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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** La dea danzante ***
Capitolo 3: *** Il mare di notte ***
Capitolo 4: *** La prima di una lunga serie ***
Capitolo 5: *** Oceano ***
Capitolo 6: *** Dove il sole batte più forte ***
Capitolo 7: *** Quel mare di giugno ***
Capitolo 8: *** Senza pensarci due volte ***
Capitolo 9: *** La prima notte in strada ***
Capitolo 10: *** Quando iniziai ad amarla ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
0.
Prologo
–
Ricordo
che riuscivamo a vagare per notti intere, il tasso alcolico
esageratamente
sopra la media, la sigaretta girata sempre in bocca, senza una meta,
senza una
destinazione se non quella dell’infinito. E anche il tempo
sembrava non avere
alcuna importanza: scorreva veloce, eppure pareva scivolare lentamente,
con la
grazia tipica di uno di quei felini africani. Nulla aveva una
particolare
importanza, ma nello stesso tempo ogni cosa era essenziale e niente
poteva
essere trascurato. Vivevamo in un perenne stato di allerta dei sensi,
ricettivi
come non mai grazie agli stupefacenti. Sentivamo,
toccavamo, osservavamo, assaporavamo, inalavamo. Era tutto
un tocca e fuggi
senza fine, che sembrava averci del tutto estraniati da quella che
sembrava
essere la società. Società che ci ripudiava, ma
che, segretamente, ci
idolatrava e ci invidiava. Perché noi eravamo folli,
totalmente ed incondizionatamente
folli. Ma eravamo liberi, liberi come solo i pazzi riescono ad esserlo,
perché essi
non si pongono alcun limite, non hanno restrizioni morali o
legislative.
Eravamo
dei veri animali allo stato brado, alla conquista del mondo con le
borse in
mano e i soldi per comprare un pacco di tabacco.
Eravamo
il sogno proibito che ogni persona avrebbe voluto esaudire; gli uomini
sposati
che passavano le giornate tra lavoro e famiglia ci rivolgevano occhiate
invidiose, ma noi non ci fermavamo. Mai. Sfrecciavamo sulla strade
selvagge,
trattando la città come una giungla, cercando di
sconfiggerla e sopravvivere
tra il serpente di asfalto.
Non
avevamo alcuna meta, alcuna destinazione. Il nostro unico scopo era
oltrepassare ogni limite, divenire gli eroi ripudiati, buttare
giù tutti i muri
dei pregiudizi.
Eravamo
folli.
Folli senza
limiti.
Passavamo
le giornate tenendo nella mano sinistra Baudelaire e in quella destra
una
canna, mentre la mente iniziava a vagare per posti ignoti, inseguendo
creature
inesistenti eppure così estremamente reali da essere riviste
il giorno dopo.
Ma il
nostro reame era la notte, la notte e tutte le sue sfaccettature,
perché era in
quel lasso di tempo oscuro che la nostra luce esplodeva e abbagliava
ogni cosa
che venisse a contatto con noi. Danzavamo nel mare, mentre i suoi capelli dorati galleggiavano
sull’acqua, formando un tappeto. Danzavamo e lei cantava, con
quella sua voce
surreale, che toccava note inesistenti e ti trascinava in universi
paralleli… e
allora io non esistevo più, no, ero solo suo, suo, suo. Suo
e della sua voce irreale.
Suo e del suo profumo di erba.
E
ancora una volta venivamo accolti nei castelli dell’infinito,
mentre il mondo
ci ruotava intorno e la luna ci sorrideva silenziosa.
Mia
madre mi guardava con disprezzo ma a me non importava,
perché il tempo scorreva
veloce e lento e lei non vedeva. Lei non capiva.
Non
capiva che i limiti non erano nulla, se non barriere inventate dalle
consuetudini.
E a
noi, le consuetudini, non piacevano affatto.
Eravamo
piccole lucciole e potevamo apparire innocui, ma in realtà
risplendevamo di
luce propria, senza aver bisogno di elettricità.
Liberi,
così liberi…
Il
mondo era nostro, pronto per essere conquistato da un gruppo di giovani
anticonformisti, che cavalcavano un’utilitaria malconcia,
dotata di una piccola
radio sfruttata fino alla fine.
E noi
urlavamo nella notte, mentre la voce di Jim Morrison faceva da
sottofondo alla
nostra pazzia, al nostro essere così dannatamente in vita.
Vivi
erano i suoi occhi profondi quando ti guardava, quando ti scavava
dentro
l’anima e tu non potevi fare nulla se non lasciarti sondare,
se non farti
toccare da quelle piccole mani.
Darei
qualsiasi cosa pur di sentire ancora una volta la sensazione dei suoi
occhi nei
miei.
Anche
se il gruppo era fatto pressoché di ragazzi, lei
era il nocciolo di esso, era la ciliegina sulla torta per la
quale tutti smaniavamo. E anche quando la possedevo sapevo che era lei
a
possedere me.
Sto
ancora cercando, dopo tutti questi anni, un termine che possa
descriverla, ma
non esiste, perché lei era… lei era oltre.
Era il sale che dava condimento alla mia vita, era il mio
essere vivo.
Come
dimenticare le giornate trascorse a fare niente e a fare tutto?
Guardavamo il
cielo e ci rispecchiavamo nella sua ambiguità, nel suo non
avere una fine, nel
suo essere profondamente senza confini.
Lei si
sedeva a cavalcioni sulle mie gambe, fissava i suoi occhi nei miei, e
mormorava
con la sua voce vellutata che non c’era niente che non
avremmo potuto fare, che
la vita era solo l’inizio, che bisognava imparare il
significato del verbo vivere per
poter dire di averlo fatto.
E noi
lo abbiamo fatto.
Noi
abbiamo vissuto.
Succede
ancora, a volte, che esco in balcone, nelle notti in cui il caldo
sembra voler
sciogliere ogni cosa, e osservo l’orizzonte sopra il mare
blu.
Ed è
in
quelle notti – le notti infinite,
le
chiamavamo – che chiudo gli occhi.
Chiudo
gli occhi e le sue mani sono su di me.
Chiudo
gli occhi e bevo una birra insieme a Tom.
Chiudo
gli occhi e sfreccio, sfreccio per le
strade asfaltate.
Chiudo
gli occhi e sono senza limiti.
Chiudo
gli occhi e vivo.
*
Angolo
di Eryca
Grazie
a Vì
per aver betato.
Sono
tornata nella sezione Originali
Romantiche per triturarvi i cosiddetti con una nuova storia, concepita
dopo
aver passato un’intera giornata a bombardarmi il cervello con
i Doors.
Si
tratterà di una storia ambientata
durante i Sixties – i famosi e ribelli anni Sessanta
– narrata dal
protagonista, che ripercorrerà gli eventi della sua
gioventù e della sua
mistica relazione con la donna di cui si parla in questo prologo; la
loro sarà
una storia d’amore passionale, intesa e ricca di colpi di
scena, ma anche di
follie (perché è di questo che si parla).
Ci
saranno pazzie, anticonformismi,
spiritualità, droga e rock n’ roll. :D
La
vicenda si svolgerà per le strade,
durante un loro viaggio particolarissimo verso... un posto che
scoprirete se
andrete avanti a leggere! (Il sadismo di una fanwriter non ha limiti
u.u)
Per
dubbi, informazioni o per inutili
chiacchiere, ecco il mio facebook: Eryca
Efp
Fatevi
sentire in tanti e datemi i vostri
pareri, ragazzi :)
Vostra,
Eryca.
|
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Capitolo 2 *** La dea danzante ***
1.
La dea danzante
Era il 1969.
Il movimento
hippie aveva toccato il
suo apice, mentre Jimy Hendrix faceva sognare l’America con
la sua chitarra
elettrica. I giovani patrioti che morivano in Vietnam venivano
ricordati dal
presidente Nixon con parole vuote lasciate alla stampa e,
così facendo,
continuava a mettersi contro i pacifisti.
Non era semplice
vivere negli anni
Sessanta.
Ma avrei
scoperto presto che sarebbe
stato orgasmico.
Quell’anno
mi diplomai, in una torrida
giornata di inizio estate. Mio padre non si presentò alla
cerimonia di consegna
dell’attestato – chiaro, non aspettavo il
contrario. Stephen Williams si
sarebbe fatto tagliare la testa pur di subirsi il Preside Gibson e i
suoi
eterni discorsi. Tra la folla, però, spiccava una testa
castana: Mamma Lauren
che si asciugava il naso con un fazzoletto in stoffa e applaudiva
esageratamente.
Il professor K.
– un dittatore in
giacca e cravatta – ci aveva fatto una testa quadra con la
storia che il giorno
del diploma sarebbe stato il più bello della nostra vita
– escludeva sempre la
laurea, perché era sicuro che nessuno di noi
l’avrebbe mai presa.
Invece, quel
tanto agognato evento mi
sembrava una semplice messinscena, un po’ come la
pubblicità esagerata alle
partite della squadra di Baseball.
Comunque, tutta
quella cerimonia era
passata con la stessa fretta con la quale era arrivata e io,
fortunatamente,
ero potuto tornare alle mie faccende, ovvero vagabondare per le strade
di Los
Angeles in compagnia del mio amico Tyler.
«Oggi
Claire mi ha detto che stasera da
una festa di addio a casa sua»
Il mio amico
aveva un modo annoiato di
parlare, come se odiasse utilizzare le corde vocali o, in alternativa,
odiasse
farlo con te. Eravamo saliti in collina, dove avevano le ville i
personaggi
famosi, e guardavamo la maestosa LA dall’alto. Ty se ne stava
seduto sopra un
masso grigiastro, mentre rollava una sigaretta fatta a mano.
Lasciai che i
miei occhi vagassero e mi
soffermai sul mare, il mare che sembrava fondersi con il cielo. Dio, ero nato e cresciuto nella
città
dei sogni, dove migliaia di persone migravano con la speranza di
realizzare i
loro desideri, le loro ambizioni.
E io mi ero
appena diplomato.
Essere un
diplomato a Los Angeles era
dannatamente pericoloso: si poteva incappare in fantomatici Talent
Scout che ti
promettevano soldi e donne a volontà, se eri sfortunato
poteva capitarti di
cadere nel giro dell’eroina – che
all’epoca non risparmiava nessuno – oppure
l’alternativa era finire in una di quelle bande di
delinquenti.
Los Angeles,
negli anni Sessanta, era
una sirena: tanto bella quanto letale.
«Ti ha
invitato perché vuole che la
scopi, Ty» risposi, mentre la mia sigaretta era ormai quasi
vicina alla sua
morte... e anche i miei polmoni.
Si
sistemò il cappellino da baseball,
Tyler, per poi rivolgermi un sorriso malizioso che mi indusse a ridere.
«E io
lo farò con piacere, mio caro!» Concluse
sfoderando il suo finto accento british che,
a mio avviso, lo rendeva
estremamente ridicolo.
Per quanto io e
il ragazzo che mi stava
dinanzi avessimo condiviso donne, macchine e alcol durante tutti gli
anni delle
superiori, non avevamo mai avuto nulla in comune, se non appunto quelle
cose.
Tyler preferiva guardare le partite di Baseball alla televisione con
una birra
in mano, piuttosto che suonare la chitarra, come invece adoravo fare io.
Quello era il
periodo in cui della mia
vita non conoscevo assolutamente il senso: mi limitavo ad alzarmi la
mattina,
andare a scuola e fare sport.
Sentivo, dentro
di me, la mancanza di qualcosa
e passavo notti intere a riempire i miei onnipresenti taccuini con
frasi
angosciate, senza però trovare alcuna risposta al mio
malessere.
Ero cieco.
Era il prima.
Ero ancora morto.
«Che
cosa farai, ora?» Con una semplice
domanda – una sola – Tyler acquistò
punti in classifica e mi fece capire che,
forse, non era l’idiota che avevo sempre pensato.
Ricordo che non
ci guardavamo negli
occhi, concentrati com’eravamo ad innamorarci ancora una
volta – centinaia di volte –
della città che
appariva sotto di noi.
Los Angeles, la sirena.
In quegli
istanti che sembravano essere
infiniti, mentre il sole salutava la mia città e andava a
nascondersi dietro le
nuvole, pensai a tutto quello che avevo sempre avuto – casa,
famiglia, amici –
e a quello che desideravo disperatamente avere – libertà.
Ero sempre stato
considerato uno di
quei bravi ragazzi che passano a prendere la fidanzata a casa per
stringere la
mano a suo padre e, effettivamente, lo ero; ma il mio spirito era
rimasto in
silenzio per troppo tempo, accoccolato dentro di me aspettando la sua
rivincita, e ora pretendeva di avere ciò che gli spettava,
perché io, io non ero
come loro.
Io non ero nato
per essere uno di quei
cadaveri ambulanti che timbravano il cartellino la mattina, passavano
l’intero
orario di lavoro seduto su una scrivania sfogliando giornaletti erotici
per poi
tornare a casa la sera e baciare la moglie come se nulla fosse. No.
Io ero nato per
qualcosa di più.
Per andare oltre.
La mia anima
vibrava. «Qualcosa.» E,
anche se poteva sembrare la risposta di un perfetto deficiente, il mio qualcosa stava a significare che avrei
dato libero sfogo al mio animo, che non sarei diventato uno di quei
padri di
famiglia dal cuore di ferro.
Avrei fatto qualcosa di puro.
«Che
dici? Ci andiamo da Claire,
stasera?» Con quell’uscita, tutta la stima che
avevo acquisito nei confronti
del mio amico crollò nuovamente, facendomi rendere conto che
era veramente il
perfetto idiota che avevo sempre pensato.
Ciao,
sirena. Come sei bella, questa sera?
Fammi
fare un’ultima cavalcata su di te, mia dolce bambina.
Ti
prometto che la mia casa sarai sempre tu.
Annuii sicuro a
Tyler, mentre dentro di
me il cambiamento stava già prendendo piede.
Io ero nato per
andare oltre e lei,
lei
me lo avrebbe
fatto scoprire.
*
La incontrai
quella stessa sera, alla
festa.
Quando accettai
l’invito di Tyler e
Claire, non avevo la minima idea di ciò che mi stava
aspettando, alla grossa
villa della mia compagna di classe.
Come potevo
immaginare che, quella
notte, la mia vita sarebbe stata sconvolta?
La prima cosa
che vidi, non appena feci
il mio ingresso nella villetta, fu una coppietta che, accanto alla
porta,
pomiciava. Alzai gli occhi al cielo per poi aprire il mio giubbotto in
pelle di
camoscio e addentrarmi nel corridoio. Mentre mi aggiravo per la grossa
abitazione di Claire mi resi conto, notando i capelli laccati dei miei
coetanei, di dover sembrare ridicolo agli occhi delle ragazze, a causa
del
cespuglio scompigliato che mi ritrovavo in testa.
La casa era
colma di giovani diplomati
con la voglia di festeggiare il loro primo traguardo, troppo presi
dalla loro
sensazione di liberazione per prendersi conto che erano dei surrogati
di
uomini, corpi senza anima. Facce vuote, cuori sporchi.
E io brancolavo
in mezzo a quella
marmaglia, il mio pullover in lana rossa stropicciato che, messo a
confronto
con l’abbigliamento dei presenti, sembrava essere comprato al
mercatino delle
pulci, nelle periferie.
Me ne stavo
lì, con un bicchiere di
punch scadente in mano, mentre una radio malconcia sparava She loves you dei Beatles. Il mondo
intorno a me sembrava aver
preso la decisione di escludermi definitivamente dal suo corso e ogni
giovane
sembrava divertirsi, ogni riso mi appariva così irritante.
Ero sempre stato
l’esponente principale
di quella che era la società, la classe media della
popolazione, eppure non mi
ero mai identificato in essa. Riuscivo ad essere la persona che non
ero. E
quella era la mia più grande qualità.
«Adam!»
Nell’udire
il mio nome mi voltai e mi
ritrovai di fronte ad una Claire impacchettata in uno striminzito
vestito di
paillettes rosa, secondo la moda. Mi abbracciò, non tanto
per cortesia, ma
perché cercava di portarmi a letto dal primo anno, quando mi
avvicinò con la
scusa di una gomma da masticare. Non era cambiata molto da allora,
Claire:
stessi occhi nocciola, stessi capelli cotonati, stesse gonne ampie e di
colori
improbabili. Stesso modo di fare da gattamorta.
Il discorso che
intrattenni con la mia
amica fu uno di quelli fatti per essere dimenticati: semplicemente, ci
sono certe
conversazioni che spariscono dalla tua mente, che le rimuove quasi a
volerti
dire “amico, non meritano spazio”. E, in effetti,
il dialogo tra me e Claire
era degno solo ed esclusivamente di quell’appellativo.
«Come
stai?» Ricordo che mi pose questa
domanda per il semplice fatto che, nello stesso istante in cui stavo
rispondendole, prese a parlare del suo voto “scandalosamente”
basso al diploma. La lasciai sproloquiare sulle
ingiustizie scolastiche, sul fatto che era “chiaro”
che il Preside Gibson fosse corrotto. Non la ascoltavo. Non
ascoltavo
nulla, se non la rabbia che ribolliva sempre più dentro me.
Pensavo al fatto
che mi avesse chiesto
come stavo solo perché era usuale farlo
e non perché le interessasse. A chi
interessa
davvero la risposta alla domanda come va?
Nessuno. Nessuno se ne cura. Tu stai lì, impalato
come un pero, mentre le
persone non capiscono, non capiscono, non capiscono. Tu stai
lì.
Ed era
esattamente quello che stavo
facendo: stavo lì.
Sorridevo alle
risate di Claire,
annuivo serio quando la sua espressione mi intimava di farlo,
strabuzzavo gli
occhi all’innalzamento del suo tono di voce. Il gioco stava
tutto lì, nel
capire ciò che le persone desideravano sentirsi dire.
«Beh,
è bello averti qui, Ad!
Divertiti! Ci vediamo dopo!» Si sporse e mi baciò
sulla guancia, gli occhi
luminosi in cerca di un segnale da parte mia. Chiaramente non lo
trovò e,
delusa, andò a salutare un altro ragazzo. Sciacquetta.
Tirai fuori
dalla giacca una sigaretta
e me la accesi canticchiando insieme alla radio Brown
Eyed Girl di uno dei miei cantanti preferiti, Van Morrison.
Mi feci spazio
in salone, dove un tizio
della sezione E stava vomitando in un vaso di fiori, per uscire
finalmente nel
giardino che ospitava una gigantesca piscina.
Quella villa,
messa a confronto con il
mio umile alloggio, sembrava una vera e propria reggia; ma
d’altronde i
genitori di Claire erano importanti direttori d’aziende, ergo
non ci si poteva
aspettare di meno da loro.
Stavo ridendo
alla scena di un emerito
imbranato che stava affogando, quando successe.
Successe che i
miei occhi la videro.
La prima cosa a
cui pensai fu che
doveva essere un’allucinazione dovuta all’alcol,
oppure una conseguenza della
troppo erba che fumavo. Dovetti pensare ad ogni spiegazione logica ed
illogica,
prima di prendere per buona l’idea che fosse reale.
Capelli biondi e
lunghi che scuotevano
a destra e sinistra, mentre il suo corpo sembrava splendere alla luce
della
luna, come se fosse una creatura venuta da chissà quale
pianeta lontano.
Danzava, la mia
dea – anche quando cammina si
direbbe che danzi –
sul trampolino che dava sulla piscina: qualunque altra persona sarebbe
apparsa
goffa a ballare sopra un elemento in bilico, invece lei, lei
sembrava una sirena.
Il suo corpo
formoso non era fasciato
fa vestiti esagerati, come quello delle altre ragazze, ma libero di
esprimersi,
coperto solo con una gonna larga che le arrivava fino alle caviglie ed
una
maglietta che le lasciava scoperta la pancia. Si muoveva sinuosamente,
tutti
gli occhi puntati su di lei... lei che
sembrava non curarsi di nulla se non del suo ballo, della sua risata
spensierata.
Da
dove vieni, O Musa?
È
un
paese di luci e di amore, il tuo
Sei
la luna della mia notte, risplendi, risplendi
Danza
sulle braci ardenti, O Musa
Danza
e io sono tuo
Ridi,
O Musa
Ridi
e io potrò morire
La guardavo. La
guardavo e non sapevo
che quella dea avrebbe rivoluzionato il mio essere.
Ho sentito
milioni di persone ripetere
frasi come “con il senno di poi non
rifarei mai quello sbaglio”, ma io non lo
dirò mai.
Con
il senno di poi ti guarderei danzare altre mille volte, O Musa
Con
il senno di poi i miei occhi sarebbero ancora tuoi, per sempre
Non sono mai
stato un tipo
particolarmente romantico o melodrammatico, ma sono quasi certo che
quella
donna era la mia anima gemella, la mia compagna spirituale inviata per
me. Solo
per me.
Me ne stavo
imbambolato, il punch ormai
dimenticato, quando una voce mi riportò alla
realtà, facendomi distogliere lo
sguardo dalla mia dea. «Non è roba per te,
ragazzo.»
Aveva le basette
lunghe e folte,
quest’uomo con la voce roca che si era appena rivolto al
sottoscritto. Non
appena posai lo sguardo sulla sua camicia a fiori e i pantaloni
malconci, mi
resi conto che era un fricchettone che mio padre avrebbe definito come “uno di quei cazzari che vanno in giro a
predicare minchiate sull’amore”.
Non lo avevo mai
visto prima, né a
scuola né per il quartiere, quindi compresi che doveva
essere un imbucato. «La
conosci?» domandai indicando la mia dea danzante, intenta a
dimenarsi sul
trampolino, ancora ignara degli sguardi osceni dei ragazzi.
Aspirò
dalla sua sigaretta girata, il
basettone, guardando la Musa, proprio come stavo facendo io. Ripensando
a
quella notte, mi rendo conto che doveva essere un presagio: due uomini
che,
invece di interagire tra di loro, rivolgono tutta la loro attenzione a lei.
Una calamita
– o calamità – per ogni
uomo.
«Nessuno
la conosce, amico.» Questa
volta si girò verso di me e scandì bene le
parole, quasi a volermi far capire
alla perfezione ciò che mi stava dicendo. Ricordo bene la
sensazione di
confusione che la sua affermazione mi provocò. Che cosa
poteva significare che nessuno la conosce,
amico? «Ma è sicuro,
però, che non è pane per i tuoi denti.»
Tornai a fissare
la donna: si era
appena tuffata in piscina – il salto degno di una sirena
– e stava nuotando e
schizzando tutto intorno a sé, mentre qualcuno rideva di
fronte allo spettacolino.
Sei
una Musa
Sei
una dea
La
tua pelle risplende sotto la luna – oh, come la vorrei toccare
Ma
il Nemico ha ragione
Lo
schiavo non è degno
Di
amare la Regina
Sì.
Pensai di mollare.
Pensai che,
proprio come tutto il
sentimento era arrivato – in un attimo, in un battito di
ciglia -, sarebbe
svanito: in fondo non sapevo nulla di lei, nemmeno il suo nome.
Sapevo solamente
che era ferro e io una
stupida calamita.
«Io,
non... Stavo pensando di... Voglio
dire, cioè... Sì, ecco... Beh, è stato
un piacere.» Balbettai, proprio come
facevano i ragazzini di fronte alla ragazza di cui erano infatuati, e
fu un
colpo terribile vedere come il basettone sogghignava divertito. La
figura del
completo idiota l’avevo fatta. Ora potevo anche squagliarmela.
Girai sui tacchi
e, mentre rientravo
nell’abitazione, cercai di riordinare i pensieri e gli
eventi: avevo sentito la
mia testa girare di fronte alla donna più sensuale che
avessi mai visto e
quello che doveva sicuramente essere un suo amico mi aveva colto sul
fatto. Dieci punti a te, Adam.
Posai il
bicchiere di punch su un
mobiletto e vidi Tyler venire verso di me, quindi simulai un attacco di
nausea
e corsi verso la porta d’ingresso, ovvero la mia salvezza. Il
mio orgoglio – ne
avevo anche se può sembrare di no – pretendeva una
fuga.
Stavo per posare
la mano sulla maniglia
quando sentì una voce – voce
soave, voce
di dea – mormorare al mio orecchio: «Te
ne vai già, bambino?»
Il mio oltre ebbe inizio con quella domanda.
*
Angolo di Eryca
Ringrazio
Vì per aver betato il capitolo.
Eccomi
con l’effettivo primo capitolo, signori lettori!
Scopriamo
che il protagonista si chiama Adam e iniziamo a conoscerlo. E,
ovviamente,
viene anche presentata la dea danzante, la nostra bellissima folle, che
subito
attira l’attenzione del giovane Adam.
Le
canzoni citate nel capitolo esistono realmente e sono bellissime: vi
invito ad
ascoltarle, se ne avete l’occasione. !!
Beh,
spero vivamente che l’inizio vi sia piaciuto! Vi invito a
dirmi cosa ne
pensate, è sempre bellissimo per un autore leggere
ciò che i lettori pensano. :3
Un
abbraccio,
Eryca.
|
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Capitolo 3 *** Il mare di notte ***
2.
Il
mare di notte
Per
anni ho cercato voci come la sua.
Ho
viaggiato attraverso paesi di lingue e culture diverse, sperando di
poter
finalmente sentire una tonalità calda come quella che lei
aveva. Ma come ho
potuto anche solamente considerare l’idea di una voce simile
alla sua? Sciocco.
Ed è
bizzarro pensare che la prima cosa di lei che venne a stretto contatto
con me
fu proprio quella sua voce che, avrei imparato presto, non era solo
soave a sentirsi,
ma diceva le parole più profonde e toccanti che avessi mai
udito.
Quella
sera, comunque, rimasi pietrificato; per una qualche strana ragione, il
mio
intero organismo stava urlando che quella voce apparteneva alla dea
danzante.
Mi piace pensare che fosse perché eravamo destinati. Mi
piace pensare così, sì.
Ogni
mio senso era all’erta, quando una mano – la
sua mano – si posò dolcemente sulla mia
spalla: potrebbe essere considerato
un gesto di poca importanza, in fondo quanti di noi, ogni giorno,
compiono
quest’azione?
Eppure
fu la sensazione di sapere che quella dea che avevo visto, pochi minuti
prima,
ballare sotto la luna come un’apparizione, era reale e non
frutto della mia
fervida immaginazione.
Era carne, era ossa.
E la
sua pelle morbida stava toccando me.
O
Mia Dea,
Toccami
ancora,
Ancora
una volta.
Toccami
e io
Io
morirò.
In quel
momento, ero solo sensi: udivo il
suo
respiro regolare dietro di me, sentivo l’odore
del profumo a basso costo che si era spruzzata, assaporavo
l’averla così vicina.
D’un
tratto, proprio come si era posata, La Mano svanì, anche se
il panico
dell’abbandono si dissolse velocemente quando notai che la
Dea si era spostata
di fronte a me.
Rimasi
attonito nell’accorgermi che sorrideva.
Attenzione:
non rideva, non ghignava, non esibiva uno dei quei risi maliziosi e
piccanti
della serie “Portami-A-Letto-E-Subito” e nemmeno
una maschera di falsità.
Lei sorrideva e io ero sconcertato nel
vedere una tale limpidezza sbattuta in faccia al mondo come se non ci
fosse
nulla di particolare.
Se ne
stava davanti a me, quindi, con il suo sorriso trasparente, i capelli
biondi
che le ricadevano lunghi sulle spalle, senza dire una parola, ma
limitandosi a
guardami.
Ricordo
di essermi sentito un perfetto idiota, un bambino, un immaturo.
«C-ciao...»
tentai di dire abbozzando un sorriso impacciato, forse troppo forzato,
perché
lei si abbandonò alle risate e Dio!
Il
suono del suo riso! Così fresco...
Potreste
pensare che il mio sia un elogio senza alcun senso, una prosa poetica
portata
all’esasperazione, parlando della donna amata come un essere
angelicato, ma non
è così. Dio,
se solo l’aveste
conosciuta! Voi potreste capire! Potreste rendervi conto che tutto
ciò che sto
dicendo è reale.
Lei era
davvero luce.
Ricordo
che smise di ridere, posò gli occhi su di me e, con fare
paziente, si avvicinò
– il mio respiro! Dannazione, il
mio
respiro! – e mi accarezzò una guancia
– posso
morire, posso morire.
«Vieni
con me.»
Non me
lo chiese. Lo disse e basta. Sapeva – lei sapeva
– che l’avrei seguita, che ero
già suo e avrei fatto qualsiasi cosa mi
avesse domandato.
Non me
lo chiese. Lo disse e basta.
E io
andai con lei.
*
Mi
prese per mano.
Lo fece
davvero, lo ricordo come se fosse ieri. Sorrideva contenta e
intrecciò le sue
dita con le mie, in un gesto che non aveva nulla di malizioso o
provocatorio ma
conteneva in sé tutta la purezza della donna che mi stava
scortando chissà
dove.
Non
sapevo nulla di lei: né il suo nome, né quanti
anni aveva, nemmeno dove viveva
o da dove veniva. Non sapevo nemmeno se fosse o meno americana! Era una
perfetta sconosciuta, eppure era la mia
dea.
Per
questo mi lasciai guidare tra la folla della festa, fino a tre ragazzi
che
sembravano molto più grandi di me, seduti sul prato, di
fronte alla piscina,
con aria serena.
Uno di
loro era il basettone che mi aveva intimato di lasciar perdere la dea e
ora,
infatti, mi fissava con sguardo perplesso, forse sorpreso di vedermi
insieme a
lei. Ricevetti l’onore di essere squadrato da quelli che
dovevano essere i suoi
amici: Basettone, in primis, poi c’era un tizio smilzo dagli
occhi vacui ed infine,
uno con i baffi e la bandana che sembrava essere un motociclista
accanito.
La Musa
sussurrò qualcosa all’orecchio del Motociclista,
prima di farsi passare
qualcosa in mano, che venne velocemente nascosto nel suo seno: ero
infantile, ma
non fino a quel punto; io e la marijuana,
ad esempio, eravamo amici di vecchia data, quindi conoscevo
abbastanza bene
le metodologie degli scambi. E quello era stato sicuramente uno scambio.
Sorrise
come una bambina, la mia dea, schioccò un bacio veloce sulle
labbra del
Motociclista – ti odio, ti odio
già, per
questo – per poi tornare felicemente da me e
afferrarmi nuovamente la mano.
Non capivo: il Motociclista baffuto era forse il suo uomo? No,
impossibile,
altrimenti non l’avrebbe lasciata andare via con me. E allora
perché lo aveva
baciato sulle labbra? Un gesto di affetto?
Mentre
mi tormentavo di domande, la Musa mi aveva condotto fuori dalla casa,
senza mai
dire una parola, senza mai farmi una domanda o cercare di intrattenere
una
discussione.
Eravamo
davanti alla casa, sul marciapiede che dava alla statale, quando la dea
si
fermò e mi guardò. «Kurt non
è il mio fidanzato.»
Kurt
doveva essere il
Motociclista.
La sua
mano era stretta nella mia, i suoi occhi ben puntati nei miei. E io
capii di
avere a che fare con una persona estremamente intelligente, che non si
era
lasciata scappare la mia perplessità.
Mia
Musa,
portami
lontano,
prenditi
tutto,
prendi
ciò che vuoi,
ma
non lasciarmi mai.
«E chi
è?»
«Un
amico.»
Un
amico. Bene.
Non feci ulteriori domande, perché, dopotutto, non avevo il
diritto di essere
geloso o di conoscere la sua vita. Così tacqui e la Musa
riprese a camminare
per le vie di Los Angeles, mentre le macchine sfrecciavano veloci di
fianco a
noi.
I
negozi erano aperti, i locali chiamavano a rapporto gli abitanti della
notte –
presto sarei stato uno di loro – e io e la mia dea
camminavamo, ci perdevamo
nella sensazione delle nostre mani intrecciate.
Quello
era il nostro modo di conoscerci: lasciare che le nostre pelli fossero
in
contatto. Era totalmente fuori da ogni concezione, era folle, folle. Ed
era così bello.
Le luci
al neon dichiaravano a caratteri cubitali le loro proposte, invitando
gente a
comprare detersivi, hamburger, preservativi. Quella era Los Angeles:
potevi
comprare una scatola di condom nello
stesso negozio in cui compravi la verdura.
«Dove
stiamo andando?» domandai curioso vedendola così
sicura sulla nostra
destinazione, mentre girava a destra e poi a sinistra, senza mai
titubare. Era
ovvio che non stesse semplicemente passeggiando, ma avesse in mente una
destinazione.
Mi
rivolse un’occhiata divertita, prima di strattonarmi un poco
la mano e prendere
a correre.
Correre.
Non lo facevo da
quando
io e Tyler, giovani undicenni, ci sfidavamo nei cento metri credendoci
degli
atleti professionisti. E ora, le mani legate a quella splendida
ragazza, stavo
veramente correndo per le strade di Los Angeles, ridendo a crepapelle
agli sguardi
interrogativi delle persone. I capelli della Dea sventolavano
all’aria come una
bandiera e lei sembrava un essere ancora più distante,
ancora più intoccabile:
lontana.
Lontana
e tanto, tanto seducente.
Corri,
O Musa
I
tuoi capelli al vento
Le
tue guance arrossate
Corri,
O Musa
E
portami con te
Mentre
ci facevamo spazio tra i marciapiedi affollati di LA diedi una gomitata
ad un
ragazzone imponente, che mi rivolse parole non propriamente dolci: lo
ricordo
perché notai la sua stupefacente inventiva di insulti.
E la
Musa rideva. Aveva la guance rosee, il sudore che le imperlava la
fronte, la
gonna morbida le intralciava la corsa, ma non si fermava. Andava avanti
come se
nulla al mondo potesse interrompere quel suo galoppo liberatorio.
E cosa
potevo fare io, giovane adolescente, se non seguirla?
Mi
lasciai trasportare dalla gioia sfrenata che sembrava essere in grado
di
contagiare chiunque e risi con lei, corsi con lei, senza mai lasciarle
la mano.
Senza mai separarmi da quella Dea.
Interrompemmo
la nostra cavalcata solamente quando arrivammo sul lungomare.
L’oceano stava
davanti a noi, calmo e placido come non lo era da parecchio, le spiagge
sabbiose vuote. Era buio e non si vedeva quasi nulla, vi erano
solamente le
deboli luci dei lampioni a rischiarare un po’
quell’oscurità. Il mare di notte
era mistico. E lei lo sapeva.
Si
tolse le ciabattine che portava ai piedi, le prese in mano e mi
sorrise,
conducendomi sulla spiaggia. Portavo le scarpe da tennis nuove e, con
tutte le
probabilità del caso, mia madre mi avrebbe uccisa se avesse
scoperto che le
stavo immergendo nella sabbia.
Mi
lasciò la mano, la Musa, e prese a roteare su sé
stessa, improvvisando un ballo
etnico, come quelli che si fanno intorno al fuoco. Le mie labbra non
resistettero all’impulso di sorridere, perché era
proprio impossibile rimanere
pacati di fronte ad una tale forza della natura. Ero completamente,
totalmente
folgorato dalla luce abbagliante della mia Dea.
Da
dove arrivi, donna?
Ogni
elemento di te sembra estraneo
Ad
un mondo in cui non vi è più
Libertà
E
tu
Tu
sei libera
«Vieni!»
mi chiamò, facendomi segno di raggiungerla con un dito,
senza mai smettere di
danzare, perché – lo avrei scoperto con il tempo
– era ciò che più le piaceva
fare, insieme a cantare. E sorridere. Sorridere era sicuramente uno dei
suoi
passatempi preferiti.
Mi
tolsi finalmente le scarpe e mi avvicinai a lei, che mi prese per le
mani
catapultandomi nel suo ballo senza freni. Come prima cosa la feci
roteare e lei
sembrò approvare – un
tuffo al cuore –
poi, acquistata maggiore sicurezza, le misi le mani sui fianchi
– oh, dio, i suoi fianchi morbidi,
morbidissimi – e subito lei si strinse a me. Mi
mise le mani al collo e io
dovetti fare appello a tutto l’autocontrollo del mondo.
Quella
splendida, splendida donna stava danzando con me.
Aveva
abbandonato una festa ed i suoi amici per danzare con me.
Aveva
scelto me.
Si
allontanò un po’ – torna
da me, Musa –
e tirò fuori un piccolo pacchetto in plastica dal seno: il
regalino che si era
scambiata con Kurt, detto il Motociclista. Mi sorrise complice, prima
di
prendere in mano due microscopici pezzetti di cartone decorati con
disegni.
Sapevo
bene di cosa si trattava, me ne aveva parlato Mike, un tizio bocciato
che ne
aveva fatto uso: LSD. Mi disse che
era un’esperienza ultraterrena.
La dea
non disse nulla ma si mise il suo cartoncino sulla lingua, prima di
sporgersi
verso di me; prima di darmi la mia parte rimase in attesa di un mio
rifiuto, in
una muta richieste di permesso e, quando io non la fermai, mi mise in
bocca il
cartone.
Poi
ridemmo.
Me lo
ricordo perché ci fu un momento di imbarazzo in cui ci
guardammo senza sapere
precisamente cosa dire o fare e poi, come se nulla fosse, scoppiammo a
ridere
riprendendo a danzare.
Da
questo momento in poi i fatti sono molto sfocati nelle mie memorie,
come ogni
volta in cui assunsi qualcosa di stupefacente; ci sono immagini vivide
e vuoti
temporali in cui non so assolutamente cosa successe. Ed è
proprio quello il
bello.
Ricordo
che il nostro dolce ballo si trasformò in un rito
passionale.
Le sue
mani sul mio collo, il suo odore sulla mia pelle e i suoi capelli a
incorniciare il tutto. La sabbia divenne un oceano e mi sembrava di
danzare
sull’orlo dell’acqua. Mi sentivo un Dio, un essere
imbattibile, meglio di
Achille o qualsiasi altro eroe mitologico.
Ero
libero, sconfinato e con la mia Musa.
C’è
l’immagine della dea che si priva dei suoi indumenti
– il suo corpo nudo –
e si tuffa in acqua, ridendo, come sempre. E ci
sono io che la seguo, come sempre.
Ma vi
è
un ricordo di quella notte sballata che non potrà mai
svanire dalla mia mente,
così vivido nonostante la mia psiche alterata.
Le
labbra della Dea sulle mie.
C’è
questa fotografia, nelle mie memorie, di me e lei immersi
nell’oceano, nella
nostra prima notte, a ridere e cantare a squarciagola: io stonato, lei
no. E mi
ricordo perfettamente che lei si avvicinò, mi cinse i
fianchi con le sue gambe
e posò le labbra sulle mie.
Le
tue labbra sono di fragola, O Musa
Baciami
ancora
Baciami
sempre
E
io morirò
Io non
lo sapevo, ma quel bacio fu la promessa che la Dea mi fece.
La
promessa che saremmo stati uniti per sempre.
*
Angolo
Eryca
Ringrazio
Vì per il beta reading.
Ma
quest’oggi i ringraziamenti non
terminano qui, no, perché devo urlare un enorme grazie anche
ad aniasolary, senza la quale
questa
storia non esisterebbe: lei mi ha spronata a buttarla giù e
mi ha sostenuta
sempre, anche quando la scrittura sembrava essermi avversa; senza di
lei Over
non sarebbe nulla. Quindi le devo molto. (Vi consiglio di leggere la sua Until perché ve ne
innamorerete al
primo sguardo, esattamente come è successo a me *-*).
Un
grazie va anche dato a postergirl84
che, come Ania e Vì, mi ha
sempre aiutata e sostenuta, anche minacciandomi quand’era il
caso! Grazie, Emi.
(Mi permetto di consigliare, anche qui, la sua Benzina
sul Fuoco, splendida storia di un amore travolgente).
Passando
alla storia, come vedete qui
iniziano a delinearsi un po’ i caratteri. La nostra Musa
– che rimane ancora
senza nome – è una vera folle, che non si
preoccupa a fare uso di sostanze
stupefacenti e catapulta Adam nel suo mondo. Non mi sono soffermata
molto sul
bacio appositamente, vedrete poi perché.
Lasciate
il vostro parere, così che io
possa sapere cosa ne pensate e magari modificare ciò che non
vi piace troppo!
Grazie
a chi ha inserito la storia tra le
Seguite, le Preferite o le Ricordate.
Grazie
a chi legge.
Un
bacione,
la vostra Eryca.
|
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Capitolo 4 *** La prima di una lunga serie ***
3.
La
prima di una lunga serie
Se
vi state
immaginando un dolce risveglio, la mattina dopo, con lei tra le mie
braccia,
smettete di farlo.
La
prima cosa che i miei sensi percepirono, quella mattina, fu una voce
– dapprima
lontana, poi forte – che mi impediva di dormire.
«Porca
puttana! Ma che cazzo fate? Alzatevi, vagabondi inutili! Larve della
società!»
E
fu
così che mi resi conto di essere completamente nudo in una
spiaggia pubblica e,
per aggiungere un'altra mela marcia al mio carico, un operatore
ecologico mi
stava imprecando addosso, dandomi del maiale nomade.
Ricordo
di essermi appuntato un promemoria:
prendere acidi solo in situazioni sicure.
Mi
alzai velocemente, notando che l’operaio mi aveva appena
lanciato in faccia i
vestiti, che mi affrettai ad indossare, senza curarmi troppo del verso
corretto
della maglietta.
L’uomo
mi stava ancora apostrofando con i termini peggiori del pianeta, ma io
non ci
facevo più caso perché un piccolo
particolare
venne ai miei occhi: lei non c’era.
Girai
la testa a destra e a sinistra, cercando disperatamente la sua figura
snella,
ma trovai solamente un tronco marcio, qualche busta di plastica
abbandonata sul
bagnasciuga e il già noto spazzino – che, tra
parentesi, continuava ad
insultarmi.
Mi
passai una mano tra i capelli spettinati, borbottando tra me e me. Non
riuscivo
a credere che la mia dea se ne fosse andata così,
proprio com’era venuta. In un puff!
D’altronde
non sapevo nulla di lei... Diamine! Non
conoscevo nemmeno il suo nome! Come potevo pretendere di svegliarmi
accanto a
lei o pensare che sarebbe rimasta?
All’ennesimo
richiamo da parte del mio amico mi
decisi ad andarmene e, arrivato al tanto agognato asfalto, mi infilai
le scarpe
da ginnastica. Vicino a me sorgeva un grosso chiosco, uno di quelli che
stanno
sul bordo della spiaggia, tra sabbia e cemento, e fungono da bar per i
turisti
assettati e affamati.
Stavo
per prendere la strada di casa, quando da dietro la struttura in legno
saltò
fuori una figura che urlò qualcosa come Buh!
Una paura
indescrivibile si prese
possesso del mio corpo – uno di quei terrori tipici
dell’essere umano che viene
sottoposto a stress – per poi, successivamente, cedere spazio
alla confusione,
che mi portò a cercare di scoprire che cos’era
appena accaduto. Lo capii velocemente,
non appena notai da dove proveniva il grido che mi aveva tanto
spaventato.
La
Dea mi
stava dinanzi, la sua
gonna di nuovo a coprirle le lunghe gambe.
Dovevo
aver fatto un salto improvviso o, comunque, aver assunto
un’espressione senza
pari, perché la donna stava ridendo a crepapelle, tenendosi
la pancia con le
mani.
«Oh,
sì, certo. Davvero divertente» dissi in tono
brusco, dovuto alla rabbia di
essere appena stato umiliato dalla ragazza più seducente che
avessi mai
conosciuto. Dopotutto, al tempo ero un ragazzo immaturo che non aveva
idea di
come comportarsi con il sesso opposto. Tutto quello che so ora, lo
appresi
grazie a lei.
«Sì,
è
stato divertente!» La Dea si avvicinò e mi depose
un breve bacio sulla guancia
– contatto che bastò a farmi arrossire. Mi
guardava sorridente, con quei suoi
grandi occhi blu e la sua aria spaesata, come se stesse fluttuando su
una
nuvola.
Era
strano come risultasse estremamente bella nonostante avesse dormito su
una
spiaggia – completamente nuda –, non si fosse
pettinata e nemmeno truccata;
qualsiasi altra ragazza sarebbe stata più simile ad un leone
che ad un essere
umano, invece lei sembrava essere
appena uscita da un salone di bellezza.
«Quando
mi sono svegliato tu non eri...» Non feci in tempo a finire
la frase che mi
bloccò.
«Oh,
sì! Sono andata a fare un giro.» Ricordo quella
come una delle prime volte in
cui pensai che doveva essere totalmente fuori di testa,
perché solo un pazzo
poteva rispondere ad una domanda del genere con una frase che
moltiplicava i
quesiti.
Faceva
caldo, quella mattina, e le spiagge di Los Angeles erano affollate. Mi
sarebbe
piaciuto sapere che ora fosse, cosa che non sembrava preoccupare
minimamente la
mia Dea, tutta intenta a scrutare l’oceano. Rivolsi i
pensieri a mia madre che,
sicuramente, doveva essere – oltre che furiosa – in
ansia, visto e considerato
che non ero tornato a casa a dormire e non aveva alcuna notizia del
sottoscritto. Merda!
Guardai
la mia Musa.
Gli
occhi rivolti verso il mare, pareva la creatura più candida
che il pianeta
Terra ospitasse; aveva l’aria di essere lontana, persa in
chissà quale pensiero
che io – comune essere
mortale – non
potevo neanche sfiorare.
Era
splendida.
Splendida
ed irraggiungibile.
Non
importa quanto tempo spenderò con te
O
Musa
Perché
tu non sarai mai mia
Io
non ti avrò mai
«Come
ti chiami?» Fu quella l’unica domanda che la mia
mente fu in grado di
formulare, nonostante volessi chiederle a cosa stesse pensando, quali
fossero
le caratteristiche che la rendevano così, come poteva essere
così.
Le
chiesi il suo nome. Dopotutto, avevamo passato una notte selvaggia
insieme, tra
droga e danze, e ancora non conoscevo nulla di lei.
Si
girò, la mia Dea, il sorriso appena accennato sulle labbra.
C’era
attesa nell’aria, proprio come quando deve avvenire un fatto
importante; quando
tu aspetti, aspetti perché
vuoi
sapere disperatamente ciò che accadrà.
Quell’attesa che aumenta il desiderio,
logora le sinapsi cerebrali e alimenta l’animo.
E
lei
lo sapeva.
Aprì
la
bocca.
E
parlò.
«May.»
May,
la mia Musa.
«Il
mio
nome è May.»
*
Camminavamo
per le strade di Los Angeles, io e May.
Disse
che voleva farmi conoscere qualcuno, così la seguii, anche
se l’unica persona
della quale mi interessava sapere qualcosa a riguardo era lei. Aveva un
modo
strano di camminare, a volte lento e quasi perso, altre, invece, svelto
e
risoluto; saltellava tenendosi la gonna, in modo che non strascicasse
per
terra, e rideva. Rideva sempre con aria spensierata, come se il mondo
fosse un
posto magnifico e bisognasse solo guardare un po’ meglio per
accorgersi del suo
splendore. I capelli biondi, prima sciolti e annodati, erano stati
raccolti in
una lunga treccia che le cadeva morbida sul seno.
Presi
dalla tasca posteriore dei jeans il mio porta tabacco e sfilai una
sigaretta
già girata, portandomela alla bocca.
«Ne
hai
una anche per me?»
Sorrise,
la Musa, quando gliene porsi un’altra, accuratamente rollata
dal sottoscritto.
Si avvicinò a me per accendere. Nel vedere la sua bocca
così vicina a me,
ripensai ai baci scottanti che ci eravamo scambiati sotto
l’effetto dell’acido
e non potei fare a meno di pensare che ne avrei voluto ancora, ancora,
ancora.
Di più.
Languide
bocche
Oceano
infuocato
Io
e te
Mia
dolce Musa
«Dove
stiamo andando, di preciso?» domandai, il tono divertito di
una persona che sta
prendendo come un gioco ciò che sta accadendo intorno a lui;
era spassoso il
modo in cui May sembrava affrontare la vita: tutto un passatempo, tutto
un
piacere.
Mi
guardò sorridendo, il fumo che le usciva dalle labbra.
«Devi conoscere la
combriccola.»
La
combriccola comprendeva
sicuramente Kurt, il motociclista del bacio sulle labbra –
non ero una persona
che tendeva a dimenticare le cose –, Basettone,
l’unico con cui avevo avuto uno
scontro diretto, e lo Smilzo. Pensai che sarebbe stato migliore passare
la
giornata a far scorrere le mie mani sulle sue curve sinuose, ma non
dissi
nulla.
«Non
siete di qui, vero?»
Ero
ben
intenzionato a scoprire tutto ciò che potevo sul suo conto,
quindi le posi la
domanda, ben conscio che l’idea di parlare non le sarebbe
andata a genio: avevo
compreso che non era una tizia che sprecava parole.
Rise
sotto i baffi, la mia Musa, divertita dalla mia perseveranza.
«No, infatti.»
Aveva
compreso il mio scopo e, ovviamente, non aveva alcuna intenzione di
darmi
corda, anzi, sembrava essere intenta a mettermi il bastone tra le
ruote. Mi
stavo divertendo.
Sorrisi
malizioso, assecondando i suoi occhi birichini. «E di dove
siete, allora?»
Si
portò la sigaretta alla bocca, lanciandomi un finto sguardo
inceneritore che
era, in realtà, allegro. Le strade erano colme di turisti in
calzoncini con le
borse da spiaggia in mano, pronti per passare un’intera
giornata sulle spiagge
cocenti della California.
Vicino
a noi, un anziano stava tirando su la saracinesca del suo negozio di
frutta e
verdura. «Veniamo da posti diversi...»
iniziò, ambigua «...Ci siamo incontrati
per le strade degli immensi Stati Uniti d’America.»
C’era
qualcosa, nei suoi occhi, come una luce... Era impossibile non notarla,
era
come se tutto il suo spirito confluisse in quel luccichio, che la
rappresentava
così bene. Non avevo mai visto occhi
così.
Così
vivi.
Continuammo
a camminare per almeno un’altra mezz’ora e ci
allontanammo molto dalla costa,
per finire dentro il centro urbano, in uno di quei quartieri abitati da
vecchi
ubriaconi e giovani figli dei fiori, quelli che mio padre detestava
tanto. Finimmo
davvero in quella zona malfamata, dove si raccontava succedessero gli
eventi
meno raccomandabili di Los Angeles. Probabilmente avrei dovuto
aspettarlo,
vista la indole da fuori legge della mia Musa. Arrivammo in una specie
di
grosso parcheggio interrato, quelle costruzioni in cemento grigio che
sono
terribili da vedersi e sembrano urlare sono
il prodotto del consumismo! Chiaramente, il cantiere di
quell’enorme
progetto non era stato portato a termine e il tutto era stato
abbandonato; ora,
infatti, esibiva numerosi graffiti o scritte varie, lattine di birra
lasciate
un po’ ovunque e schifezze varie.
Ma,
al
momento, la decorazione che più stava a cuore al parcheggio
sotterraneo erano
tre giovani uomini, seduti su un muretto.
Basettone.
Motociclista. Smilzo.
I
tre
se ne stavano con le gambe a penzoloni, la lattina di birra in mano,
mentre
chiacchieravano a tono di voce basso, l’aria un po’
svampita. Come al solito,
però, Kurt incuteva un timore non indifferente.
Non
appena ci videro arrivare smisero di parlottare e presero a farci la
radiografia. Anzi, mi correggo: a farmi la
radiografia. Per quanto mi riguardava, stavo cercando di capire come
mai passavano
il tempo in un posto del genere, piuttosto che in spiaggia o ai
giardini.
«Ciao,
ragazzi!» Cantilenò la mia Dea, posando un bacio
sulla guancia ad ognuno dei
suoi amici. Lo Smilzo aveva un’aria amichevole, a differenza
del Motociclista,
e un sorriso sghembo che gli donava un ché di tonto.
«Vi
ricordate di lui?» May, ovviamente, mi chiamò in
causa, voltandosi verso di me
con il sorriso più radioso del mondo. Alzai una mano in
segno di saluto,
cercando di sembrare il più fiero possibile,
anziché intimorito dal ragazzo con
il giubbotto di pelle.
«
Ciao,
amico» disse lo Smilzo offrendomi la mano, che accettai con
piacere. «Io sono
Tom.»
Tom,
detto anche lo Smilzo, aveva dei capelli lunghi che gli toccavano le
spalle,
cosa che lo distingueva dal resto della gente. Teneva una sigaretta tra
le
labbra, mentre mi stringeva la mano, gli occhietti vispi.
«Abbiamo
già avuto il piacere di parlare io e te, ricordi?»
domandò divertito Basettone,
dandomi una pacca sulla spalla. «Comunque, sono
Dean» Risposi con sicurezza,
presentandomi a mia volta, cercando di eliminare
l’imbarazzante immagine del
primo incontro tra me e Basettone, a casa di Claire.
Kurt
mi
lanciò un’occhiata disgustata, prima di tornare ad
occuparsi della sua birra ed
ignorarmi completamente, come se fossi un fantasma. May sembrava
offesa, o
forse un po’ delusa, ma non disse nulla.
«Non
fare caso a Kurt» bisbigliò Tom al mio orecchio
«È un asociale, un orso bruno.»
L’avevo
capito anche da me, ma apprezzai il tentativo dello Smilzo di mettermi
a mio
agio, calmando un po’ la tensione. Sembrava uno a posto, quel
Tom.
Mi
resi
conto solo ora che c’era una chitarra accanto ad una borsa
colma di chissà
quali cianfrusaglie. «Avete una chitarra!»
Gli
occhi della mia Dea si illuminarono e si fece più vicina a
me, provocandomi
come sempre la strana sensazione di aspettativa: il mio corpo la
bramava
disperatamente.
«La
sai
suonare, amico?» Fu Dean a parlare, già seduto a
terra, le gambe incrociate.
Annuii
convinto e May afferrò la chitarra, per poi donarmela e
guardarmi in attesa.
Rimasi sconvolto da ciò, ancora me lo ricordo: La mia Musa
mi stava fissando
con occhi ammirati.
Mi
guardava con quei grossi occhi blu, il sorriso sulle labbra.
In
quel
momento, avrei voluto baciarla più che mai.
Ma
non
lo feci. Formammo un cerchio a terra, mentre Kurt si ostinava a
starsene sul
muretto a bere birra, e presi a suonare una canzone qualsiasi, la prima
che mi
era venuta in mente. Alla fine, suonai dei brani che mi chiedevano i
ragazzi e
ci mettemmo a cantarli insieme, mentre la voce di May sovrastava le
nostre,
angelica, mistica.
Le
mie
mani si muovevano sicure sulle corde, intanto che la mia Musa danzava
– come
sempre – al cento del cerchio, ridendo a squarciagola. Era
così... vera.
E
ridevamo anche io, Tom e Dean, contagiati dall’allegria di
May, che sembrava
non poter trovare il suo epilogo. Musica e risate.
E
io
avevo occhi solo per lei.
«Dean,
prendi la chitarra!» Intimò May. Il Basettone mi
tolse lo strumento dalle
ginocchia e la mia Musa si sporse e mi offrì le mani, tutta
sorridente. Mi
alzai e mi trovai catapultato in una danza sfrenata, al centro del
cerchio.
Sentivo Tom e Dean ridere.
Le
sue
mani sul mio collo.
Le
mie
mani sui suoi fianchi.
Occhi
negli occhi.
Passarono
le ore.
Rimanemmo
tutta la giornata in quello schifo di posto, cantando, danzando,
bevendo birra.
Lo Smilzo, ad un certo punto, accese uno spinello e ce lo dividemmo.
E
poi
ballammo ancora.
E
poi
ridemmo ancora.
Quella
fu la mia prima giornata con i ragazzi.
La
prima di una lunga serie.
*
Angolo
Eryca
Grazie
a
Vì per aver betato il capitolo.
Lettori,
spero
vivamente che
il capitolo vi sia
piaciuto. Finalmente conosciamo il nome della nostra Musa –
May. Volevo dare l’idea
di spensieratezza, voglia di vivere e sballo, che caratterizzeranno
questa
storia per tutta la sua durata. Anche il rapporto May/Adam si sta
delineando un
poco e, nonostante siano ancora agli inizi, è già
molto profondo. Inspiegabile?
Voglio
che sia
esattamente così.
Fatevi
sentire
ragazzi, Over necessita lettori e
vi chiama
scalpitando!
Un
grosso abbraccio,
Eryca.
|
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Capitolo 5 *** Oceano ***
4.
Oceano
La
guardai.
Una
volta.
Due
volte.
Mille
volte.
La
guardai e tutto il mondo sembrò svanire, perché
non si poteva – non si doveva –
avere occhi come i suoi:
blu, blu come l’oceano, l’oceano immenso,
l’oceano che si fonde con il cielo, l’oceano
che sa essere impetuoso, pericoloso, ma anche accogliente e rilassante.
E...
lei aveva occhi come l’oceano.
Lei era l’oceano: impetuosa e
affascinante.
Camminava
al mio fianco, ancora una volta, mentre il vento si faceva
più forte e alzava
la polvere delle strade, inducendomi a chiudere gli occhi. Il sole
stava
sbadigliando, segno che di lì a poco ci avrebbe dato il suo
commiato per cedere
il posto alla luna, che avrebbe timbrato il cartellino di inizio turno.
Avevo
passato l’intera giornata cantando e ballando insieme ad un
gruppo di strambi
personaggi, della quale ancora non riuscivo a farmi un’idea:
erano un’incognita
per me, proprio come la mia dea; d’altronde non li conoscevo
che da un giorno
appena.
Guardai
la mia Musa – Mille e una volta –
lasciando
che i miei occhi perdessero tempo ad osservare i suoi zigomi alti, le
sue
labbra così carnose, la
sua pelle
rosea. Mi chiedevo se fosse una strega, in realtà,
perché non era possibile che
pendessi dalle sue labbra in quel modo, dopo appena una notte e una
giornata. Suonava stonato.
Come
potevo guardare in quel modo una donna, quando avevo sempre usato le
ragazze
come un metodo piacevole per svuotarmi le palle? Suonava
stonato.
La sua
gonna rossa era impolverata al fondo per il troppo strascicare a terra
e la sua
maglietta larga era delle più squallide che avessi mai
visto: una ragazza
qualsiasi, in poche parole, con indosso quei vestiti, sarebbe sembrata
una
barbona, eppure lei pareva una sinuosa, incantevole sirena.
Forse
era a causa della sua bellezza ultraterrena, oppure per colpa della sua
tendenza ad essere sempre così spontanea, così
libera, ma non riuscivo a
smettere di guardarla, di starle vicino. Era la mia Terra e io la sua
Luna,
costretto ad orbitare intorno a lei.
Ricordo
precisamente come, in quei primi giorni insieme a lei, mi domandavo
incessantemente qual era il motivo per cui non riuscivo a starle
lontano,
nonostante non la conoscessi affatto. Ero sconcertato, sconvolto e
pretendevo
risposte.
«Suoni
bene la chitarra» disse d’un tratto la Musa,
interrompendo i miei pensieri
filosofici. Non sorrideva, questa volta, ma i suoi occhi scintillavano,
come
sempre. Tirai un calcio ad un sassolino e lo vidi rotolare fino ad un
idrante,
che gli bloccò la via.
«In
compenso sono stonato come una campana!» Sentì
subito il suono della sua risata
fare eco alla mia, mentre il crepuscolo si faceva avanti.
Avevo
notato che May era una tizia di poche parole, così non mi
stupì quando non
cercò di prolungare la nostra conversazione; semplicemente,
parlava quando
aveva realmente qualcosa da dire,
altrimenti stava zitta. È una cosa che le invidio
tutt’ora.
In quei
due giorni passati insieme alla mia Musa avevo dimenticato di essere un
giovane
giocatore di baseball appena diplomato, circondato da sempre da ragazze
belle
quanto spente, ben voluto dai genitori. Mi ero lasciato alle spalle,
per quella
notte e quella giornata, tutte le finzioni e le ipocrisie che la mia
vita
comprendeva, lo stress e il dover sempre essere ristretto in una serie
di
regole imposte dal potente.
Avevo
lasciato sì che la vita andasse come doveva andare,
divertendomi,
abbandonandomi, facendomi trasportare dalla follia sensuale di una
donna
bellissima.
Una
donna bellissima che canticchiava tra sé e sé,
mentre camminava al mio fianco.
Arrivammo
di fronte alla villetta, che era poi la mia casa dell’epoca,
e l’ansia di dover
affrontare i miei genitori si fece sentire, inducendomi a
mangiucchiarmi le
unghie.
«Nervoso?»
Rimasi stupito, quella volta, dal fatto che May si fosse subito accorta
del mio
stato d’animo. Imparai, con il tempo, che la Musa sapeva
leggere attentamente
le altre persone, perché era una grande osservatrice.
«Mia
madre sarà furiosa...» dissi, più a me
stesso che a lei, guardando la villa. In
effetti, l’idea di dover subire l’ira funesta di
Lauren Williams non mi
allettava.
Posai i
miei occhi su di lei e la trovai intenta a fissare la mia casa con
un’attenzione che non avrei potuto avere neanche durante le
lezioni del
professor K.
Sapevo
che avremmo dovuto separarci, arrivato quel momento, ma non avevo
alcuna
intenzione di lasciarla andare. Ne volevo ancora, ancora, ne volevo di
più.
Resta
con me, O Musa
Cullami
Amami
Tienimi
con te
«Me ne
vado, allora. Questo non è posto per me»
sentenziò infine, un sorriso amaro
sulle sue labbra. Si voltò, la mano alzata in segno di
saluto, e fece per
prendere il viale per tornare dai suoi amici vagabondi.
Se se
ne fosse andata in quel modo, sapevo che non l’avrei rivista
mai più.
Se se
ne fosse andata in quel modo, sapevo che non avrei più
potuto danzare con lei.
Se se
ne fosse andata in quel modo, sapevo che sarei morto.
«May!»
urlai, rincorrendola. La vidi voltarsi, per nulla stupita, quando la
raggiunsi
e mi fermai davanti a lei.
Occhi
come l’oceano.
Non
disse nulla, sapeva bene che non era il suo momento di parlare, ma il
mio.
Rimase ferma, l’espressione seria, mentre rimase in attesa.
Gli occhi fissi nei
miei.
«Perché
me?» domandai infine, non riuscendo più a
resistere all’impulso di sapere.
Perché
sei venuta da me, con tutti gli
uomini attraenti che ti circondavano, O Musa?
Perché
hai scelto di danzare nel mare con
me, O Musa?
Perché
hai camminato mano nella mano per le
vie della Sirena con me, O Musa?
Perché?
Mi
sorrise, la mia dea. Mi posò una mano sulla guancia e,
quando sentii le sue
piccole dita posarsi sulla mia pelle, chiusi gli occhi, godendomi la
sensazione.
«Perché,
l’altra sera, vidi molti occhi puntati su di me.»
La sua voce era alito fresco
sul mio viso. «Erano occhi bramosi, volevano il mio corpo,
volevano scoparmi
con passione, con rabbia, con foga.» L’immagine di
un porco qualsiasi che
faceva sesso con la mia dea mi provocò un senso di gelosia
enorme, che dovetti
reprimere a forza quando lei riprese a parlare. «Ma poi, ho
visto due occhietti
vispi che mi osservavano con vero interesse, stupore, confusione.
Quegli occhi
erano realmente attirati da me, non dall’idea di portarmi a
letto.»
Aprii
gli occhi ed incontrai il suo sguardo commosso. Il suo viso era
così vicino al
mio che se solo avessi voluto avrei potuto baciarla senza sporgermi
troppo; le
sue labbra erano lì, perfette, pronte ad essere succhiate e
leccate da me.
Ma
rimasi fermo, a fissare quell’oceano blu.
«Te, perché non sei passato
dietro di me
palpandomi il culo senza ritegno, ma mi hai ammirata da
lontano.»
Vicini,
vicini. Eravamo troppo vicini e le parole stavano diventando troppo per me. E le sue labbra erano
lì,
per me. E io mi stavo perdendo, perdendo il quel mare blu.
E
allora non ce la feci più.
Mi
sporsi – un millimetro solo.
E la
baciai.
Sfiorai
le sue labbra con le mie, senza pretese, in un lievissimo contatto, per
poi
staccarmi con lentezza. Quel suo oceano blu scintillò per un
attimo, per poi
essere lei a prendere nuovamente l’iniziativa e fare
incontrare nuovamente le
nostre labbra. Mi abbandonai a quel bacio, lasciando che i suoi denti
mordessero dolcemente il labbro inferiore, in una dolcissima tortura.
Le misi
una mano sul fianco, facendola aderire di più al mio corpo,
che bramava il suo
calore, la sua pelle. Sentii le sue mani allacciarsi dietro al mio
collo e, di
fronte ad un simile coinvolgimento da parte sua, la passione
scoppiò in me,
inducendomi a baciarle il collo, le guance, la mandibola. Le morsi il
lobo
dell’orecchio e la sentii ridacchiare sul mio collo.
Di
nuovo bocche, labbra, lingue.
E non
mi importava se ero nel vialetto dove abitavo, se i miei vicini
avrebbero
spifferato tutto a mia madre o che, molto più probabilmente,
era la mia stessa
mamma che mi stava fissando dalle finestre di casa mia. Non mi
importava,
perché la mia Musa mi stava baciando il collo e il suo collo
aderiva
perfettamente al mio, come se fossimo due pezzi combacianti di un
puzzle.
Quello,
lo considerai il nostro primo bacio. La mia memoria lo ha rinchiuso in
un
cassetto ermetico, a differenza di quello dato sotto
l’effetto dell’acido, che
è solamente un ricordo sfumato.
Si
allontanò, facendo sì che le nostre labbra si
staccassero e io, per un istante
solo – oh Dio, certe sensazioni non
potranno mai essere dimenticate -, pensai che sarei potuto
morire.
Baciami
ancora, O Musa
Baciami
ancora
E
io morirò.
«Dimmi
che non sparirai.» Dissi quelle esatte parole, incatenando i
suoi occhi nei
miei, pregandola disperatamente di non svanire nel nulla, di non
dissolversi
come un sogno, perché avevo la necessità di
quell’oltre nella mia
pacata esistenza.
Sorrise,
la mia Musa, ed una tenera fossetta comparve nella sua guancia
sinistra.
«Sarai
tu a dovermi venire a cercare, bambino.»
Se
qualsiasi altra persona mi avesse affibbiato un nomignolo come
“bambino”,
probabilmente sarei andato su tutte le furie, ma detto da lei aveva un
suono
dolcissimo e per niente canzonatorio. Ancora adesso, infatti,
quell’appellativo
mi rimanda a lei ed ogni volta che sento una persona usare il termine,
il mio
cuore fa un balzo.
La
guardai e pensai che avrei potuto cercare per tutta la vita le sue
guance
rosee, i suoi capelli di seta, i suoi occhi d’oceano, la sua
fossetta
dolcissima.
L’avrei
cercata, su questo non c’erano dubbi.
Si
sporse nuovamente e mi posò un lieve bacio sulla guancia,
poi prese ad
indietreggiare senza mai staccare gli occhi dai miei, il sorriso appena
accennato sulle labbra.
«A
presto, piccolo Adam.»
A
presto, mia dolcissima Musa.
*
Non
appena misi piede in casa, venni investito da un tornado inferocito e
senza
pietà, che mi diede il benvenuto con un sonoro schiaffo in
faccia.
«Dove
sei stato, brutto fetente?» Lauren Williams aveva uno strano
concetto di
termini offensivi e brutto fetente deteneva
uno dei posti più alti nella sua classifica degli insulti;
l’unica volta che
l’avevo sentita pronunciare una vera parolaccia era stato
quando mio padre era
tornato a casa ubriaco, dopo la festa dei coscritti.
Se
c’era una cosa che mi faceva paura, quella era mia madre
arrabbiata.
«Ti
sembra normale, il tuo comportamento? Sparisci per due giorni! Non una
chiamata, non un biglietto! Potevi inviare un piccione viaggiatore,
sarebbe
stato meglio di questo silenzio! Stavo quasi per andare alla polizia!
Che
cos’hai in quel tuo cervello da canarino?»
Dovetti
trattenermi dal ridere, perché – ammettiamolo
– vedere mia mamma rossa in viso,
urlarmi contro che potevo inviare un
piccione viaggiatore non era un evento quotidiano. Comunque,
cercai di
assumere un’espressione desolata e sottomessa, che potesse
far credere ad Adolf
Hitler – soprannome affibbiato a mia mamma da me e Tyler
– di avere almeno un
po’ di senso di colpa. Mi ricordo perfettamente come, mentre
la donna
continuasse con la sua ramanzina, la mia mente volasse
all’immagine della bocca
di May sulla mia.
Le sue labbra, il suo profumo...
«Adam
Williams, mi stai ascoltando?» Non appena vide la mia
espressione sognante,
fece un gesto con la mano, come per scacciare una mosca. «Ma
cosa perdo tempo a
blaterare con te, che nemmeno mi stai ascoltando. Fila in camera tua,
tacchino!»
Tacchino
occupava il
numero tre
nella Hit Parade degli insulti coniati da mia madre ed era, in effetti,
uno dei
più insensati e idioti.
Senza
degnarla di una scusa o una risposta, mi affrettai verso camera mia,
dove aprii
la porta con foga, solo per gettarmi sul letto e prendere a fissare il
soffitto. Il poster dei Doors – il gruppo che dominava le
classifiche
dell’epoca – mi osservava a sua volta e io rimasi
così per tutta la sera, senza
fare nulla di concreto.
Rimasi
sdraiato, le scarpe ancora addosso, pensando.
Pensando
alla mia dea e al suo sguardo delizioso mentre mi intimava di andare a
cercarla.
Sorrisi
a Jim Morrison e mi dissi che avrei chiamato Tyler per rimandare la
partita a
basket che avevamo programmato con i ragazzi.
Dovevo
cercare la mia Musa.
Ti
cercherò, mia dolcissima Dea
Ti
cercherò oltre il tempo
Oltre
i confini dell’impossibile
Ed ero
disposto a tutto pur di trovarla.
*
Angolo
Eryca
Ta-dan!
Ecco a voi un nuovo capitolo
fresco di beta reading (grazie Vì, cara).
Come
vedete i personaggi iniziano a
comunicare ed è qui che devo fare due piccole
puntualizzazioni: Adam e May
avranno sempre un modo tutto loro, speciale, di interagire e
rapportarsi; non
sentirete mai i soliti discorsi perditempo che si fanno tra le persone
comuni,
perché loro non sono persone
comuni.
Sarà un po’ particolare :D
Ah,
una cosa che (dio! com’è
possibile?!) ho dimenticato di dirvi sin da subito ed
è
decisamente essenziale (perdonatemi, ma sono la persona più
sbadata del mondo):
il titolo della storia, Over, non
è
dato a caso, ma significa letteralmente “Oltre”,
perché sarà proprio il succo
dell’intero racconto, ciò che Adam
imparerà a fare, ovvero andare oltre.
Ah,
sì, il ragazzo che vedete nella foto
è Alex Pettyfer (*-*) che impersoni fica il mio Adam. (La
ragazza che avete
visto nel primo capitolo invece è Rose Huntington-Whiteley
ed è la mia May.
Direi
che è tutto, mi sono dilungata
abbastanza. xD
Questa
storia è scritta con amore e
necessita lettori e pareri, quindi se ci siete (Ehilà-aaa?)
fatevi sentire :-*
Una
cascata di baci,
la vostra Eryca.
|
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Capitolo 6 *** Dove il sole batte più forte ***
5.
Dove
il sole batte più forte
Quella
fu la mattina del bigliettino.
Ero
andato a dormire con il sottofondo della voce di Joni Mitchell, che mi
aveva
conciliato il sonno. Non avevo fatto baldoria, visto e considerato che
mia
madre avrebbe preferito impiccarmi, piuttosto di vedermi uscire da
quella porta
dopo due giorni di assenza.
Ricordo
perfettamente che mi stiracchiai, aprii gli occhi – ancora
appannati – e feci
per scendere dal letto ed infilarmi le ciabatte, però.
Però
vidi che sul mio
comodino
vi era un foglietto di carta piegato in due, che portava il mio nome. Adam, c’era scritto, con una
calligrafia
che non ricordava né quella di Lauren né quella
di Stephen. Era un piccolo
pezzo di carta riciclata, quella che è sporca eppure, allo
stesso tempo, molto
più pura di quei fogli bianchi e pulitissimi.
Mi
sporsi e lo aprii.
Il sole
di giugno
È
così
forte che sembra voler incendiare gli animi.
Forse
il suo scopo era quello di infiammare
Me e
te?
Ci è
riuscito, questo sole birichino?
Hai
promesso di cercarmi, piccolo Adam.
Trovami
Dove il
sole batte più forte.
Rimasi
così perplesso da quelle parole dal tono sognante che
dovetti rileggerle più
volte, cercando i significati in ogni singola lettera. Non era firmato,
ma non
ce n’era alcun bisogno, perché sapevo benissimo
che era una sua idea.
May.
Mi
domandai come diavolo avesse fatto ad entrare in casa mia e lasciarmi
il
messaggio, ma poi mi voltai e vidi che la finestra di camera mia non
era del
tutto chiusa: l’avevo lasciata aperta per far entrare un
po’ d’aria, con tutto
quel caldo infernale.
Non
rimasi troppo stupito dal suo strano comportamento – non era
da tutti
intrufolarsi in casa di un semi sconosciuto e lasciargli un testo
criptato –
perché era da lei.
Nonostante
avessi passato solamente due giorni insieme alla mia Musa, sentivo che
c’era un
legame così profondo tra di noi che non era nemmeno
spiegabile a parole. Anche
adesso, mi trovo in difficoltà nel cercare di dare un senso
alla nostra storia,
ma l’unica cosa certa è che quel suo biglietto mi
fece comprendere che ormai
eravamo uniti. Non era solamente
una
questione di folgorazione e non era nemmeno “amore a prima
vista”.
Era di più.
Era oltre.
Rimasi
a lungo seduto sul letto, rileggendo le parole poetiche della mia dea,
che
aveva appena dimostrato di avere una grande dote di scrittrice. Capii,
dal suo
biglietto, che mi stava dando un indizio. Stava giocando. E sapevo
anche che si
stava divertendo molto.
Sorrisi
allegro perché,
in fondo, quel suo essere così
enigmatica incrementava la mia voglia
di
vederla, di tenerla fra le braccia, di baciarla.
Le
sue labbra...
Quel
giorno, ormai lo avevo deciso, lo avrei dedicato per mantenere la
promessa fatta
alla mia dea, che non avevo alcuna intenzione di deludere.
All’epoca avevo
l’abitudine di riempire dei piccoli quaderni con pensieri e
parole, così
afferrai quello del momento, dopo essermi infilato un paio di jeans e
una
maglietta a caso.
Dov’è
che il sole batte più forte?
Scrissi
questa domanda sul mio taccuino, lo stesso aperto davanti a me, ora,
mentre vi
racconto questa storia; dopo tanti anni, la calligrafia giovane
è ancora
visibile, forse un po’ sbiadita, ma si può leggere
il quesito interiore di quel
giorno.
Scesi
in cucina e la trovai vuota, segno che i miei genitori dovevano
già essere al
lavoro; aprii il frigorifero e addentai una fetta di bacon, senza avere
la
voglia di preparami una colazione vera e propria. Avevo ben altro a cui
pensare.
Mentre
mi apprestavo ad uscire di casa continuavo a scervellarmi, cercando una
risposta al quesito della mia Musa che, con tutte le
probabilità del caso,
stava aspettando divertita. Forse quello era il suo modo per mettermi
alla
prova, per vedere se meritavo la sua attenzione, ergo non potevo
permettermi di
non trovarla.
Io avevo promesso.
Ricordo
che ero ossessionato dall’idea di deludere May e continuavo a
rigirarmi tra le
mani il mio taccuino, ogni tanto scrivendo una parola, un verbo.
Venere
irriverente
Gioca
con l’Uomo
Ma
l’Uomo altro non è che un
Servo.
Stavo
percorrendo la strada del vialetto di casa mia, quando capii.
Ricordo
nitidamente che mi fermai – se fossi stato una macchina avrei
utilizzato il
verbo inchiodare, perché
rende bene
l’idea – e rimasi così per un attimo,
gli occhi spalancati.
Poi.
Poi corsi.
Corsi
come mi aveva insegnato lei, fregandomene della gente che mi guardava
come se
fossi un pazzo e dannazione! forse
lo
ero proprio un pazzo, ma non m’importava, non mi toccava,
perché io avevo capito!
Risi. Diavolo se risi!
Correvo e gridavo, senza curarmi dell’occhiata interrogativa
che il mio vicino
di casa mi rivolse.
Credo
che, con quell’illuminazione, capii davvero quanto mi
importava della Musa,
quanto avrei voluto renderla orgogliosa di me. Sono quasi certo che fu
in quel
momento che compresi la prima lezione di May: feci da solo quello che
avevo
fatto con lei, imparai a non dar peso alle restrizioni sociali e a fare
ciò che
mi rendeva libero.
Ormai
il passo era stato compiuto, non potevo tornare indietro.
Per la
prima volta nella mia vita, grazie alla mia dea danzante, ero andato oltre.
Libero
come mai ero stato in tutta la mia vita, continuai il mio piccolo
viaggio,
salutando persone che non avevo mai visto, sorridendo a chiunque.
Ridendo,
urlando, correndo.
Mi
fermai solo quando arrivai di fronte al palazzo che mi interessava,
concedendomi
una breve pausa per riacquistare le forze.
Entrai
nella biblioteca comunale che ero sudato marcio, i vestiti appiccicati
al mio
corpo e goccioline che mi cadevano sulla fronte a causa della lunga
corsa. L’espressione
sconvolta della bibliotecaria di fronte alla mia persona è
ancora stampato
nella mia mente, come se fosse successo solo ieri.
«Salve,
Mrs. Cannon» salutai con il fiato corto.
Rebecca Cannon era una di quelle ragazze con cui non andresti mai a
letto,
nemmeno se fosse l’ultima persona rimasta al mondo; la sua
immagine è sfumata
nella mia memoria, ma ricordo vagamente i suoi grossi occhiali rossi,
che la
facevano somigliare ad una rana.
La
ragazza mi fece un cenno con la testa in risposta, tornando a rivolgere
la sua
attenzione alle carte sulla scrivania.
Ma io
avevo bisogno di lei per rendere la Musa fiera di me.
Così
posi la fatidica domanda alla bibliotecaria.
«Posso
prendere in prestito un libro?»
*
La
trovai, allora.
La mia
intuizione si era rivelata giusta, così la mia lunghissima
camminata fino alla
collina di Hollywood non era stata inutile. Oh sì, il posto
dove “il sole batte
più forte” era proprio quell’altura e io
lo avevo capito, perché avevo passato
diversi pomeriggi a vagabondare lì, con Tyler.
Se ne
stava seduta sul prato erboso, le gambe incrociate, coperte da corti
pantaloncini a vita alta, così scoloriti da sembrare
orrendi. Guardava lontano,
verso il mare o l’orizzonte: difficile a dirsi. I lunghi
capelli color grano
erano intrecciato alla bell’e meglio, proprio come
l’ultima volta che l’avevo
vista – e l’avevo baciata.
Ancora
una volta, rimasi spiazzato di fronte alla sua genuina bellezza.
La vidi
sorridere, senza però smettere di rivolgere la sua
attenzione all’infinito, e
capii che si era accorta della mia presenza. Con le gambe molli, mi
trascinai
fino a lei e mi sedetti al suo fianco, scrutando il suo viso, cercando
le
espressioni.
«Sei
stato bravo, piccolo Adam.» I suoi occhi rimasero puntati nel
vuoto, ma la sua
mano si mosse e, proprio con la lentezza di un serpente, si
posò sulla mia
coscia, iniziando ad accarezzarla dolcemente.
«Mi
sono divertito, sai?» Fu solo con quella frase che,
finalmente, la mia Musa mi
degnò di attenzione. E sorrise insieme a me. Dio,
quegli occhi! Mi ritrovai a ridere ancora di più
non appena
notai le fossette sulle guance di May.
Poi, la
mia dolce dea si avvicinò e posò la testa sulla
mia spalla, lasciandosi
abbracciare. Ricordo che ero invaso dalla sua persona, sentivo
solamente il suo
profumo, la sua presenza, il suo respiro regolare.
C’è questa polaroid nella
mia mente, dei suoi capelli vicino alla mia testa, della sua mano
intrecciata
alla mia e il sole, alto e maestoso, che splendeva così
forte da far bruciare
il mio cuore.
Accanto
a te:
ecco
dove il
sole
batte più forte
«Lo
sapevo che sei diverso.» Il suo tono era convinto, non
ammetteva repliche. «Sì,
lo sapevo.»
Rimanemmo
così, i nostri corpi a stretto contatto nonostante il caldo
fosse
insopportabile, per un tempo che non saprei dire, perché
persi totalmente la
concezione di esso, come ogni volta che fui insieme a lei.
«Non
è
bello, qui?» Si sbilanciò e mi posò un
lieve, lievissimo bacio sulla
guancia, che mi provocò una sensazione di
leggerezza inaspettata. Ogni cosa, quando lei era accanto a me,
sembrava avere
meno peso e il mondo pareva un posto mistico, incantevole e da
scoprire.
Tu
sei bella, mia Musa
«Sembra
quasi di poter toccare il cielo!» esclamò alzando
un dito verso l’alto,
protendendosi con tutte le forze che aveva, cercando realmente
di posare la mano sulla tavolozza del blu infinito.
Scoppiammo a ridere per quell’azione forse un po’
infantile, forse un po’
stupida, ma così vera.
Ci ritrovammo
naso contro naso, occhi negli occhi e, ancora una volta, mi ritrovai a
pensare
che doveva essere proprio un’aliena, quella Musa,
perché non si poteva essere così.
Poi,
come se fosse la cosa più naturale del mondo, con la stessa
spensieratezza di
sempre, May si protese e mi toccò le labbra con le sue.
Ciò che mi è rimasto
impresso, dei suoi baci, è il fatto che non ci fossero
grandi emozioni come la
rabbia, il disperato bisogno di dimostrare qualcosa, ma neanche
l’imbarazzo
tipico delle coppie alle prime armi e nemmeno un qualcosa di solenne:
lei mi
baciava come se io e lei fossimo predestinati a farlo.
Le sue
labbra mi dicevano è il nostro
destino.
Mi
stringeva la vita con le mani, mentre io scendevo a torturarle il
collo.
«Cos’hai qui?»
Si
staccò da me, la Musa – non
te ne andare,
resta con me – e guardò la pagina
ingiallita che teneva in mano, presa
dalla tasca della mia maglia.
Parla,
Adam, parla. «É...
una cosa... per te...»
May
alzò la testa di scatto e, sinceramente colpita e sorpresa
da quella
rivelazione, mi rivolse un’occhiata incredula.
Aprì il foglio e la vidi
immergersi completamente nella lettura, mentre il mio animo smaniava
per sapere
cosa ne pensava; forse ero stato troppo avventato, troppo immaturo.
Invece,
quello che la mia Musa fece, mi lasciò nuovamente
sconcertato.
Prese a
leggere.
Ad alta
voce.
«Dammi
mille baci, poi cento
Poi
altri mille, poi ancora cento
Poi
altri mille, poi cento ancora.
Quindi,
quando saremo stanchi di contarli,
continueremo
a baciarci senza pensarci,
per
non spaventarci e perché nessuno,
nessuno
dei tanti che ci invidiano,
possa
farci del male sapendo che si può,
coi
baci, essere tanto felici.»
Per
ogni parola pronunciata dalla sua voce, la poesia era divenuta ancora
più giusta di quanto
avevo pensato da solo,
in biblioteca. La sua voce di fata le aveva reso onore, trasportandomi
in un
universo parallelo, dove solo lei era reale, reale, reale.
Poi, di
nuovo la sua bocca sulla mia, le sue mani a cercare le mie, il suo
corpo contro
il mio.
«Catullo,
piccolo Adam...» prese a mormorare sulla mia pelle, mentre il
mio sistema
nervoso aveva iniziato ad andare in cortocircuito, perché
lei era così vicina.
La
presi per i fianchi e la misi a cavalcioni sulle mia gambe e, prima di
assalire
di nuovo la sua bocca, vidi la sua espressione sempre più
stupita, a causa del
mio comportamento inaspettato. Ero riuscito a sorprendere la mia Musa.
«Dammi
mille baci, bambino...»
E la
sua voce sembrava provenire da chissà quanto lontano, mentre
le sue dita si
insinuavano sotto il bordo della mia maglietta e i palmi delle sue mani
si
posavano sulla mia pelle e io ne volevo di più, di
più, ancora di più. Mi
guardò per un solo istante – occhi
come
l’oceano – prima di sfilarmi la maglia
dalla testa e prendere a baciarmi il
petto, inducendomi a mandare la testa indietro, completamente in suo
possesso.
Ma
d’altronde era stato così fin da subito: suo
possesso.
Feci in
modo che anche lei rimanesse senza maglietta e rimasi a fissarle il
busto,
fasciato solamente da un semplice reggiseno nero. Ed era la perfezione.
Ed era oltre.
Le
baciai l’incavo tra i due seni e la sentii respirare
più velocemente, mentre le
sue unghie si piantavano feroci nella mia schiena – dolce, dolcissimo supplizio.
Le mie mani scesero più in basso, lentamente, languidamente,
preannunciando un
nuovo piano d’attacco, un nuovo gioco...e la Dea capii e
rise, felice,
spensierata, aprendo un poco di più le gambe, dandomi la sua
benedizione. E
ancora una volta, con un solo gesto, riuscì a farmi perdere
il controllo.
Presi a
aprirle i pantaloncini, guardandola negli occhi e sorridendole
malizioso,
inducendola nuovamente a ridere, così che mi si mozzava il
fiato. Quando le
accarezzai le mutandine, la Musa spinse il bacino verso
l’alto, chiedendomi di
più, chiedendomi l’oltre.
E
allora l’accontentai, perché non sapevo fare
altrimenti e non avrei mai saputo
fare altrimenti; perché non sarei mai riuscito, in tutto il
periodo in cui
l’amai, a negare qualcosa. Così – dio,
è un ricordo così nitido – lasciai che
le mie dita scivolassero in lei, mentre
il resto del mondo si sfocava e prendeva il posto che avrebbe dovuto
avere,
cioè il nulla. Perché il mondo non era niente,
senza di lei.
Mille
baci
Mille
baci, O Musa
E alla
vista di May con gli occhi chiusi, la bocca semi aperta, mentre toccava
l’apice
– bella, bella come non mai –
ricordo
di averla seguita, senza altri indugi. Non avevo avuto bisogno di
niente, se
non del suo piacere, che era
divenuto
anche il mio.
Allora
non capii – come potevo? – ma quello fu uno dei
segnali più allarmanti, che mi
avrebbero dovuto far capire quanto io e
lei avevamo scavato nel profondo
dell’altro, quanto eravamo complementari.
Pensai
che ero stato messo in vita solamente per poterla cercare.
E per trovarla.
L’avevo
trovata.
Mi
baciò il collo, mentre mi circondava con le sue braccia.
«Oh, sì. Sei stato
proprio bravo, piccolo Adam.»
La
sentii ridere.
E, per
la prima volta nella mia vita, non avrei voluto udire
nient’altro al mondo.
*
Angolo
Autrice
Come
prima cosa mi devo scusare per il
ritardo con il
quale posto questo
capitolo ç__ç
Sono
un’autrice brutta e cattiva che non
ha nemmeno un po’ di riguardo per i suoi lettori, avete
ragione. Chiedo venia!
Ehi,
ehi, qui inizia la parte “letteraria”
– come mi diverto a chiamarla, io – di questa
storia: scritti, taccuini e Catullo
(Adoro quella poesia *-*)! Che ne dite? La passione tra i due inizia a
farsi sentire, eh? Ma questo è solo l'inizio, un piccolo
assaggio... :P
Beh,
tra due capitoli sappiate che inizia
la VERA storia e finisce l’introduzione: Adam e May
inizieranno a fare sul serio
e le loro disavventure avranno inizio :D
Ringrazio
immensamente ogni singolo
lettore che presta un po’ del suo tempo alla mia Over, chi la
Segue, la
Preferisce o la Ricorda e chi recensisce… vi amo, grazie di
cuore!
Una
nevicata di bacioni :-*
La vostra Eryca.
|
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Capitolo 7 *** Quel mare di giugno ***
6.
Quel
mare di giugno
Ci sono
eventi, nella vita, che ci insegnano.
Eventi
che, a volte, stravolgono le nostre esistenze, magari portandoci
dolore,
tristezza, confusione. Quegli avvenimenti che perché
a me, cazzo?
Eppure,
quando il tempo passa, e ci ritroviamo a voltare la testa, guardando
indietro,
scorgiamo quegli episodi drastici salutarci con la manina. Ed
è solo quando le
rughe iniziano a segnarci il volto, i capelli divengono brizzolati e
non
riusciamo più a correre nel migliore dei modi, che capiamo a
fondo quanto
quegli eventi ci abbiano forgiato.
A quel
punto, l’episodio drastico diviene un’esperienza.
E io
credo – lo credo con tutto me stesso – che la mia
prima vera esperienza di vita
l’abbia fatta a causa – grazie,
direi ora
– sua, della mia Musa.
Successe
nello stesso giorno in cui mi fece trovare il biglietto sul mio
comodino, ma
per arrivare al punto saliente, ho il dovere di raccontarvi i fatti che
lo
precedono.
Dopo
averla trovata sulla collina, tornammo verso la città, la
sua mano nella mia,
ancora una volta, per sempre. Camminammo
a lungo e, come ogni volta, non avevamo una meta prefissata,
perché, molto
semplicemente, non ci sarebbe stato divertimento se avessimo
già saputo
cos’avremmo fatto in quella giornata. Era così per
May, la vita, una continua
scoperta, una sfida contro l’impossibile.
Ricordo
che Los Angeles bruciava, in quel periodo, e le strade asfaltate erano
così
calde che se per sbaglio vi appoggiavi la mano, finivi per scottarti e
doverla
ritirare bruscamente. La Sirena, in piena estate, toccava temperature
esorbitanti ed era per quel motivo che le persone affollavano le
spiagge,
cercando conforto nell’acqua.
Ero
abituato a quella calda tortura, dopotutto abitavo a LA da sempre, ma
la mia
Musa sembrava essere sul punto di uno svenimento, con tanto di occhi
stanchi e
sudore.
«Devi
bere qualcosa, May.» Tirai fuori un’aria risoluta,
il tono di una persona più
anziana della mia età preoccupata per la sua compagna:
un’accoppiata che poco
si addiceva alla mia situazione del momento. Eppure
avevo parlato a quel modo, ennesima prova del legame
instaurato in così poco tempo con la splendida Dea danzante.
Vidi il
suo sguardo divertito, dovuto probabilmente alla mia ansietà
o forse alla mia
aria da paparino. In ogni caso, May aveva davvero bisogno di
dissetarsi, così
non aspettai risposte e la scortai nel primo locale che trovammo, senza
guardarmi intorno.
Quattro
cose mi sono rimaste impresse di quel bar.
Uno,
il suono del
campanellino non appena aprii la porta, ad avvisare il proprietario
dell’arrivo
di un cliente.
Due,
l’odore
forte di
tabacco, che sembrava essere un fedele compagno del locale, cosa che
era
confermata dalla nuvola di fumo.
Tre,
il barista alto
e
muscoloso, i tatuaggi tribali sui bicipiti, la testa rasata e
l’aria pericolosa
di chi bisogna evitare di notte.
Quattro.
Feci
sedere May al bancone, ordinando subito un bicchiere di acqua fresca e
una
bibita ghiacciata, sperando che le dessero una mano. Mi sedetti vicino
a lei,
che aveva la pelle dorata lucida di sudore, chiedendole se si sentiva
meglio,
lì.
«Sì,
sto bene...» La sua voce suonò come un flebile
sussurro, segnale del fatto che
no, non stava affatto bene e che sì, aveva bisogno di
rinfrescarsi ancora.
Quattro.
Quattro,
i gomiti del
barista si
appoggiarono sul bancone, proprio dinanzi alla mia Musa che
alzò la testa,
fronteggiandolo.
«Ti
senti male, bellezza?»
All’epoca
pensai che il tono di voce usato dall’uomo fosse sfrontato,
volgare, invadente,
ma ora – con il famoso senno di poi
–
direi che utilizzò il modo di parlare di ogni maschio in
calore che ha trovato
una femmina di suo gradimento; probabilmente l’ho usato anche
io, qualche
volta, senza rendermene conto. Comunque, quel giorno – senza
il famoso senno di poi –
pensa che fosse un cafone
che stava cercando di soffiarmi la ragazza mettendo in bella mostra il
suo
fisico esageratamente palestrato.
«Ha
solo la pressione bassa a causa del caldo.» Ancora adesso mi
chiedo dove trovai
il coraggio di rispondere in quel modo indisponente ad un tale colosso.
Quattro,
il colosso in
questione
mi lanciò un’occhiata furente e – ne
sono sicuro – se ne fosse stato capace,
avrebbe anche ringhiato.
Ma
Quattro fu May
che mi prese la mano e la intrecciò con la sua, per poi
sporgersi e posare le
sue labbra sulle mie, in bacio tanto casto quanto intimo.
Quattro fu la mia Musa
che, con
quel semplice gesto, zittì un uomo forte e pericoloso,
mettendolo in un
angolino, facendogli capire che non doveva disturbarci, che non doveva
importunarla, perché lei non era interessa alla sua compagnia.
Quattro
fu la sensazione
di
consapevolezza che gli occhi di May mi trasmisero e, il viso vicino al
mio, mi
resi conto che aveva appena resa pubblica la nostra stramba relazione,
facendo
capire ad un contendente che lei era mia.
Mia.
Quattro
cose io ricordo, Musa
Ma
solo una mi ha scavato l’anima
La
quarta
La
quarta per dirmi
Che
eri mia
Le sue
labbra ad un centimetro dalle mie.
Il suo
respiro caldo che si mescolava con il mio.
Occhi
negli occhi.
Quattro.
*
È
strano come, a volte, nei ricordi vi siano impressi piccolissimi
particolari
che, mentre li stavi vivendo sembravano non contare nulla; ma eccoli
lì,
apparentemente insignificanti, eppure essenziali a tal punto da
rimanere nelle
tue memorie.
Quel
mare di giugno, ad esempio.
Mi
sembra di vedere di nuovo quella tavolozza azzurra davanti ai miei
occhi, così
placida da trasmettere serenità a chiunque, così
limpida da poterci vedere
dentro.
Quel
mare di giugno, microscopico particolare di contorno, mi permette di
rammentarmi alla perfezione quella giornata fondamentale; è
questo elemento
paesaggistico, che rende quei ricordi sfumati ancora reali.
Quel
mare di giugno,
vetro
cristallino
ritratto
di amore
Quel
mare di giugno
Per
ricordarmi di te.
Me ne stavo
sdraiato sulla spiaggia, il torso nudo, mentre May, accanto a me, si
rollava
una sigaretta, il viso concentrato e la fronte corrugata. Avevamo
deciso di
fare una capatina in riva al mare, dopo aver atteso che la mia Musa si
fosse
ripresa, così, in quel momento, mi stavo godendo il sole. Se
la nostra fosse
stata una normale relazione, tra due normali persone, in quel momento
vi
sarebbe stato imbarazzo, bisogno di conoscersi, di intraprendere una di
quelle
conversazioni da inizio frequentazione.
Ma
noi non eravamo
una coppia
nella norma.
Ed è
per questo motivo che ricordo il suo sorriso sereno ad illuminare il
mio mondo,
mentre il sole geloso batteva i piedi a terra, come un bambino
capriccioso. Tra
di noi vi era questo filo di ragnatela sottilissimo – un capo
a lei, un capo a
me – eppure così resistente che sembrava poter
durare in eterno, battendo ogni
confine, ogni restrizione, ogni limite spazio temporale... andando oltre, per sempre.
La
guardai. Mille volte.
Se ne
stava sdraiata sulla sabbia a pancia in su con una gamba piegata e
un’altra
allungata, gli occhi chiusi. Si portò la sigaretta alle
labbra, senza aprire
gli occhi, e lasciò che il fumo le uscisse dalla bocca in
una nuvoletta
compatta.
Avrei
voluto avvicinarmi – lentamente –
oscurare il sole, così da indurla a guardarmi e poi fissare
quei suoi begli
occhi nei miei, per un istante che sarebbe potuto durare in eterno, per
quanto
mi riguardava. E poi l’avrei baciata – lentamente.
Mi
limitai a guardarla da lontano, come si fa con quei quadri bellissimi
ed
intoccabili, che si ha paura di rovinare anche solo con un dito. Una dea.
Assetato
e preoccupato per il calo di pressione di May, decisi di andare a
comprare una
bottiglietta d’acqua al chiosco della spiaggia,
così mi alzai e, senza
disturbare la mia Musa, mi diressi verso il luogo prefissato. Prendere
da bere
in spiaggia, in piena stagione estiva, a Los Angeles, era una di quelle
azioni
che un uomo non dovrebbe mai compiere: una folla di bambini pestiferi e
genitori esasperati attendevano il loro turno, sudando più
di quanto non fosse
già possibile a causa della vicinanza tra i corpi.
Dopo
almeno una mezz’ora buona di coda, riuscii finalmente a farmi
valere, così
tornai dalla mia Musa con l’aria di vittoria e la bottiglia
d’acqua in mano,
quasi fosse un trofeo.
Ero
quasi arrivato da lei – evitando di prendermi una pallonata
in testa, lanciata
da bambini non decisamente abili nel calcio – quando mi
accorsi che in mano, la
mia Musa teneva un quaderno.
Non ci
volle molto a fare i conti e poi, si sa, due più due
è uguale a quattro.
Il
mio taccuino.
All’epoca,
il mio taccuino di appunti era il mio Santo Graal, il mio piccolo
tesoro
prezioso che custodivo con tanta cura, nascondendolo dalle mani
taccheggiatrici
della gente, proteggendolo da occhi indiscreti, che avrebbero
contaminato la
purezza di quei versi.
Fu
qualcosa di simile ad un trauma, quindi, vedere quel mio smeraldo in
mano a May
che, troppo presa a sfogliarlo ed esaminarlo, non si era resa conto del
mio
arrivo.
«Che
cosa stai facendo?» Nonostante lo sforzo di mantenere un tono
di voce calmo,
quello suonò allarmato, inducendo la ragazza a rivolgermi la
sua attenzione.
Mi ero
aspettato un sobbalzo da parte sua, come quando si viene scoperti nel
pieno di
una bravata, ma – ancora una volta – tutte le mie
aspettative vennero smontate
da una persona che sembrava essere tutto meno che scontata.
La vidi
esaminare il mio volto in cerca di rabbia e, quando non la
trovò, mi regalò uno
di quei suoi sorrisi raggianti.
Giorno
e notte non hanno senso insieme a
te, O Musa
Mi
abbandono al destino, nelle tue mani
Il
male e il bene non so cosa sono
Perché
io e te andiamo oltre, mia Musa
Danziamo
ancora una volta,
Danziamo
ancora per sempre
E
il tuo sorriso,
Lascialo
bruciare ardente.
Con la
mano, mi fece segno di sedermi vicino a lei, così
obbedì, fedele cagnolino ai
piedi della sua padrona. Mi mise una mano sulla guancia, senza mai
smettere di
sorridere, lasciandomi senza fiato dinanzi alla profondità
del suo sguardo, che
mi stava parlando di universi paralleli e sogni irrealizzabili
già realizzati.
«Hai
un
dono, piccolo Adam.»
Il
suono di una corda di violino
leggermente pizzicata, la sua voce.
«Hai
la
capacità di pescare i sentimenti più profondi del
tuo animo e portarli a galla,
per renderli comprensibili a chiunque tramite le tue parole.»
Ricordo
che rimasi per un periodo di tempo indefinito muto, in cerca di
qualcosa di
degno con cui risponderle, per poterle regalare le stesse parole
toccanti che
lei aveva rivolto a me. Me ne stavo lì, imbambolato come uno
stupido, guardando
dritto nell’oceano blu che erano i suoi occhi, incapace di
fare uscire la mia
voce per dirle ciò che sentivo in quel momento.
Ma
certo, non a voce.
Le
presi delicatamente dalle mani il mio taccuino e lo aprii in una pagina
bianca.
La vidi sorridere, mentre scrivevo:
Vorrei
che potessi udire la canzone del mio
cuore
Perché
il mio animo sta componendo una
ballata in tuo onore
Occhi
negli occhi.
Ancora
una volta.
Per
sempre.
Così,
la Musa mi rispose nel modo in cui era più brava: il corpo.
Mi baciò
dolcemente, le sue mani ad incorniciare il mio viso, mentre la spiaggia
si
dissolveva lentamente e il vecchio signore che si lamentava dei giovani
di
allora diveniva solo una sfumatura.
E le
sue labbra mi dicevano ciò che la voce non era capace di
proferire.
E la
sua lingua mi trascinava in una danza lussuriosa.
May.
«Ehm,
ehm!» Un colpo di tosse e uno schiarimento di voce mi
indussero ad abbandonare
– resta con me
– le calde labbra
della mia Musa.
Tom, Dean
e Kurt si erano posizionati esattamente tra il caldo sole di giugno e
noi due,
oscurando così qualsiasi altra cosa che non fossero le loro
persone. Tempismo perfetto.
Scocciato
e un po’ deluso per l’arrivo dei tre, non risposi
subito al sorriso di Tom, ma
mi limitai a fargli un cenno con il capo. Mentre Dean si sdraiava
vicino a May,
offrendole una sigaretta, Kurt interruppe il silenzio: «Sono
contento che tu
abbia trovato un passatempo di tuo gradimento, May...»
iniziò il Motociclista,
accaparrandosi un’occhiata furibonda da parte mia. Era chiara
la sua gelosia
nei confronti della mia Musa e, con quelle parole, aveva appena
dichiarato alla
diretta interessata i suoi sentimenti. Per quanto riguardava me,
ricordo che
all’epoca mi infuriai per come Kurt mi aveva apostrofato,
definendomi un
passatempo, e mi trattenni dal tirargli un pugno sul muso solamente
perché era
un amico di May.
«...
Ma
non abbiamo tempo da perdere. Mentre tu cazzeggiavi come al solito, noi
siamo
andati a cercare un meccanico e abbiamo finalmente riparato la
macchina. Questo
significa che possiamo ripartire. Domani.»
Ci
sono, nella vita, che ci insegnano: le
esperienze.
E
quella fu la mia prima.
Mi
voltai verso May, gli occhi sgranati – non
mi lasciare, non mi lasciare, non mi lasciare – e
la vidi contenere
un’espressione di dolore, mentre le scuse implicite di
dipingevano sul suo
viso. «Cosa vuol dire?»
Prese
un respiro profondo, la mia Musa.
«Vuol
dire che domani partiamo per Woodstock.»
Quel
mare di giugno a
trasmettere serenità a chiunque, mentre dentro di me un buco
nero andava
formandosi, inghiottendo tutta la mia anima.
*
Angolo
Eryca
Come
prima cosa devo chiedervi
immensamente scusa per il ritardo con cui aggiorno la storia, ma Maggio
è un
mese terribile per noi studenti, si sa! xD
Finalmente
entriamo nel vivo della
storia, la parte introduttiva sta per concludersi (troverà
il suo epilogo
definitivamente nel prossimo capitolo) e avrà inizio la vera
e propria storia,
ovvero il viaggio verso Woodstock.
Over
è scritta con anima e
cuore, ma anche razionalità, quindi vi chiedo di lasciarmi
un commento, se
leggete, perché i vostri pareri spronano l’autore
a scrivere, ad andare avanti
e sono la gioia più grande.
Con
affetto,
Eryca.
|
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Capitolo 8 *** Senza pensarci due volte ***
7.
Senza
pensarci due volte
Sono il
tesoro, questi malinconici ricordi, ed io sono il pirata.
Il mare
profondo ha custodito il forziere per anni, tenendolo lontano da mani
indesiderate, in attesa del salvatore; ma il tempo l’ha
cambiato, la muffa, come
del soffice cotone, l’ha avvolto e le conchiglie si sono
aggrappate ad esso. Ma
forse, forse tutto questo l’ha reso più forte,
perché ha affrontato la distanza
temporale senza cedere, senza svanire.
Le
monete d’oro non sono più luccicanti come ai tempi
andati, ma basta una
spolverata per poterle rivedere in tutto il loro splendore.
Basta
una spolverata per ritrovare lo
splendore di quei giorni spesi insieme alla Musa.
Anche
se suonano un po’ scordate, a volte, le memorie di
quell’estate del 1969 non potranno
mai scomparire. Forti come il tesoro nelle acque oscure, loro resistono
e
sorvolano gli anni, rimanendo appigliate in me come le conchiglie sul
forziere.
Ci sono
ricordi però, che la mia mente quasi si rifiuta di farmi
riesumare, così
rimangono solo immagini sbiadite e malconce.
Come
quelle del dopo.
Dopo
la rivelazione
di May.
C’è
questa nube, nella mia testa, nella quale si possono intravedere alcuni
elementi significativi di ciò che feci in occasione di
quell’evento, ma nulla
di più. Non vi sono fatti ben ordinati cronologicamente,
nemmeno luoghi precisi
o discorsi ben nitidi. No.
C’è
il
ricordo della consapevolezza, il
mio
sconcerto, questo dannato mondo che inizia a roteare intorno a me, i
ragazzi
che mi guardano, i suoi occhi, i suoi occhi, i suoi occhi...
Quello
fu uno dei rari momenti in cui la realtà
si
intromise nella mia relazione con May, puntandomi il suo forcone
appuntito nel
fianco, insistente, malevole, dolorosa, sradicandomi dal sogno nel
quale io e
la mia Musa vivevamo.
Fu
reale.
E fu
penoso.
Ricordo
che rimasi per un tempo non definito lì, ancora, ancora,
ancora, un attimo di
più, a guardare dentro gli occhi colore
dell’oceano di May, mentre il suono
delle onde che si infrangevano sulla spiaggia diveniva forte,
sovrastando le
grida dei bambini che giocavano a lanciarsi il pallone – “ahia! Mamma, quel bambino mi ha tirato
la palla in testa!” -,
sovrastando il silenzio, sovrastando il vuoto, il silenzio, il vuoto,
il
silenzio...
Perché
è così che succede.
La
consapevolezza pianta il suo drappo nero dentro il tuo animo, gridando
vittoria, e il vuoto giunge insieme a lei, silenzioso – il
vuoto, il silenzio –
e tu non puoi farci nulla, assolutamente nulla, se non sbattere le
palpebre in
un attimo impercettibile e guardare negli occhi la persona che
è davanti a
te... e scivolare.
E io
scivolai.
Gli
occhi di May.
Gli
occhi di May quando mi disse: «Vuol dire che domani partiamo
per Woodstock.»
*
Me ne
andai.
Così,
senza pensarci due volte. Semplicemente, mi allontanai dalla mia dea
danzante,
che fissava i suoi occhi miei, in uno strano ultimo tentativo di
trattenermi,
nonostante sapesse che le nostre strade erano destinate a dividersi.
Era
aria d’addio, quella.
L’aria
di addio è : quando ogni singola azione,
anche quella più banale come
uno sguardo, un riso, diviene malinconica. Guardi il mondo con
quest’occhio
nostalgico, cercando di non farti sfuggire una sola parola, un solo
particolare.
E mentre
le parole mai dette e baci non dati pesavano dentro la mia anima,
cercai di
imprimermi il ricordo dei suoi capelli dorati, delle sue labbra a
cuoricino e i
suoi occhi, in cui avrei potuto annegare, annegare e non tornare
più in
superficie. La guardai, ancora una volta, l’ultima
volta: dentro i suoi occhi, l’oceano blu era in
tempesta.
Me ne
andai.
Così,
senza pensarci due volte. Semplicemente, mi allontanai dalla mia dea
danzante
con passo barcollante, la testa che sembrava essere appena stata
colpita forte
con un bastone. Percorsi
la spiaggia senza
rendermi conto delle persone che mi stavano intorno, perché
la mia mente si
rifiutava di pensare qualcosa di diverso da “non
la rivedrò mai più.” Passai
accanto ad una donna sdraiata
leggeva un giornale di gossip – non
la
rivedrò mai più- e ad un ragazzo che
bighellonava senza meta, i piedi nella
sabbia – non la rivedrò
mai più; riconobbi
da lontano un paio di cheerleader della mia scuola, uno delle quali mi
ero
portato a letto – non la
rivedrò mai più.
Un cane, una racchetta da tennis, il rumore del mare, non
la rivedrò mai più, il sole cocente,
una madre che sgridava suo
figlio, non la rivedrò mai
più,
sabbia, mare, persone, persone, persone, non
la rivedrò mai più, l’urlo
lacerante di un’onda deceduta, non
la rivedrò mai più, l’urlo
dell’onda, l’urlo dell’onda...
Non
la rivedrò mai più.
E poi,
il frastuono dell’onda fu sovrastato da un altro grido
disperato, questa volta
umano, prodotto da una voce, la voce.
La sentii. La. Sentii. La. Sua. Voce.
«Adam!»
Il mio
nome, niente più.
La sua
voce rotta ad implorare il mio ritorno, la sua voce rotta ad implorare,
la sua
voce rotta, la sua voce.
Non
la rivedrò mai più.
Non
risposi al suo richiamo, non quella volta. Non mi voltai, né
cercai di
salutarla in qualsiasi modo, non volevo che l’ultimo ricordo
che serbasse di me
fosse un misero abbraccio seguito da un saluto doloroso. Non volevo
dirle
addio.
Me ne
andai.
Così,
senza pensarci due volte.
*
Credo
che il negozio di liquori mi sia ancora grato per tutti i soldi che gli
feci
guadagnare in quella giornata di fine giugno. Ricordo bene che il primo
pensiero diverso da non la rivedrò
mai
più fu quello di andare a comprare degli alcolici.
Così, appena tornato tra
le strade della familiare città, mi diressi verso Liquor, dove acquistai una bottiglia di
Jack Daniel’s ed un paio di
birre. Il vecchio Jonathan, proprietario del negozio, mi rivolse
un’occhiata
investigativa, dovuta probabilmente al mio sguardo vacuo.
E
passò
così, il tempo, tra un sorso di alcol e un sigaretta fumata,
proprio come me,
che mi stavo consumando insieme a lei, divenendo cenere, cenere e
null’altro.
Me ne stavo seduto su una panchina mezza marcia, la bottiglia in mano,
nascosta
dal sacchetto di carta.
E tutto
era così sfumato, così surreale – forse
per colpa del bere, forse per colpa
dell’addio – che mi domandai cosa stesse accadendo,
perché mi sembrava
impossibile, non poteva essere vero; pensavo a come la mia Musa era
entrata
nella mia vita, in quella maniera impetuosa e travolgente, prendendosi
ogni
cosa, prendendosi anche la mia anima e come, allo stesso tempo, se ne
fosse
andata.
Se ne
andò.
Così,
senza pensarci due volte.
I
passanti storcevano il viso vedendo un giovane ragazzo ubriaco
fradicio,
stravaccato su una panchina, completamente solo e distrutto, ma a me
non
importava, perché l’unico mio pensiero fisso era: non la rivedrò mai più. Sudai
a causa del sole cocente, vomitai a
causa del liquore, ma rimasi lì, senza parlare. Nemmeno una
lacrima rigò il mio
giovane viso, eppure cascate impetuose inondavano la mia anima,
allagando il
mio cuore.
Arrivai
persino a chiedermi se non ero definitivamente uscito di testa a
distruggermi
in quel modo per via di una donna conosciuta neanche una settimana
prima. Non
era normale che i miei sentimenti fossero così profondi,
dopo solo qualche
giorno.
Poi
compresi.
Alzai
la testa dalle ginocchia, guardai lontano, verso l’orizzonte,
l’orizzonte che
sembrava non avere fine, l’orizzonte infinito.
Non era
normale.
Era oltre.
Tirai
fuori il taccuino dalla tasca della mia maglia e, senza ulteriori
indugi,
scrissi le seguenti parole – che leggo ancora ora, sulle
pagine sgualcite di
quel quaderno, che ho conservato, perché è il
tesoro del pirata:
L’ho
capito
Quando
i tuoi baci erano solo un lontano
ricordo, O Musa
Che
tu sei oltre.
Poi,
senza eleganza, vomitai ancora, incapace di trattenere tutto
quell’alcol, tutto
quel dolore, tutta quella consapevolezza, consapevolezza di aver perso,
di aver
perso il pezzo del puzzle che combaciava perfettamente con il mio.
E poi,
ancora quell’alone di mistero nei miei ricordi, probabilmente
a causa di tutto
il liquore che bevetti quel giorno. Ricordo solamente che venne la
sera, in un
modo o nell’altro, e io non tornai di nuovo a casa;
pensandoci ora, provo pena
per i miei genitori, per tutte le volte che sono stati preoccupati per
me, per
tutte le notti in cui non sono tornato a casa, per tutto ciò
che dovettero
sopportare. Pace all’anima loro.
Venne
la sera e la mia panchina sembrava essere il letto più
comodo dell’intero
mondo, così mi accoccolai alla bell’e meglio,
senza curarmi del fatto che
sarebbero potuti arrivare dei poliziotti.
All’unico
mio pensiero – non la
rivedrò mai più
– si era anche aggiunto: Lei
è oltre. È
strano pensare che lo compresi da ubriaco, ovvero quando la mia mente
era
alterata da una sostanza psicoattiva, perché gli
stupefacenti avrebbero avuto
un ruolo principale nella mia vita di giovane ragazzo; i pensieri
più profondi
e le illuminazioni più scioccanti, le avrei sempre avute da
fatto o da sbronzo.
Quelli erano gli anni Sessanta.
Continuavo
a non alzarmi, stavo seduto sulla panchina, una birra –
l’ennesima – in mano e
la testa così dolorante che se mi avessero preso a botte non
avrei sentito
nulla.
Poi
avvenne.
Due
fari, luci accecanti.
Il
suono di un clacson.
Una
macchina, ferma davanti alla mia
panchina.
Il
suo viso, sporto dal finestrino.
Mi misi
una mano di fronte agli occhi cercandomi di riparare dalla luce forte,
mentre
la mia mente tentava di elaborare cosa era cambiato
dall’istante precedente.
Una macchina si era fermata di fronte a me e dal finestrino posteriore
era
sporta una testa...una testa, quindi una
persona, una testa implica una persona, testa uguale persona.
Ma, nonostante
tutto l’alcol bevuto, avrei riconosciuto quella
testa ovunque.
Due
grandi occhi mi fissavano, penetranti.
Gli
occhi di May.
L’ho
rivista.
Non ci
furono molti giri di parole, non era da lei sprecare voce, per cui,
anche se
doveva sicuramente aver notato la mia ubriachezza, disse soltanto
cinque
parole.
«Vieni
via con me, Adam.»
La mia
Musa aprì la portiera della macchina, facendomi segno con la
mano di salire a
bordo, invitandomi a scappare con lei, tentandomi, salvandomi.
Mi
alzai dalla panchina e entrai nell’automobile, insieme alla
mia dea danzante.
Oltre,
insieme a te.
Me ne
andai.
Così,
senza pensarci due volte.
*
Angolo
Eryca
Devo
chiedervi scusa per il ritardo con
cui aggiorno, ma purtroppo la mia correttrice ha la
maturità, così ho dovuto
cercarne un’altra momentanea e questo mi ha preso un
po’ di tempo. Vì
forza e coraggio, puoi farcela con
questa maturità. Aniasolary grazie
infinite per il tuo aiuto e per esserti resa disponibile come
correttrice di
questo capitolo. Mi hai davvero salvata! <3
Come
vedete, il viaggio inizia.
Si
parte per Woodstock, gente. E qui ha
inizio il divertimento.
Se
leggete vi chiedo di lasciarmi un
commentino, perché questa storia ha davvero bisogno di
pareri. E poi, la gioia
più grande di un autore è leggere le perle dei
propri lettori. *-*
Con
amore,
la
vostra Eryca.
|
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Capitolo 9 *** La prima notte in strada ***
8.
La
prima notte in strada
Partimmo.
Come si
è soliti partire, guardando verso l’orizzonte,
guardando verso l’infinito.
Sperando in tutto, sperando in niente, mentre l’adrenalina si
impossessa di te
e tu non puoi far nulla se non andare. Perché è
così che succede a noi, noi che
siamo nati per intraprendere un cammino, per vagabondare senza meta nel
mondo:
il viaggio ci chiama e noi non possiamo resistergli, la tentazione
è troppo
forte, ti scava dentro l’animo e mette radice, togliendoti
anche il respiro, il
sonno, la fame. E tu non hai in testa nulla, nulla se non il viaggio.
Il
viaggio che chiama.
Cinque
giovani alla conquista dell’infinito, ecco
cos’eravamo.
Ricordo
quel momento come il più romantico della mia esistenza, gli
occhi puntati verso
il sole alto nel cielo, il mio corpo a carezzare quello della dea
danzante, la
consapevolezza che qualcosa di grandioso, di estremamente grandioso,
stava
avvenendo.
E io ne
ero parte.
Sfrecciammo
veloci per le strade trafficate della città e quando
arrivammo al suo confine,
ancora un po’ ubriaco, aprii il finestrino e gridai:
«Addio, Sirena, mia
amata!»
Le mani
di May sulla mia schiena, la sua risata sul mio collo. La sensazione di
lei,
lei ovunque accanto a me, lei oltre insieme a me.
Fu
così, tra una bottiglia di birra, i canti stonati di Tom, le
barzellette da
quattro soldi, la mano della Musa nella mia, che partimmo.
Partimmo
per il Festival che avrebbe cambiato la storia della musica.
Partimmo
per Woodstock.
*
Ricordo
che, ad un certo punto, mi svegliai dal sonno alcolico, la bocca
impastata e il
collo dolorante, probabilmente a causa della posizione scomoda in cui
mi ero
addormentato. Il sole non splendeva più e
l’oscurità era tutto ciò che scorgevo
dal finestrino della macchina.
Ancora
un po’ intontito, sentii la voce familiare di May che mi
riscaldò l’animo.
«Dormito
bene?»
Sorrisi.
Così.
Sorrisi
per averla accanto, per udire la sua voce, per i suoi occhi, per le sue
labbra,
per essere fuggito insieme a lei e aver abbandonato tutto, per non
avere un
dollaro in tasca, per non avere nulla se non la voglia di vivere,
vivere,
vivere insieme alla mia Musa.
Lo
ricordo quel sorriso.
Quel
sorriso. Così.
«Cazzo,
mi fa male la testa» sbiascicai tirandomi su, notando che Tom
dormiva accanto a
May, nel sedile posteriore. Non avevo idea dell’ora che
fosse, né il luogo in
cui ci trovavamo; per quanto mi riguardava potevamo anche essere alle
Hawaii.
Vi era
un’atmosfera di solennità nell’aria,
come se fossimo partecipi di un’esperienza
grandiosa e ne fossimo assolutamente consapevoli. E la Musa a
guardarmi, in
quel buio accogliente, in quello spazio ristretto in cui eravamo
ammassati,
mentre il russare di Tom fungeva da ninnananna.
«Dove
siamo?» domandai a Kurt, che guidava senza spiccicare una
parola, l’attenzione
rivolta alla strada, racchiuso nel suo implacabile silenzio.
«Nel
bel mezzo del nulla, in direzione Las Vegas» Risposta secca e
voce dura, segno
che il Motociclista continuava a non apprezzare la mia presenza ed era,
con
tutte le probabilità del caso, infastidito dal fatto che mi
fossi aggiunto alla
loro scapestrata compagnia. Dean, seduto nel sedile del passeggero,
prese a
fischiettare spensieratamente, rompendo la tensione che Kurt aveva
abilmente
creato.
«Ehi,
ehi, ehi!» La voce di May, più alta di due toni,
mi fece mettere sugli attenti
e seguii il suo dito indice, che puntava verso il ciglio della strada.
Sul lato
sinistro del grosso serpente di asfalto, sorgeva una costruzione
fatiscente,
una di quelle da vecchio film Western, resa visibile da
un’insegna al neon
malconcia che si illuminava a ritmo alterno.
Si
riusciva a leggere solamente parte del cartellone, perché
una lettera metallica
doveva essersi fulminata: “Il Coo”, annunciava il
neon, dando così libero sfogo
alla fantasia, già partita alla ricerca della lettera
mancante. Così, Dean si
mise ad ululare, come uno di quei lupi che stanno sulle cime delle
montagne,
aprendo il finestrino per far sentire all’intero mondo che,
diamine, avevamo
trovato la nostra meta, per quella notte.
«Fermati,
Kurt!» gridò infine, quasi senza più
voce, mentre io e May ridevamo perché Tom
era stato svegliato dal fracasso e stava rivolgendo insulti coloriti a
Dean.
Ma
nessuno gli diede troppa retta, perché nell’aria
c’era odore di eccitazione,
quella che solo i vagabondi come noi sanno provare,
l’adrenalina che ti riempie
il corpo quando trovi un posto nuovo, tutto da scoprire, circondato dal
nulla.
Accostammo nel grosso piazzale davanti all’edificio, che si
presentava ancora
più malconcio, da vicino; si poteva leggere con
facilità, ora, che la lettera
fulminata nell’insegna era una “V”,
quindi il locale doveva chiamarsi “Il
Covo”. Entrammo dalla grossa porta a due ante, portandoci
dietro un Tom
decisamente irritato e un Dean che sembrava essere già
ubriaco, per quanto era
euforico.
L’odore
di chiuso e il puzzo di sudore mi invasero le narici, facendomi
arricciare il
naso, ma dopo poco tempo mi abituai a quel tanfo. Il bancone, di fronte
all’entrata, era il regno di un vecchio e grassoccio uomo
baffuto, che sembrava
essere uno di quei cowboy del Wild West.
Il resto dello spazio era occupato da lunghi tavoloni in legno, bagnati
di
birra, e da uomini di mezza età, che parlottavano tra di
loro con occhi
annebbiati dall’alcol. Giovani cameriere in una divisa
succinta, portavano le
ordinazioni ai clienti che, nonostante l’ubicazione desolata
del bar, erano
numerosi e spendaccioni. Io e i miei compari ci guardammo e decidemmo
in
silenzio che quello era il posto giusto in cui passare la nottata,
così ci
avvicinammo al bancone e ordinammo una birra a testa. Dean si dissolse
in
fretta, tutto intento a molestare le cameriere, cercando di fare
conversazione
con loro, quando in realtà voleva solo portarsele a letto.
Kurt si sedette su
un tavolo isolato a bere la sua birra senza parlare con nessuno, segno
che il
suo malumore aumentava sempre più. Io, Tom e May, invece,
continuammo ad
ordinare alcol – prima Whiskey, poi Rum e ancora birra
– determinati nella
missione di andare su di giri, perché era l’unica
cosa che eravamo capaci di
fare.
Mi resi
conto che gli uomini tozzi nel bar scrutavano la mia Musa con occhi
famelici,
come se riuscissero a vedere sotto i suoi vestiti, in un modo che non
faceva
presagire nulla di buono; così, le circondai la vita con il
braccio e la portai
più vicina a me, facendo aderire i nostri fianchi, in un
tentativo di far
allontanare gli sguardi languidi dei clienti.
«Grazie»
sussurrò al mio orecchio May, che non si era persa il
passaggio, anche se non
aveva bisogno della mia protezione, anche se era in grado di difendersi
da
sola: mi ringraziò perché sapeva che io ne sarei
stato felice, perché sapeva
quanto il mio cuore desiderasse essere un eroe per lei. Era
così, la mia Musa.
Amami,
O Amazzone,
forte
e sicura,
Ama
questo povero naufrago,
Amami
O
ne morirò.
Tom si
mise a parlare con alcuni ragazzi, facendo sfoggio di un lato socievole
che lo
faceva sentire a suo agio in qualsiasi situazione e con qualsiasi
persona,
riuscendo ad intrattenere conversazione con le persone più
differenti. Gli ho
sempre invidiato la sua estroversione, parte caratterizzante del suo
carattere,
che lo rendeva allegro e simpatico.
E
passammo così la notte.
Bevemmo.
Bevemmo così tanto che il mondo si allontanò
lentamente dal mio spirito, il
quale volava lontano, sulle ali di chissà quale uccello,
mentre la mia May mi
toccava il viso in una carezza lieve. Ricordo che, ad un certo punto,
in tutto
il locale risuonava forte Light My Fire dei
Doors, mentre io e la mia Musa ballavamo, come ogni volta, in un
groviglio di
capelli e braccia, toccandoci, baciandoci, fregandocene dei camionisti
che ci
osservavano avidi.
Eravamo
oltre, noi.
Eravamo
io e lei, nel nostro mondo fatto di amore, passione, che esplodeva
quando
eravamo sotto l’effetto di sostanze psicoattive, facendoci
saltare, gioire,
danzare. Ed era nella notte, quando il resto del mondo dormiva, che noi
usciva
dalle tane e partivamo alla conquista dell’universo.
«Baciami,
baciami, baciami, piccolo Adam...»
La sua
bocca sul mio collo.
Le sue
mani intorno ai miei fianchi.
Quella
fu la mia prima notte di bravate, di balli sfrenati e spirito alla
riscossa,
senza darsi alcun limite, continuando a bere anche se si aveva
già la nausea,
dando spettacolo, fumando e gridando verso la luna, verso lo spazio,
verso oltre.
Fu la
mia prima notte passata in quel luogo che non ha spazio né
tempo, casa per
gente senza nome e senza destino, quello dei dimenticati, dei drogati,
dei
nomadi.
Fu la
mia prima notte in strada.
*
La
nottata passò lentamente, anche a causa dell’alcol
che mi annebbiava la mente,
facendo sì che i miei ricordi siano poco coerenti e
piuttosto confusi.
Ma è
chiara nella mia testa, l’immagine di me seduto sul
marciapiede, fuori dal
locale, intento a guardare le stelle luminose che riempivano
l’intero cielo,
come una tela dipinta egregiamente da un pittore fantasioso. Quando
penso a
quell’istante, una sensazione di quiete mi invade,
riportandomi a quell’attimo di
assoluta serenità interiore in cui nulla mi importava se non
lo stare ad
osservare gli astri, mentre il vento mi rinfrescava il corpo, accaldato
per via
del liquore. C’è pace, in questo ricordo.
Ci sono
io che guardo verso l’infinito, senza paura
dell’oppressione, di essere
schiacciato da quell’immensità che è
l’universo.
E poi,
così, come quelle cose che spuntano
all’improvviso, inaspettate e dolcissime,
nei miei ricordi si aggiunge May, seduta accanto a me, intenta a
tenermi la
mano, accarezzandomi il palmo.
«Tenera
è la notte...» Mi guardò,
l’accenno di un sorriso sulle sue labbra, mentre
citò
Fitzgerald, rendendomi partecipe della sua immensa conoscenza
letteraria.
Rimasi
a fissare quei suoi occhi di oceano, perché ci si affogava
lì dentro ed era
impossibile non rimanere incantato da quel mare blu, blu, blu profondo.
Ci sono
volte in cui me li sogno, quei suoi occhi incantati, li vedo
lì, dinanzi a me,
e cerco di acciuffarli, li cerco, li cerco, ma come si fa a prenderli?
Non si
può. Non si poteva acciuffare May, non la si poteva
possedere, no. Era lei,
sempre e comunque, che possedeva te, con quei suoi occhi.
Mi
avvicinai al suo viso – più a vicino
all’oceano, più vicino all’affogare
– e la
baciai. La sua lingua prese a ruzzolare passionalmente insieme alla
mia, che
penetrava la sua bocca, sondandola. Assaggiai quelle sue labbra di
rosa, mentre
quella splendida Musa si metteva cavalcioni sulle mie gambe, le sue
mani sotto
la mia maglietta, a scaldarmi il petto. Pensai che sarei potuto morire,
quando
le sue mani scesero sul mio basso ventre, stuzzicandomi i peli
dell’ombelico,
per poi andare giù, più giù, sempre
più – e io affogavo nei suoi occhi.
Mi
sbottonò i jeans e, mentre le mie mani si stringevano
possessivo sul suo
sedere, mi leccò il lobo sinistro, facendomi desiderare
ancora, ancora di più.
E me lo diede, perché le piaceva avere in pugno la
situazione, godeva nel
vedendermi innocuo, completamente arreso alle sue mani, al suo profumo,
alla
sua carne. Infilò una mano sotto i pantaloni e, senza troppi
indugi, mi afferrò
il sesso, facendomi gemere contro il suo collo. Le sue carezze
iniziarono
lente, introducendomi in un mondo parallelo fatto solo di piacere,
mentre la
mia Musa mi sussurrava parole indecenti all’orecchio, che mi
aiutavano ad
innalzarmi, ad allontanarmi da quella dimensione terrena in cui ero
intrappolato.
Sempre
più sicure, le sue mani percorrevano il mio pene in tutta la
sua lunghezza,
togliendomi la capacità di pensiero, accompagnandomi in
quell’oblio che non
tardò ad arrivare. Appoggiai la testa sulla sua spalla,
stremato e appagato,
mentre May toglieva le mani sporche del mio seme, dalla mia patta.
«I
bravi bambini fanno una volta a ciascuno» disse sfoderando
un’espressione
ingenua ed infantile che non si addiceva per niente alla situazione in
cui
eravamo. Risi, perché non si poteva non rimanere affascinati
dal mistero che
era May. Le leccai il collo, mettendo le mani dentro ai suoi pantaloni,
palpandole il sedere in un modo che era tutto meno che gentile. Ridemmo
a
lungo, così, senza pensare a nulla se non al nostro
personale piacere, ancora
su di giri per l’alcol che avevamo ingerito.
La
ricordo così, quella sera, come un tripudio di carne e
spirito, tra
stupefacenti e pelle contro pelle, mentre le canzoni passavano alla
radio del
Coo, scandendo il ritmo della notte, come un orologio che segna il
tempo, il
tempo che passa, il tempo di godere.
La
ricordo così, quella sera, come la mia prima notte in strada.
*
Angolo
Eryca
Ringrazio
calorosamente HypnosBT
per
essersi proposta come betareader ed aver svolto la sua prima correzione
di
questa storia in modo egregio! <3
Inizio
con lo scusarmi per il terribile
ritardo con il quale posto questo capitolo, ma avrete già
capito che non sono
una persona troppo puntuale :P Ci tengo, inoltre, ad avvisarvi che
quest’estate
sarò ben poco a casa (Francia e Inghilterra mi aspettano,
yep!) quindi il tempo
a disposizione per la scrittura sarà davvero poco;
cercherò, in ogni caso, di
aggiornare almeno una volta al mese! Mi scuso già in
anticipo e spero che
continuerete a seguirmi.
Come
vedete i ragazzi iniziano a
scatenarsi, ma nel prossimo capitolo faranno una tappa tutta speciale,
dove
conoscerete nuovi personaggi bizzarri e i nostri due innamorati faranno
scintille!
Non dirò nulla di più – autrice
sadica
mode on.
Anyway,
ringrazio tutti coloro che
leggono, hanno aggiunto la storia tra le Preferite, le Seguite e le
Ricordate e
quelli che recensiscono (fatelo in tanti, ragazzi! Adoro leggere i
vostri
commenti!).
Peace, love & Over,
la vostra Eryca (che potete su
facebook,
qui.)
|
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Capitolo 10 *** Quando iniziai ad amarla ***
9.
Quando
iniziai ad amarla
Non
ricordo di preciso quando iniziai ad amarla.
Forse
avvenne subito, quella sera in cui la vidi danzare sul trampolino della
piscina, o è possibile che quella fosse solo infatuazione,
mentre l’amore si
impossessò del mio animo a poco a poco, lentamente,
posizionando i suoi
mattoncini con cura.
Non so quando, ma successe.
Successe
che l’amai così profondamente ed
incondizionatamente che, a volte, fa male
ripensare al modo in cui le donai me stesso. C’è
questa emozione che si
sprigiona in me ogni volta che ripenso a May e non posso fermarla,
nemmeno dopo
tutti questi anni. Ed è proprio il tempo che ha assassinato
il mio sogno
insieme a lei,
scorrendo silenzioso, in
modo che io non mi rendessi conto di esso, per poi uccidermi, uccidermi
quando
mi sono accorto che non ce n’era più, di tempo.
Dolce
è
il ricordo dell’amore che le donai, forte e passionale. Dolce
è il ricordo di
lei e di quando mi svegliai, sdraiato su un marciapiede, la mattina
dopo il
nostro arrivo al Coo. Mi chiesi dove diavolo mi trovassi e
perché mi fossi
addormentato per terra, ma quando mi resi conto che accanto a me, la
testa
appoggiata alla mia spalla, riposava May, le mie preoccupazioni si
dissolsero.
Guardai il suo viso rilassato, priva della malizia che la
caratterizzava, e mi
sembrò più giovane di anni. Una bambina. Una
bambina dolcissima.
Rimasi
lì, sdraiato sulla ghiaia, per un lasso di tempo indefinito,
lasciando che la
mia mente si staccasse lentamente dal dormiveglia, senza metterle
fretta. Poi,
mi alzai con calma, spolverandomi i vestiti malridotti e cercando di
domare il
cespuglio del miei capelli.
La
porta del Coo era chiusa e sulla vetrata principale era appeso un
cartello che
annunciava la chiusura del locale. Notai che la macchina era
parcheggiata nello
stesso posto in cui l’avevamo abbandonata la sera precedente,
ma dentro, come
elemento in più, stavano Tom, Kurt e Dean, stravaccati nello
spazio angusto. In
quel momento iniziai a sentire il disperato bisogno di una doccia e uno
spazzolino, cose a cui non avevo minimamente pensato quando avevo
deciso di
partire con May. Accantonai quel desiderio, conscio che non si sarebbe
avverato
tanto in fretta, e guardai il mio aspetto nello specchietto
dell’auto: i miei
capelli erano sempre uguali, solamente molto più
scompigliati, mentre invece le
labbra erano un po’ screpolate, probabilmente a causa delle
bravate della notte
appena trascorsa. Ma fu quando guardai dentro ai miei occhi, che mi
resi conto
di avere davanti una persona così profondamente cambiata, da
risultare quasi
irriconoscibile: vi era una scintilla, in quel verde smeraldo, una
scintilla
così abbagliante da illuminare tutta la mia persona. Una
scintilla di vita.
Morto
vivente,
cuore
spento,
occhi
vuoti.
Poi
Sei
arrivata tu, O Musa
E
io ho iniziato a vivere.
Ricordo
come rimasi scioccato nel vedere quanto ero mutato, quanto avessi preso
consapevolezza di ciò che significava vivere, vivere per
davvero, dando il
massimo, abbandonandosi al piacere, perché non era vero che
la vita era peccato
e dolore, la vita era amore e gioia, gioia infinita. Gioia insieme alla
mia
Musa.
«Prima
eri bello...» Sobbalzai, spaventato dall’improvviso
arrivo di May, che mi aveva
passato le braccia intorno al collo – dolce
prigione – e mi parlava dolcemente, le labbra
appoggiate al mio orecchio – brividi.
Mi fece
voltare, in modo da poterla guardare in viso – bella, bella
come era proibito,
proibito il suo fascino. «...Adesso, lo vedi? Sei
bellissimo.»
Mi
baciò sulle labbra, senza lussuria, semplicemente
trasmettendomi tutto il
sentimento che sentiva nei miei confronti. E io lo percepii. Lo
percepii così
intensamente che venni scosso da mille tremiti, sentendo
l’impulso di stringere
quel suo corpo di sirena a me.
Prima
eri bello, adesso sei bellissimo. Seppi
con certezza che si riferiva al mio cambiamento interiore, al fatto che
prima
ero un bel ragazzo che sopravviveva facendo ciò la
società gli imponeva, eseguendo
gli ordini dei genitori e della madre, mentre ora ero bellissimo.
Bellissimo e vivo.
«Inizio
a capire il segreto della tua bellezza, allora.» Sorrisi,
ammaliato dal suo
riso, che già stava salutando un nuovo giorno, rendendo la
mattinata migliore.
È che non ce n’erano di risate come le sue, non
era possibile trovare un'altra
risata come la sua, così ridente che sembrava voler far
fiorire ogni pianta,
far crescere ogni frutto e far sbocciare la vita.
Lei era
vita, ne sono sempre stato convinto e lo sarò sempre.
«Dovremmo
fare colazione, non credi? Ho una certa fame.» Ero un giovane
ragazzo che era
abituato a mangiare dei pasti abbondati ed avevo bisogno di riempire lo
stomaco.
«Perché
non mi hai portato la colazione a letto, caro?»
Sfoderò un accento british,
imitando
le coppie di sposati, tirando fuori un lato di sé buffo e
divertente. Un altro lato di sé
che non conoscevo. Dovevo
scoprire ancora molto di May ed avevo tutta l’intenzione di
farlo, aggiungendo
ogni pezzo a quelli che già avevo, cercando di acquisire
più informazioni
possibili. Ridemmo un po’, prendendo in giro i nostri
genitori, improvvisando
balletti africani. Quando mi misi a fischiettare con le mani dietro la
schiena,
fingendo di essere uno di quei vecchietti che si vedono nel mio
quartiere, la
mia Musa scoppiò a ridere così fragorosamente che
le vennero le lacrime agli occhi.
«Avete
finito di fare casino? Cristo!» Kurt, però,
sembrava non aver apprezzato il
nostro spettacolino, al contrario di Tom e Dean che, appena svegli, ci
osservavano divertiti. Comunque, visto che ormai eravamo tutti freschi
di
dormita e che il pub era chiuso, decidemmo di partire, in cerca di un
posto
dove mangiare qualcosa a basso prezzo. A causa della marijuana,
l’automobile si
riempì velocemente di fumo, così fummo costretti
a continuare il viaggio con i
finestrini aperti, mentre gli insulti del Motociclista facevano da
sottofondo.
Tom prese a suonare la chitarra e ci ritrovammo presto a cantare Can’t buy me love dei Beatles,
condividendo
le parole del gruppo: a noi non importava molto dei soldi,
perché i soldi non
potevano comprare l’amore.
Dopo qualche
ora in strada, iniziammo ad intravedere una piccola cittadina,
così ci
immettemmo nelle vie principali, seguendo le indicazioni sui cartelli.
«Oh,
ma
certo! In questo buco di culo ci abita un mio amico!»
esclamò Tom che,
completamente stordito dalla cannabis, si era accorto solamente dopo
una
mezz’ora di ciò che stava succedendo.
Così decidemmo di fare tappa da questo
suo fantomatico amico, che nessuno sapeva conoscere e di cui tutti
dubitavamo
dell’esistenza. Ma, dopotutto, eravamo affamati e con pochi
soldi in tasca,
quindi ben disposti a mangiare a sbaffo.
A volte
May abbandonava un momento il suo ossessivo guardar fuori dal
finestrino e
faceva aderire la sua coscia alla mia, per poi guardarmi teneramente e
stamparmi un bacio fugace sulle labbra. Era così, tra di
noi, non parlavamo
anche per intere ore, semplicemente perché non avevamo nulla
da dirci e non
volevamo aprire la bocca solo per dire fesserie. Se interagivamo era
perché lo
volevamo.
«È
questo palazzone, qua!» Tom indicò un edificio
piuttosto malmesso, sviluppato
in altezza piuttosto che in larghezza, con grondaie a vista e crepe
lungo tutte
le mura. Di certo non prometteva bene, ma d’altronde ci
trovavamo in uno degli
isolati più poveri della cittadina. Ancora non eravamo certi
che Tom non stesse
semplicemente delirando, per cui avanzammo con cautela, osservando
scrupolosamente i campanelli.
«Non
troverete il suo nome sul citofono.» Nel vedere i nostri
sguardi interrogativi,
Tom alzò gli occhi al cielo, prendendo a muovere le mani
come se stesse
scacciando via una mosca. «Ha problemi con la
polizia.»
Non
pronunciammo più parola, ma ci limitammo a seguire il nostro
sballatissimo
amico su per le scale del condominio, che sembravano essere infinite:
continuavamo a salire, senza ma trovare una fine a quel supplizio. Ad
un certo
punto, Kurt sbraitò contro Tom, chiedendogli dove cazzo ci
stesse portando.
Comunque – strano, ma vero – arrivammo ad un
pianerottolo nel quale vi era una
sedia con sopra un vaso di fiori appassiti; sulla sinistra, invece, vi
era una
porta dipinta di un viola scuro, sulla quale era stato scritto con la
vernice
nera “Lo Sciamano”.
Tom fece un
inchino, come a dirci che il suo amico esisteva per davvero e non se lo
era
inventato, per poi prendere a bussare con forza alla porta.
Dopo
alcuni minuti di attesa, l’imposta venne aperta e sentii una
musica piuttosto
rilassante arrivare dall’interno della casa, come una di
quelle melodia
indiane. Davanti a noi stava un uomo alto e dalla pelle abbronzata, che
ci
guardava con aria piuttosto scocciata.
«Juan!»
Non appena l’uomo notò Tom sorrise calorosamente,
aprendo le braccia invitando
il ragazzo ad abbracciarlo, cosa che non si fece ripetere due volte.
Era ormai
evidente che, nonostante fosse completamente fatto, il nostro amico si
ricordasse perfettamente l’indirizzo di quello strano tizio
in camicione di
lino ed infradito.
«Come
mai sei tornato al nido, Tomito?»
L’uomo parlò con estrema calma, come se dosasse le
parole, mentre teneva le
mani unite, quasi stesse pregando. I suoi occhi arrossati mi fecero
rapidamente
comprendere che l’odore forte che arrivava
dall’interno dell’appartamento non
era incenso.
«Io e
i
miei amici stiamo andando a Woodstock, sai, stanno organizzano qualcosa
di
grande lì, così abbiamo deciso di farci un
salto.» Tom fece sembrare il nostro
progetto come un’idea spuntata dal nulla ed in effetti era
stato proprio
qualcosa del genere per me, che mi ero fatto trascinare il quella folle
esperienza all’improvviso. Per la prima volta in due giorni
pensai ai miei
genitori – mi ero completamente scordato di loro –
e mi maledissi per non
avergli ancora fatto ricevere mie notizie. In
ogni caso, le mie riflessioni vennero
presto stroncato da Juan, che aprì di più la
porta, invitandoci nella sua
dimora.
Entrare
in quella casa fu un’esperienza ultraterrena. Forse per via
dei tappeti in
stile orientale che fungevano da moquette, o magari a causa delle
lampade a
luce rossa che conferivano all’ambiente un aspetto illecito.
L’odore di fumo
era più forte che mai all’interno e, mentre
seguivamo Juan tra i corridoi
dell’appartamento, pensai di essere finito in un luogo magico
e spirituale.
C’era qualcosa di mistico, lì. Sulle pareti vi
erano quadri pornografici di
donne con le gambe aperte e la vagina alla mercé del
pubblico, di uomini che
facevano sesso con altri uomini e soggetti simili; i mobili sfoggiavano
piccole
statuette raffiguranti Buddha e l’incenso che mischiava
andava a mischiarsi con
il profumo di spinello, che le numerose persone presenti
nell’alloggio stavano
fumando.
L’idea
di trovarmi nel fulcro di una sette indiana mi balenò nella
mente, ma Tom si
voltò e ci sorriso convinto ed eccitato, senza mai smettere
di ascoltare rapito
la voce di Juan, che ci aveva scortati fino ad un grosso salone dove
gli ospiti
consumavano chilom seduti su
morbidi
divanetti.
«Benvenuti
nella mia umile dimora.» L’amico di Tom
aprì le braccia in segno di
accoglienza. Poi ci disse che, in quanto amici di Tom, dovevamo
sentirci come a
casa nostra e potevamo usufruire di tutto ciò che ci
circondava.
Guardai
May. May guardò Kurt. Kurt guardò Dean. Dean
guardò Tom.
E da
quel momento cominciò la festa.
Ripetemmo
il nostro solito rituale fatto di alcol, droghe e musica ad alto
volume. Ci
lasciammo trasportare dall’odora dell’incenso,
mentre il fumo della marijuana
entrava nel cervello guidandoci verso luoghi mai esplorati. La musica
sembrava
volerti entrare dentro e, nonostante intorno vi fosse un caos
incredibile,
canticchiavo le canzoni che sentivo, barcollando per
l’appartamento come un
morto vivente. Nel corridoio, in un angolo semibuio, una coppia stava
scopando
senza preoccuparsi della gente che li osservava; ricordo che scoppiai a
ridere
di fronte a quella scena irreale, poi applaudii un po’ ed
infine me ne andai,
scocciato dal fatto che loro stessero facendo sesso ed io no.
Non
saprei raccontarvi con precisione il resto della giornata,
però è certo che
intrattenni una conversazione filosofica insieme a Juan, mentre Dean mi
intimava di lasciar perdere quelle stronzate e andare a provare il narghilè insieme a lui. Ad un
certo
punto, però, dovetti essermi ripreso, perché le
memorie tornando piuttosto lucide
e nitide: me ne stavo stordito su un divanetto, quando vidi la mia Musa
alzarsi
in piedi su un tavolino ed iniziare a danzare, donando uno spettacolo
irripetibile all’intero alloggio. Muoveva quei fianchi in un
modo
maledettamente arrapante, mentre con la mano si accarezzava il corpo,
senza mai
smettere di guardare nei miei occhi.
Seducimi,
o Musa
Seducimi
ancora
E
io ne morirò.
Allungò
una mano verso di me e io la presi. Insieme.
Salii su quel minuscolo tavolino che a stento riusciva a
tenerci entrambi e
presi a dimenarmi toccandole il corpo, fregandomene della gente che ci
guardava
eccitata, in attesa di altro. Io ero con lei. Con lei in
quell’universo nostro,
nostro e di nessun altro, in cui ci nascondevamo e ci proteggevamo dal
mondo
bastardo che non ci comprendeva.
«Vieni
con me»
La
sua voce un brivido nell’orecchio.
Scendemmo
dal nostro palco improvvisato e, tenendomi per mano, mi
portò nuovamente il
quel labirinto di porte che era il corridoio. Non avevo ancora smaltito
l’alcol
e il fumo, percepivo solamente la mano della mia May e il suo profumo
accanto
al mio. Entrammo in una stanza vuota, arredata con un solo letto
matrimoniale
al centro e una lampada.
La mia Musa mi stregò con uno sguardo, prima di prendere a
baciarmi dolcemente,
come se il tempo non avesse alcuna importanza, come se
l’unica cosa che avesse
davvero un minimo di rilievo fosse la sua bocca sulla mia e che,
quindi,
meritasse cura. Mi levò la maglietta, sorridendomi,
perché sapeva che avevo
capito qual era il suo punto di arrivo, quella volta. Iniziavo a
conoscerla
abbastanza bene per poter sapere che ballare la eccitava da morire. Ed
era per
quel motivo che ci trovavamo soli in quella stanza.
La
fermai un solo istante, mentre ormai eravamo già sdraiati
sul grosso letto.
La
fermai e la guardai.
Occhi
negli occhi.
E
ancora una volta lasciai che il mio animo annegasse in quel blu oceano,
perché
non aveva senso togliersi il piacere di scoprire cosa vi era dentro le
sue
iridi. Non mi sorrise, la mia Musa, ma scese a baciarmi il ventre,
mentre il
mio animo si era ormai risvegliato e il mio bisogno si faceva sentire.
E io la
sentivo. Così vicina.
E la
baciai. Una volta, due volte, cento volte. La baciai in ogni parte del
suo
corpo, baciai le sue labbra, le sue spalle, i suoi seni, la sua pancia.
Baciai
la sua intimità e nel sentirla gemere sprofondai
nell’oblio della passione,
perché ero io, io e solo io ad averla fatta godere. Ero io
che le stavo
provocando piacere. E non ci fu più tempo per parlare, per
pensare. Non c’era
bisogno di parole inutili, sporche e corrette.
C’erano
i suoi occhi.
C’erano
i miei occhi.
E
quello bastava.
Bastava
per poter infine entrare dentro di lei e sentire le sue gambe
stringermi la
vita, mentre le sue mani mi infliggevano una dolce tortura,
graffiandomi la
schiena. E mi lasciai guidare da lei, muovendomi come un’onda
del mare,
inebriandomi del suo odore, del suo sapore. Godetti nel sentirmi
finalmente
dentro di lei, dentro il suo corpo, dentro la sua anima. Suo.
Ero finalmente suo. Era lei ad aver penetrato me, non io. Mi
accolse nel suo sesso con trasporto e io mi sentii a casa, come non lo
ero
stato mai, mai prima di allora, perché quello ero il mio
posto, era lì dove io
dovevo stare. Giusto.
Spinsi
più forte, spinsi dentro di lei, spinsi con lei, spinsi per lei. Presi ad entrare ed uscire dal
suo corpo freneticamente,
sapendo che la fine era quasi giunta, non volendo che arrivasse,
tentando di
darle ancora, darle di più, darle tutto, tutto me stesso. E
fu quando la sentii
gemere rumorosamente, mentre toccava l’apice che compresi.
Compresi
di amarla.
La
seguii velocemente, abbandonandomi ad uno degli orgasmi migliori di
tutta la
mia vita.
Compresi
di amarla.
Non
ricordo di preciso quando iniziai ad amarla.
Forse
avvenne subito, quella sera in cui la vidi danzare sul trampolino della
piscina,
o è possibile che quella fosse solo infatuazione, mentre
l’amore si impossessò
del mio animo a poco a poco, lentamente, posizionando i suoi mattoncini
con
cura.
Non so quando, ma successe.
*
Angolo
Eryca
...
I’m back!
In
estremo ritardo, certo, ma sono
tornata. Insomma, ormai avrete imparato a conoscermi e avrete capito
che essere
puntale non è proprio da me. Ma poi arrivo.
Tanto
per iniziare: non uccidetemi per
quella terribile scena rossa a cui vi ho dovuti
sottoporre. Lo so che fa un po’ cacare i piccioni (?)
però ci doveva essere e
io ci ho messo del mio meglio. Spero comunque che un minimo di decenza
io l’abbia
mantenuta.
Anyway,
se tutto va come previsto mancano
due capitoli più l’Epilogo alla conclusione. Siamo
quasi arrivati al capolinea,
ragazzi.
Come
sempre chiedo di lasciarmi un
commentino se leggete, perché leggere i vostri pareri mi
diverte, mi rilassa e
mi da una gioia pazzesca. E ultimamente ho potuto leggerne pochi.
Purtroppo.
Ah,
sì! Che sbadata! Ci tengo a
ringraziare di cuore tutte le 22 persone che hanno messo tra le seguite
questa
storia, le 12 che l’hanno inserita nelle preferite e le 5 che
l’hanno messa tra
le ricordate. Sarete anche in pochi, ma siete i miei amati lettori e io
pubblico per voi.
Moi,
je vous aime.
La vostra Eryca.
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