Heaven doesn't seem so far away.

di xbiebersvoice
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno. ***
Capitolo 2: *** Capitolo due. ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre. ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro. ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque. ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei. ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette. ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto. ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove. ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci. ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno. ***


Heaven-1

Heaven doesn’t seem so far away.

 
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Sarei dovuto divenire un angelo custode.
Quelli erano stati i miei programmi: completare la preparazione, aspettare che mi venisse affidata 
un’anima da proteggere e successivamente sorvegliarla dall’alto, dal mio posto nel Paradiso.

E invece cos’ero finito a fare?
Mi avevano spedito giù sulla Terra, a ricoprire un ruolo secondario che sarebbe dovuto 
invece spettare ad un principiante. Non ad uno come me.

E tutto questo per cosa? Per lei.
  
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1.

 

 

 

Intorno a me avevo solo il bianco.
Non che questa fosse una novità, dopotutto in un posto come quello dove mi trovavo io non sarebbe potuto essere altrimenti. Appunto per questo non doveva essere difficile da comprendere per quale motivo, ogni tanto –ovvero quando mi era concesso– mi ritiravo in un angolo di quel luogo infinito e mi prendevo del tempo per me, per dare uno sguardo a ciò che accadeva di sotto.
In primo luogo, lo facevo perché era bello puntare gli occhi su un colore differente dal solito, anche se nulla al mondo sarebbe mai potuto essere più bello di ciò che mi circondava.
In secondo luogo, perché tutto ciò che riguardava il mondo al di sotto del Paradiso era ciò con cui di più interessante avevo mai avuto a che fare. Anche se nel senso proprio del termine, io non ero mai entrato in contatto con esso.
Non mi spettava ancora. 
Non mi era concesso scendere sulla Terra, almeno finché non avrei raggiunto l’apice della mia preparazione. Solo gli angeli completi avevano questo privilegio, e io non ero ancora uno di loro.
Per l’Ordine, io ero stanziato nella fascia dei principianti. Per loro, perché io non mi sentivo affatto così. Possibile che loro dovessero ancora rendersene conto?
Io ero pronto, probabilmente lo ero sempre stato.
Tutto ciò che desideravo era salire di considerazione, in modo che mi venisse affibbiata quella valutazione, e finalmente anche io avrei potuto avere un’anima terrena su cui vegliare.
Gli umani l’avrebbero definita una sorta di promozione, nel campo del lavoro. Me ne intendevo abbastanza sul loro conto: li sorvegliavo ormai da un tempo indefinito e gli angeli maestri ce ne avevano parlato tanto, in modo che potessero esserci conosciuti tanto quanto lo erano le nostre tasche. 
Quindi... sì, volevo essere promosso e ottenere un ruolo più importante e significativo.
Volevo smetterla di essere uno dei tanti angeli principianti, e divenire invece un angelo custode.
Questo era ciò a cui aspiravo, era il ruolo che mi spettava e ciò per cui fin da bambino mi avevano istruito.
Sì, perché io facevo parte di quella tipologia di angeli che nasce in Paradiso. Gli angeli puri; così veniamo definiti. 
E siamo ben diversi dagli angeli bianchi come da quelli anziani. 
Gli angeli bianchi sono gli spiriti delle anime entrate nel Cielo dopo la loro morte. Ovviamente questo non è concesso a tutti gli esseri terreni, quando la loro vita mortale termina. Solo chi è stato particolarmente generoso e altruista può entrare nel nostro Regno, ad un livello superiore rispetto le altre anime a cui spetta il Paradiso. Non si limitano semplicemente alla vita eterna, loro vengono chiamate per servire.
Gli anziani invece sono tutta un’altra cosa. Loro sono stati creati in principio, all’inizio di tutto, e per questo spetta loro una sorta di supremazia.
Noi angeli puri, invece, non siamo stati creati propriamente con intenzione, né siamo giunti in Cielo in seguito al termine della nostra vita terrena. Noi siamo, più semplicemente, le anime dei bambini mai nati.
Non avendo conosciuto il male, essendo spiriti puliti, veniamo direttamente portati in Paradiso. E qui cresciamo, e fin da piccoli ci viene insegnato ciò che diverremo una volta cresciuti. 
Sono queste le tre forme in cui un angelo può essere creato. 
Sebbene io sia cresciuto qui e il mio corpo sia mutato da un fisico bambino ad uno più adulto –come accade per ogni altro angelo puro–, non posso definire quanti anni io abbia. 
Più propriamente, nessuno di noi quassù ha un’età. Siamo immortali.
Solo coloro che vivono fin dall’inizio dei tempi hanno dei tratti estetici attempati, i sopraccitati angeli anziani. Tutti i restanti hanno un aspetto giovane, che muta di poco a distanza di millenni. Millenni terrestri, perché qui non si ha nemmeno un tempo. 
«Justin» Di colpo mi sentii richiamare, e tanto ero immerso fra i miei pensieri venni colto alla sprovvista, trasalendo.
Distolsi l’attenzione dalla Terra al di sotto di me e la portai nella direzione di quel richiamo, sebbene avessi già riconosciuto quella voce e sapessi perfettamente a chi apparteneva.
Come mi aspettavo, i miei occhi incontrarono quelli di Mihael, e si soffermarono quindi fermi sulle sue iridi azzurre.
Mihael era il mio angelo tutore, ovvero colui che mi aveva cresciuto fin dal mio arrivo in questo Regno. Ero una sorta di figlio per lui –o forse, meglio, un fratello minore– mi aveva sempre trattato con affetto e sempre aiutato nei miei studi per raggiungere il completamento del mio ruolo.
Lì su nel cielo ci si fidava genericamente ognuno dell’altro, ma di lui non potevo far a meno che fidarmi maggiormente.
Era un angelo custode, lui. Uno di quelli completi. Ciò che volevo essere io.
Era, in pratica, sempre stato il mio esempio. Volevo a tutti i costi divenire come lui.
Lui mi stava istruendo per questo, era un prototipo di maestro. Quello che gli umani incontrano a scuola e che abitualmente odiano tanto. Ma io non odiavo Mihael, anzi. Anche perché, era difficile che noi angeli provassimo un sentimento del genere.
Non ero l’unico che educava, altri principianti erano nella mia stessa posizione e subordinazione nei confronti della sua figura, ma io sapevo di certo che per me serbava un simpatia maggiore. 
Mi ero sempre mostrato intenzionato a raggiungere il mio ruolo, ed era davvero quello che volevo.
Anche se in Paradiso ogni angelo è in partenza caratterizzato da un carattere buono, capitano alcuni casi di angeli puri che sono un po’... come direbbero gli umani? Ribelli? Ecco, ribelli, appunto perché non sono stati indirizzati nel Cielo dopo un periodo di vita o creati in principio, ma anzi sono semplicemente anime pulite e genuine ed è difficile per loro stabilire ciò che davvero vogliono.
Alcuni impiegano più tempo di altri a raggiungere lo stadio di completamento, altri non lo raggiungono mai e vengono ‘retrocessi’, inviati insieme alle altre anime a vivere in pace in un livello più basso del Paradiso.
Io non ero uno di questi né avevo intenzione di diventarlo.
Ritornando alla realtà, feci appena un cenno nella direzione dell’angelo dai capelli castani, sia in segno di saluto sia per incitarlo a proseguire. Considerato il tono della sua voce mi sentivo di dire che avesse qualcosa da dirmi. 
«Il Consiglio ti ha convocato e vorrebbe che li raggiungessi al più presto» mi fece difatti presente, in seguito, e il suo sguardo fermo mi diede ad intendere che era meglio che mi apprestassi.
Per quale motivo il Consiglio voleva vedermi? Perché ero stato chiamato?
Prima, mi ero trovato solo un’unica volta al loro cospetto, ovvero quando mi era stato assegnato il ruolo di futuro angelo custode, ma in seguito non avevo più avuto accesso a quella parte del Paradiso. Era un livello ancora più superiore al mio.
Da quello che sapevo però, era la norma. Difatti, la seconda volta che venivi convocato, a meno che non avessi compiuto qualche sgarro, era perché avevano visto dei notevoli miglioramenti in te e ritenevano che fossi ormai pronto per passare al ruolo di angelo completo. 
Il mio sguardo non poté non accendersi, perciò, nell’avvertire quelle parole.
La mia mente viaggiò subito e l’idea lampante che immediatamente oscurò ogni altro possibile pensiero fu quella che, probabilmente, avrei finalmente ottenuto quel ruolo a cui ambivo fin dalla mia nascita.
Forse mi ritenevano pronto per divenire un vero angelo custode.
Non mi accorsi neanche del sorriso che veloce prese ad occupare il mio viso, ma anzi subito annuii e mi mossi nella sua direzione, che era tra l’altro anche quella che avrei dovuto prendere per raggiungere il Consiglio.
Troppo entusiasta, non cercai nemmeno una traccia di felicità sul suo viso, emozione che lui avrebbe dovuto provare siccome, se era davvero come pensavo e davvero mi avrebbero promosso, sarebbe dovuto essere fiero di me.
Lo sorpassai abbastanza di fretta e mi diressi velocemente dove ero stato richiesto.
Quando mi ritrovai al cospetto di una scalinata inequivocabilmente bianca, presi un grosso respiro e cercai di contenere l’entusiasmo, salendo  a due a due i suoi gradini. Passavo lì davanti ogni giorno, ogni volta sperando che qualcuno mi giungesse incontro e mi dicesse che gli angeli del Consiglio mi stavano cercando. E ora era proprio così.
Non c’era nessun lucchetto a mantenere chiuso quell’imponente cancello che avevo ora in mio cospetto. Praticamente, uno dei pochi elementi di quel regno a non essere bianco. Un altro motivo che aveva sempre fatto sì che il mio sguardo venisse attirato su di esso: era oro.
Ad ogni modo, non era una novità che, al di fuori dei due angeli guardiani posti ai lati del cancello, non ci fosse nessuno che avesse il compito di aprirlo e assicurarsi che non entrasse gente sbagliata. Quel varco semplicemente non si apriva, a meno che tu non fossi stato chiamato.
Posai il palmo su una delle due ante, notando solo con questo gesto come questo stava tremando, e successivamente la sospinsi un poco, con il terrore che non si sarebbe mossa di mezzo millimetro.
Non fu così, si aprì uno spiraglio e anche quando mi bloccai per realizzare la situazione, questa proseguì nel suo movimento, fino a bloccarsi quando mi venne creato abbastanza spazio per poterla superare.
Mi inoltrai al di là, superando quella leggera nebbiolina bianca che non mi aveva mai permesso di vedere, attraverso i varchi delle inferiate, cosa ci fosse oltre. 
Andavo solo di ricordi, riportando alla memoria quel lungo tavolo posto a semicerchio dietro il quale avevo trovato seduti molteplici angeli anziani, la prima e l’unica volta che ero stato lì. Erano ad un piano leggermente rialzato rispetto a dove mi trovavo io, erano parsi così maestosi. Mi avevano provocato un leggero timore, anche se era stato infondato poiché si erano poi rivolti con simpatia a quel me ancora bambino.
Avevo gli occhi ridotti a due ristrette fessure e stavo camminando allo sbaraglio. Sbattei le palpebre più volte e, alla quinta volta, finalmente riuscì a vedere qualcosa in tutto quel chiarore.
Dopodiché, di colpo, mi si presentarono davanti le medesime stesse figure che avevo visto ancora tempo prima. Non era cambiato nulla.
«Noto che sei venuto praticamente subito, Justin» esordì una voce all’improvviso, non dandomi nemmeno tempo di abituarmi a quello spazio che mi circondava. «Ti ringraziamo per questo.»
Non dissi una sola parola. Non ero solito sentirmi in soggezione al cospetto di qualcuno, ma ovviamente in questo caso non poté essere diversamente.
Probabilmente a poco avrei ricevuto la notizia più bella della mia vita.
«Immagino ti starai chiedendo perché sei qui. Ma non allarmarti, non hai compiuto niente di male» proseguì la voce precedente ed ora, scrutando i visi delle figure sedute dietro quel massiccio tavolo, più in alto a me, compresi fosse l’angelo centrale quello che si stava rivolgendo a me. «Sei qui per un motivo ben preciso. Notevolmente importante.»
Avvertire quelle parole non fece altro che far aumentare la fibrillazione nel quale ogni millimetro del mio corpo era stato coinvolto. La mia mente continuò a viaggiare per la sua strada, tanto che non riuscii a frenare la lingua quando le mie speranze premettero per uscire.
«Volete promuovermi? Diventerò finalmente un angelo custode, vero?» 
La mia voce uscì estremamente fiduciosa ed ottimista. Strinsi le dita in due pugni per trattenere l’entusiasmo, lasciando che le unghie si conficcassero nei miei palmi.
Probabilmente non avevo mai avuto prima, sul viso, un sorriso tanto radioso come quello che doveva esserci dipinto ora.
L’angelo anziano non rispose sul principio, ma i suoi occhi si accesero quasi di sorpresa. In seguito, gli angoli delle sue labbra si incurvarono appena, in un’espressione più simile alla compassione che a ciò che avrei voluto invece vedere.
«Oh, no. Non è per questo motivo che sei qui, è ancora presto.»
Quel sorriso raggiante che avevo sul volto fino ad un attimo prima scomparve in un istante, per lasciare invece posto alla delusione più totale.
Come? Cosa intendeva dire? Era uno scherzo? No, perché non era divertente.
Mi sentii avvolgere dallo sconforto, mentre spostavo più volte gli occhi su ogni membro del Consiglio presente, nella speranza che qualcuno di loro se ne saltasse fuori velocemente chiarendomi la situazione. 
Nessun’altra motivazione, se non la mia promozione ormai andata in fumo, mi vorticava nella mente, per spiegarmi quindi perché mi trovavo qui. Non avevo nemmeno supposto nient’altro, estremamente sicuro che si trattasse del mio avanzamento.
E invece no.
«E allora... per cosa sono...?» Il mio fu solo un farfugliare confuso, e in tutta onestà non mi compresi nemmeno io, quindi supposi che facilmente neanche loro l’avevano fatto.
Dal loro sguardo, immaginai che loro si erano già aspettati un mio simile pensiero.
E allora perché non avevano potuto bloccarmi sul principio? Così avrei evitato questa figura, anche se al momento l’imbarazzo era ben l’ultimo mio pensiero.
«Ti spetta un compito molto importante, Justin» prese di nuovo parola l’angelo anziano nel centro, con una profonda voce che risuonò nello spazio attorno a me, nonostante non riuscissi a vederne la fine e probabilmente fosse illimitato. 
Assottigliai lo sguardo, ansioso e forse anche leggermente intimorito. Cosa stava succedendo?
«Dovrai scendere sulla Terra e vegliare, in forma umana, un’anima terrena.»
I miei occhi si spalancarono immediatamente. 
Che cosa?!

 


_____________________________________________

Ok, parto con il presupposto che questa idea mi è sorta sotto la doccia.
Sono consapevole del fatto che sia una tematica un po' strana, però ho posato le dita sulla
tastiera e questo è ciò che è venuto fuori.
Ho sempre reputato per davvero Justin come un angelo, il mio, il nostro,
quindi mi sono chiesta: ma se facessi una ff dove Bieber è un angelo custode?
Questo è quello che ne è uscito.

Vi parlo onestamente...
Sono insicura al massimo su qualsiasi cosa io scriva, le poche anime pie che

hanno mai letto qualcosa di mio possono facilmente confermarvelo.
Quindi, una recensione anche se per dare un parere negativo o una critica
è sempre ben accetta.

Avrei tantissime idee riguardo questa ff, avrei già scritto qualche altro capitolo
ma come sempre le paranoie mi bloccano.
Se potrebbe interessarvi anche solo un minimo, mi lascereste una piccola recensione?
È la mia prima ff su efp, e gradirei qualsiasi sorta di parere.

Grazie mille se leggete e lasciate un segno del vostro passaggio.
Per me è davvero importante.

@_xbiebersvoice

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Capitolo 2
*** Capitolo due. ***


Heaven-2

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2.



Non potevano dire sul serio.
Era fuori discussione ciò che mi avevano proposto.
Io giù sulla Terra non ci sarei andato. O almeno non in forma umana.
Non che avessi qualcosa di personale contro gli esseri terresti, anzi. Alla fin fine, ero uguale a loro esteticamente parlando, se non per il fatto che possedevo delle ali notevolmente visibili.
Il motivo per cui ero contrario a ciò che mi era appena stato esposto, era la causa stessa del perché mi avevano chiesto di farlo.
Dovevo scendere ai piani bassi per vegliare un essere umano.
Ancora non mi era stato detto per quale ragione questa persona avesse bisogno della mia protezione, ma ciò che sapevo di per certo era che quel ruolo veniva solitamente affidato agli angeli principianti che avevano ancora un mucchio di strada da fare.
E io non avevo un mucchio di strada da fare.
Io ero praticamente pronto.
Insomma, cosa mi mancava? Per quale motivo dovevo scendere io giù di sotto? Non ne avevo bisogno, sapevo già tanto sul conto degli umani ed ero sicuro di essere perfettamente in grado di proteggerne uno... ma non in forma carnale, bensì dall’alto, dal mio posto nel Paradiso.
Il fatto che loro la pensassero diversamente mi faceva sentire profondamente offeso.
Davvero non si rendevano conto del mio potenziale? Volevo divenire un angelo custode il più presto possibile, non fra qualche secolo quando le mie ali si sarebbero intorpidite.
«Perché io?» domandai di getto, e anche se non c’era rabbia a tingere il animo, con certezza il mio tono era fuoriuscito notevolmente infastidito e scocciato. «Voglio dire, non ho assolutamente bisogno di fare pratica!»
Certamente contestare le decisioni degli Angeli Anziani non era la scelta più giusta e intelligente da fare, ma l’impulsività era un tratto di me reduce di quella vita mortale che avrei altrimenti vissuto, se mi avessero dato alla luce.
Non avevo bisogno di scendere sulla Terra per scoprire cose nuove sugli esseri umani. Io li conoscevo già incredibilmente bene.
«Non sono così inesperto! Sono certo che lo sapete anche voi!» continuai affannato, con la fronte ridotta ad un cruccio al solo pensiero che mi ritenessero di un livello talmente basso.
La mia fortuna era che avendone viste di tutti i colori ed avendo affrontato ogni tipo di problema e controversia, questi Angeli Anziani erano estremamente pazienti e clementi, ed ero certo che non avrei perciò subito alcuna forma di punizione. Non si sarebbero mai permessi, se potevano evitavano come la peste la violenza o altri dispiaceri. Dopotutto siamo tutti angeli qui, vogliamo solo il bene.
Ero sicuro, comunque, che loro sapessero perché mi stavo comportando in questa maniera.
Era risaputo a tutti quanto sarei voluto divenire un angelo completo, e qui tutti conoscono tutti.
E tutto di tutti, quindi anche di me. Trapelava a qualsiasi angelo maestro la mia determinazione, e solitamente ero guardato con orgoglio e ammirazione.
Eppure questo non doveva essere abbastanza per gli Angeli Anziani.
«Se credete diversamente, potete pure chiedere conferma a Mihael» esplosi successivamente, in seguito a quel pensiero in cui mi ero appena trascinato.
Ogni tutore, una volta entrato a contatto con il mio reale impegno nel perseguire il mio compito, sosteneva fiducioso che a breve avrei ottenuto il passaggio di valutazione. E anzi, a volte si sorprendevano per il fatto che ancora non fosse successo.
Poteva al massimo anche starci che gli Angeli Anziani non mi ritenessero ancora all’altezza del ruolo –anche se lo ritenevo comunque ingiusto e impossibile– ma non che mi pensassero così incompetente da dover scendere sulla Terra, a fare da babysitter ad un essere umano e chissà poi per quale motivo.
Forse può suonare strano che mi rifiuti di sorvegliare un’anima terrestre in questa maniera, perché alla fin fine potrebbe sembrare che sarei divenuto una sorta di suo angelo custode. Ma non era affatto così, non era la stessa cosa. Sarei stato solo un pezzo supplementare, non il pezzo portante.
«Sai, Justin» attirò la mia attenzione l’angelo Anziano centrale, attendendo poi che portassi il mio sguardo su di lui e che quindi avesse la mia attenzione, prima di proseguire. «È stato proprio lui a consigliarci di mandare te.»
Sgranai gli occhi e fu come se fossi stato gettato sotto una doccia fredda. No, gelata.
Stava andando tutto di male in peggio. Com’era possibile che Mihael, fra tutti i nomi del Regno, avesse proposto proprio il mio? Era assurdo! Non avrebbe avuto alcun motivo di farlo, anche perché mi aveva sempre sostenuto e svelato onestamente che fossi il suo miglior apprendista, fra i tanti che istruiva.
Per quale motivo allora l’aveva fatto? Perché certamente gli Anziani non stavano mentendo, non doveva essere loro concesso fare una cosa simile.
Mi sentii ferito profondamente nell’orgoglio. Indietreggiai di un passo e lanciai uno sguardo a tutti i presenti, sentendomi come se mi stessero tutti silenziosamente prendendo in giro.
«No, mi rifiuto di fare una cosa simile» feci loro presente, sperando che il mi tono risultasse fermo e deciso come volevo, anche se probabilmente uscì solo vibrante. Forse era una prova, per vedere che aspettative avevo di me stesso e se per davvero ci tenevo ad assumere quel ruolo. «E ora scusatemi, ma devo parlare con una persona.»
Attesi qualche istante, speranzoso che mi bloccassero e mi riferissero una realtà diversa, ma non avvenne.
Quindi, mi voltai su me stesso e mi diressi a passo veloce verso il cancello alle mie spalle, per uscire e cercare quella persona che avevo appena scoperto mi avesse voltato le spalle.

 
 
*
 
 
 
«Non essere arrabbiato, Justin.»
Era stato facile trovare Mihael anche perché, appena uscito dal Consiglio, lo avevo incontrato esattamente davanti al cancello, come se fosse pronto lì ad aspettarmi, indipendentemente che l’esito della mia convocazione fosse positivo o negativo.
Ed era assolutamente negativo.
«Non lo sono, sono unicamente offeso» gli chiarii, lasciandomi cadere al suo fianco, sconfortato.
Quando mi aveva confermato che era vero che aveva fatto il mio nome, anche la più minima speranza che si fosse trattato di un errore era andata a farsi benedire. Sì, forse un briciolo di rancore verso il mio maestro lo stavo provando, ma la verità era che non riuscivo ad avercela con lui.
Sarà che noi angeli, i sentimenti negativi come la rabbia li avvertiamo molte volte di meno, notevolmente più affievoliti rispetto gli umani.
«La ragione per cui ho fatto il tuo nome è totalmente diversa da quella che credi» disse d’un tratto Mihael, prima di stringere le labbra e deglutire, abbassando in seguito lo sguardo.
Come?
Questo attirò inequivocabilmente la mia attenzione, per non parlare della mia curiosità.
Se non l’aveva fatto perché mi riteneva inesperto e per questo bisognoso di fare pratica, per quale altro motivo lo aveva fatto?
Mi posizionai più comodamente al suo fianco, portai i gomiti alle ginocchia e intrecciai le dita davanti a me, attendendo che il mio maestro parlasse e si spiegasse.
Quando risollevò lo sguardo e si accorse del mio, notevolmente impaziente, puntato contro il suo viso, si lasciò andare ad un profondo sospiro.
In seguito, portò le mani alla nuca, sollevandole dietro di sé. Trafficò qualche secondo con le dita e, quando riportò i palmi davanti a sé, notai si fosse sganciato e quindi sfilato la collana che fino ad un attimo prima aveva legata attorno al collo.
Avevo sempre adorato quella collana. Perché a differenza di praticamene tutto ciò che mi stava attorno, quella era oro. Come il cancello del Consiglio.
Rimasi in silenzio a scrutarlo, mentre rigirava il piccolo ciondolo fra i polpastrelli.
Dire che non ci stessi capendo nulla era probabilmente un eufemismo, ma decisi di mantenere la curiosità racchiusa dentro di me e attendere invece sue spiegazioni, rimanendo paziente.
Esercitando una leggera forza ai lati del pendaglio, facendomi pensare che lo volesse rompere, aprì invece il ciondolo in due metà, svelandomi per la prima volta da quando lo conoscevo che quella medaglietta avesse un contenuto nascosto.
Diede un’occhiata al suo interno, poi con un ennesimo sospiro mi allungò il piccolo pezzo dorato.
Alternai il mio sguardo, confuso, fra lui e ciò che mi stava porgendo, poi decisi di accettare quest’ultimo nella mia mano.
Incuriosito, portai il pendente più vicino ai miei occhi, per scoprire cosa contenesse.
Dischiusi le labbra sorpreso, quando compresi non si trattasse di altro se non di una fotografia.
Lo spazio nel quale doveva rientrare era particolarmente ristretto, quindi era visibile solo il viso della persona raffigurata nel fotogramma, affinché fosse percepibile almeno qualche piccolo dettaglio dei suoi tratti.
Dei lunghi e lisci capelli castani contornavano il volto fine e sottile di quella che potevo supporre fosse una giovane ragazza. Due vispi occhi grigio perla erano delimitati da delle folte ciglia scure, separati da un naso sottile, macchiato da un lieve accenno di lentiggini.
Mantenni l’attenzione sullo sguardo vivace che pareva essere dedicato proprio all’interlocutore, a me, almeno finché Mihael non prese a parlare per chiarirmi un minimo le idee.
«Lei è l’anima terrena che io proteggo, sono il suo angelo custode» mi confessò con un tono pacato e calmo, prima di incrociare le mani e lanciare un veloce sguardo al ciondolo.
Non avevo mai visto il suo, o meglio, ora che lo sapevo, la sua protetta prima d’ora. Non me ne aveva mai parlato, anche se non sapevo a dire il vero perché. Non mi aveva mai detto fosse una femmina, sapevo solamente che fosse giovane e che la sorvegliasse da poco. Ma non credevo così giovane.
Ad ogni modo, nonostante trovassi interessante quel discorso, non potei far a meno di domandarmi cosa centrasse ora con ciò di cui stavamo precedentemente parlando.
Stavo appunto per domandarglielo, quando lui mi precedette proseguendo con dell’altro, come se mi avesse letto nella mente. Non che questo sarebbe stato strano per uno di noi, era una dote che noi angeli possedevamo e potevamo sviluppare, ma non era possibile applicarla nei confronti di altri consimili a meno che non fossero questi in primo luogo a lasciar cadere la barriera che proteggeva la loro mente.
«Ed è anche l’anima che dovresti scendere sulla Terra a vegliare» aggiunse.
Dapprima, concentrato sugli occhi grigi della sua protetta, non feci nemmeno caso a quanto aveva appena detto. Solo quando la mia mente analizzò in modo estremamente lento, parola per parola, quanto la sua voce aveva appena pronunciato, il mio sguardo immediatamente saettò sul suo viso.
Dischiusi le labbra, colto di sorpresa, e lasciai che le mie iridi ambrate lasciassero trapelare tutta la mia incredulità.
Perché più la situazione si sviluppava, più diveniva contorta?
«Ho avuto una strana sensazione tempo fa e negli ultimi tempi si è intensificata» proseguì, finalmente assumendo un tono che dava a pensare si sarebbe davvero protratto in una spiegazione. «Ho ragione di pensare che sia in pericolo, che qualche forza oscura sia prossima ad attaccarla, e non sono certo di riuscire a sconfiggerla se non so prima di cosa si tratti.»
Rimasi concentrato sulla sua voce, per non perdermi una sola parola, siccome questa sarebbe potuta essere importante per il mio apprendimento dei fatti, e un’idea stavo già iniziando a farmela effettivamente.
«Se potessi, scenderei io, ma lo sai che gli angeli custodi non possono mostrarsi agli occhi dell’anima che proteggono» mi ricordò, ed annuii all’istante per confermargli che avessi perfettamente presente ciò che stava dicendo. Era una delle regole che in assoluto dovevamo rispettare. Mihael sarebbe potuto scendere in sembianze angeliche, ma sarebbe dovuto restare invisibile al suo sguardo. «Per questo ho bisogno che tu mi aiuti... che tu la aiuti.»
Il suo tono di voce era leggermente tremante, anche se si confermava sempre pacato e fermo. I suoi occhi azzurri erano indirizzati nei miei, sinceri e preoccupati, e da ciò che trasmettevano potei comprendere che tenesse estremamente a quella ragazza.
Dopotutto non avevo da sorprendermi, era la sua protetta.
Il legame che lo univa a lei era dettato da un profondo affetto che era andato a crearsi con il tempo, dalla nascita di quell’anima terrena fino ad oggi.
Potevo solamente immaginare, io, cosa si provasse. Cosa significasse avere la vita di una persona sulle proprie spalle e assicurarsi di proteggerla a tutti i costi, ritenendola infinite volte più importante della tua esistenza immortale.
So che non avrei dovuto, ma lo invidiavo estremamente tanto.
«Ho bisogno che tu scenda sulla Terra e la sorvegli da vicino per conto mio, per scoprire quale sia il male che sta cercando di avvicinarla» approfondì la sua spiegazione, ma non servì propriamente perché ormai avevo perfettamente compreso ciò che mi stesse chiedendo.
Voleva che divenissi una sorta di suo protettore terrestre, perché dal Cielo temeva non sarebbe riuscito ad avere a che fare con una forza negativa simile, e che non sarebbe riuscito ad identificarla in tempo.
Il mio ruolo era quello: scendere ai piani bassi e svolgere il lavoro che lui non avrebbe potuto fare, a causa delle regole stabilite dall’Ordine.
Avevo già sentito di casi simili, non era nulla di propriamente nuovo e fosse stato solo per me, avrei rifiutato. Non era egoismo, semplicemente ero consapevole che il tempo che avrei trascorso sulla Terra sarebbe stato tempo che avrei invece potuto utilizzare per migliorarmi, così da divenire un vero e proprio angelo completo.
Ma non si trattava solo di me, c’era Mihael di mezzo, l’angelo che mi aveva cresciuto fin dall’inizio della mia storia. E mi stava chiedendo un favore, mi stava chiedendo di aiutarlo.
Immedesimandomi in lui, cercai anche solo di supporre la reale paura che lui doveva avere al momento che la sua protetta potesse finire nelle mani dell’altro regno, di quello sbagliato. Se mai un giorno avrei avuto anche io un’anima da sorvegliare, avrei fatto di tutto per proteggerla, e sarei stato felice e sollevato se qualcuno a cui tenevo si sarebbe offerto di aiutarmi.
Lo guardai una seconda volta negli occhi, storcendo le labbra.
«Perché proprio io?» gli domandai, conscio che avesse molti altri principianti a cui avrebbe potuto chiedere, che magari avrebbero anche potuto beneficiare di quell’opportunità e migliorarsi, a differenza mia che già sentivo non avrei ottenuto nulla di nuovo.
«Perché di te mi fido» rispose schietto e sincero, senza spostare lo sguardo. «E sei il mio migliore apprendista, non potrei affidarla in mani migliori.»
Rimasi piacevolmente spiazzato dalle sue parole, e se anche prima avevo avuto qualche dubbio sulla decisone da prendere, di fronte alla richiesta d’aiuto di un amico non avrei potuto rispondere di no e voltargli le spalle.
Avrei dovuto rimandare la mia promozione, il mio completamento, la sensazione di avere un’anima tutta per me che confidasse nella mia protezione, che confidasse in me.
Sospirai e portai gli occhi sullo sguardo vispo della ragazza racchiusa nella medaglietta fra le mie dita, scrutando al suo interno come se le sue iridi fossero vive davanti a me e avrebbero potuto comunicarmi qualcosa.
Speriamo voi ne valiate la pena, pensai, rivolgendomi a quelle due pozze color perla.




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Sono consapevole che questo capitolo, essendo di passaggio, sia praticamente la quintessenza della noia.
Però, non avrei potuto passare direttamente alla storia senza prima chiarire quanto detto qui.
Infatti, mi serviva per introdurre la protagonista femminile e aggiungere qualche particolare sul suo conto
prima che entri in prima persona nell'intera vicenda.
Cosa che avverrà nel prossimo capitolo, promesso!
E, sempre dal prossimo appunto, Justin lascerà il suo posticino tanto adorato fra le nuvole lol
Diamo benvenuto a Bieber nella nostra """"magnifica"""" dimensione #sarcasm

Vorrei ringraziare chiunque ha recensito.
Davvero, per me è molto importante.
Poi, certamente anche chi ha semplicemente letto o chi ha aggiunto la storia in una delle tre sezioni.
Grazie infinite.

Spero di sentire qualche parere anche qui, anche se questo capitolo non è nulla di che
e non mi aspetto molto.
Dal prossimo prometto che le cose si smuoveranno un poco.

Grazie ancora! :)

@_xbiebersvoice


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Capitolo 3
*** Capitolo tre. ***


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3.
 
 
 
Portai una mano a coprirmi gli occhi, contrastando così la forte luce del sole che cadeva perpendicolare al suolo. Assottigliai le palpebre, lanciando uno sguardo a quanto avevo davanti in quel preciso istante, squadrandolo da capo a piedi.
«Un bel gioiellino, eh?» esclamò la voce di Mihael, con un tono estremamente esaltato ed elettrizzato, permettendo ai suoi occhi azzurri di imprimersi in egual maniera di quell’entusiasmo che lo aveva colto all’improvviso.
Non dissi una parola. Mantenni invece l’attenzione su quanto lui stava elogiando.
Davanti a noi, una bella macchina bianca e sfavillante luccicava sotto i raggi solari, sicuramente in grado di attirare anche lo sguardo del passante più distratto. Al primo acchito, dava subito l’idea di essere appena uscita dalla concessionaria. Un’auto sportiva senza ombra di dubbio molto bella, ma non capivo per quale motivo Mihael dovesse esaltarsi tanto.
«Sbaglio o ci era stato insegnato di non dare importanza alle cose materiali?» gli feci notare, inarcando un sopracciglio, prima di fare un veloce cenno avanti a me. «Anche perché “su ai piani alti”, cose simili non si trovano né potrebbero mai essere utili.»
L’uomo –anche se sarebbe stato più il caso di aggiungere ‘il giovane’ davanti, poiché il suo aspetto fisico non rispecchiava affatto i numerosi secoli che invece aveva– alzò gli occhi al cielo, come se avessi detto la cosa più irrilevante che avesse mai sentito.
«Sì, ma è anche vero che non siamo lassù, ma siamo sulla Terra, quindi non c’è assolutamente nulla di male!» mi ricordò in seguito, con un tono superbo e orgoglioso, e si allontanò dal mio fianco per poter raggiungere l’autovettura di fronte a noi.
Serviva che me lo ricordasse ogni secondo in più che passavo quaggiù?
Come se non lo sapessi già di mio dove mi trovassi all’istante, a dispetto di ogni mio principio e delle mie precedenti intenzioni. Sì, perché alla fine avevo accettato, mi ero lasciato impietosire dai suoi occhi terribilmente preoccupanti e in cerca d’aiuto, e mi ero lasciato trascinare giù al pianoterra.
Il pianoterra a tutti gli effetti, perché ero entrato a diretto contatto con il mondo sottostante per la prima volta, dopo tutto quel tempo di attesa e di sguardi curiosi inviati dal Cielo.
Su un lato, non potevo dire che fosse un brutto posto. Qui c’erano un mucchio di colori.
Ma dall’altro, non sarebbe mai potuto essere comparato al Paradiso, ma alla fine dei conti non c’era da stupirsene. 
Dopo un paio di giorni –terrestri– Mihael era venuto a suonarmi alla porta e mi aveva trascinato fuori dal mio appartamento, per mostrarmi quel regalo che mi aveva appena portato sotto casa.
Sì, perché ora avevo un appartamento.
Faceva tutto parte del piano d’integrazione nel mondo degli umani, ovviamente.
Nulla di ciò che conteneva mi sarebbe servito davvero, nel mio soggiorno qui, perché noi angeli non necessitavamo di niente in particolare. Però i superiori sostenevano che avessi bisogno di un luogo sicuro nel quale poter stare da solo, anche se più che altro era volto a formare la mia falsa immagine da innocente umano.
Comunque, non si erano nemmeno sprecati a farmi trovare tutto pronto. Ero dovuto scendere io, e trovarmi un abitazione decente che avrei potuto definire la mia casa sulla Terra. Questo significava che avevo dovuto contattare un’agente immobiliare e farmi proporre ciò che pensasse fosse meglio per me.
Era stato il mio primo contatto con una persona umana, quindi fu un po’ anche una prova per provare ad interagire senza dare sospetti che mi avrebbero fatto apparire diverso ai suoi occhi.
Onestamente, non so come fosse andata. Però, lasciandomi andare un po’ all’emozione di avere davanti il primo ‘esemplare’ terreno della mia esistenza, dovevo certamente aver compiuto qualche errore.
Non avevo potuto fare a meno di guardarla assiduamente –sì, era stata una donna, quindi con facilità potrebbe aver frainteso il mio interesse– e osservare ogni movimento che aveva compiuto nel presentarmi l’appartamento. Era stato interessante studiarla da vicino, ma non deve essere stato altrettanto curioso e piacevole per lei. 
I suoi occhi erano parsi piuttosto allarmati. Gli umani avevano così tanta paura di essere guardati da un estraneo? Non pensavo che uno sguardo incuriosito potesse essere così strano e insolito per loro.
Ad ogni modo, non avevo prestato poi tanta attenzione alle stanze che mi aveva mostrato. Non mi importavano le condizioni di quel posto. Perché avrebbero dovuto, se tanto ci sarei stato solo per poco tempo? O meglio, questo era quello che speravo.
Al termine della visita, mi aveva chiesto gentilmente se ero interessato all’abitazione e quindi se avevo intenzione di prenderla in affitto. Avevo annuito senza troppi ripensamenti. Quel mio disinteresse l’aveva sorpresa, difatti mi aveva dedicato uno sguardo quasi infinito, prima di sbattere più volte le palpebre e dedicarsi poi ad altro, prendendo a cercare nervosamente delle carte all’interno della cartelletta che teneva fra le braccia.
Da quello, dedussi che gli umani erano anche giudiziosi, oltre che riservati.
Erano soliti valutare tutto ciò che capitava loro nella vita con attenzione, ponderati e cauti, e non a prendere tutto alla leggera come invece stavo facendo io. Mi appurai di tenerlo a mente.
Qualche giorno dopo avevo ottenuto l’appartamento, perché era prima stato richiesto un tot di tempo per accertarsi di questo e di quell’altro (cose che non mi ero interessato di ascoltare), ma alla fine mi fu finalmente permesso di spostarmi sulla Terra. 
Quindi ora ero qui, in un mondo che non era il mio, per portare a termine un compito che mi era stato assegnato da forze superiori. Però avevo un appartamento... e ora pure un auto.
«Non credi che questa attirerà un po’ troppo l’attenzione?» gli domandai, tornando alla realtà, riservando un ennesimo sguardo dubbioso a quanto Mihael sembrava star elogiando a bassa voce. Non avrei mai pensato che lui, il mio tutore nonché mio maestro, potesse essere così soggetto all’attrazione materiale di una macchina. 
Comunque, quanto gli avevo fatto notare era effettivamente vero.
Un’auto del genere avrebbe senza dubbio attirato molti sguardi e, dato che io qui ero solo di passaggio, sarebbe stato meglio se avessi lasciato la più minima traccia possibile. E girare per la città con una delle vetture più appariscenti mai create non mi pareva il modo migliore per non dare nell’occhio.
«Oh, tranquillo, anche senza questa attorno attireresti l’attenzione» ridacchiò lui, senza però portare lo sguardo su di me. Se ad orecchie estranee quello sarebbe potuto parere un segno di apprezzamento, una sorta di complimento, e quindi risultare equivoco, per me non fu così. Compresi subito ciò che intendesse dire. «Lo sai, gli umani subiscono una particolare attrazione verso di noi.»
Nulla di nuovo, ma effettivamente dovevo averlo scordato.
Con la macchina o senza la macchina, avrei comunque avuto una particolare attenzione concentrata sulla mia figura. Era dato per scontato che noi angeli avessimo un aspetto piacente, ma la realtà era che non era propriamente questo che affascinava i terreni.
Si trattava più che altro della nostra aura. Nulla di fisico che la vista potesse vedere, ma più che altro un qualcosa di sensoriale che le loro anime riuscivano a percepire, restandone attratte.
Annuii, dandogli ragione, poi feci qualche passo per avvicinarmi all’auto.
Era vero che non ero andato fuori di testa come Mihael trovandomela davanti, ma tutto sommato non potevo negare che fosse un qualcosa di... facile da apprezzare. Era... era bella? Poteva un oggetto materiale essere bello? Gli umani erano soliti utilizzare questo aggettivo per indicare un qualcosa che giudicavano gradevole, fatto bene.
«Okay, ma io non ho la patente» sottolineai quel particolare decisamente rilevante.
L’angelo non parve turbato da quella constatazione, mantenne semplicemente il sorriso sul suo volto. «Sì che l’hai, come hai una carta d’identità e un passaporto.»
Oh, certo. Ovviamente, sempre per la mia integrazione, si erano premuniti di farmi entrare regolarmente in quella dimensione, per risolvere prematuramente ogni possibile ostacolo avrei potuto incontrare.
«Oh, buono a sapersi» biascicai appena, tirando le labbra in una smorfia. «Ma questo non significa che io la sappia guidare.»
Ancora una volta, Mihael non si sorprese delle mie parole né tantomeno queste influirono sul suo animo. Dedicandomi finalmente un filo di attenzione, portò le sue iridi sul mio viso.
«Certo che la sai guidare!» esclamò, come se la cosa fosse ovvia, e rise un poco. «Solo che ancora non lo sai.»
Mmh... eh? Mi stava dicendo che ero in grado di usare quella macchina, ma che ancora non sapevo di avere questa capacità, perché non avevo mai avuto modo di sperimentarla?
«Dai, sali, ti faccio vedere» proruppe poi e, allungando una mano verso la maniglia dello sportello, la tirò per poterlo aprire, facendomi poi segno di entrare.
Sì, direi che prima aveva voluto intendere proprio questo.
 
 
*
 
 
Girando la chiave nel quadro dell’auto, spensi il motore rapidamente. Lasciai quindi che il suono a circondarmi non fosse più il suo frastornante rumore, ma anzi il vociferare confuso della folla che assediava l’entrata dell’edificio poco distante a me.
Una scuola. La ‘mia’ scuola.
Ovviamente, se dovevo entrare a contatto con la ragazza che dovevo proteggere, dovevo farlo nel modo più naturale e semplice possibile. Non avrei saputo da dove cominciare, da solo, ma gli angeli a me superiori avevano fortunatamente già ideato tutto, con una gran dose di aiuto da parte di Mihael.
E cosa c’era di più ordinario, sul pianeta Terra, di un adolescente che incontrava un altro adolescente fra le quattro mura di quel luogo dove passava ben o male cinque giorni su sette? Perciò, tutto quello che dovevo fare, era trovare quella ragazza e divenire suo amico, ma non dovevo essere frettoloso, dovevo procedere passo per passo.
Mi era stato anche affibbiato un cognome, e come se questo per me non fosse già strano, mi avevano assegnato pure un secondo nome. Il motivo di quest’ultimo non lo sapevo proprio, però sostenevano che facesse tutto parte della mia integrazione, quindi io non avevo obiettato.
Comunque, non potevo lamentarmene. Il cognome suonava bene con il mio nome, e quello intermedio trovava compostamente il suo spazio fra i due.
L’unico problema, probabilmente, sarebbe stato ricordarli. 
«Mi chiamo Justin Drew Bieber. Sono Justin Drew Bieber. Piacere, Justin Drew Bieber» bisbigliai concentrato fra me e me, con i palmi racchiusi attorno al volante, mentre gli occhi fissavano un punto indefinito oltre il parabrezza.
Era solo un esercizio di preparazione, in modo che se avessi avuto da presentarmi o qualcuno mi avesse rivolto domande sulla mia identità, la risposta sarebbe stata rapida e scattante, com’era normale che fosse.
Non intendevo dare l’idea di essere un tipo strano e farmi già da subito affibbiare l’etichetta di svitato. Volevo solo entrare in quell’istituto e passare il più inosservato possibile, anche se dubitavo fortemente che questo sarebbe successo.
Comunque, se davvero non volevo pensassero avessi qualche rotella fuori posto, forse era meglio che la smettessi di muovere le labbra e ripetere assiduamente il mio nome, altrimenti l’idea che giungeva agli spettatori esterni era quella che stessi parlando da solo. E parlare da solo era qualcosa di decisamente bizzarro.
Ero ancora chiuso dentro la mia macchina, come se questa potesse essere uno schermo di protezione, ma la realtà era che non avevo paura di quella marmaglia di umani che mi circondava. Forse avevo semplicemente paura di non riuscire a portare a termine il mio compito, l’unico che mi era mai stato assegnato. Ma quanto difficile sarebbe poi dovuto essere?
Una ragazza era sotto la minaccia di una forza malevola e presto questa si sarebbe verificata, raggiungendola. Tutto quello che dovevo fare era conoscere questa terrena, divenire suo amico, starle accanto e proteggerla finché non avrei individuato la minaccia che tanto terrorizzava il Cielo.
Una volta fatto questo, sarei potuto  tornare su ad esercitarmi per divenire ciò che volevo davvero.
Tutto qui.
Presi un grosso respiro, immagazzinando quanta più aria potessi, poi estrassi le chiavi dall’auto e le lasciai cadere nella tasca della mia giacca. 
Alla fine Mihael aveva avuto ragione: mi era bastato sedermi al posto del guidatore, accendere la macchina e subito le mie mani avevano viaggiato di per loro, posizionandosi dove dovevano senza che io per davvero sapessi cosa stavano facendo. Era come se loro sapessero come muoversi, come se fossero una parte distaccata del mio corpo. All’inizio, ero andato un po’ a tentoni. Però, dopo qualche giro per l’isolato, sapevo già maneggiare quell’autovettura come se fosse ciò che facevo ormai da tutta la vita. Era stato un po’ strano.
Aprii lo sportello della macchina e abbassai davanti al mio sguardo gli occhiali che avevo precedentemente posato sulla testa, fra i capelli.
Mihael diceva che se davvero non volevo attirare troppo l’attenzione, nascondere i miei occhi sarebbe stato un vantaggio. Sosteneva che le nostre iridi fossero lo strato più fine e trasparente fra tutti a proteggere la nostra aura, e che quindi queste fossero le uniche in grado di mostrare –anche se dando solo un assaggio– ad un umano la nostra vera natura sovrannaturale.
Non che in tal modo non avrebbero percepito ugualmente la mia aura, quindi, ma era sempre un qualcosa.
Mi chiusi l’auto alle spalle e stirai la maglia con entrambi i palmi delle mani, lisciandone il suo tessuto bianco.
Una volta che sollevai l’attenzione e la puntai davanti a me, mi bloccai sul posto e dischiusi le labbra per impulso.
Decine e decine di sguardi erano già puntati su di me, intenti ad esaminarmi da capo a piedi.
Qualcosa mi dava a pensare che tutta la scuola si fosse accorta del nuovo arrivato.
Fantastico. 

 
 
 

 
 
Tamburellai l’indice contro la copertina dell’ingombrante volume di storia posato sul tavolo della mensa, attendendo che il posto in fronte a me venisse occupato dalla mia migliore amica, ancora in fila per prendere la sua razione quotidiana di cibo.
Sarei dovuta essere con lei, teoricamente, ma avevo invece optato per attenderla al nostro solito tavolo. Il motivo era che quel giorno avevo fatto un’abbondante colazione e nel mio stomaco c’era spazio unicamente per quella salutare mela che presto sarebbe arrivata fra le mie mani. Anche perché, al di fuori di quella, nulla di ciò che girava in questo postaccio pareva commestibile.
Sistemai meglio i molteplici libri davanti a me, disponendoli in una colonna ordinata, e mi lasciai andare ad una veloce smorfia. Mi sarei dovuta perdere almeno dieci minuti della pausa pranzo per andare a riportarli nella biblioteca dell’istituto. E la cosa ironica era che mi ero pure proposta io, di farlo!
Ma la signora Morgan era una donna così amabile che mi era stato impossibile non accettare la sua richiesta di aiuto, quando passando per i corridoi mi aveva domandato se prima del suono della campanella le avrei fatto quel favore.
Ero passata dalla segreteria, dove quella pila di libri era rimasta posizionata per gli ultimi giorni senza che nessuno trovasse la voglia di riportarla nel suo posto originario, e me l’ero trascinata dietro fino alla mensa. La mia intenzione era quella di pranzare (sempre se si sarebbe potuto definire tale) e poi correre in biblioteca poco prima che suonasse la campanella.
«Ecco a te!» esclamò di colpo la voce squillante di Blythe, lasciando cadere malamente il vassoio sulla superficie del tavolo, emettendo un suono sordo. 
Afferrò rapidamente la mela che si era proposta di prendere per me, poi distese il braccio per allungarmela, infilandosi al contempo nella panca.
Blythe era una tipa un po’ stravagante, come probabilmente il suo nome bizzarro poteva dar ad intendere. Era sempre stata una tipa vivace ed esuberante, quel genere di persona che quando l’hai intorno, non può far a meno di trasmetterti una sensazione positiva.
Aveva la dolce quanto strana abitudine di combinare un guaio qualsiasi cosa facesse. Ovviamente non lo faceva apposta, era lei ad essere maldestra di suo, e questo rendeva sempre ogni sua sventura ancora più divertente.
La conoscevo dal tempo della scuola elementare. Il primo giorno di scuola ero stata abbastanza nervosa, poiché sono sempre stata una persona abbastanza riservata a timida, e quando avevo scoperto che la maestra mi aveva messo nel banco affianco a lei, ero stata un po’ spaventata. Un terremoto vivente, con due codini già scomposti a causa della sua vivacità ad incorniciarle il viso, si era subito voltata verso di me e mi aveva sorriso, con qualche buchetto nella sua dentatura.
Durante la ricreazione, aveva estratto un succo di frutta in brik. Aveva infilato la cannuccia, ma aveva tenuto premuto contro le estremità per riuscire a perforare la fessura di carta, così quando era riuscita a farla filare dentro, tutto il contenuto si era riversato sulla sua maglietta rosa con un paio di elefantini disegnati ai lati.
Ero scoppiata a ridere per impulso, ma subito mi ero coperta la bocca nel timore di essere risultata offensiva e inappropriata. Ma lei aveva invece preso a ridere più di me e si era girata nella mia direzione, con quel sorriso sdentato stampato sulle labbra. “Mamma mi ritirerà il libro delle fate per questo!” aveva affermato, scherzosa, come se quel pensiero non le dispiacesse per nulla. Quella sua leggerezza mi aveva colpito. 
Da quel giorno in poi, eravamo sempre state insieme.
«Grazie, Blys» le risposi, scendendo dalle nuvole, utilizzando quel nomignolo che lei stessa si era affibbiata, come se il suo nome di nascita non fosse già strano di suo.
Lei alzò le spalle e si sistemò al suo posto, scostandosi i lunghi capelli biondi dal viso. 
Ebbi appena il tempo di addentare la mia mela, che lei prese a parlarmi dell’ennesima discussione che aveva avuto con la madre il pomeriggio precedente. Blythe discuteva sempre con tutti e per niente, ma non riusciva comunque mai a farsi andare in odio da nessuno. Probabilmente era merito del suo visetto angelico e dolce, che spesso faceva pensare alla gente che avesse molto meno dei suoi anni.
Quando terminò di sfogarsi e soffiò via un ciuffo di capelli che le era ricaduto davanti agli occhi, ormai avevo finito il mio pranzo già da un paio di minuti. Quando Blys iniziava a parlare, era peggio di una macchinetta.
Prese un grosso respiro, abbassando le palpebre, poi le riaprì e distese le labbra in un luminoso sorriso.
Era sempre così. Gesticolava agitata per decine di minuti, poi inspirava profondamente e la pace più completa tornava ad occupare il suo corpo. Era sorprendente.
«Qualche novità, te, invece?» mi domandò successivamente, svitando il tappo della sua bottiglietta d’acqua.
Sollevai un poco il labbro inferiore per assumere un’aria pensierosa, ma quasi subito scossi la testa in negazione. Ero quasi sul punto di riferirle del piccolo intoppo che mi ero creata da sola con la storia della biblioteca, quando di colpo una seconda persona si sedé al nostro tavolo, posizionandosi al suo fianco.
Una folta chioma di capelli corvini ed un dinamismo che riconobbi subito, appartenenti ad una sola persona di mia conoscenza.
Audrey.
Difficile non riconoscerla, perché la sua energia e la sua esuberanza svettavano notevolmente nella massa di studenti annoiati dalla solita monotona giornata scolastica.
Audrey era la terza ragazza di quello che poteva definirsi il ‘nostro gruppo’. La conoscevo da meno tempo di Blys, ma era comunque riuscita subito ad integrarsi con facilità e l’avevamo accettata senza problemi. Chiunque lo faceva, soprattutto i maschi che non potevano fare a meno che rimanere attratti dalla sua bellezza.
In tutta onestà, non sapevo nemmeno per quale motivo io fossi parte di quel trio. 
Loro erano il mio opposto, anche se neanche loro se messe a confronto presentavano proprio gli stessi tratti. Ma erano tutte e due vivaci, estroverse e disinvolte. Ovvero tutto quello che io non ero.
«Ma ciao, Aud» sbottò la bionda al suo fianco, scostandosi un poco di lato siccome la classica dirompenza della mora si era rivelata eccessivamente energica. L’aveva praticamente travolta con la sua figura, colpendole sbadatamente un braccio e rischiando di farle scivolare la bottiglietta d’acqua dalle mani, quando si era seduta accanto a lei.
La nuova arrivata la fulminò con lo sguardo, nel sentire il nomignolo con il quale l’aveva chiamata, ma successivamente decise di lasciare perdere con un veloce gesto della mano. A differenza della bionda, Audrey detestava qualsiasi tipo di soprannome.
«Che si dice, ragazze?» domandò successivamente, distendendo le mani davanti a sé, sul tavolo, come a stiracchiarsi. Guardò storto l’enorme pila di libri che mi affiancava, ma non disse nulla.
«Niente, stavo appunto domandando ad Helena se c’era qualcosa di nuovo, ma come sempre in questa città dimenticata dal mondo non succede mai nulla» mugugnò Blythe, mettendo su un lieve broncio.
Portando gli occhi su Audrey, mi accorsi di come invece i suoi luccicavano, come se fosse estremamente ansiosa per qualche motivo. Non era poi così facile trovare qualcosa che la entusiasmasse per davvero, quindi mi sorpresi.
«Beh, di solito, ma da oggi non più, a quanto pare» buttò lì elettrizzata, apposta per suscitare il nostro interesse, e mantenne quel sorrisetto saccente da chi sapeva qualcosa di estremamente intrigante sul viso, alternando lo sguardo da me alla ragazza alla sua destra. Non servì che le chiedessimo di più, fu lei a spiegarsi, probabilmente troppo entusiasta per potersi trattenere ancora a lungo. «Amber mi ha detto di aver adocchiato un tipo estremamente carino oggi, all’entrata.»
Tutto qui? Era così esaltata solo perché una delle sue tante amiche le aveva detto di aver visto un bel ragazzo? C’era qualcosa che non andava se era così esagitata solo per una cosa del genere.
«Impossibile. Di tipi estremamente carini non ce ne sono in questa scuola, fatta esclusione per Tyler e qualche suo amico, ma sono così privi di cervello che il loro aspetto non compensa» le fece notare disinteressata la bionda, accompagnando il suo commento con una smorfia di disprezzo.
Condividevo pienamente ogni sua singola parola.
Era la triste verità di quella scuola. Non che di fatto fossi quel genere di ragazza che era pronta ad inginocchiarsi davanti all’altro sesso. Non avevo molte esperienze a riguardo, e non intendevo comunque approfondire l’argomento.
«Esatto» proruppe semplicemente Audrey, e i suoi occhi si accesero ancora di più. «Quindi, questo può significare solamente che abbiamo un nuovo arrivo. Carne fresca!»
Alzai gli occhi al cielo, approfittando del fatto di non avere lo sguardo di nessuna delle due puntato contro, e mi mossi un poco al mio posto, estremamente disinteressata della piega che stava assumendo la conversazione.
Non che fossi quel tipo di ragazza che schifava l’intero genere maschile, ma al momento avevo altri interessi che preferivo coltivare, quindi facevo sempre in modo di tirarmi fuori da argomenti simili. Fingere che mi interessassero mi veniva estremamente faticoso e, comunque, non vedevo per quale motivo avrei dovuto farlo. 
Lanciai un’occhiata all’orologio appeso sulla parete e, fortunatamente, notai che non mancasse molto al suono della campanella. Improvvisamente, l’idea di portare quella pila di libri in biblioteca non mi dispiaceva più poi così tanto.
Alzandomi velocemente, tirai verso di me la colonna di volumi.
«Hels, dove vai?» mi domandò Blythe, interrompendo momentaneamente l’accesa discussione che stava avendo con la sua compare affianco, estremamente scettica riguardo quanto aveva detto poiché, a suo parere, era impossibile che avessimo un nuovo arrivato così, a scuola già iniziata.
Feci un rapido cenno in direzione dei libri. «Commissione.»
La bionda corrugò un poco la fronte, ma successivamente non si dedicò più a me, perché la mora attirò nuovamente la sua attenzione, tornando a parlare della novità della giornata. «Comunque, ti stavo dicendo...»
Non riuscì a trattenermi dal portare nuovamente lo sguardo al soffitto, ma in seguito lasciai perdere e scavalcai la panca dietro le mie ginocchia, per potermene andare prima che per qualche ragione una delle due trovasse un motivo per trattenermi. Anche se, così prese dall’argomento, difficilmente si sarebbero distratte se non per il suono della campana.
Mi portai al petto quei cinque o sei libri, cercando di non farne precipitare nessuno a terra, poi indietreggiai senza salutarle. Tanto non se ne sarebbero nemmeno accorte.
Feci appena in tempo a dare loro le spalle, che la voce di Audrey mi arrivò chiara e netta alle orecchie. «Il tipo in questione è... Oh, cavolo
Trattenni un sorriso divertito, ma non mi girai nemmeno per vedere cos’era successo.
Probabilmente le era arrivato un improvviso sms, con un contenuto ricco di dettagli riguardo questo presunto nuovo studente. Un po’ mi dispiaceva per lui.
Se davvero era così carino come le voci che giravano parevano sostenere, allora non avrebbe avuto vita facile all’interno di quella scuola. Conoscevo il genere di ragazze che la frequentava ed ero pronta a scommettere che sarebbero state pronte a sbranarsi per lui, e questo avrebbe potuto spaventarlo.
A meno che non fosse il classico belloccio in stile Tyler e company.  In questo caso, sarebbe stato a guardare lasciando che il suo ego salisse.
Mi auguravo non fosse nulla di simile. C’era bisogno di una ventata di aria fresca in questa scuola.
 
 


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Lo so, questo capitolo è lungo.
Il fatto è che io non sono affatto abituata a farne di corti, perché se non scrivo quello che voglio il capitolo tratti, allora lo trovo vuoto ed incompleto e assolutamente non mi piace.
E questo capitolo doveva parlare di questo.
Però, se è troppo lungo ed è faticoso da leggere, basta che lo diciate. In tal caso, vedrei di scrivere meno o spezzarlo!
Per questo, per favore, fatemi sapere.

Btw... Giustino è finalmente giunto sulla Terra (con tanto di regalo di benvenuto, swaggy) e il personaggio femminile, aka Helena, è stato introdotto.
Sono consapevole che sia tutto ancora molto vago, ma non potevo ammassarvi di dettagli così, subito cwc
Piuuù, vengono presentate anche le sue due amiche.
I know, I know: Blythe è un nome assurdo. Però esiste! E mi piaceva per lei, per rispecchiare il suo carattere.
Poi non vorrei piombare nei classici e ordinali nomi, anche se è difficile.



PRECISAZIONE:
Justin non si comporterà da 'figo della situazione' ed Helena non sarà la classica superficiale che gli va dietro né tantomeno quella scettica che lo detesta per nulla.
La mia intenzione è quella di fare qualcosa di più calcolato e pensato, cercare di ridurre al minimo le banalità.
Ma immagino capirete di più con il seguito della storia lol

Ok, penso di aver detto tutto. 
[Non è vero, avrei altre 1000 cose da dire ma sssh.]



Come sempre ci terrei a ringraziare chiunque ha recensito.
Grazie, grazie, grazie.
11 recensioni? Siete pazze ajkda
Sapere il vostro parere è importantissimo per me perché, in tal maniera, capisco se vale la pena che io continui questa ff e in più, certamente, se sono critiche costruttive non possono far altro che aiutarmi a migliorare.
Perciò: ricevere una vostra recensione mi renderebbe davvero felice.
Per il resto ringrazio ovviamente anche chi legge solamente o chi ha messo la storia in una delle varie sezioni.
GRAZIE.

Alla prossima spero! :)

@_xbiebersvoice

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro. ***


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[Potreste leggere le note a fine pagina, poi? Grazie :)]

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4.

 

 

 

Mi schiarii la gola e abbassai lo sguardo, puntandolo sul libro di testo che avevo davanti agli occhi.
Niente, la ragazza che avevo come vicina di banco non ne volle sapere di spostare l’attenzione altrove. Rimase costantemente appiccicata al mio viso, nemmeno avessi scritto in fronte dove fosse segretamente situato il fatidico Sacro Graal.
Non riuscivo a capire come mai quella mi stesse dedicando un interesse simile, come non riuscivo a capire come mai questo mi turbasse in tal maniera.
Sì, perché onestamente mi sentivo un po’ a disagio.
Mihael mi aveva avvisato che avrei avuto problemi di questo tipo, ma non credevo sarebbero stati così esagerati ed evidenti. Non aveva un minimo di discrezione quella ragazza? Non sapevo come funzionasse qui giù sulla Terra, ma supponevo che, come da noi, fissare così esplicitamente una persona non era una cosa poi tanto carina.
Anche perché, era vero che quella mattina, sia all’esterno della scuola sia percorrendo i corridoi, numerosi sguardi si erano soffermati sulla mia figura. Ma nessuno era stato così assiduo e... sì insomma, terrificante.
Era l’unica ad essersi comportata in questa maniera, quindi iniziavo a domandarmi se dovessi preoccuparmi. Non è che magari avevo qualcosa in faccia di cui non mi ero accorto? Questo sarebbe stato molto più comprensibile e, seppur imbarazzante, al contempo sarebbe stato più rassicurante.
Con la coda dell’occhio, provai a lanciare un’occhiata nella sua direzione nella speranza di trovarla intenta a seguire la lezione, o ad osservare i meravigliosi –sarcasmo a parte– cambiamenti climatici della stagione... ma ovviamente non fu così.
Lasciai uscire un sospiro. La schiarita di gola per risvegliarla non era servita, quindi optai per un contatto più diretto che le avrebbe fatto comprendere che mi ero accorto della sua notevoleattenzione, e che quindi magari ora poteva pure dedicarsi a qualcos’altro che non fosse la fisionomia del mio volto.
Mi girai perciò nella sua direzione, mantenendo però il corpo fisso sulla sedia dove ero posizionato, e incrociai i suoi occhi. Sollevai un poco le labbra in un sorriso appena accennato, giusto per rendere il suo possibile imbarazzo un minimo più lieve, certamente non volevo farla vergognare. Volevo solamente smetterla di sentirmi un esemplare unico di un qualche rarissimo animale esposto in una gabbia di uno zoo.
Quella parve avere un infarto. Sgranò gli occhi in un modo totalmente assurdo, nascosto un poco dietro la montatura dei suoi occhiali, e spalancò le labbra, in preda allo stupore più assoluto.
Si immobilizzò e sbiancò di colpo, neanche avesse visto un fantasma.
Mi spaventai seriamente. Cosa avevo fatto ora? Come mai avevo questa specie di effetto così terrificante su di lei? Non era stata mia intenzione causarle una crisi respiratoria.
Riportai svelto lo sguardo davanti a me, nella speranza che nessuno si fosse accorto che fosse colpa mia se la ragazza al mio fianco era sul punto di stramazzare sul pavimento. 
Ero qui per fare del bene, non per mandare all’ospedale, o peggio, all’altro mondo una persona.
Promemoria: se una ragazza ti guarda assiduamente come un cane guarderebbe una bistecca, non azzardarti per alcun motivo ad incrociare il suo sguardo. Zero contatto visivo, potrebbe essere nocivo.
Per grazia di Dio –e qui mi domandai se c’era stato per davvero il suo intervento– la campanella suonò annunciando il termine della lezione. Mi alzai di scatto, agguantando il libro nella mano, e mi gettai fuori dall’aula prima di chiunque altro.
Okay, non fu propriamente il gesto più responsabile che ci si potrebbe aspettare da un qualcuno come me, ma pensavo che fuoriuscire dal campo visivo di quella ragazza sarebbe stata una cosa solamente positiva, per lei. 
Prima che potessi avvertire un qualsiasi senso di colpa, se mai avessi sentito qualcuno all’interno della classe rivolgersi a lei e domandarle se ci fosse qualcosa che non andava, mi gettai nella direzione del mio armadietto. O almeno dove questo doveva essere, da quanto ricordavo.
Quella mattina mi era stato dato un foglio con l’orario delle lezioni, uno con sopra disegnata una piantina dell’edificio (abbastanza approssimata dovevo dire, visto che per raggiungere l’aula di letteratura ero invece capitato nello sgabuzzino degli inservienti. Era stato abbastanza imbarazzante entrare tutto trafelato e chiedere perdono per il ritardo ad un set di scope con tanto di secchiello monocolore annesso) e un foglietto con su scritto, in una sottospecie di scarabocchio, il codice del mio armadietto.
Il professore della prima ora mi aveva dato il tipo di benvenuto che per tutta la mattinata avevo sperato di ricevere. Giusto un cenno del capo come saluto, uno sguardo veloce al pezzo di carta che mi era stato detto di mostrargli, un secondo cenno per indicarmi il banco dove mi sarei dovuto sedere ed uno svogliato: “Ragazzi, lui è Justin Bieber. Mi raccomando, accoglietelo a dovere.”
Poi si era voltato verso la finestra ed era rimasto a guardare fuori per una decina di minuti, incantato, senza muovere un solo muscolo.
Questo mi aveva sinceramente spaventato, ma gli altri studenti non erano parsi turbati, quindi avevo supposto che fosse un qualcosa di normale. O almeno così doveva essere se si trattava di lui.
Comunque, lì nella classe della prima ora, anche se ero stato praticamente snobbato dall’insegnante, gli altri miei compagni non erano parsi prendere il suo atteggiamento come esempio. Ci fu chi mi diede giusto un assaggio di quanto la ragazza dagli occhi giganteschi avrebbe fatto più tardi, dedicandomi delle lunghe occhiate, e chi prese invece a bisbigliare con il vicino. 
Oh ma insomma, cosa c’era di poi così interessante in un nuovo arrivato?
Provai subito simpatia per il tipo in ultimo banco che non alzò mai la testa per sfiorarmi anche solo con lo sguardo... a fine lezione scoprii però che si era semplicemente addormentato sul banco. Ci rimasi un po’ male.
All’inizio di ogni lezione i professori mi avevano consegnato un libro di testo che riguardava la loro materia, tranne alla prima, con appunto quel professore un po’ fuori dagli schemi, ma fortunatamente in quel caso c'era stata una ragazza a darmelo e a spiegarmi che così sarebbe stato per tutte le altre ore. Al termine di ognuna avevo portato i vari volumi all’armadietto, non avendo alcuno zaino in cui poterli trasportare almeno fino all’orario di pranzo, così da non fare continuamente avanti indietro. 
Per l’appunto, infilai l’ennesimo libro all’interno di quel ristretto buco di metallo, dopo aver cercato di ricordare a mente il codice dell’armadietto. 
Era finalmente ora di andare a mangiare. E il mio finalmente era volto più al pensiero che non sarei più dovuto rimanere rinchiuso in una classe con la continua sensazione di essere un alieno, spostandomi in una stanza perlomeno più spaziosa e dove mi sarei potuto nascondere meglio, che per l’idea di per sé che avrei potuto ingerire cibo.
Perché, a dire il vero, io non avevo l’assoluto bisogno di mangiare.
Per intenderci, non che ne disprezzassi il sapore o peggio non ne avvertissi i gusti, ma semplicemente non avvertivo il bisogno di riempirmi lo stomaco. Potevo non farlo per giorni interi, e le mie forze sarebbero state pari al giorno in cui avevo per l’ultima volta messo cibo sotto i denti.
Per noi angeli, era perlopiù un’optional mangiare. 
Mi sfilai la giacca che quella mattina avevo avuto l’idea intelligente di indossare.
Era l’unica cosa che non fosse bianca che avevo. Sì, perché ai piani alti ovviamente era l’unico colore ammesso, quindi mi ero trovato un po’ impreparato quando ero sceso sulla Terra.
Non ero una specie di fata magica o una mago dal cappello a punta, se schioccavo le dita non mi si presentava ciò che desideravo. Non avevo poteri di alcun genere, solo capacità più sviluppate rispetto gli umani e abilità sovrannaturali che mi sarebbero risultate utili per il mio compito da protettore.
Ad ogni modo, mi ero quindi infilato rapidamente quella giacca che tra l’altro non era neppure mia, visto che l’avevo trovata all’interno del mio appartamento. Non avevo idea di chi l’avesse lasciata lì, né da quanto fosse in quell’armadio, ma l’avevo presa in prestito. 
Okay, stavo indossando un indumento di chissà chi, ma la cosa non mi turbava particolarmente.
Era in buone condizioni, non aveva odori strani né qualche macchia rossastra riconducibile al sangue, quindi doveva essere stata solo una dimenticanza del vecchio proprietario di quell’abitazione.
La preoccupazione di essere scambiato per un imbianchino, siccome ero completamente vestito di bianco, era stata troppo forte. Avevo preso su quella giacca nera e senza pensarci una seconda volta l’avevo indossata.
Ma ora mi era d’intralcio, l’impianto di riscaldamento di quella scuola era più efficiente di quanto avrei mai immaginato. E sì che pure su quel lato, la temperatura esterna non avrei dovuto avvertirla eccessivamente.
Richiusi l’armadietto, accertandomi di non sbattere troppo violentemente l’anta. Era già malandato di suo, se si fosse pure rotto sarebbe stato il colmo.
Ignorai l’ennesima occhiata da parte di un ragazzino probabilmente del primo anno, che i volti di quelli dell’ultimo doveva conoscerli a memoria per il classico timore della differenza d’età e che quindi doveva essersi trovato spaesato davanti ai miei tratti del tutto nuovi. Passai fra le poche persone rimaste in giro e mi diressi verso la mensa scolastica, anche se avrei preferito trovarmi un angolo tranquillo dove poter riprendermi. O magari un bagno con uno specchio per poter controllare di non avere nulla in faccia di strano.
Ma volevo andare lì, perché probabilmente ci sarebbero stati tutti.
Avevo partecipato a tre ore di lezione, ma in nessuna delle tre differenti classi mi ero trovato come compagna la ragazza che era la ragione per cui mi trovavo qui giù.
A dire il vero, non ne ero propriamente certo. Era imbarazzante da ammettere... ma non ricordavo molto bene il suo volto. Sì, so che è una cosa assurdamente inammissibile e stupida, perché cavolo sono qui solo per lei, ma avevo visto la sua foto solo una volta, giorni prima, quell’unica volta che Mihael me l’aveva mostrata. Avevo rimosso i dettagli, e mi era rimasta un’immagine di lei sfocata. 
Ciò che però ricordavo alla perfezione, erano i suoi occhi grigio perla.
Quelli mi erano rimasti impressi, per una qualche ragione. E speravo che almeno grazie a questi sarei riuscito a riconoscerla fra la folla. In caso contrario, una volta uscito di lì avrei chiesto a Mihael.
Varcai la soglia della mensa e mi bloccai poco più avanti dell’entrata, gettandomi un’occhiata intorno.
Ouch, quel posto era troppo bianco. 
Le pareti, le colonne, gli infissi delle finestre, il pavimento. Era una sorta di Paradiso, di seconda mano ovviamente. Ma i ricordi che mi rievocò furono proprio legati a quello.
L’unico pensiero positivo che trovai, fu quello che perlomeno con il mio abbigliamento total white sarei potuto mimetizzarmi con le pareti. O passare per un inserviente della mensa che si occupava di raccogliere i rifiuti. 
Ma ovviamente come sempre avevo lasciato che le mie speranze volassero troppo alto.
Nel giro di dieci secondi dal mio arrivo, ecco che i primi sguardi iniziarono ad agganciarsi alla mia figura. Tutto sommato era meglio per me, almeno, se avessi avuto tutti quegli occhi addosso, non mi sarebbe stato difficile riconoscere quel grigio particolare che mi era rimasto infisso nella mente.
Non mi diressi alla fila dove numerosi studenti si erano affollati con un vassoio fra le mani, mi incamminai invece verso la direzione opposta. Mi infilai in uno dei corridoi fra le file ordinate di tavoli e, sebbene fossi consapevole di avere parecchia attenzione concentrata su di me, mi assicurai di dare poco conto a questo pensiero e concentrarmi invece nella mia ricerca.
Verde, azzurro, nocciola, azzurro, nero, viola (lenti a contatto?), marrone, verde, blu... che belli... vabbé, ma non erano quelli che cercavo. Grigio! No... direi che tutta quella peluria sulle braccia apparteneva certamente ad un ragazzo. O almeno speravo.
Giunsi al termine ancora prima di rendermene conto. Mi girai su me stesso e lanciai un secondo sguardo distratto su quanto avevo già esaminato. Ma erano sicuri di avermi mandato nella scuola esatta?
Indietreggiai un poco quando una figura veloce mi passò all’improvviso davanti, poco distante da me e tagliandomi quindi la strada, diretta verso l’uscita, o perlomeno così supponevo.
Non ci prestai attenzione, perché subito i miei sensi –più propriamente l’udito– mi spinsero a voltarmi nella direzione opposta.
«Oh, cavolo!» sentii esclamare di colpo, e allarmato cercai con lo sguardo l’esatto punto di provenienza di quella voce, preoccupato che potesse essere successo qualcosa di grave o che fosse sul punto di accadere.
Ma ovviamente no, non era niente di simile. E neppure niente di nuovo.
Giusto l’ennesimo paio di occhi puntati su di me, appartenenti a quella ragazza dai capelli corvini che si era lasciata scappare quell’esclamazione. La bionda affianco le tirò una gomitata per ammonirla, poi le sue guance si arrossarono un poco.
Sollevai appena un angolo delle labbra in un mezzo sorriso, poi mi avviai a passo svelto fuori da quella stanza.
La ragazza dagli occhi grigi non era neppure lì.
 
 
 

 
 
Alla fine, non ero nemmeno passata in biblioteca a consegnare i libri che la signora Morgan mi aveva domandato cortesemente di riportare al loro luogo di origine.
Non l’avevo fatto con intenzione, per intenderci. Avevo giusto varcato la porta della mensa e mi ero inserita nel corridoio, quando il mio cellulare aveva preso a suonare assiduamente.
Con quei fascicoli fra le braccia, non avevo potuto portare subito una mano alla tasca ed estrarre l’apparecchio telefonico. Mi ero fermata accanto al primo tavolo che avevo trovato, sul quale erano posati diversi volantini riguardanti qualche petizione o un qualche progetto di beneficienza, e avevo quindi posato al di sopra la pila voluminosa che avevo fra le braccia.
Avevo estratto velocemente il cellulare da dove lo avevo riposto, per dare poi uno sguardo al nome che era segnalato sullo schermo, scoprendo non si trattasse di altri se non di Adrianne.
Adrianne era la compagna di mio padre e, sebbene vivesse con noi da quando io avevo ancora sei anni, non mi ero mai spinta fino al punto di chiamarla mamma. Anche se, a tutti gli effetti, avrei potuto definirla in tale maniera.
Sebbene a livello sanguineo non fossi sua figlia, lei mi aveva sempre trattato come tale. Si era sempre presa cura di me e aveva svolto il ruolo di figura materna nella mia vita, senza però domandare mai che mi rivolgessi a lei con quell’appellativo.
La mia vera madre non l’avevo mai conosciuta. Se n’era andata di casa quando io ero ancora piccola, di lei non avevo in assoluto alcun ricordo. Né avevo fotografie. Papà non me le aveva mai mostrate e, per quanto potessi ricordare, io non gliele avevo mai domandate.
Quando ancora ero piccola, avevo spesso avuto il desiderio di chiedergli di farmi vedere almeno il suo volto, giusto per vedere se mi assomigliava, ma non mi ero mai azzardata a farlo. Lui non pareva essere propenso a parlare di lei, anche se questo non significava che la detestasse. Solo, i suoi occhi si oscuravano ogni volta che il suo nome saltava fuori. Quindi, accorgendomene, avevo smesso di pronunciarlo ad alta voce. Se non ero io a tirarne fuori il discorso, non lo faceva nessuno, quindi con gli anni a venire di lei non si era mai più parlato.
C’era stata Adrianne, al suo posto. Era una donna molto dolce e intraprendente, mi ero trovata subito in armonia con lei e quando papà mi aveva domandato se mi sarebbe andato bene se sarebbe venuta a stare da noi, avevo annuito senza ripensamenti, sinceramente entusiasta di condividere la casa con un’altra femmina.
Ad ogni modo, avevo risposto alla chiamata rapidamente, un poco stranita perché sebbene non fossero una novità per nessuno le sue chiamate quotidiane, l’orario non era il solito in cui cercava di mettersi in contatto con la sottoscritta.
Avevo fatto appena in tempo a bisbigliare un ‘pronto?’ che lei era esplosa in un’entusiasta: «È un bambino!» che aveva rischiato di perforarmi il timpano.
Subito dopo però, i miei occhi si erano accesi e mi ero lasciata andare contro il tavolo al mio fianco, appoggiandomi ad esso immaginando che la conversazione si sarebbe protratta ancora per molto.
Adrianne era al quinto mese di gravidanza, dopo aver scoperto in seguito a ripetute nausee e giramenti di testa di essere rimasta incinta da mio padre. Era stata una sorpresa un po’ per tutti, perché non era stato nei loro progetti un quarto membro della famiglia. 
Anche se Adrianne aveva sempre detto che non le importava se il sangue sosteneva non fossi sua figlia naturale, per lei ero comunque sempre la sua bambina. Non si era mai mostrata turbata al pensiero di non avere una vera figlia dal dna simile al suo, o almeno non lo aveva mai espresso esplicitamente.
Ma dalla gioia che mi era stata possibile leggere sul suo volto quando aveva ricevuto l’esito accertato del ginecologo, potevo immaginare ne fosse estremamente felice. Era purtroppo una caratteristica della sua famiglia, la difficoltà nell’avere figli, perciò aveva sostenuto questo fosse una specie di miracolo.
E, proprio quella mattina, era andata a fare una visita che le avrebbe svelato finalmente il sesso del nuovo nascituro.
Papà avrebbe preferito tenerlo segreto, per scoprirlo solo alla nascita, ma Adrianne si era impuntata, testarda come sempre. Aveva detto di volerlo venire a sapere in precedenza, perché così avrebbe potuto dedicare i quattro mesi restanti ad arredare la nuova cameretta con i colori e il mobilio più adeguati.
Ero rimasta al telefono senza rendermi conto del tempo che passava, perdendomi nei discorsi di quella donna dall’energia dirompente seppur fosse alla ventesima settimana di gravidanza, quindi quando era suonata la campanella mi ero trovata un po’ spaesata.
Avevo salutato rapidamente Adrianne, rimandando a più tardi la nostra conversazione, e avevo riagguantato velocemente la pila di libri. Accorgendomi che altrimenti avrei fatto ritardo alla prossima lezione, li avevo depositati nel mio armadietto –con qualche spinta per farceli stare– e avevo rinviato a più tardi la visita alla biblioteca. Tanto, con facilità, la signora Morgan doveva già essersi dimenticata di avermi chiesto quel favore.
Le restanti ore di scuola passarono lente e monotone come sempre. Durante la penultima lezione sentii le due ragazze alle mie spalle parlottare assiduamente sottovoce. Mi ci era voluto poco per comprendere che anche loro stessero discutendo riguardo il nuovo arrivato.
Quanto interessante poteva essere, se la maggior parte della scuola non faceva altro che parlare di lui dall’inizio della giornata? 
Chiusi le orecchie e mi persi dietro i miei pensieri, almeno finché non suonò l’ultima campanella della giornata. 
Ero particolarmente stanca quel giorno, forse perché dovevo ancora smaltire quei diversi giorni di studio assiduo che fortunatamente mi ero lasciata alle spalle poco meno di una settimana prima. Volevo solamente tornarmene a casa per poter buttarmi fra le coperte e recuperare quel sonno arretrato, ma prima sarei dovuta passare dalla biblioteca.
Avevo già rimandato a pranzo, ero una persona solitamente responsabile e avrei trovato scorretto ritardare di un giorno ciò che mi ero proposta io stessa di fare. Quindi, seppur non proprio con buona volontà, avvisai le altre di non aspettarmi per il ritorno a casa e mi diressi successivamente in biblioteca, solo dopo aver tirato nuovamente fuori i numerosi libri dall’armadietto.
In prossimità della stanza verso la quale ero indirizzata, riuscii già ad intravedere l’anziana signora dietro il suo bancone, attraverso il quadrato di vetro che era posto nella parte superiore di entrambe le ante della porta d’entrata.
Ebbi qualche difficoltà ad aprire quest’ultima, però per fortuna era una di quelle con la leva, quindi mi bastò premerci contro la spalla per riuscire a crearmi un minimo varco per oltrepassarla.
La signora Morgan non si accorse nemmeno di me, almeno finché non mi avvicinai al suo bancone, posto proprio qualche metro più avanti all’entrata. La biblioteca della scuola era abbastanza fornita, e la sua discreta estensione lo confermava. Era un bel luogo dove rifugiarsi, se volevi essere lasciata in pace e dedicarti unicamente ai tuoi pensieri.
«Signora Morgan, le ho portato i libri. Scusi il ritardo, ho avuto un contrattempo» l’avvisai, giusto per farle accorgere della mia presenza, e posai la colonna di fascicoli sulla superficie di legno davanti a me, più alla mia destra per poterla comunque guardare in volto.
«Oh, non preoccuparti, grazie mille» rispose quella, dopo avermi lanciato un acuto sguardo per ricordarsi probabilmente chi fossi e di cosa stessi parlando.
La signora Morgan lavorava in quella scuola praticamente da quasi quarant’anni. Era stata precedentemente una professoressa di lettere ma ormai, data la sua età, era stata spostata a gestire la biblioteca, giusto per non dover essere mandata via. Era una donna gentile ed altruista, anche se la sua memoria faceva spesso cilecca, era apprezzata dalla maggior parte degli studenti.
Le sorrisi, sollevata di aver portato a termine il mio compito, e con un veloce cenno del capo la salutai, portando un piede dietro di me per potermi allontanare. Ma venni fermata di nuovo.
«Helena, per favore, mi faresti un ultimo favore?» mi sentii domandare in seguito e, quando riportai gli occhi su di lei, notai il suo sguardo mortificato. «Potresti portare questi libri e quelli laggiù, accanto alla porta, nel reparto dei libri da catalogare? Lo farei io ma, ahimè, la mia schiena non mi permette più sforzi simili.»
Lanciai un veloce sguardo agli altri tre o quattro volumi che mi aveva indicato con un gesto della testa, poi annuii semplicemente nonostante la voglia di fare realmente quel compito fosse praticamente assente. 
Nulla di personale contro di lei, anzi, ma come già detto, avrei voluto solo tornare a casa.
Ma non sapevo dire di no alle persone, era sempre stato uno dei miei difetti –non potevo che reputarlo tale– quindi mi trovai di fatto a dirigermi verso i libri supplementari, per prenderli e posarli sopra la pila già fatta, che poi avrei portato altrove.
Mi avvicinai al tavolo sopra il quale erano posizionati e lanciai un’occhiata distratta ai loro titoli, notando trattassero tutti di argomenti diversi, motivo per cui dovevano andare nella sezione dei fascicoli da risistemare. Assorta in questo, mi accorsi appena del cigolio che la porta emise quando qualcuno ne sospinse un’anta, entrando quindi nella stanza.
Solo quando avvertii la sua voce interrompere il silenzio presente, siccome lì dentro eravamo solo io e l’anziana donna, mi ridestai un poco. «Scusi, il professore Morrison mi ha indicato di venire qui. Avrei bisogno di un libro di testo di storia.» 
Il suo tono era gentile e morbido, ma al contempo misurato e profondo. Non prendetemi per pazza, ma mi piaceva ascoltare le voci delle persone ancora prima di guardarle in viso. Era una sorta di gioco, attraverso quelle immaginavo come sarebbe stato il loro aspetto.
E pure questa volta lo feci. Tenendo solamente conto del suo tono, avrei detto che non fosse nemmeno uno studente di qui. La sua voce sembrava così matura, troppo per un adolescente. Ma essendo influenzata da quanto aveva chiesto, avendo rivelato di essere un alunno, fui propensa a pensare allora che fosse un ragazzo minimo dell’ultimo anno.
Portando al petto quei diversi volumi aggiuntivi, mi rigirai verso il bancone dove avevo lasciato momentaneamente gli altri libri. Lanciai un veloce sguardo alla terza persona appena entrata e, anche se potetti giudicarlo solo dalla sua figura vista di schiena, confermai la supposizione che mi ero fatta su di lui. Era un ragazzo, non eccessivamente alto tanto da pensare subito ad un adulto, ma abbastanza da superarmi di diversi centimetri. Certamente ultimo anno.
«Certo, caro. Aspettami qui, vado a prenderlo dall’altra stanza» rispose la signora Morgan, con i suoi conosciuti appellativi dolci con i quali era solita rivolgersi a qualsiasi alunno, come se fossimo tutti suoi nipoti.
A piccoli e lenti passi, si allontanò dal bancone, scomparendo poco dopo dietro un’alta libreria nei quali erano ordinatamente infilati secondo un criterio alfabetico diversi libri di testo.
Dal mio canto, posai i nuovi volumi in cima alla pila già consistente di libri che avevo lasciato sul bancone, giungendo quindi al fianco del ragazzo. Non alzai gli occhi su di lui sia per non essere colta nel fissarlo, se si fosse voltato dalla mia parte, sia perché ero più che altro prospettata nel capire come avrei fatto a trasportare quella torreggiante colonna di libri senza rovesciarmela addosso.
Troppo stanca e svogliata per dividerla in due parti, come sarebbe stato invece intelligente fare, la trascinai verso di me facendola scorrere sulla superficie, poi la agguantai fra le braccia, avvertendo immediatamente il suo peso notevole.
Mi lasciai fuoriuscire involontariamente un verso per lo sforzo, ma mi appurai subito dopo di serrare le labbra. Feci un passo indietro, cercando di mantenere in equilibrio la pila vertiginosa, tanto alta da giungermi fino all’altezza del mento.
Mi voltai verso la destra, dove dovevo dirigermi, ma fui così stupida da muovermi troppo bruscamente. Risultato: i primi due o tre fascicoli, quelli posti più in alto, scivolarono e caddero a terra, poco lontano dai miei piedi.
Lasciai uscire una sottospecie di grugnito per la stizza. Verso di me ovviamente. 
Lanciai un’occhiata storta ai diversi volumi a terra, come se questi sarebbero potuti volare fino a dove erano posizionati prima. Decisi poi di lasciar perdere, posare di nuovo la colonna al suo precedente posto e rifare tutto daccapo sarebbe stata una perdita di tempo maggiore. Avrei lasciato quei libri a terra e avrei fatto un secondo giro, tanto mi avrebbe portato via solo pochi secondi in più.
«Aspetta, ti aiuto io» irruppe però una voce all’improvviso, ovvero la voce dell’unica altra persona presente nella stanza. Mi sorpresi un poco, non avevo dato troppo peso alla sua presenza fino ad adesso quindi fu un po’ come prendere uno spavento.
Quando portai gli occhi su di lui per dirgli che non aveva importanza, si era già chinato per terra per raccogliere quanto mi era caduto. Tornato in piedi, si allungò giusto un attimo per recuperare quello sotto il bancone che doveva non aver visto se non all’ultimo momento.
Per la prima volta, soffermai la mia attenzione sul suo volto. 
Non apparteneva a nessuno che io ricordassi, ed ero certa di non averlo nemmeno mai visto prima.
Potetti dedicargli giusto uno sguardo fugace, perché un secondo dopo lui appoggiò quanto aveva nelle mani in cima alla colonna di libri che tenevo fra le braccia, ed alzò gli occhi nei miei. Li incrociai per lo sprazzo di un istante, poi portai i miei immediatamente altrove senza saperne il reale motivo. Mi piaceva guardare la gente e studiarla, ma non se questa se ne accorgeva. Lo trovavo maleducato.
«Grazie mille» bisbigliai appena, abbozzando un sorriso che sicuramente con difficoltà si sarebbe potuto definire tale.
Non attesi che mi dicesse altro, anzi, temetti che si offrisse di aiutarmi solo per cortesia, e non avendo tempo né voglia di dilungarmi in una conversazione forzata con qualcuno, mi voltai semplicemente. Stetti attenta questa volta a non farlo troppo rapidamente, e mi diressi cauta, concentrata sui miei passi, verso la sezione dei libri da catalogare.
Non vedevo semplicemente l’ora di buttarmi a letto, fra le mie calde coperte.
 
 


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Hola, come state? Mi auguro bene :)
Ad ogni modo, non ho idea di cosa scrivere in questo spazio autrice lol
Riguardo la storia... beh, immagino tutte abbiano capito chi, alla fine, sia il ragazzo che ha aiutato Helena.
Poi, ho parlato anche un po' della sua famiglia per inquadrare meglio la sua situazione familiare. Più avanti, nella storia, questi particolari saranno importanti (?)
Justin è un po' spaesato a causa dell'attenzione che riceve... povero piccolo ingenuo Bieber :')
Good, non penso di avere altro da aggiungere!



Leggete qui, per favore? :)
Mi dispiace di non aver ricevuto praticamente recensioni nel capitolo precedente, ma è okay!
Solo, mi piacerebbe sapere dove stia il problema. Quindi, se c'è stato qualcosa che non vi ha convinto, vi pregherei di farmelo sapere attraverso una recensione critica, altrimenti non ho proprio idea di come potermi migliorare o sistemare la storia, e finirei solo per continuare per la 'strada sbagliata'.
Non mi è mai piaciuto leggere storie dove veniva richiesto a forza un tot di recensioni altrimenti non sarebbe stato postato il capitolo successivo, quindi non intendo in assoluto fare in altrettanta maniera, solo che non avete idea di come mi faccia piacere leggere il vostro parere riguardo ciò che scrivo, perché mi da un minimo di sicurezza.
Quindi: spero vivamente di riceverne qualcuna in questo, perché altrimenti dopo le 7 del primo e le 11 del secondo, se vedo di non riceverne più, capisco che sia a causa di quanto ho scritto.
Tradotto, non ha senso che io continui ad andare avanti e postare nuovi capitoli, se non interessano.
Vi starei chiedendo solo di darmi una mano per capire se ne vale la pena di continuare questa fanfiction. Tutto qui!
Perché, se dovessi continuare a non ricevere recensioni, ovviamente non avrebbe senso che io la continui.

Per il resto: come sempre grazie a chi ha inserito la storia fra le preferite, le ricordate o le seguite.
Grazie a chi mi ha scritto su Twitter e ha fatto apprezzamenti sulla mia ff.
Grazie a chi mi ha inviato un messaggio qui su efp sempre per quanto riguarda la mia storia. [Ricordo però, che se non sono più di 10 parole non viene contata come recensione.]
E grazie anche a chi legge solamente. Mi piacerebbe solo mi lasciaste una piccola recensione per capire se c'è qualcosa che non vi convince. Sono apertissima alle critiche, davvero, quindi ovviamente non me la prenderei mica, anzi, vi ringrazierei.



Ok, penso di aver finito il mio sproloquio haha
Buona giornata a tutte! Spero di sentirvi :)

@_xbiebersvoice

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque. ***


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5.

 

 

 

 

Davvero gli umani si divertivano in questa maniera?
Ero seduto sul divano da diverse decine di minuti e, non sapendo cosa fare, avevo acceso la televisione appesa al muro davanti ai miei occhi. Dai piani superiori avevo spesso visto i terreni piazzarsi davanti a quell’aggeggio elettronico e passarci, a volte, anche pomeriggi interi. 
Per precisare, non che con lo sguardo mi fosse stato concesso di guardare attraverso i muri ed ‘entrare’ quindi nelle loro case, nel loro privato, ma se una finestra era aperta, potevo lanciare un’occhiata da quel ristretto scorcio, come avrebbe potuto fare un qualsiasi passante.
Ad ogni modo, dopo aver tentato di capire come funzionasse il telecomando o quell’affare di per sé, avevo cercato di farmi assorbire da quanto quello schermo stava trasmettendo. Nel giro di pochi minuti, avevo già preso a cambiare canale più volte. Non c’era assolutamente nulla di interessante, e la volgarità di alcuni programmi mi aveva anche lasciato spiazzato.
Non che fossi chissà quale persona che si oltraggiava davanti alla più minima parolaccia, ma certe trasmissioni immaginavo avrebbero lasciato basito anche il più indifferente dei trasgressori. 
L’unica cosa che avevo trovato, fra le tante soap opera e i reality in cui l’unico scopo era scoprire chi fosse il più stupido fra i partecipanti, era un documentario sulla vita delle giraffe nella Savana. E per quanto potessero essere delle belle creature, un’ora e mezza di primi piani mentre erano impegnate a masticare il cibo strappato dagli alberi non era certo questo qualcosa di così entusiasmante.
Sospirai e incrociai i piedi sul tavolino posto fra il divano e la parete sul quale era infissa la televisione, poi lasciai cadere la testa all’indietro, posando la nuca contro il cuscino dello schienale.
Rimasi completamente immobile per i susseguenti cinque minuti, poi d’un tratto un rumore attirò il mio udito, facendomi scattare sull’attenti. Fu un qualcosa simile ad uno sbattere, e successivamente una folata d’aria mi investì il volto.
Calmai il mio cuore all’istante, quando riaprii le palpebre.
«Diamine, potresti almeno avvisare quando arrivi!» mi lamentai mezzo secondo dopo, lanciando un’occhiataccia all’uomo alla mia sinistra, a qualche passo dal divano.
Mihael storpiò le labbra in un sorrisetto divertito, poi ritirò le sue ali fin dietro la schiena, rendendole un attimo dopo invisibili anche ai miei occhi.
Era un vero sollievo poter compiere un gesto simile, per noi, perché data la loro estensione a volte risultavano davvero ingombranti e d’impiccio. Potevamo nasconderle, come se non esistessero più, e la nostra schiena diveniva libera come quella di un umano.
«Perché non impari dai terreni ed usi la porta come loro? Esiste il campanello apposta» aggiunsi in seguito, mantenendo quello sguardo truce, e riadagiai le spalle contro lo schienale, tornando a rilassare i miei muscoli.
«Perché se posso disturbarti in qualche maniera, allora lo faccio» rispose semplicemente il castano, ampliando il suo sorrisetto estremamente presuntuoso. Oh, e quello sarebbe dovuto essere il mio maestro? Era più dispettoso di un bambino. 
Ignorai la sua frecciatina e riportai gli occhi alla televisione, anche se totalmente disinteressato.
Avvertii Mihael muoversi per la stanza e, un attimo dopo, percepii le molle del posto al mio fianco scricchiolare, quando lui si lasciò cadere accanto a me.
«Allora, raccontami un po’. Com’è andato il tuo primo giorno di scuola, caro il mio studente?» mi domandò in seguito, con una sfumatura irrisoria nel tono di voce. Ovviamente mi prendeva in giro, dimenticandosi che stavo facendo tutto questo solo ed unicamente per lui.
«Non male. Sarebbe stato solo carino non essere fissato come se fossi un pezzo di carne al macello» borbottai, leggermente turbato solo al pensiero. Non che ricevere attenzioni fosse qualcosa di negativo, dopotutto la maggior parte degli umani viveva e migliorava il suo aspetto in mille e mille maniere solo a questo scopo, ma quando erano eccessive il gioco non valeva più.
Ad ogni modo, le avevo semplicemente ignorate ed ero proseguito per gli affari miei.
«Ti avevo avvisato di questo, però» mi ricordò lui, tirando leggermente un angolo delle labbra. «Fatto scalpore su qualche bella ragazza?»
Corrugai la fronte e assunsi un’espressione contrariata. A dire il vero, non ci avevo proprio fatto caso. Poteva anche essere stato, ma avevo avuto tutt’altri pensieri per la testa. Inoltre, la cosa non mi interessava. Non ero quaggiù per quel motivo, e ad ogni modo non sarei comunque potuto esserlo. 
Il mio compito era unicamente sorvegliare un’anima terrena, tutto il resto sarebbe stato sbagliato.
«Oh, certo. Ho accennato un sorriso alla mia vicina di banco, e questa ha avuto una sottospecie di attacco di panico» risposi sarcasticamente, annuendo un poco per dare enfasi al mio sguardo e alla mia ironia. «Visto che effetto che faccio?»
Mihael aggrottò un poco le sopracciglia, poi scoppiò liberamente a ridere. 
Abbozzai appena un sorriso, pensando che effettivamente era stata una situazione un po’ assurda e divertente. Però ero leggermente preoccupato per quella ragazza, dopo quella lezione non l’avevo più vista girare per i corridoi e temevo si fosse guadagnata una bella visita in infermeria.
«Parlando di cose serie» proruppe d’un tratto, quando riacquistò un respiro regolare. «L’hai già conosciuta?»
Rimasi in silenzio, un poco disorientato, ed impiegai qualche istante prima di capire a chi si stesse riferendo. 
Portai le labbra all’interno della bocca, consapevole di quale fosse la risposta come del fatto che a Mihael non sarebbe per nulla piaciuta.
«Beh... no» ammisi sincero, non potendo mentire. I suoi occhi si fecero di colpo seri e il suo sguardo si rabbuiò, quindi mi affrettai a proseguire. «Però potrei averla incontrata.»
Anche se questo non bastò ad eliminare l’occhiata turbata che mi stava riservando, servì almeno ad alleviarla un poco. 
«Cosa intendi dire?» mi incitò a spiegargli meglio.
Non avevo aggiunto quel dettaglio solo per attenuare il suo disappunto, ma perché di fatto era vero.
Non l’avevo conosciuta, però l’avevo incontrata. Se quello si poteva definire un incontro.
Avevo giusto varcato le porte della biblioteca, entrato in quel luogo sotto indicazione del prof di storia che, non avendo avuto con sé il libro di testo che la scuola ti forniva automaticamente con l’iscrizione, mi aveva informato che avrei potuto ottenerlo lì, se avessi domandato ad una certa signora Morgan.
Così avevo fatto e, nell’attesa che l’anziana donna me lo portasse dopo essersi allontanata per andarlo a prendere, ero rimasto fermo davanti al bancone.
Nel giro di qualche secondo, avevo avvertito un rumore provenire dalla mia destra, così mi ero subito voltato allarmato in quella direzione. Ero rimasto un po’ interdetto, quando avevo notato la figura di una ragazza al mio fianco. Non mi ero assolutamente accorto della sua presenza e la trovai una cosa strana, siccome il mio udito era nettamente più sviluppato del normale. Doveva essersi mossa davvero in silenzio.
Ad ogni modo, mi ero poi accorto della pila di libri che aveva racchiusa fra le braccia e, successivamente, di quei tre o quattro fascicoli per terra, sicuramente caduti dalla cima. Per istinto, mi era sfuggita una proposta di aiuto e mi ero chinato per raccoglierli. 
Come le era venuto in mente di trasportare una colonna simile di libri? Non mi ero stupito del fatto che avesse avuto quel piccolo incidente, quella pila era certamente troppo alta e pesante per lei.
Avevo riposto quanto le era caduto sulla sommità di quest’ultima, poi avevo sollevato lo sguardo con l’intenzione di proporle di passarla a me, in modo da aiutarla, ma mi ero bloccato sul posto.
Quando avevo incontrato i suoi occhi, ogni mio programma era andato in fumo.
Avevo avuto come un flashback, di colpo avevo ricordato quella volta in Paradiso quando Mihael mi aveva confessato lo scopo della mia missione sulla Terra, e mi aveva mostrato la foto della ragazza che avrei dovuto proteggere.
Era lei. L’avevo riconosciuta solamente dalle sue iridi, avevo riconosciuto il grigio perla dei suoi occhi.
Aveva subito spostato lo sguardo altrove, dandomi quindi modo di tornare in me. Ma ancora prima che mi fossi ripreso del tutto, aveva lasciato fuoriuscire un debole ringraziamento e successivamente si era allontanata, non permettendomi di aggiungere altro.
Avevo pensato di seguirla e inventarmi una scusa per poter fare almeno la sua conoscenza, ma la signora Morgan era tornata vittoriosa dalla sua difficile ricerca, e mi aveva allungato il libro richiesto. Non avevo potuto fare altro, quindi, che lasciar perdere e salutare la donna, uscendo poi di lì.
«No, niente» risposi a Mihael, che stava mantenendo costante la sua attenzione sul mio volto, in attesa che continuassi. Decisi di non riferirgli, per il momento, della storia della biblioteca. Non perché avessi chissà quale oscuro motivo per tenerglielo nascosto, ma perché non ci tenevo a sentirmi imprecare dietro perché avevo praticamente sprecato quell’opportunità. «Intendo dire... così, in giro, potrei averla vista. Ma... non ricordo bene il suo viso, quindi potrei essermi sbagliato.»
Il castano sostené lo sguardo su di me per qualche istante, fermo immobile, poi lasciò fuoriuscire un sospiro e scosse la testa. «Sei incredibile. Sei qui per lei e nemmeno sai quale sia il suo aspetto?»
Dischiusi le labbra per poter obiettare, ma non dissi nulla perché di fatto non avevo nulla da poter dire per controbattere.
Dal canto suo, Mihael si mosse un poco sul suo lato del divano, poi portò le mani al collo e successivamente le ritirò, con racchiusa fra le dita quella stessa collana con la quale mi aveva mostrato la foto della sua protetta tempo prima.
Lo guardai porgerla nella mia direzione, quindi la presi pensando che volesse che le dessi un altro sguardo, per rinfrescarmi la memoria.
«Tienila tu» mi sentii dire invece, così alzai subito gli occhi su di lui. «Almeno potrai darle un’occhiata quando vorrai.»
Ero decisamente sorpreso perché, da quando lo conoscevo, non l’avevo mai visto neanche solo una volta senza quel ciondolo al collo. Mi aveva detto che era un qualcosa che agli angeli, soprattutto custodi, piaceva possedere, e che generalmente venisse messa al suo interno la foto dell’anima a cui più tenevano, quindi generalmente l’anima protetta o, per quegli angeli giunti in cielo dopo la loro morte terrena, un parente o una persona ancora residente sulla Terra.
«Non serve...» provai quindi a dire, per non farlo separare da quell’oggetto, ma lui scosse la testa e mi riservò un’occhiata seria che dava ad intendere che non volesse obbiezioni.
Attonito, rigirai quindi un paio di volte fra le dita il pendente di quella collana, facendolo ridiscendere nel palmo. Richiusi la mano con esso all’interno, poi rivolsi uno sguardo fermo a Mihael, facendogli capire che ne sarei stato attento e che l’avrei trattato con cura.
«Per il resto, hai bisogno di altro?» domandò poco dopo lui, per cambiare argomento, mutando la sua espressione.
Ero sul punto di negare con la testa, quando ebbi di colpo un’illuminazione.
Annuii più volte, prima di continuare. «Vestiti. Vestiti che non siano bianchi.»
Lui restrinse un poco le palpebre, poi però ridacchiò un poco, comprendendo probabilmente il perché di quella richiesta.
Non avevo intenzione di essere scambiato per un imbianchino ancora per molto.







Varcando la soglia della porta, entrai nella classe dove avevo avuto l’ultima lezione di letteratura con la signorina Carson.
Avevo appena finito di pranzare in mensa e, avendo da informarmi su un progetto in corso del quale ci aveva parlato la professoressa ultimamente, avevo avvisato Blythe e Audrey che sarei andata a dare un’occhiata ai volantini che l’insegnante aveva lasciato sulla cattedra.
Subito, Blys si era proposta di accompagnarmi, siccome aveva finito anche lei di pranzare, e Audrey si era aggiunta in egual maniera. 
Avvicinandomi alla scrivania posta ad un’estremità dell’aula, lanciai un rapido sguardo ai vari fogli che erano posati sulla sua superficie.
«Io ancora devo capire per quale assurdo motivo vuoi proporti di portare in casa tua uno sconosciuto» sbottò contrariata Audrey, gesticolando un poco e facendo così muovere la massa di capelli corvini che ogni mattina acconciava alla perfezione. «Voglio dire, hai idea di cosa questo significhi? Dovrai dire addio alla tua privacy e a metà della tua camera. È folle!»
Scossi un poco la testa, abbandonandomi ad un sorrisetto.
Fin da quando avevo esposto loro che avevo la vaga intenzione di partecipare al progetto con l’estero che la scuola aveva organizzato, la mora si era trovata nettamente in disaccordo e aveva avuto da ridire ogni qualvolta avevo provato a tirare fuori il discorso.
L’istituto organizzava ogni anno un intercambio con l’Europa. Per un tot di tempo l’anno, che poteva variare da un paio di settimane ad un mese o anche più, diversi studenti provenienti dall’Inghilterra venivano fin qui dal loro Paese, per frequentare la nostra scuola e provare il sistema scolastico americano. Rispettivamente, anche gli alunni di qui potevano andare in Inghilterra.
Quello che interessava a me, era offrire un posto dove dormire ad uno degli studenti che sarebbe giunto prossimamente, e aiutarlo ad integrarsi nel nostro istituto.
Alle elementari la maestra aveva ideato un progetto di corrispondenza con la Francia, così avevo avuto modo di conoscere una ragazzina francese di nome Jacqueline. Purtroppo non avevamo più mantenuto i contatti, ma era stato bello conversare per lettere postali con una persona così lontana. Mi raccontava di ciò che succedeva lì da lei, e grazie a questo era riuscita a farmi rimanere affascinata dal suo Paese.
Per questo, appena ero venuta a sapere di questo progetto che la scuola aveva organizzato, mi era tornato in mente quel periodo e l’idea mi aveva subito attratta. Ero interessata ad ospitare però, non a partire.
Anche se non ero quel tipo di ragazza a cui viene facile fare nuove amicizie, anche perché solitamente non ne andavo davvero in cerca, mi sarebbe piaciuto andare fino in fondo a quell’intenzione e renderla effettiva.
«Sopravvivrò» risposi semplicemente, con un’alzata di spalle. 
Audrey si zittì, o meglio, mugugnò qualcosa per quale istante ma alla fine si decise a serrare la bocca.
Fra i diversi volantini, sollevai quello che trattava del progetto che a me interessava e presi a leggere concentrata quanto era scritto, cercando i requisiti richiesti e la procedura d’iscrizione desiderata.
Quando terminai, mi accorsi che Blys e Audrey avevano preso a parlare e pure abbastanza animatamente, perciò tornai sul pianeta Terra e mi concentrai su quanto stava dicendo la mora.
«Non la sopporto quella, si crede la reginetta della scuola solo perché sta con il capitano della squadra di football» stava borbottando, con la fronte ridotta ad un cipiglio e un’espressione nauseata stampata in viso. «Come se ci fosse da vantarsene! Tyler è un assoluto cazzone.»
Non servì che le domandassi a chi si stesse riferendo, lo capii da me.
Non c’era nessuna persona alla quale quella descrizione si sarebbe potuta affibbiare se non alla bellissima e popolarissima Alyssa Shawn. La sua chioma di ricci capelli corvini e il suo paio di occhioni blu erano capaci di far incantare qualsiasi ragazzo della Grant High School. Quando passava per i corridoi, non poteva far a meno che attirare lo sguardo di chiunque, indipendentemente che fosse maschio o femmina. 
Si sa, ogni scuola ha il suo gruppetto dei popolari e meno, e lei faceva parte di quello, insieme al suo ragazzo, Tyler. Erano il classico stereotipo americano, però Alyssa non faceva la cheerleader. Da quello che diceva lei, perché avrebbe causato una notevole produzione di sudore ed era fuori discussione che Alyssa Shawn sudasse. Da quello che sostenevano invece le ragazze che avevano frequentato le elementari con lei perché fosse meno slogata di un manico di scopa.
Audrey era appunto una di quest’ultime, ma c’era molto di più. Erano addirittura state migliori amiche –ma mai ricordarglielo, se non volevi che scoppiasse su tutte le furie– ma dopo uno stupido litigio tipico di due ragazzine di dieci anni, si erano dichiarate apertamente guerra.
Sebbene Audrey cercasse costantemente di evitarla, Alyssa aveva sempre fatto di tutto per infastidirla. Erano in competizione da ben sette anni, e nessuna delle due aveva mai vinto. Quando avrebbero capito che era un’assurdità ed una completa perdita di tempo, me lo domandavo ogni giorno.
Il problema maggiore sorgeva per il fatto che fossero esteticamente somiglianti: uguali capelli color della notte, lunghi e mossi, viso dalla bellezza evidente (anche se dovevo ammettere che Alyssa mancava un poco di particolarità) e occhi da cerbiatta. Un conflitto continuo e guerra a chi copiava l’altra. 
«Che è successo questa volta?» domandai quindi, integrandomi nel loro discorso, anche se avevo notato che Blys era apparsa piuttosto assente. Non era mai stata particolarmente interessata alle loro contese... non che lo fossi nemmeno io, per intenderci.
Audrey portò gli occhi su di me, sollevandoli dalle unghie perfettamente curate che aveva esaminato fino a quell’istante. «L’ho sentita parlare con una delle sue amichette, Cheriss, Cherylin o quello che è, ed ha espressamente detto di essere interessata al nuovo arrivato. Capisci? Sta con Tyler ma intanto mette gli occhi su Justin!»
Annuii distrattamente, perdendo l’attenzione non appena appresi non si trattasse altro che della solita superficiale cavolata. Non era una novità che Alyssa fosse... come dire... una ragazza frivola e banale. Usava le persone a suo piacimento e a suo scopo e immagine.
«Justin?» chiesi comunque, giusto per dire qualcosa e non darle l’idea che fossi totalmente disinteressata a ciò di cui stava parlando. Non come Blythe, che si era appoggiata all’estremità di uno dei tanti banchi e aveva estratto il cellulare, immergendosi completamente in esso e ignorando così apertamente la mora.
«Sì, Justin. Il ragazzo nuovo, insomma!» esclamò leggermente stizzita, lasciando poi fuoriuscire uno sbuffo che fece scostare qualche ciocca di capelli da davanti il suo volto. «Hai presente?»
Quindi era così che si chiamava, il fatidico ragazzo tanto conteso.
Stinsi le labbra e mantenni il suo sguardo qualche istante.
Notando che stessi esitando dal risponderle francamente che no, non avevo la più pallida idea di chi fosse –esteticamente parlando ovviamente, perché di lui vociferava tutta la scuola– alzò gli occhi al cielo e schioccò la lingua contro i denti, innervosita.
«Andiamo... l’avrai pur visto passare per i corridoi, è impossibile non vederlo!» esclamò quindi.
Ancora una volta, mi trattenni dal darle una risposta che avrebbe solo potuto turbarla di più. 
«Sì, può essere» mugugnai quindi, e subito pensai di deviare il discorso in un’altra direzione. «Ma perché la cosa ti infastidisce così tanto?»
Ancora prima che potesse aprire bocca, fu Blys ad intervenire nella discussione.
«Perché vuole portarselo a letto lei» tagliò corto, schietta, senza sollevare lo sguardo dallo schermo del suo cellulare.
Audrey sussultò e subito il suo sguardo si accese, spalancando le palpebre.
«Non è affatto vero!» contestò, senza accorgersi di come il suo tono era divenuto acuto né di quanto lo aveva notevolmente alzato. «O meglio, non che l’idea mi dispiacerebbe, ma non sono così superficiale.»
Mmh. Volevo un gran bene ad Audrey, davvero, e sapevo che tutto sommato non lo faceva con intenzione. 
Ma era innegabile il fatto che a volte –molto spesso– si era concessa con facilità ad un ragazzo qualsiasi, rimanendoci poi male se questo una volta ottenuto fisicamente quanto voleva, non si era fatto più vivo. 
Dovevo concederle che ultimamente, almeno negli ultimi tre o quattro mesi, ci era andata più piano e stava cercando di migliorare la cosa. Però non poteva prendersela se, agli occhi di terze persone, appariva senza sforzo come una ragazza facile.
«Però sì, lo ammetto. Mi interessa» aggiunse in seguito, sollevando un poco le spalle. Incrociò le braccia al petto e storpiò un poco le labbra. 
«Come interessa a tutta la restante popolazione femminile della scuola» si inserì nuovamente Blys, facendole presente quella considerazione da dietro il ciuffo di capelli biondi che le era caduto sul viso, dato il suo capo chinato.
«Ehi, non generalizziamo» controbattei all’istante, più per istinto che altro.
Non mi piaceva molto essere massificata alle diverse teste prive di cervello di quella scuola, perché ovviamente ce n’erano e in abbondanza. Non ero nessuno per giudicarle e criticarle, quindi trattenevo per me i miei pensieri, ma non mi andava di essere equiparata a loro.
«Oh, andiamo, Helena! Dici così solo perché non hai pienamente presente chi lui sia!» proruppe improvvisamente Audrey, sorprendendomi un poco per l’impeto che mise nelle sue parole.
«Non penso. E poi, se ti rendi conto tu lo stai giudicando solamente in base al suo livello estetico» le feci notare, mettendomi sulla difensiva, leggermente infastidita dal suo fervore e dal suo voler costantemente avere ragione. «Potrà pur essere così bello come dite, ma magari dentro non ha niente.»
Blys sollevò gli occhi dal suo telefonino, notando che il clima si stava decisamente scaldando, e alternò lo sguardo da me ad Audrey, in attesa di avvertire la sua risposta e capire quindi se fosse il caso di intervenire per placare gli animi.
«Ecco che se ne esce con le sue solite frasi fatte» disse questa infatti, parlando di me in terza persona come se non fossi nemmeno presente nella stanza. Non potei non sentirmi punta sul vivo, sebbene sapessi come lei fosse fatta e discussioni del genere fossero solitamente all’ordine del giorno. «Quand’è che ti decidi ad aprirti un poco e ad esplorare di nuovo la dimensione maschile?»
Nel sentire quelle parole, deglutii cercando di far svanire il groppo che mi si era creato in gola e strinsi le braccia al petto, come a proteggermi. Sapevo dove sarebbe presto andata a parare, ed ero certa di non avere la forza di sostenere le sue parole. 
Sperai si bloccasse, accorgendosi almeno questa volta che se avesse mantenuto la bocca chiusa sarebbe stato meglio, ma fu un’aspettativa evidentemente troppo grande.
Subito, soggetta all’impeto, lasciò che le sue considerazioni continuassero a fuoriuscire. «Non puoi vivere per sempre nei ricordi. O intendi invece farlo? Che diavolo, da quando Ja...»
«Audrey!» la richiamò immediatamente Blythe, abbandonando il telefonino accanto a sé e portandosi in piedi in un veloce scatto. 
Non alzai gli occhi per guardarle in volto, ma potei immaginare lo sguardo severo che Blys doveva star rivolgendo alla mora. Quando saltava fuori questo argomento, succedeva sempre così.
Avvertii il forte sospiro che Audrey lasciò uscire dalle narici, e attesi in silenzio che arrivasse il classico momento delle sue scuse.
Sapevo non lo facesse con intenzione, ma era sempre capace di riaprire quella ferita che ancora era aperta nel mio cuore. Non ero capace di prendermela con lei, perché sapevo volesse solo il mio bene e cercasse solamente di aiutarmi, pensando che un approccio così diretto sarebbe stato il miglior metodo per smuovermi dalla mia situazione, ma io non ero ancora pronta ad andare avanti.
Percepii il calore del palmo della mano della mora posarsi sulla mia spalla, e poco dopo la sua voce mi giunse alle orecchie. «Scusami, Hels. Non volevo essere così schietta. Solo che trovo ingiusto che...» 
«Non ha importanza» la interruppi all’istante, deglutendo una seconda volta. Alzai lo sguardo e mi sforzai di sostenere quello preoccupato e dispiaciuto di Audrey, poi abbozzai un sorriso. «Davvero.»
La vidi ritirare il labbro inferiore all’interno della bocca, come se avrebbe voluto aggiungere altro, ma fortunatamente comprese che non volessi altro che lasciar cadere la discussione. 
A distoglierla ulteriormente dalle sue intenzioni, ci fu la campanella. Il suo suono stridulo irruppe nel corridoio e giunse anche a noi, avvisandoci che fosse ora che raggiungessimo ognuna le nostre rispettive classi.
Blys recuperò il suo cellulare dal banco, Audrey invece rimase ferma qualche altro istante, forse sentendosi ancora in colpa per quanto appena successo.
Sarei voluta andare ai bagni, giusto per darmi una rinfrescata al viso e lavare via gli spiacevoli pensieri che erano appena risorti a galla, ma dovevo invece dirigermi verso l’aula dove avrei avuto la prossima lezione.
Afferrai rapidamente uno dei volantini e lo ripiegai un paio di volte. Alzai una mano in cenno di saluto alle altre due ragazze presenti nella stanza e mi voltai verso l’uscita, per incamminarmi verso la mia classe.
Nello stesso istante in cui allungai la mano per portarla alla maniglia e aprire così la porta, questa lo fece da sola, spalancandosi davanti a me.
Mi bloccai interdetta, immobilizzandomi sul posto.
La figura davanti a me, ovvero la persona che dall’altro lato mi aveva preceduto nel mio stesso gesto, si fece immediatamente da parte, in modo da lasciarmi libero il passaggio. 
«Scusa» avvertii dire, ma non sollevai neppure lo sguardo per incrociarlo con il suo e rassicurarlo che non ci fosse alcun problema. Anche perché, fra i due, ero io quella ad essere d’impiccio. La classe era la sua, ero io ad essere fuori posto.
Scossi solamente il capo, quasi in stato di trance, e passai oltre, gettandomi nella marmaglia di gente che occupava il corridoio.
Conscia che non sarei riuscita a rimanere concentrata un solo secondo e che non sarei riuscita ad ascoltare mezza parola della prossima lezione, mi diressi ugualmente verso la mia destinazione.
Nella mente, mi ripetei che era tutto apposto, che dovevo solamente prendere dei grossi respiri.
Ma non fui abbastanza convincente. La classica morsa soffocante aveva ormai già preso di mira il mio stomaco, ed ero consapevole che di lì non si sarebbe mossa finché, una volta giunta a casa, non avrei lasciato fuoriuscire tutte le lacrime che i miei occhi stavano cercando tenaci di ricacciare indietro.


 


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Sì, anche Helena ha i suoi segreti ;)
Beh, magari potete già esservi fatte le vostre supposizioni e potrebbero anche essere corrette, chi lo sa?
Mi piacerebbe proprio sapere se avete qualche idea, magari se decidete di lasciarmi una recensione, potreste scrivermelo.
Sarebbe carino vedere se qualcuna mi ha letto nella mente (?) lol

Ad ogni modo, non succede niente di ecclatante in questo capitolo. Scusate.
So che non c'è molta azione, ma il fatto è che devo proprio scriverli questi capitoli, perché devo prima spiegare una serie di cose.
Ma se stesse divenendo tutto troppo noioso, mi fareste la cortesia di dirmelo? Non mi offendo, lo capirei.

Spero di ricevere qualche recensione anche qui, mi farebbe davvero molto piacere.
Per il resto ringrazio sempre tutte quelle che hanno recensito e anche le lettrici 'passive'.
Spero che questa storia non vi stia 'deludendo' rispetto quanto pensavate giudicando solamente il prologo, perché l'impressione che sto avendo è proprio quella e mi dispiace.
Ma va comunque bene, ancora grazie!

@_xbiebersvoice


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Capitolo 6
*** Capitolo sei. ***


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6.

 
 
 
Afferrai la cancellina e la premetti contro il foglio, in modo da rilasciare su di esso quel liquido biancastro che mi avrebbe permesso di correggere l’errore che mi ero appena accorta di aver commesso. 
Non era da me ricontrollare un saggio che mi era stato assegnato la mattina stessa del giorno della consegna, ma di fatto così era al momento. Solitamente preferivo farlo a casa, dove fra le quattro mura della mia stanza non sarei potuta venire disturbata da niente e nessuno. Non seduta sul muretto del c-ortile della scuola, davanti all’entrata, circondata da numerosi altri studenti in attesa che iniziassero le lezioni. I loro schiamazzi facilmente mi distraevano, ma cercavo di accantonarli e di concentrarmi unicamente su quanto stavo mentalmente rileggendo.
A dire il vero, sarebbe stato cento volte meglio entrare e raggiungere già la mia classe, anche perché in questo modo il riscaldamento mi avrebbe protetto dal freddo puntiglioso di inizio febbraio. Però, Blys e Audrey volevano rimanere all’esterno. Anzi, era meglio dire che era quest’ultima a voler restare fuori. Ed il motivo era ovvio: il ragazzo nuovo.
Voleva attendere il suo arrivo, come se fosse un principe in visita alla nostra umile scuola e necessitasse di una folla che lo accogliesse con tanto di applausi e lacrime di commozione.
Nulla contro di lui, ma più che altro contro di lei e quel suo comportamento assurdo.
Ma mi ero adeguata, dopotutto erano le mie più care amiche e mi piaceva stare in loro compagnia. Almeno finché la discussione non ricadeva sul nuovo arrivato, come difatti era ovvio stesse succedendo in quel momento.
Blys assecondava la mora, ma sapevo che in realtà non fosse interessata al ragazzo. Lei era già impegnata da qualcosa come quattro o cinque mesi. Il suo ragazzo era un tipo... okay, sì. Forse un po’ strano e a volte ti veniva difficile comprendere cosa realmente volesse intendere attraverso un suo discorso, ma tutto sommato non era male. O almeno era meglio dei precedenti.
Blythe era una bella ragazza, davvero, e infatti era sempre stata ben o male apprezzata dal genere maschile. Non quel tipo di apprezzamento ‘volgare’ alla Alyssa Shawn, ma uno più ‘dolce’ volto al suo carattere solare e alla sua semplicità. Ad ogni modo, aveva sempre avuto dei gusti un poco strani, che l’avevano qualche volta portata ad impegnarsi con ragazzi che a mio parere non avevano mai avuto niente a che vedere con lei. Sul campo sentimentale, Blys tendeva a sottovalutarsi. O forse si accontentava semplicemente. Era quel genere di persona che trovava del positivo in chiunque.
«Oddio, eccolo, è arrivato» esclamò esagitata la voce di Audrey, tanto forte ed improvvisa da attirare la mia attenzione nonostante fossi finalmente riuscita ad immergermi nella lettura per più di due minuti.
Per impulso, lanciai uno sguardo intorno a me per individuare il soggetto di tanto interesse, o perlomeno supporre chi questo fosse. Certamente sapevo si trattasse del nuovo arrivato, ma non sapendo come esteticamente fosse fatto non avevo idea su chi dovessi soffermare i miei occhi.
Escludendo la maggior parte delle persone che erano lì nei dintorni da più di mezzo minuto, ciò che appariva con una maggiore percentuale di possibilità nella lista mentale che mi ero appena fatta, era quell’auto alla nostra sinistra che si era appena immessa in uno dei pochi parcheggi liberi dell’area circostante. Se non l’unico. Il che era strano... i soli ad avere per diritto un posto ‘prenotato’ erano gli appartenenti alla classe popolare degli ultimi due anni, anche se ovviamente l’avevano ottenuto dopo intimidazioni agli altri studenti che avevano presto fatto comprendere all’intero istituto che fosse meglio non obiettare. Il nuovo arrivato era già divenuto uno di loro? Per andare con certa gente, bisogna essere come loro. Che dispiacere.
Ad ogni modo, difficilmente quell’auto avrebbe potuto non cogliere la mia attenzione. Era probabilmente la più bella e costosa che la Grant High School avesse mai ospitato nella notevole estensione della sua proprietà. Questo significava solo una cosa: figlio di papà. Come avrebbe altrimenti potuto, un ragazzo delle superiori, permettersi una macchina simile?
Le ultime considerazioni che stavo facendo non andavano decisamente a suo favore: già mi ero fatta un’idea sul suo conto e, a dispetto delle mie speranze, non era per nulla positiva. 
Annoiata al pensiero che la scuola avrebbe ospitato l’ennesimo ragazzetto arrogante e presuntuoso, tornai al mio foglio ancora posato sulle mie ginocchia e cercai di immergermi nuovamente in ciò che avevo scritto negli ultimi giorni.
«Non so cosa darei per fare un giro su quell’auto» mormorò però la voce di Audrey, guadagnandosi una particolare dose della mia attenzione.
Blys ridacchiò all’istante, lasciando fuoriuscire una sottospecie di grugnito. 
«Come se a te interessasse davvero l’auto» commentò poco dopo.
«Beh è un dettaglio da non trascurare» sostenne Audrey in risposta, ma anche lei non poté non notare che la bionda avesse ragione. 
Non dissi nulla perché non mi interessava prendere parte di quella conversazione, ma ancora una volta non riuscii a concentrarmi su quanto era mia intenzione fare. Quindi, lasciai uscire un sospiro e continuai a guardare le lettere che l’inchiostro aveva fissato sulla carta, unicamente per fingere di avere una scusa del perché non stessi partecipando alla loro discussione.
«Bene, sono pronta a ricevere la prima apparizione divina della giornata» ci avvisò con tono plateale la mora, allungando una mano verso Blys per poterle stringere il suo ginocchio, come se le occorresse un’enorme quantità di forza e sostegno esterno per poter far fronte a quanto sarebbe a momenti successo.
Alzai lo sguardo nuovamente e riportai gli occhi sulla macchina tanto sfarzosa, in attesa.
Okay, non mentirò: ero onestamente interessata a scoprire chi fosse questo ragazzo. Dopo più di cinque giorni (anche se fortunatamente c’era stato di mezzo il weekend, quindi era più corretto dire tre) passati ad ascoltare le moine e le osservazioni lusinghiere di Audrey verso il nuovo arrivato, volevo vedere una volta per tutte chi questo fosse. O meglio, come fosse esteriormente fatto, siccome dalle descrizioni che giravano per la scuola pareva essere un modello o addirittura un dio sceso in terra.
Se fosse stato carino, probabilmente l’avrei ammesso. Ma non mi sarei mai di certo spinta oltre a questo... non avrei preso a comportarmi come Audrey, per intenderci, che a momenti avrebbe fondato un fan club in suo onore.
Nel giro di qualche manciata di secondi vidi lo sportello dell’auto dischiudersi. Nonostante solo i finestrini posteriori fossero oscurati, a causa del riflesso dell’ambiente esterno non mi era comunque possibile vedere attraverso il vetro di quelli anteriori. Perciò, dovetti attendere che lo sportello si aprisse ulteriormente e che un piede venisse portato sull’asfalto, visibile ai miei occhi dalla fessura che l’anta metallica lasciava libera fra essa stessa e il terreno.
Giusto qualche istante dopo, una figura sbucò fuori dall’oscurità della sua auto e si mise in piedi accanto ad essa. Estrasse lo zaino dal suo interno, poi sbatté lo sportello e si fermò qualche attimo a risistemarsi i vestiti.
Nel momento esatto in cui i miei occhi si posarono sul suo volto, un flash mi attraversò la mente.
Una sensazione di familiarità mi colse impreparata e la mia fronte si aggrottò per impulso, dipingendo un’espressione confusa sul mio viso.
Concentrai la mia attenzione sulla sua figura, e solo quando notai il colore dei suoi abiti quell’enorme punto di domanda nella mia testa venne risolto. 
Erano di un bianco sgargiante, di quelli che vedevi solamente in televisione nella pubblicità dei detersivi. Lo stesso bianco del ragazzo che, cinque giorni prima, mi aveva dato una mano in biblioteca e aveva raccolto per me i libri che mi erano caduti a terra.
Avevo trovato insolito quel suo abbigliamento e la cosa era strana. Vedevo individui con gli stili più assurdi e impensabili e ormai non ci facevo caso, poi si presentava uno vestito in maniera quasi troppo sobria e questo risultava bizzarro ai miei occhi. 
Ad ogni modo, ricordando il suo comportamento in biblioteca di quel passato giovedì, la precedente tesi che fosse il classico montato traballò un poco e fu quasi sul punto di cedere. Era stato gentile, e generalmente la gentilezza non era un tratto riscontrato nel carattere degli individui di quel genere.
Sistemata la t-shirt bianca, si calcò lo zaino in spalla e salì sul marciapiede per raggiungere l’entrata della scuola. Non lo feci apposta, né me ne accorsi propriamente, ma i miei occhi rimasero fissi su di lui. Quel giovedì in biblioteca non gli avevo dedicato che un rapido sguardo, imbarazzata e di fretta, quindi non avevo propriamente fatto caso al suo aspetto, anzi, tutt’altro.
Quindi, in silenzio, mi dedicai all’osservarlo e a cogliere i particolari della sua figura, come ogni ragazza in quell’istituto aveva ormai già fatto nei giorni precedenti, concludendo con un giudizio che nella maggior parte si era riscontrato positivo.
E... sì, c’era da ammetterlo: capivo perché aveva attirato e attirava tutt’ora così tanti sguardi.
Era indubbiamente bello, e su questo non poteva contestare nessuno.
Mentre si faceva più vicino per avvicinarsi alla porta d’entrata, cercai di cogliere al meglio i dettagli del suo viso, ma soprattutto del suo comportamento, come solitamente mi piaceva fare. Non sembrava prestare attenzione agli sguardi che sapeva di avere puntati contro, pareva non accorgersene nemmeno o forse più propriamente ignorarli. Non incrociò gli occhi di qualcuno neanche una sola volta... almeno finché non giunse in nostra prossimità. 
Qui, il suo sguardo si spostò dall’edificio che lo aspettava imponente e si abbassò per incontrare quello della sottoscritta. Un brivido mi colse quando questo accadde, perché mi resi conto che se l’aveva fatto, era perché si era accorto del mio interesse nei suoi confronti e questo facilmente poteva averlo infastidito.
Con tutte le persone nell’area circostante, proprio di me doveva accorgersi?
Ma fu ancora più destabilizzante in seguito quando, inaspettatamente, gli angoli delle sue labbra si curvarono un poco in quella che doveva essere l’ombra di un sorriso, prima che il suo mento si sollevasse appena in un accenno di un saluto.
Il ragazzo nuovo... Justin insomma, mi aveva appena salutato? Qualcosa non mi tornava.
Non risposi nemmeno. Non lo feci con intenzione o per voluta maleducazione, ma il disorientamento che mi aveva appena colto non lasciò spazio alla ragionevolezza.
Quindi, lui passò tranquillamente oltre ed io me ne rimasi seduta immobile su quel muretto.
Almeno finché dei versetti soffocati alla mia destra non attirarono l’attenzione del mio udito, spingendomi a voltarmi nella loro direzione.
Audrey aveva gli occhi sbarrati e le sue labbra mimavano delle parole che la sua voce non ne voleva sapere di far uscire. Era praticamente inebetita, e mi sentii più sollevata nel notare che non fossi ridotta ai suoi passi.
Blys assottigliò un poco le palpebre, poi mi lanciò un’occhiata inquisitoria ma al contempo un po’ sorpresa. «Hels... sbaglio o ti ha appena salutata?» 
Ammutolita, la guardai qualche secondo prima di decidere cosa rispondere. Piegai un poco le labbra in una smorfia disinteressata, poi alzai le spalle con disinvoltura. «A quanto pare.»
«C’è qualcosa che non ci hai detto?» chiese ancora, indagatrice, e mi domandai per quale motivo le interessava tanto. Forse, stava semplicemente prendendo il ruolo di Audrey, parlando a nome suo finché questa non si sarebbe ripresa dallo shock.
Quasi spaventata come se fossi nel torto riguardo qualcosa, o avessi compiuto un atto sbagliato, scossi il capo leggermente ma non aggiunsi altro.
«E allora perché ti ha salutata?» insistette inoltre, riducendo maggiormente le sue iridi chiare.
Questa volta mi sentii più sicura nel rispondere, perché a tutti gli effetti ero sincera. «Non ne ho idea.»
Ed era davvero così. Non ne avevo idea. Voglio dire, era vero che quel giovedì pomeriggio ci eravamo trovati nella stessa stanza e per lo sprazzo di un minuto eravamo entrati verbalmente in contatto, ma oltre a questo non era accaduto nulla. 
Per lui era valso quel poco per farmi rientrare nel suo cerchio dei conoscenti? Forse sarebbe stato così anche per me, se non avessi scoperto solo cinque minuti prima quale fosse la sua stimata identità.
Per un 49% avrei voluto raccontare loro del nostro ‘incontro’ in biblioteca, giusto per smorzare il loro entusiasmo e giustificare quanto appena successo. Ma il 51% restante, predominante, mi spingeva a non farlo. Non volevo si costruissero castelli in aria o peggio, che Audrey mi ingaggiasse come una sottospecie di Cupido per favorire le sue possibilità nei suoi confronti.
Ma mi bastò notare lo sguardo quasi furioso di quest’ultima per comprendere che fosse invece meglio che lo facessi. Non volevo il suo risentimento solo perché il ragazzo che le interessava mi aveva rivolto un innocente saluto, probabilmente di pura gentilezza perché onestamente, non vedevo per quale altro motivo gli sarebbe dovuto importare di considerarmi.
Quindi, presi un respiro per farmi forza, e un attimo dopo rivolsi loro una veloce spiegazione di quanto era accaduto giorni precedenti. Omisi tutti i particolari possibili, trovandoli inutili e superflui, ed esposi l’avvenimento nella maniera più banale possibile, in modo di attenuare qualsiasi sentimento negativo poteva star crescendo nell’animo di Audrey.
Parve funzionare, perché al termine del mio racconto la vidi emettere un sospiro di sollievo e assumere un’aria più serena e tranquilla.
«Perché non ce l’hai detto prima?» domandò pacatamente, riprendendosi dal tumulto di differenti emozioni che nell’ultimo sprazzo di tempo dovevano averla colta.
«Perché non avevo idea di chi fosse, non pensavo fosse quel Justin di cui continuavi a parlare» chiarii sinceramente, scuotendo un poco le spalle per accentuare il mio completo disinteresse in merito ma soprattutto riguardo il ragazzo.
Lei annuì diverse volte, poi si perse dietro chissà quale pensiero. 
Approfittando di quel silenzio e felice di aver terminato quell’interrogatorio nel migliore dei modi, riordinai il materiale che avevo sulle gambe e al mio fianco, sul muretto, e lo risistemai all’interno del mio zaino.
Avevo finalmente scoperto l’identità del nuovo arrivato ma, onestamente, quanto appena nato era destinato a cadere lì. 
Per quanto esteticamente attraente potesse essere, Justin non mi interessava.








Avevo messo per la prima volta piede in questa scuola giovedì, avevo trascorso il giorno seguente senza conseguire particolari progressi e in seguito era venuta la volta del weekend, in cui le lezioni ovviamente non si tenevano. In sostanza: in quattro giorni non ero riuscito a compiere un solo passo avanti dalla situazione di stallo nel quale mi ero trovato fin dall’inizio.

E questo non andava bene. Ero sicuro che presto Mihael sarebbe tornato a farmi visita e non sarebbe stato di certo contento se per l’ennesima volta gli avrei confessato di non essere riuscito ancora a conoscere la ragazza. 
Per questo motivo, quella mattina –avvalendomi della scusante che giorni prima ci eravamo incontrati in biblioteca, e quindi che non sarebbe stato poi troppo audace– mi ero azzardato a rivolgerle un saluto quando l’avevo sorpresa a guardarmi. Non che mi fossi sorpreso di questo né mi fossi fatto chissà quale avventato pensiero, non era stata certamente l’unica. Anche perché, se anche avessi supposto un suo possibile interessamento nei miei confronti, questa ipotesi sarebbe stata stroncata sul nascere quando lei in seguito non avrebbe esplicitamente risposto al mio gesto.
Non ci ero rimasto troppo male... okay, forse un po’ confuso lo ero stato, perché onestamente non mi pareva di averle fatto mai nulla che avrebbe potuto scatenare del disappunto da parte sua nei miei riguardi. Però, poi avevo pensato che probabilmente nemmeno mi aveva riconosciuto, quindi non ci avevo dato troppo peso.
Semplicemente, se avesse reagito positivamente alla mia azione, mi sarei sentito un passo avanti in quel compito arduo che pareva essere il fare la sua conoscenza. 
Sinceramente non pensavo che sarebbe stato così difficile: Mihael aveva detto che molte ragazze sarebbero rimaste affascinate da me (okay, dalla mia aura, ma concedetemi un poco di autostima anche solo per pietà), quindi avevo supposto che sarei stato avvantaggiato per questo. Però, a quanto pareva, questo non valeva se si trattava di lei.
«Ciao» proruppe una voce al mio fianco, ma non ci prestai attenzione perché immaginai fosse rivolta a qualsiasi altra persona fuorché me, ma dovetti ricredermi quando questa proseguì. «Ehi, nuovo arrivato, sto parlando con te.»
Nell’avvertire quelle parole che non potevano essere indirizzate a nessun altro se non al sottoscritto, siccome non dovevano esserci stati molti ragazzi ad essersi iscritti a quella scuola agli inizi di febbraio, ad anno già pienamente iniziato, spostai lo sguardo dall’interno del mio armadietto e lo portai nella direzione della voce.
Tranne alcuni compagni di classe (o era più appropriato dire compagne?), nessuno mi aveva mai rivolto parola. Non avevo idea del perché, forse era girata voce che avevo quasi steso con uno sguardo la ragazza del primo giorno e quindi la gente credeva fossi un individuo pericoloso, ma nemmeno di questo mi era molto interessato. Non ero qui per farmi amici.
Ad ogni modo, quando concentrai la mia attenzione sulla mia destra, scoprii che la precedente voce apparteneva ad una ragazza. Era alta almeno quanto me, anche se non è che io sia poi questo gigante, ma successivamente notai che ad avvantaggiarla in altezza fossero quegli stivali con il tacco che portava ai piedi. 
Aveva una quantità di trucco notevole sul viso, però –seppur pensassi che avrebbe potuto farne a meno– questo pareva donarle, facendo risaltare i suoi occhi.
Rimasi in silenzio, comunque, perché pensai che se si era rivolta a me, era sicuramente per un motivo preciso, quindi che avrebbe preferito andare dritta al dunque.
Lei però parve un poco disorientata dal mio comportamento e dalla mia assenza di risposte. Smise di attorcigliarsi attorno al dito una ciocca di capelli neri e sbatté qualche volta le palpebre, quasi smarrita. Subito dopo, però, parve riprendersi.
«Ti chiami Justin, giusto?» domandò, corrugando un poco le sopracciglia come se temesse di essere in errore.
Prontamente annuii, per rassicurarla e attestare la sua ipotesi, ma ancora una volta non aggiunsi altro. Non capivo cosa volesse da me, sebbene non mi stesse disturbando o portando via tempo, siccome mancavano ancora diversi minuti dall’inizio della prossima lezione e fortunatamente l’aula dove mi sarei dovuto dirigere era giusto a pochi passi.
Anche questa volta il mio mutismo la disturbò un poco, ma fu più abile nel non darlo a vedere.
Distese invece le labbra in un sorriso appena accennato, come se volesse darsi un certo contegno, e allungò un palmo nella mia direzione. «Io sono Alyssa, Alyssa Shawn.»
Abbassai lo sguardo sulla sua mano, poi allungai rapidamente la mia e la avvolsi leggermente, giusto per non imprimerci troppa forza e rischiare di farle male o infastidirla.
Solo in quel momento realizzai che il motivo per cui mi aveva rivolto la parola era puramente per fare la mia conoscenza, e questo mi sorprese più del pensiero di aver fatto qualcosa di male e di essere stato venuto a chiamare da lei per andare in presidenza. Quella scuola aveva ovviamente già i suoi gruppetti, quindi non mi aspettavo che qualcuno si interessasse di far sentire accolto il nuovo arrivato. Onestamente quindi, mi fece piacere.
Avendo comunque notato come il mio silenzio l’aveva precedentemente disorientata, questa volta mi decisi a dire qualcosa. «Piacere di conoscerti, Alyssa» le rivolsi dunque, dipingendomi un sorriso sul volto, ritirando in seguito la mano.
Questo parve eliminare il precedente disappunto sul suo viso, difatti i suoi occhi si accesero un poco.
«Sei arrivato qui da poco, vero?» mi chiese in seguito, anche se lo sapeva perfettamente.
Annuii nuovamente. «Proprio così.»
«Immagino tu ti sia già fatto parecchi amici» suppose, inclinando leggermente la testa di lato e increspando un poco le labbra velate da un acceso strato di trucco rosso.
All’udire quelle parole, aggrottai la fronte nel pensare a quanto lontana fosse invece la realtà.
«Immagini sbagliato, perché sei la prima persona con cui scambio più di due parole» ammisi senza vergogna. Non avevo problemi ad ammettere che negli ultimi giorni ero stato parecchio da per me. Non avevo nessun particolare orgoglio da mantenere né una reputazione da difendere.
La ragazza, Alyssa, dischiuse un poco le palpebre e parve sorpresa.
«Oh, strano» commentò, poi però sollevò un sopracciglio e scosse le spalle. «Probabilmente hanno solo paura di non essere alla tua altezza, e hanno ragione.»
Annuii un poco, ma solo dopo accigliai il mio sguardo. Alla mia altezza? Di quale altezza stava parlando, precisamente? Non feci in tempo a chiederle spiegazioni, che lei proseguì fiduciosa.
«Se vuoi, a pranzo puoi sederti al tavolo con me e i miei amici» mi propose, con un largo sorriso sul volto. «Sai, in questo modo ti farei conoscere qualcuno. Stai certo che siamo persone giuste, noi.»
Ero quasi sul punto di rispondere alla sua gentile offerta, quando ancora una volta le sue ultime parole mi lasciarono un poco basito. Cosa intendeva dire? 
Meditai un poco su quanto avrei potuto risponderle, perché onestamente non sapevo davvero cosa pensassi in merito al farmi degli amici. Come già detto, non ero qua giù per questo motivo. Però, sarebbe sempre stato meglio dello stare da solo tutto il giorno. E poi, nulla escludeva che Alyssa o magari qualche suo amico conoscesse Helena, e in tal maniera mi sarebbe stato più facile avvicinarmi a lei.
Con questo pensiero per la testa, accentuai il mio sorriso.
«Certo, potrei farci un pensiero» accettai la sua proposta.
I suoi occhi si illuminarono ancora, come gli angoli della sua bocca si sollevarono di più, ma subito si assicurò di trattenere quella sua manifestazione di gioia, stringendo le labbra in una smorfia compiaciuta.
«Perfetto» disse solamente, con una scintilla negli occhi, giocherellando ancora con i suoi capelli, perdendosi qualche istante dietro i suoi pensieri. «Ora scusami, ma devo andare alla prossima lezione. Ci vediamo in giro, o a pranzo! Felice di aver fatto la tua conoscenza, Justin.»
Posò la sua mano all’altezza del mio braccio sinistro nel pronunciare le ultime parole e lo sfregò un poco. Poi, rapidamente com’era apparsa, scomparve dalla mia vista infiltrandosi nella marmaglia di studenti che affollava il corridoio.
Rimasi qualche istante fermo e fui quasi sul punto di voltarmi nuovamente verso il mio armadietto, quando una seconda figura prese il posto di dove precedentemente si era trovata quella di Alyssa.
«Amico, fossi in te le starei lontano» pronunciò schiettamente quello, ma non mi rivolse alcuno sguardo. I suoi occhi erano soffermati su un punto alle mie spalle, tanto assorti che mi venne quasi l’impulso di voltarmi per vedere cosa stesse guardando.
E questo da dove accidenti era spuntato fuori? 
«Come scusa?» domandai d’impulso, dopo quanto il ragazzo davanti ai miei occhi aveva appena detto.
Provai a fare mente locale e a ricordarmi se ci avessi già parlato prima o perlomeno lo avessi già visto da qualche parte, magari in classe, ma non mi saltò alla memoria nulla. Però, da come se ne era uscito speditamente con quelle parole, sembrava essere invece qualcuno con almeno un poco di confidenza nei miei confronti.
Poco dopo, finalmente, spostò lo sguardo da quanto era alle mie spalle e lo portò al mio viso, soffermandosi sui miei occhi. «Alyssa Shawn intendo. Se fossi al tuo posto, lascerei perdere in partenza.»
Alyssa? La stessa ragazza con cui avevo parlato giusto un paio di minuti prima? Come mai mi stava dando questo avvertimento? Non mi era parsa una cattiva ragazza o chissà quale altra cosa atroce.
Lo scrutai un poco, e non potei trovarlo un po’ bizzarro.
Non il suo aspetto di per sé, fatta esclusione per la massa scomposta di capelli mossi e castani che aveva sul capo, ma più che altro per il suo comportamento. Non avevo la minima idea di chi fosse, ed ero sicuro che nemmeno lui l’avesse di me, ma se ne era uscito subito con un suggerimento simile. Strano modo per fare conoscenza, sempre se lui ne avesse intenzione.
«Per quale motivo?» domandai, incuriosito, non potendo non interessarmi alla questione.
Lui storpiò le labbra in una smorfia quasi sprezzante. «Per uno, ma talmente grosso da valere per mille. Tyler, il quarterback della squadra di football. L’ultimo ragazzo che ha provato ad avvicinarsi ‘alla sua piccola’ è finito in ospedale con il naso rotto.»
Piegai le sopracciglia disorientato, aspettando di assimilare appieno quanto mi era appena stato rapidamente e sinteticamente riferito.
Nel mentre, lo notai squadrarmi dall’alto al basso, azione che accentuò la mia confusione.
I suoi occhi si assottigliarono, divenendo da incerti a vagamente sicuri. «Anche se, a guardarti bene, potresti anche cavartela» aggiunse in seguito, incrociando le braccia al petto e appoggiandosi con una spalla all’amplesso di armadietti alla sua destra.
Tutto questo era per...? In quell’esatto istante compresi. 
Quel ragazzo aveva largamente frainteso l’intera situazione. Pensava che per qualche assurdo motivo fossi intenzionato ad approfondire il rapporto che si era a malapena instaurato fra me e la ragazza di prima. Cosa assolutamente falsa, o almeno intesa come la intendeva lui.
«Non sono interessato a lei» misi immediatamente in chiaro, scuotendo un poco il capo, prima di voltarmi e cercare all’interno dell’armadietto il materiale per la prossima lezione. Ero sicuro che la campanella sarebbe presto suonata.
Lo avvertii sogghignare sfrontatamente. «Come no, e ti aspetti che ci creda?»
Aggrottai la fronte, chiaramente contrariato, e senza accorgermene gli dedicai uno sguardo accigliato che ai suoi occhi dovette risultare invece più che altro infastidito. Per quale motivo avrei dovuto mentire? Cercai di insinuarmi nella sua mente per darmi una risposta, ma non la trovai.
Gli umani dovevano essere davvero diffidenti o abituati a dire bugie, se veniva loro così facile dubitare della parola di una persona che conoscevano da non più di due minuti.
Notai il ragazzo deglutire davanti alla mia espressione totalmente seria e impassibile, come se quest’ultima l’avesse quasi intimorito. Subito dovette essersi accorto del suo sbaglio, perché sembrò tirarsi indietro di un passo. «Come vuoi, ognuno ha i suoi gusti. Forse il suo non è il tuo genere.»
Storsi le labbra pensieroso, valutando le sue parole.
«Ha un genere?» chiesi. La questione mi interessava, non sapevo che i terreni avessero una specie di etichetta. Prima che potesse spiegarmi, pensai fosse qualcosa come il grado di noi angeli. Non solo riguardante la nascita –puri, bianchi o anziani– ma anche il ruolo –custodi, guardiani, maestri-. Mi era nuova questa cosa, e onestamente me ne stupii. Pensavo di sapere tutto sul loro conto.
«Sì, quello della stronza» rispose il ragazzo aspramente, sollevando al contempo un sopracciglio per aggiungere ciò che mi parve sarcasmo. «Ma il suo aspetto è capace di farti passare oltre.»
Oh. In quell’istante compresi che, effettivamente, il sistema di etichettamento da loro praticato non era nulla di ufficiale e universale. Era invece, più che altro, una superficiale tecnica di distinzione sociale.
Ad ogni modo, mi soffermai sulla sua ultima frase.
Voleva dire che la sua bellezza esteriore le permetteva privilegi rispetto gli altri?
Non l’avevo notata né tantomeno sarei mai stato spinto a rivolgerle favoritismi.
A dire il vero, il mio primo pensiero non era neppure corso al giudicare il suo aspetto esteriore. Avevo più che altro pensato al suo comportamento e a quali intenzioni questo aveva lasciato trasparire. Ripeto: era stata gentile nel cercare di far ambientare il ragazzo nuovo.
Ma la sua apparente bellezza non mi aveva portato via un solo pensiero. Ma, tutto sommato, non me ne stupivo. 
In Paradiso, ognuno di noi aveva un aspetto piacevole. Ero abituato all’armonia dei lineamenti e all’equilibrio dei tratti, in poche parole, ero abituato a vedere bei visi. Quindi, quello della ragazza, Alyssa, era stato solo uno dei tanti.
Mi lanciai una veloce occhiata intorno per scrutare le altre persone nella stanza.
Scoprii che, a differenza loro, non ero attratto a primo impatto dalla bellezza fisica. Probabilmente, dovevo averci ormai fatto il callo.
In quell’esatto istante, colsi una figura familiare (probabilmente l’unica) fra la folla.
Helena stava attraversando il corridoio insieme a quelle due ragazze che avevo sempre visto al suo fianco –escluso l’episodio della biblioteca– e per la prima volta non trovai quest’ultime a fissarmi. Non che le avessi incontrate spesso, ma ogni volta i loro occhi erano stati puntati su di me. Forse avevo involontariamente fatto qualcosa di male a loro, ed era per quello che Helena non pareva essere molto propensa verso di me.
«Uh, ora comprendo perché non ti interessa Alyssa. Prediligi tutt’altro genere» constatò improvvisamente la voce del ragazzo bizzarro, che a quanto pareva doveva aver intercettato il mio sguardo. E, ovviamente, aver frainteso ancora. 
Non mi sorpresi troppo, lo conoscevo da appena pochi minuti ma già avevo inquadrato più o meno il tipo. Schietto, senza timore dei giudizi della gente, precipitoso e spontaneo. Non era affatto male, anzi. Era sé stesso.
Ad ogni modo, mi appurai nuovamente di chiarire la situazione.
«Non prediligo proprio nessun genere» gli assicurai, distogliendo gli occhi da Helena per portarli al ragazzo e sperare che, nuovamente, le mie iridi determinate e sincere potessero spingerlo a ricredersi.
«A parte il genere Helena Greene?» insinuò invece maliziosamente, sollevando un sopracciglio. «Certo, non l’avrei mai detto, però» commentò in seguito. Poco dopo, i suoi occhi si accesero e parvero ravvivarsi. «Non ti sarà facile, è una ragazza parecchio sulle sue. Non si è mai vista insieme ad un ragazzo. Però tu pari fare molto scalpore, sai? Forse tu puoi cambiare le cose.»
Il mio viso non poté non mutare nella contrarietà più assoluta. Ma che viaggi mentali si stava facendo questo qui? Non aveva assolutamente capito niente, anzi, aveva capito quello che si era immaginato lui.
«Non ho l’assoluta intenzione di cambiare niente» sbottai, iniziando ad avvertire una strana e forte sensazione di fastidio. Non avevo mai provato niente di simile, se non un leggero e trascurabile accenno, e non volevo sperimentare un sentimento del genere proprio adesso, e proprio verso quel ragazzo.
Ancora, dovetti non controllare molto il temperamento del mio tono, perché lui si mise nuovamente sulla difensiva.
Alzò le mani al cielo, come a proclamarsi innocente o a dare avviso della sua sconfitta, spalancando un poco di più le palpebre. «Come vuoi.»
Disse per la seconda volta nel giro di quei pochi minuti che erano stati finora la nostra conversazione. ‘Come vuoi’, dava così tanto spazio alla reazione dell’interlocutore. Poteva essere una pura proclamazione di perdono per aver esagerato, come una stizzita insinuazione che la tua permalosità fosse eccessiva.
Non seppi come prenderla.
Ad ogni modo, lui non parve serbare rancore.
Abbassò le mani e accennò invece un sorriso, lasciandosi tutto alle spalle. 
«Comunque il mio nome è Adam» mi svelò, con tono leggero e semplice.
Storsi un poco le labbra, valutando il suo atteggiamento. Non era lunatico, era solo calmo e paziente.
Annuii semplicemente, senza tendergli la mano. Non per cattiveria, ma perché non ce n’era il bisogno con lui. «Piacere, Justin.»
Vidi le sue sopracciglia sollevarsi unitamente, quasi divertito. 
«Lo so.» Il suo sorriso si ampliò. «Lo sanno tutti.» 



 


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Ok, scusate il ritardo. Ho ricevuto alcuni messaggi in cui mi veniva chiesto di continuare, quindi solo ora mi sono accorta che è passato un po' di tempo.
È che ho troppe cose da fare e poco tempo per farle... o in alcuni casi, poca voglia.

Vabbé, passando al capitolo.
Helena scopre finalmente chi sia il fantomatico ragazzo, nonché quello che aveva incontrato in biblioteca.
Justin fa nuove conoscenze, decisamente differenti l'uno dall'altra. Un po' ingenuo Bieber nei confronti di Alyssa? Piccolo lol

Ho tagliato un pezzo del capitolo successivo e l'ho inserito qui. In questo modo, il prossimo già scritto lo ometto per postare invece quello successivo ancora dove, ve lo dico già: finalmente i due si parleranno.
Eh sì, mi dispiace se la sto tirando tanto per le lunghe, ma le vicende le avevo immaginate secondo questa successione e, quindi, così me la sento di scriverle.

Grazie mille per le recensioni al capitolo precedente! E per chi anche solo legge e tutto il resto. 
Spero di sentirvi anche qui, e chiedo ancora scusa se è passato un po' di tempo.
Alla prossima :)

@_xbiebersvoice

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Capitolo 7
*** Capitolo sette. ***


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7.

 
  
 
 
Fu un attimo.
Un minuto prima stavo salendo le scale per raggiungere il mio appartamento, un paio di pianerottoli più in basso della mia destinazione, in quel vano scale trascurato e spoglio. Un minuto dopo una sensazione di disorientamento prese di mira la mia mente, costringendomi a bloccarmi a metà rampa per non perdere l’equilibrio. Mi sembrò che tutto ciò che mi stava intorno stesse tremando, i contorni ben definiti delle figure attorno divennero improvvisamente smussati e confusi e il bianco sporco delle pareti si accese di colpo, divenendo pian piano sempre più intenso.
Giusto un solo sbattere di palpebre nel tentativo di uscire da quello stato confusionale, che l’ambiente attorno a me mutò improvvisamente.
Non più gradini che parevano infiniti e spazi angusti e trasandati. Tornai al candido chiarore di quel luogo dove avevo vissuto fin da quando la mia mente mi permetteva di ricordare.
Compresi immediatamente quanto era accaduto, ma non potei non rimanerne ugualmente turbato.
Sarebbe stato così ogni volta che, dalla Terra, sarei tornato a casa mia, in Paradiso? La vedevo dura.
«Ti ci abituerai» mi assicurò una voce, facendomi sobbalzare.
Solo poi, riconoscendola, calmai il mio cuore. Come sempre non era altri che Mihael, e non potei non rendermi conto che ultimamente mi stava facendo prendere decisamente troppi colpi. Ero sicuro che sotto sotto, si divertisse.
Riuscii a malapena a fare un cenno con il capo, assentendo, ma subito tornai a concentrarmi a mantenermi in piedi. Un leggero giramento di testa mi dava una percezione malferma di quanto avevo intorno, dovevo giusto attendere che tutto si placasse.
«Perché sono qui?» domandai poi, sebbene non mi fossi ristabilito del tutto. La curiosità era troppa, temevo ci fosse stato qualche problema.
«Nulla di che, volevo solo parlare un po’» rispose semplicemente il castano, scuotendo un poco le spalle.
Mi accigliai. Ovvio che lo feci. Avevo appena subito una delle esperienze più disorientanti della mia vita, e l’avevo fatto pure per nulla? Era vero che se non l’avessi sperimentata ora, sarebbe certamente accaduto più avanti, ma almeno ne sarebbe valsa la pena.
«Scendere tu anziché farmi subire tutto questo?» sbottai quindi, contrariato al massimo.
Lui fece nuovamente spallucce, incurante, poi però le sue labbra tradirono un sorrisetto divertito.
Lo ignorai. Sospirai invece e attesi qualche altro secondo che la mia vista tornasse chiara e dettagliata.
Quando finalmente accadde, mi accorsi che non ci trovavamo al solito nostro livello del Paradiso.
Eravamo a quello inferiore, ovvero quello adibito per ospitare le anime dei terreni che meritavano la serenità e la tranquillità dopo il termine della loro vita. Era diverso dal nostro ‘piano’, seppur era ugualmente infinito. Ma qui non c’era il solito monotono bianco: era una distesa d’erba cosparsa di alberi, fiori, ruscelli, cascate e tutte le altre meraviglie della natura che vi possono venire in mente.
Era un altro dei luoghi dove mi sarei potuto rintanare in quei momenti in cui volevo dedicarmi ad altro oltre a tutto quel candido bagliore del mio livello, ma la realtà era che non era usuale che noi scendessimo di sotto. Poi, qui tutto scorreva pacificamente. La Terra era come... più interessante.
Non avevo idea di cosa ci facessimo qui, ma supposi non ci fosse un motivo preciso.
Ci ero già venuto qualche volta, ed era sempre stato solo per chiacchierare semplicemente con Mihael. Era lui a voler sempre raggiungere questo posto, anche se non avevo precisamente idea del perché. Solo, gli piaceva. Come a me piaceva invece la Terra.
Parlammo in generale del più e del meno, ma per tutta la discussione sapevo di cosa in realtà gli sarebbe piaciuto invece trattare. Per questo non mi sorpresi, quando saltò fuori l’argomento.
«Come procede?» mi chiese d’un tratto, andando dritto al punto per discutere di quanto veramente gli interessava.
L’avevo immaginato. Ma questo non significava che non avessi sperato invece che ci protendessimo ancora a parlare di cose generali.
Per quanto potesse risultare da poco, non era mai bello per me dovergli confessare che non avessi fatto proprio alcun progresso. La consideravo come una delusione nei suoi confronti.
Era l’angelo custode di Helena, ma questo non significava che lui seguisse ogni sua mossa e quindi di per sé sapesse ogni avvenimento della sua vita. Sembra strano, vero? Di solito si pensa che l’angelo custode sia sempre al fianco dell’anima protetta.
Il che è vero, non fraintendetemi. Noi (okay, loro, ma io mi sento già parte di questo gruppo) ci siamo sempre. Solo che non lo siamo propriamente con gli occhi e la nostra presenza, o almeno non in ogni istante.
Lo siamo con l’anima, che è legata a quella della persona protetta. Se questa ha bisogno di aiuto o si trova in una spiacevole situazione, le loro sensazioni negative raggiungono il nostro complesso emotivo e lo sporcano degli stessi sentimenti. Così, in un batter d’occhio, generalmente scendiamo sulla terraferma, invisibili, e controlliamo la situazione e ciò che possiamo fare per migliorarla.
Essendo che Mihael aveva anche un ruolo di istruttore, di maestro, non poteva dedicarsi interamente ad Helena. Poi, ora che teoricamente c’ero io al suo fianco, la sua sorveglianza si era potuta alleviare ulteriormente, almeno per quanto riguardava gli orari scolastici.
Sapevo che comunque lui era costantemente con lei e avvertiva ogni sua sensazione, anche se più pacatamente. Teneva a lei in un modo forte che non era comune a tutti gli altri angeli, era come se ci fosse di più, e per questo avvertiva proprio il bisogno di scendere per porsi al suo fianco, qualche volta. Però, ultimamente, non lo faceva più tanto spesso.
«Io, uhm... ci sto lavorando» biascicai insicuro, cercando di porgergli la realtà nella maniera meno grave possibile.
Affondai le mani nelle tasche dei miei pantaloni (ovviamente bianchi) e rigirai fra le dita della mano destra la collana d’oro che apparteneva invece a Mihael. L’avevo precedentemente tolta durante l’ora di educazione fisica, nel timore di perderla durante gli esercizi, e avevo poi dimenticato di rimetterla.
Pensai fosse comunque meglio, perché da quanto lui mi aveva detto, solitamente quel gioiello era indossato da tutti gli angeli che possedevano un’anima alla quale tenevano maggiormente e che volevano portare sempre anche figurativamente con sé. Se qualcuno mi avesse visto con quella al collo, avrebbe pensato che mi ero montato la testa o che avevo frainteso il vero compito che mi era stato invece assegnato sulla terraferma, che non mi rendeva affatto un angelo custode.
Mihael sospirò, chiudendo gli occhi. Non volevo essere una delusione per lui, davvero. 
Seppur non ero ancora al cento per cento convinto che intraprendere quella missione fosse stata la cosa giusta, lui aveva affidato a me la sua anima protetta. Mi aveva detto che ero la persona che considerava più giusta e che sapeva sarei stato capace di questo ruolo, ma concretamene non gli stavo dimostrando nulla di simile.
«Ci vuole poco, giuro che le cose cambieranno presto» gli promisi preoccupato, mentre le mie dita scannavano il piccolo pendente, agitate e leggermente sudaticce.
Lui rimase in silenzio, ma poco dopo lasciò uscire un ennesimo sospiro. Di colpo, accennò appena un sorriso e mi riservò uno sguardo confidente e sincero.
«So che stai facendo quanto puoi, tranquillo» mi rassicurò, posando una mano sulla mia spalla e calcando un poco il palmo contro di essa. «Come so che Helena non è particolarmente un tipo espansivo ed estroverso.»
Era la seconda persona che la descriveva in quella maniera, oltre al ragazzo degli armadietti, Adam. La sua poteva essere stata solo un’impressione a primo acchito, ma se me lo diceva Mihael ovviamente non potevo non assimilare quel dettaglio e memorizzarlo nella mente per eventi futuri. Helena era quindi davvero un tipo particolarmente introverso. Un poco l’avevo capito da me.
«È okay. Per ora, la situazione non è troppo grave» disse in seguito, assicurandomi che almeno per il momento, quella forza negativa ancora non si era presentata. I suoi occhi in seguito però si oscurarono. «È che vorrei che, quando accadrà, tu sia accanto a lei. Sarebbe un grande sollievo.»
Abbassai lo sguardo e assentii nuovamente, senza sapere cosa dire.
Compresi però che non potessi indugiare ancora. Dovevo darmi una mossa.
Per adesso le cose erano abbastanza tranquille, ma chi l’avrebbe saputo quando tutto sarebbe peggiorato? Dovevo abbattere in fretta le barriere che mi separavano da lei.
«Farò del mio meglio» gli garantii, estremamente sincero e franco.
Sollevò di un poco di più gli angoli delle labbra, poi eliminò il contatto fisico con me, indietreggiando appena.
Non aggiunse tante altre moine, mi disse solo che si fidava e, poco dopo, mi avvisò che dovesse congedarsi perché la sua presenza era richiesta altrove. Feci appena in tempo ad annuire, che lui già era sparito dalla mia vista. Non mi preoccupai del ritorno sulla Terra, era più facile scendere nella loro dimensione che fare il contrario, quindi ero capace anche da solo.
Rimasi invece qualche istante fermo immobile, assorto nei miei pensieri.
Mi ripresi poco dopo e, senza pensarci oltre, feci spuntare le ali dalla mia schiena e le dispiegai accanto a me. Da quanto non le usavo, erano piuttosto intorpidite. Le distesi cautamente poi, senza troppo impegno, mi sollevai nell’aria per poter allontanarmi dal suolo.
Mi piaceva non avvertire nulla sotto a me quanto attorno. Era una sensazione di libertà che sulla Terra non mi era permesso provare. Almeno non alla luce del sole, visibile.
Ancora con la mano affondata nella tasca, percepii il metallo della collana. La estrassi da quello spazio ristretto e aprii il palmo davanti a me, per poterla osservare.
Il peso della catenella che pendeva da un lato però fu più forte e, ancora prima che potessi prevederlo ed evitarlo, l’intero gioiello scivolò dalla mia presa e precipitò nell’aria, verso il suolo.
Sebbene mi preoccupai subito che si sarebbe potuto rovinare, abbassai velocemente lo sguardo ma non mossi un solo muscolo per raggiungerlo prima dell’impatto. Rimasi immobile, con le labbra lievemente dischiuse, a guardare la collana cadere.
Piombò nel prato verde sotto di me, emettendo un rumore ovattato che fu a malapena percepibile. Ma giusto quel tanto da attirare l’attenzione di un’anima poco distante, che subito voltò gli occhi verso la direzione di quel suono sordo.
La osservai dirigersi verso il gioiello, per poi chinarsi e rovistare appena fra i fili di erba.
Solo in quell’istante tornai in me. Subito, scesi dalla mia posizione non estremamente elevata e giunsi a qualche metro di distanza dal terreno.
L’anima sollevò lo sguardo, avvertendo il mio arrivo, ma rimase chinata al suolo, con l’oggetto a me appena sfuggito di mano. Notai che nella caduta il ciondolo si era aperto, svelando quindi la foto che era racchiusa al suo interno.
Posai cautamente un piede sul prato, accompagnando poi il secondo, ed eliminai quella poca distanza che avevo posto fra di noi per non infastidire quell’anima con lo spostamento delle mie ali.
Storpiai un poco le labbra, nel notare che fosse estremamente giovane. Era un ragazzo che, probabilmente, non aveva più di sedici anni, o almeno era stato così nel momento della sua morte.
Era sempre triste pensare che la loro vita si era spezzata quando erano stati ancora al suo inizio. Era ingiusto.
Il ragazzo si mise in piedi quasi lentamente, continuando a mantenere i suoi occhi nei miei.
Non compresi appieno il motivo di quel suo sguardo attento e impenetrabile, ma venni successivamente distratto dalla sua mano che si era improvvisamente allungata verso di me.
Raccolsi la collana dal suo palmo e mi appurai di chiudere il pendente con il pollice e l’indice. Per sicurezza, portai subito entrambe le estremità della catenella dietro il collo e la legai velocemente, per accertarmi di non rischiare di perderla ancora. Non era neppure mia.
«Grazie» bisbigliai al ragazzo, non troppo concentrato su di lui.
Lui fece appena un cenno del capo, ma parve più che altro assorto nello scrutarmi.
Non ci feci troppo caso. Spesso, le anime di quel luogo si sorprendevano nel trovarsi davanti un angelo, soprattutto se erano delle nuove arrivate. Probabilmente era proprio così per lui, data la sua età.
Non ebbi nemmeno il tempo di memorizzare per davvero i suoi capelli biondi e i suoi occhi castani, che subito tornai a librarmi nello spazio circostante per allontanarmi da quel luogo.
Dovevo pensare a quale sarebbe stato il modo più veloce e semplice per poter, finalmente, conoscere Helena. E la vedevo un’impresa piuttosto ardua.
 
 
*
 
 
Una cosa era certa: l’indomani a pranzo mi sarei seduto da qualche altra parte, purché non al tavolo di Alyssa e la sua cerchia di amici.
Non fraintendetemi: non sono una persona che si permette con facilità di giudicare... ma loro non erano propriamente il genere di persone fatte per me o, perlomeno, con cui avrei avuto piacere di stare. 
Mi ero aggiunto al tavolo di Alyssa, come lei mi aveva gentilmente invitato a fare, nella speranza che qualcuno lì presente potesse aiutarmi a raggiungere Helena. 
La ragazza mi aveva presentato i suoi amici. Non li avevo inquadrati abbastanza bene. I maschi non avevano fatto altro che parlare di football e mi avevano guardato storto quando erano venuti a sapere che non avevo mai giocato una partita in vita mia. L’altra ragazza presente invece era parsa più accogliente di loro, ma quando il giorno prima le avevo domandato se lei o Alyssa conoscessero Helena, entrambe avevano inarcato un sopracciglio, quasi disturbate.
«Helena Greene? L’amica di Audrey Weston?» mi aveva domandato Alyssa, infastidita.
Avevo subito aggrottato la fronte nel notare il suo tono di voce, non comprendendo. Poi però avevo scosso un poco le spalle, assumendo una smorfia dubbiosa. «Non lo so.»
Ed era vero. Sapevo il nome di lei, ma non avevo idea di chi fosse amica o chi fosse l’altra ragazza menzionata.
Loro si erano lanciate uno sguardo allarmato, poi con la stessa preoccupazione Alyssa si era voltata verso di me e aveva congiunto le mani sul tavolo. «Ascoltami un po’: non so perché ti interessi, ma vedi di starle alla larga. Non è gente per te, fidati. Con noi starai molto meglio, in questa scuola.»
Non avevo risposto a quel suo suggerimento. Ero stato invece piuttosto contrariato e turbato.
Come mai ogni volta pareva mettere lei e il suo gruppetto di amici ad un livello superiore di tutti gli altri studenti? E perché usava sempre quel tono altezzoso e presuntuoso quando si esprimeva su persone che non riguardavano la sua cerchia?
Era vero che era stata gentile ad aiutarmi ad integrarmi in quell’istituto, ma non lo era altrettanto con tutti gli altri. Avevo ripensato alle parole di quel ragazzo conosciuto davanti agli armadietti, Adam, e mi ero domandato se non avesse avuto ragione ricordando come aveva descritto quella ragazza.
Avevo trascorso del tempo al loro tavolo giusto un paio di giorni, però la cosa si era rivelata inutile. Al contempo, non volevo giungere a giudizi troppo affrettati, dopotutto non mi interessava di lei né dei suoi amici. 
Decisi quindi semplicemente che, da lì in poi, non mi sarei più seduto al loro tavolo. 
Fermai l’auto all’ennesimo semaforo, quasi giunto al complesso di appartamenti già visibile poco più avanti dove io stesso abitavo. Nonostante la mia scuola fosse dall’altra parte del Willamette River, io vivevo nel centro di Portland.
Era una città abbastanza tranquilla, con giusto qualche grattacielo che si stagliava prominente e con, sullo sfondo, il Mount Hood e la sua cima innevata. Era un bel posto dove vivere.
Attendendo che il semaforo divenisse verde, mi lanciai qualche occhiata intorno.
Ero uscito giusto per vedere un po’ di vita. Non ne volevo proprio sapere di passare le giornate davanti a quella scatola elettronica altresì chiamata televisione. Preferivo vedere il mondo e studiare gli esseri umani con i miei stessi occhi, con lo sguardo.
C’erano tanti colori e tanta gente, in giro.
Portando gli occhi alla mia sinistra, questi si soffermarono su una delle tante insegne sopra la l’entrata di un negozio. ‘Lavanderia self-service’, diceva. In casa mia avevo una lavatrice, ma non avevo idea di come si usasse, né tantomeno sapevo a chi avrei potuto chiedere aiuto. Supponevo che all’interno di quel negozio fosse scritto da qualche parte come utilizzare quell’elettrodomestico, quindi se prima o poi ci avessi fatto un salto, non sarebbe stata una cattiva idea.
Fui quasi sul punto di spostare lo sguardo altrove, quando subito una figura attirò la mia attenzione, spingendomi ad assottigliare lo sguardo. Grazie alla mia vista un poco più sviluppata rispetto il normale, fui subito in grado di riconoscere quella ragazza dai capelli castani che era appena scesa da un autobus di linea.
Con un sacchetto abbastanza capiente in una mano, attraversò lo spiazzo che affiancava il marciapiede ed entrò esattamente nell’edificio poco distante che avevo appena terminato di osservare.
Subito, un’idea mi balenò in testa. Era assurda, lo ammettevo, ma era anche vero che dopo una settimana o poco più lì giù sulla Terra, senza un minimo di progresso, ero pronto a fare di tutto pur di smuovere un poco la situazione.
Senza pensarci oltre, non appena il semaforo divenne verde, premetti sull’acceleratore e raggiunsi in meno di due minuti il complesso dove era stanziato il mio appartamento. Parcheggiai momentaneamente l’auto davanti all’entrata e, dopo essere saltato fuori, corsi al piano della mia abitazione. Una volta all’interno, raggiunsi il cesto degli abiti sporchi e lo svuotai sul pavimento, cercando poi una busta che potesse contenerli.
Non erano molti, in quella settimana mi ero cambiato, certo, ma ancora stavo attendendo qualche aiuto da parte di Mihael, aspettando che mi fornisse nuovi vestiti. Ad ogni modo, era comunque il caso che li lavassi, piuttosto che mi ritrovassi a farlo all’ultimo quando non avrei avuto più nulla di pulito da poter indossare.
Un altro paio di minuti dopo, mi ritrovai nella mia macchina. Invertii rapidamente direzione e tornai nel luogo che avevo attraversato poco prima, parcheggiando in seguito sbrigativamente l’auto in uno degli spazi fortunatamente liberi.
Afferrai la busta con dentro quanto avevo da lavare e, con una certa fretta, mi gettai all’interno della lavanderia automatica.
Una volta dentro, venni giusto accolto dal sottofondo di una televisione accesa nell’angolo di attesa, insieme al rumore delle lavatrici in funzione e un leggero vociferare da parte di una donna al telefono, seduta su un divanetto su un lato della stanza.
Spostai lo sguardo, setacciando quella stanza non troppo grande né troppo angusta, in cerca della ragazza che avevo visto entrare una decina di minuti prima. Se era venuta per lavare degli abiti, non poteva essersene già andata, o almeno così speravo.
Certamente poteva aver messo in funzione la lavatrice ed essere uscita a fare dell’altro, per far passare il tempo prima di tornare a ritirare gli abiti, però mi augurai non fosse così.
Quando notai la figura che, di spalle in un angolo della stanza, stava leggendo delle informazioni riportate su un cartello appeso al muro, tirai un sospiro di sollievo. Era ancora qui.
Mantenendo attento lo sguardo su di lei, afferrai il primo cesto di plastica inutilizzato impilato su un bancone e riversai al suo interno i miei abiti sporchi.
In seguito, valutai il da farsi. 
Avevo bisogno di escogitare un qualche metodo per fare la sua conoscenza o, perlomeno, per scambiare con lei almeno un paio di parole. Sapevo che sarebbe stato impossibile divenire subito suo amico, ma era il caso che almeno diventassi un conoscente, per proseguire poi passo per passo.
Quella mi parve l’occasione giusta. 
La maggior parte delle lavatrici erano già occupate ma, grazie al cielo, notai che quella al suo fianco fosse libera. Segno del destino? Forse. O probabilmente c’era Qualcuno lassù a cui facevo talmente tanta pietà da averlo spinto a darmi una mano.
Presi un respiro e mi diressi nella sua direzione, cercando di muovermi il più disinvoltamente possibile.
Appoggiai il cesto sopra la lavatrice e allungai una mano verso il basso per poter aprire lo sportello circolare dell’elettrodomestico, prossimo ad inserire al suo interno i miei vestiti.
In quello stesso istante, Helena dovette accorgersi della mia presenza. Abbassò distrattamente lo sguardo su di me, portandolo poi di nuovo altrove, ma un attimo dopo tornò istintivamente sul mio volto.
Bloccò ciò che stava facendo e mi scrutò in viso. Forse si ricordava di me, o forse aveva un vago ricordo di quanto accaduto una settimana prima in biblioteca e per questo le stavo dando uno strano senso di familiarità.
Senza indugiare oltre, abbozzai giusto un sorriso e dischiusi le labbra per salutarla.
Fui quasi sul punto di parlare, che lei si voltò di colpo e lasciò che i suoi capelli le coprissero il viso, tornando a quanto stava precedentemente facendo.
Rimasi fermo, ancora a labbra semiaperte, con probabilmente un grande punto di domanda stampato sulla fronte. 
Ora, ero ancora di più convinto che lei avesse qualcosa contro di me. Sebbene non avessi la più pallida idea del perché.
Quando mi ripresi, iniziai a riempire il cestello della lavatrice con i miei vestiti, ignorando quella sensazione di calore che stavo avvertendo sulle guance. 
Forse non era stata una buona idea entrare lì dentro e cercare di fare la sua conoscenza in tal maniera. Come forse non era stata una buona idea salutarla quella mattina di un paio di giorni prima. Forse, più propriamente, non era stata una buona idea accettare più in generale il compito che mi era stato proposto da Mihael. 
Chiusi amaramente lo sportello dell’elettrodomestico e, sfilando il portafoglio dalla tasca posteriore dei miei pantaloni, cercai qualche moneta da inserire nell’apposita fessura. Una volta fatto, lanciai un’occhiata ai pulsanti d’azione della lavatrice, non capendo niente di ciò che vi trovai scritto. Dopotutto non avevo mai fatto una lavatrice in vita mia.
Macchiato dalla delusione, mandai tutto a quel paese, ne spinsi uno a caso e spostai poi l’indice sinistro verso il tasto d’accensione.
Proprio quando stavo per premerlo, la mia mano venne prontamente bloccata ed allontanata con uno scatto da quel piccolo pulsante. 
Disorientato, sollevai lo sguardo per incontrare gli occhi grigio perla di Helena.
Dischiusi le labbra per domandarle spiegazioni, ma lei mi precedette.
«Non credi sia meglio inserire del detersivo, prima?» mi fece notare, abbozzando appena un sorrisetto divertito.
Spostai lo sguardo verso la lavatrice, analizzando le sue parole, prima di risollevarlo su di lei e comprendere pienamente quanto avesse detto. 
A quel punto quindi, avvampai all’improvviso e a causa della vergogna avvertii le tempie pulsare.
Complimenti. Gran bella figura, Justin. 
 






Quando mio padre quel mattino, prima che uscissi per andare a scuola, aveva infilato la testa nella mia stanza e mi aveva domandato se gentilmente quel pomeriggio avrei potuto fare un veloce salto in lavanderia, non ero riuscita a rispondergli di no.
Come con la signora Morgan e i suoi libri da riportare in biblioteca, mi ritrovai ad accettare e assicurargli che gli avrei fatto quel favore. 
A dirla tutta, avrei avuto dei compiti da svolgere, ma la lavatrice di casa nostra aveva per l’ennesima volta avuto dei problemi. Mio padre non si fidava a mandare in giro Adrianne, dato il suo stato interessante, seppur lei sostenesse di esserne in grado. Non voleva che facesse sforzi.
Lo comprendevo, per questo non avevo sbuffato davanti alla sua richiesta.
Verso le quattro e mezza del pomeriggio, quindi, mi ero diretta verso la lavanderia. Avevo preso un autobus di linea, siccome nonostante i miei diciassette anni non avevo ancora la patente di guida.
Una volta arrivata, mi ero appropriata della prima lavatrice libera e mi ero dedicata al metterla in funzione, cercando di ricordare i procedimenti giusti dall’ultima volta che quella di casa nostra si era rotta e mi ero ritrovata in conseguenza sempre in quello stesso posto.
Solo pochi minuti dopo, mi ero accorta della presenza di qualcuno al mio fianco. 
Gli avevo lanciato giusto uno sguardo distratto, ma quando mi ero resa conto di chi fosse la mia attenzione si era concentrata in pieno sul suo volto. Quando poi me ne ero accorta, avevo immediatamente spostato gli occhi, imbarazzata.
Già una volta ero stata colta in flagrante nel fissarlo e, sebbene questa volta fosse stato lui il primo ad intrecciare il mio sguardo, avvertii comunque il bisogno di guardare altrove.
Per la seconda volta, mi accorsi di aver ignorato il suo sorriso e di non aver risposto al suo tentativo di salutarmi. E mi sentii lievemente in colpa, ma ancora non l’aveva fatto con intenzione.
Era vero, era stato gentile quella volta in biblioteca, ma ancora dovevo inquadrare il tipo di persona che fosse. Negli ultimi giorni aveva passato parecchio tempo con la cerchia di Alyssa (cosa che aveva fatto imbestialire Audrey) e non avevo idea di cosa questo significasse. 
Non ne ero rimasta troppo sorpresa, un poco ci avevo scommesso che sarebbe finito con quella gente lì, ma ne ero rimasta lo stesso come lievemente delusa. Come se stranamente da lui mi sarei aspettata di più. E questo era assurdo, perché io neanche lo conoscevo.
Assorta fra i miei pensieri, mi ero ritrovata a scrutare di sottecchi i suoi movimenti e, quando lo avevo visto spostare il dito sul tasto d’accensione, fu come se un campanello fosse suonato nella mia testa. Inconsapevolmente attenta ad ogni suo movimento, avevo notato che non aveva neppure inserito del detersivo. 
Seppur lievemente imbarazzata, glielo feci notare prima che fosse troppo tardi, aggiungendo un debole sorriso per non risultare troppo altera o, peggio, presuntuosa.
Notai le sue guance arrossire e questa volta il mio sorriso fu vero. Non doveva essere pratico di queste cose.
I suoi occhi si abbassarono sull’elettrodomestico e lanciò ad esso uno sguardo confuso, facendo appena un passo indietro per scrutare ogni suo centimetro. Quando compresi il perché, il mio divertimento non poté non aumentare davanti a quella sua impacciataggine.
«Lo puoi prendere dal distributore automatico là infondo» lo informai, accennando poi rapidamente con il capo nella direzione della macchinetta in un angolo della stanza. Mordicchiandomi il labbro inferiore, lanciai poi un’occhiata alla mia sinistra al flacone azzurro che mi ero portata da casa e, dopo un attimo di indugio, lo feci scivolare verso di lui sopra il ripiano della lavatrice. «Oppure, se vuoi, puoi usarne un po’ del mio.»
Il suo sguardo si spostò velocemente verso quanto avevo allungato nella sua direzione e, al suo interno, riuscii a leggerci un’ombra di sorpresa.
Poco dopo, sempre con le guance arrossate, annuì un poco e tornò vicino all’elettrodomestico. «Grazie» sussurrò appena.
Rimasi piacevolmente stupida da quel suo imbarazzo. Voglio dire, ad una prima occhiata sembrava quel classico genere di ragazzo che non si intimoriva di fronte a niente e a nessuno, quel tipo sicuro di sé che non teme confronti e, consapevole del suo aspetto, sa cosa questo può concedergli in più.
Eppure ora, quello che stava dimostrando ai miei occhi, era nettamente il contrario.
‘Mai giudicare un libro dalla copertina’, mai detto fu più veritiero e azzeccato.
Allungò una mano verso il flacone che gli avevo appena avvicinato e, afferrandolo, lo sollevò con l’intenzione di usarlo. Però, si bloccò ancora e lanciò un altro sguardo disorientato verso quanto aveva davanti. 
Non volevo metterlo ancora a disagio dicendogli quanto avrebbe dovuto fare, quindi, presumendo che l’avrebbe capito da solo, finsi di dedicarmi a qualcosa di mio, sebbene la mia lavatrice fosse in funzione da un paio di minuti. 
Fu quando risollevai gli occhi e notai che fosse ancora fermo immobile, con quell’espressione spaesata e quasi spaventata in volto, che decisi di aiutarlo ancora.
«Dai qui» gli proposi, allungando una mano verso la sua, utilizzando però un tono pacato e il più gentile possibile. «Ti aiuto» chiarii in seguito.
Lui mi cedette il detersivo, così aprii il piccolo sportello nel quale questo andava inserito e velocemente compii quanto lui non era in grado di fare. Successivamente, impostai il giusto tipo di lavaggio e accesi la sua lavatrice, risolvendo ogni suo problema.
«Tutto questo è leggermente imbarazzante» commentò nel frattempo, con voce sommessa. In seguito, portò una mano ai capelli e si massaggiò nervosamente la nuca. «È che non sono pratico di queste cose.»
Richiusi il flacone e lo riposi al suo posto, non riuscendo a trattenere un sorriso.
«Beh, ora sai come funziona» dissi a mia volta, scuotendo leggermente le spalle per fargli intendere che non aveva importanza. Ero sicura che avrebbe imparato in fretta, sembrava un ragazzo sveglio.
Lui abbozzò giusto un sorriso quindi, comprendendo che la conversazione fosse finita lì, tornai ai fatti miei.
La lavatrice avrebbe impiegato diverse decine di minuti per terminare il suo lavoro perciò, essendone ovviamente precedentemente consapevole, mi ero portata da casa un libro e un paio di auricolari con cui poter ascoltare della musica.
Risistemai quel poco che avevo usato e mi diressi all’angolo d’attesa dove ero certa avrei trascorso minimo la prossima mezzora, sedendomi nella parte più isolata per stare un po’ per i fatti miei. Infilai gli auricolari alle orecchie ed estrassi il mio libro, prossima ad immergermi in un altro mondo.
Non appena feci partire la prima canzone, sollevai lo sguardo per darmi una distratta occhiata in giro.
A dire il vero, ero segretamente cosciente che invece volessi accertarmi della posizione di una persona ben precisa.
Portai per istinto gli occhi nel luogo dove lo avevo ‘lasciato’, ma il ragazzo nuovo, Justin, non era più lì. Cercando altrove, sussultai quasi quando lo vidi poco distante da me, seduto su una sedia lungo l’altra parete della stanza.
Si stava guardando vagamente in giro, abbandonato svogliatamente su quel posto a sedere come se avesse già la consapevolezza che avrebbe trascorso la prossima mezzora nella noia. Evidentemente lui non doveva essersi programmato qualche modo in cui passare il tempo, oppure doveva averlo dimenticato.
Il suo piede tamburellava contro il pavimento, fattore in più che mi diede segno della sua noia. La tv appesa ad una parete non pareva attrarlo e non sembrava disporre nemmeno di un cellulare con cui avrebbe potuto trovare qualcosa da fare. Forse il suo si era scaricato.
Scossi la testa, domandandomi non solo per quale motivo mi interessasse, ma impuntandomi anche poi di tornare a farmi gli affari miei.
Così feci, e riuscii a concentrarmi sulla lettura per il quarto d’ora seguente.
Quando una signora uscì, attirando quindi la mia attenzione prendendo parte di un angolo della mia visuale, mi dedicai qualche secondo allo spazio a me circostante.
Era febbraio e le giornate si erano fatte corte, quindi il cielo al di là della vetrata si stava già notevolmente scurendo.
Justin non si era mosso di un millimetro dalla sua posizione. E nemmeno la sua noia pareva essere mutata. Aveva le braccia incorciate al petto, il suo capo era inclinato all’indietro e le sue palpebre erano abbassate, come se stesse risposando, il che sarebbe stato possibile visto che non aveva null’altro da fare.
Diedi un’occhiata all’ora segnata su un orologio infisso alla parete, notando che la mia lavatrice doveva aver finito il suo lavoro da almeno cinque minuti. Oh, beh... forse era anche il caso di dire le nostre lavatrici, dopotutto avevo acceso la sua pochi istanti dopo la mia.
Mi alzai in piedi, intenzionata ad andare ad estrarre gli abiti dall’elettrodomestico. Supposi che i miei movimenti avrebbero ridestato Justin, che vedendomi muovere avrebbe capito che anche il suo lavaggio fosse finito, ma questo non avvenne.
Quindi, mi ritrovai a chiedermi cos’avrei dovuto fare.
Dovevo avvisarlo? Magari si era accidentalmente addormentato, e sarebbe potuto essere imbarazzante per lui se più tardi sarebbe stato svegliato dal classico dipendente che si presentava all’ora di chiusura.
Però, effettivamente, cosa doveva interessarmi? Non lo conoscevo nemmeno. E poi, magari era perfettamente conscio della situazione ed era lui che intenzionalmente voleva riposare lì ancora un po’, per quanto questo suonasse strano. Magari lo avrei solo disturbato.
Con questo pensiero, mossi qualche passo verso la mia lavatrice. Solo a metà strada, mi resi conto che quell’idea fosse assurda. 
Mi fermai e gli lanciai un’ennesima occhiata.
Lo scrutai in viso, senza un motivo particolare. A dispetto di ciò che la sua immagine poteva dare ad intendere, compresi che fosse solo un ragazzo appena arrivato in città, in cerca di qualcuno che gli desse l’idea che fosse il benvenuto in un posto nuovo che non conosceva e che probabilmente lo disorientava.
Non conosceva nessuno, se non la cerchia di Alyssa, quindi quasi certamente stava solo cercando di integrarsi in un luogo dove gli pareva di essere l’unico estraneo. Non doveva essere bello.
Mi pareva un ragazzo in gamba, era stato gentile con me quella volta in biblioteca, quindi non vidi perché questa volta non sarei potuta essere io gentile nei suoi confronti.
Sospirai, tornai indietro e mi avvicinai a lui, inclinando un poco il viso di lato per verificare se davvero si fosse addormentato. 
Picchiettai appena sulla sua spalla. 
«Ehi?» provai a richiamarlo, seppur insicura.



 




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Okay, mi scuso in anticipo se, con la mia nota di fondo pagina del capitolo precedente, qualcuno si aspettava che i due avrebbero avuto una lunghissima conversazione sulla loro vita e quant'altro.
La verità è che avevo pensato al loro primo incontro vero e proprio in un'altra maniera, però poi ho deciso di riscrivere tutti gli avvenimenti.
Non volevo nulla di classico come il tipico scontrarsi per i corridoi o quant'altro, insomma, qualcosa indice di una casualità pressocché impossibile, proprio per questo ho fatto tutto il contrario.
Praticamente, è Justin che ha architettato tutto. Sì, so che nella realtà Bieber non è dotato di un'intelligenza tale, ma in questa ff sogno in grande per lui........ no dai, scherzo! 
I love you, Justin <3 lol
Tornando a noi... beh, secondo me non è davvero capace di fare una lavatrice haha
Che poi non sono capace nemmeno io, quindi è meglio che me ne sto zitta lol
Per quanto riguarda la prima parte del capitolo... potrebbe sembrare banale e non centrare nulla, ma in realtà più avanti si scoprirà qualcosa di annesso a quanto ho scritto. 
Ma ssh, non aggiungo altro.

A dirla tutta, sono più insicura del solito a postare questo capitolo perché temo non sia ciò che magari vi aspettavate.
In tal caso, mi dispiace. Spero continuerete comunque  a leggere la ff e magari, più avanti, riacquistrete interesse o curiosità.
Così è come ho pensato la storia, quindi spero che vi possa piacere così come la mia mente l'ha ideata.

Nel prossimo capitolo succederà una cosa un po'... mmh, non so come definirla lol
Insomma: succederà qualcosa lol

Grazie infinite
 per le recensioni, davvero. E per chi semplicemente legge.
Chi di voi scrive probabilmente sa cosa significa quando vede che qualcuno lascia un parere alla vostra ff. È in pratica un modo per capire che quanto stai scrivendo non è tutto sommato male, per questo mi rendono sempre contenta. Ripeto, grazie. :)

Spero di rivedervi anche alla prossima.
Per il resto, buona giornata! 

@_xbiebersvoice




Ultimamente alcune ragazze mi hanno chiesto se potessi fare loro un banner e così ho fatto, 
quindi volevo solo dirvi che in caso ne abbiate bisogno, 
se volete potete chiedermi e vedo di fare quanto mi è possibile.
Non sono il massimo della bravura, premetto, ma si può sempre vedere cosa ne viene fuori :)
Okay, tutto qui!
Bye, I'm done lol

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Capitolo 8
*** Capitolo otto. ***


Heaven-8

angel.jpg

 
 
8.

 

 

 

Picchiettai appena la sua spalla, ritirando immediatamente la mano poco dopo per non risultare troppo invasiva. Quando lo vidi sussultare, feci impulsivamente un passo indietro per lo spavento.
Lui sbatté più volte le palpebre, stringendole a lungo per qualche istante, poi si lanciò delle occhiate in giro per verificare cosa fosse successo, finendo con il puntare i suoi occhi sul mio volto.
Deglutii e avvertii le mie guance arrossarsi un poco, seppur non avessi idea per quale motivo.
«Uh?» fuoriuscì in un filo di voce dalle sue labbra, prima che si portasse una mano agli occhi e li stropicciasse appena con un paio di dita.
«Ehm... il lavaggio... cioè...» presi a farfugliare sconnessamente, domandandomi per quale assurdo motivo la mia coscienza mi avesse spinto fin a quella situazione. Feci una piccola pausa per prendere un respiro, formulando qualcosa di sensato. «Voglio dire, le nostre lavatrici dovrebbero aver finito. Quindi, insomma, se vuoi...»
Lasciai in sospeso la frase, arrossendo tutto d’un tratto ancora di più. Non che avessi qualche reale motivo per essere in imbarazzo, però lo ero ugualmente.
Lui rimase qualche istante in silenzio, forse dovendo ancora assimilare la cosa, però quando questo avvenne, spostò immediatamente lo sguardo e parve a sua volta avvampare.
«Oh, sì, ehm... grazie» mormorò, portandosi in seguito immediatamente in piedi.
Non aggiunsi altro ma semplicemente mi diressi subito verso la mia lavatrice, notando che nel negozio sembravamo essere gli unici. Non era estremamente grande, ma effettivamente non era l’unica lavanderia automatica del centro quindi poteva essere plausibile la poca clientela, soprattutto ad un orario simile.
Mi chinai e aprii lo sportello dell’elettrodomestico, estraendo i miei abiti, avvertendo nel frattempo la presenza di Justin affianco. Mi sembrava di muovermi goffamente, anche se non avevo idea del perché. Ben presto mi concentrai sul mio daffare, quindi non ci feci più caso.
Siccome a casa l’asciugatrice, a differenza della lavatrice, funzionava, avevo portato con me un particolare sacchetto di plastica con un cerniera dove avrei potuto inserire i vestiti bagnati e portarli a casa per spostarli immediatamente nell’altro elettrodomestico. Certo, ero cosciente che non fosse proprio il massimo, ma dopotutto avevo da arrangiarmi come potevo.
Notai Justin seguire la mia stessa procedura. Che fosse capitato alla sua lavatrice la stessa cosa successa alla mia? 
Scrutai i suoi abiti, tutti impeccabilmente bianchi, poi lanciai un’occhiata a ciò che stava indossando al momento, non sorprendendomi di vedere lo stesso colore.
Quando mi accorsi del suo sguardo soffermato su di me, probabilmente domandandosi per quale motivo lo stessi fissando, avvertii il sangue fluire alle guance e mi affrettai a trovare qualche motivo per giustificarmi.
«Ti piace tanto il colore bianco, eh?» fu tutto ciò che trovai da dire, ma la mia voce uscì forse troppo piatta e seria. Cosa assolutamente terribile, siccome già di suo quella domanda pareva un poco presuntuosa. Ed io non intendevo suonare in tal modo.
Lui spostò gli occhi ai suoi abiti, comprendendo il perché delle mie parole.
«Sì, ehm...» aprì le labbra per rispondere, prima di deglutire. «No, a dire il vero non è che mi piaccia tanto.»
Seppur avrei dovuto annuire e sorridergli giusto per compensare l’accidentale insolenza di poco prima, mi ritrovai ad aggrottare un poco la fronte, gesto che lui notò.
«Cioè, ho avuto dei problemi con il trasloco. Avevo diviso i vestiti in diversi scatoloni in base al colore, ma l’unico che mi è stato recapitato nella nuova casa è stato appunto quello degli abiti bianchi...» si spiegò velocemente, con una certa agitazione nel tono di voce. «Non ho idea di dove siano gli altri al momento» aggiunse poi, ma fu appena un sussurro come se stesse constatando a sé stesso quel particolare.
Questa volta annuii realmente comprensiva, rendendomi poi conto di aver appena scoperto una delle cose misteriose che mi lasciavano un poco perplessa sul suo conto. Un’altra di queste, era il motivo per cui fosse giunto a Portland a febbraio, ad anno scolastico pienamente già iniziato. Ma supponevo non l’avrei mai scoperto, siccome ero sicura che io e lui difficilmente ci saremmo mai rivolti la parola dopo oggi.
Nonostante questo, non potevo negare che lui mi incuriosisse. Aveva qualcosa di interessante, al di là del suo aspetto –non mi ero soffermata solo a questo– aveva qualcosa che non poteva far a meno di farti come desiderare di scoprire qualcosa in più sul suo conto.
Sarebbe stato poi così male se l’avessi fatto? Magari sarebbe stato utile ad Audrey e mi avrebbe ringraziato.
A questa constatazione, mi sentii come un poco risollevata. Il che fu strano. Ero davvero così banale?
«Bel casino» commentai, giusto per poter portare avanti la conversazione. «Ti trovi bene qui?»
Seppur avevo lo sguardo puntato sulla t-shirt che stavo ripiegando, che riconobbi essere quella di mio padre, notai con la coda dell’occhio che lui avesse voltato il viso verso di me. Effettivamente, non è che gli avessi rivolto poi tanto la parola, quindi avrei capito se avesse appena compiuto quel gesto poiché sorpreso che stessi tentando di instaurare un dialogo.
Anche se... per quale motivo avrebbe dovuto esserne stupito? Supponevo che più della metà della scuola avrebbe voluto parlare con lui o trascorrere qualche minuto in sua compagnia, anche se immaginavo che la maggior parte sarebbero state ragazze. Quindi, sarebbe dovuto essere tutto fuorché sorpreso, anche perché io non ero in assoluto quel genere di ragazza che poteva ritenersi interessante. Ero solo Helena, quell’anonima ragazza che spesso era vista in compagnia della bella e popolare Audrey e della dolce e simpatica Blythe.
A quei pensieri, mi sentii quasi a disagio. Non seppi se in generale nella società, o più particolarmente accanto a lui. Però, fortunatamente, venni distolta dai farneticamenti della mia mente quando lui rispose alla mia domanda.
«Sì, non è male. Anzi, è un bel posto dove vivere» disse, estraendo gli ultimi abiti dal cestello della sua lavatrice. A differenza mia, ne aveva fortunatamente di meno. «Certo, sarebbe carino se ci fossero più spazi verdi, ma dopotutto siamo in centro ed è tutto sommato abbastanza scontato non trovarne.»
Mi sorpresi a quelle parole. Gli interessava della natura? Pensavo che ai ragazzi importasse semplicemente di avere un campo da football dove potersi allenare, poi poco importava se tutto il resto era rivestito da grattacieli e altre opere dell’uomo.
Ancora ne rimasi stupida. Evidentemente dovevo ancora comprendere che lui fosse leggermente diverso da tutti gli altri ragazzi della sua età. O perlomeno diversi da quelli che conoscevo. 
Questo tratto mi disorientò un poco. Aveva un qualcosa che mi ricordava di... Scossi la testa, allontanando la sua immagine dalla mente. Ero consapevole che fosse meglio fare così, quando ero ovunque fuorché da sola nella mia stanza. Solo lì potevo lasciar riaffiorare liberamente i ricordi, accettandone poi le conseguenze.
«Nei quartieri in periferia, li trovi» cercai di concentrarmi appieno sulla conversazione, seppur fosse piuttosto superficiale. «Oppure, se vai ad ovest della città, c’è una riserva naturale che affianca il Willamette River. È davvero molto bella.»
Non avevo idea se questo sarebbe potuto interessargli per davvero, ma siccome era appena arrivato in città gli diedi quella informazione per ogni evenienza. E poi, avevo bisogno di racchiudere presto determinati pensieri in un angolo nascosto della mia mente.
«Ci farò un salto, allora» commentò semplicemente lui, infilando nella sua busta l’ultimo abito bianco rimasto nel cestello.
Non aggiunsi niente, supponendo che ora se ne sarebbe andato. Solo il pensiero mi spaventata un poco. Niente che fosse legato in particolare a lui, ma temevo che se non avessi più avuto qualcuno intorno con cui distrarmi, sarebbe stato più facile per quei ricordi sfuggire dal mio controllo e presto sporcare il mio stato d’animo.
Improvvisamente, avvertii solo il bisogno di tornare a casa. Se questi mi avessero colpito lì, non avrebbe avuto importanza. Ma quando ero all’esterno, non potevo assolutamente permettermelo. 
 







Avevo cercato di andare più lentamente nel piegare i miei abiti, quando mi ero accorto che altrimenti avrei terminato troppo presto rispetto a lei e non avrei potuto rimanere in piedi a fissarla come un idiota.
Avrei dovuto averci pensato prima perché quando giunsi all’ultimo capo, a lei restava ancora qualche vestito da sistemare, seppur questi non fossero troppi.
La mia intenzione era quella di prolungare il più possibile la conversazione con lei perché ovviamente questo avrebbe portato al conoscerla meglio e, magari, darle un qualche motivo per cui le sarebbe piaciuto conoscermi a sua volta.
Era già positivo che stessimo parlando da qualche minuto. Soprattutto dopo la figura che avevo fatto poco prima.
Non stavo dormendo. Davvero. Stavo solo... osservando come l’oscurità delle mie palpebre avrebbe contrastato con i colori dell’ambiente attorno a me quando più tardi avrei riaperto gli occhi. Sì, okay, forse leggermente molto più tardi, ma il discorso era lo stesso.
Oh insomma, forse mi ero lasciato un po’ andare. Ma non avevo seriamente sentito la necessità di dormire. E su questo non mento, perché noi angeli non avvertiamo la stanchezza dovuta al sonno. Solo che ci è ovviamente comunque possibile addormentarci... soprattutto se non si ha nulla da fare come prima effettivamente era.
Ad ogni modo, seppur avessi finito di ripiegare le mie cose, restai comunque al suo fianco. Certo, non avevo idea se lei lo volesse o, peggio, se questo l’avrebbe infastidita, ma da come dopo l’ultima mia frase si era concentrata in ciò che stava facendo, supponevo che nemmeno si fosse accorta di avermi ancora vicino.
Solo quando anche lei terminò e si portò una ciocca dietro l’orecchio, i suoi occhi si spostarono su di me e i suoi movimenti si bloccarono un istante. Dovette porgersi qualche domanda, ma in seguito lasciarle tutte perdere.
Si issò la borsa sulla spalla e si infilò sottobraccio la busta con all’interno gli abiti, voltandosi poi verso di me, anche se con lo sguardo abbassato sui suoi oggetti. «Io ho finito qui, quindi...» 
«Anche io» la interruppi, ma me ne accorsi solo in seguito. Supposi comunque che le sue parole seguenti sarebbero state solo di circostanza, quindi non mi maledii troppo.
Annuì appena, muovendosi un poco impacciata. Forse stava cercando il momento giusto per salutarmi, perché dopotutto anche se non avevamo parlato troppo, anche solo per gentilezza sarebbe stato consono.
Alla fine si portò ancora la medesima ciocca di capelli dietro l’orecchio, dirigendosi in seguito nervosamente all’uscita. La seguii, lasciando quel negozio dopo di lei, uscendo all’aria aperta sotto il vento pungente di febbraio.
Notai si fosse fermata, ma era palese che avesse urgenza di andare via. Sperai fosse solo perché si stava facendo tardi e perché il cielo non pareva promettere bel tempo, e non perché in qualche modo fosse a causa mia.
Agitò appena una mano, stringendosi nella sua giacca non veramente pesante.
«Ci vediamo a scuola, allora» mi salutò, sollevando appena un angolo delle labbra. 
Annuii semplicemente, non trovando niente da dire dopo aver notato come un’ombra pareva aver coperto i suoi occhi. Cosa c’era che non andava?
Rimasi in piedi immobile, osservandola muovere qualche passo per attraversare il parcheggio e giungere sul marciapiede al suo limite che affiancava la strada principale.
Strinsi le labbra, nel tentativo di frenare l’impulso che aveva la mia lingua di dire qualsiasi cosa pur di farla bloccare e permettermi di scambiare con lei ancora qualche parola. Non fui abbastanza bravo.
«Vuoi un passaggio?» Avvertii la mia voce domandare, quasi come se si stesse rivolgendo al vento anziché a lei.
Helena voltò appena il capo e, notando che avessi gli occhi puntati nella sua direzione e che quindi quella proposta fosse rivolta a lei, si fermò sul posto. 
«Come?» chiese, forse per accertarsi se davvero avesse capito bene. Dopotutto, comprendevo il suo tentennamento: avevamo passato giusto un’ora nello stesso edificio dopo esserci parlati per davvero per la prima volta. Forse poteva suonare un po’ strana quell’offerta.
«Sì, voglio dire. Si sta facendo buio e fa abbastanza freddo, e...» mi bloccai dal continuare. Stavo per aggiungere che l’autobus avrebbe impiegato un po’ a giungere a casa sua, ma mi ero ricordato che teoricamente io non avrei dovuto sapere che fosse venuta fino a qui con quel mezzo, quindi fortunatamente mi fermai in tempo. «Uhm, niente. Mi chiedevo solo se volevi un passaggio.»
Per qualche istante susseguente, non si mosse di mezzo millimetro, tanto che mi domandai se avessi detto qualcosa di sbagliato. In seguito però la vidi scuotere la testa, accennando appena un sorriso.
«No, figurati, non ha importanza» declinò l’invito con apparente gentilezza, ma le mie paranoie mi portarono a domandarmi se, se la proposta le fosse venuta da qualsiasi altra persona, invece avrebbe accettato. «Non voglio disturbare.»
«La mia macchina è proprio lì, non sarebbe un problema» tentai nuovamente, accennando con il capo alla mia auto parcheggiata vicino al marciapiede. Lei portò gli occhi dove le avevo indicato, stringendosi di più nella giacca.
Parve essere sul punto di cedere, tanto che pensai avrebbe accettato. Però, quando riportò gli occhi su di me, scosse ancora il capo.
«Ho l’autobus fra cinque minuti» mi informò vagamente, stringendo le braccia al petto. «Grazie comunque.»
Accentuò un poco il suo sorriso, poi si voltò ancora e tornò ad attraversare il parcheggio, diretta probabilmente verso la fermata del suo autobus.
Sospirai sconsolato. Di certo non potevo aspettarmi che dopo un paio di chiacchiere lei si fidasse di me, però avevo comunque sperato in un miracolo.
Attraversai anche io il parcheggio per giungere alla mia auto, seguendo più o meno il suo stesso percorso poiché il punto in cui si stava dirigendo era il marciapiede davanti alla mia macchina. Sbloccai gli sportelli da lontano, utilizzando l’apposito telecomando e, una volta giunto al suo fianco, portai una mano alla maniglia per dischiuderla.
In quell’esatto istante, un lampo irruppe nella mia mente. Mi bloccai sul posto e sollevai gli occhi davanti a me, puntandoli in una direzione imprecisata.
Una certa adrenalina prese a scorrermi lungo le vene e avvertii il mio battito cardiaco accelerare percettibilmente, tanto da far appesantire il mio respiro. Il mio cuore parve essere impazzito e le dita delle mie mani presero a tremare.
Un attimo dopo, avvertii l’impulso di voltarmi verso la mia sinistra. I miei occhi si indirizzarono autonomamente verso un punto preciso, come se sapessero cosa cercassero a dispetto invece del mio cervello, e solo quando sbattei le palpebre delineai la figura di Helena.
Proprio come successe con l’istinto di girarmi, subito le mie dita si sfilarono meccanicamente dalla maniglia dello sportello per sfiorarlo appena giusto per sospingermi lontano. In un lampo mi ritrovai sul marciapiede, con la mente offuscata e confusa siccome non aveva idea di ciò che il mio impulso stava dettando al mio corpo di fare.
Un flash mi attraversò la mente, avvertii l’adrenalina quasi scoppiare nelle mie vene e percepii uno strano senso di allarme, come se mi trovassi in pericolo e presto qualcosa di disastroso sarebbe capitato.
Helena era sul ciglio della strada, di spalle a me e con il viso puntato verso la destra per verificare quale sarebbe stato il momento esatto per poter attraversare, siccome c’era parecchio traffico. Mosse un piede avanti e i suoi capelli le si scomposero davanti al volto a causa del vento forte che tirava.
In quell’esatto istante, i miei occhi si spostarono verso la sinistra, dove lei non aveva controllato perché probabilmente già aveva fatto precedentemente. Mezzo secondo prima il semaforo infondo alla strada era divenuto verde, concedendo alle macchine di superare l’incrocio, avanzando quindi in questa direzione.
Fu allora che, quasi al di fuori dal mio corpo, mi ritrovai a gettarmi verso il bordo della strada, eliminando la distanza fra me lei. 
Avvertii un clacson suonare prolungatamente, perforandomi le orecchie, e un istante dopo la mia mano si strinse attorno a qualcosa di caldo e morbido. Accentuò la presa e attirò impulsivamente indietro quanto aveva impugnato, finché non percepii qualcosa scontrarsi al mio petto.
I miei occhi erano puntati verso la strada, ma non erano in grado di vedere nulla a causa delle luci abbaglianti dei fanali. Il mio cuore batté freneticamente una decina di volte, prima che quel clacson si facesse più lontano e la mia vista tornasse ad identificare ogni altro diverso colore.
Il mio battito cardiaco si acquietò gradualmente e l’adrenalina defluì dalle mie vene, fino a far scorrere regolarmente il mio sangue.
Rimasi comunque fermo immobile, finché non avvertii qualcosa sussultare contro il mio petto.
Abbassai lo sguardo, riconoscendo una chioma di capelli castano chiaro sfiorare il mio mento. Successivamente, venne sostituita dal paio di occhi che si sollevò per incrociare i miei.
Helena mi stava fissando incredula e spaventata dalla sua altezza leggermente inferiore alla mia. Le sue palpebre erano spalancate e il suo respiro era affannato, mentre le sue dita erano artigliate al tessuto della mia maglietta.
Seppur fosse sconvolta, compresi che non lo fosse precisamente per ciò che aveva appena rischiato.
Io avevo come visto nella mia mente ciò che sarebbe potuto accadere, ma lei si era sentita solo trascinare indietro all’improvviso, prepotentemente strappata via dalla strada dalla mia mano.
Per questo era disorientata, e solo dopo aver avvertito il clacson e aver assimilato un paio di dettagli aveva compreso la situazione e come sarebbe invece potuta andare.
Ma fra i due, probabilmente, quello ad essere più spaventato ero io.
Non disse nulla, rimase solo immobile, con le sue iridi grigie puntate nelle mie.
Respirai un paio di volte, prima che lo smussamento dell’ambiente intorno a me sparisse e io tornassi pienamente in me, rendendomi conto che il resto del mondo stesse ugualmente continuando a scorrere come normale.
«Ti do un passaggio» dissi infine, e la mia voce suonò inspiegabilmente come un comando al quale lei non avrebbe potuto obbiettare.



 

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Woooho, che è successo a Justin? Sembra che qualcuno non l'abbia informato riguardo qualcosa.
E se non l'ha fatto, probabilmente un motivo ci sarà.
Ma ssh, non dico altro.
Okay, questo capitolo è più corto del solito. Però mi perdonate dai, siccome c'è dell'azione, vero?  :(
Vi ho anche impartito una lezione: mai attraversare la strada con i capelli sciolti (?) ... lol no

Come sempre grazie mille per le recensioni, spero di riceverne qualcuna anche qui.
Sono un po' di fretta perché sono stanchissima lol i'm sorry. Ma non importa perché oggi è stato un giorno stupendo adjajk
Voi come state? [non ve lo chiedo mai :(]

Bye! <3

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Capitolo 9
*** Capitolo nove. ***


Heaven-9

angel.jpg

 
 
9.

 

 

 

La strada scorreva veloce sotto le ruote della mia macchina e l’ambiente al di fuori dei finestrini ne stava al passo, immobile e silenzioso al nostro passaggio.
Cercavo di concentrarmi sulla guida ma la realtà era che ancora un residuo di adrenalina scorreva insieme al mio sangue, rendendomi difficile portare la mia completa attenzione sul percorso che stavo attraversando. Ma un incidente era appena stato scampato, non serviva che ora fossi io a causarne un altro.
Deglutii e portai una mano allo spiraglio dal quale fuoriusciva l’aria condizionata fresca, seppur fuori ci fossero a malapena dieci gradi. Avevo i palmi estremamente sudati e la sensazione non mi piaceva per nulla.
Giusto pochi secondi dopo la spensi, supponendo che se io ero in grado di sostenere le temperature esterne grazie alle mie condizioni privilegiate rispetto agli umani, per Helena non era lo stesso.
Le lanciai un’occhiata di sottecchi, trovandola intenta a guardarsi le punte delle scarpe ai piedi del sedile. Non aveva detto una parola da quando era salita in macchina –tranne il darmi una vaga indicazione su dove dovessi andare– ed io non l’avevo forzata, supponendo che dovesse riprendersi un poco dallo spavento che doveva essersi appena presa.
Non volevo pensare a ciò che sarebbe potuto accadere se il mio corpo non si fosse inspiegabilmente mosso da sé, tirandola via dalla strada prima che l’auto che stava venendo verso di lei avesse potuto colpirla. Ma ero un poco arrabbiato, perché il mio lavoro era quello di guardarle le spalle e cercare di individuare quale male l’avrebbe presto presa di mira, non quello di salvarle direttamente la vita.
Questo era compito di Mihael, dove diavolo era stato? Avrebbe potuto perderla se non ci fossi stato io.
Mi inumidii il labbro inferiore, rallentando un poco quando intravidi la scuola in lontananza.
Helena mi aveva precedentemente detto di dirigermi verso di essa e, una volta giunti lì, mi avrebbe spiegato come proseguire per giungere a casa sua. Immaginavo fosse perché non le andava di parlare poi più di tanto.
La mia ipotesi che fosse un tipo silenzioso o quantomeno timido era stata confermata quel giorno, in quelle poche quasi due ore che avevo trascorso con lei. Non che questo mi infastidisse o fosse in qualche modo in contrasto con il mio carattere, ma mi avrebbe reso solo le cose più difficili.
«Svolta a destra» avvertii la sua voce bisbigliare ad un tratto, e tanto ero perso fra i miei pensieri che esitai un attimo prima di premere più determinatamente il piede sull’acceleratore.
Dopo un paio di indicazioni, ci trovammo in un quartiere circondato da case per la maggior parte a due piani, tutte con la propria staccionata e la propria cassetta delle lettere ad un lato del vialetto. Notai che aveva avuto ragione quanto prima mi aveva detto che nei quartieri di periferia avrei trovato parecchio verde. Ogni casa aveva il suo cortile e diversi alberi fiancheggiavano la strada che stavamo percorrendo, lasciando che i rami la coprissero quasi interamente.
«Bel quartiere» commentai, in cerca di qualcosa da dire per spezzare il silenzio. E poi lo pensavo davvero.
«Sì, è anche abbastanza tranquillo» confermò lei.
Dopo qualche metro, mi fece segno di accostare al ciglio della strada; così feci.
Lanciai un’occhiata alla casa. A tre piani, era dipinta di grigio scuro con gli infissi bianchi. La parte inferiore era però lasciata volutamente in mattoni color terra, come il camino che sbucava al di sopra del tetto dalle tegole nere. Diversi cespugli la circondavano mentre un corto vialetto portava alla scalinata che giungeva sul portico dov’era l’entrata.
Era senza dubbio una bella casa, non il genere da persone esageratamente benestanti ma molto curata per essere una di quelle tipiche ordinarie abitazioni di periferia.
Cambiai la marcia per mettere l’auto in sosta e spostai gli occhi su di lei, che velocemente si era chinata per poter afferrare la borsa che aveva riposto ai suoi piedi. Quando ebbe fatto, si girò nella mia direzione ma parve essere imbarazzata all’idea di incrociare il mio sguardo.
«Grazie» bisbigliò appena e se non ci fosse stato un silenzio praticamente tombale, probabilmente non l’avrei nemmeno sentita.
«E per cosa? Tu mi hai aiutato a fare quella maledetta lavatrice, siamo pari» la rassicurai, sollevando appena le labbra in un sorriso.
Alzò gli occhi e, notando la mia espressione perlopiù rilassata, parve tranquillizzarsi un poco a sua volta.
«A dire il vero eravamo già pari» commentò poco dopo, però, quando si accorse di quella confusione a quanto pare palese sul mio viso, si affrettò a spiegarsi meglio. «Sai, in biblioteca, i libri... ricordi?»
Alle sue parole, compresi ciò che avesse voluto dire. Mi sorpresi nel notare che lo ricordasse perché onestamente, notando come si comportava con me e come attenta pareva essere quando ero nei dintorni, credevo di non averle dato l’idea che non fossi un tipo da temere. Voglio dire, avendola aiutata quel giorno, supponevo che avesse compreso che non avevo intenzione di darle alcuna sorta di problema, oltre al fatto che comunque non avrei avuto motivo di farlo.
«Cioè, forse non te lo ricordi...» bisbigliò in seguito, fraintendendo il mio silenzio.
«Sì, certo, lo ricordo» mi affrettai ad interromperla. «Eri quella montagna di libri con le gambe che aveva quasi rischiato di cadere, giusto?»
I suoi occhi volarono sul mio volto per verificare la mia espressione. Quando notò che stessi solo scherzando, senza alcuna ombra di vera presa in giro, si lasciò andare appena ad un sorriso.
Annuì leggermente, ridendo poi un poco. «Proprio quella.»
Pensai questo fosse il primo suono simile ad una risata che riuscii a strapparle. Il che poteva ritenersi una buona conquista, se si pensava che aveva appena rischiato un incidente. Oppure una assolutamente pessima, se si considerava che era da più di una settimana che cercavo di ottenere qualcosa di simile, o anche solo di rivolgerle la parola.
Portò la borsa sulle sue gambe, prossima a scendere.
«Ad ogni modo, intendevo grazie per... uhm, tutto. Insomma, per prima» aggiunse rapidamente, quasi come se le fosse impossibile buttare fuori quelle parole. Non insistetti, comprendendo ciò che intendesse.
Scossi appena le spalle, spostando la mano ancora posata sul volante.
Compresi che avesse voluto chiarire i suoi ringraziamenti ma, ad ogni modo, che non intendesse approfondire quanto accaduto, quindi non me la sentii di dire nulla che riconducesse a quell’episodio.
Portò una mano alla maniglia dell’auto, tirandola e aprendo in questo modo lo sportello. Si fermò all’ultimo, voltandosi un poco incerta. «La ricordi la strada per tornare indietro?»
Mi sorpresi del suo interessamento, ma mi ripresi in tempo per annuire. «Certo.»
Detto questo, scese dall’auto e si fermò affianco ad essa. 
«Ci si vede a scuola, quindi» mi salutò per la seconda volta della giornata, ma questa volta probabilmente sarebbe stata l’ultima per davvero. 
La salutai a mia volta, non insistendo oltre perché era ormai ora di cena e supponevo i suoi la stessero aspettando all’interno.
Chiuse lo sportello ed attesi qualche secondo prima di rimettere in moto l’auto. Lanciai uno sguardo alla sua figura che si stava avviando lungo il vialetto d’accesso, poi diedi un’occhiata allo specchietto retrovisore per vedere se stesse venendo da questa parte qualche macchina. La mia attenzione venne catturata da ciò che era posizionato sui sedili posteriori, che subito riconobbi come il sacchetto degli abiti puliti di Helena, che poco prima appena entrati in auto avevo messo dietro poiché fra i suoi piedi sarebbe risultato ingombrante.
Feci subito scendere il finestrino, sporgendomi poi un poco verso di esso.
«Helena!» la richiamai a gran voce per farmi sentire, visto che aveva ormai già messo un piede sul primo gradino che portava al portico.
Si arrestò di colpo e si voltò verso di me, con la fronte corrugata per la confusione. Le feci velocemente segno di tornare indietro, ritornando poi al mio posto siccome la schiena iniziava a farmi male.
Quando raggiunse il mio finestrino, le porsi il sacchetto. 
Lei arrossì all’istante e chiuse gli occhi, quasi come se si stesse prendendo qualche istante per maledirsi mentalmente. «Scusa, non so dove ho la testa. Grazie ancora» biascicò imbarazzata, incespicando nelle parole.
Le sorrisi in risposta e lei indietreggiò per tornare sui suoi passi, quando improvvisamente si bloccò e tornò a puntare lo sguardo all’interno della macchina. Le sue sopracciglia si aggrottarono, creando fra di esse qualche increspatura nella sua pelle.
Mi domandai cosa mai fosse successo, non muovendo un solo muscolo nell’attesa che lei si spiegasse.
«Aspetta...» disse d’un tratto, fermandosi poi a labbra dischiuse. Mi lanciò un’altra occhiata, quasi come se stesse cercando sul mio volto la risposta che le serviva, ma ovviamente non avrei potuto dargliela se nemmeno sapevo quale la sua domanda fosse. «Come lo sai?»
Assottigliai appena gli occhi, non comprendendo comunque ciò che intendesse.
Avete presente quei momenti in cui tutto quello che avete attorno vi sembra star scorrendo al contrario e anche solo il cadere di una foglia vi pare stia accadendo in modo sbagliato? Ecco, era come mi sentivo in quell’istante. 
Non capivo il motivo del suo sguardo inquisitorio né tantomeno la domanda che mi aveva appena rivolto.
«Che cosa?» mi azzardai a chiederle lentamente, temendo quasi di risultare stupido per non aver subito afferrato quello che stesse intendendo. 
Quella sua confusione quasi mischiata al disappunto crebbe. Dischiuse le labbra, ma impiegò qualche minuto prima di parlare. 
«Il mio nome» si spiegò, lasciando uscire quelle poche parole in un soffio.
Mi si raggelò il sangue nelle vene e probabilmente i miei occhi si spalancarono un poco, ma subito mi appurai di nascondere esteriormente quanto stavo provando all’interno. E oh, la mia anima era in trambusto e se qualcosa avrebbe mai dovuto raffigurarla, sarebbe probabilmente stata una tempesta. 
Perché non avevo pensato prima di parlare? Mi era sfuggito il suo nome dalle labbra per richiamare la sua attenzione, cosa piuttosto normale. Ma non se io teoricamente non avrei dovuto saperlo, perché a tutti gli effetti sarebbe dovuto essere così.
«Come lo sai? Io non te l’ho detto» continuò, ancora più disorientata di prima, iniziando a notare probabilmente qualcosa di strano in quel mio non proferire parola.
Dannazione. E ora cosa mi sarei inventato?

 

 

 



Rimasi a fissarlo per qualche istante, dopo avergli rivolto quella mia domanda.
Non avevo idea del perché avessi avvertito il bisogno di chiederglielo, ma effettivamente l’avevo trovato strano ed ora che gli avevo domandato spiegazioni, ero ancora più curiosa di sentire la sua risposta.
Come già detto, non ero la classica ragazza nota a tutta la scuola o per l’aspetto o per qualche vicenda in grado di suscitare interesse negli altri studenti. Quindi, era ben poco probabile che qualcuno gli avesse parlato di me o ancora meno che avesse sentito il mio nome uscire dalle bocca di qualche suo amico o compagno.
Non vedevo davvero come potesse sapere il mio nome.
«Io, ehm...» iniziò a parlare, ma si bloccò all’istante, mantenendo le labbra dischiuse come se fosse pronto ad aggiungere dell’altro, ma non fu così.
Che storia era questa? Non capivo se mi stesse prendendo in giro, ma non ne avrebbe avuto motivo, o almeno supponevo. Dimenticare come si era venuti a conoscere il nome di una persona non doveva essere facile. Era almeno possibile?
«Tu come sai il mio?» mi sentii domandare poi, di punto in bianco.
Ci impiegai qualche secondo per assimilare quanto mi aveva chiesto. Dopodiché, mi sentii colta in fallo senza un motivo preciso. 
Come faceva a sapere che ero a conoscenza del suo nome? Ero sicura di non averlo mai chiamato con esso da quando avevamo iniziato a parlare. In assoluto, ci avrei messo la mano sul fuoco. Però restava il fatto che avesse ragione. Sapevo il suo nome. 
Dai suoi occhi puntati con determinazione sul mio volto, mi accorsi che era anche piuttosto sicuro di quanto aveva appena sostenuto indirettamente.
«Perché tu sai il mio nome, non è così?» mi sollecitò, prendendo probabilmente il mio silenzio come una conferma che gli permise di acquistare maggiore sicurezza.
Deglutii e mi allontanai un poco dal finestrino, non sapendo cosa fosse meglio fare.
Se avessi detto la verità, ovvero che avesse ragione, non avevo idea di ciò che avrebbe pensato. Non volevo che credesse fossi una di quelle tante ragazze che a scuola sospiravano ogni volta che lui passava loro affianco. Ma alla fine cosa mi sarebbe importato? 
Primo fra tutto, lui in prima persona doveva essere consapevole di avere parecchio successo fra le ragazze o in generale di essere conosciuto in tutta la scuola, quindi probabilmente era stato proprio questo a fargli supporre che io fossi a conoscenza di come si chiamasse. E, in secondo luogo, non mi interessava l’idea che si sarebbe fatto di me, perché tanto con tutta la gente che gli girava attorno, già dal giorno dopo non si sarebbe ricordato di me o quanto meno non gli sarebbe importato di venire a parlarmi. Solo perché era stato gentile con me e aveva evitato che venissi messa sotto da un auto, non significava che io gli interessassi in qualsiasi sorta di maniera. 
Quindi, mi ritrovai ad annuire semplicemente. 
Lui distese appena le labbra in un sorriso, ma stranamente non apparve in alcun modo arrogante o presuntuoso come mi sarei aspettata da un qualsiasi bel ragazzo una volta che si sarebbe trovato davanti un’ennesima conferma della sua popolarità.
A dirla tutta, non avevo nemmeno mai sentito alcuna voce infamante sul suo conto –proveniente probabilmente da qualche maschio che si sentiva minacciato dalla sua presenza nella scuola– né avevo mai avvertito qualche ragazza lamentarsi dopo essere venuta a scoprire che lui ci avesse provato con qualcun’altra che sfortunatamente non era lei. Forse era semplicemente per il fatto che fosse arrivato da non più di una settimana, eppure avevo comunque qualche dubbio.
«A domani» sentii la sua voce dire infine, e poco dopo il finestrino venne tirato su fino a chiudersi totalmente, non dandomi così modo né di salutarlo, né di rivolgergli una qualsiasi altra domanda. Che, molto probabilmente, sarebbe stata un’altra inutile ricerca di spiegazioni.
Okay, mi aveva fatto comprendere che sapesse che io ero a conoscenza del suo nome... ma questo cosa centrava? Non aveva risposto alla mia domanda. Lui come sapeva il mio?
Strinsi nella mano il sacchetto con gli abiti puliti e mi affrettai ad entrare in casa, siccome faceva piuttosto freddo all’esterno. 
Non appena varcai la soglia, il viso di Adrianne spuntò da dietro l’angolo.
«Helly, pensavamo ti fossi persa!» mi accolse con i suoi classici modi esuberanti e sempre pieni di vita. «Per fortuna ho finito solo qualche attimo fa di preparare la cena.»
Avvertii un certo profumo provenire dalla sala da pranzo, ma inalandolo mi resi conto di non avere per nulla fame. Appesi il cappotto all’appendiabiti, poi riafferrai nella mano il sacchetto con i vestiti ancora bagnati per portarlo all’asciugatrice.
«Non ho fame, scusate. Buon appetito» declinai velocemente la cena, salendo poi velocemente le scale prima che potesse fare altre domande o peggio, arrivasse mio padre a domandarmi se ci fosse qualcosa che non andava. Si preoccupavano sempre per ogni minima cosa.
Quando terminai di sistemare le cose lavate alla lavanderia self-service, mi diressi nella mia stanza.
Una volta che la porta si chiuse alle mie spalle, mi ci appoggiai contro e avvertii immediatamente tutto ciò che avevo cercato di reprimere, riaffiorare prepotentemente.
Mi ripassarono attraverso la mente quegli istanti di panico che avevo vissuto quando, giusto meno di venti minuti prima, avevo rischiato uno spaventoso incidente. Non avevo idea da dove fosse spuntata quell’auto, perché ero sicura di aver controllato prima di mettere piede sulla strada per attraversare. 
Era stato tutto così veloce che nemmeno ricordavo cosa avessi pensato l’istante esatto in cui avevo avvertito il clacson insistente di quella macchina. A dirla tutta, ricordavo solamente quella presa prepotente che aveva agguantato il mio braccio e che mi aveva trascinata indietro, tirandomi via da dove probabilmente non mi sarei mossa altrimenti.
Era stata una fortuna avere Justin lì. Era stata un’estrema fortuna che lui si fosse accorto al posto mio del pericolo che stavo per correre. E, a proposito, come aveva fatto a rendersene conto lui quando io in prima persona non me ne ero accorta?
Solo ora pensai a questo e mi ritrovai a fremere. Non sapevo nulla di quel ragazzo se non il suo nome –come lui aveva appena constatato– eppure c’era qualcosa in lui... qualcosa che mi diceva che dovessi in assoluto sapere di più sul suo conto. Come se ne avessi il bisogno. Però, allo stesso tempo, questa sensazione mi disorientava fin tanto da spaventarmi. Non sarebbe dovuto essere così.
Se il giorno dopo l’avrei rivisto a scuola, ero sicura che mi sarei trovata in difficoltà davanti a lui. Una parte di me avrebbe voluto andargli incontro, ma l’altra con certezza avrebbe sentito l’urgenza di darsela a gambe.
Ma sapevo che quest’ultima reazione sarebbe stata scaturita da qualcosa di ben molto più profondo. Era solo che più scorreva il tempo, più i suoi modi di fare mi davano un senso di familiarità. Non che io l’avessi già conosciuto prima o qualcosa di simile... semplicemente mi ricordava una persona, e non doveva essere così.
Posai la borsa sulla scrivania, poi mi svestii per infilare velocemente il mio pigiama. Mi legai i capelli in una coda poco curata, poi mi infilai sotto il piumone caldo. Era stata una giornata parecchio faticosa e la stanchezza si era impadronita con facilità del mio corpo.
Cercai di abbandonarmi al sonno, ma tutto il trambusto avvenuto quel giorno non mi permise un poco di tranquillità nemmeno in quel silenzio totale.
La realtà era che non potevo far a meno che pensare costantemente a come Justin avesse scoperto il mio nome. E se non l’avessi incontrato alla lavanderia, che ne sarebbe stato di me in questo momento? Anziché nel mio letto, mi sarei trovata in una stanza d’ospedale? Forse, non avevo realizzato appieno quanto lui aveva fatto per me e quanto a dirla tutta sarei dovuta essergli grata.
C’era qualcosa di strano in tutta quella storia. Anche riguardo il perché lui sapesse il mio nome. Doveva esserlo venuto a sapere da qualcuno... ma era stato perché lui in prima persona se ne era interessato? Sarebbe mai stato possibile?
Stavo per richiudere gli occhi per cadere nel mondo dei sogni, quando vidi qualcosa brillare sulla scrivania sotto la luce della luna, ancora ai primi passi del suo cammino nel cielo. Assottigliai le palpebre, poi riconobbi il portachiavi che era legato alla cinghia della mia borsa. 
Il portachiavi dov’era sopra scritto il mio nome.
E in un attimo, avvertii una gelida ondata di tristezza cadermi addosso.
Ecco dove molto probabilmente Justin aveva letto il mio nome. Altro che informarsi sul mio conto, doveva essergli solo caduto lo sguardo su quella piccola targhetta. E tutta l’ultima parte misteriosa della conversazione prima che se ne andasse doveva essere stata solo un gioco divertente per lui. Ma infondo, di cosa mi sorprendevo? Era ovvio che non poteva esserci stato niente di meno banale dietro. Come se per una volta qualcosa si sarebbe potuto rivelare positivo e soprattutto interessante.
E non seppi se amareggiarmi maggiormente per questa constatazione o se, invece, farlo per come improvvisamente ricordai chi mi avesse regalato quel portachiavi il giorno del mio quindicesimo compleanno. 
Non volevo passare la notte fra le lacrime.








Una volta entrato nel mio appartamento, lasciai che la porta sbattesse alle mie spalle.
Mossi qualche passo nell’atrio, posando le chiavi di casa sul mobile affianco alla soglia. Ero leggermente inquieto ma, soprattutto, ero un poco infastidito per quanto era appena successo. Non per Helena e il suo voler sapere come sapessi il suo nome, era piuttosto comprensibile ed ero riuscito a scamparla abilmente, ma più che altro ancora per la storia del mancato incidente.
Portai una mano alla parete in cerca dell’interruttore e, quando accesi la luce, feci un balzo indietro.
Mihael era appoggiato allo schienale del divano e aveva il viso rivolto verso il soffitto, mentre soffiava contro una piuma per mantenerla sollevata nell’aria. Dalla forma e dal color bianco sgargiante, compresi non l’avesse ricavata da nessun cuscino o altro, bensì da una delle sue ali ora però invisibili.
Dopo lo spavento iniziale, fui felice di vederlo perché era proprio la persona che stavo cercando. Non che avrei mai potuto cercare nessun altro, siccome la cerchia dei miei ‘amici’ si restringeva ad un numero minore delle dita delle mie mani.
Gettai la giacca di pelle che neanche mi apparteneva sul divano, dando modo all’angelo di rendersi conto che fossi entrato in casa, anche se doveva avermi sentito di suo arrivare. Per questo probabilmente non si mosse di mezzo millimetro.
«Dove sei stato ultimamente?» gli domandai, non riuscendo a contenere quella leggera traccia di disappunto che sporcò il mio tono altrimenti normale.
«Uh?» mugugnò lui, portando la sua attenzione su di me, lasciando lievitare incontrollata la piuma che terminò poi con il posarsi sul pavimento. «Lassù, dove vuoi che sia stato?»
Dal suo modo di rispondere pareva che nemmeno fosse a conoscenza del pericolo che Helena aveva corso. Il che sarebbe stato pressoché assurdo. Lui era legato a lei quindi ogni sua emozione, soprattutto quelle spiacevoli, lui avrebbe dovuto avvertirle seppur in maniera lieve.
«Lo so perfettamente, perché Helena ha rischiato di farsi dal male e a tutti gli effetti così sarebbe stato, se non ci fossi stato io» gli svelai, lanciandogli uno sguardo accusatorio.
Lui aggrottò la fronte e si portò subito in piedi, scostandosi dal divano.
«Cosa vuoi dire? L’hai finalmente conosciuta?» mi domandò, confuso ma allo stesso tempo felice per questa sua ultima scoperta.
Effettivamente, non gli avevo ancora riferito che avevo finalmente fatto la sua conoscenza, ma ad ogni modo lui non avrebbe dovuto già saperlo? Pensavo che da lassù mi tenessero d’occhio e controllassero i miei movimenti. Certo, non sempre, ma almeno ogni tanto.
«Sì, l’ho conosciuta» dissi sbrigativamente, scacciando poi via la questione con un gesto della mano siccome non aveva importanza al momento. «E le ho anche evitato un incidente se vuoi proprio saperlo, siccome non c’eri tu a farlo. Dov’eri?!»
Siccome prima non ci aveva dato peso, realizzando praticamente solo ciò che aveva voluto lui, ora che tornai a ripeterglielo una sorta di paura gli velò il viso.
«Te l’ho detto, ero su. Ma non ho sentito nulla» si giustificò all’istante, con gli occhi un poco spaventati.
Come? «Cosa vorresti dire?» gli chiesi spiegazioni.
Era pressoché impossibile che lui non avesse avvertito il suo essere in pericolo.
«Quello che ho detto: non mi sono accorto di nulla» ripeté ancora, confermando quanto avevo capito. Si fermò e si portò una mano ai capelli, puntando lo sguardo nel vuoto mentre probabilmente si perdeva dietro una serie di suoi pensieri. «Non va bene questo, Justin.»
Lo sapevo perfettamente che non andava bene, e non servì nemmeno che lui esternasse le sue preoccupazioni per comprendere quali queste fossero. La supposizione più probabile era che qualsiasi cosa avrebbe presto cercato Helena, si stava facendo più vicina. Ed era perfino in grado di interferire nella relazione emotiva e sensoriale fra lei e il suo angelo custode, siccome Mihael non si era accorto di nulla. Questo era seriamente preoccupante.
Gli spiegai velocemente tutto ciò che era accaduto, in modo che potesse farsi un’idea più chiara della situazione.
«Ascolta, c’è qualcosa che non va. È meglio che torni su e ne parli con gli altri» ne venne fuori alla fine, chiaramente agitato e preoccupato. «Finché non se ne sa di più, vedi di starle il più vicino possibile.»
Non che prima non avessi dovuto farlo, ma compresi che questa volta intendesse che avrei dovuto fare davvero il possibile per essere il più possibile nei suoi paraggi. Se ancora fosse capitato che lui non avrebbe avvertito il pericolo che avrebbe potuto colpirla, quantomeno ci sarei stato io ad assicurarmi che le cose filassero lisce.
«Hai detto che l’hai accompagnata a casa, quindi sai dove abita, giusto?» mi domandò poco prima di lasciare la stanza, come se se ne fosse ricordato solo all’ultimo.
Annuii, non comprendendo cosa questo centrasse.
«Bene, allora sorvegliala anche la notte, è il momento della giornata che mi preoccupa di più» spiegò in seguito, con la voce leggermente spezzata per l’agitazione.
In un primo momento, mi soffermai solamente alla sua ultima parte del discorso. Sapevo cosa intendesse: la notte, quando la luce del Sole non illuminava la Terra, era quando era più facile per loro agire. Tutti, quando si faceva buio, divenivano un poco più fragili e deboli. Tutti a parte le persone ‘cattive’. Ma se così erano, non era propriamente merito loro. Permettevano solamente che loro avessero la meglio sulla loro anima.
In seguito però realizzai la prima parte del suo discorso. Sorvegliarla la notte... cosa voleva precisamente dire con questo?
«Come?» gli domandai spiegazioni, aggrottando la fronte.
Lui alzò gli occhi al cielo, poi mi lanciò uno sguardo d’ovvietà. «Hai capito perfettamente. Stai attento.» E detto questo scomparve dalla mia vista.
Rimasi immobile a guardare il punto dov’era stato fino ad un attimo prima, continuando a ripetermi le sue parole nella mente. 
Avevo capito che Helena era in pericolo, ma fino al punto che avrei dovuto farle la guardia perfino mentre dormiva? Non che sarebbe stato un problema per me, come già detto la stanchezza dovuta al sonno non l’avvertivo quindi potevo pure far passare giorni prima di percepire una fioca fatica generale e un lieve indebolimento dei miei sensi.
Però... addirittura giungere a questo? Vabbene, non avevo da lamentarmi. Ero qui per una ragione, quindi era meglio per me che svolgessi il mio compito nel miglior modo possibile. E se questo comportava sorvegliarla per minimo nove ore di fila mentre lei dormiva serenamente nel suo letto, allora così avrei fatto. Dopotutto volevo o no il mio avanzamento di grado? Allora dovevo guadagnarmelo.
Dirigendomi verso il bagno, mi sfilai la maglia per potermi fare una doccia rilassante prima di tornare nuovamente nel posto che avevo appena lasciato.
Mi ero anche dimenticato di ricordare a Mihael che stavo ancora aspettando degli abiti colorati.

 

 

 

 

 


________________________________________________________


Ditemi che non sono la sola che sta morendo dal caldo.
Io odio sudare. Okay, immagino per tutti sia così. Ma io lo odio particolarmente lol
Vabbé, siccome non intressa a nessuno, passiamo alla storia.

Sì, non so, non è che succeda molto, ma il fatto è che ora piano piano i due si devono conoscere, e non ho intenzione di farli diventare subito 'best friend forevah'  lol
Sarebbe troooppo scontato. E quello che cerco di fare, e rendere questa storia tutto il contrario. Spero di starci riuscendo );
C'è qualche problema fra Helena e il suo -seppur lei non sappia di averlo- angelo custode, ma tanto c'è Mr. Bieber che agisce come da sua ombra.
Ed ora deve anche farle da guardia del corpo di notte lol come deve essere diverteeente. #sarcasm
Ma Justin è carino e coccoloso quindi non si lamenta... perché l'ho deciso io lol
Poi, ha rischiato un infarto quando si è accorto di essersi lasciato sfuggire il nome di Helena, ma se l'è scampata piuttosto bene. Eeeh, sì: deve stare più attento.
E Helena ha dissipato ogni suo dubbio credendo che Justin l'abbia scoperto a causa del portachiavi della sua borsa. Il maledetto portachiavi che resuscita vecchi ricordi :(
Com'è fortunato, Bieber. Ma non sarà sempre così: ne combinerà delle altre lol
Ma ok, stop, non dico altro!

Grazie mille per chi occupa un po' del suo tempo a recensire, dico davvero: non avete idea di quanto mi faccia piacere leggere le vostre recensioni.
E lo so che lo dico sempre, ma ci tengo a ripeterlo e ricordarlo! 
Spero mi facciate sapere anche qua ciò che ne pensate, perché per me è davvero molto importante.

Per il resto: alla prossima! :)

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Capitolo 10
*** Capitolo dieci. ***


Heaven-10

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10.

 

 

 

Mi sistemai un’ultima volta i capelli, portando una ciocca sulla destra dietro l’orecchio per non ostruirmi la vista, ed entrai in cucina con le migliori intenzioni e il più alto grado di speranza.
Avevo passato gli ultimi giorni ad informarmi riguardo quel progetto con l’estero, quello a cui speravo di far parte e che avrebbe portato in casa mia uno studente dell’Inghilterra, ed ora tutto ciò che mancava perché potessi aderire, era il consenso dei miei genitori.
E temevo che non l’avrei ricevuto.
«Buongiorno» li salutai, schiarendomi la voce ancora assonnata per il sonno interrotto qualche decina di minuti prima.
Mio padre sollevò gli occhi dal giornale che quotidianamente leggeva ogni mattino mentre Adrianne, la sua compagna, distolse gli occhi da quanto stava cucinando per rivolgermi un radioso sorriso. Il suo pancione già sporgente toccava il limite del bancone ma lei lo proteggeva con un palmo della mano, come se volesse entrare in contatto con il bambino poco distante. Lì dentro c’era mio fratello –okay, il mio fratellastro, ma questa parola suonava così male– e ancora dovevo realizzarlo.
«Buongiorno, Helena. Cosa vuoi per colazione? Sto facendo i pancake!» esordì Adrianne, e i suoi occhi sprizzavano entusiasmo e vitalità già da ora, così di prima mattina. Si elettrizzava per tutto e per niente, quella donna. E un po’ la invidiavo, perché in tal maniera era sempre allegra.
«Niente, grazie. Devo uscire a momenti» declinai la sua offerta, con il tono più gentile che mi era possibile. Era abbastanza paranoica e anche solo una sfumatura di voce diversa le avrebbe fatto pensare che il motivo del mio rifiuto fosse perché non apprezzavo la sua cucina. Quindi, prima ancora che potesse pensarci, decisi di andare dritto a ciò che mi interessava. «Prima di andare però vorrei chiedervi una cosa...»
Avevo scelto di fare loro quella proposta il mattino perché, genericamente, era il momento della giornata in cui eravamo tutti più tranquilli.
Mio padre era il co-proprietario di un piccolo negozio in centro, gestito insieme ad un suo caro amico d’infanzia. Raggiungeva il luogo di lavoro più sul tardi, lasciando la mattinata al suo collega poiché questo, non avendo figli né una compagna incinta, non aveva altri impegni o pensieri per la testa.
Adrianne invece, dato il suo stato interessante, aveva lasciato il suo precedente impiego come segretaria in un centro estetico, siccome gli affari per papà andavano abbastanza bene da permetterglielo.
«Novità in vista?» si incuriosì papà, abbassando il giornale e dedicandomi la sua attenzione. «Dicci tutto, piccola.»
Inclinai un poco la testa a quel nomignolo che lui da sempre si rifiutava di abolire. Avevo diciassette anni ma per lui ero sempre la sua bambina. Mi trattava con la stessa premura e la stessa dolcezza che aveva usato in passato, nei miei primi anni. Non ne voleva sapere di accettare il fatto che fossi cresciuta.
Ad ogni modo, mi schiarii nuovamente la gola e mi avvicinai al tavolo circolare, posando poi i palmi sullo schienale della sedia più vicina.
«Ecco, a scuola ci sarebbe questo progetto con l’estero che prevedrebbe l’arrivo di qualche studente inglese dalla Gran Bretagna» iniziai ad esporre loro, giocherellando nervosamente con le mie stesse dita. «Servirebbe loro un alloggio, quindi... mi domandavo cosa ne avreste pensato riguardo l’ospitare uno di loro qui da noi.»
Riassunsi il più possibile la situazione perché sapevo che dilungare il tutto non avrebbe avuto senso. In qualsiasi modo glielo avrei esposto, avrebbero giudicato l’idea in ogni minimo particolare quindi anche se ci fosse stato qualche lato negativo che avrei voluto nascondere, loro l’avrebbero scovato. Anche se questo comportamento era più tipico di mio padre.
Adrianne terminò di rigirare un pancake nella padella e abbassò un poco il fuoco, voltandosi poi nella mia direzione per concentrarsi anche lei nella discussione.
«Beh... è un’idea grandiosa!» esclamò in seguito, con le iridi chiare illuminate da un bagliore d’entusiasmo. Rimasi sorpresa dalla sua risposta così immediata, ma mi risollevai nel notare fosse positiva. «Potrebbe parlarci del suo Paese, ho sempre sognato di visitare Londra. Potremmo...»
«Non sono sicuro sia una buona idea, Adrianne, considerando le tue condizioni» la interruppe immediatamente papà, lanciandole un’occhiata ferma. Ripiegò totalmente il giornale e lo appoggiò ad un lato del tavolo. «Sei al quinto mese, una persona in più a cui tenere bada potrebbe essere stancante per te.»
Dischiusi le labbra per obbiettare, ma successivamente le serrai nuovamente.
Non avevo pensato a questo, non avevo tenuto conto dello stato di Adrianne ed effettivamente ora che mio padre aveva esposto quella considerazione ammettevo che il tutto poteva divenire un poco più complicato.
Forse era meglio che non entrassero novità troppo scombussolanti nella nostra vita finché lei era in stato interessante, per il bene suo e del bambino. Nei mesi a seguire sarebbe stato più difficile per lei e tutto quello di cui avrebbe necessitato sarebbe stato serenità e riposo.
«Ma cosa dici! Sarà bello avere qualcuno in più che gira per casa, non c’è mai nessuno qui! Entrerebbe un po’ di vita fra queste quattro mura» ribatté Adrianne, gesticolando un poco come sempre esagitata, con i suoi ricci capelli castani che svolazzavano attorno al suo viso. Si voltò verso di me, sempre con quel sorriso raggiante sul volto. «È una bellissima idea, Helly. Io approvo!»
Helly. Lei e Blys erano le migliori ad affibbiare nomignoli, infatti non c’era da stupirsi se quando la mia migliore amica veniva a farmi visita, queste due si trovavano incredibilmente d’accordo su tutto. Sarebbero potute essere tranquillamente madre e figlia.
«Ne sei sicura? Papà dopotutto ha ragione e...» biascicai, ora meno convinta di prima.
Lei annuì vigorosamente. «Ma certo! Lo sai che tuo padre è sempre troppo premuroso e apprensivo.»
Voltandosi verso di lui, il suo sguardo cambiò totalmente. Gli lanciò un’occhiata truce, assottigliando le palpebre, come ad intimarlo di non obbiettare ulteriormente.
Ma ovviamente quest’ultimo non le diede bada. Come biasimarlo, Adrianne con fatica poteva intimorire qualcuno.
«Ne discuteremo più approfonditamente questa sera, Helena» giunse ad una conclusione, sogghignando un poco per quel tentativo mancato della sua compagna di ammonirlo. «Non contarci troppo, però.»
Gli angoli delle mie labbra si sollevarono per dipingere sul mio viso un sorriso raggiante.
Il suo discutere equivaleva sempre all’accettare, anche perché sapevo che Adrianne sarebbe stata dalla mia parte e sarebbe stata in grado di convincerlo. Era sempre stato così: lei era favorevole a qualcosa, mio padre ne dubitava, lei gli riempiva la testa di fattori positivi e alla fine lui, stremato, accettava.
Distaccai le mani dallo schienale della sedia ed indietreggiai per raggiungere la soglia della porta, per poter poi uscire di casa.
«Come preferisci» dissi, cercando di contenere il sollievo che ora mi scorreva dentro. «Vedrai, il nuovo componente della famiglia ti piacerà!»
Sentii ridacchiare entrambi, poco prima di chiudermi la porta di casa alle spalle.

Entrai velocemente nella mensa della scuola, anche se propriamente non avevo idea di ciò che avrei fatto al suo interno. Di mangiare non ne sentivo il bisogno, e di unirmi al tavolo di Alyssa e i suoi amici non ci pensavo nemmeno, ora che inoltre non ne avevo alcun motivo, siccome ero riuscito di mio ad avvicinarmi ad Helena.
Avevo passato l’intera nottata fuori da casa sua, proprio come Mihael mi aveva chiesto. In realtà, supponevo che lui avesse inteso proprio l’entrare in casa sua e sorvegliarla più da vicino, ma onestamente non me l’ero sentita di invadere in tal modo i suoi spazi.
Avevo parcheggiato l’auto nella via dove si trovava casa sua, un poco più indietro giusto per non dare troppo nell’occhio, e avevo trascorso più di otto ore a fissare distrattamente la porta e le finestre dell’abitazione, siccome non avevo idea di quale fosse la sua stanza. Per quanto sapessi fosse il mio compito, era stato parecchio noioso. Talmente tanto che avevo rischiato ancora di addormentarmi come nella lavanderia automatica, sebbene non ne avvertissi l’esigenza.
Però non era accaduto niente di strano o preoccupante, quindi quando alle prime luci del giorno avevo visto le tende di una finestra al piano di sopra scostarsi, avevo velocemente acceso il motore della mia auto ed ero tornato al mio appartamento, pronto a prepararmi anch’io per la mia giornata di scuola.
Fermandomi poco distante dalla fila di studenti che aspettava il proprio pranzo, mi gettai un’occhiata intorno senza neppure sapere chi propriamente stessi cercando. Notai qualche viso conosciuto, gente che frequentava qualche lezione con  me, poi riconobbi quello a me più familiare.
Quella mattina Helena era venuta a scuola. Ciò significava che nonostante lo spavento del giorno prima, quando aveva rischiato un bell’incidente, fortunatamente ero riuscito ad evitarle un pesante trauma ritirandola dalla strada prima che potesse venire profondamente segnata dalla paura.
Sollevai appena gli angoli delle labbra in un vago sorriso di sollievo e, forse, anche soddisfazione, guardandola mentre discuteva con le sue solite amiche di chissà cosa.
Alzò lo sguardo ed incontrò improvvisamente il mio. Ero sul punto di farle un veloce cenno con il capo in segno di saluto, quando mi sentii improvvisamente afferrare per un braccio.
Voltandomi, vidi la mano abbronzata che si era stretta intorno ad esso. Risalendo lungo il corpo di chi la possedeva, incontrai il viso perfettamente truccato di Alyssa, rivolto nella stessa direzione dove io avevo soffermato precedentemente lo sguardo. La differenza era che mentre io avevo avuto un’espressione serena sul volto, lei ne aveva una quasi... infastidita?, con le labbra rosse storpiate in una smorfia e le sopracciglia inarcate per il disappunto.
Subito dopo, si voltò verso di me e tutto questo scomparve dal suo viso, sul quale si stampò invece un largo sorriso.
«Ciao Justin, ti stavamo aspettando al nostro tavolo» mi informò rapidamente, con una voce bassa e strascicata che non vedevo perché dovesse utilizzare. Lanciai uno sguardo al loro classico tavolo dove mangiavano, notando che a dire il vero i ragazzi erano coinvolti in un’accesa discussione in cui io non sarei mai entrato a fare parte. Dubitavo che sentissero la mia mancanza. Soprattutto Tyler, quella sorta di suo ragazzo che mi guardava sempre storto quando lei mi si avvicinava. «Vieni?» continuò.
Senza aspettare una mia risposta, mi sollecitò a muovermi tirandomi per il braccio al quale si era ancorata, dirigendosi verso il sopracitato tavolo. Lanciai uno sguardo ad Helena, ricordandomi di essere stato sul punto di salutarla poco prima, ma ormai si era voltata ed era tornata a dedicarsi a quanto stavano dicendo le sue amiche, apparentemente attenta al discorso.
Sospirai e spostai vagamente l’attenzione sugli altri studenti. Vidi qualcuno di loro abbassare lo sguardo quando passammo noi, ma solo dopo mi accorsi che fosse a causa di Alyssa e delle occhiate intimidatorie che lanciava a qualche ragazza di tanto in tanto. Qual era il suo diavolo di problema?
Pensai ad un modo per disfarmi di quell’impiccio, non mi andava di trascorrere un'altra pausa pranzo in compagnia dei suoi amici, ma non mi venne in mente niente.
Quindi, fui costretto a sedermi accanto a lei quando si sedé leggiadramente sul suo posto sulla panca, tirandomi giù con lei con uno strattone del braccio.
«L’ho recuperato!» esordì allegramente Alyssa, parlando in terza persona di me mentre sistemava la sua borsa accanto a sé, dove sedeva il fantomatico Tyler che ovviamente non si risparmiò dal lanciarmi uno sguardo truce. Non reagii, non mi preoccupavo di lui.
«Giusto in tempo!» esclamò la sua amica che le girava sempre intorno, che pareva un po’ la sua copia sputata solo con i capelli biondi. Debbie mi sembrava si chiamasse. «I ragazzi stavano parlando di un problemino capitato nella squadra di football. Tyler, magari Justin potrebbe aiutarvi.»
Aggrottai la fronte in confusione, sapendo già che di qualsiasi cosa si sarebbe trattato, non mi sarebbe per nulla importato. Però, per cortesia, mi finsi comunque interessato. Mi voltai verso di lui, aspettando che mi spiegassero meglio.
«Sì, un ragazzo dei nostri si è fatto male durante l’ultima partita e ora abbiamo bisogno di qualcuno che lo rimpiazzi, perlomeno provvisoriamente» iniziò a raccontare vagamente, con un’espressione scocciata in volto come se l’avesse già fatto diverse volte prima e ripeterlo lo infastidisse. Dopodiché, inarcò un sopracciglio e mi squadrò con aria di sufficienza. «Ma non è niente che ti possa interessare. Considerando il tuo visino bianco e la tua aria innocente, non resisteresti mezzo minuto sul campo. È sport per ragazzi che valgono.»
Rise divertito dalla sua insinuazione e si girò in cerca di sostegno da parte dei suoi amici, che puntualmente ridacchiarono per sostenere il capo del loro gruppetto. Dal canto mio mi trattenni dal lasciare uscire a mia volta una risata, non perché trovassi divertente ciò che avesse detto, ma perché era così patetico. Avevo passato con lui giusto qualche decina di minuti, ma già avevo inquadrato che tipo fosse. Mi dispiaceva per lui, supponevo che dalla vita non avrebbe ottenuto niente.
Alyssa lo fulminò con lo sguardo, richiamandolo in un sibilo sommesso.
Quello la guardò storto, riprendendo a parlare. «Cosa c’è? Guardalo. Scommetto che è canadese o ha origini da quelle parti. Quelli sono solo bravi ad inseguire un dischetto con una mazza da hockey, pattinando come delle ballerine. Se questo si chiama essere maschi...»
E ancora i suoi amici scoppiarono a ridere, sebbene io non ci trovassi niente di poi tanto divertente.
Ma ancora me ne stetti in silenzio, portando il labbro inferiore dentro la bocca per trattenere un’ennesima risata. Scommettevo che ‘sul campo’– come aveva detto lui– non appena osavano toccarlo, questo si buttava a terra e piagnucolava come una bambina. Se questo si chiama essere maschi...
Alyssa sospirò pesantemente e strinse i denti, evidentemente infastidita del comportamento del suo fidanzato o ciò che lui era. Ancora dovevo capirlo. Mi lanciò uno sguardo e mi sorrise appena, forse credendo che ne fossi rimasto dispiaciuto, quando in realtà non era così. Più che altro lei avrebbe dovuto esserlo, considerando l’esemplare di ragazzo con la quale stava insieme.
Spostando lo sguardo altrove, notai che al tavolo di Helena lei e le sue amiche stavano risistemando quanto avevano utilizzato per il pranzo, probabilmente prossime ad uscire dalla mensa per prepararsi all’imminente lezione.
Voltandomi velocemente verso la mia ‘compagnia’, lanciai una rapida occhiata a tutti, prima di soffermarmi su Tyler. «Hai ragione, non è cosa da me» ammisi senza troppi problemi, sebbene sapessi che, grazie alle capacità che mi conferiva il mio essere un ‘non umano’, avrei facilmente potuto stracciarlo senza un esagerato sforzo. «Ora se mi scusate, avrei dell’altro da fare.»
Mi alzai velocemente dalla panca, poi la scavalcai per uscire da quel tavolo.
Avvertii lo sguardo dell’intera combriccola addosso, poi alcune risate maschili quando Tyler commentò quella che per  lui era un’abile fuga per sfuggire all’imbarazzo. Alzai gli occhi al cielo alle sue parole e lasciai che fosse Alyssa a prendersela con lui, sicuro che questa volta per davvero non sarei più tornato a quello squallido tavolo.
Riportando l’attenzione sulla ragazza castana di cui precedentemente mi ero interessato, la notai gettare una cartaccia in un cestino poco distante.
Presumevo che se mi fossi avvicinato a lei mostrandomi interessato alla sua salute dopo ciò che era accaduto il giorno prima, non sarebbe stato strano, no? Perché fu proprio ciò che feci.




Sedute al solito tavolo, avevo raccontato a Blythe e ad Audrey quanto successo quella mattina. Visto che non seguivamo tutte gli stessi corsi, esclusi quelli obbligatori e basilari, il momento del pranzo era l’unico dove eravamo tutte insieme. Lo utilizzavamo sempre per aggiornarci su quanto ci era successo ultimamente.
Ovviamente, Audrey aveva storto il naso quando avevo detto loro che molto probabilmente mio padre avrebbe accettato e che quindi, di conseguenza, avrei potuto aderire a quel progetto. Non mi offesi né altro, era sempre stata un tipo scettico e testardo quindi ci ero abituata.
Blys invece si era espressa positivamente. Pensava che fosse carino fare amicizia in questo modo ma mi aveva fatto promettere che non le avrei snobbate per concentrarmi troppo su quel progetto.
L’avevo rassicurata, anche se non sapevo precisamente come sarebbe stato. Mancava poco allo scadere delle adesioni, poi dopo un paio di settimane sarebbero già arrivati gli studenti inglesi, in modo da averli qui già agli inizi di marzo. Ovviamente avrei fatto di tutto per far sentire a suo agio l'ipotetica ragazza che avrei ospitato. Sì, perché sarebbe stata una lei. O almeno speravo. Ospitare un ragazzo sarebbe stato imbarazzante e onestamente non pensavo mio padre avrebbe mai accettato.
Dopo aver assistito al completo disinteressamento di Audrey (che era sempre meglio dei suoi commentini puntigliosi) avevamo preso a parlare di altro. Successivamente, quasi al suonare della campanella, ci eravamo alzate per dirigerci ai nostri armadietti. Dovevo anche fare una veloce fermata al bagno, la stavo trattenendo da stamattina.
Proprio quando stavo per voltarmi e tornare dalle mie amiche, rimasta un poco più indietro impegnata a gettare una cartaccia nei rifiuti, mi ero sentita sfiorare il polso e quando mi ero voltata ero immediatamente sobbalzata.
Non che la persona che mi ritrovai davanti avesse un aspetto orribilmente spaventoso, tutt’altro, ma averlo così all’improvviso ad una vicinanza tale mi fece istintivamente sussultare.
Subito fece un passo indietro, probabilmente non si era aspettato quella mia reazione o ancora più propriamente che mi girassi così inaspettatamente.
«Scusa» biasciò, ma un sorrisetto sorse spontaneo sulle sue labbra, facendomi capire che non fosse così estremamente dispiaciuto dell’infarto che mi aveva fatto prendere. Non me la presi; gli sorrisi vagamente in risposta e scossi la testa per intimarlo a lasciar perdere, scostando la mano dal mio cuore dove era andata a posarsi.
«Come stai?» mi domandò in seguito, e anche se non lo disse propriamente a parole, compresi si stesse in parte anche riferendo al mancato incidente del giorno prima. Era venuto fino da me perché interessato della mia salute? Me ne stupii. Quando il giorno prima avevo detto che con molta probabilità difficilmente mi avrebbe ancora rivolto parola, lo pensavo per davvero.
Anche se poco prima era parso intenzionato a salutarmi, poco distante dall’entrata della mensa, ma Alyssa era subito capitata al suo fianco distraendolo quindi probabilmente avevo pure potuto aver frainteso il suo mezzo gesto. O magari era indirizzato a qualcun altro.
«Tutto bene, certamente più tranquilla di ieri» ammisi senza problemi, portandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, sentendomi leggermente a disagio sotto il suo attento sguardo. «Tu?» domandai per cortesia.
Non avevo idea se fossi io quella a farmi problemi, o se invece fossero i suoi occhi a rendermi inquieta. Non avevo dedicato loro una vera e propria attenzione prima, ma ora che lo avevo più vicino, notai il color miele delle sue iridi e ancora meglio quelle leggere pagliuzze dorate che adornavano le sue iridi, rendendo il suo sguardo ancora più intenso e... attraente? Scossi la testa, a cosa stavo pensando? Aveva solamente dei begl’occhi, nulla di più.
Guardando distrattamente oltre la sua spalla, notai le mie amiche in piedi accanto ad una delle porte d’uscita. Immediatamente, fui come colpita dalla realizzazione: non avevo raccontato loro ciò che era successo il giorno prima, quindi il fatto che improvvisamente mi parlasse come se fossimo amici doveva confonderle e non poco.
Difatti, mentre Blythe aveva un enorme punto di domanda stampato in faccia, Audrey aveva gli occhi sgranati e la mandibola che ormai toccava terra.
Ci aveva riempito la testa con fatti su Justin per tutta la durata del pranzo, quindi vederlo all’improvviso accanto a me e vedere come io gli parlassi come se non fosse nulla doveva essere disorientate per lei da comprendere e assimilare.
Sentendomi improvvisamente più nervosa, mi voltai verso di Justin per non dare bada ai loro sguardi. Sapevo che Audrey mi avrebbe fatto il terzo grado non appena lui se ne sarebbe andato. Probabilmente mi sarei pure presa parole perché non le avevo raccontato prima di quanto successo. O peggio, chissà quali pensieri si poteva essere fatta.
«Tutto apposto. Sono sollevato nel sentirti dire che stai bene, temevo ti fosse sorto qualche trauma» continuò la persona che non era altresì che la causa della probabile successiva sfuriata di Audrey. Come mai era sempre così gentile? Non poteva essere solo una maschera. Possibile che esistessero ancora ragazzi simili sul pianeta Terra?
Scossi comunque il capo per negare, non capendo se avessi fretta di terminare quella conversazione per attenuare la rabbia di Audrey, o se volessi invece che continuasse così da evitare il più a lungo di rivolgerle la parola.
«Vuoi che ti accompagni in classe?» propose tutto d’un tratto, e immediatamente la mia attenzione passò dalla volto pietrificato della mia amica dai capelli corvini, a quello sereno del ragazzo.
Forse si mostrava così carino con me perché temeva che davvero avessi avuto una qualche sorta di trauma per il mancato incidente della sera precedente. Forse era solo più costretta preoccupazione che una per davvero sentita. Non sapevo cosa pensare.
«A dire la verità stavo andando al bagno» mi ritrovai a correggerlo senza neppure sapere perché. Era che la mia mente era colma di differenti pensieri e preoccupazioni e nemmeno stavo controllando ciò che la mia lingua diceva.
«Oh, ehm...» biascicò lui allora, e la sua espressione sorridente cadde per lasciare posto ad una già più imbarazzata. Perché diavolo me ne ero uscita con quella risposta? Avevo trattenuto la pipì per sei ore, un’altra ora non avrebbe fatto differenza. «Vuoi allora che, ehm... ti accompagni fino lì?»
Portò una mano alla nuca per massaggiarla nervosamente sotto le sue dita, mentre la sua fronte si era corrugata un poco.
Presi un respiro, non sapendo cosa fosse meglio fare. Audrey probabilmente mi avrebbe ucciso se le fossi passata oltre affianco al ragazzo che pareva interessarle tanto, ma Justin si stava dimostrando così carino con me che non potevo ancora una volta comportarmi scortesemente nei suoi confronti. Mi sarebbe dispiaciuto.
Mi morsi il labbro inferiore esitante e, quando il suo sguardo incontrò ancora il mio, annuii debolmente.
Okay, avrei spiegato poi tutto ad Audrey e mi sarei evitata la morte. Le avrei detto poi che glielo avrei presentato così, in tal  modo, avrebbe avuto un’opportunità di ottenere quanto voleva. Non ero sicura che avrebbe funzionato, ma era sempre qualcosa.
Justin abbozzò ora un sorriso e si voltò per metà, facendo un cenno con la mano in direzione della porta a doppie ante dove erano le mie amiche, forse per domandarmi se era quella la direzione verso la quale dovessimo dirigerci.
Ancora una volta, annuii vagamente e lasciai che si incamminasse prima lui, standogli dietro di qualche passo. Raggiunse la porta e si ritrovò parecchio interdetto nel vedersi quelle due ragazze impalate in piedi con due sguardi increduli in viso, neanche avessero visto un fantasma. Probabilmente decise di non farci caso –era forse che non erano le prime a guardarlo così?– e spinse un’anta della porta, con la fronte leggermente aggrottata.
Gli fui subito dietro e, prima di varcare la porta, inviai uno sguardo implorante in direzione di Audrey. Pregando che avesse la decenza di non sbraitarmi dietro mentre lui ci era così vicino, le mimai con le labbra un rapido ‘ti spiego dopo’.
Lo sguardo truce che mi inviò in risposta non mi rassicurò molto, anzi, tutt’altro.
Ma cosa potevo farci io se le piaceva il ragazzo che il giorno prima mi aveva praticamente salvato la pelle?

 

 

 

 

 


 
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Posso assolutamente spiegarvi il perché del mio immenso ritardo. Cioè, sono passate 2 settimane e non ho idea se sia poi così immenso, ma vabbé mi spiego lo stesso lol
Il fatto è che ho iniziato a tradurre una storia americana, aka 'Locked Up', e oltre a questa aiuto a tradurre anche 'BRONX', insieme ad un'amica. Così facendo, ovviamente il mio tempo diminuisce notevolmente.
Prima di continuare questa storia avevo intenzione di mettermi in pari con la traduzione di Locked Up, però poi ho aperto Word per buttare almeno giù il capitolo seguente di questa e quello che ne è uscito è ciò che vedete quassù (?)
È venuto fuori di getto, non l'ho propriamente programmato quindi non so come sia. Ho pensato solamente che magari era il caso di aggiornare ugualmente, per vedere quanto questa ff possa ancora continuare ad interessare.
Ho scritto un pezzo anche del prossimo [sì tutto oggi lol ma ero come ispirata e ne ho approfittato] e niente, so ciò che voglio far accadere ma come sempre ripeto che non voglio che sia troppo svelto, però non ho idea se questo fattore lo troviate noioso o meno. Non so, io calcolo tutto a seconda delle visualizzazioni e delle recensioni, tenendo conto di ciò che mi dite. Alcune già mi hanno espresso che non è un problema, se mai decideste di lasciarmi un parere mi fareste sapere? Ve ne sarie infinitaente grata :)

Detto questo, Bieber sembra improvvisamente essersi reso conto di quanto cretini siano gli amici di Alyssa, ma onestamente anche Alyssa stessa. Yuppy yuh lol [E questo razzismo verso i canadesi? Pft, solo perché sono bianchi (?) lol]
Poi, cerca di avvicinarsi sempre di più ad Helena, che ora si ritrova un'Audrey parecchio confusa e arrabbiata contro. Mmmh, cosa ne pensate di quest'ultima? Potrebbe sembrare antipatica e rompiscatole ma non lo è poi più di tanto, daaai.
Come ultima cosa: Helena ha avuto il consenso dei genitori riguardo il progetto di intercambio. Chissà chi le capiterà come compagno, o più propriamente chi anche solo arriverà dall'Inghilterra (;
Vabbé lascio a voi alle supposizioni, mi piace vedere come le vostre testoline macinano per collegare ogni particolare lol

Ci si sente, bellissime! E come sempre grazie mille a chi legge e chi recensisce, byeee. <3

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