpito ripetutamente a varie zone del corpo, impotente sotto le grinfie di quello psicopatico. Desideravo voltarmi e andarmene: Avevo concesso ad un uomo una morte tanto atroce e adesso me ne stavo pentendo. Io, così orgogliosa e forte. Chiusi per un attimo gli occhi, portando la mano destra ai miei capelli biondi per poterli sistemare un po’, rivolgendomi all’agente al mio fianco.

- Cosa ne pensi? -
- Incredibile, miss Mitchell. Non si sta facendo scrupoli. Ha una crudeltà fuori dal comune, mai vista una cosa simile.-
Fissai l’uomo accanto a me per qualche secondo, notando che in quel poco tempo aveva cambiato espressione: Aveva uno sguardo terrificato e disgustato allo stesso tempo, ed istintivamente rivolsi nuovamente l’attenzione allo schermo davanti a me.
Era uno spettacolo agghiacciante, in quel poco tempo gli aveva letteralmente spaccato la testa in due: Quell’uomo era morto. Pressai il pollice e l’indice contro le mie tempie, abbassando lo sguardo, così da distrarmi da quell’orribile vista.

- Riprendetelo e portate via quel cadavere. -
- Si, miss Mitchell. -
Mi risposero in contemporanea, per poi sgattaiolare via dalla stanza, colma della mia colpa: Ora quello psicopatico lo odiavo ancora di più. Mi misi alla scrivania, analizzando la situazione per poterla scrivere al comandante.
 
*
                                                                
L’avevo ucciso, finalmente. Finalmente aveva chiuso la bocca, quella sporca bocca che si ritrovava…parlava troppo. Decisamente troppo. Si, parlava…parlava…ma non reagiva. Perché non reagiva? Né si muoveva? No, era strano…davvero strano.
Mi voltai per un attimo a guardare l’uscita spalancata della cella, udendo perfettamente il rumore dei passi veloci di altre fastidiose mosche. Mi girai per guardare la mia vittima priva di vita, poi ci pensai su: Un piano? Qualcosa per sfruttarmi a loro favore? Astuto…ma non abbastanza da mettere me nel sacco. Ho promesso che mi sarei vendicato, e Dio, IO LO FARO’.
Presi un grosso respiro, di quelli che si prendono solo quando sei pronto a suicidarti morendo soffocato, per poi emettere un urlo che si propagò sicuramente in tutto il carcere. Mi lasciai andare a terra, lasciando cadere la spranga insanguinata proprio davanti a me, restando immobile sul pavimento freddo, anch’esso sporco di rosso.

- Cos’era?! Un urlo!? Roman, muoviamoci! –
Riuscivo perfettamente a sentirli avvicinarsi. Fingersi svenuti non è una cosa fantastica, anzi. Mi sembra di dormire, e io ODIO dormire per non potermi guardare…ah, da quanto non guardo la mia bellissima faccia. Ho perso il conto del tempo, un’altra cosa da segnare sulla mia lista immaginaria della vendetta.
- E’ svenuto! Dobbiamo recuperarlo, così lo rimetteremo sulla sedia. -
- Pensiamo prima a recuperarlo, poi contatteremo miss Mitchell per sapere cosa fare. –
Rimasi immobile, ora che riuscivo a vedere le loro scarpe mi resi conto che mi stavano girando intorno, e poi…uno di loro emise qualche conato di vomito, non so se per me, per la puzza di sangue, o per la testa adorabilmente sfracellata di quel rifiuto umano.

- No, non adesso Roman…lo so, ma pensiamo a recuperare lui, adesso. -
- Si, lo so, scusami. -

Sentivo già le loro sudice mani addosso, uno mi prese stringendomi la felpa sulla schiena, l’altro invece mi sfiorò soltanto, concentrato a fissare quella che era l’unica vittima della stanza…forse non sapevano che di lì a poco ce ne sarebbero state altre due.
Mi lasciai sollevare per appena dieci centimetri, poi, con uno slancio mi gettai sulla sbarra, sentendo i sospiri di sorpresa sincronizzati dei due. Afferrai il lungo pezzo di ferro, colpendo fortemente quello che prima mi stava recuperando dritto allo stomaco, che emise un lamento. L’altro mi si avventò contro afferrandomi la felpa all’altezza delle spalle. Quando stava per sbattermi al muro e per afferrare la pistola, rigirai la spranga colpendolo prima ai poveri gioielli di famiglia, così da farlo chinare, e poi dritto alla testa.
Cadde a terra dolorante, mentre mi posizionai con prepotenza su di lui, prendendogli la pistola nella sacca che portava intorno ai fianchi. Mi rialzai e la puntai al primo che ormai si era ripreso, deciso ad afferrarmi, ma subito dopo aver premuto il grilletto, si lasciò cadere a terra, inerme.

- WOH! Dritto alla testa! Ho una mira da…-

Mi rivolsi stavolta a quello più vicino a me, che con sguardo terrorizzato osservava il compagno, poi subito dopo la mia faccia. Sorrisi apertamente, così da mostrarmi in tutto il mio splendore, dovevano sicuramente piacergli i miei meravigliosi squarci rossi e la mia dentatura perfettamente visibile ai lati. Per non parlare delle bruciature intorno ai miei occhi. Ma bando alle ciance…ora dovevo occuparmi di cose molto più importanti.

- …PAURA! –
Sparai anche al secondo proprio sulla fronte, che si contorse spaventosamente prima di morire. Non persi tempo: Dovevo evadere da quel posto del cazzo e riprendermi la libertà prima di tutto, a qualunque costo.
Corsi fuori dalla cella, percorrendo in corsa tutto il corridoio principale, raggiungendo le scale. Riuscivo a sentire altri passi, dovevano per certo esserne altri due. Emisi un ringhio di rabbia: Quanto sapevano essere fastidiosi?! Porca puttana! Erano ovunque!
Puntai al muro che portava alle scale per raggiungere il piano superiore, così corsi e raggiunsi le quest’ultime. Rimasi fermo fino a quando le altre due mosche non si fermarono a fissare il piano da cui ero sbucato: Approfittando del fatto che erano messi di spalle, sparai due colpi ad entrambi, così da farli cadere lungo le scale che portavano alla cella d’isolamento.
Senza curarmi troppo dell’accaduto, ripresi la mia frenetica corsa, stavolta raggiungendo una grossa porta di ferro. Alla fine c’era solo quella? Tirai il gancio per aprirla, poi la spalancai: Un’ondata d’aria fresca mi corse addosso, la libertà era qualcosa di perfetto…non quanto me, ovviamente.
Il problema però, era un altro. Facendo qualche passo avanti, mi fermai: Ero sulla terrazza, intorno a me, solo muri poco alti che bastavano a ricoprire la forma quadrata del piano. Strinsi il manico della pistola, raggiungendo uno dei muri per potermi affacciare: Alberi alti, cespugli, luci e…un lago, decisamente lontano, visto da quell’altezza. Saranno stati quindici metri. Per la rabbia, strinsi il pugno libero, battendolo sul muretto della terrazza.

- Dove cazzo vado!? Perché è così alto!? Non va bene! Va male, cazzo! Va dannatamente mal-! -
- NON MUOVERTI, JEFF THE KILLER! –
Mi voltai di scatto e…la vidi. Colei che era riuscita a catturarmi, la famosa “Mitchell” che desiderava tanto condannarmi a morte. Che desiderava tanto fermarmi.
Alta, capelli biondi raccolti, la pelle lattea e gli occhi dal taglio sottile e deciso. Proprio come me la immaginavo con quella dannata benda che mi copriva la vista.
-Non muoverti o apriamo il fuoco, metti le mani in alto e getta la pistola!-

Uno, due, tre, quattro, cinque…cinque mosche pronte a riprendermi a riportarmi lì sotto…no, no, NO! Io non ci sarei finito di nuovo lì sotto, né ora, né domani, e nemmeno in un’altra vita!
Mi lasciai coprire un occhio da un ciuffo di capelli bruciati, leccandomi le labbra secche e meravigliosamente lacerate. Alzai appena le spalle, indietreggiando poco a poco, fino a toccare il muretto.

- Lo sai, Mitchell…hai davvero un bel faccino. Incredibile, una donna così graziosa…mi ha messo alle strette. Me, messo alle strette…-

Sembrava irritata, non accennava a ritirare la pistola, anzi, ne stringeva il manico continuando a tenermela puntata addosso.

- Oh, non guardarmi così, non essere gelosa… -

Lentamente, mi alzai dritto sul muretto, sentendo il vuoto alle mie spalle e il vento che mi alzava la felpa bianca. Era piuttosto freddo e forte, ma almeno, sapeva di libertà. Avrei rischiato la vita, questo è certo, ma mai sarei morto in carcere. Sarei morto libero, libero come l’arte impressa nel mio volto. Libero come il coltello che correva sul corpo delle mie vittime, libero come la paura impressa negli occhi di chi mi guardava e di chi non mi capiva. Libero di lasciar parlare la gente: “Jeff the killer, evaso e mai più ritrovato.”.
Nel caso in cui fossi sopravvissuto, era quello che avrei voluto sentire e leggere sui giornali.

- Un giorno sarai bellissima anche tu. Un giorno…tu andrai a dormire, Mitchell, e lo farai per sempre…GO TO SLEEP! –
Mi lanciai indietro, osservando lo sguardo sbalordito degli agenti (lei compresa), durante la mia caduta. Urlarono qualcosa di incomprensibile, ma l’unico mio pensiero era che ora sarei finito nel lago.
Se sarei morto? Ah, questo non lo so, ma sentire il brivido della caduta e del vento sul mio corpo, era quasi più appagante del sentir correre su di me il sangue: Rosso, caldo e materiale. Invisibile, freddo e impossibile da toccare. Due cose così diverse, il sangue e il vento, ma due cose terribilmente fantastiche a contatto con la mia pelle.

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Capitolo 3
*** Cap. 3 ***


« Dannazione, si è buttato! »
…Non potevo credere a ciò che avevo appena visto: Quel pazzo si era buttato davvero. Si era buttato nel vuoto pur di non farsi riprendere. Ero come spiazzata, io, che mantenevo la calma anche nelle situazioni peggiori…e solo quel maledetto riusciva a farlo. Qualunque cosa faceva o diceva, riusciva a sconvolgermi e a scuotermi completamente.
Di una cosa ero certa: Non ho mai conosciuto nessuno come Jeff the killer, io non conoscerò mai più nessuno come lui...


*

Bolle. Uscivano dalla mia bocca lacerata, le osservavo mentre salivano verso quella che doveva essere la superficie. Sembrava così lontana da me, solo la luce fioca della luna riusciva a darmi la certezza che se fossi riuscito a risalire, avrei superato la pressione dell’acqua che mi spingeva giù. Giù, sempre più giù.

Perché mi sono buttato, in realtà? Per vivere, o morire? Se vivrò, cosa farò? Se morirò, dove andrò? All’inferno? No…io sono già all’inferno. Io sono morto, e poi sono rinato. Non avrò un’altra occasione, non di nuovo. Io ora vivo come voglio.


Sputo l’acqua che mi è entrata in bocca, tirando una bracciata verso l’alto. Poi un’altra, e un’altra ancora. Muovo le gambe, prima una e poi l’altra, sempre più forte, e alla fine…la raggiungo. La superficie. Sono fuori, sono uscito da quest’altra gabbia, esattamente come la prima. Sono fuori per tornare a vivere.

Tossisco, sputando l’acqua che mi è rimasta in gola, ma mi sento stanco…dannatamente stanco. Alzo lo sguardo, e solo a quel punto mi rendo conto di quello che ho fatto. Sono sopravvissuto per miracolo ad un volo assurdo. Ho sfiorato la morte con un dito.
…Ma cosa sto dicendo, io sono la morte.
Mi muovo fiaccamente e con il bruciore dell’acqua negli occhi, ma deciso a raggiungere un possibile nascondiglio. Mi muovo e mi guardo intorno, respiro e poi tossisco, bagnato fradicio.
Una folata di vento mi fa rabbrividire, e con spiacevole sorpresa noto che le nuvole scure si stanno accavallando una dopo l’altra, capendo istintivamente che di lì a poco sarebbe scoppiato un temporale.
Fa freddo, fa dannatamente freddo, così tanto che questo mi costringe a stringermi la felpa all’altezza del petto, in un pugno. Non ho nessun’arma con me, sono praticamente senza difese, in caso di pericolo dovrò usare il mio corpo. Ora che ci penso, in carcere, mi avevano definito una “macchina da guerra”, o una cosa del genere. Forse era “sanguinaria”, ma ora come ora non mi va di ricordare, stranamente, proprio io, non ne ho la forza. Non ho la forza di fare niente. Odio questo mio essere ancora… fisicamente umano, per metà.
Riesco miracolosamente a trascinarmi nel bosco, poco distante da quel lago, dove riesco a sentire solo il canto dei lupi e il fruscio di qualcosa tra i cespugli ogni tanto. Non ho paura, il buio è mio amico, l’unico problema è che i predatori non lo sono. Odio essere la preda, io NON POSSO essere la preda. Io sono sempre stato il predatore, l’assassino, e MAI la vittima.
Ringhio di rabbia quando il mio pantalone che si incastra chissà dove, probabilmente tra i rami di qualche cespuglio o qualche radice troppo cresciuta, mentre cerco insistentemente di liberarmi. L’acqua, per la seconda volta, comincia a bagnarmi i capelli, poi la fronte, le guance, le spalle…sta piovendo, e non ho tempo. Devo muovermi. Imitando il gesto di tirare un calcio, mi libero, sentendo la stoffa del pantalone stracciarsi all’altezza del polpaccio.
Una casa, una vecchia casa in mezzo al bosco. Il cielo invaso dalle luci e l’aria dai rimbombi, la pioggia che scendeva fitta e rumorosa, e quella casa che aveva un che di… utile, in quella situazione.
 
*

Jeff non poteva chiedere di meglio, anche se non era di certo uno scenario allegro: Una nebbia fitta contornava la casa interamente fatta di legno, vecchio di chissà quanti anni, tanto che ormai si era scurito e spaccato in alcuni punti. Le finestre rotte, che sbattevano violentemente per le continue folate di vento, per non parlare del tetto, bucato in chissà quanti numerosi punti.
Il killer aprì la porta, seguito da un cigolio lungo e intenso, fissando da lontano ogni singolo angolo di quella baracca. Puzzava di legno bagnato, ed inoltre l’arredamento lasciava letteralmente a desiderare. Era scarso, il tavolo ribaltato e segnato da grosse zampate rosse, le sedie ribaltate qua e là, e parti del pavimento in legno completamente rialzato, spaccato e tracciato da segni in vari punti, anch’esso decorato con schizzi dell’ennesimo colore.
Se fosse stato qualcun altro, per certo sarebbe scappato via urlando, ad uno scenario del genere. Il ragazzo richiuse la porta alle sue spalle, accompagnato da un secondo cigolio, poi proseguì a passo lento, e stavolta erano gli scricchiolii del legno ad accompagnarlo.
Più avanzava, più l’odore cambiava, e diventava quasi…ferreo, e pungeva. Conosceva quell’odore inebriante meglio di sé stesso, non ne dubitava: L’odore del sangue.
La fonte di quell’odore perfetto, proveniva dal retro di quel divano dalla stoffa verdognola lacerata, ribaltato anch’esso.
Sembravano due cadaveri ormai in decomposizione, forse una donna e un uomo, a giudicare dalle due diverse corporature, anche se non perfettamente riconoscibili. La loro pelle era quasi verde, in alcuni punti consumata a tal punto da riuscire ad intravedere le ossa. In alcune zone del corpo, la carne mancava addirittura, probabilmente un animale selvatico ci aveva banchettato sopra allegramente.
Il killer si avvicinò di più a quello scenario nauseante, tastando la gamba di colui che doveva essere l’uomo con la punta del coltello. Un rivolo di sangue percorse la pelle del cadavere, quindi non dovevano essere morti da molto, anche se sembrava che fossero passati mesi.
Spostò lo sguardo verso l’angolo, dietro il camino, riuscendo ad individuare due borse. Un sacco ed uno zaino a tracolla, dovevano appartenere certamente alle vittime.
Raggiunse gli oggetti e si chinò davanti a loro, fruganci  all’interno, alla ricerca di qualcosa di commestibile o di utile. Una bevanda energetica, un panino mezzo divorato, probabilmente con del salame, e due barrette di cioccolato. Nello zaino invece, una torcia, una piccola valigetta contenente materiale per il pronto soccorso, e due impermeabili.
Non era male, ma non c’era nulla che potesse tornargli utile come arma. Posò per un attimo lo sguardo sui due cadaveri, sedendosi subito dopo a terra, accanto ai due zaini, cominciando a divorare con poca grazia il panino rimasto. Poi fu il turno della bevanda energetica, sapeva di limone ma era schifosamente calda. Meglio di niente.

Passò lì la notte, fino a quando la tempesta decise di calmarsi. A giudicare dall’altezza del sole, dovevano essere le sei del mattino circa.
Si allontanò dalla finestra, caricandosi addosso la borsa a tracolla, contenente l’impermeabile, la torcia e le due barrette di cioccolato. Inoltre, nel sacco, aveva trovato dei vestiti di ricambio. Un semplice jeans scuro e un maglione nero con cappuccio, che aveva indossato di malavoglia per necessità, sostituendoli con il pantalone strappato e la felpa sporca di sangue, che ora aveva riposto nel sacco.

*

Riuscivo a sentire il clacson delle automobili non molto lontano da lì, il che mi fa pensare che poco più avanti ci sia…un centro abitato? Il bosco affacciava proprio su un grande parco, e vagando con lo sguardo, più avanti, potevo vedere la gente che correva avanti e indietro come una mandria di bufali impazziti. Lo sfondo, era la città illuminata dai primi raggi del sole.
Avrei dovuto nascondermi come meglio potevo, visto il casino che c’era. Così, mi tirai su il cappuccio del maglione ed avanzai verso il parco, tirando completamente dritto, con la testa bassa, tra mille voci diverse ed i commenti della gente.






Salve gente! Auguri a tutti per questo nuovo anno! -In ritardo, ma meglio di niente- xD
Eccomi con il terzo capitolo, non ho avuto molto tempo a disposizione per scrivere tra le feste e tutto il resto, però sto cercando di trovare del tempo per scrivere almeno qualche pezzo al giorno per il prossimo. Spero sia di vostro gradimento, al prossimo capitolo! 

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Capitolo 4
*** Cap. 4 ***


Eccomi qui con il quarto capitolo della storia! Innanzitutto, voglio scusarmi per quest'ennesima, lunga attesa. Nel tentativo di colmarla, ho cercato di fare un capitolo un po' più lungo, ed inoltre, visto che Jeff è -finalmente- libero, sarà un pezzo della storia decisamente più carico di "azione". Non vi spoilero, semplicemente, spero che questo capitolo vi piacerà! Inoltre, voglio approfittarne per ringraziare tutte le persone che nonostante le attese, continuano a seguirmi e a sostenermi con le loro recensioni! Grazie a tutti, questa cosa mi rende estremamente felice!
Detto questo, spero che questo quarto capitolo sia di vostro gradimento! Magari fatemi sapere cosa ne pensate, un commento è sempre gradito! Al prossimo capitolo, baci! :)


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Non mi piaceva. Non mi piaceva per niente stare lì, in mezzo a quel via vai di gente che controllava l'orologio al polso, parlava al cellulare, teneva per mano dei detestabili mocciosi con tanto di zainetto, che si lamentava per le troppe ore di lavoro  o che si concedeva di prendere un caffè al bar in compagnia.
Scrutai l'orizzonte dopo il parco: la strada, con qualche auto che si fermava ad aspettare al semaforo, qualcuno che invece non lo rispettava affatto, e dall'altro lato, due palazzi vicini che formavano un vialetto proprio nel centro. Avrei potuto entrare lì e nascondermi da questi occhi indiscreti, che addirittura chinavano il capo per guardarmi in faccia, quando passavo accanto a loro.
Mi fermai un attimo, giusto per capire come muovermi tra la gente, vicino alla zona per bambini, dove c'erano le altalene, uno scivolo ed una casetta di plastica, dove ogni tanto sbucava una patetica mocciosa che diceva all'amica di star cucinando per suo figlio, ovvero un inutile bambolotto. Sbuffai alla scena, distratto, senza notare minimamente il marmocchio che mi stava fissando da un paio di minuti, proprio al mio fianco. Lo guardai con la coda dell'occhio, e subito la sua bocca si trasformò in una "O" di stupore, sorpresa, o non sapevo di preciso cosa fosse.
Feci una smorfia con le labbra, raggiungendo lo squarcio destro accanto ad esse, prima di chinarmi avanti e scandire un sonoro:
« ...Buh. »
Com'era prevedibile, il marmocchio biondo fuggì urlando a squarciagola "mamma!", raggiungendo la donna bionda accanto alla sua amica, che venne prontamente disturbata da suo figlio. Il bambino, mi indicò più volte, con le lacrime agli occhi, mentre sua madre se lo caricò in braccio, facendo commenti che nemmeno sentì, dato che chinai subito il capo per non farmi guardare. Moccioso maledetto, mi ricorderò di fargli visita.
Quel parco era fottutamente grande, e solo quando fui davanti ad un cartello fatto di legno, piantato nel terreno, riuscì a realizzare di quanto fossi lontano da Milwaukee: "Central Park, New York city."

Sbigottito, scossi il capo. Mi avevano preso poco lontano dalla mia città, perché mi trovavo a New York, adesso? Come ci ero finito lì? Non l'avevo previsto, questo.
Tutte le mie sensazioni, tutti i miei dubbi, furono spezzati da un improvviso dolore all'altezza dell'addome. Sgranai gli occhi cerchiati di nero, e alzando di colpo la testa in un movimento quasi innaturale, feci vagare le mie pupille quasi bianche per quant'era chiaro il loro celeste, fissando le persone che adesso sembravano parlare un'altra lingua. No, non era un'altra lingua. Era la mia psiche che stava delirando, e tra poco lo avrei anche dimenticato. Dovevo uccidere, dovevo mettere le mani su qualcuno e...strozzarlo, pugnalarlo a sangue, vederlo morire terrorizzato sotto il mio sguardo...perfetto. 
Mi tenni la testa con entrambe le mani, cominciando a correre senza una meta precisa, ricordandomi di dover svoltare per raggiungere l'altro lato della strada, e più precisamente, per arrivare al viale in cui volevo entrare fin dall'inizio in modo da trovare riparo. 
Corsi il più velocemente possibile, senza guardare la gente in faccia. L'unica parola che avevo in testa, era il mio nome, ripetuto continuamente da una voce che non era la mia, ma sapevo bene di chi fosse in realtà...

Jeffrey.
Jeffrey.
Jeffrey.
Jeffrey.

...



« Mi scusi, sta bene? »

Un'altra voce, spezzò quella che in quel momento mi stava torturando il cervello, come un'improvvisa martellata alla testa, ma indolore fisicamente. Fu come risalire a galla da quel lago maledetto, e riprendere aria dopo tanto, troppo tempo.
Indietreggiai di tre passi, quasi inciampai rovinosamente, come un perfetto coglione sballato, ma poi rialzai appena il capo, lasciando che alcune ciocche nere mi coprissero gli occhi, e che l'ombra del cappuccio mi facesse da scudo sulla bocca.
Era una...ragazza? Mi stava fissando, ma non come stava facendo quel moccioso in precedenza, mi fissava con preoccupazione, con grandi occhi smeraldini che brillavano sotto il sole, ormai salito più in alto da un bel pezzo. I capelli castani, quasi ramati, lisci e che le ricadevano lungo le spalle, si muovevano al minimo soffio del vento leggero di quella mattinata. 
Pallida, ma non esageratamente, magra al punto giusto e poco più bassa di me, che insisteva per trattenersi sulle punte delle scarpe bianche. Aveva un modo di vestire casual, non era truccata, e per di più non aveva la stessa espressione di tutta quella gente che avevo visto fino ad adesso. Consideravo il fatto che avevo visto almento un centinaio di persone, da quando ero lì, e come poteva distinguersi una ragazza /come/ loro, TRA loro?
Perchè non si decideva ad andarsene? Perché se ne stava lì a fissarmi con quella disgustosa aria preoccupata!? Non capiva che era in pericolo, quella stupida...ragazzina...si stava preoccupando davvero, per me? Ah, ma che cazzo vado a pensare, se vedrà la mia faccia, scapperà a gambe levate. Come tutti, del resto! E lei NON E' diversa da tutti.

« ...Sto bene. Benissimo. Come dovrei stare? »

Sapevo perfettamente come suonava la mia voce in quel momento: bassa, scontrosa, con le corde vocali strette dal fumo delle sigarette che mandavo nei polmoni come un bisogno naturale. Per niente affidabile, insomma. Eppure, lei non accennò a spostarsi, né a fare un minimo per scappare, anzi, proseguì d'un passo avanti per guardarmi meglio.

« Non volevo disturbarla, è solo che mentre camminavo per andare a lavoro, ho visto che lei stava correndo tenendosi la testa, e così mi sono preoccupata. So che posso sembrarle strana, perché sono una perfetta sconosciuta...però... »

Preoccupata? Allora era vero, che dopo tanto, qualcuno si stava seriamente preoccupando per me? Voltai il capo, rialzando gli zigomi bianchi, così da assumere uno sguardo piuttosto seccato, e del resto lo ero seriamente. Non amavo conversare, non parlavo così con qualcuno da troppo tempo, e non ne avevo per niente voglia. Comunque, sarebbe stata una perfetta vittima, e fu quel pensiero a farmi sorridere il doppio, così come mi portò a voltare nuovamente la testa verso la ragazza dai capelli ramati. 
...Un momento, che stava facendo? Perché stava avvicinando la mano al mio cappuccio? Voleva...voleva...togliermelo!?

« ...Che stai facendo?! »

Il mio tono era disturbato, quasi isterico, per niente normale. Lei mi guardò con due occhi grandi così, che brillavano sotto la luce del sole, addirittura mi sembrò di vederci dentro la scintilla della colpa. Che diamine le era saltato in mente? Pensava che le avrei mostrato la mia faccia tanto facilmente?

« ...Io...nulla, mi dispiace. Volevo vedere i suoi occhi. »
« I miei non brillano sotto la luce del sole. »

La risposta che le diedi, fu praticamente automatica, ed era un chiaro riferimento ai suoi occhi. In risposta, lei mi sorrise a labbra chiuse, quasi parve accorgersene, e piegando appena il capo in un gesto delicato, mentre si portò entrambe le mani dietro la schiena per unirle, cominciò a dondolarsi sui talloni come se fosse una bambina ansiosa.

« Le assicuro che sarei più che felice di poterli vedere, ovviamente con il suo permesso. »

...Certo, avrei potuto ucciderla di nascosto, da qualche parte ed in silenzio, magari dietro quella grande quercia che avevo puntato con lo sguardo, e quasi non l'avevo nemmeno ascoltata. Tornai poi a guardarla, pensando che avrei potuto concederle l'onore di vedere il mio viso perfetto. Mi avvicinai a lei, e le sussurrai, come se fosse il segreto più grande di questo mondo:

« Allora vieni con me, lì. E dammi del tu, il lei mi fa sentire vecchio, e quello non lo sono per niente. »

Lei mi guardò stupita, annuendo semplicemente con il capo, più volte ed in modo lento. Sembrava attenta.
Camminai senza voltarmi per guardarla, sotto lo sguardo indiscreto dei passanti, sicuro che mi stesse seguendo come se fosse un cagnolino. Possibile che fosse talmente ingenua? Del resto io non mi fidavo di lei, e lei non si fidava certamente di me. Eravamo due completi sconosciuti, ma con due ruoli ben definiti: vittima e killer. Raggiunto il retro del grande albero, che riusciva a coprire entrambi, mi voltai verso di lei, sotto l'ombra che il tronco ci stava offrendo.

« Visto che vuoi essere accontentata, e sia. »

Non sapevo quale sarebbe stata la sua reazione. Forse sarebbe scappata via a gambe levate, forse avrebbe gridato, forse... ah, ma a me che importava? Tanto non le avrei neanche dato il tempo di urlare o fuggire, in un modo o nell'altro, l'avrei uccisa all'istante. Dopo la sua conferma, afferrai i lembi del cappuccio con entrambe le mani, tra pollice ed indice, chinando prima la testa per poter scoprire inizialmente i lunghi capelli corvini, che ormai superavano le spalle. Alzai lo sguardo, e sapevo bene cosa stava guardando. Mi conoscevo, mi conoscevo benissimo. Gli occhi contornati di nero, privi di palpebre, così chiari da sembrare quasi bianchi. La faccia completamente biancastra, tanto che sembrava dipinta, cosa che non era affatto, e particolare maggiormente evidente, i profondi solchi rossi ai lati delle mie labbra, che formavano quell'enorme sorriso che mi ero inciso lungo le guance.
Lei non si mosse. Lei rimase a guardare. Aveva ancora quegli occhi verdi che brillavano, anche se c'era ombra, le labbra appena schiuse e le sopracciglia aggrottate, il tutto formava un'espressione di puro stupore e curiosità. Tanto che mi venne da chiederle:

«...Che c'è? »
«...Nulla. Non capisco perché ti stai nascondendo. »

Perché mi stavo nascondendo? Stava forse pensando che mi fossi truccato? Eppure non eravamo ad Halloween, né c'era qualche festa particolare che permetteva di andare in giro conciati come me. Sapevo l'effetto che facevo sulle persone, ma perché, lei, non stava reagendo allo stesso modo? Non urlava, non stava scappando, non stava tremando e non stava nemmeno chiedendo disperatamente aiuto. 
Un'improvvisa scintilla di rabbia, si fece spazio nella mia fragile mente, forse stava semplicemente nascondendo quello che provava in realtà: disgusto, orrore, un urlo di terrore puro per non farsi aggredire.

« Lo sapevo. Sapevo che sarebbe andata così anche con te.
CHE C'E', NON TI PIACCIO!? »

Lei sussultò appena, posandosi una mano sul petto, per lo spavento improvviso. Avevo gridato, e lei si era spaventata. Oh beh, non lo era già abbastanza? Che cazzo di differenza faceva!? 
Se si prendeva un infarto adesso o dopo, la differenza non c'era. Lo sapevo, sapevo che...

« ...Io ti trovo carino. »

Quella risposta mi fece paralizzare. Letteralmente. Tanto da farmi tirare appena indietro, visto che mi ero bruscamente avvicinato a lei, in un modo forse eccessivamente aggressivo. La guardai per una frazione di secondi, il tempo di riprendermi. 
Non stava mentendo, lo vedevo nei suoi occhi, quella sembrava la verità più sincera di tutte, quella più vera, quella priva di peccato, la prima che mi capitava di sentire da quando ero diventato così.

« Non stai mentendo? »
« No, non vedo perché dovrei. Sto dicendo la verità, ti trovo carino, ed è per questo che prima ti avevo chiesto perché ti stavi nascondendo. »

Le sirene della polizia rieccheggiarono alle mie orecchie in continuazione. Le sentivo prima lontane, poi sempre più vicine. Non sapavo se fosse vero, o solo immaginazione.
...Che stavo facendo? Mi ero fermato? 
Jeff, così non va bene. Non va bene, riprendi la fottuta situazione tra le mani, e per quanto possa essere complicato per te, ragiona. Ragiona!
Cos'è che stavi facendo? A che scopo eri lì?
Feci vagare lo sguardo, lontano dalla presenza imbambolata davanti a me. Un uomo sulla quarantina, seduto sul bordo della fontana, con in testa un cappellino nero che sembrava avere più anni di mio nonno -morto anche lui, ma dettagli- stava reggendo tra le mani un giornale aperto.
"MINACCIOSO ASSASSINO ANCORA A PIEDE LIBERO."
E questa chi me l'ha mandata?
Qualunque cosa fosse, avrei avuto tutto il tempo necessario per ringraziarla, più tardi. Non potevo restare lì, quell'assassino ero io, e non ci misi molto a capirlo, dato che avevo ripreso la libertà solo quella notte e lo stesso annuncio era stato pubblicato anche a Milwaukee qualche anno fa. Ne avevo il chiaro ricordo, nonostante il fatto che fosse passato così tanto tempo. Passato a parte, ora dovevo sbarazzarmi della polizia che sembrava volersi introdurre nella zona.
Quell'agente, con molta probabilità, mi stava ancora alle costole. Sembrava più ostinata di un cane che si rifiutava di mollare la presa dei tuoi pantaloni per convincerti a giocare a palla. Dopotutto, era più che comprensibile. L'avevo sentita giurare ed imprecare contro di me, sapevo quanto mi volesse morto e quanto mi temesse, quanto la affascinassi e terrorizzassi allo stesso tempo.
Nulla sarebbe stato facile con quella donna di mezzo. Era diventata una grossa spina nel fianco di cui dovevo liberarmi. Dovevo staccare quella spina dalle mie carni e gettarla nelle fiamme, per carbonizzarla e non averne più neanche il ricordo.
Quella ragazza era rimasta lì ferma a guardarmi, come spaesata, in attesa di una mia risposta. Una risposta che non avrebbe mai avuto, perché appena trovai via libera, la sorpassai, quasi sfiorandole bruscamente la spalla sinistra.
In quel breve momento, la sentì sussultare e dire qualcosa, forse un probabile "Aspetta!" seguito da un "Non so neanche il tuo nome!", ma non mi voltai nemmeno. 
Avrei perso tempo, del resto. L'unica cosa che mi dispiaque, fu quella di non averla uccisa in quello stesso momento. Mi ero distratto, ed io non potevo permettermi distrazioni. 

Avevo puntato nuovamente a quel vicoletto che avevo individuato fin dall'inizio, poiché era l'unica via salva. 
Arrivai lì dopo una lunga corsa a ostacoli, rischiando anche di finire sotto qualche macchina, ma evitai questo particolare. Per non parlare di tutta la gente che avevo letteralmente travolto.
C'era un fastidioso odoraccio di spazzatura, ma di certo non potevo passare per le vie di classe A, data la mia posizione cittadina. Per un attimo, mi venne da domandarmi se quella ragazza dai capelli ramati fosse ancora lì, o se fosse andata via. Non che mi importasse particolarmente della cosa, questo è ovvio, ero semplicemente curioso della reazione che aveva avuto.
Tornando ai miei obiettivi, avrei dovuto trovare un posto dove nascondermi. New York era maledettamente grande, e sarebbe stato piuttosto difficile raggiungere i miei scopi inosservato. Che situazione seccante.
Innanzitutto, mi guardai intorno, andando ad incrociare lo sguardo con due cassonetti dalla vernice scrostata, del classico colore verde scuro, il tutto adorabilemente addobbato con due topi che se la spassavano con dei vecchi pezzi di pomodoro ammuffito.
Passai inosservato davanti a quella scenetta, tenendo la testa bassa, poiché non sapevo se avrei potuto incrociare qualcuno dall'altra parte. Ora che ci pensavo, non ero nemmeno armato, e non avrei potuto andare avanti in quel modo.
Avrei dovuto procurarmi un'arma, una qualsiasi cosa che poteva servire a difendermi o ad attaccare. Lì per terra c'era solo una bottiglia di birra abbandonata a metà, qualche mozzicone di sigaretta e una siringa. Per non parlare del preservativo celeste e nero per la sporcizia bellamente lasciato al suo destino dopo essere stato usato, lì gettato vicino ad un vecchio bidone.
Beh, probabilmente qualcuno si era divertito lì. Sul serio, quella roba sarebbe stata seriamente poco utile come arma...o forse no. No, non stavo pensando al preservativo, naturalmente, ma a quella bottiglia di birra. 
Mi avvicinai, chinandomi sulle ginocchia per raccoglierla, scorgendovi all'interno il liquido spumoso. Non sembrava essere molto vecchia, quindi la portai alla bocca per poterla assaggiare.
Sputai distrattamente sul muro ciò che avevo appena messo sulla mia povera lingua, decisamente disgustato. Era...schifosamente calda. Un altro sbuffo, prima di farla saltare una sola volta sulla mia mano destra, e scagliarla con forza contro l'asfalto. I cocci di vetro marroni si sparsero ovunque, e con lo sguardo cercai di individuare quello più grosso. Una volta trovato, raccolsi con cautela il pezzo che doveva essere di circa sette centimetri scarsi. Meglio di niente, probabilmente mi sarebbe tornato utile, e pensando a ciò decisi di salvarlo, conservandolo in tasca.

Delle voci, giunsero alle mie orecchie. Sembravano voci maschili che si avvicinavano, lo sapevo perché cominciarono a fare eco nel vicoletto.
Sapevo come usare quel pezzo di vetro tagliente.

*

« Ci abbiamo fatto un bel gruzzoletto, heh, guys? »
Il ragazzo dai capelli a spazzola, con gli occhi scuri ed un'aria da poco di buono, si voltò verso gli altri due che lo stavano seguendo a ruota, che prontamente ridacchiarano facendo grosse tirate su con il naso.
Gli rispose il più alto, uno con l'aria quasi da fesso, ma che sembrava volerla mascherare con quei tatuaggi che si trascinava sulla pelle. Aveva l'apparecchio fisso incastrato nei denti e gli occhi contornati da occhiaie nere.
« Ti pare che con la droga si faccia poco, Abee? Non per niente la vendiamo! »
E questo fece quasi grugnire il più basso dei tre, che sembrava aver passato la maggior parte della sua vita al McDonald, e con quei capelli rossicci che si ritrova con tanto di lentiggini non sarebbe stata una sorpresa venire a sapere che non aveva una gran fila di ragazze pronte a corteggiarlo e a venerarlo.
Quest'ultimo, accorse al posto in cui la bottiglia di birra era stata spaccata, rivolgendosi ai due compagni che fino ad adesso, lo avevano guardato con aria perplessa, per il fatto che si era allontanato rapidamente dal gruppo.
« Abee, Boyce! La nostra birra è andata a puttane! Ve l'avevo detto che lasciarla qui sarebbe stata un idea del cazzo! »
Il restante del gruppo, accorse per dare un'occhiata a quei cocci di vetro marrone sparsi sull'asfalto, il tutto contornato con una grossa macchia scura, che doveva essere proprio la rimanenza della birra, ormai secca.
Il più alto allargò le braccia, e stavolta quell'aria da perfetto idiota si trasformò in un'espressione di pura rabbia, sbottando come un vecchio pieno di debiti che non riusciva a saldare.
« Vaffanculo! Era ancora buona! »
« ...Calma, guys. Abbiamo abbastanza soldi per comprarcene una decina, qui, no? Che motivo c'è di incazzarsi così tanto? »
Ribattè il castano, con un sorriso sornione, mentre stringeva il sacchetto contentenente il gruzzolo di denaro che si era guadagnato insieme ai compagni.
« Abee ha ragione, calmati! Con quelli ci compreremo anche le sigarette! E se la cassiera penserà che sono soldi sporchi...il mio coltellaccio sarà utile! »
Il tutto fu seguito da una pacca sulla schiena data dal più grassoccio, che guardava Boyce con un sorriso paffuto e soddisfatto, ma non per questo conteneva qualcosa di buono. 
Il più alto incrociò le braccia al petto, acconsentendo a quell'idea con una risata sguaiata. 

Uno, due, tre. Contò il killer, ben nascosto tra i due cassonetti della spazzatura. Erano in tre, uno di loro avevano dei soldi, e magari erano anche armati, visto che il più alto aveva accennato ad un certo "coltellaccio".
Tutto poteva volgere a suo favore, se fosse riuscito a fare le cose per bene. "Come on, Jeff." si ripeteva in mente "Ora o mai più, è il classico trio di stronzetti bulli.".
A sinistra, lo sbocco del vicolo da cui era entrato. A destra, le alte mura di un grattacielo a chiudere quella che poteva essere una via di scampo. Perfetto.
Il largo sorriso del corvino si fece grande, ed i suoi squarci rossi si allargarono fino a scoprire la perfetta dentatura. Doveva solo aspettare.
Boyce, dopo aver fatto ripetute battutine sulla corporatura di Dean, si stava avviando verso l'entrata del vicolo, congedandosi con un "Un attimo, devo scaricare la birra.". Era diretto verso i cassonetti, mentre i due compagni, se la ridevano scherzosamente, accendendosi una sigaretta nell'attesa.
Il ragazzo più alto, si fermò proprio davanti a quello spazio abbastanza grande da farci entrare una persona, portando le mani sul cavallo dei jeans per sbottonarli, senza neanche chinare lo sguardo, troppo concentrato su qualcosa di invisibile sul muro ed il pensiero di dover liberare la vescica.
Quello che comparve proprio davanti alla faccia del killer, gli fece borbottare uno schietto e sincero commento.

« Giuro, il mio è decisamente più grosso. »

Commentò qualcuno sotto di lui. Quando chinò lo sguardo, ciò che vide fu...raccapricciante. Boyce spalancò gli occhi contornati dalle occhiaie, sentendo il suo sangue come congelato all'interno delle vene. 
La bocca si mosse ripetutamente, rilasciando degli ansiti interrotti dalla paura, dal terrore...dallo sbigottimento. Non capiva cos'era, non sapeva se quella cosa ai suoi piedi, rannicchiata lì come se fosse il diavolo stesso ad aspettarti, fosse umana o meno. 
Era la cosa più ripugnante che avesse mai visto in tutti i suoi vent'anni di vita. Sentiva che se non fosse morto aggredito, da un momento all'altro sarebbe morto di crepacuore. 
Trovò la forza di sputar fuori quello che in quel momento stava pensando, fremendo di terrore, mentre fece il gesto di afferrare qualcosa nei suoi pantaloni, molto probabilmente il coltello.

« ...E TU COSA CAZZO SE--!?! »

Un grido agghiacciante rimbombò nel vicolo, e subito giunse alle orecchie degli altri due, che si voltarono di scatto in direzione del suono. Il compagno era scomparso. Eppure, erano più che sicuri di averlo visto lì fermo davanti ai cassonetti, fino a qualche secondo fa.
Quell'urlo fu raccapricciante, in particolare per Dean, che era rimasto immobile sul posto, con la sigaretta accesa che gli pendeva dalle labbra, ma che per la presa poco salda, cadde miseramente sull'asfalto. 
Abee, stava fissando il punto in cui Boyce era scomparso, senza proferir parola. Passò un lungo attimo, prima che i due tornassero a guardarsi direttamente in faccia, seppur incosapevoli di ciò che era appena successo.
Avevano sentito quel grido, e poi...il nulla. Non c'era traccia di niente, solo il lungo vicolo che portava fuori in città, silenzioso, con loro due presenti.
« ...A-Abee...ha--hai sentito? »
« Porca puttana, Dean, non sono mica sordo! Si che ho sentito! »
La voce del più robusto era rotta dallo spavento, mentre quella dell'altro era più sicura, ma carica d'ansia... tanto che dovette deglutire per riprendere la calma, cosa che non riprese affatto, invece.
« Va a vedere. »
« ...Perchè io!? »
« Perché sono il capo, e tu devi andare a vedere per dirmi dove cazzo è finito Boyce. »
Dean serrò le labbra, spiazzato dalle parole del compagno. Senza pronunciare un'altra parola, diede prima un passo, poi un altro, verso il punto in cui il compagno era letteralmente sparito senza lasciare una singola traccia. Le grida di Boyce, inoltre, erano state coperte dal clacson delle auto che si facevano sempre più numerose, lì fuori.
Camminava a tentoni, rischiando di inciampare un paio di volte, cosa che fece sghignazzare Abee, divertito, ma allo stesso tempo in ansia. Comunque, era certamente più sicuro che non fosse successo nulla di grave, che magari Boyce fosse andato a farsi un giretto, solitamente era Dean quello sempre terrorizzato dalle storielle che leggeva sui giornali. Ne parlava anche in continuazione, quando se ne presentava l'occasione. L'ultima che i tre avevano letto, era quella di un serial killer dal volto sfigurato, ancora a piede libero poiché era riuscito ad evadere dal carcere. Ma lui era un tipo che difficilmente credeva al fatto che sarebbe stato una sua potenziale vittima.
Perché doveva capitare proprio a lui, insomma? Era questo che il castano diceva ai compagni, quando leggeva di certe cose.
Mentre era assorto nei pensieri, un secondo grido spezzò quella sua linea di pensieri, facendolo girare con tutto il corpo verso quella direzione.
Dean era steso a terra, con il corpo di Boyce addosso, che gridava in preda al terrore verso quella cosa che si stava fiondando su di lui con un coltello di medie dimensioni.

« ABEE! AIUTAMI! BOYCE! LA FACCIA...!! ABEE!! »

Strabuzzò gli occhi, paralizzandosi a quella vista. Il compagno era stato scaraventato contro il muro da quella cosa, con una potenza inaudita: probabilmente gli aveva rotto un osso. Adesso stava piantando ripetutamente il coltello dell'addome di Dean, che gridava in modo straziante.
Le coltellate erano ripetute e precise, sembrava quasi che quell'essere disumano sapesse dove colpire e come colpire.
La morte di Dean, fu quasi istantanea e piena di dolore fisico e mentale. Ad Abee gli si era come paralizzato il corpo, mai aveva visto una scena talmente violenta, così brutale da risultare quasi irreale. Sotto gli occhi di quella cosa nell'ombra, il compagno, doveva sicuramente avere il valore di una pezza, di un fantoccio da infilzare e colpire dove si voleva, fino a fargli esalare l'ultimo respiro nella sofferenza più grande.
Il ragazzo indietreggiò, barcollando incredulo e sconvolto, mentre, dando un'occhiata a quello che sembrava Boyce, inerme sull'asfalto e con il viso voltato verso di lui, pareva avere due grosse cicatrici accanto alle labbra ed un taglio profondo sul collo, da cui sgorgava ancora del sangue fresco.
I suoi compagni erano morti. 
Quella cosa li aveva uccisi. 
Era andata così, e molto probabilmente, per lui non sarebbe andata in modo diverso, adesso che riuscì a notare che quella cosa si era alzata tranquilla, con disinvoltura, e che adesso si stava avvicinando pericolosamente a lui, con movenze lente ed una risatina raccapricciante che rimbombava nel vicoletto. 

« ...Che...cazzo...sei...cosa...vuoi... »

Abee assottigliò lo sguardo, ed un lampo gli attraversò la mente. Quella notizia che aveva letto sul giornale quella stessa mattina: "Un serial killer con il volto sfigurato, circola a piede libero a New York."
Fu in quel momento che capì di avere davanti quella stessa persona di cui il giornale e la gente parlava tanto. Il viso tumefatto, la violenza con cui aveva fatto fuori i suoi compagni senza la minima traccia di sentimento umano, né pensiero razionale delle cose. Si sentiva scioccato, sconvolto...segnato, finito. Morto.
Tanto, che riuscì perfino a mormorare...

«...Jeff...The killer...esiste...»

...Il suo nomignolo, in un flebile mormorio appena udibile, se non da vicino. Per Jeff non fu un problema, perché adesso si trovava ad un soffio dal viso del ragazzo, paralizzato dalla vista di quel volto bianco, quelle grosse cicatrici rosse e quegli occhi privi di palpebre, che sembravano scavargli direttamente nell'anima.
Poteva sentire il respiro gelido del killer sulla pelle, vedere le iridi scolorite, precedentemente azzurre, al punto d'esser diventate quasi bianche. Se non fosse così pericolosamente vicino, avrebbe giurato che quella cosa, non avesse nemmeno le iridi, oltre le palpebre, soltanto due piccoli punti neri a segnargli la direzione dello sguardo. Sfortunatamente, la cosa su cui quello sguardo era puntato, era proprio lui.

« Ma come siamo perspicaci, ehh, Abee? Lo sai, il tuo amico aveva un pisello da far schifo, così ho pensato di poter rendere bellissima almeno la sua faccia. »

Tant'era la paura, che non riuscì nemmeno a controbattere, alla sfacciatagine di quelle parole, né a rispondergli in modo chiaro e preciso, ma solo con lettere saltate e la voce balbettante.

« Per non parlare di quell'altro...Dean, right? Ahh, la chirurgia plastica non sarebbe bastata, ho lasciato perdere...e l'ho fatto passare a miglior vita. Sono stato così gentile, ehe? Oh, che c'è? Il gatto ti ha mangiato la lingua? Vuoi farmi dare un'occhiata? »

Il killer avvicinò una mano al volto del ragazzo tremante, con le lacrime agli occhi che non si sarebbe mai sognato di avere davanti a qualcuno. Era sempre stato il capo dei tre, e mai avrebbe pensato di poter provare la paura.
Jeff, premette sulle guance chiare di Abee, con pollice ed indice, forzandolo ad aprire la bocca. Gli fece scoprire i denti, e la lingua si muoveva a tratti, come se stesse cercando di farla muovere per dire qualcosa, ma il respiro era mozzato dal trauma di quel volto. 
Jeff lo osservò a lungo, piegando il volto corvino sul lato destro, come un medico che stava cercando di valutare la situazione delle tonsille infiammate di un suo paziente. Tenendo saldamente il manico del proprio coltello, lo avvicinò alla bocca della vittima, ticchettando grezzamente la lama sul labbro di quest'ultima, che accusò il dolore, lamentandosi.
A Jeff scappò un flebile sogghigno.

« Guarda, guarda...questa lingua deve avere seri problemi. Che dici, la togliamo? »

Il castano spalancò gli occhi, preso dal terrore, e con un sussulto, quasi simile ad un grido rimastogli in gola, cercò di spingersi avanti per sovrastare il killer, che prontamente, lo afferrò saldamente alla gola, sbattendolo con violenza contro il muro.
Aveva una forza sovraumana. Quella cosa /non era/ umana. 
Seccato da quella reazione, il killer, senza né preavviso né annuncio, pianto la punta del coltello nella lingua del ragazzo, che sentì un forte bruciore sul punto colpito e al palato. Ora le sue grida erano buttate fuori a tratti, più preso da quel dolore, che dal volto di Jeff, che lo fissava insistentemente, godendo di quell'atto tanto brutale, a cui lui stesso aveva dato il via.
Imitò il gesto di creare una linea retta sulla lingua del castano, da cui vide sgorgare del sangue scuro e liquido, decisamente più fluido di quello che fuoriusciva dalle semplici ferite su pelle. La sostanza colò lungo il mento del ragazzo ormai inerme per il dolore, con gli occhi sgranati e fissi al cielo, come ad invocare chissà quale santo per aiutarlo.

« Ho notato che parli troppo, lo sai? Con il tuo parlare, hai condotto il tuo caro amichetto verso una morte lenta e dolorosa...devi essere sicuramente una persona molto leale, molto sincera...o forse tanto...bugiarda. »

Fu dopo quelle parole, che il ragazzo, ancora con gli occhi rivolti verso il cielo, si sentì colpito all'altezza dello stomaco, con una forza tale da penetrare la carne con una sola botta. Solo il manico del coltello poteva essere ancora visto, seppur sporco di sangue colante, dopo un grosso spruzzo del liquido rossastro che andò a sporcare gli indumenti del serial killer.
Quest'ultimo, si avvicinò all'orecchio della vittima, ormai priva anche di lingua, oltre ad avere la lama intera di un coltello piantato nello stomaco.
Quando fu con la bocca accanto a quella parte del capo, vi sussurrò sopra, con voce lenta e penetrante:

« ...Ed io odio i bugiardi. Go to sleep... and never wake up again... Abee. »

E tirò fuori la lama del coltello con uno scatto secco, puntando gli occhi sulla vittima, che cadde a terra con un tonfo sordo.
Lì sull'asfalto, si formò una terza pozza di sangue in poco tempo, che portò l'ultimo ragazzo ad un'altra morte lenta, e probabilmente, più dolorosa delle precedenti.
Jeff rispose a quella reazione, con un largo sorriso, spalancando le braccia in un gesto fiero e soddisfatto. Aveva il cuore a mille per la felicità. La sensazione di tornare ad uccidere in libertà, era...perfetta. 
Non prestò particolare attenzione al suono delle sirene in lontananza, perché in quel momento, stava semplicemente pensando al fatto che quelli erano solo tre corpi. Tre corpi contati in una sola giornata, e che ne avrebbe contati altri dieci, venti, trenta, forse cinquanta...

« ...E questo finchè sarò fottutamente libero! »

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Capitolo 5
*** Cap. 5 ***


Twisting and turning,
unable to sleep.
Do the voices ever stop?


Bruciava. Bruciava da morire. Faceva male, un male così forte da togliermi il fiato. Era un dolore acuto, le grida mi morivano in gola. Le fiamme mi divoravano molto più che solo all’esterno, come la gente credeva nel vederni. Mordevano, tiravano e strappavano dentro, spezzavano ciò che era rimasto di quel me innocente, di quello splendore che ero una volta.

My thoughts speak louder,
the more I resist.


Lo sentivo sulla pelle. Sentivo colare il sangue lungo il profilo del mento, scorreva caldo e diretto verso il basso. La mia stretta sul coltello era salda, ferrea. L’incisione decisa, sicura, con una tale precisione da risultare quasi irreale. Le lacrime salate che si mescolavano al sapore e all’odore del liquido rosso.

And they’re driving me insane.
Do they ever go?


Non avvertivo più il peso delle palpebre, né quel senso di stanchezza che prende all’improvviso. I miei occhi aperti per sempre, su un mondo a cui sarei appartenuto fino alla fine dei miei giorni. Spalancati sulla gabbia in cui sarei rimasto rinchiuso a vita, dove non avrei mai conosciuto la mia vera libertà. No, io non sarei mai stato libero davvero. Era la mia gabbia. Io ero prigioniero della mia mente. Ero e sarò sempre prigioniero del mio stesso inferno.




Inside, I’m a danger to myself!
I’m a danger to myself!
Inside, I’m a prisoner of my own hell!

My own hell!
 
 
 
 
Tre giorni.
Tre lunghi giorni passati in strada. Il mio terzo giorno di fuga, l’ennesimo tentativo fallito. Erano tre giorni che tentavo la fuga da New York, ma senza alcun risultato soddisfacente. Le strade mi sembravano tutte uguali, i grattacieli troppo alti per vedere cosa c’era dall’altra parte, le vie troppo affollate ed il caos generale del traffico. Le luci abbaglianti dei locali, degli enormi avvisi pubblicitari affissi ai muri degli edifici e i lampioni che illuminavano di varie sfumature chiare quella città che viveva di notte.
Strappai i  mille pezzi i grossi fogli di carta stampata che tenevo nervosamente tra le mani, gettando in direzione di un cassonetto vicino a me i resti del giornale che avevo trovato su una panchina. Parlava dei tre ragazzi che avevo ucciso poco tempo fa e delle vittime che avevo messo a tacere per sempre all’interno delle loro stesse camere da letto. La notizia che ero lì si stava diffondendo velocemente, forse troppo velocemente, ma potevo ritenermi soddisfatto, poiché ero a quota sette.
Avevo fatto già sette vittime a New York, in soli tre giorni di fila. L’unica cosa che mi preoccupava davvero, che mi teneva ancora lo stomaco come annodato, inchiodato ad essa, erano i piani dell’agente che avevo visto in volto prima di lanciarmi nel vuoto. Sentivo che la mia vera nemica era lei, e non mi sarei dato pace fino al giorno in cui non l’avrei trovata e messa a dormire per sempre.
Era lei che dovevo cercare, lei che mi intralciava la strada e lei che dovevo far fuori prima dello scadere del tempo. Aveva un senso della giustizia così forte da farmi sentire la nausea. Ringhiai sonoramente al pensiero, gettando il mozzicone dell’ultima sigaretta che mi era rimasta, proveniente dal pacchetto che avevo recuperato da uno di quei tre idioti che avevo fatto fuori tre giorni fa.
Era seccante, dannatamente seccante trovarsi in un luogo così grande, così sconosciuto, senza sapere dove andare, e con un buco nella pancia per via della fame. Non potevo andare avanti in quel modo, avrei dovuto trovare del cibo decente, invece che recuperarlo dalla spazzatura. Ah, cosa mi toccava fare per tirare avanti.
Fortunatamente, la notte era vicina, e di conseguenza, potevo finalmente divertirmi con qualcuno. Già che c’ero, mi ronzava in testa l’idea di rubare del cibo dopo aver fatto fuori la mia prossima vittima, ed in questo modo, avrei preso due piccioni con una fava. Si, ero decisamente un genio, e la cosa mi faceva sorridere soddisfatto. Tornando alla realtà, mi decisi a darmi una mossa, affacciandomi finalmente dal quartiere in cui mi ero rintanato.
Le luci fioche dei lampioni illuminavano la stradina davanti a me, il tutto contornato da vari cortili recintati bellamente, e case moderne che davano l’idea che lì ci fosse della gente piuttosto ricca. Tanto meglio per me, avrei avuto cibo e soldi, anche se della seconda non me ne facevo assolutamente niente.
Decisi che finalmente era tempo di poter rimettere la mia amata felpa, che avevo tenuto per giorni all’interno del sacco che avevo trovato in quella vecchia baracca abbandonata, nel bosco. L’avevo tenuto con me tutto il tempo, anche se di tanto in tanto, lo lasciavo lì dietro al cassettone, poiché quella era diventata la zona in cui mi nascondevo dagli occhi indiscreti della gente.
Tornai indietro, per recuperare ciò che c’era all’interno del sacco, sostituendo finalmente ciò cha avevo addosso con i miei indumenti ufficiali. Passato tutto il tempo necessario per asciugarsi dopo quel giorno di pioggia,  l’unica cosa che mi dispiacque, fu notare che le macchie rosse si erano scolorite, lasciando posto al colore quasi naturale della felpa.
Sbuffai per disapprovazione, ma sapevo che presto avrei rimediato. Afferrai solo il manico del coltello che avevo preso alla mia prima vittima di New York, quello a cui avevo inciso uno splendido sorriso, prima di lanciare via il sacco, ormai inutile, e di avviarmi verso la strada.

Da chi cominciare? Quale casa scegliere? Su cosa o chi puntare? Ero stranamente indeciso, ma fatto sta che la mia linea di pensiero venne interrotta da…una risata? No, due risate. Divertite e sconnesse, ogni tanto cambiavano tono, ma non riuscivo a capire cosa dicessero da così lontano.
Mi guardai intorno, individuando con lo sguardo una stradina stretta e buia, priva di luci, se non una sola che sembrava illuminare il tutto con scarso successo. Sembravano provenire da lì, e la curiosità mi spinse a proseguire verso quella via, ma di certo senza abbassare la guardia. Non potevo sapere se lì dietro ci fosse qualcuno ancor più pazzo di me, qualcuno pronto a piombarmi addosso e a farmi fuori, oppure a catturarmi e a consegnarmi di nuovo a quei cani bastardi. Svoltai l’angolo, stavolta le voci si fecero più nitide, le risate più chiare. Chiunque fosse, sembrava divertirsi parecchio. Che diamine era, una specie di party hard segreto?

« Sta ferma, dai! Guarda che così non possiamo fare niente! »
« Haha, certo che è proprio carina, vero? Non potevamo trovare di meglio a quest’ora. »

Scossi la testa, confuso. Non sembrava ciò che avevo pensato stupidamente in precedenza, ma di certo lì c’era qualcuno poco contento di partecipare a quello che avevo considerato un “party”.
Mi chinai dietro un vecchio mobile usato, abbandonato lì, ed anche se puzzava tremendamente d’urina e la cosa mi faceva a dir poco schifo, la curiosità fu tale da farmi ignorare quella spiacevole situazione. Posai gli occhi su due figure maschili…no, tre, ma l’altra sembrava decisamente più piccola, non mi ricordava un uomo. Si dimenava, scalciava, tentava di liberarsi dalla presa di uno dei due.
Non capivo.

« Lasciatemi…stare…vi prego! »
« Lasciarti stare? Non so tu Deuce, ma la ragazzina qui ha dei problemi se la fa così facile. »

Un’altra risata di quelle seriamente poco di buono, venne sputata fuori da entrambi quelli che mi parevano due ragazzi. Sembravano avere su per giù una ventina d’anni, dalla statura, ma il resto mi era sconosciuto. Non vedevo molto al buio, nonostante la mia abitudine. Forse era la fame, forse la stanchezza.
Un gemito simile ad un lamento mi fece drizzare il capo corvino e sgranare gli occhi per il leggero sussulto avuto, notando che uno dei due stava tentando di strappare via i jeans di quella ragazza nell’ombra, sovrastata da entrambi.
Singhiozzava e si lamentava, riusciva a parlare poco, probabilmente perché una delle due presenze le copriva la bocca con qualcosa. Parlava solo a tratti, e quel poco che poteva, lo faceva con il fiatone. Adesso era evidente il fatto che si trattasse di uno stupro, ne leggevo di svariate notizie su questi casi: Non era affar mio. Mi voltai contrariato, facendo un passo avanti per allontanarmi dal posto.
Non era affar mio. Non mi riguardava.

« Aiuto! Aiutatemi…! Lasciatemi stare, vi prego! »

Un altro passo, ed un altro ancora, quando sentì la stoffa di qualche indumento strapparsi violentemente. La voce di quella ragazza disperata mi rimbombava in testa. Non mi riguardava, non era affar mio. Io la gente la uccidevo…non la salvavo.
Altre risate si facevano spazio alle mie spalle, rimbombavano in quella stradina abbandonata, chiusa da un angolo cieco.
Sentivo il pianto basso e disperato di quella persona, così diverso da quelle risate divertite. Provavano piacere nel sentire il dolore di quella ragazza, piacere nel vederla in quello stato pietoso, ed io…
Cosa provavo, io? Cosa avrebbe provato una persona normale, nella mia situazione? Che cosa avrebbe fatto? Chiamerebbe la polizia? Andrebbe lì a fermarli? Griderebbe “aiuto!” senza risolvere nulla, perché verrebbe presa anche lei? Sarebbe scappata a gambe levate? Si sarebbe veramente allontanata senza provare niente? Come stavo facendo io?

« …AIUTO!! »

Sgranai gli occhi chiari, e con un gesto deciso e fulmineo afferrai il manico del coltello, voltandomi e strusciando violentemente le scarpe contro l’asfalto, producendo un rumore di sbandata contro le pietre.
“Uccidili. Uccidili! LASCIA CHE LI UCCIDA TUTTI!”
Mi lanciai in una corsa violenta, raggiungendo in un attimo, come un lampo, quelle due figure. Ciò che vidi furono solo ombre. Ombre che si voltarono verso di me, quelle risate trasformate in grida.
Sapevo che stavo sorridendo, perché solo io potevo farlo in quel momento. NESSUNO doveva permettersi di ridere di gioia o di divertimento, se c’ero io. Io soltanto era l’unico che poteva farlo, solo io potevo ridere della loro disperazione. Io soltanto potevo concedermi tanto, in una fase tanto dolorosa e rapida, come la morte che concedevo ad ogni mia vittima.
Mi scagliai con forza brutale contro il primo, avvertendo un tonfo sordo sotto di me. Alzai il coltello, tenendone il manico con entrambe le mani, prima di udire qualcosa, forse un altro di quei tanti “aiuto”. Si, era questo che volevo. La gente doveva gridare aiuto per me, PER ME! Non doveva ridere in mia presenza, doveva disperarsi e chiamare aiuto! Ogni singola, fottuta persona che incrociava il mio cammino doveva…morire! Tutti dovevano morire!
“LASCIA CHE LI UCCIDA TUTTI! UCCIDILI TUTTI!”
Piantai con violenza il coltello in ciò che doveva essere il torace della mia vittima, ripetutamente, ringhiando a denti serrati. Sorridevo, ma provavo rabbia. La rabbia, il nervosismo scatenato da quelle risate che avevo ascoltato fino ad un minuto fa. Sentivo la lama che squarciava, tagliava e sminuzzava la carne sotto di me, grida acute alle mie spalle, il sangue che mi macchiava di nuovo la felpa bianca, ormai pezzata di un rosso scuro ed evidente. L’odore di quella sostanza che mi invadeva le narici, l’udito che ogni volta, in quei momenti, andava a rallentatore, privandomi della possibilità di ascoltare ciò che c’era veramente intorno a me.
Mi voltai verso la seconda figura che gridava nell’ombra, lanciandomi contro di essa. La vidi fuggire, ma non l’avrei permesso. Nessuno sarebbe mai fuggito da me. Loro dovevano morire, dovevano morire tutti. Dal primo all’ultimo.
Lo inseguì fino a quel vecchio mobile dov’ero nascosto prima, ed approfittando del fatto che stava inciampando, probabilmente per la troppa paura, mi lanciai su di lui, riuscendo ad afferrare un lembo dei pantaloni, all’altezza del polpaccio. Caddi a terra, battendo il petto, ma in quel momento non sentivo neanche il dolore.
Il cuore mi rimbombava dentro all’impazzata, il respiro voleva uscire fuori, come se il mio corpo non potesse più contenerlo regolarmente.
Tirai verso di me quel pezzo di stoffa, e vidi cadere in avanti, automaticamente, quella figura nera. Sentì un altro urlo, un grido di disperazione, un “lasciami, bastardo!” che riuscì ad arrivarmi alle orecchie per poco. Condussi nuovamente in alto il coltello, piantandolo nella parte più vicina al mio volto, probabilmente la coscia. Avvertivo di nuovo l’odore del sangue, potevo sentirne il sapore, poiché era letteralmente schizzato da quella parte troppo vicina al mio volto. Ringhiai ancora, stavolta più forte, come un cane randagio che proteggeva la carcassa di qualche animale appena ucciso per divorarla da solo.
Risalì in avanti, sentendomi afferrare il ciuffo di capelli neri sul volto, con forza e decisione. Le grida acute mi rimbombavano in testa, e né il gesto che sentivo addosso né quelle, sarebbero bastate a fermarmi. Estrassi il coltello dal pezzo di carne da cui sgorgava copiosamente del sangue, ripiantandolo alla cieca. Colpì miseramente l’asfalto, potevo capirlo dal rumore metallico prodotto dalla lama della mia arma. Mi sentì colpire al fianco sinistro, da ciò che doveva essere la gamba sana di quel fottuto serpente che insisteva nello strisciare fin troppo.
No, non sentivo dolore. Non l’avrei provato, in quel momento. Non avvertivo niente…niente. Niente poteva scalfirmi, niente l’avrebbe mai fatto.
Tirai in alto il coltello, ancora una volta, e per un attimo mi parve di vedere qualcosa. Così, affondai la lama dritta dello stomaco della mia vittima, quando la vista ritornò come assente. Non vedevo nulla, c’erano solo grida nella mia testa, che rimbombavano. Potevo sentire su pelle il dolore del mio avversario, ma non del mio per quel calcio al fianco. Non era il momento di ricevere dolore, quello era il momento di darlo. Più forte, più intenso, doveva sentirsi fin dentro le ossa.
Piantai il coltello alla stessa altezza del punto colpito in precedenza, una, due, tre, forse arrivando ad otto volte, nello stomaco della figura sottostante. La presa sui miei capelli divenne debole, talmente debole che fu totalmente annullata.
Ansimai forte, e lentamente, tutto si fece più chiaro. C’era un ragazzo morto, lì davanti a me, e quando spostai lo sguardo, ne vidi un altro poco distante. Li avevo uccisi, li avevo uccisi entrambi, e non sentivo più quella voce nella testa che mi ordinava ripetutamente di farlo. Era scomparsa, sparita totalmente, come una nottata di tempesta che andava a dissolversi per lasciar posto al tempo sereno. Ritirai il coltello da quella che ormai era una futile carcassa umana, agitandolo appena per levare via il sangue in eccesso.
Perché l’avevo fatto? Perché così di colpo? Non doveva riguardarmi, eppure l’avevo fatto. Potevo evitare, non erano a letto per andare a dormire, né mi avevano minacciato o dato fastidio, né avevano commentato il mio meraviglioso aspetto. Perché l’avevo fatto? Che motivo avevo di farlo?

« Cosa…cosa…sei…tu…? »

Una voce leggera, spezzata forse dal pianto, giunse alle mie orecchie, distruggendo quelli che erano i miei pensieri finalmente regolari. Quando voltai lo sguardo, ciò che vidi, fu quella ragazza, conciata così male da far pena. No, non avrebbe fatto pena a me, io l’avevo fatto solo perché…perché l’avevo fatto?
Ah, fanculo! Non importava, dovevo uccidere anche lei. Lei era di troppo, non potevo permettermi di lasciarla in vita, avrebbe rivelato tutto alla polizia e sarei finito di nuovo in quella stanza maledetta, preso a sprangate e torturato con quegli aggeggi elettrici. Mi leccai uno degli squarci, emettendo un verso di disappunto per quella vita ancora lì presente, avvicinandomi minacciosamente a lei, come un lupo intorno ad un indifeso agnello.
Quando la raggiunsi, la vidi a terra. Si stringeva nelle spalle, mi guardava nell’ombra, con due grandi occhi verdi che riflettevano anche sotto la scarsa illuminazione di un lampione rotto. Mi chinai sulle ginocchia per guardarla, e notai che lei non si tirò indietro, ma al contrario, si spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, ancora con gli occhi bagnati di lacrime. Avevo il coltello in mano, puntato verso di lei, ma non sembrò accusare gravemente del gesto.
Tremava, si vedeva da come il suo corpo fremeva contro il muro freddo e da come il suo respiro fosse ormai così irregolare. Era spaventata, ma…non da me. Come faceva a non essere spaventata da me? Mi aveva visto, li avevo uccisi entrambi sotto i suoi occhi, non era possibile! Come? Come diavolo faceva a…!?

« Mi hai…salvato…la vita…? Chi sei…tu? »

…Cosa? Che cazzo andava a pensare!? Certo che no, di lì a poco l’avrei tolta anche a lei, quella che chiamava “vita”. Non le avevo salvato la vita, né sapevo perché avevo agito in quel modo, ma non le avevo salvato la vita. Un killer non salva, un killer ammazza. Un killer non mette speranze, un killer le strappa via senza farsi troppi problemi. Scossi violentemente il capo, rigirando il coltello nella mano destra.
Avvicinai la punta della lama al suo volto rovinato dalla polvere e dalle lacrime, ampliando il mio sorriso, come per farle timore.

« Io sono Jeff. Conosciuto come Jeff the killer. Killer. Ti pare che un killer possa salvare qualcuno? »

Mi guardò per un lungo attimo. Sembrava…confusa, disorientata, pareva non capire cosa volevo dirle. Cos’era, ritardata? Cosa c’era da capire nella parola “killer”?! La vidi inclinare il capo su di un lato, e per un attimo parve…sorridere. Stava sorridendo? Sorrideva…a me? Perché a me? Non capiva che la sua vita era appesa ad un filo, dannazione?

« Sei…il mio eroe… »

…Non potevo crederci. Che cazzo le avevano dato quei due, della droga!? Feci per rispondere, ma ancora una volta, per la terza notte, il suono delle sirene rimbombava nell’aria. Probabilmente, i vicini nel quartiere avevano chiamato quei maledetti bastardi per il troppo casino. Sbuffai appena, posando poi lo sguardo sulla ragazza. Mi fissava con gli occhi socchiusi, ancora lucidi per via delle lacrime, e con quel leggero, maledetto sorriso che non voleva sparire dalle sue labbra.
Perché mi guardava così? Una persona che uccide senza pietà non può essere considerata un eroe.
Quasi mi venne da domandarmi se sarebbe sopravvissuta, lì da sola, in un posto come quello. Non capivo perché lo pensavo, non m’importava di lei, eppure…

« Io ti…io ti ho già visto…tu sei…il ragazzo del parco…»

Sgranai gli occhi chiari, puntandoli su quelli verdi della ragazza. Gli occhi verdi…quegli occhi verdi. Era lei? Possibile? La stessa ragazza che mi aveva guardato in faccia al parco? Quel sorriso…lo stesso sorriso che mi aveva rivolto in quel posto, dopo avermi guardato per tanto tempo, senza accennare un singolo segno di disgusto, se non quella che sembrava pura ed innocente sincerità?
Indietreggiai appena, come afferrato da qualcosa che voleva portarmi via. C’era qualcosa che non tornava. Perché…perché non riuscivo a reagire? Perché non le piombavo addosso per ucciderla con tutta la facilità del mondo, come avevo fatto con quei due? Perché…!?
Mi alzai in piedi per andare via, ma qualcosa mi afferrò un lembo della felpa. Mi voltai, e rividi il suo volto. Era lei, che tentava disperatamente di tirarsi in piedi, muovendo le labbra e pronunciando qualcosa del tipo “…a casa” o “con me”, oppure “ti aiuterò”. Non avevo bisogno d’aiuto, ma quel rumore di serene impazzite mi preoccupava. Cercava un sostegno, un sostegno che…le diedi. Stavo agendo in un modo totalmente sbagliato. Era come se le stessi offrendo il mio aiuto, lasciando che si appoggiasse a me. Il suono delle sirene si faceva sempre più forte, ed io non potevo perdere tempo.
Mi chinai appena, tentando di caricarmela sulle spalle, prima di lanciarmi in una delle tante corse della mia vita, solo…con un peso in più. Uno strano, inutile peso in più, che mai mi sarei aspettato di portare addosso.
Perché lo stavo facendo?
Non era affar mio, non mi riguardava.
Un killer uccide, non salva
.




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Grazie per essere arrivati fino a questo punto della storia! Qui è l'autrice. Allora, come avrete notato, non ho pubblicato capitoli per un bel po' di tempo, per motivi personali, che fortunatamente si stanno risolvendo. Dunque, oggi sono felice di poter pubblicare questo quinto capitolo della storia, che non ho intenzione di abbandonare. In caso vogliate sapere il titolo della canzone messa all'inizio, è "My own hell", dei "Five finger death punch", una delle canzoni che trovo fin troppo perfette per il serial killer in questione.
Spero semplicemente che questa seconda parte più movimentata vi sia piaciuta! Pare proprio che adesso ci sia una nuova presenza nella vita di Jeff the killer, che gli tornerà utile...oppure altro! Al prossimo capitolo! ;)

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Capitolo 6
*** Cap. 6 ***


Non riuscivo a capacitarmene. Perché mi ero buttato in un casino del genere? Ero alle prese con quel peso sulla schiena, che continuavo a trascinare nella mia folle corsa. Avevo la polizia alle calcagna, potevo sentirne la vicinanza dal suono delle sirene, vedere le sfumature di blu e rosso che si estendevano sulle mura delle abitazioni oltre i vicoli in cui cercavo una via di fuga.
Non avevo nemmeno una meta, il mio unico scopo era quello di correre finché non avrei trovato un nascondiglio decente. Sapevo soltanto che non volevo farmi prendere una seconda volta, non volevo tornare in quel posto, dove l’unica cosa che sapevano fare era farmi pressione psicologica e fisica, tentare di smantellare il mio orgoglio fino all’ultimo pezzo.
Con quelle loro domande, i loro aggeggi maledetti che utilizzavano per la tortura dei detenuti, o dovrei dire detenuto, visto che l’unico in questione a cui avevano riservato trattamenti speciali ero soltanto io. Quelle bende che mi oscuravano la vista, che mi impedivano di aprir bocca, nascondendo il mio splendido sorriso. No, nessuno poteva impedirmi di sorridere, io dovevo sorridere per sempre. Per sempre. Non potevo concedere a quei dannati bastardi di chiudermi la bocca tanto facilmente, né a loro né a quella donna…
Ecco perché. Forse era quello il motivo per cui mi stavo lanciando in così tanti casini: sfruttare ciò che avevo a disposizione per arrivare a lei ed ucciderla, per compiere la mia grande vendetta. Era colpa di quella donna se mi trovavo in quel guaio più grande di me.
Ho un vago ricordo della notte in cui era riuscita a prendermi, molto probabilmente non avevo controllo di me stesso, sia fisicamente che mentalmente. Ho sempre tentato metodi estremi per non finire dietro le sbarre, per evitare di morire, perché io non voglio morire. Io mi rifiuto categoricamente di morire. Sono gli altri a dover morire, non io.
Perso nei pensieri, non mi accorsi di essere arrivato ad un incrocio stradale. C’erano quattro strade: quella da cui provenivo, una a destra, una a sinistra e quella davanti a me. Non sapevo quale prendere, ero indeciso, dunque mi guardai freneticamente intorno. Le strade di quel quartiere erano vuote, a quell’ora, quindi non avevo il rimbombo dei clacson nella testa, e di conseguenza potevo concentrarmi su quello delle sirene. Dannazione, dove cazzo dovevo andare!?
Ansimavo nel tentativo di riprendere fiato, sia per lo sforzo di quel peso sulla schiena, che per la corsa fatta fino ad adesso, ponendomi quella domanda in mente. Chissà quanto avevo corso, senza nemmeno rendermene conto. E’ sempre così: l’importante è non farmi prendere, l’importante è non morire.

«A destra…» 

Una debole voce raggiunse le mie orecchie. Era quella ragazza, che nonostante quel che aveva passato, era ancora capace di mormorare qualcosa. Aveva detto a destra. Avrei dovuto fidarmi? Poteva essere una trappola. Magari voleva mandarmi dritto nelle fauci dello squalo. Poteva esserci una pattuglia, a destra, quindi perché dovevo fidarmi di lei?
Strinsi i denti, in un disperato tentativo di scaricare la tensione, ma non avevo tempo per ragionare. Dovevo fare in fretta, quelle mosche erano sempre più vicino, ed io ero lì fermo accanto al semaforo rosso come un perfetto idiota in attesa della morte.

«Ti prego…fidati di me…» 

Improvvisamente, mossi la gamba in avanti, rituffandomi immediatamente in una corsa verso la strada a destra. Non sapevo perché mi stavo fidando di lei, non sapevo perché la stavo portando sulle spalle. Avrei potuto lasciarla lì con i suoi aggressori, farmi gli affari miei e tornarmene sui miei passi! Invece la stavo aiutando, IO stavo aiutando qualcuno a…vivere. No, no, no! La mia testa stava dando i numeri! Peggio del solito, cazzo!
Sospirai durante la corsa, ascoltando il debole suono delle sirene, sempre più lontane. Dovevo essermi allontanato parecchio, per fortuna. Voltai lo sguardo verso la ragazza, incurante del fatto di fargli impressione o meno, standole così vicino.

«Dove andiamo!?» 

Sentivo il suo respiro leggero, mozzato dalla fatica di restare sveglia. Cazzo, non poteva abbandonarmi adesso! La stavo aiutando e voleva ripagarmi così!? Doveva darmi una risposta, o saremmo finiti nei casini entrambi!
Non che m’importi di lei, ma io ci avrei rimesso la pelle!

«C’è una… strettoia, per raggiungere il mio quartiere… vai a sinistra… casa mia è…lì…Sanderson…» 

Smise di parlare, dopo avermi dato un minimo d’informazioni necessarie. Strettoia, a sinistra, casa sua, Sanderson. Perché voleva portarmi a casa sua, adesso!? E chi era Sanderson?! Ed era perfino svenuta! Poco importava, l’avrei portata lì e me ne sarei sbarazzato una volta per tutte, così non avrebbe riferito assolutamente niente dell’accaduto alla polizia. Il mio sorriso si fece largo al pensiero, quindi imboccai la strettoia per raggiungere il prossimo quartiere. Un’altra vittima! Già potevo sentire l’odore ferreo e pungente del sangue, quel meraviglioso liquido rossastro e caldo, che mi macchiava pelle e vestiti, mandandomi letteralmente in paradiso.  D’accordo, paradiso non sarà proprio il termine adatto. Uno come me finirà sicuramente all’inferno. Roteai gli occhi chiari al pensiero, per poi rivolgere l’attenzione alla via che stavo percorrendo. Quella strettoia era buia, puzzava di spazzatura e alla fine di essa potevo notare solo una vasta scia di lampioni, perfettamente allineati su di una strada, contornata da varie case di media grandezza. Era decisamente diverso dal quartiere precedente, poiché quello sembrava una zona da ricconi, e questa da gente nella norma, direi.
Una volta uscito di lì, mi guardai intorno. Probabilmente avevo nuovamente quell’aria da perfetto idiota spaesato. Soffiai su un ciuffo di capelli neri che mi ricadeva sugli occhi privi di palpebre, muovendo prima un passo e poi un altro. Erano tutte case ordinate, luci spente e silenzio tombale. La classica zona americana fuori città, un quartiere tranquillo per la gente comune, un branco di vittime al chiaro di luna per me. Mi tornò in mente il quartiere in cui vivevo con la mia famiglia, era molto simile a quello, tranquillo sotto il punto di vista della gente adulta ma non da quello di un adolescente qual’ero. Per me era solo una zona piena di stronzetti senza un cazzo da fare, se non rompere i coglioni agli altri senza un motivo valido.
Fatto sta che non potevo farmi invadere da quei pensieri al momento, quindi mi soffermai ad osservare i nomi sulle cassette della posta. Ce n’erano di svariati, su alcune più di uno. Beh, in realtà tutte le cassette avevano su inciso più di un nome, non mi aspettavo di certo di poter trovare un singolo mucchietto di lettere, una persona sola e senza compagnia, come una vecchia isolata dal globo inte--E questo? Qui c’era un solo nome.
Sanderson? Ethel Sanderson? Puntai gli occhi sul volto della ragazza appollaiata sulle mie spalle, ormai doloranti dopo tanta fatica. Era lei? Quello era il cognome che aveva citato in precedenza, prima di raggiungere questo posto. Il suo nome mi ricordava quello di un ragazzo, anziché di una ragazza qual’era. Comunque, questa doveva essere casa sua. Mi fermai un attimo a pensare al perché. Perché non c’erano altri nomi, lì? Viveva da sola in una casa così grande? E la sua famiglia dov’era?
Ma perché cazzo mi faccio tutte queste domande, adesso!? Dovevo solo entrare, metterla sul suo letto ed ucciderla a coltellate, senza lasciare alcuna mia traccia. Io ero Jeff the killer, un killer, per l’appunto. Non un eroe.
Doveva avere sicuramente un paio di chiavi, da qualche parte. La posai a terra, davanti alla porta d’entrata. Cercai all’interno delle sue tasche quel che dovevo, riuscendo a recuperare il necessario per intrufolarmi in casa, dando poca importanza al cellulare e al portafogli.
Prima di entrare, osservai i particolari di quella casa: era interamente bianca, con finestre dalle cornici azzurre e dai vetri perfettamente puliti. Una casa grande, con due piani ed un grande giardino all’esterno, decorato con fiori di cui non conoscevo nemmeno il nome. Potevo riconoscere solo le rose rosse e le violette, non ero di certo un grande esperto di giardinaggio. La porta davanti a me era azzurra, proprio come le finestre, con il manico ovale in ottone. Mi decisi ad infilare la chiave nella serratura, girandola verso destra un paio di volte, prima di far pressione sulla porta per poter entrare, riprendendo poi la ragazza sulle spalle. Richiusi l’entrata alle mie spalle, cercando con la mano l’interruttore della luce. Riuscì a trovarlo a tentoni, quindi una chiara luce giallina mi accecò per un attimo. Era da tanto che non entravo in un’abitazione tanto normalmente, probabilmente da quando andavo a scuola. Erano passati anni, ma ricordavo ancora la sensazione di mio fratello accanto che rientrava con me. Posai per un attimo lo sguardo in un punto impreciso del parquet sotto i miei piedi, prima di riprendermi per poter ammirare ciò che c’era intorno a me: Potevo dire che l’arredamento fosse abbastanza classico, ordinato. Un tavolo in legno al centro della stanza, un divano in pelle color crema sulla mia destra, davanti ad esso una tv plasma da trentadue pollici, nera. Poco lontano da quest’ultima, uno scaffale pieno zeppo di libri di vari colori e dimensioni, un orologio a pendolo che produceva un fastidioso “tic tac” ed una riproduzione in miniatura del pianeta, o più precisamente un mappamondo.  Spostando lo sguardo a sinistra, potevo vedere il piano cottura, la lavastoviglie in acciaio, un semplice ripiano che ospitava su di esso una serie di utensili da cucina, posti in un bicchiere in legno, ed un frigorifero bianco.
Potevo dire che fosse una cucina abbastanza accogliente, ma non ero lì per una visita di cortesia. Mi apprestai a raggiungere il corridoio proprio davanti a me, prima di sussultare per…un abbaio. C’era un fottuto cane, lì dentro!? Perfetto, fantastico! Poteva essere peggio di uno dei cani addestrati dalla polizia, che una volta mi addentò un lembo della felpa?! Fortunatamente riuscì a sfuggirgli, ma non fu affatto una bella esperienza. Indietreggiai, preparandomi al peggio.
Nel momento in cui mi fiondai in avanti, pronto ad aggredire l’animale, dall’angolo del corridoio vidi spuntare un piccolo dalmata scodinzolante, pronto a “festeggiare” il mio arrivo in casa.
“…E questo coso da dove arriva?” Il mio primo pensiero, fu quello. Mi aspettavo un cane da guardia di grossa taglia, magari un pastore tedesco, o un rottweiler! Invece mi ritrovo davanti questo coso minuscolo che addirittura mi fa le feste! Scossi la testa, sconvolto, cercando poi di ignorare le sue testate affettuose contro le mie gambe. Era piuttosto docile, ma da un cucciolo cosa potevo aspettarmi? Continuai ad andare avanti, fino a raggiungere le scale, dopo aver superato due stanze chiuse da delle porte in legno, questa volta di un giallo ocra. Salì a tentoni le scale, a tentoni, poiché dovevo sbarazzarmi ogni tanto di quella cosa fastidiosa a chiazze nere che mi faceva da ostacolo. Avrei ucciso anche quel fastidio monocromo ambulante, dannazione!
Finalmente raggiunsi il secondo piano, posando nuovamente le scarpe sul parquet. I muri erano di un arancione molto chiaro, proprio come quelli del piano di sotto. Non amavo quei colori, preferivo il rosso o il nero, decisamente, ma non ero lì nemmeno per curarmi dell’arredamento. Posai gli occhi sulla porta davanti a me, spingendo poi sul manico per aprirla. Avevo raggiunto la camera di quella ragazza, ancora sulle mie spalle. Quella stanza parlava chiaramente di lei: davanti a me potevo vedere una finestra chiusa, contornata da delle tende in seta azzurra, il letto posto accanto all’armadio in legno alla mia destra, su cui giaceva una coperta piuttosto pesante, che ritraeva il tema di una galassia.
Riuscì a scorgere anche un tappeto ovale, bianco, su cui era posato un secondo mappamondo molto più grande di quello al piano di sotto. Una scrivania, sempre in legno, su cui era posto un pc portatile, un paio di grosse cuffie e alcuni cd musicali…e l’ennesimo scaffale di libri. Doveva essere un’appassionata di lettura e delle galassie. Per mia fortuna, il cane si era accucciato accanto al mappamondo, lasciandomi spazio libero per poterla posare sul letto.
Era giunto il momento di farla finita. L’avrei uccisa lì sul posto e sarei andato via, sarei sparito nell’ombra della notte senza alcun problema. Era un momento semplicemente perfetto per sbarazzarmi di quella ragazza, era di troppo, all’interno della stanza. Afferrai il manico del coltello all’interno della tasca posta sulla felpa bianca, facendo per tirarlo fuori, ma venni fermato da un leggero brontolio. Era il mio stomaco. Ora che ci pensavo, avevo fame. Non mangiavo da giorni, ero riuscito a recuperare qualcosa dalla spazzatura e a bere da qualche fontanella isolata in città. Non ricordavo di preciso da quanto non mangiavo qualcosa di decente, forse erano mesi e mesi che andavo avanti con il cibo che poteva recuperare solo un cane dai bidoni. A proposito di cane, anche lui stava mugolando alle mie spalle. Infatti, mi voltai per osservarlo, e sembrava seriamente preoccupato per la sua padrona. Poco m’importava, avrei rubato del cibo e poi l’avrei uccisa.
Lasciai la ragazza lì sul letto, avviandomi alla porta per raggiungere il piano di sotto. Una volta lì, controllai l’orario dall’orologio a pendolo. Segnava le cinque e trenta. Avevo davvero perso tutto quel tempo, per salvarla e portarla qui a casa sua? Non dovevo preoccuparmi, alla fine faceva tutto parte del piano: Ho ucciso quei due uomini solo per puro divertimento, ho portato qui questa ragazza per fare lo stesso in assoluta tranquillità. Non c’era niente di anormale, in me. Rimanevo comunque un killer.
Il mio sorriso prese una piega diversa dalle altre volte, come di soddisfazione, per il piano perfettamente studiato. Dunque, mi avvicinai al frigorifero, aprendo lo sportello: latte, succhi di frutta, marmellata, uova, formaggio, burro, carne, un dolce al cioccolato mezzo divorato. Avevo solo l’imbarazzo della scelta.


*

«Kyrie…?» 
Il piccolo dalmata alzò di scatto la testa, ritrovandosi davanti la ragazza dai capelli castani, lì seduta sul letto ed intenta a posarsi una mano sulla testa. Scodinzolò per contentezza, avvicinandosi a lei a piccoli e goffi saltelli.
Ethel sembrava sconvolta, poiché non ricordava di aver fatto rientro in quella che sembrava davvero casa sua, o forse aveva dormito poco e male. Dopo aver accarezzato la testa del cagnolino, riuscì ad alzarsi per poter realizzare la situazione. Sì, era proprio la sua stanza, quella, e fuori il cielo si stava colorando di una leggerissima tinta d’azzurro, sfumato con un rosa acceso. Doveva essere l’alba.
Si diresse a piccoli passi verso la porta della propria stanza, seguita dal cucciolo dietro di sé, prima di affacciarsi dietro la soglia per scorgere le scale. C’era qualcuno al piano di sotto, non ricordava d’aver lasciato la luce accesa, né di essersi alzata durante la notte. Un improvviso rumore di vetri spaccati raggiunse le sue orecchie, facendola sussultare sul posto. Ora aveva la conferma che ci fosse qualcuno, in casa sua. Deglutì, recuperando subito Kyrie per tenerlo tra le braccia, quasi come per proteggerlo da un eventuale attacco. Con un profondo sospiro, scese lentamente le scale, a passi silenziosi ed insicuri. Si sporse appena dal corridoio, e ciò che vide, le fece strabuzzare gli occhi verdi: c’era qualcuno seduto al suo tavolo. Era un ragazzo dai capelli lunghi e neri, esageratamente smossi e che superavano le spalle, vestito con una felpa bianca ed un paio di pantaloni stretti, indossava delle Converse che sembravano piuttosto vecchie. Sbatté le palpebre varie volte, prima di chinare lo sguardo verso il pavimento, imbrattato di chiazze rosse e pezzetti di vetro rotto. Solo dopo un po’ realizzò che quello doveva essere il barattolo di marmellata alle ciliegie che aveva comprato il giorno prima, al supermercato poco lontano da casa sua.
Tornando con lo sguardo sul ragazzo, si accorse che stava letteralmente divorando un sandwich stracolmo di quella sostanza, quasi come se non mangiasse da anni. Aveva le mani sporche di rosso, e così anche i vestiti, ciò poteva sembrare addirittura del sangue.
Il cucciolo tra le sue braccia, abbaiò una sola volta, facendo voltare di scatto la testa del ragazzo verso di lei. Quel volto…l’aveva già visto, forse nei sogni. No, anche nella realtà. Quei solchi profondi e rossi posti accanto alle labbra del ragazzo, che quasi sembravano dipinti sulla pelle bianca del viso. Quegli occhi grandi e spalancati, contornati di quel nero che metteva chiaramente in risalto quelle iridi così chiare da sembrare bianche. Si fissarono per una manciata di secondi, fino a quando Ethel non ricordò il suo nome, trovando il coraggio di pronunciarlo in un sussurro:

«…Jeff?» 




~

Salve lettori! Qui è l'autrice. Ecco a voi il sesto capitolo! L'estate è finita e settembre è arrivato, ma non per questo mi bloccherò per molto tempo, scriverò sempre un po' al giorno nel tentativo di pubblicare presto il prossimo. Sono consapevole del fatto che forse non è molto, visto che parla dell'arrivo di Jeff in casa, del nostro cagnolino invadente e di Ethel, di cui adesso sappiamo il nome! x'D Ma vi assicuro che il prossimo sarà molto più interessante, ed inoltre ho un intenzione di aggiungere un piccolo extra che vi sarà utile per capire un paio di "misteri"! ;) 
Al prossimo capitolo!

~ Lumpy.

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