Our little secret.

di _Wild_Heart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno. ***
Capitolo 2: *** Capitolo due. ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre. ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro. ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque. ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei. ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette. ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto. ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove. ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci. ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici. ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici. ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici. ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici. ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindici. ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedici. ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassette. ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciotto. ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciannove. ***
Capitolo 20: *** Capitolo venti. ***
Capitolo 21: *** Capitolo ventuno. ***
Capitolo 22: *** Capitolo ventidue. ***
Capitolo 23: *** Capitolo ventitre. ***
Capitolo 24: *** Capitolo ventiquattro. ***
Capitolo 25: *** Capitolo venticinque. ***
Capitolo 26: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno. ***


Capitolo uno.

L'ora di educazione fisica sarebbe stata la sua salvezza. Quando il coach Ker entrò in classe, Connor mise a punto il suo piano diabolico. La giornata era stata pienissima e il pensiero che mancassero solo due ore alla sua conclusione lo fece sorridere. Quando inarcò le labbra e scoprì i denti senza un apparente motivo, il suo compagno di banco alzò gli occhi al cielo con fare teatrale. Il coach Ker aveva la meravigliosa abitudine di non fare mai l'appello. Unico punto a suo favore visto che torturava ogni settimana i suoi studenti con uno sport differente. Il professore adorava rivivere le sue vecchie glorie di atleta facendo cimentare i poveri studenti negli sport che aveva amato da giovane. A vederlo ora non aveva affatto l'aria di un grande atleta. Aveva da poco superato la cinquantina e i suoi addominali scolpiti avevano lasciato il posto ad una prominente pancetta che lo faceva apparire quasi tenero. Passava tutte le ore di lezione a leggere il giornale, ma aveva la strana capacità di sentire quando i suoi alunni smettevano di muoversi. Allora loro sbuffavano, mandavano qualche imprecazione a bassa voce e si sottoponevano di nuovo alla tortura. Connor avrebbe dato tutti i suoi risparmi e perfino la sua montagna di capelli che tutti adoravano al costo di poter evitare quelle due fatidiche ore settimanali.
Ma oggi avrebbe compiuto l'impresa del secolo. Aveva avuto solo una settimana per scrivere un tema che ovviamente non aveva svolto. L'ora successiva quel tema avrebbe dovuto assolutamente trovarsi sulla cattedra della fastidiosa e munita-di-odioso-profumo professoressa di lettere. Aveva deciso di nascondersi durante la lezione del coach Ker e buttare giù qualche paragrafo decente. Il posto migliore era lo spogliatoio delle ragazze. Era comunicante con la palestra mentre quello dei ragazzi si trovava in un edificio a parte. I poveri ragazzi erano infatti costretti ad attraversare il cortile per arrivare a lezione. L'uniforme della scuola che utilizzavano per ginnastica era la stessa sia in inverno sia in estate e consisteva in pantaloncini e t-shirt. Perciò spesso erano costretti ad affrontare la traversata del cortile con pessime condizioni atmosferiche indossando vestiti estivi. Qualche volta quando pioveva si riparavano con un mucchio di vecchi annuari che erano sempre stati accatastati in un angolo dello spogliatoio e che i gentili ragazzi ormai diplomati avevano loro lasciato in eredità appositamente per quello scopo. Così non sarebbe stata una buona idea rifugiarsi nello spogliatoio dei ragazzi, era troppo scontato.
Perciò decise di utilizzare quello delle ragazze. Nessuno lo avrebbe mai cercato lì, tanto meno il coach.
La rauca voce da fumatore accanito del coach lo distolse dai suoi piani.
“Allora ragazzi oggi vi cimenterete nella meravigliosa arte della pallavolo”.
“Ma professore- interruppe Sean, un ragazzo tutto muscoli e niente cervello- oggi aveva promesso di farci giocare a football”.
“Caro Sean alzati per favore. Avvicinati alla finestra e guarda fuori” disse il coach irritato.
Sean si avvicinò alla finestra. Non riuscì a vedere niente a causa dello strato di condensa che si era formato e che appannava tutto il vetro. Così utilizzò la sua felpa per ripulire uno spazietto sulla finestra e vide che il campo da football era stato coperto da una distesa di acqua.
“Ok coach. Afferrato. Il campo sarebbe utile soltanto per esercitarci nello stile libero in questo stato”.
“E bravo il mio Sean che ogni tanto usa la testa nel modo giusto”.
“Grazie coach Ker.”
Sean non notò neanche la nota ironica nella voce del professore. Detto ciò si avviarono alla volta della palestra. Connor raccolse dal suo zaino il suo blocco e una penna e li infilò al sicuro sotto la sua felpa. Il suo compagno di banco gli chiese spiegazioni e Connor dovette rivelare il suo piano. Sembrava dovesse portare a termine una missione della CIA piuttosto che scrivere uno stupido tema. I ragazzi si riversarono in corridoio e una volta all'aperto si scatenarono come una mandria di bufali inferociti. Un qualsiasi spettatore si sarebbe trovato davanti lo spettacolo di venti ragazzi che correvano sotto la pioggia in cerca di un qualsiasi riparo. I ragazzi al pari delle ragazze cercavano disperatamente di proteggere le loro acconciature. Connor si limitò a tirare su il cappuccio della felpa e a sorridere davanti a quella scena. Entrò con gli altri ragazzi che dovevano cambiarsi, si chiuse in un gabinetto senza farsi notare e aspettò. Entrò in palestra con l'ultimo gruppo, si assicurò che le ragazze fossero già tutte fuori e si chiuse nel loro spogliatoio. Giusto per precauzione si sedette a terra dietro la fila di armadietti in modo da accorgersi se qualcuno fosse entrato dalla porta.
Iniziò immediatamente a scrivere. Anche se non svolgeva i compiti questo non significava che non fosse dotato di un'intelligenza leggermente sopra la media. Era totalmente perso nei suoi pensieri quando sentì qualcuno aprire la porta. Allora si alzò di scatto e corse verso lo stanzino delle scope. Vi entrò correndo e una volta all'interno inciampò e cadde sopra qualcosa. O meglio qualcuno. Non era stato l'unico a saltare l'ora di ginnastica. Si ritrovò a terra con la gamba dolorante faccia a faccia con una ragazza. Lei appena aveva visto quel ragazzo lanciarglisi contro aveva gridato. E non un semplice grido. Qualcosa di simile al fischio di una locomotiva a vapore.
Emily non poteva credere ai suoi occhi. Aveva saltato le lezioni di educazione fisica da almeno un mese e non le era mai capitato niente. Quella giornata era iniziata con il piede sbagliato. Il suo ragazzo si era svegliato tardi e perciò aveva perso il bus. Così lei aveva dovuto aspettare in fermata tutta sola sotto la pioggia. In classe si era trovata sul banco un test a sorpresa di matematica. E come se non bastasse il coach voleva torturarla ancora. Perciò aveva deciso di continuare con la tradizione e passare quella penultima ora chiusa nello stanzino a leggere. Nessuno si accorgeva mai della sua assenza e quei pochi che la notavano erano troppo occupati a sudare per poter pensare a denunciarla. Quando vide la porta spalancarsi temette il peggio.
Cosa avrebbero detto gli altri? Una delle più valenti studentesse trovata a marinare le lezioni. Avrebbe macchiato la sua immacolata fedina penale. Poi quel ragazzo era inciampato sulle sue gambe e Emily nel giro di un secondo si trovò schiacciata dal suo peso. Allora aveva gridato con tutto il fiato che aveva in gola. Un po' per la sorpresa, un po' per lo spavento. Diciamo che l'atmosfera del libro che stava leggendo non era proprio tranquilla, infatti la protagonista stava vagando per un bosco e Emily era così persa nella storia che il suo cuore sobbalzò nel suo petto alla vista dello sconosciuto. Ma in realtà, notò subito dopo, quello non era affatto uno sconosciuto. Era Ball. Il suo compagno di classe. Non le era mai andato a genio perché era quel tipo di ragazzo che riusciva a cavarsela a scuola senza alzare un dito. Ora aveva un motivo in più per odiarlo.
Connor era a dir poco sorpreso. Cosa diavolo ci faceva quella ragazza nello stanzino? Impiegò meno di un secondo a riconoscerla. Doveva cadere proprio sopra la so-tutto-io della classe?! Cercò invano di farla tacere e lei come risposta iniziò a colpirlo con i suoi minuscoli pugni sulla testa. Sembrava uno scoiattolo inferocito. Connor non riusciva a capire come facesse Emily a gridare così tanto senza rimanere senza fiato. Emily non si fidava di quel ragazzo e aveva temuto un'aggressione alla quale aveva risposto con l'unica tattica di difesa che era in grado di attuare.
Poi la porta si aprì di nuovo e si ritrovarono davanti alla possente figura del coach Ker.
“Cosa diamine sta succedendo qui? Ball, Scott separatevi immediatamente!”
Emily si ricompose in un istante e Connor scattò in piedi.
“Coach non è quello che pensa!”gridarono all'unisono.
“Veramente? Qui io vedo due studenti che invece di partecipare alla lezione stanno chiusi in uno stanzino in atteggiamento intimo. Cosa dovrei pensare?”
“Coach non eravamo affatto in atteggiamento intimo. Anzi ci odiamo. Lui mi è caduto addosso!”
“Sei tu che mi hai fatto inciampare e che mi ha picchiato!”
“Cosa ci facevi tu nel mio nascondiglio?”
“Non credevo fosse tuo! A me sembra un comune stanzino!”
“Io vengo qui da un mese. Direi che ho qualche diritto di stare qui!”
“Io cercavo solo un posto per finire il mio tema!”
“Bene bene. Direi che potrete conoscervi meglio e risolvere le vostre divergenze oggi pomeriggio in punizione miei cari.”


Note dell'autore*:
l'idea per questa storia è nata in un calmo ma ventoso pomeriggio estivo, mentre noi guardavamo per l'ennesima volta i 49 video dei The Vamps. Dico noi perché siamo in due e ci stiamo spalleggiando nel difficile compito di rendere questa storia piacevole a voi lettori. speriamo che vi piaccia.
Un saluto e un bacio. xx

*N.B. successivamente il titolo verrà sostituito con "autrici".

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Capitolo 2
*** Capitolo due. ***


Capitolo due.

Amanda fronteggiò la porta d’ingresso della casa dei Simpson. Susan l’aveva avvertita dieci minuti prima, chiedendole se avesse potuto fare da baby-sitter a sua figlia più piccola. Subito dopo aver finito la cena era uscita di casa e in quel preciso momento si ritrovava a bussare sulla grande porta di legno dell’entrata. I passi di Susan riecheggiavano oltre la porta, mentre Amanda immaginava la sua magra figura che correva oltre la porta indaffarata nella ricerca delle chiavi dell’auto. La porta si aprì di scatto e Amanda indietreggiò spaventata, quando gli occhi spalancati di Susan si posarono su di lei. Velocemente la donna le mise una mano dietro la schiena e la trascinò in casa, sbattendo la grande porta dietro di se’. Amanda stette ancora qualche secondo a guardare Susan correre da un angolo all’altro del soggiorno, infilandosi le eleganti scarpe con il tacco tra un passo e l’altro. Lizzie, sua figlia, se ne stava seduta sul divano con i piedi appoggiati sul tavolino davanti la tv, a guardare uno di quei stupidi telefilm da adolescenti.
Lizzie aveva dieci anni e, avendo una mamma sempre impegnata con il lavoro, spesso Amanda doveva badare a lei, data la regolare assenza di suo fratello maggiore. Amanda percepì la presenza della bambina, notando i suoi capelli scuri e folti oltre lo schienale del divano. L’urgenza con la quale Susan l’aveva convocata a casa era stata una delle prime cose a fra preoccupare Amanda; la ragazza si prestava sempre a questo genere di favori, in quanto conoscente di quella famiglia da quando era una bambina. Di fatto Susan non esitava mai a chiamarla quando le serviva una mano con la bambina e suo figlio maggiore non era in casa.
“Mi dispiace di averti chiamato così all’improvviso, Amanda.” La donna apparì dalla cucina, tenendo una grossa borsa sotto braccio. I suoi capelli rosso fuoco sventolavano da una parte all’altra della sua testa, ogni qualvolta il suo corpo compieva ogni minimo movimento. “Hanno chiamato dall’ospedale, e hanno bisogno di un’infermiera di turno per la notte.” Continuò.
Amanda, che fino a quel momento era stata distratta dallo sciocco programma televisivo che tanto aveva attirato l’attenzione di Lizzie, ora la guardava con occhi sbarrati, confusa dal repentino cambiamento d’aspetto di Susan. Questa al momento indossava un completo nero, con una giacca che copriva una camicia di raso azzurra. Amanda annuì comprensiva, consapevole dell’effettivo bisogno della donna in quel momento. Susan era di nuovo scomparsa dietro il muro della cucina e Amanda poteva sentire la donna frugare nella dispensa e nel frigorifero alla ricerca di qualcosa di pronto da portare con se’.
“Brad dovrebbe essere a casa fra meno di un’ora!” esordì prendendo un pesante e rumoroso mazzo di chiavi dal porta oggetti del soggiorno. Amanda sembrò stupita a quell’affermazione. Se c’era una cosa che in quel momento volesse di meno, quella era vedere Brad. Non che quel ragazzo la mettesse in soggezione, o in imbarazzo; era solo che Amanda provava una specie di odio generale per il genere maschile. Non poteva definirsi esattamente odio, solamente non era affatto a suo agio con i ragazzi e il fatto che quella sera si sarebbe dovuta ritrovare nella stessa casa di Brad le faceva saltare i nervi. Prese un bel respiro e si sedette sul divano assieme a Lizzie. La piccola poggiò le sue gambette magre sopra quelle di Amanda e continuò imperterrita a seguire il programma televisivo.
“Allora ciao…” sussurrò Susan in un soffio, accarezzando la testa a sua figlia. La sua mano si posò subito dopo sulla spalla di Amanda. “Grazie ancora.” Disse con serietà.
Il viso di Amanda si rilassò in un sorriso, che all’istante rassicurò l’animo di Susan. La donna uscì di casa e la ragazza si trovò a dover passare l’intera serata con la piccola.
I bambini erano sempre stati grandi amici di Amanda. Non che li amasse particolarmente, ma per qualche oscuro motivo riusciva a trovarsi sempre bene con loro. Lo stesso valeva per Lizzie: Amanda era la sua baby-sitter non ufficiale da ormai un paio di anni e da allora la bambina l’aveva praticamente amata. Ciò che Amanda non riusciva a spiegarsi era il motivo di tanto affetto. Effettivamente non aveva mai fatto niente che avesse potuto scaturire un particolare sentimento nei confronti della bambina.
Il programma televisivo era quasi terminato, e Lizzie era ormai praticamente sdraiata sopra il corpo minuto di Amanda. La ragazza le accarezzava ritmicamente i capelli –cosa che, aveva imparato, piaceva a Lizzie-. Pochi secondi dopo osservava gli occhi concentrati della bambina, fissi sul televisore. Decise di farla sdraiare in una posizione più comoda; in un istante, il piccolo corpicino di Lizzie era sdraiato su quello di Amanda.
Qualche minuto dopo la televisione continuava a mandare in onda cose che ad Amanda non interessavano minimamente. La sua mente vagava verso altri pensieri. Prese a pensare a cosa stesse facendo in quel momento la sua migliore amica e a come avesse rinunciato a una serata con lei per poter fare da baby-sitter alla piccola Lizzie. Il petto della piccola si muoveva contro quello di Amanda, che ritmicamente emetteva dei sospiri. Amanda guardava il soffitto persa nei suoi pensieri, notando che in quella serata non avesse scambiato nemmeno una parola con la piccola Lizzie, fatta eccezione per il saluto. Le accarezzò ancora i capelli, man mano che il suo corpo si rilassava. Qualche minuto dopo gli occhi di Lizzie si chiusero, mentre la piccola emetteva piccoli sbuffi caldi.
Amanda spense il televisore, e nel buio della stanza iniziò a fantasticare su ciò che le sarebbe successo il giorno seguente. Si ricordò improvvisamente del test di biologia che sarebbe dovuto essere a sorpresa –ma che ormai tutti gli studenti conoscevano- e una smorfia di dolore si formò sul suo viso quando ripensò al suo compagno di laboratorio, inutile e assente. Chiuse gli occhi assieme a Lizzie, rilassandosi mentre il silenzio della casa la avvolgeva.
 
Brad tornò a casa quando erano ormai quasi le dieci di sera. Sua madre lo aveva avvertito che era dovuta scappare per un turno improvviso a lavoro. Sapeva che sua sorella sarebbe stata a casa con la baby-sitter. Erano mesi che non vedeva Amanda, e –nonostante la sua presenza non fosse un evento speciale per Brad- qualcosa in lui lo faceva sentire felice di rivederla. Infilò le chiavi nel buco della serratura e le fece girare, non curante del troppo rumore e ignaro del fatto che all’interno della casa sua sorella stesse dormendo. La porta dietro di lui si chiuse con un tonfo e Brad rimase subito sorpreso travolto dal buio e dal silenzio che lo circondavano. Superando l’arco che divideva il soggiorno dal corridoio dell’ingresso, ebbe il piacere di notare che la casa era vuota. Si rilassò pensando che sua sorella minore stesse dormendo e che Amanda fosse ormai andata a casa. Gettò le chiavi nel porta oggetti e si tolse la giacca e la sciarpa che aveva addosso e che, durante la serata passata con gli amici, l’aveva tenuto in caldo. Il grosso maglione di lana grigia che aveva intrappolato sotto il cappotto, scivolò lungo il suo corpo, quasi fino ad arrivargli a metà gambe. Si ostinava a tenere quel maglione, nonostante fosse troppo grande per lui; infatti –secondo Brad- quel maglione aveva la straordinaria capacità di tenerlo al caldo in qualunque momento.  Solo in casa, il ragazzo si avvicinò al divano che fronteggiava la televisione, pronto per stendersi su di esso e passare il resto della serata a guardare la televisione, in attesa di addormentarsi. Poco prima che potesse avverarsi tutto ciò a cui aveva pensato, il suo occhio cadde sulle due figure che occupavano il divano.
Sua sorella minore era stesa sul corpo minuto e indifeso di Amanda. Tutte e due con un’espressione rilassata in volto. Brad rimase immobile di fronte a quella scena non sapendo, in un primo momento, cosa fare in quella situazione. Come prima cosa accese la grossa lampada che affiancava la televisione, poi si piegò sulle gambe per affiancare le due che dormivano sul divano. La luce bassa e tenue che proveniva dalla lampada illuminava il viso di Amanda in un strano modo, e a Brad quel modo piaceva particolarmente. Rimase qualche secondo a guardare entrambe, e a notare come sua sorella fosse a proprio agio con Amanda. Si riscosse dai propri pensieri e decise di svegliare la ragazza per permetterle di tornare a casa.
“Psss…” iniziò a sussurrare, scuotendole la spalla con una mano. “Amanda…”
Questa bofonchiò qualcosa di incomprensibile e strinse a se’ il corpo minuto di Lizzie. Brad ridacchiò fra se’, intenerito da quella scena e continuò nel suo intento di catturare la sua attenzione, finché la ragazza aprì gli occhi lentamente. A Brad sembrò costare così tanto il fatto di averla svegliata, che appena Amanda si accorse della sua presenza si affrettò a chiederle scusa.
Sul volto di Amanda un’espressione attonita si faceva spazio. Mai avrebbe immaginato di trovare Brad al suo fianco, intento a svegliarla dal sonno che l’aveva invasa su un divano che non era nemmeno quello di casa sua. Si ricordò, avvolta in una trance di pensieri, di avere il corpo della piccola Lizzie spalmato sul suo. Brad ridacchiò ancora, nel notare la visibile goffaggine di Amanda in quella situazione, cosa che a lei diede alquanto fastidio, considerato il fatto che si fosse appena svegliata e che Brad non fosse nella posizione giusta per poter ridere di lei; soprattutto dopo tutta la serie di dispetti e scherzi che lui e i suoi amici si erano divertiti a farle da bambini. Facendo attenzione a non disturbare il sonno di Lizzie, Amanda si mise seduta, tenendo la sorella di Brad a cavalcioni sulle ginocchia.
Il ragazzo si affrettò a prenderla in braccio, per portarla successivamente nella sua stanza da letto. Amanda si infilò le scarpe che precedentemente aveva tolto e si affrettò a sparire oltre la porta. Oltrepassò l’arco e giunse nel corridoio, dove mise addosso il cappotto di lana e la sciarpa che aveva portato da casa. La voce di Brad echeggiò alle sue spalle qualche secondo dopo, e Amanda si stupì di sentirla così vicina e così diversa dopo quel poco tempo trascorso dall’ultima volta in cui si erano parlati.
“Mi ha fatto piacere rivederti!” concluse allegro lui, sussurrando. Amanda si voltò circospetta, per trovare di fronte a se’ Brad, stretto nell’enorme maglione di lana. Un’espressione stupita e confusa allo stesso tempo in volto. Sorrise notando l’imbarazzo che aveva sempre caratterizzato l’espressione di Brad e si allontanò verso la porta. I passi del ragazzo risuonavano ormai nel soggiorno, mentre la mano di lei era fissa sulla maniglia della porta.
“Anche io sono stata felice.” Affermò in modo che potesse sentirla. Quell’affermazione le sembrava fatta più per convincere se’ stessa che lui. L’aveva detto non per interesse, ma soltanto per non sembrare maleducata di fronte a lui e per provare a essere gentile con un ragazzo, cosa che prima di allora raramente aveva fatto –se non con suo cugino-. Quando non ricevette nessuna risposta, se non un accenno di risata che proveniva dal soggiorno, chiuse la porta e attraversò il vialetto della villa dei Simpson, per tornare a casa.

Note delle autrici:
ecco il secondo capitolo! :D Abbiamo notato che nessuno di voi ha recensito. Speriamo che comunque la storia vi sia piaciuta.
Come avete capito, la trama non è incentrata soltanto su Connor. Se volete sapere altro, continuate a leggere.
Un bacio e a presto. xx

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Capitolo 3
*** Capitolo tre. ***


Capitolo tre.

La campanella della pausa pranzo suonò talmente forte che riuscì a rompere la catena di ragionamenti che si era formata nella testa di Marjory, durante la lezione di statistica. La maggior parte degli studenti era ormai fuori dalla porta dell’aula, mentre a Marjory mancava ancora una parte di esercizio da terminare. L’insegnante era ancora intenta ad appuntare gli esercizi da svolgere a casa sulla lavagna, mentre Marjory cercava di ritrovare un briciolo di concentrazione per poter portare a termine ciò che aveva iniziato. Le voci degli studenti urlanti nei corridoi le remavano contro nel suo intento di calcolare e scrivere numeri all’infinito su dei fogli. Decise di rinunciare e riprovare successivamente, in un momento più calmo. Quando uscì dall’aula, quasi nessuno degli studenti si era recato in mensa e lo sciame di ragazzi continuava a ronzare nel corridoio gridando e schiamazzando cose senza senso. Marjory portò i lunghi capelli castani oltre una spalla e aggiustò un lembo della camicetta bianca che era fuoriuscito dalla gonna stile anni ’60 che aveva rubato a sua madre.
Arrivare al suo armadietto le sembrava un’impresa piuttosto irraggiungibile, date le circostanze. La massa di persone si muoveva in maniera sconnessa intorno a lei, e la maggior parte dei ragazzi continuava a darle spintoni, per permettersi di passare e raggiungere una meta a Marjory sconosciuta. Prima che il corridoio si fosse sfollato ci sarebbe voluto parecchio tempo, e Marjory non poteva permettersi di arrivare tardi alle lezioni successive; considerato che lei cronometrava ogni minimo secondo della sua esistenza, il tempo che le sarebbe servito per mangiare avrebbe di gran lunga sforato quello della pausa pranzo se avesse aspettato la calma e la quiete nel corridoio. Si infiltrò nella folla, cercando di raggiungere l’armadietto che si trovava praticamente dalla parte opposta dell’edificio. Quel supplizio durò ben poco, giusto il tempo che le servì per svoltare e raggiungere un altro corridoio, molto meno affollato del primo.
In effetti Marjory avrebbe dovuto aspettarselo: il corridoio in cui si trovava la sua aula di matematica, era quello che confinava con la scalinata che l’avrebbe portata alla mensa. Con ciò, all’ora di pranzo tutti gli studenti imbottigliavano quel corridoio, ammucchiandosi per raggiungere la mensa.
Marjory continuava a camminare a passi piccoli e svelti nelle sue scarpe ballerine. Il suono dei tacchetti posti sotto le suole risuonava nel corridoio, parzialmente coperto dalle voci dei pochi ragazzi che, in tranquillità, chiacchieravano appoggiati al muro. Marjory continuava a procedere stringendo il grosso libro e il suo blocco degli appunti fra le braccia. In un attimo si trovò davanti al suo armadietto.
Inizialmente a Marjory era stato assegnato un armadietto che si trovava all’entrata dell’edificio. Amava quel posto in quanto ogni mattina, appena arrivata, poteva comodamente lasciare i suoi oggetti e recarsi nell’aula dove avrebbe seguito le lezioni. Successivamente un’altra ragazza aveva discusso con il corpo docenti, pretendendo il suo posto. Marjory non aveva osato discutere, in quanto immaginava che il resto della scuola non sapesse della sua esistenza. Essendo sempre stata una ragazza riservata e silenziosa, Marjory –tipica ragazza intelligente e di buona famiglia- non aveva mai avuto una vera amicizia e, effettivamente, non aveva mai legato con qualcuno nella scuola, tanto da far conoscere agli altri quantomeno il suo nome.
Dopo aver messo la combinazione giusta, le ci volle un po’ per poter aprire l’armadietto, in quanto la serratura era difettosa. Con qualche piccolo pugno –che provocò un rumore ferreo che riecheggiò lungo tutto il corridoio- l’anta di alluminio si aprì, permettendo a Marjory di riporre i libri al suo interno. La scia di studenti continuava a camminare oltre le sue spalle. Nella sua visuale apparve Heather, l’unica ragazza che lì dentro non passava mai inosservata. Soltanto con la sua presenza, Marjory si sentì in soggezione quando, dandole le spalle, vide un ragazzo che le stava a fianco –del quale non ricordava il nome- innervosirsi per la sua presenza. Marjory chiuse il suo armadietto, dopo aver riposto tutti gli oggetti al suo interno. Il ragazzo al suo fianco continuava ad agitarsi, come poteva osservare lei con la coda dell’occhio, e iniziava a guardarsi intorno, probabilmente alla ricerca di qualcuno. Heather l’aveva sorpassata e si era fermata alla fine del corridoio, appoggiata al muro dell’incrocio che coincideva con il secondo corridoio; Marjory aveva sentito la sua presenza oltre le sue spalle e aveva sentito il rumore dei suoi tacchi allontanarsi. Il biondino accanto a lei era sparito, e Marjory continuava a fronteggiare lo sportello in ferro dell’armadietto in attesa di qualcosa che neanche lei conosceva. Si trovò confusa appena si voltò. Il suo corpo era intrappolato tra l’armadietto e la figura alta e statuaria del ragazzo biondo che in precedenza le stava accanto. Ora che poteva guardarlo in faccia, aveva appurato che si trattasse di Tristan Evans, uno dei ragazzi partecipanti al suo stesso corso di francese; la sua improvvisa presenza aveva spaventato Marjory a tal punto da farla sobbalzare facendo schiacciare la sua schiena contro l’armadietto. Le braccia del ragazzo si spostarono immediatamente, fino a far sbattere i palmi delle mani contro la superficie di ferro. Un’espressione confusa si fece spazio sul volto di Marjory. La statura del ragazzo quasi fronteggiava su di lei, e Marjory non si sentiva affatto a proprio agio, intrappolata in quel modo. Prima che potesse dire o fare qualcosa, però, si ritrovò in una situazione che mai avrebbe immaginato. Le ci volle qualche secondo per capire cosa stesse succedendo: le labbra di Tristan erano premute contro le sue. Lei arrossì immediatamente, consapevole del fatto che nessuno potesse vederla in volto sebbene l’intero corridoio li stesse osservando. I suoi occhi si spalancarono un secondo dopo, quando guardò in faccia Tristan; gli occhi di lui chiusi e le sopracciglia strette in un cipiglio. Quando Marjory riprese coscienza di ciò che stava succedendo intorno a lei, si fece forza e con le sue minuscole mani premette sul petto di Tristan per allontanarlo. Si stupì piacevolmente quando le sue mani toccarono i pettorali di lui. Scacciò subito quel pensiero, pronta a gridare in faccia a quel ragazzo costringendolo a darle delle spiegazioni. Quando lui fece un passo indietro si voltò immediatamente in direzione di Heather che, come il resto dei ragazzi in corridoio, li fissava a bocca spalancata. Tutti si dileguarono e in un secondo il corridoio diventò vuoto, fatta eccezione per Tristan e Marjory.
“Si può sapere cosa diavolo ti è saltato in mente?” gridò Marjory in cerca della sua attenzione. Tristan si voltò verso di lei aggrottando le sopracciglia. Non rispose, ma rimase a guardare la faccia confusa e arrabbiata della piccola ragazza che gli stava di fronte. In effetti anche lui si stupì di ciò che aveva appena fatto; non che avesse qualche problema a baciare una ragazza qualunque –se quello poteva essere definito un vero bacio-; ad ogni modo non era abituato a prendersi gioco delle ragazze in quel modo.
“Che cavolo di problema hai?” la voce di Marjory suonò come una tromba, riecheggiando su ogni parete del corridoio. Ancora una volta Tristan non sapeva in che modo rispondere. Si strinse nelle spalle, domandandosi come fosse possibile che una ragazza così piccola avesse tutta quella rabbia in corpo. Guardandola dall’alto, Tristan notava che la sua irritazione montava man mano che lui proseguiva col suo silenzio.
“Mi serviva un diversivo.” Marjory divenne ancora più confusa e arrabbiata. Ripensò al fatto che ormai la sua pausa pranzo fosse svanita nel vento.
“Qualcuno che mi aiutasse a farla ingelosire.” Concluse con un gesto del capo nella direzione in cui in precedenza c’era Heather. In un attimo a Marjory fu tutto chiaro. Si sentì una completa idiota. Usata per gli scopi stupidi e insensati di Evans, il suo compagno idiota di francese. D’istinto, i suoi piccolissimi pugni cominciarono a scagliarsi freneticamente contro il petto di Tristan; cosa che a lui non fece ne’ caldo ne’ freddo, data la poca forza che essi contenevano. Ridacchiò divertito, tenendo fermi i polsi di Marjory con le sue grosse mani.
“Non farne un dramma… Non sei tu quella che ci rimette.” Il corpo di Tristan si avvicinò di nuovo a quello di Marjory, schiacciandola nuovamente contro l’armadietto. Il respiro di lei cominciò ad accelerare, un po’ per la rabbia e un po’ per il timore che quel che era successo potesse succedere di nuovo. La trovò subito una sciocchezza, pensare che Evans potesse “baciarla” di nuovo senza uno scopo vero e proprio. Una cosa le saltò subito all’occhio: se prima quel ragazzo era stato l’”insignificante e stupido Evans”, ora sarebbe stato l’”insignificante, stupido e odioso Evans”. Tristan si accorse del nervosismo di Marjory; ridacchiò ancora accorgendosi dello strano effetto che aveva su di lei.
“Spero che qualcuno te la faccia pagare per questo…” sibilò Marjory a denti stretti. Si aggiustò la gonna con le mani, una volta che Tristan ebbe lasciato i suoi polsi. Questa volta il ragazzo rise di gusto, lasciando Marjory con un’espressione sconvolta e confusa –ancora più di quanto non lo fosse prima-. Si allontanò lasciandola contro l’armadietto, ancora rossa in viso dalla rabbia e dalla vergogna provata mentre Tristan la baciava e tutti i ragazzi avevano gli occhi puntati su di loro. Fino a quel giorno era riuscita a non attirare l’attenzione di nessuno, a passare per l’ “anonima Marjory Montgomery”, mentre era sicura che il giorno seguente non si sarebbe parlato di altro in tutta la scuola. Maledisse nuovamente Tristan per quello stupido scherzo che le aveva fatto, anche se –a regola dello stupido cervello del ragazzo- quello non era esattamente uno scherzo.
Tristan camminava per il corridoio, da solo, raggiungendo la mensa; un sorriso beffardo e spavaldo sul viso, come quello di qualcuno che potesse ottenere tutto quello che volesse solamente chiedendolo. E in effetti era così: aveva ottenuto quello che voleva e nemmeno aveva chiesto il permesso a Marjory. Un po’ lo dispiaceva il fatto di averla trattata come una pezza da piedi davanti a tutti gli studenti; e neanche la conosceva veramente. Era sicuro, però, di aver ottenuto ciò per cui aveva agito in quel modo: l’attenzione di Heather, la sua “ragazza” del momento. Lei e Tristan uscivano insieme da qualche settimana, ma nessuno dei due si era mai azzardato a definire il loro, un vero rapporto. Ciò che aveva spinto Tristan a baciare un’altra ragazza –tra l’altro proprio Marjory- era stato il fatto che Heather non lo avesse richiamato dopo la loro uscita nel weekend. Senza neanche accorgersene Tristan aveva appena varcato la soglia della mensa. Il suo sguardo si mise subito in cerca di quello di Heather e, quando la vide, notò una certa nota di irritazione nei suoi occhi. Dal lato opposto della sala, in un angolo, Connor e Brad si sbracciavano per farsi vedere da lui. Facendosi spazio tra la folla e facendo lo slalom fra i tavoli li raggiunse, sedendosi accanto a loro alla ricerca dell’appetito che aveva perso qualche minuto prima.

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro. ***


Capitolo quattro.

“Sono un fallito!”
Connor era appena entrato nella minuscola stanza ed era rimasto paralizzato sulla porta. La stanza odorava di chiuso e la pila di cartoni di pizza e le bottiglie vuote di succhi di frutta accatastate ovunque lasciavano intendere che quello fosse veramente un pessimo periodo. Connor si appoggiò allo stipite della malconcia porta e rivolse lo sguardo verso la finestra. La pioggia incessante batteva sulla finestra e il suono che ne derivava creava un'atmosfera melanconica. Probabilmente anche quel clima così invernale aveva contribuito ad aumentare la mal celata tristezza del suo amico. Già quando si erano sentiti per telefono al mattino, Connor aveva subito capito che c'era qualcosa che non andava. Aveva anche pensato di saltare la scuola per correre in soccorso del suo migliore amico, ma sua madre lo aveva letteralmente fatto salire a forza sul bus. Poi c'erano state le due ore di punizione, durante le quali si era pentito amaramente di non essere scappato quella mattina quando ne aveva avuto la possibilità. Si sarebbe risparmiato un'infinità di brutti momenti. Ora però non poteva più pensarci. Il suo migliore amico se ne stava sdraiato a pancia in sotto ed era ricoperto da uno strato di lenzuola attorcigliate e da un piumone blu notte. Quella massa indistinta nascondeva James.
“James, cosa ti è successo?”
“Con sei tu? Vattene e lasciami qui a morire!”
“Smettila di fare il melodrammatico!! Dimmi al negozio hanno esaurito il tuo gel preferito o cosa?”
“Con sono un fallito. Niente sta andando nel modo giusto.”
“Ascolta il tuo saggio amico. La giustezza è relativa e qualsiasi cosa accada tu sarai sempre il più bello!”
James non poté resistere alle perle di saggezza di Con e sollevò la testa dal cuscino ridendo per non soffocare. Si rigirò sul letto e tentò di alzarsi ma non aveva calcolato il fatto di essere intrappolato in una matassa di lenzuola. Riuscì a poggiare un piede a terra ma l'altro rimase bloccato così perse l'equilibrio e cadde contro il comodino con un tonfo. Allora Connor si staccò dalla porta e corse in suo aiuto. Solo vedendolo lì per terra si accorse del suo abbigliamento. Indossava ancora il pigiama. Per la precisione un enorme pigiama verde scuro con tanto di calzettoni bianchi di spugna che non indossava mai neanche per andare in palestra. James era uno di quei ragazzi che tengono all'abbigliamento anche quando dormono. Doveva essere successo qualcosa di molto grave per averlo indotto a conciarsi in quel modo. Connor gli porse una mano e lo aiutò a sollevarsi. James non si era neanche rasato e evidentemente non si era fatto una doccia di recente.
“James da quanto sei qui dentro?”
“I miei quando sono partiti per la Scozia ?”
“Ieri mattina. Tua sorella doveva andare a far visita ad una sua amica. Almeno è quello che mi avevi detto. Perché?”
“Ok sono qui dentro da ieri mattina allora.”
“Te lo chiedo ancora. Dimmi cosa c'è che non va.”
“Non voglio raccontartelo.”
“Va bene allora prenderò in ostaggio la tua chitarra.”
“Se ci tieni alle tue manine non avvicinarti di un passo alla mia chitarra. Sai che non sto scherzando. Anche se d'ora in poi non ne avrò più bisogno. Ti ricordi dell'ingaggio per la festa di compleanno di Jamie?”
“Si certo. La tua occasione per esibirti davanti ad un pubblico enorme.”
“Ecco appunto. La festa è stata cancellata perché lei è scappata di casa con il tatuatore del negozio all'angolo.”
“E allora? Avrai un altro miliardo mi possibilità. Sei il chitarrista più bravo che io conosca!”
“Grazie, ma il problema è che devo riuscire ad avere un futuro come musicista. Ho lasciato la scuola e mi ritrovo a lavorare come guardiano per non pesare sulla mia famiglia. Se tu ti rendessi conto di non riuscire a fare quello che vuoi non ti sentiresti come me?”
“Sì, ma quello che sto cercando di spiegarti è che un ingaggio fallito non è la fine del mondo. Anzi ho una soluzione."

Connor estrasse il suo telefono dalla tasca posteriore dei pantaloni e compose il numero del locale in cui lavorava.
“Pronto? Ciao Josh. Passami il capo. È urgente.”
Intanto James si buttò di nuovo sul letto e si coprì fino all'altezza della fronte.
“Scusi per il disturbo ma credo di poter risolvere il problema del gruppo per stasera. Il mio amico è eccezionale e si offre di cantare gratis per questa volta, ma ad una condizione. Se questa serata andrà bene lo prenderemo a tempo indeterminato. Signore non se ne pentirà. Grazie. A più tardi.”
James aveva ascoltato la telefonata in stato di trance e non poteva credere che Connor stesse veramente cercando di trovargli un posto per farlo esibire.
“Allora Con? Cosa hai combinato?”
“Per questa sera al locale aspettavamo una band che però non si è fatta viva perciò non avevamo più nessuna forma di intrattenimento per i clienti. Questo era un disastro anche perché è la prima serata del nuovo proprietario del locale e non ci teneva proprio a fare una brutta figura con i clienti storici. Poi però fortunatamente un suo meraviglioso, fantastico, divertentissimo e bellissimo dipendente ha salvato la sua serata.”
“Immagino che questo dipendente si chiami Connor.”
“Lasciami finire. Insomma ho promesso al direttore che avresti fatto uno show indimenticabile e se piacerai avrai un posto come cantante fisso.”
“Stai scherzando vero?”
“Ehi mi sbaglio o hai sentito anche tu la telefonata?”
“Fatti dare un abbraccio amico!” e si sporse verso Connor che però lo respinse bloccandogli la testa con una mano.
“Scusa ma prima fatti una doccia”. E scoppiarono a ridere come due bambini. Connor non voleva ammetterlo, ma si era veramente preoccupato per il suo amico quando lo aveva visto in quello stato. Connor rimase con James per un'altra ora e poi uscì dall'appartamento. Aveva smesso di piovere, ma le temperature dovevano aver avuto un picco tremendo. Connor aveva la pelle d'oca e si strinse nel suo cappotto. Non riusciva a smettere di tremare. Sarebbe stata un'impresa tornare a casa. Ora gli sarebbe servito uno di quei momenti da film nei quali una bellissima ragazza in macchina gli passa accanto e gli offre un passaggio. Ma sfortunatamente quella era la vita reale. Ad un certo punto Connor vide dei fari alle sue spalle. Una macchina lo superò a tutta velocità passando sopra una distesa d'acqua. Connor si ritrovò bagnato dalla testa ai piedi nella frazione di un secondo. Quando l'auto si allontanò la riconobbe. Era un maggiolino blu della volkswagen molto vecchio e con tutta la vernice scrostata. Solo una persona nell'intero corpo studentesco poteva possedere quell'automobile così trasandata: Emily Scott. Connor rimase paralizzato sul marciapiede. Era forse una vendetta? I brividi ora lo scossero ancora di più. I capelli fradici erano diventati un tutt'uno con il suo viso e Connor cercò disperatamente di riordinarli anche perché non essendo tirati su come al solito gli arrivavano fino alla punta del naso e non riusciva a vedere la strada.

Non appena Con uscì dalla casa e lo lasciò solo, James sentì salire il panico. Cantare e suonare in pubblico lo spaventava sempre un po'. Temeva di poter deludere le aspettative di qualcuno. Inoltre quella sera avrebbe messo a rischio anche Con. Era stato lui ad organizzare quella serata e se non avesse soddisfatto il capo, temeva che il su amico potesse perdere il posto. Lì chiuso nella sua camera da letto si sentiva soffocare. Sembrava che le pareti volessero intrappolarlo per sempre. Così si alzò dal letto e andò all'altro capo della stanza per aprire la finestra. Una folata di aria gelida lo colpì in pieno viso. Qualche fiocco di neve entrò dalla finestra e si impigliò tra le sue ciglia. L'aria fredda lo tranquillizzava. Ora avrebbe tanto avuto bisogno di un bagno in mare, nella spiaggia vicino alla quale era cresciuto. Ma ormai non era più a casa sua. Rimase lì e cercò di immaginare di trovarsi ancora su quella spiaggia. Pomeriggio inoltrato, cielo coperto di nuvole. Il clima autunnale rende il paesaggio meraviglioso. Guardando al di là della scogliera a strapiombo sulla costa, verso l'interno, si vede la foresta ,tramutata in una distesa rossa e arancione, accesa come il fuoco ma fredda come il ghiaccio. La spiaggia è deserta. Qua e là sono sparsi ricordi di giornate estive ormai
lontane. Qualche secchiello, un paio di ombrelloni e una tavola da surf scrostata dal sole e dal sale. È lì che James lascia tutti i suoi vestiti pesanti e una coperta. Anche se l'acqua è gelida James vi entra e inizia a nuotare. Inizialmente si limita a restare a galla poi inizia ad infrangere le onde con poderose e veloci bracciate. Il mare non è calmo, ma non importa. Sembra quasi che la tempesta in lontananza oltre ad agitare il mare si anche la causa dell'inquietudine di James. Resta in acqua finché non comincia ad essere scosso dai brividi. Allora esce dall'acqua correndo e si siede sulla tavola, avvolgendosi nella coperta. Il contatto della lana con il suo corpo bagnato non è affatto piacevole. È quasi un suicidio fare il bagno perché in questa stagione si arriva a temperature bassissime. James ne è ben consapevole ma la follia era sempre stata una sua caratteristica dominante. Quella era stata l'ultima volta in cui James era andato alla spiaggia. Esattamente un giorno prima di andarsene di casa. Riuscire a avere successo lì come cantante sarebbe stato impossibile. Era pieno di ragazzi come lui. Nessuno lo avrebbe notato. I suoi genitori non erano affatto d'accordo. Cantare avrebbe significato lasciare la scuola e utilizzare tutte le sue energie. Era molto rischioso. Ma James non si lasciò intimorire, fece la sua valigia e si trasferì in un appartamento in città. Uno squillo del suo telefono lo riportò alla realtà. Si tirò indietro e chiuse la finestra.
“Pronto?”
“Pronto James? Ho saputo della serata. Come ti senti amico?” L'inconfondibile voce di Brad.
“Hey Brad ! Diciamo che mi sono sentito meglio in altri momenti. Ma sono contento. Ci sarai stasera?”
“Ovvio, come potrei perdermelo! Verrà anche Tris, sicuramente.”
“Non dovresti tenere d'occhio tua sorella?”
“No, abbiamo una babysitter”.
“Per babysitter intendi Amanda?”
“Si, perché?”
“No niente” rispose sogghignando.
“Tu mi preoccupi amico. Ci vediamo dopo.”
“Ok. Grazie per esserti assicurato che fossi vivo.”
“Dovere amico”. James riattaccò e gettò il telefono sul letto. Fece un'altra doccia bollente. Il getto lo colpiva sulle spalle e contribuiva a rilassare i suoi muscoli. Intanto canticchiava come per fare una sorta di riscaldamento. Uscì dalla doccia tutto sgocciolante senza preoccuparsi di inzuppare il pavimento. Aveva deciso di adattare uno stile casual per la serata. Indossò in tutta fretta un paio di jeans e un maglione. Ovviamente non riuscì ad ingoiare neanche un boccone perché aveva lo stomaco completamente chiuso. Per via della neve si mise in macchina con la sua chitarra molto prima del necessario. Il pub dove lavorava Con, il Black Crown non era vicino. Per questo i ragazzi non lo frequentavano molto. Dovette attraversare una zona della città che non conosceva e chiamò Con un paio di volte di fronte ad un incrocio che lo preoccupava. Nonostante la neve e la paura di perdersi giunse finalmente a destinazione. Il Black Crown era un edificio particolarmente vecchio e trasandato, ma trasudava storia da tutti i pori. Si diceva fosse sopravvissuto a numerosi incendi e che fosse stato un luogo visitato da molte celebrità del passato. Sulla porta era appesa un'insegna in legno che raffigurava una ricca corona nera intarsiata di gemme su uno sfondo oro. Il nome del locale era scritto a caratteri cubitali simili a quelli dei vecchi libri medievali. James parcheggiò la macchina nel posteggio dei dipendenti accanto alla malandata auto di Connor. Quel mezzo di trasporto doveva aver visto più inverni che il nonno di Con da cui l'aveva ereditata. Ma era un cimelio e Con l'avrebbe abbandonata solo e quando l'avrebbe vista esalare l'ultimo respiro. Le aveva persino dato un nome: River. Il nome era dovuto al colore dell'auto. Aveva subito così tante mani di vernice non uniformi che il risultato era stato un insieme di sfumature di azzurro che ricordavano l'acqua. Anche se Con la guidava solo da un anno vi avevano vissuto mille avventure. Era la loro mascotte. James spense il motore e scese dalla macchina. Si ritrovò di nuovo al gelo. Raccolse la chitarra dal
sedile del passeggero e si avvicinò all'entrata. Il freddo pungente gli tolse il respiro. Si affrettò e quando stava per mettere piede sulla soglia, scivolò sul ghiaccio. Fortunatamente atterrò sul fondo schiena e la chitarra non riportò danni, al contrario del suo ego. Odiava, come tutti de resto, cadere e fare figuracce, ma la cosa accadeva molto spesso. Si alzò di scatto guardandosi intorno. Sembrava tutto deserto. Ottimo. Nessuno aveva visto la sua caduta. Una volta aperta la porta, un odore di fritto e fumo lo investì. Il locale non era molto affollato. Tra i tavoli notò subito la folta capigliatura di Con e andò da lui. Sedute ai tavoli vi erano le tipologie più disparate di persone. Giovani coppie, coppie non più giovani, gruppi di ragazze e ragazzi e addirittura qualche famiglia. In molti si abbuffavano di patatine fritte e anelli di cipolla, trangugiando boccali di birra. Il locale era pieno di tavoli e in fondo c'era un piccolo palco munito di casse, microfono e sgabello. Le pareti in legno scuro erano coperte da un motivo decorativo che voleva rappresentare la successione di gemme colorate di una corona, anche se in realtà era una fila di semplice vetro colorato. Era un luogo molto pittoresco e sicuramente degno di nota.
“James sei in anticipo!”
“Hey Con. Scusa ma non riuscivo ad aspettare a casa.”
“Ma manca ancora un'ora!”
“Va bene aspetto. Anzi posso darti una mano. Cosa posso fare?”
“Il sofisticato James che lavora!? Questo non posso perdermelo.”
“Scusa come credi che mi guadagni da vivere?”
“Fare il guardiano notturno in un parcheggio -sonnecchiando per giunta- non è la mia idea di lavoro.”
“E invece si. Per me lo è.”
“Ok, amico. Comunque grazie, ma non mi serve aiuto e il nostro capo non accetterebbe estranei. Vieni te lo presento.”
Connor guidò James per una porta laterale che portava alla cucina. Una volta superata la porta si ritrovò nel caos. Un cuoco urlava contro due assistenti e gettava una manciata di foglietti contro una cameriera.
“Secondo voi io dovrei capire cosa c'è scritto qui?” L'enorme doppio mento del cuoco traballava ad ogni sillaba e il suo viso era paonazzo in preda alla collera. Dei curiosi baffetti neri sbucavano su quel viso come due isolotti in un mare di lava. Gli occhi si erano ridotti a due fessure ed enormi gocce di sudore gli imperlavano la testa calva. La cameriera rideva di cuore ed era scossa da singhiozzi. I due assistenti si divertivano facendo le imitazioni del loro superiore.
“James forse è meglio se torniamo dopo!” esclamò Con ridendo.
“Si infatti.”
Così come erano entrati uscirono furtivamente dalla cucina. James notò lo sguardo che si scambiarono Connor e la cameriera. Si fissarono negli occhi un po' più del dovuto. Appena furono di nuovo in sala James diede una pacca sulla schiena dell'amico.
“Cosa ti prende?” sbraitò Con.
“Non hai niente da dirmi?”
“Che ho combinato adesso?”
“Tu e la cameriera venite pagati per lavorare o per guardarvi come due allocchi?”
“Sicuramente per la seconda opzione.” Connor era arrossito e si dondolava sui talloni come un bambino.
“Perché non l'hai ancora invitata ad uscire?”
“Non le piaccio. Guardami. Chi vorrebbe uscire con me?”
“Tanto per cominciare io. Caro amico dobbiamo fare qualcosa per la tua autostima.”
“Grazie, ma non la invito lo stesso. Voglio aspettare ancora un po'. In fondo lavoriamo qui insieme da poco. Meglio non essere precipitosi. Se dovesse andare male e compromettessimo il nostro rapporto sarebbe impossibile continuare a lavorare qui. E io ho bisogno di questo lavoro.

“Che amico saggio. Dovrei imparare da te. Stai proprio diventando grande. Fatti dare un bacino.”
James cominciò ad avvicinarsi schioccando le labbra e scoppiarono a ridere. James stampò un bacio sulla fronte di Con nel momento esatto in cui la cameriera passò loro accanto. Lei li guardò con aria interrogativa e alquanto perplessa. Si chiedeva cosa stesse succedendo. Connor le piaceva e non poté che divertirsi davanti a quella scena. Connor si vendicò del bacio dando uno schiaffo sul collo di James.
“Scusate l'interruzione vi lascio soli. A dopo Connor.”
La ragazza si allontanò ridendo e sussurrando qualcosa sul fatto che adorasse i ragazzi affettuosi.
“Grazie James. Adesso chissà cosa penserà di noi.”
“Non è vero. Hai sentito cosa borbottava? Secondo me sei salito di molto nella sua stima. Ora vedi di comportarti bene con me, altrimenti si ricrederà.”

Note delle autrici:
salve! Volevamo semplicemente ringraziare tutte le gentili ragazze (o ragazzi) che hanno recensito la nostra storia.
Siamo giunti -finalmente- al quarto capitolo, e ora avete un assaggio di quello che sarà la storia.
Speriamo che continui a piacervi.
A presto xx

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque. ***


Capitolo cinque.

Amanda aveva appena chiuso la telefonata con Susan, la quale le aveva chiesto nuovamente di badare a sua figlia. La ragazza aveva accettato senza esitazione e, fiera di se stessa –per aver indossato la sua amata hoodie degli arctic monkeys- si rimirò allo specchio e chiuse la porta della sua stanza. Una volta scesa in soggiorno salutò i suoi genitori e suo fratello. Chiuse il portoncino di casa sua e percorse il vialetto di ghiaia dopo aver indossato un cappotto e una sciarpa di lana. Si ritrovò davanti al cancelletto di casa Simpson. La loro villetta a schiera era una copia esatta di quella di Amanda, fatta eccezione per il numero civico e la grande scritta in ferro battuto che era stata fissata sul recinto di pietra. Con esitazione, Amanda infilò le mani in tasca ed entrò nel vialetto. Suonò il campanello e, ancora una volta, Susan si catapultò ad accoglierla con la solita fretta. Appena entrata, Amanda si rese conto di dover affrontare un piccolo imprevisto: una seconda bambina era seduta sul grande divano insieme a Lizzie. Con un’espressione confusa, Amanda si voltò verso Susan alla ricerca di spiegazioni.
“Lei è Lucy, rimarrà a dormire da noi!” Susan sparì oltre la porta del bagno e ricomparve qualche secondo dopo, con un rossetto in mano che finì subito dopo nella sua borsa.
“Pensavo non fosse un problema per te.” Disse dispiaciuta ad Amanda.
“On, no… Nessun problema!” si affrettò a spiegare lei, guardando sorridente la splendida bambina bionda che si era voltata verso di lei. Susan uscì di casa dopo aver salutato tutti. Amanda si sedette sul sofà insieme alle bambine, alla ricerca di qualcosa da fare. Entrambe le piccole avevano gli occhi fissi sul grande televisore luminoso, con lo sguardo imbambolato. Amanda sospirò, chiuse rapidamente il libro che stava leggendo e lo poggiò su un piccolo comodino che affiancava la poltrona.
“Vi va una partita a scarabeo?” Lizzie e Lucy si voltarono nella sua direzione con una particolare luce negli occhi, poi la padrona di casa si alzò dal divano e corse in una angolo sperduto della casa alla ricerca del gioco di società. Qualche minuto dopo la bambina tornò in soggiorno a mani vuote. Amanda si guardò intorno invano, alla ricerca della scatola del gioco.
“Brad!” gridò Lizzie in direzione delle scale. Amanda si ridestò dai suoi pensieri sussultando. Fino a quel momento aveva pensato di essere sola con le bambine in casa. Era ovvio che la presenza di Brad la mettesse a disagio, anche se ciò accadeva con tutti i ragazzi.
“Dov’è finita la scatola dello scarabeo?” Qualche minuto di silenzio seguì la domanda della piccola. Poi la porta della stanza di Brad si aprì e dal piano di sopra arrivarono le prime note di una canzone dei Kooks.
“Controlla accanto al camino, Liz.” La voce rauca di Brad arrivava sbiadita e confusa, coperta dal ritmo indie rock della canzone. Senza apparente motivo, Amanda arrossì immediatamente. Fortunatamente nessuna della bambine notò il suo repentino cambiamento emozionale, altrimenti si sarebbero scatenati gli animi sentimentali di due quasi undicenni. La bambina si avvicinò alla cassapanca di legno che affiancava il caminetto, coperta da due cuscini decorati con una simpatica stoffa a quadri. Infilando la testa al suo interno, Lizzie riemerse qualche secondo dopo con in mano una grossa scatola di cartone. Subito la scaraventò sul tavolino basso posto davanti alla tv, mentre Lucy e Amanda lo circondavano sedute a terra con le gambe incrociate. Amanda era sempre stata un’ottima giocatrice di scarabeo, in quanto sosteneva che quel gioco fosse un ottimo stimolatore per il lavoro della mente. Tutto era ormai pronto per iniziare la partita. E Lizzie mescolava le lettere nella grande sacca di stoffa.
“Preparo dei sandwich, prima di iniziare…” esordì Amanda, mentre il tintinnare delle tesserine di plastica risuonava in tutta la stanza. Le bambine annuirono di nuovo e Amanda si alzò da terra facendo leva sulle braccia, poi si aggiustò la felpa. La cucina di casa Simpson era molto graziosa, con una penisola in marmo e mobili scuri. Amanda si mise subito alla ricerca degli ingredienti necessari per permetterle di preparare tre sandwich. Una volta trovati tutti, Amanda li prese tenendoli fra le braccia e li posò sulla grande penisola della cucina. Ora tutto ciò che le serviva era del pane a fette. Lo trovò in uno sportello della dispensa, ma notò con dispiacere che la busta era sull’ultimo ripiano. Purtroppo però, Amanda non era mai stata molto alta e la sua poca altezza non le permetteva di arrivare a prendere ciò che le serviva. Brad entrò in cucina, trovando Amanda intenta in un compito non molto facile. Alzata sulle punte, dando le spalle alla porta, si impegnava per raggiungere l’ultima mensola della dispensa. La grande felpa che indossava si sollevava ogni volta che lei stendeva il braccio eccessivamente. Tutto ciò non serviva a molto, dato che Amanda non sarebbe riuscita ad arrivare al suo scopo. Sollevandosi ancora, brontolò qualcosa di incomprensibile; poi si arrese, sbuffò e si voltò appoggiandosi afflitta al piano di marmo. Il suo sguardo trovò subito quello di Brad che, appoggiato allo stipite della porta la osservava con un’aria divertita. Amanda si ricompose appena si accorse della sua presenza; vederlo nuovamente a distanza di così poco tempo era una cosa alla quale Amanda non era abituata. Sebbene Brad fosse stato uno dei bambini più dispettosi del quartiere e, sebbene Amanda lo avesse odiato fino a qualche anno prima, in quel momento – su due piedi – non poteva fare a meno di notare quanto fosse cresciuto in realtà. La ragazza doveva ammettere che Brad fosse diventato davvero carino durante tutto quel tempo. Forse questo pensiero contribuiva a far crescere il suo imbarazzo davanti a lui.
“Serve una mano?” la voce profonda di Brad la ridestò dai suoi pensieri. Notò che durante quel lasso di tempo Brad si era spostato, raggiungendo il frigo, mentre lei era rimasta lì immobile come un’idiota, con lo sguardo perso nel vuoto. Amanda non annuì, ma Brad – una volta allontanatosi dal frigorifero con una lattina di SevenUp fra le mani – si precipitò al suo fianco, pronto per recuperare ciò che stava rendendo la vita di Amanda così difficile. Un improvviso imbarazzo si creò fra loro, quando Brad si fermò di fianco ad Amanda, facendo in modo che le loro spalle si toccassero. Nonostante Brad non fosse mai stato un primato in altezza, Amanda era ancora più bassa di lui e quella era una delle tante cose che a Brad piacevano. Brad si voltò in direzione della dispensa e sollevò un braccio per arrivare a prendere il pane. Il suo corpo si avvicinò pericolosamente a quello di Amanda. Lei poteva sentire il rumore del respiro di Brad e questo la metteva ancora di più in imbarazzo. Sentiva gli schiamazzi delle bambine provenire dal soggiorno; entrambe urlavano e ridevano come se fossero in preda ad un attacco di pazzia improvviso. Lei sorrise involontariamente, un secondo prima di ritrovare Brad accanto a se’.
“Grazie…” sussurrò. Amanda prese il pacco di pane che aveva tanto atteso e tornò a preparare i sandwich. Brad la osservava; gli piaceva catturare i minimi particolari di ogni movimento di Amanda. Sorrise mentre guardava i suoi occhi attenti e i piccoli ciuffi di capelli rossi che le ricadevano davanti al viso un secondo dopo che Amanda li sistemava dietro le orecchie. Ormai Brad era costretto ad ammettere – almeno a se stesso – che la presenza di lei lo rendesse di un umore impeccabile. Tuttavia non poteva definire cosa fosse quello strano effetto che la ragazza aveva su di lui. A volte si ritrovava a pensare a ciò, e si rendeva conto di essere spaventato dalle sue stesse reazioni. In più ogni volta che vedeva la luce della stanza da letto di Amanda accesa, dalla finestra di camera sua, non poteva fare a meno di essere di buon umore. Amanda sapeva che Brad la stesse osservando; sentiva il suo sguardo fisso addosso e ciò la rendeva ancora più nervosa e imbarazzata di quanto non fosse già. Vergognandosi di se stessa, sotto lo sguardo fisso e attento di Brad, osservava le sue piccole mani tremanti mentre armeggiavano con l’insalata. Brad prendeva piccoli sorsi dalla sua lattina, mentre stava appoggiato al lavandino con una mano, osservando le reazioni bizzarre di Amanda. Una volta che lei ebbe finito di preparare i panini, fece per dirigersi in salotto.
“Ah! Ti piacciono gli arctic monkeys!” la interruppe Brad prima che lei potesse uscire dalla cucina. Amanda si voltò lentamente e vide il ragazzo sorridere indicando, con la lattina, la grande felpa che lei aveva addosso. Amanda dimenticò per qualche secondo di avere addosso uno dei suoi capi di abbigliamento preferiti, per quanto malandato e poco elegante questo fosse. Puntò lo sguardo su di se’ per qualche secondo, boccheggiando qualcosa all’aria.
“Bhe… s-sì.” Balbettò rimirandosi ancora per un secondo. Gli occhi di Brad si illuminarono per un secondo, mentre posava la lattina ormai vuota sul mobile accanto a se’.
“Ah, forte!” esclamò estraendo il cellulare dalla tasca. Nella bassa luce dei lampadari da soffitto della cucina, lo schermo del blackberry di Brad gli illuminava i tratti più sporgenti del viso. Amanda sorrise, un po’ per l’affermazione del ragazzo e un po’ per la tenerezza provata in quel momento, quando aveva osservato quanto Brad fosse cambiato. Brad maneggiava con i tasti del cellulare. Scriveva il messaggio così velocemente che pensava che i pollici gli si sarebbero staccati dalle mani da un momento all’altro. Il messaggio che scriveva al suo amico era chiaro e coinciso, e necessitava di una risposta il prima possibile.
Hai ancora i biglietti per il concerto, vero?” Brad premette sul tasto dell’invio e tornò a guardare Amanda, che nel frattempo osservava le bambine iniziare una partita tra di loro.
“Io… ho due biglietti per il concerto di sabato!” esordì prima ancora che il fantomatico amico gli avesse risposto. Amanda si voltò verso di lui improvvisamente, guardandolo interdetta su cosa rispondere. Era forse un invito, quello? Brad guardò di nuovo il cellulare che, sfortunatamente, non conteneva nessun messaggio.
“Sì, insomma… Se ti va uno dei due è tuo…” Amanda aprì la bocca stupita e farfugliò qualcosa al vento. Doveva ammettere che per quanto la presenza di Brad fosse scomoda e imbarazzante, la proposta che le si presentava davanti era una delle migliori che avesse mai ricevuto. Rinunciare al suo gruppo preferito sarebbe stata una cosa impossibile. Amanda posò il piatto di sandwich sull’isola della cucina. Non sapeva cosa rispondere: in fondo accettare al primo colpo avrebbe fatto di lei un’approfittatrice.
“Io non lo so…” sussurrò Amanda. Bugia. Sapeva benissimo di voler andare, nonostante non fosse completamente attirata dall’idea di andare insieme a lui.
“Allora?” chiese nuovamente Brad, maneggiando ancora con i tasti del cellulare. Qualunque fosse stata la risposta di Tristan, ormai Brad non poteva tirarsi indietro. Biglietti o no, ormai lui l’aveva invitata e non poteva ritirare ciò che aveva detto.
“Bhe…” bofonchiò Amanda, osservando le sue malandate scarpe di tela.
“Mi piacerebbe molto…” ammise. Il viso di Brad si illuminò all’istante.
“Fantastico!” Amanda sorrise e prese nuovamente il piatto di sandwich dal piano della cucina. Fece – nuovamente – per andare in soggiorno. Camminando a passi svelti sorrideva, rendendosi effettivamente conto di poter partecipare ad un concerto della sua band preferita. Finalmente il cellulare di Brad vibrò. La tanto attesa risposta alla sua domanda era arrivata. Colmo di gioia per il fatto di poter passare un’intera serata con Amanda, lesse ciò che il messaggio conteneva. Continuava a ripetere a se stesso che il suo amico lo avrebbe aiutato, e cercava di autoconvincersi che i biglietti fossero ancora disponibili.
Bhe… Non proprio.” L’entusiasmo di Brad si spense all’istante, mentre il panico invadeva ogni centimetro del suo corpo. Buttò la testa oltre la porta della cucina, osservando quanto Amanda apparisse felice in quel momento. Un senso di colpa iniziò a divorarlo dall’interno, mentre rifletteva su come rimediare al danno fatto. L’idea di deludere le aspettative di Amanda non era neanche lontanamente fattibile per lui. Il campanello suonò qualche minuto dopo e Brad si ridestò dalla sua trance di pensieri, sapendo che Tristan fosse andato a prenderlo.

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Capitolo 6
*** Capitolo sei. ***


Capitolo sei.

Erano le nove meno dieci e a breve James sarebbe dovuto salire sul palco. Tris e Brad erano seduti in prima fila e cercavano il loro amico con lo sguardo. Connor continuava a lavorare, ma si sentiva particolarmente ansioso.
“Hey Anne hai visto il mio amico? Quello che deve cantare stasera... alto, capelli biondi e molto, ma molto agitato.”
“Quello con cui stavi poco fa?” disse Anne arricciando le labbra in un sorriso. Connor ora si chiedeva cosa Anne, la bellissima cameriera, avesse da ridere in un momento come quello. Il suo migliore amico era scomparso e tra poco sarebbe stato il suo turno di esibirsi.
“Anne per favore aiutami! È davvero importante che io lo trovi.” Una ruga di preoccupazione si formò sulla fronte di Anne. Sembrava così fuori posto in quel viso così solare e ricoperto di lentiggini.
“Dai andiamo a cercarlo.” Anne e Connor iniziarono dai posti più ovvi come i bagni e le cucine. Il capo lanciava loro occhiate di fuoco perché gironzolavano per il locale invece che lavorare, ma gli altri dipendenti avevano capito la situazione e si operavano per sostituire Anne e Connor al meglio. Connor andò a controllare fuori vicino alle auto e si accorse che la macchina di Anne veniva trasportata via da un carro attrezzi. Urlò contro il burbero conducente che però non si degnò neanche di guardarlo e continuò a guidare mangiando un enorme panino. Perché rimuovevano le auto in sosta vietata anche con la neve? Connor rientrò per avvisare Anne. Intanto lei aveva avuto un'illuminazione. Se lei fosse stata nella situazione di James si sarebbe nascosta sulla terrazza sul tetto anche con quel tempo terribile. Mentre saliva la scala a chiocciola sperava che James avesse avuto quella stessa idea. Aprì la botola con un tonfo e lo trovò seduto su una vecchia cassetta di legno che guardava il cielo, che era una cappa di nuvole.
“Non si vede neanche una stella” -disse Anne. James sobbalzò e sembrò svegliarsi. Si alzò di scatto e si avvicinò alla botola.
“Ehm si.... ecco sto scendendo.”
“James io non ti conosco ma se sei bravo anche solo la metà di quello che mi ha detto Con li stenderai tutti là dentro.”
“Grazie.”
“Di niente. Io comunque sono Anne.”
“Piacere, tu sai già chi sono io.”- James le porse la mano.
“Infatti. Connor parla sempre di te.”
“Ok andiamo, prima che io cambi idea e scappi.”
“La prossima volta avvisa il tuo amico o rischieremo di perderlo a causa di un infarto.”
“Ok non lo merito un amico del genere.”
“Dai penserai dopo ad autocommiserarti ora andiamo di corsa!!”
“Ok prima le signore” -James aiutò Anne a scendere per la botola e la seguii. Ripercorsero correndo tutta la strada e sbucarono davanti al palco. James salì senza esitazioni. Appena Con lo vide dal fondo della stanza corse a portargli la chitarra.
“Appena scenderai da quel palco ti ucciderò. Stavi per mandare tutto a monte.”
“Scusami. Dimmi buona fortuna!”
“Rompiti una gamba! A dopo. Fai vedere chi sei!”

Non appena James si presentò al pubblico Brad e Tris iniziarono a gridare come due fan impazzite al concerto del loro idolo. Connor e Anne contribuivano acclamandolo mentre servivano ai tavoli. Quando riecheggiarono le note della prima canzone il silenzio calò sulla sala. Tutti fissarono lo sguardo su quel ragazzo biondo che suonava. James mantenne tutti gli occhi puntati su di sé fino al ritornello della prima canzone, poi tutti tornarono alla loro cena. I suoi amici erano perplessi. Perché nessuno gli prestava più attenzione? Eppure quella era una delle sue migliori performance da sempre. Anne cercò di invitare qualche cliente ad ascoltare James lodandolo, ma tutti si limitavano a tuffare le loro facce nei piatti senza curarsi di niente e di nessuno. Connor faceva cenni di incoraggiamento al suo amico che iniziava a spaventarsi. James si guardava intorno. In fondo a lui cosa importava di quelle persone? Se lo ascoltassero o no lui ormai stava vivendo la sua occasione e la decisione di assumerlo non spettava al pubblico ma solo al capo. Allora decise di suonare per sé stesso e per i suoi amici. Iniziò a cantare una vecchia ballata e invitò tutti a ballare. Dal microfono chiamò Connor.
“Hey invita a ballare la mia nuova amica Anne!!” Connor perse immediatamente il sorriso. Fece un appunto mentale: vendicarsi alla prima occasione. Cosa doveva fare. Iniziarono a sudargli le mani e si rese conto di essere diventato rosso come un peperone. La reazione di Anne, dall'altra parte della stanza non era stata da meno. Aveva fatto cadere a terra un piatto e si era subito chinata a raccogliere i pezzi per evitare lo sguardo di Connor.
“Ragazzi finchè non inizierete a ballare sarò il vostro tormento. Come un folletto dispettoso ma molto più affascinante!” Dove era finito il timido James? Forse si era accorto che nessuno lo stava ascoltando e voleva divertirsi un po'. Allora Tris e Brad guardarono James e capirono al volo. Quello era un tentativo bello e buono di far avvicinare Connor a quella ragazza. Decisero di aiutarli. Brad si avvicinò al palco e chiese a James di indicargli Anne. Una volta trovata andò da lei. Tristan invece trascinò Connor nello spazio vuoto davanti al palco. Anne vide avvicinarsi Brad e capì che doveva essere un amico di Connor e James.
“Ciao sono Brad. Ti andrebbe di ballare con il mio amico? Così l'altro mio amico ci lascerà godere la serata e si limiterà a cantare.”
“Sei sicuro che Connor voglia ballare con me? Non mi sembra troppo convinto.”
“Per favore.” Anne raggiunse Connor. Il cuore le batteva all'impazzata. Cosa gli avrebbe detto? Intanto James aveva iniziato un nuovo pezzo, ancora più romantico del precedente.
“Anne ti prego scusami. I miei amici sono così invadenti a volte.”
“Se non morirò di vergogna li perdonerò.”
“Dai, che importa nessuno ci sta guardando.” I ragazzi si guardarono intorno e risero. Nessuno si era accorto di niente.
“Va bene.”- Anne poggiò le mani sulle spalle di Connor e lui le poggiò sui fianchi di lei. Entrambi dovettero ammettere che non era stata una brutta idea quella di James, ma sapevano che dopo quel ballo il gelo sarebbe di nuovo sceso tra di loro. Così cercarono di vivere tutta l'intensità di quel momento. James sorrideva come un bambino e Brad e Tris fingevano di asciugarsi le lacrime.
“Come è romantico!”- esclamò Brad.
“Tu non mi hai mai invitato a ballare!”- lo rimbeccò Tristan.
“Stai pur certo che stasera non lo farò! Anzi non aspettartelo affatto!”
“Ahahahahah sopravvivrò lo stesso, amico mio!”
“Che razza di discorsi! Sembriamo una coppietta in luna di miele!”
“Pensa quando avremo delle ragazze... addio momenti del genere.. perciò godiamoceli!”
“Tu sei pazzo”
“Lo so. Modestamente è un mio pregio.” Per tutto il ballo Connor e Anne non si rivolsero la parola. Quando James smise di cantare Anne si staccò da Connor e prima di tornare a lavorare gli diede un bacio sulla guancia. Connor non seppe spiegarsi quel gesto.

Note delle autrici:
chiediamo umilmente perdono per il lungo lasso di tempo che ha distanziato la pubblicazione dello scorso capitolo, da quest'ultimo.
Purtroppo, siamo state costrette a non vederci per parecchio tempo a causa delle vacanze e far coincidere ogni cosa è risultato problematico.
Speriamo che anche questo capitolo possa piacervi come gli altri.
A presto. xx

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Capitolo 7
*** Capitolo sette. ***


Capitolo sette.

Connor indossava una camicia bianca sbottonata fino a metà petto e dei pantaloni lunghi marroni. Guardava il suo riflesso alla luce soffusa delle candele. La stanza era vuota e su di essa troneggiava un immenso lampadario di cristallo che rifletteva la luce in una miriade di frammenti. Il pavimento nero lucido era calpestato soltanto da lui e i suoi passi riecheggiavano per l'enorme sala. Poi all'improvviso delle note riempirono l'aria. Dapprima quasi impercettibili, poi in lontananza, fino a diventare sempre più forti. Ora il lampadario ondeggiava a causa di quella musica, quasi come se volesse ballare. La luce delle candele ora tremava e rendeva ancora più difficile guardarsi intorno. Per questo Connor non la vide arrivare. Sentì soltanto un rumore di passi veloci dietro di lui e poi delle mani poggiate sulle sue spalle. Si voltò e si ritrovò faccia a faccia con una maschera nera e oro. Quella maschera gli era stranamente familiare e gli ricordava il Carnevale di Venezia, cui aveva assistito con i suoi genitori. La persona che indossava la maschera era una donna. Era poco più bassa di lui e anche nell'oscurità quasi totale poteva scorgerne il lungo vestito nero che toccava terra. Non poteva distinguere bene il suo volto, ma vide che si portò l'indice sulle labbra chiedendogli di fare silenzio. La musica continuava ad arrivare. Allora lei posizionò le mani di lui sui suoi fianchi poi lei gli mise le braccia sulle spalle intorno al collo e lo attirò a sé. Iniziò a muoversi a tempo e lo trascinò con lei. Connor si lasciava guidare e chiuse gli occhi, dopo qualche istante sentì un contatto sulle sue labbra. Aprì gli occhi e si ritrovò ad accettare un bacio da quella ragazza. Le sue labbra erano calde e morbide e sapevano di...vaniglia.
Fu allora che Connor aprì gli occhi. Un senso di dejà vu lo investì. Quel sogno poteva aver avuto origine solo dalla distorsione di una scena che aveva vissuto veramente. Le sera prima. Ancora non riusciva a crederci. Aveva realmente ballato con Anne? O era solo un altro gioco della sua mente? Certo se le cose erano veramente accadute, non erano neanche lontanamente simili al suo sogno. Cercava di ricordare cosa avesse provato la sera prima quando Anne dopo aver ballato gli aveva dato un bacio, ma non un vero bacio come quello del sogno. Si era sentito confuso. Nient' altro. Nessuna farfalla nello stomaco. Come c'era da aspettarsi era solo arrossito. Come Anne d'altronde. Chissà se lei aveva provato qualcosa di diverso. Decise che non appena avesse recuperato un po' di coraggio avrebbe tastato il terreno per scoprire cosa Anne provasse per lui. Era certo che i suoi amici lo avrebbero aiutato. Dovevano farlo.
Si rigirò nel letto e controllò la sveglia. Erano le 5.30 del mattino. Decisamente troppo presto. Ma quel sogno gli aveva lasciato una strana sensazione di inquietudine e decise di alzarsi. La sua stanza era del tutto buia e dal resto della casa non provenivano rumori. A piedi nudi si diresse meccanicamente verso il bagno in fondo al corridoio. La moquette verde scuro attenuava il rumore dei suoi passi, che Connor percepiva solo come un suono ovattato e rilassante. Aprì la porta del bagno senza far rumore e la richiuse subito alle sue spalle. Si trovò davanti alla sua immagine riflessa. Il suo pigiama troppo lungo lo faceva sembrare un bambino che aveva rubato i vestiti del papà. I suoi capelli erano una massa indistinta e schiacciata sul lato destro, cioè quello che era stato appoggiato al cuscino per tutta la notte. Optò per una bella doccia. Una volta fuori decise che avrebbe potuto iniziare a prepararsi per la scuola. Indossò un paio di jeans grigi sbiaditi e una t-shirt che aveva furtivamente rubato dall'armadio di Brad. Era normale che ogni tanto dagli armadi dei ragazzi sparisse qualche capo che poi ricompariva misteriosamente addosso a qualcuno di loro. Decisamente così avrebbe avuto freddo, così estrasse dal cassetto una felpa pulita. Passò i venti minuti seguenti davanti allo specchio a sistemare i suoi capelli, munito di gel e lacca. Una volta pronto scese a fare colazione. Solitamente i sogni lasciano delle sensazioni per tutto il giorno e Connor lo odiava. Anche perché la scena del ballo non era stata così bella. Se doveva dire la verità, lo aveva spaventato. Un brivido gli percorse la schiena e lui cercò di tenersi impegnato con la colazione. Aprì la credenza e ne estrasse una tazza che riempì di latte. Poi mise due fette di pane nel tostapane e andò a caccia di marmellata. Dopo parecchi minuti la individuò. Terzo scaffale a destra. Il più alto. Ovviamente l'unico che non potesse raggiungere. Così trascinò lo sgabello della penisola della cucina sotto la credenza e si arrampicò. Odiava non avere le cose a portata di mano persino a casa sua. Conquistata la marmellata saltò giù dallo sgabello giusto in tempo per salvare i toast. Trovati tutti gli ingredienti si sedette a mangiare. Masticava ogni singolo boccone con cura e lentamente. Voleva ritardare la sua uscita da casa. Bevve con calma il suo latte e prima di uscire dalla cucina lavò la tazza, il piatto su cui aveva poggiato il toast e le posate. Guardò l'orologio. Ora era abbastanza tardi per uscire. Tornò nella sua stanza e agguantò la felpa. All'ingresso prese la sua giacca vecchia dall'appendiabiti e le chiavi della sua auto dal portadolci sul mobiletto del telefono. Fuori faceva molto freddo e Connor corse verso la sua auto. Salutò con un cenno la signora Jackins che come ogni mattina portava a passeggio il suo bassotto crudelmente infilato in un maglioncino rosso fatto ai ferri. Incontrò anche il postino, il signor Ramonez con il suo furgoncino bianco. La macchina era parcheggiata sull'altro lato della strada perché il garage era occupato da quella di suo padre. Come sempre. La sua povera River soffriva il freddo tutte le notti, ma nonostante tutto al mattino dopo almeno quattro o cinque tentativi, riusciva sempre a partire. Dovette maneggiare un po' con la chiave per aprire lo sportello, ma finalmente riuscì ad entrare. Non appena si sedette si ricordò di un particolare. Il suo zaino. Lo aveva lasciato in camera sua. Sbuffando scese di nuovo, chiuse l'auto e corse di nuovo verso casa. Passò ancora davanti alla signora Jackins che lo fissò scuotendo il capo e al signor Ramonez che trascinava un enorme pacco su per le scale dei vicini dei Ball. Connor rientrò senza preoccuparsi di fare rumore e nel giro di due minuti era di nuovo per strada. Solitamente faceva con calma il tragitto verso scuola, ma quella mattina no. Le strade non erano particolarmente trafficate, ma quella mattina lo erano. Con ciò arrivò davanti al parcheggio della scuola con un quarto d'ora di ritardo. Iniziò la caccia al posto. Ne individuò uno alla fine del parcheggio. Accelerò e lo puntò con determinazione. Giusto in tempo si accorse di un'altra auto che veniva dall'altra parte del parcheggio e che aveva il suo stesso obiettivo. Era una Mercedes nera. Lucida e nuova. Non poteva lasciarsi prendere il posto. Lo doveva a River. Era una questione di onore. Probabilmente anche il conducente dell'altra auto stava facendo lo stesso ragionamento. Poi la rivelazione. Il parcheggio era occupato da un vecchio motorino. Chi diamine usava il motorino in inverno? Purtroppo sia Connor sia l'altro ragazzo -ora lo riconosceva- presi di sorpresa non frenarono e rischiarono di fare un frontale. Connor fortunatamente riuscì a sterzare , anche se si scontrò con il fianco della Mercedes, portando via la vernice. Dopo l'accaduto i due spensero i motori e scesero dalle auto. Sean scrutò Connor con fare minaccioso dalla testa ai piedi. Poi spostò lo sguardo dalla sua macchina a River.
“Il tuo catorcio ha distrutto la fiancata della mia auto.”
“Distrutto non direi. Poi sei stato tu a venirmi addosso. E se non avessi cambiato direzione ora saremmo decisamente messi molto peggio di così.”
“La gente non dovrebbe girare con auto come la tua. Ora se non vuoi passare un mare di guai ti consiglio di darmi i soldi per i danni.”
“Non so se hai notato, ma neanche la mia auto ne è uscita illesa.” Infatti anche dalla fiancata della sua auto era stata portata via una larga porzione di vernice azzurra e ora era tornata allo scoperto una mano di vernice bluastra.
“Non si nota neanche la differenza. La tua auto era già orribile!” I ragazzi avrebbero continuato ad insultarsi per sempre se un'altra macchina non fosse entrata nel parcheggio e non si fosse avvicinata a loro. L'auto si fermò in doppia fila spegnendo i fari. Gli sportelli si aprirono e i passeggeri scesero. Erano davanti a loro quando Connor sentì quell'odore.
Profumo di vaniglia.

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Capitolo 8
*** Capitolo otto. ***


Capitolo otto.

Tristan entrò correndo nell'edificio scolastico, trascinando dietro di se' la vecchia borsa a tracolla contenente i suoi libri. I capelli e i vestiti sgocciolanti dovuti dalla pioggia battente e incessante che si scagliava fuori dalle mura. Anche quella mattina era arrivato con un evidente ritardo alle lezioni, per una causa che anche a lui era sconosciuta. Quella mattina, però, era riuscito a battere il suo record e a mettere piede nella scuola con ben mezz'ora di ritardo. Nei corridoi ormai vuoti riecheggiava il rumore dei suoi passi trascinati sulle mattonelle. Non avrebbe avuto il tempo di badare a niente, compreso il suo armadietto e i libri che avrebbe dovuto riporre al suo interno. Mentre le sue scarpe bagnate scivolavano sul pavimento, ancora bagnato dalla pioggia trascinata dai piedi degli studenti, si avvicinava alla porta della sua aula andando a sbattere contro i muri e gli armadietti. Una volta arrivato di fronte alla porta della sua aula di francese sapeva di dover affrontare la strigliata del professor Danwoodie. La sua voce severa e profonda proveniva dall'interno della stanza, mentre Tristan osservava la sua ombra fare avanti e indietro nell'aula. Finalmente si decise ad aprire la porta.
Dopo aver bussato si ritrovò con la schiena attaccata alla porta e gli occhi di tutta la classe puntati su di se'. Il professore aveva interrotto la lezione e guardava Tristan accigliato, mentre lo sguardo del ragazzo vagava da Heather -che lo fissava con un sorrisetto provocatorio in viso- a Marjory -che lo osservava scuotendo la testa-. La voce profonda e ruggente del professore risuonò subito nell'aula.
"Vedo che anche oggi ci delizia con la sua presenza, signor Evans." Tristan ridacchiò soddisfatto e si sedette al suo banco abituale, senza neanche chiedere scusa. Il signor Danwoodie riprese subito la sua lezione sulla letteratura francese, mentre Tristan si impegnava a scrollare l'acqua dai suoi folti capelli, passandoci una mano attraverso. Tristan si voltò verso i banchi infondo all'aula, trovando Heather impegnata a muovere freneticamente le dita sullo schermo del cellulare. Non prestò molta attenzione a quello che lei faceva, e portò lo sguardo altrove. In realtà il fatto che lei non lo avesse richiamato, non lo preoccupava minimamente; all'inizio pensava di aver fatto la cosa giusta facendola ingelosire, ma subito dopo si rese conto che aveva usato quella scusa per riuscire ad attirare l'attenzione di Marjory che fino a qualche tempo prima non gli aveva nemmeno rivolto la parola. In quel momento sembrava odiarlo ancora di più e Tristan si rese conto di dover fare qualcosa per riconquistare la sua attenzione.
Iniziò ad osservarla ad un paio di banchi di distanza dal suo: rannicchiata sopra il libro muoveva freneticamente il braccio, annotando ogni minima parola enunciata dal professore. Tristan sorrise guardandola, mentre il suo compagno di banco fissava la sua espressione ebete. Iniziò a pensare a tutte le minime stranezze di Marjory; insomma, secondo lui non era normale che una ragazza amasse lo studio tanto quanto lo amava lei. Guardando fuori dalla finestra, il ragazzo osservava la pioggia battente scagliarsi contro il vetro, mentre qualche goccia iniziava a trasformarsi in piccoli fiocchi di neve.
Quando Tristan tornò a prestare attenzione alla lezione del professore, l'argomento trattato era totalmente cambiato. Ora il grosso uomo panciuto che gli stava davanti farfugliava qualcosa a proposito di un progetto di gruppo. Già dal primo momento a Tristan non andava a genio quell'idea, e il suo entusiasmo si spegneva man mano che il professore accoppiava gli studenti. Non che a lui importasse più di tanto, in quanto ogni volta lasciava fare tutto il lavoro al suo compagno limitandosi a mettere una banale firma sul lavoro finito. Il ragazzo era sicuro che quella volta non sarebbe stato diverso. La sua mente era ormai persa in una catena infinita di pensieri senza capo ne' coda, mentre il suo nome venne fuori dalla bocca del prof. Tristan non poté fare a meno di notare una nota di disappunto nel suo modo di pronunciarlo. Qualche secondo di silenzio distanziò le frasi dell'uomo.
"Melinsky!" esclamò facendo passare la penna a sfera sulla lista degli alunni che aveva tra le mani. Tristan capì che quello sarebbe stato il suo compagno di studi. Si preoccupò in un primo momento, in quanto Gregor Melinsky non era mai stato uno degli allievi migliori della classe. Chi avrebbe fatto tutto il "lavoro sporco"? Tristan pensava e ripensava a come avrebbe fatto per sviare alla cosa. Impegnarsi per una ricerca di letteratura francese proprio non era nel suo interesse. Nel frattempo il professor Danwoodie continuava a richiamare alunni a caso, associandoli ad altri ragazzi in modo del tutto casuale. Tristan sbuffò e appoggiò il mento sulla mano, accasciandosi sul banco come in preda ad un improvviso attacco di pigrizia.
"Montgomery..." Tristan si sollevò immediatamente dal banco, vittima di un improvviso giramento di testa e si voltò nella direzione di Marjory. Quest'ultima si reggeva seduta sulla sedia in posizione perfettamente eretta con la schiena. Il solo suono del suo nome -proveniente dalla bocca del professore- aveva risvegliato Tristan dallo stato di pensieri nei quali era immerso. Il professore impiegò qualche minuto per trovare il compagno di studi perfetto per Marjory.
"Cunningham!" esclamò infine l'uomo. Marjory si tranquillizzò quando seppe chi sarebbe stato in coppia con lei. Lara Cunningham era la seconda ragazza più brava della classe -ovviamente dopo Marjory- e entrambe erano scoppiate dalla gioia quando si erano messe a pensare che effettivamente quello sarebbe stato un bel gruppo di studio.
Le labbra di Marjory si stesero in un sorriso raggiante, mentre Tristan tornò a stendersi sul banco chiedendosi per quale oscuro motivo quella ragazza fosse così allegra. Tristan capì che ogni studente della classe era stato accoppiato con qualcun altro quando non sentì più la voce profonda del professore farsi eco nella stanza. Guardando fuori dalla finestra i grandi fiocchi di neve, ebbe un'illuminazione che gli avrebbe migliorato di certo l'intera giornata (se non l'intero anno scolastico). Prima che lui potesse rendersi conto di ciò che stesse succedendo, le sue gambe erano dritte in piedi e le sue mani poggiate con forza sul piano in legno del banco. Sebbene non avesse ancora proferito parola, gli occhi dell'intera classe erano fissi su di lui, scrutando la sua espressione e cercando di capire a cosa stesse pensando. La voce di Tristan risuonò nell'aula prima che lui potesse controllarla. Marjory sobbalzò presa da un improvviso colpo di agitazione; sapeva che le intenzioni del ragazzo non erano delle migliori.
"Professore?" gli occhi di Marjory guizzarono da Tristan al professore, che se ne stava indaffarato a scarabocchiare cose alla lavagna. L'uomo si voltò improvvisamente al suono della voce di Tristan. Ancora gli occhi di tutti fissi su di lui.
"Sì?" lo incoraggiò il professore.
Tristan si schiarì la voce. A adesso o mai più. Quello sarebbe stato il suo tentativo di riscattarsi con Marjory.
"Vorrei fare coppia con Montgomery!" disse sicuro di se'. A Marjory andò la saliva di traverso quando udì quella frase. Cosa aveva intenzione di fare? Il destino le stava giocando un brutto scherzo, ne era sicura. Il cuore le batteva all'impazzata, mentre aspettava una risposta dal professore. Quest'ultimo si strinse nelle spalle guardando Tristan fisso negli occhi. Tristan, dal canto suo, se ne stava immobile appoggiato al banco, aspettando la fatidica risposta e sentendosi gli occhi di tutta la classe ancora puntati addosso.
"Per me va bene." disse il professore. Tristan si accasciò sulla sedia, felice e fiero di se' al tempo stesso.
Marjory si irrigidì di colpo, non sapendo se quella fosse una specie di vendetta da parte del ragazzo. Il professore prese di nuovo la lista fra le mani e cominciò a scarabocchiare su di essa. Il panico cominciò a montare in Marjory quando si rese conto che quel ragazzo la spaventava davvero. Fino a qualche giorno prima non gli aveva nemmeno rivolto la parola e ora si ritrovava con un bacio da parte sua e il ragazzo come compagno di studi.

Quando la campanella suonò, pochi minuti dopo, la classe si precipitò fuori dall'aula con Tristan come aprifila. A differenza delle altre volte Marjory guizzò fuori dal suo banco e corse nel corridoio. Tristan l'aspettava lì, appoggiato al muro con le braccia conserte. La ragazza si scaraventò contro di lui puntandogli un indice sul petto.
"Ora mi spieghi che intenzioni hai." lo intimò lei. Tristan si guardò intorno divertito.
Era proprio quella la reazione che avrebbe voluto. Soltanto quando tornò a guardare Marjory negli occhi si rese conto che la rabbia che la caratterizzava in quasi tutte le situazioni nelle quali erano insieme, ora si era trasformata in pura disperazione. Gli occhi scuri e profondi di Marjory - di solito pieni di luce e entusiasmo - ora si erano come spenti in un secondo, e Tristan notava in essi un velo di tristezza mentre lentamente questi si riempivano di lacrime. Tristan tenne il suo sguardo fisso in quello di Marjory per qualche minuto, pensando ad un modo per chiederle scusa. La ragazza cacciò via le lacrime e prese un respiro profondo.
"Ci vediamo a casa mia... domani, dopo la scuola."
Dopo aver sussurrato queste parole - e dopo aver lasciato Tristan senza parole, lì, appoggiato al muro - Marjory sgattaiolò via tenendo il solito libro fra le braccia. Tristan la guardò allontanarsi, rendendosi conto di aver sbagliato un'altra volta con lei. Con le ragazze non ci sapeva proprio fare. Il suo telefono squillò dalla sua tasca, risvegliandolo dai pensieri nei quali era immerso.
"Pronto?" rispose con voce assente.

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Capitolo 9
*** Capitolo nove. ***


Capitolo nove.

Brad aspettava al telefono da qualche secondo, giusto il tempo di un paio di squilli, ma lui iniziava già a spazientirsi. Tamburellando il piede sul pavimento del soggiorno, fissava il vuoto con un'aria bizzarra, tanto da voler rimproverare il suo amico dall'altro capo del telefono.
"Pronto?" rispose Tristan con voce assente. Brad roteò gli occhi e iniziò a camminare, preso da uno strano senso di agitazione.
"Oh, ce l'hai fatta!"
"Brad?" chiese confuso Tristan, che - ancora sconvolto dalla bizzarra reazione della giovane ragazza che gli stava di fronte - fissava immobile uno spazio vuoto nel corridoio.
"E chi sennò?!" Brad si stupì di se stesso per tutta l'acidità con la quale si stava riferendo al suo migliore amico. Scosse la testa a vuoto, passandosi una mano sulla fronte.
"Che hai?" chiese l'amico tornando nel Mondo reale.
"Lascia stare... Tu, piuttosto..." Brad si tuffò sul divano del soggiorno lasciando la frase a metà, cosa che faceva spesso e che sapeva infastidiva l'amico.
"Brad, parla!" brontolò Tristan con voce metallica.
"Che fine hanno fatto i biglietti?" L'amico roteò gli occhi in risposta. Per un secondo aveva creduto di essere stato scoperto per quanto riguardava la faccenda di Marjory.
"Li ho venduti a Matt Douglas!" Brad si rizzò in piedi sul divano, constatando che effettivamente i biglietti che gli sarebbero serviti per conquistare Amanda, non sarebbero mai stati suoi. Ora sì che era nei guai. "Sai... Credo che ci porterà la sua ragazza!" giocherellò l'amico, arrotolandosi un ciuffo di capelli fra le dita.
"Non scherzare, Tris." Brad sentiva il sangue ribollirgli nelle vene, mentre pensava a un modo per convincere il suo amico a disdire tutto con questo fantomatico Matt Douglas. "Quei biglietti mi servono!" supplicò Brad.
Tristan, che aveva già intercettato la testa rossa e riccioluta di Matt nel corridoio, si avviava verso di lui con sguardo di sfida, mentre elaborava mentalmente ciò che l'amico gli aveva appena detto.
"Come mai ci tieni tanto?" Brad sospirò esasperato, accasciandosi nuovamente sul divano. Il suo amico aveva toccato un tasto dolente; non aveva ancora parlato con nessuno di Amanda, e dei suoi amici James era l'unico che la conoscesse. Brad tenne la conversazione diretta verso il silenzio, sapendo che se avesse continuato in quel modo, Tristan avrebbe sicuramente cambiato argomento.
"Aspetta... Dove sei?" Brad sorrise divertito. Per grazia divina quel giorno era riuscito a convincere sua madre a farlo restare a casa, improvvisando degli strani giramenti di testa. In realtà aveva preferito non andare a scuola data la nottataccia passata: innanzitutto era tornato a casa a notte inoltrata a causa della serata di James al pub; poi aveva passato tutta la notte sveglio a rimuginare sulla storia dei biglietti e di Amanda. Ora si ritrovava accasciato sul divano con la testa penzoloni e con addosso il pigiama di pile e una vecchia felpa grigia.
"Sono a casa... Ma non è questo l'importante!" rispose di fretta. Sentì Tristan ridere dall'altro capo del telefono, ma non sapendone il motivo lo lasciò fare. Il suo obiettivo in quel momento erano solamente quei dannati biglietti. In un modo o nell'altro avrebbe portato Amanda a quel concerto; non avrebbe di certo perso un'occasione tanto preziosa di stare da solo con lei. Per qualche strano scherzo del destino Brad si sentiva stranamente nervoso, cosa che non gli era mai successa a causa di due stupidi biglietti per un concerto. Tristan lo tenne ancora un po' sulle spine, per farlo spazientire per bene.
"Allora?" gridò Brad come una femminuccia isterica.
"Allora, cosa? I biglietti sono suoi... Non posso mica riprendermeli!" Brad iniziò a sudare date le circostanze. C'era di sicuro qualcosa che non andava; sudare in pieno inverno non era una cosa da tutti i giorni.
"Fà qualcosa, Tris." piagnucolò.
"Puoi aspettarmi in linea?" Brad acconsentì col suo silenzio e incominciò a sentire l'amico parlare con qualcun'altro. Le voci risultavano abbastanza incomprensibili e Brad decise di passare a tutt'altro; iniziò a pensare a cosa avrebbe fatto una volta chiusa la telefonata, quando non avrebbe avuto i biglietti. Amanda lo avrebbe odiato. E non poteva darle torto; era questa la lezione che si meritava. Sarebbe stato un disastro. Nella sua mente si figurò in un istante il volto deluso e triste di Amanda. Non poteva pensarci. La sua pazienza era arrivata al limite. Tristan continuava a brontolare cose incomprensibili con qualcuno nel corridoio, mentre Brad se ne stava lì, appollaiato sul divano in preda alla disperazione più totale. Dei rumori confusi vennero fuori dal telefono e Brad dovette staccare il Blackberry dall'orecchio per quanto questi fossero fastidiosi. Tristan tornò a parlare.
"Brad?" brontolò. Il ragazzo non rispose, incapace di parlare al momento. "Brad, sei lì?"
Brad bofonchiò qualcosa in risposta che sperava assomigliasse a un 'sì' e si scompigliò il ciuffo di capelli ricci con una mano.
"I biglietti sono tuoi!" annunciò l'amico. Brad ebbe un tuffo al cuore e saltò di nuovo in piedi sul divano quando prese realmente coscenza di ciò che avesse detto Tristan.
"Sapevo di poter contare su di te!" disse con le lacrime agli occhi. Tristan scoppiò in una risata che risuonò per tutto il corridoio scolastico; sapeva di non poter deludere il suo migliore amico. Anche se tutto gli era costato una specie di prepotenza nei confronti del povero Matt, al quale aveva umilmente chiesto scusa.
"Non esagerare..." bofonchiò con modestia. Nel frattempo Brad saltellava sul divano come fosse un bambino di cinque anni, mentre organizzava di già i piani della serata successiva con Amanda. Tutto sarebbe stato perfetto.
"È per questo che ti amo!" Tristan continuava a ridere sentendo le frasi bizzarre del suo amico in preda ad attacchi di follia ed entusiasmo.
"Fatti una doccia, Brad." gli consigliò l'amico; poi chiuse la chiamata. Una doccia avrebbe sicuramente chiarito le idee a Brad. Quest'ultimo gettò il Blackberry sul divano, senza neanche preoccuparsi della fine che avrebbe fatto. Scese dal divano con un salto. Atterrò su qualcosa di duro, che produsse un suono metallico contro il pavimento. Confuso, prese l'oggetto fra le mani: era un braccialetto di metallo con tanto di ciondoli appesi; fra i quali una piccola e lucente A. Brad capì che quel bracciale apparteneva ad Amanda, non solo per la lettera appesa ad esso, ma anche perché ricordava di averlo visto al polso della ragazza, una volta.

Amanda se ne stava seduta sul suo letto a baldacchino, con la schiena appoggiata alla testiera , ad ascoltare l'intera vita amorosa della sua migliore amica.
"E così mi ha mollata!" brontolava lei scocciata, mentre si passava uno strato di smalto blu notte sulle unghie dei piedi.
Amanda sfogliava svogliatamente un vecchio giornale di gossip, mentre ascoltava spezzoni del racconto della sua amica, che sembrava essere nel panico a causa del suo fidanzato. In realtà i pensieri di Amanda non erano neanche rivolti alla stupida rivista che aveva fra le mani, bensì alla serata imminente che avrebbe passato ad ascoltare la sua band preferita. Soltanto un piccolo neo le oscurava la meraviglia di quella serata: Brad. Avrebbe dovuto passare ore ed ore assieme a lui. Ma avrebbe fatto questo ed altro pur di andare a quel concerto.
"E ha anche detto di avere una nuova ragazza!" gridò l'amica nell'esasperazione.
"Sam..." sussurrò Amanda con molta calma, chiudendo la rivista e poggiandosela sulle gambe. "Sai qual é il suo problema?"
L'amica scosse la testa, reprimendo la rabbia che sembrava uscirle fuori dal petto.
"Lui non ti merita!" dichiarò Amanda, dandole delle leggere pacche su una spalla. Tornò a sfogliare la rivista vecchia e logora, di qualche anno prima, cercando in tutti i modi di evitare lo sguardo sconvolto della sua amica.
"Tu credi?" sussurrò l'altra. Prima che Amanda potesse rispondere, il suono del campanello interruppe la loro conversazione.
"Vado io..." farfugliò l'amica, sapendo che le due fossero da sole in casa. Amanda non staccò il naso dalle pagine, mentre sentiva il peso di Samantha svanire dal letto. L'amica corse giù per le scale e aprì la porta, ritrovandosi uno strano ragazzo a fare i conti con la lastra di ghiaccio che sormontava le scalette d'ingresso. La ragazza lo fissò con perplessità mentre Brad, accortosi della sua presenza, si affrettò a darle delle risposte.
"Sam, chi è?" gridò Amanda, saltando i gradini delle scale e affacciandosi verso la porta. Rimase pietrificata quando vide Brad sulla soglia di casa sua stringersi nel maglione. Fece cenno all'amica di andare e si parò davanti alla porta, dimenticando persino di far entrare Brad.
"Hai dimenticato questo." Brad le porse il piccolo braccialetto d'acciaio trovato nel suo soggiorno e sorrise, nell'intento di rassicurare Amanda che sembrava fissarlo con il terrore negli occhi. Anche lei sorrise, prendendo il mucchio di acciaio fra le mani.
"Ti ringrazio... Non so come avrei fatto senza!" spiegò la ragazza, riallacciandosi il bracciale al polso. Brad si sentì sollevato. Finalmente aveva fatto qualcosa di buono.
"Allora... Ci vediamo domani." disse lui, vergognandosi dello sguardo attento dell'amica di Amanda che se ne stava nascosta dietro la colonna delle scale. "Alle otto." concluse.
Amanda annuì sorridendo e Brad si allontanò dal vialetto, facendo del suo meglio per non scivolare. Una volta che Amanda ebbe chiuso la porta si rese conto che Samantha fosse nascosta dietro le scale.
"Chi è quello?" gridò l'amica con voce più acuta del solito. "È carino!"
Amanda roteò gli occhi e si diresse di nuovo al piano di sopra, ripensando all'inaspettata sorpresa di Brad e al fatto che avrebbe trascorso la serata successiva insieme a lui. Per la prima volta iniziava a vedere una nota positiva in tutto ciò.

Note delle autrici:
salve a tutti! Ecco qui il nono capitolo (finalmente). Come al solito ringraziamo tutti quelli che hanno letto e soprattutto quelli che hanno recensito.
Mi raccomando, continuate a farlo e fateci sapere cosa pensate!
A presto xx

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Capitolo 10
*** Capitolo dieci. ***


Capitolo dieci. 

Quando James aprì gli occhi al mattino era felicissimo. Ripensò alla serata, alla sua ansia prima di cantare, ai suoi amici che lo avevano aiutato, al momento in cui aveva fatto ballare Connor e Anne. In tutto ciò il pubblico non lo aveva ascoltato minimamente. Lui però aveva continuato a suonare e alla fine dello show era fiero di se stesso. Aveva riacquistato molta sicurezza. Ormai aveva capito che quella serata era stata un ottimo esercizio per uscire dalla depressione e ora si vergognava moltissimo al ricordo del momento in cui Connor lo aveva trovato chiuso nella sua stanza. Come aveva fatto a finire in quello stato ? Stava vivendo una fantastica avventura in una nuova città e oltretutto senza essere di peso alla sua famiglia. Inoltre ora viveva vicino ai suoi amici e potevano contare gli uni sugli altri. Aveva deciso di non sprecare neanche un istante della sua vita. Così non appena la sveglia suonò aprì gli occhi e si alzò. Quando si ritrovò in piedi capì di essersi alzato troppo in fretta e avvertì un fortissimo giramento di testa. Ricadde sul letto in un istante. Rimase lì sdraiato a ridere. Ora poteva dire che l'espressione “iniziare con il piede sbagliato” era fondata. Ci riprovò. Stavolta con calma. Una volta in piedi decise di sbarazzarsi immediatamente del suo vecchio pigiama verde e dei calzettoni di spugna . Andò in bagno e fece una doccia dopo aver gettato il pigiama nel cesto dei panni sporchi. Poi la suoneria del suo telefono lo fece sobbalzare. Uscì di corsa dalla doccia, si avvolse in un asciugamano e cercò disperatamente di capire da dove arrivasse la musica. Trovò il cellulare nascosto tra le lenzuola in fondo al letto.
“Pronto?”
“Buongiorno. Parlo con James Mcvey?”
“Si chi è lei?”
“Sono Augustus Brown, il proprietario del Black Crown. Volevo parlarle della serata di ieri.”
James sentì immediatamente la gola seccarglisi. Dovette deglutire almeno tre volte prima di poter rispondere.
“Ehm.. certo mi dica.” Ora James temeva per ciò che gli avrebbe detto quell'uomo. Se avesse mostrato di essere insoddisfatto, per Connor sarebbe stata la fine. Non avrebbe mai dovuto accettare quella serata.
“Come ha notato non ha riscosso molto successo tra il pubblico...”
“Lo so ma....”
“Non mi interrompa! Odio quando le persone lo fanno!”
“Mi scusi.”
“Come le dicevo, il pubblico non mi è sembrato molto partecipe. Ma questo significa che nessuno si è lamentato dell'intrattenimento. Perciò l'assumo a tempo indeterminato. E inoltre io e i dipendenti abbiamo apprezzato molto la sua musica. Complimenti.”
“Ehm...”
“Giovanotto, un gatto le ha forse mangiato la lingua?”
“Ehm...No signore. È solo che non me lo aspettavo. Grazie infinitamente. Non la deluderò.”
“Inizia questa sera alle sette. Però dopo pranzo dovrebbe venire qui per firmare alcune carte.”
“Certo signore. A dopo.”
“Sisi...”- e il signor Brown riattaccò. James gettò il telefono sul letto e iniziò a correre per la stanza urlando. Aprì la portafinestra e uscì sul balcone. Gridò all'aria, contro il vento freddo che lo faceva rabbrividire. Intravide due passanti in strada alzare gli sguardi verso di lui. D'altronde era un ragazzo coperto solo da un asciugamano che strillava da un balcone. Come poteva biasimarli? Dopo qualche minuto dovette rientrare. Stava congelando. Si vestì in fretta e iniziò a sistemare l'appartamento. Raccolse tutti i cartoni della pizza e le bottiglie che aveva lasciato in giro nei giorni precedenti. Cambiò le lenzuola e riempì la lavatrice di vestiti. Impiegò un tempo infinito per avviarla e quando finalmente ci riuscì rimase a guardare attraverso l'oblò i vestiti che giravano come quando era bambino. Per non tralasciare niente passò anche l'aspirapolvere sulla moquette. Mentre puliva la cucina si accorse di essere rimasto a corto di provviste di ogni genere. Una visita al supermercato era d'obbligo. Decise che sarebbe andato dopo essersi recato al pub nel pomeriggio. Moriva dalla voglia di dire ai suoi amici del lavoro, ma voleva fare loro una sorpresa. Si ricordò immediatamente del suo lavoro come guardiano. Doveva chiamare il suo capo e licenziarsi. Compose automaticamente il numero -aveva la straordinaria capacità di memorizzare tutti i numeri di telefono- e aspettò un qualsiasi tipo di risposta. Il capo non era lì, perciò lasciò il messaggio da recapitare alla segretaria, la quale lo informò che gli spettava una sorta di liquidazione che doveva andare a ritirare. James lo aggiunse mentalmente alla sua lista di impegni per il pomeriggio. Intanto si avvicinava l'ora di pranzo, ma ovviamente il frigorifero era vuoto. Nelle vicinanze non c'era molta scelta, così optò per lo Starbucks sotto casa sua. Voleva scendere immediatamente, ma si rese conto di essere impresentabile. Le pulizie lo avevano reso un disastro e il suo odore-dovette ammettere- non era proprio quello di rose. Si lavò in un istante, si vestì e scese. Stava scendendo la seconda rampa di scale quando la porta dell'appartamento 10b si aprì. In quell'appartamento abitava da sola una signora sulla settantina. Ogni volta che si incontravano si fermavano a parlare. James era così triste per quella signora che diceva non avere nessuna famiglia. Difatti lei lo invitava spesso a cena o a prendere un tè e lui non trovava mai il coraggio di rifiutare. Il giorno del suo arrivo nella nuova casa era stata lei ad accoglierlo, visto che l'appartamento di James era di suo figlio che ora si era trasferito in Canada. James dovette dimostrare di essere un inquilino perfetto e sottoporsi ad un terzo grado degno di un poliziotto. L'audace signora non aveva risparmiato neanche le domande più intime. Si prendeva cura di lui come se fosse un figlio. Non appena lo vide davanti alla porta gli intimò di fermarsi.
“Dove credi di andare giovanotto?!”
“Salve signora Bloomsbury stavo andando a pranzo.”
“Forza entra.” E lo liquidò in quel modo senza lasciargli la possibilità di rispondere. James si ritrovò nell'ormai ben noto soggiorno della sua premurosa vicina. Quel posto gli ricordava la casa di sua nonna. Le pareti erano rivestite di carta da parati a larghe strisce rosa, crema e verdi. Al centro della stanza c'era un tavolinetto basso con il piano di vetro opaco fiancheggiato da un sofà e da due poltrone sugli altri due lati. Il lato vicino alla finestra era occupato da una televisione abbastanza grande. Dal soggiorno si aprivano poi a raggiera altre cinque stanze. La preferita della signora era la cucina e James era d'accordo con lei. Data la sua collocazione era la stanza più luminosa della casa. Ma la sua particolarità più grande era la sua forma, poiché era un'enorme stanza rotonda. Le pareti erano state dipinte ad arte dal defunto marito della signora Bloomsbury. Riportavano la rappresentazione di un mare in tempesta. Ogni volta che James entrava in quel luogo sentiva il bisogno di sfiorare con le punte delle dita le spuma del mare del disegno. Bastava guardare quel paesaggio per lasciarsi trasportare in un luogo lontano e sentire la brezza marina. Ma nella maggior parte dei casi l'odore del mare veniva felicemente rimpiazzato da quello delle gustose pietanze preparate dall'ottima cuoca, soprattutto in quel momento visto che stava preparando un piatto italiano. L'odore del pomodoro e della pasta calda appena uscita dal forno scatenarono l'appetito di James. La tavola era già apparecchiata per due. James provava una gratitudine immensa per quella donna minuta che usava portare gli occhiali tondi e dorati calati sul naso. James la associava ad una civetta. I suoi modi però erano tutt'altro che civettuoli. Era molto a modo e affabile. Non spettegolava mai e viveva la sua quieta esistenza passando da un ospizio all'altro, non come paziente ma come cuoca. Diceva sempre che neanche se avesse perso ogni genere di capacità avrebbe mai finito i suoi giorni in un ospizio. Non sopportava il modo in cui gli anziani venivano trattati e cercava di alleviare un po' delle loro pene preparando pasti succulenti e ricercati. Quando era a casa le piaceva prendersi cura di tutti i suoi vicini, proprio come una mamma chioccia.
“James caro siediti.”
“Grazie signora, ma lei mi sta viziando troppo.”
“Nient affatto. Anzi devi mettere su un po' di ciccia su quelle ossa. Riesco a contarle.”
“Va bene. Ci proverò.”
“Sappi che non ti alzerai da questo tavolo finché queste lasagne non saranno sparite.”
“Non saranno mica tutte per noi... vero?!”- disse James guardando con timore le teglie posate sul piano della cucina.
“Ovviamente! Non voglio metterti all'ingrasso per poi divorarti come le vecchiette delle favole. Due sono per gli inquilini del secondo piano.”
“Credo di non conoscerli.”
“Si sono appena trasferiti: una coppia e il loro bambino. Vengono da New York.”
“Dovrò presentarmi allora.”
“Infatti ora mangiamo e poi gentilmente porterai giù il pranzo ai signori. Mi raccomando fai vedere l'ospitalità di questo condominio. Non ne esistono molti del genere.”
“Certamente”. James stava morendo di fame ma sarebbe stato poco cortese avventarsi sul pranzo prima della padrona di casa. Finalmente la signora Bloomsbury mangiò il primo boccone e James poté fare lo stesso. La pasta era bollente e gli ustionava la lingua, ma era una delle cose più buone che avesse mai mangiato. Doveva assolutamente farsi insegnare qualche ricetta. I pasti che lui preparava erano veramente semplici e si basavano su tecniche basilari. Non voleva certo diventare un grande cuoco, ma variare un po' la sua alimentazione sarebbe stato piacevole. James ripulì tutto il suo piatto in pochi minuti. Ringraziò calorosamente la sua benefattrice e uscì dalla casa portando con sé il pranzo per i nuovi inquilini. Giunto al secondo piano davanti al loro pianerottolo, non sentì alcun rumore provenire dall'appartamento. Magari il bambino citato dalla signora Bloomsbury stava dormendo. James si stampò un sorriso sul volto e bussò alla porta. Immediatamente si ritrovò davanti ad un uomo sulla trentina. Era molto più alto di James e molto magro. Aveva i capelli castani tagliati corti e spettinati. Non era rasato di fresco e aveva la camicia tutta stropicciata come se si fosse addormentato vestito.
“Salve! Come posso aiutarti?”
James capì di averlo svegliato non solo dall'aspetto ma anche dal modo in cui parlava. Mentre fece quella semplice domanda sbadigliò almeno tre volte e aveva gli occhi cerchiati da profonde occhiaie. Non aveva una bella cera. Forse è per questo che tutti i genitori ricordano con un misto di felicità e stanchezza i primi mesi di vita dei loro bambini. James decise di mostrarsi allora ancora più cordiale e solare del solito.
“Buongiorno. Sono James Mcvey, uno dei vostri vicini. La signora Bloomsbury, un'altra vicina, vi manda queste lasagne per darvi il benvenuto nel palazzo e io colgo l'occasione per fare lo stesso.”
“Oh veramente?! Grazie mille. Andrò a ringraziarla non appena mia moglie tornerà a casa. Non posso lasciare Jacob da solo. Potrebbe svegliarsi da un momento all'altro.”
“Jacob deve essere vostro figlio. La signora Bloomsbury mi ha detto di lui. Lo controllerei io ma ho un colloquio di lavoro”.
“ Non preoccuparti James. Io comunque sono Will. Quando avrai tempo vieni a trovarci così prendiamo un caffè insieme.”
“Grazie Will a presto allora.”
Nonostante tutte le buone intenzioni, James era salito sulla sua auto molto in ritardo. Guidò a tutta velocità verso il Black Crown. Alla radio trasmettevano una canzone che James adorava, e perciò decise che quella sarebbe diventata la colonna sonora della sua nuova avventura. Nella sua vita tutti i momenti più importanti avevano avuto una canzone. La sua prima cotta era stata accompagnata da Bon Jovi, il suo primo bacio dai Beatles , come le prime serate con i suoi amici del resto. Il suo primo vero successo in campo lavorativo era diverso da tutte le sue esperienze precedenti. Si sentiva confuso, felice, ma allo stesso tempo sentiva il peso di una grande responsabilità. Perciò il suo nuovo lavoro si rifaceva perfettamente a quella canzone. Pensò sorridendo che magari quella sera avrebbe cantato quella canzone e che l'avrebbe dedicata ad una persona a caso nel pubblico. Probabilmente ad una ragazza. Quando raggiunse l'ultimo semaforo prima del pub, realizzò completamente di aver raggiunto il suo obiettivo più grande. Ora sperava soltanto di non combinare un disastro. Il parcheggio del locale era deserto eccetto per una automobile. James parcheggiò senza curarsi di rispettare le linee guida disegnate a terra. Lasciò la sua auto proprio nel centro del piazzale. Apri lo sportello e scese guardandosi intorno. Dall'interno proveniva un rumore di mobili che venivano trascinati e il ronzio di una vecchia radio. Nell'udirlo James inarcò le sue sopracciglia e scosse la testa. Chi stava lavorando all'ora di pranzo? Evidentemente qualcuno cui venivano pagati gli straordinari. James entrò dalla porta che era stata lasciata completamente incustodita e si diresse verso la cucina. La trovò perfettamente in ordine ma vuota. Le superfici del piano cottura e della penisola brillavano e nell'aria c'era un intenso profumo di detersivo che lottava contro il persistente odore di frittura. James allora controllò nella sala e trovò il suo nuovo capo seduto ad un tavolo circondato da carte e cartelle. Mentre le sfogliava senza sosta fumava una sigaretta senza curarsi di utilizzare un posacenere. James si schiarì la gola e il suo grasso capo alzò la testa guardando nella sua direzione. La sua espressione era la stessa della sera precedente nonostante ora non avesse nessun apparente motivo per essere in collera. Non appena si accorse di lui spense la sigaretta sul pavimento scuro lasciando un piccolo cerchio di cenere. Non si preoccupò neanche di recuperare la cicca da terra. Si gratto la grande pancia attraverso la sporca e maleodorante camicia e poi si dedicò al suo ospite.
“Ciao ragazzo. Che ci fai qui?”
“Salve signore. Sono qui per firmare le carte di cui mi ha parlato questa mattina al telefono. Mi aveva detto di passare per pranzo.”
“Ragazzo devi avermi capito male. Io non ho nulla da farti firmare.” Era come se uno specchio fosse precipitato a terra frantumandosi in mille pezzi e tutto ciò che rimaneva non era altro che un riflesso di una lontana e inafferrabile felicità.
“Quindi non sono assunto...” James era distrutto. Eppure era certo di aver capito il senso di quella telefonata. Era come se la realtà dovesse reggersi tutta sulle sue spalle.
“Mi scusi signore. Devo aver frainteso le sue parole. Credevo di aver ottenuto il posto.”
A questo punto l'omaccione esplose in una fragorosa risata.
“Ma infatti il posto è tuo. È solo che non c'è bisogno che tu firmi nulla. Quando mai un cantante ha firmato un contratto con un locale?!”
“Allora il lavoro è mio?”
“Ovviamente. Ora stringimi la mano e saremo d'accordo.”
“Grazie signore. Non la deluderò.”
“Sarà meglio per te.” Detto ciò il capo si alzò e uscì salutando James con un cenno del capo. James aspettò che scomparisse dalla sua portata per iniziare a gridare. Per qualche momento aveva realmente temuto che non lo avrebbe assunto. Ora stava liberando tutta l'ansia e la paura represse per giorni. Insieme alle sue urla si poteva percepire un senso di libertà volteggiare nell'aria. Aveva finalmente una fonte di sostentamento che lo soddisfaceva completamente. Quella sera avrebbe dato del suo meglio. I suoi amici sarebbero stati fieri di lui. Lo sapeva. Dopo quella che gli sembrò un'eternità sentì un rumore provenire dalla cucina. Era il suono assordante di pentole che cadevano al suolo. Si precipitò in cucina. Non appena varcata la soglia si trovò difronte ad una scena assurda. Il pavimento in marmo era ricoperto di pentole e stoviglie, mentre una sedia era rovesciata sotto ad una credenza ormai vuota. Evidentemente qualcuno doveva essere caduto mentre si arrampicava per riporre quegli oggetti al loro posto. Ma nella cucina non c'era l'ombra di forme umane. James perplesso decise di dare un'occhiata . Fece il giro della penisola e notò una macchia di sangue a terra. Non era molto grande. Era come se un taglio avesse sgocciolato sul pavimento. Ma James a primo acchito non poteva sapere quanto quel taglio fosse profondo. Era deciso più che mai a trovare quel qualcuno che doveva anche essere ferito. Probabilmente era uno dei dipendenti o peggio ancora un ladro. Ma la prima ipotesi lo convinceva di più. Poté confermarla non appena sentì un gemito giungere dalla stanza delle conserve. La porta era socchiusa e James la spalancò senza esitazione. In un angolo riconobbe una figura che conosceva.

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Capitolo 11
*** Capitolo undici. ***


Capitolo undici.

Sean si stava avvicinando minacciosamente con la mano protesa in avanti ed era pronto ad afferrare Connor per il cappuccio della felpa. Connor indietreggiò.
Entrambi i ragazzi si accorsero dei nuovi arrivati nello stesso istante. Connor dopo aver sentito il profumo non poteva credere ai suoi occhi. Ora si trovavano tra lui e Sean niente meno che Emily e un uomo. Quest'ultimo fece indietreggiare Sean spingendolo per il petto.
“Ragazzo se fossi in te manterrei la calma.”
“Chi diavolo sei?”- sbraitò Sean rivolto all'uomo. Intanto Emily si teneva a distanza.
“Giovanotto, vedo che nessuno ti ha insegnato a rivolgerti con rispetto agli adulti. Ti conviene darmi retta se non vuoi cacciarti in guai seri.”
Connor si avvicinò di nuovo a Sean raccogliendo tutto il suo coraggio. Era stanco di farsi maltrattare da quell'idiota. Non sapeva esattamente cosa volesse ottenere. Sembrava che volesse attaccarlo. Allora Emily si interpose tra di loro e trattenne Connor per un braccio. Connor era molo sorpreso. Cosa stava facendo? Perché si era messa in mezzo? Connor credeva che se Sean lo avesse colpito lei si sarebbe sicuramente complimentata con il ragazzo-gorilla.
Anche Emily non capiva perché si fosse mossa. Anzi lo sapeva ma non voleva ammetterlo. Quando aveva visto Connor, stretto nella sua giacca, così piccolo in confronto a Sean, aveva provato un istinto quasi materno. Così lo trattenne con decisione e lo costrinse a fare un passo indietro. Una volta messa un po' di distanza tra i due, non si spostò, ma rimase davanti a Connor, come una mamma davanti ai suoi cuccioli.
“Ragazzi spiegatemi cosa è successo.” disse l'uomo.
“Quel pazzo mi è venuto addosso con il suo catorcio. Ora la mia auto è distrutta e lui non vuole pagare.”
“Mi sembra che entrambe le auto abbiano riportato piccoli danni. A meno che non vogliate sporgere denuncia, direi che potremmo fare finta di niente. Così io potrei andare a lavoro e voi tre potrete entrare a scuola visto che siete in ritardo.”
“E chi ripaga la mia vernice?”
“E chi ripagherà quella del tuo amico? Se non vuoi che faccia la parte dell'adulto cattivo ti consiglio vivamente di entrare a scuola. Subito.”
Sean si limitò a tornare verso la sua auto, spintonando l'uomo che intralciava il suo percorso. Prima di mettere in moto, lanciò uno sguardo pieno di sfida a Connor, che si ritrovò da solo nel parcheggio con i suoi salvatori. Si sentì in dovere di ringraziare il suo soccorritore.
“Ehm...grazie per il suo aiuto signore.”
“Di nulla. Evita i tipi in cerca di rogna mi raccomando.”
Detto ciò si avviò verso la sua auto. Quando arrivò davanti ad Emily, la baciò sulla fronte e la salutò dicendole di stare attenta. Emily e Connor rimasero soli. Lei non si era ancora spostata e Connor era ancora a pochi centimetri da lei. Fu Emily a rompere il silenzio. Si voltò e si ritrovarono faccia a faccia. Connor era quasi avvolto dal profumo di vaniglia e le scene del sogno gli tornavano in mente senza sosta. Cosa poteva significare?
“Connor, dobbiamo entrare subito!” Emily si chiedeva se lui si fosse accorto delle sue mani che tremavano. Sperava tanto di no, così le infilò con rabbia nelle tasche del suo cappotto. Cosa le stava succedendo? Quello era Ball e non un principe delle favole! Iniziò letteralmente a correre verso l'edificio. Connor doveva prima pensare ad un modo per parcheggiare la sua auto. Tentò di chiamare Emily, ma lei non lo degnò neanche di uno sguardo. Mentre lei correva, con il vento che le faceva fischiare le orecchie, sentiva che Connor la chiamava, ma non poteva fermarsi. Se si fosse voltata, questo sarebbe significato che il loro rapporto era cambiato. Emily non poteva permetterlo. Così ripensò al giorno in cui per colpa di Connor era finita in punizione, al fatto che lui non si fosse neanche scusato. Auto-convincendosi con questi pensieri, riuscì a trovare la forza per non tornare indietro. Connor rimase lì impalato. Non capiva perché lei lo avesse aiutato e perché ora lo evitasse come prima. Avrebbe soltanto voluto ringraziarla. Non dovevano diventare migliori amici. Ancora confuso, salì in macchina e si mise alla ricerca di un parcheggio. Se si fosse sbrigato sarebbe riuscito ad entrare in seconda ora. Percorse il parcheggio in lungo e in largo, ma niente. I posteggi che solitamente rimanevano vuoti ,ed erano considerati quindi di riserva, quel giorno erano occupati da un camper rosso. Era il camper di una compagnia teatrale che si esibiva in città ogni inverno. Chissà per quale scherzo del destino era parcheggiato davanti alla scuola. Connor dovette uscire dalla proprietà scolastica e parcheggiare sul bordo della strada vicino ad un supermercato. La strada che dovette fare a piedi gli sembrò infinita. Riuscì ad arrivare in classe non appena la campanella annunciò l'inizio della seconda ora. La classe di letteratura era ormai quasi al completo. Gli ultimi ritardatari stavano prendendo posto e ora aspettavano l'arrivo della professoressa. Il banco di Sean era libero. Evidentemente l'incidente si era rivelato un'ottima scusa per tornarsene a casa. Emily invece era seduta come sempre infondo all'aula. Riusciva sempre a passare inosservata. Connor però questa volta si concentrò su di lei. Era come se la guardasse veramente per la prima volta. Era persa nei suoi pensieri, curva sul banco. Con il gomito poggiato su di esso, si sosteneva il viso con la mano e sospirava ad intervalli regolari. Indossava un cardigan rosso, una gonna scozzese e delle calze scure. I capelli chiarissimi erano raccolti in una coda di cavallo alta ed erano legati con un fiocco. Con l'altra mano reggeva la matita che stava mordicchiando. Quando l'odiosa professoressa di lettere fece il suo ingresso, Connor si alzò e andò a spiegare i motivi del suo ritardo. Quando tornò al suo posto la lezione ebbe inizio. Mentre tutti gli altri prendevano appunti senza sosta, Connor continuava a fissare Emily. Lei invece, non appena la lezione era iniziata, si era assicurata le cuffiette nelle orecchie e aveva iniziato a scarabocchiare confusamente il blocco ad anelli che era sul suo banco. La lezione era noiosissima, in quanto la professoressa continuava a leggere dal libro di testo. Ormai nessuno la ascoltava più. Qualcuno era scivolato tra le braccia di Morfeo, molti erano presi dai loro cellulari e alcuni ragazzi in ultima fila avevano improvvisato un torneo di morra cinese. La terza ora andò come la seconda. La professoressa continuò imperterrita con la sua lettura e i ragazzi con le loro svariate attività. Anche Connor si era abbandonato all'uso dell'I-pod e ogni tanto si girava per guardare Emily. Lei faceva lo stesso. Al termine di ogni canzone alzava lo sguardo e lo posava sulla nuca di Connor. Il destino volle che i loro sguardi non si incrociassero mai, anche se entrambi si sentirono osservati per tutto il tempo. Non appena fu annunciata la ricreazione i ragazzi sgusciarono fuori dai loro banchi e si riversarono in corridoio. Connor e Emily furono gli ultimi ad uscire e presero due direzioni diverse. Connor andò verso la mensa, mentre Emily andò verso lo scantinato dove si teneva il club di teatro. Fortunatamente quella scuola aveva qualcosa di positivo. Emily amava recitare fin da quando era bambina. Ormai sapeva che il teatro era la sua vocazione. Non appena la scuola sarebbe finita avrebbe abbandonato tutto e sarebbe partita con una qualsiasi compagnia. Non le importava. Voleva soltanto lasciarsi alle spalle la sua vita da studentessa modello. La sua vita era una recita. Si mostrava amante dello studio anche se non lo era e faceva credere a tutti di riporre tutte le sue aspettative nel college. All'apparenza era molto popolare e piena di amici, ma tutte quelle persone non si curavano realmente di lei e lei non si era mai preoccupata per loro. L'unica persona a cui teneva veramente era il suo ragazzo. Stavano insieme da molto tempo, e lei era certa del fatto che lui fosse ormai parte integrante della sua esistenza. Probabilmente era l'unica cosa reale. Si curava moltissimo indossando meravigliosi vestiti e non avendo mai un capello fuori posto anche se nella maggior parte dei casi avrebbe voluto soltanto infilarsi una felpa e uscire senza truccarsi. Non rispondeva mai in malo modo ai suoi genitori per paura che loro potessero scoprire la vera Emily. Non che lei in realtà fosse cattiva o maleducata, era soltanto una ragazza schiacciata dal peso delle aspettative di tutti. Credeva che andandosene da lì avrebbe potuto ricominciare da capo senza commettere l'errore di volare alto.

Note delle autrici:
volevamo chiedere scusa per aver aggiornato così tardi, ma la scuola ci sta tenendo prigioniere e uccidendo lentamente.
Detto questo, ecco un altro capitolo del piccolo Con.
Niente da dire, speriamo che vi piaccia e che continuiate a leggere / recensire.
Un bacio, a presto. xx

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Capitolo 12
*** Capitolo dodici. ***


Capitolo dodici.

La figura era seduta sul pavimento ed era accasciata su uno scatolone. Si teneva il braccio destro con la mano sinistra, mano che James notò essere ricoperta di sangue. James chiamò il suo nome più volte prima di lanciarsi verso di lei. Lei senza guardarlo tentò di indietreggiare e di gridare, anche se tutto quello che uscì dalla sua bocca fu un gemito di dolore. Quando però si accorse che quella persona che si stava avvicinando era James, sembrò tranquillizzarsi. James allora si inginocchiò vicino a lei. Le scostò la mano e si accorse del taglio abbastanza profondo che aveva sul braccio. Le mani di lei tremavano ed era pallidissima sotto le lentiggini.
“Anne sono io, James. Cosa ti è successo?”
Anne non riusciva a parlare. Si sforzò di far uscire delle parole dalla sua bocca. Ma non ci riuscì e perse coscienza. James, allora, la prese in braccio e la portò in sala. La appoggiò su uno dei tavoli. Il sangue non si era ancora fermato e James stava morendo di paura. Non sapeva cosa fare con una ferita del genere e Anne non si era ancora svegliata. Si ricordò dello sportello del pronto soccorso che era vicino allo sgabuzzino. Sperò con tutto se stesso che fosse fornito di un qualche tipo di garza che potesse usare per tamponare la ferita. Ora anche le sue mani erano ricoperte di sangue, ma la vista della sostanza rossa non gli causava nessun fastidio. Corse verso lo stanzino notando che si era lasciato dietro un percorso di goccioline di sangue trasportando Anne. Aprì lo sportello e scaraventò fuori tutto il contenuto. Trovò quello che cercava. Tornò in cucina tremante e con la garza tra le mani. Estrasse un paio di forbici da un cassetto e si mise all'opera. Ne tagliò un pezzo ed iniziò a tamponare con delicatezza la ferita. Assicurò un tampone molto spesso sul taglio con del nastro adesivo e con un altro pezzo di garza tutt'attorno alla ferita. Decise di portarla al pronto soccorso, anche se il più vicino distava un'ora buona in macchina visto che la strada principale era inagibile a causa del maltempo dei giorni passati. Come era possibile che un'intera zona rimanesse senza copertura medica per le emergenze? Ma era certo che quella ferita necessitasse di punti di sutura. Chi altro poteva metterli se non un medico? Poi gli venne un'illuminazione: la signora Bloomsbury. Lei sarebbe stata sicuramente capace. Glielo aveva visto fare quando uno degli inquilini era caduto per le scale e si era tagliato un ginocchio. Aveva sempre in casa materiale da pronto soccorso perché non si fidava dei medici del pronto intervento. Diceva sempre che tra la fretta e la confusione facevano più male che bene ai loro pazienti. Compose il numero automaticamente e l'avvisò dell'emergenza. Dopodiché si tolse il cappotto e lo poggiò sulle spalle di Anne, che al momento indossava una t-shirt, senza farlo toccare con la ferita. Non poteva portarla fuori con quel freddo. La prese tra le sue braccia e uscì dal locale. Non si preoccupò neanche di spegnere le luci o chiudere la porta. Sistemò Anne con cura su sedile del passeggero e poi salì in macchina. Mise in moto e si avviò a tutta velocità verso casa sua. La macchina risentiva leggermente della strada non recentemente asfaltata e perciò Anne fu svegliata da uno scossone. Si portò automaticamente una mano alla ferita che era protetta dal tampone ormai imbevuto si sangue.
“Anne stai ferma, non toccare la ferita.”
“James, dove stiamo andando? Non posso andare in ospedale!”
“Ti sto portando da me. Una signora del mio palazzo può metterti i punti.”
“Grazie.”
“Ti fa molto male?”
“No ma non sopporto la vista del sangue e mi sono spaventata molto quando ho sentito che c'era qualcuno nel locale. Per questo sono caduta. Ovviamente mi sono trascinata dietro le pentole che stavo sistemando e mi sono ferita.”
“Aspetta. Perché hai detto di non poter andare in ospedale? E soprattutto che ci facevi al locale a quest'ora?”
“James poi ti spiego, ma ora non ce la faccio a parlare. Mi sento debolissima.”
“Non ti preoccupare, stiamo per arrivare.”
James ed Anne arrivarono davanti al palazzo a tempo di record. Soltanto al momento di scendere dall'auto, Anne si accorse di star indossando il cappotto di James e arrossì violentemente. Non appena fermò l'auto, James ne uscì correndo, fece il giro e andò ad aprire lo sportello del passeggero.
“James, tranquillo posso camminare.”
“Non credo proprio.” Detto ciò le fece scivolare un braccio dietro la schiena e uno sotto le gambe e la sollevò senza fatica. Chiuse lo sportello dell'auto con un calcio e andò davanti al portone. Suonò direttamente alla signora Bloomsbury. Salì le rampe di scale con estrema facilità e senza sforzo, tanta era la sua preoccupazione per Anne. Trovò ad accoglierli sul pianerottolo la sua cara vicina.
“James caro, cosa diamine le è successo?”
“E' caduta e si è tagliata.”
La signora Bloomsbury non sembrò molto soddisfatta delle risposta ma si limitò ad annuire. James si fece largo entrando nell'appartamento e seguendo le istruzioni della signora, portò Anne nella sua camera. La adagiò con cura sul letto e si sedette vicino a lei. La signora Bloomsbury aveva già attrezzato la stanza portandovi tutto l'occorrente per la medicazione. Anne si guardava intorno e James capì immediatamente che nonostante avesse fatto finta di essere tranquilla, era molto spaventata. La ferita aveva un pessimo aspetto. Si estendeva da da metà braccio fino al gomito e non era affatto un taglio dritto o tanto meno regolare. Così le si avvicino ancora di più e le prese la mano, che era stesa vicino al suo fianco. Anne sobbalzò sentendo il contatto con quella mano ma parve ringraziarlo con gli occhi. La dottoressa improvvisata ruppe la magia rivolgendosi ad Anne.
“Mia cara vediamo un po' come posso aiutarti. Potresti sentire un po' di dolore, ma stai tranquilla, cercherò di fare il più in fretta possibile. Infondo non è nulla di grave. È soltanto un taglio ed è evidente che James si sia allarmato più del dovuto. Calmatevi”.
Si chinò su Anne e con delicatezza tolse la garza dalla ferita. James strinse inconsciamente la mano di Anne, come per infonderle coraggio. L'operazione durò più di quanto tutti si aspettassero. Per tutto il tempo Anne non aveva fatto altro che sussultare. James ogni volta si sentiva straziare, non si rendeva conto che , come aveva detto la signora Bloomsbury, non sarebbe morto nessuno per un taglio. Quando sarebbe finito quel tormento? In fondo si trattava solo di punti di sutura, ma non avendoli mai messi e non conoscendo il livello di sopportazione del dolore di Anne, si sentiva malissimo per lei.
“Ok ragazzi, l'impresa è riuscita.”
Anne tirò un sospiro di sollievo e distolse finalmente lo sguardo dal suo braccio per spostarlo sulla signora.
“Grazie mille. Non potevo proprio andare in ospedale”.
“Anne credo che tu debba spiegarmi molte cose.”
Quando lui disse il suo nome, Anne non poté fare a meno di guardarlo dritto negli occhi e perdervisi per qualche istante. I suoi occhi erano un libro aperto, e Anne credeva di potervi leggere tutta la sua storia. James non aveva ancora lasciato la sua mano e ora la guardava quasi con rimprovero. Gli tornò in mente il momento in cui lei gli aveva gridato contro spaventata. Un brivido gli percorse il collo. Chissà perché era così terrorizzata che qualcuno potesse vederla.
“Certo James.”
Anne dal canto suo cercava le parole giuste per potergli raccontare tutto. Non che si trattasse di una storia orribile o tragica , ma non ne aveva mai parlato con un amico.
“Signora Bloomsbury, grazie mille. Ora togliamo il disturbo. Porto Anne a casa sua.”
“Nessun disturbo. Anzi sono lusingata che tu abbia pensato a me nel momento del bisogno. Mi ha fatto molto piacere aiutarvi. Mi raccomando prenditi cura di questa ragazza, è così sbadata.”
“Lo farò. Grazie. A domani.”
“Ti aspetto per pranzo, caro.”
“Arrivederci signora. Grazie ancora.” Anne era ancora molto pallida e cercò di esprimere tutta la sua gratitudine. James aiutò Anne a mettersi in piedi. Lei una volta sulle sue gambe sentì un forte giramento di testa. Ansia , paura , adrenalina, vergogna, troppo da sopportare. James allora sciolse la stretta delle loro mani e le cinse le spalle con un braccio. Con l'altro recuperò il suo cappotto e si diressero verso la porta. Anne non sapeva cosa aspettarsi. Non sapeva come rompere il silenzio che si era formato tra di loro. Lui la stava portando nel suo appartamento?
“James dove andiamo?” Lui allora si fermò davanti alla rampa delle scale e si voltò per guardarla. I loro volti erano vicinissimi e Anne poteva sentire il respiro di James sul suo viso. Il modo in cui le stava cingendo le spalle e la sosteneva le scaldò il cuore. Questo probabilmente era l'unica cosa che le impedisse di morire di freddo, visto che la sua t-shirt di Harry Potter non era adatta alle temperature invernali.
“Avevo pensato di parlare da me e non appena ci saremo chiariti e tu ti sarai ripresa ti riaccompagnerò a casa”.
“Non voglio disturbarti, James. Hai già fatto troppo.”
“Smettila per favore. Tu avresti fatto lo stesso per me.”
Probabilmente, lei ne era certa, non sarebbe riuscita a fare lo stesso per lui. James l'aveva fatta sentire come una bambina che viene coccolata e viziata da tutti, per un momento le piaceva l'idea di non dover essere quella forte e di potersi abbandonare completamente ai suoi sentimenti.
“Io non ti porterei mai in braccio sulle scale. Non ne avrei la forza.”
“Vero. Quindi siamo fortunati che sia tu quella bisognosa di cure e non io.”
“Esatto. Il tempo di spiegarti il mio incidente e poi toglierò il disturbo.”
“Come vuoi.”
Nel frattempo erano arrivati davanti alla porta dell'appartamento. James sciolse l'abbraccio e si infilò una mano in tasca in cerca della chiave e una volta trovata , aprì la porta. Quest'ultima si aprii con un cigolio tutt'altro che invitante o rassicurante. James fece strada attraverso l'ingresso tastando il muro alla ricerca dell'interruttore . Nonostante fosse pomeriggio inoltrato , tutte le tapparelle erano chiuse. La luce rivelò un appartamento ordinato e Anne rimase sorpresa nel sentire un profumo di lavanda, come se qualcuno avesse lavato i pavimenti da poco. Non si aspettava che James vivesse in un posto simile. James sembrò carpire al volo il suo pensiero.
“Questa mattina mi sono dedicato alle pulizie. Se fossi venuta qui ieri avresti trovato il caos.”
Anne trattenne una risata e si strinse le braccia attorno al busto, lì faceva anche molto freddo. James intanto si muoveva freneticamente da un angolo della stanza all'altro per aprire tutte le tapparelle delle finestre. Sparì per il corridoio lasciando Anne in piedi in mezzo al salotto e ricomparì qualche minuto dopo, portando con sé una felpa.
“Ho fatto tanto per non farti morire dissanguata che non ti lascerò certo morire di freddo. È abbastanza larga così non si attaccherà alla ferita. Ti aiuto a metterla.”
“Oggi sto accumulando troppi debiti nei tuoi confronti. Potrai ricattarmi a vita.”
James le si avvicinò tendendole la felpa. Gliela fece indossare con attenzione e poi la aiutò a liberare i capelli dal cappuccio. Anne si ritrovò avvolta nella pesante felpa blu fresca di bucato che emanava un intenso profumo di muschio. Non resistendo alla tentazione, ne inspirò il profumo per qualche istante, mentre James la guardava divertito. Quando si concentrò di nuovo su quello che aveva intorno, notò l'orologio appeso sulla porta della cucina. Erano le tre e mezza. Era in ritardo catastrofico. Portò automaticamente la mano alla tasca destra dei jeans, dove solitamente si trovava il suo cellulare, ma la trovò vuota. Realizzò allora di non avere con sé neanche la sua borsa. James notando il movimento improvviso le chiese quale fosse il problema.
“Anne qualcosa non va?”
“Ehm...diciamo di si. Ho lasciato tutte le mie cose al ristorante e a quest'ora dovrei già essere a casa.”
“I tuoi saranno in pensiero.”  James rifletté per qualche secondo e poi trovò la cosa giusta da dire.
“Allora ora ti espongo il piano che ho elaborato in tutta fretta e tu mi dici se va bene ok?”
“Ok.” rispose Anne ridendo. James alcune volte era veramente buffo. Quando rifletteva una smorfia di concentrazione gli si dipingeva sul volto, ed Anne la associava all'espressione dei bambini quando devono fare qualcosa di molto complicato. Gli comparivano delle piccole rughe sulla fronte e i suoi bellissimi occhi fissavano un punto qualsiasi.
“Dunque. Prima di tutto chiamerai i tuoi genitori per avvisarli che stai bene e che ti fermerai da un amico- o se sono iperprotettivi mi spaccerai per una tua amica- per tutta la giornata. Poi torneremo insieme al ristorante e durante il viaggio tu mi spiegherai tutto quello che devi. Dopodiché se ne avrai voglia, dovresti accompagnarmi a sbrigare alcune commissioni, come per esempio fare la spesa. E infine andremo a cena insieme per poterci poi recare a lavoro stasera.”
Anne era indecisa. Avrebbe dovuto inventare una scusa attendibile, visto che i suoi genitori era del tutto all'oscuro del fatto che lei lavorasse. E James ignorava completamente la sua situazione con i suoi genitori. Doveva iniziare ad essere sincera. Almeno con qualcuno. In un istante decise che quel qualcuno sarebbe stato James.
“Saresti veramente disposto a riaccompagnarmi lì?”
“Ovviamente. Altrimenti non mi sarei proposto.”
“Allora accetto l'offerta.”
“Grazie.”
“Qui sono io quella che deve ringraziarti.”
“In parte è vero. Ma tu mi stai offrendo la possibilità di passare più tempo con te.”
James si pentì immediatamente di aver pronunciato quella frase. A cosa stava pensando? Sicuramente ora l'imbarazzo li avrebbe bloccati. Non voleva rovinare tutto con Anne. Stava iniziando a piacergli molto. Doveva ammetterlo. Anne come da copione arrossì, ma decise di raccogliere tutto il suo coraggio per distruggere la tensione che si stava creando e di lasciarsi andare. Con decisione fece un passo avanti e avvolse James in un abbraccio. James era sbalordito. Non se lo sarebbe mai aspettato. Titubante la strinse a sé e Anne appoggiò la testa sul suo petto. In quel momento erano usciti allo scoperto. Tutte le barriere erano state abbattute. Ora avevano la possibilità di imparare a conoscersi e poi il resto sarebbe venuto da sé. Per ora avevano una sola certezza: il presente, ma non in senso filosofico o da romanzo d'amore o in stile Carpe Diem. In quell'istante si sentivano felici l'uno grazie all'altro. Il resto non contava. Anne si staccò per prima.
“Forza James , dobbiamo andare. Non volevi sapere la verità?”
Quando lei si separò da lui, James avvertì una sensazione di freddo improvviso. Cosa diamine gli stava succedendo? Non poteva già essere dipendente da lei a quel punto. Si ricompose, si assicurò di avere tutto il necessario e la guidò fuori dall'appartamento. Una volta entrati nell'abitacolo della macchina iniziarono le spiegazioni.
“Da dove vuoi che cominci?”
“Vediamo... perché eri al pub?”
“Ti dirò tutta la verità... ma prometti di non giudicarmi. In fondo non mi conosci bene.”
“Non lo farei mai. Voglio solo sapere cosa è successo.”
“Dunque... ero lì perché stavo facendo delle ore di straordinari. Lavorando solo la sera non guadagno abbastanza, e perciò quando ho chiesto un aumento, il capo mi ha proposto di occuparmi del locale prima delle aperture serali, così che lui non dovesse assumere un'altra persona per quel compito. L'unico problema è che non è un lavoro in regola, quindi nessuno deve vedermi entrare o uscire dal pub. Se il signor Brown mi facesse un contratto in regola, ci rimetterebbe troppo denaro. So che così mi sta sfruttando, perché non mi paga abbastanza, ma del resto non ci sono altre possibilità.”
“Ho promesso di non giudicarti. Non c'è niente di male nell'avere bisogno di soldi, ma se posso darti un consiglio da amico, dovresti smetterla di lavorare così. Quindi è per questo che non volevi andare in ospedale?”
“Non solo. I miei non sanno che faccio la cameriera. Se fossi andata in ospedale li avrebbero chiamati e mi avrebbero scoperta. Loro credono che io faccia atletica.”
“Perché hai mentito?”
“Perché non capirebbero.”
“Prova a spiegarmelo.”
“I miei genitori non possono permettersi il college, anche se non hanno il coraggio di dirmelo. Io non voglio che si sentano in colpa. L'unica cosa che mi resta da fare è cavarmela da sola. Loro hanno già fatto abbastanza. Non voglio mortificarli. Credono che io mi stia allenando tutti pomeriggi e che studi fino a tardi per ottenere una borsa di studio...”
“E invece lavori sia pomeriggio che sera per pagarti il college.”
“Esatto. Sei la prima persona a cui l'ho detto.”
“Posso chiederti un favore?”
“Cosa?”
“Mi permetteresti di aiutarti?”
“E in che modo?”
“Non lo so ancora, ma lo saprò presto.”

Note delle autrici:
saaaaalve a tutti!!! allora, abbiamo deciso che (siccome praticamente nessuno ha recensito) pubblicheremo in settimana tutti i capitoli che abbiamo scritto! :D
comunque, speriamo che la storia vi stia piacendo e interessando ancora... in ogni caso ci farebbe piacere sapere cosa ne pensate!
a presto! un bacio xx

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Capitolo 13
*** Capitolo tredici. ***


Capitolo tredici.

La giornata di Connor era stata particolarmente pesante. Dopo la ricreazione aveva avuto affrontare due ore di matematica e per finire in bellezza, un compito a sorpresa di fisica. Durante quel fatidico test aveva cercato per tutto il tempo di chiedere aiuto al suo compagno di banco, ma quest'ultimo aveva sempre fatto finta di non ascoltarlo o vederlo. Connor continuava ad agitare convulsamente la sua matita e a schiarirsi la gola. La professoressa si aggirava minacciosamente intorno al loro banco, come uno squalo con la loro preda. Si dice che i predatori fiutino la paura delle loro prede, ecco l'insegnate stava fiutando l'agitazione di Connor e aspettava solo un suo passo falso. Connor non tardò nell'accontentarla. Prendendo completamente la pazienza, diede un calcio alla sedia del suo compagno, che non attutendo il colpo, perse l'equilibrio e cadde dalla sedia. Eppure Connor era certo di non aver colpito così forte con il piede. Forse l'incidente era scaturito dalla goffaggine del suo compagno, che ora lo guardava con cattiveria e rimprovero attraverso gli spessi occhiali simili a fondi di bottiglie. La professoressa strappò dalle mani di Connor il suo compito in classe e lo spedì direttamente in punizione, essendo quella l'ultima ora. Lo aspettavano altre due meravigliose ore chiuso in quell'edificio. Raccolse pigramente il suo zaino da terra, rivolse un cenno di saluto ai suoi compagni, che ridevano ancora per l'accaduto, e si diresse verso lo scantinato alias laboratorio di teatro alias aula di punizione. Il grande scantinato ospitava infatti sia un luogo di piacere che uno di tortura. L'unica cosa che lo faceva stare meglio era che sarebbe stato a solo un corridoio di distanza da Emily, e la cosa lo incuriosiva particolarmente. Quella ragazza aveva un qualcosa di misterioso per Connor, e lui voleva conoscerla meglio.
L'aula della punizione era vuota, eccetto per il guardiano di turno. Questa volta il fastidioso compito era stato affidato al simpaticissimo professore di filosofia. Connor in quel momento si sentì molto fortunato. Adorava quel professore e la simpatia era reciproca. Il docente era occupato in un'avvincente partita di scacchi con il suoi amico immaginario. Indossava un completo marrone scuro e una bizzarra cravatta verde smeraldo. Era chino sulla scacchiera e la montagna di capelli ricci e biondi gli copriva il volto. Quell'uomo era il tipo di persona che i ragazzi prendevano a modello. Era giovane, capace e aveva vissuto esperienze che lo avevano migliorato e che potevano essere di incoraggiamento per gli studenti.
Connor per avvisarlo della sua presenza si schiarì la gola e non appena il professore alzò il capo, gli accennò un saluto.
“Signor Ball, che piacere vederla. Avevo proprio bisogno di un degno avversario. Non capita tutti i giorni , fortunatamente per la sua carriera scolastica, di avere un ottimo giocatore in punizione.”
“Professore lei ha una opinione di me troppo alta. In fondo non sono poi così bravo.”
“Lasci pure giudicare a persone più anziane e competenti.”
“Come vuole.”
Detto ciò Connor prese una sedia e si sedette al tavolo del professore. Iniziarono immediatamente una partita e furono entrambi assorbiti dal gioco. Ma il professore non era ancora soddisfatto.
“Signor Ball che ne dice di ripassare un po' insieme per la verifica di domani? Così si risparmierà il lavoro da fare a casa.”
Connor accettò con un sorriso e non smettendo di giocare, iniziò a fare un discorso su Aristotele. Ben presto quella semplice esposizione si trasformò in un acceso dibattito tra i due. Quell'insegnante aveva la straordinaria capacità di ottenere sempre tutto quello che voleva. Sapeva benissimo che se Connor si fosse messo di più in mostra per le sue capacità, sarebbe stato uno degli studenti più bravi. Invece lui preferiva stare nell'ombra e recitare la parte dello studente svogliato. In quel momento anche Emily stava recitando. Quel giorno recandosi in teatro aveva trovato dei veri attori. Li conosceva per aver assistito numerose volte alle loro rappresentazioni. Erano una compagnia abbastanza conosciuta e in quel momento erano in pausa per una settimana prima di riprendere la loro tournée. Erano stati informati del fatto che in quella scuola ci fosse un laboratorio teatrale e così avevano deciso di andare a dare un'occhiata. Gli studenti erano impegnati nelle prove dell'Amleto. Emily si era schierata a favore di quella rappresentazione perché era stanca di recitare delle commedie romantiche. L'unico bel ricordo che vi associava era il suo ragazzo. Aveva conosciuto Josh durante le prove di Romeo e Giulietta, nel modo più banale possibile. Lui aveva già ottenuto la parte del protagonista e lei con i suoi modi lo aveva conquistato subito. Sembrerà stupido, scontato, smielato, ma è la verità: quello era stato amore a prima vista.
Ora Emily si contorceva senza pietà una ciocca di capelli che le era sfuggita dall'acconciatura. Avevano organizzato un vero e proprio casting, nel bel mezzo delle loro prove. Tutti erano rimasti sorpresi dalla proposta di quegli attori. Volevano trovare dei ragazzi per ampliare il loro gruppo e ai più meritevoli avrebbero offerto di fare una prova con loro per alcuni mesi. Emily aspettava un'occasione del genere da tutta una vita e non era pronta. Si sentiva completamente inesperta e non ricordava neanche una battuta da recitare. Josh l'aveva rassicurata e prima di salire sul palco per recitare il monologo del terzo atto dell'Amleto le aveva dato un lunghissimo bacio che per un istante l'aveva liberata da tutte le preoccupazioni. Mentre era divorata dall'ansia stava assistendo alla migliore performance di Josh di sempre. Era da solo sul palco nei suoi jeans sbiaditi e indossava anche il maglione nero che lei gli aveva regalato il Natale precedente. I suoi occhi marroni erano messi in risalto dai capelli più chiari che gli incorniciavano il volto, e ogni volta che apriva la bocca per parlare dei denti bianchissimi facevano capolino, quasi a voler illuminare tutto il mondo. Si muoveva sul palco con spontaneità e sicurezza. Quando ebbe finito, fece un inchino e mostrò uno dei suoi sorrisi migliori con tanto di fossette. Emily aveva capito che i ragazzi della compagnia erano estasiati della sua esibizione e capì all'istante che Josh sarebbe partito con loro. Il vero interrogativo era: lei sarebbe partita con lui? Ora come ora non aveva la minima speranza, in quello stato non sarebbe riuscita neanche a recitare una filastrocca. Josh non appena tornò dietro le quinte si gettò tra le sue braccia. Emily lo abbracciò con tutte le sue forze e si complimentò con lui.
“Em! Che esperienza fantastica! Non è come recitare davanti alla scuola, quando reciti capisci che ci sono delle persone competenti che ti stanno guardando!”
“Non eri nervoso?”
“Inizialmente si...poi però mi sono trasformato. Non mi ero mai sentito così reale recitando una parte. Mi aspettavo da un momento all'altro di veder comparire lo spettro di mio padre.”
“Josh ti assicuro che non mi era mai capitato di vederti recitare in quel modo. Hai mostrato veramente la migliore parte di te.”
“No invece.”
“Perché? Non buttarti giù.”
“Perché la migliore parte di me sei tu, e io non ti cederò per nulla al mondo.”
Emily non era incline a cedere ai sentimentalismi, ma all'udire quelle parole una stupida lacrima aveva invaso la sua guancia. Così, anche per nascondere la maledetta, strinse di nuovo a sé Josh. Lui però, essendo un acuto osservatore, notò la causa di quel gesto e si avvicinò al suo orecchio.
“Hey che fine ha fatto la mia cinica e impassibile Emily?”
“Per un momento sta cercando di essere un' Emily reale.”
“Se devo dirti la verità, questa Emily mi piace molto.”
“Anche a me. È più facile essere così.”
La serenità di Emily non durò molto. Un ragazzo, precisamente quello che si occupava di suono e luci, la avvisò che sarebbe stata la prossima. Emily iniziò a correre e sgusciò fuori dalla stanza. Arrivò nel mezzo del corridoio e si pietrificò sul posto. Josh le corse dietro e la fissò sbalordito. Non l'aveva mai vista in quelle condizioni.
“Em, dai fai un respiro profondo e tutto andrà bene.”
Josh la scosse per una spalla e lei si accasciò al suolo. Si sedette e si raggomitolò. Aveva perso la sua battaglia in partenza. Nulla le avrebbe dato la forza di continuare. Poggiò la testa sulle sue ginocchia e chiuse gli occhi. Dopo qualche secondo sentì una mano accarezzarle la schiena e subito dopo due braccia cingerle i fianchi. Senza muovere neanche un muscolo si ritrovò in piedi.
“Em sei sicura di non voler recitare?”
Emily annuì con forza trattenendo le lacrime. La cosa che più di tutto l'aveva bloccata, era il fatto che Josh sarebbe partito sicuramente. Lei invece non aveva la minima speranza. Non era alla sua altezza e la paura di fallire aveva fatto sparire anche la sua più piccola briciola di autostima. Preferiva rinunciare piuttosto che umiliarsi. In quel momento voleva soltanto tornare a casa.
“Ti accompagno a casa, fammi solo avvisare gli altri.” Josh ripercorse i suoi passi rientrando in teatro.
Né Emily né Josh avrebbero mai sospettato di avere degli spettatori. Dalla stanza di fronte Connor e il suo professore avevano assistito a tutta la scena. Connor aveva ascoltato ogni singola parola e vedere Emily in quello stato gli aveva causato delle sensazioni stranissime. Preoccupazione e curiosità, ma anche un profondo senso di gelosia, lo avevano avvolto. Così non appena Josh fu sparito dal suo campo visivo, si gettò in corridoio. Si avvicinò titubante e quando si trovò a pochi passi da Emily, che era seduta in terra, la chiamò.
“Hey, stai bene?”
Emily sollevò la testa e nello stesso tempo cercava di asciugarsi le lacrime. Ci mancava soltanto che qualcuno la vedesse in quello stato. Poi proprio Connor, che non aveva fatto altro che abbassare le barriere che lei aveva eretto con tanta cura, come quella mattina nel parcheggio.
“Lasciami in pace, per favore.”
“Hey, volevo solo aiutarti. C'è qualche problema?”
“No, va tutto benissimo. Ora torna da dove sei venuto.”
“Mi dispiace per te, ma la mia punizione è finita giusto cinque minuti fa.”
“Che peccato. Ora vattene. Per favore.”
In quell'istante ricomparve Josh che squadrò Connor prima di rivolgersi a lui.
“Ciao. Avevi bisogno di qualcosa?”
Connor si mostrò deciso e rispose a tono.
“No, a dire la verità ero venuto a chiedere ad Emily se lei avesse bisogno di qualcosa.”
“Ah, siete amici allora. Io sono Josh, piacere.” E tese la mano.
“Connor. Il piacere è mio.”
Allora Josh si rivolse ad Emily. “Em senti, i ragazzi mi hanno chiesto di rimanere ancora per un po', vorrebbero parlarmi ancora..."
Emily si svegliò dal suo stato di trance e afferrò la mano del suo ragazzo.
“Ok non dirmi una parola di più. Torna lì dentro e fai vedere chi sei. Io chiamerò mio padre e mi farò venire a prendere. Mi raccomando rendimi orgogliosa.”
“Em, veramente non è così importante. Ti accompagno io.”
“Josh, non mi perdonerei mai di averti fatto sprecare un'occasione del genere. Poi qui c'è Connor. Può accompagnarmi lui.”
Si voltò verso Connor pregandolo con gli occhi.
“Certamente. Josh non preoccuparti l'accompagno io.”
“Grazie. Mi raccomando stai attento.”
“Tranquillo. E in bocca al lupo per qualunque occasione tu debba cogliere nei prossimi cinque minuti. E' stato un piacere.”
“Emily, ti affido a lui allora. Passo a trovarti appena finisco.”
Josh baciò Emily sulla fronte prima di tornare in teatro, e poi lei e Connor rimasero soli.
“Connor grazie per l'appoggio, ma non c'è bisogno che tu mi accompagni.”
“E invece sì. Ho appena promesso ad un mio nuovo amico di prendermi cura della sua ragazza. E lo farò. Prendo la mia roba e andiamo.”
“Connor, per favore fammi tornare a casa con mio padre.”
“Permettimi di ringraziarti per questa mattina almeno. Veramente, sarebbe un piacere accompagnarti. Poi ti lascerò in pace.”
Emily pensò che quello sarebbe stato l'unico modo per liberarsi di lui così accettò a malincuore.
“Vedi che quando vuoi sai essere ragionevole. Però ti avverto dobbiamo camminare fino al supermercato, perché River è lì.”
“Chi è River?” Connor scoppiò in una fragorosa risata.
“La mia macchina ovviamente.”
“Bel nome. Anche io do i nomi agli oggetti.”
“Vedi. Abbiamo già qualcosa in comune.”

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Capitolo 14
*** Capitolo quattordici. ***


Capitolo quattordici.

James e Anne passavano da un settore all'altro del supermercato, riempiendo il loro carrello. Prima di arrivare al supermercato avevano fatto una tappa al ristorante per recuperare la borsa di Anne e per eliminare le tracce dell'incidente. James aveva persuaso Anne a rimanere in macchina e lui con pochi minuti aveva trovato la borsa e rimesso in ordine la cucina. Ora Anne cercava di convincere il suo amico dell'importanza o meno di alcuni prodotti come se fosse stata sua mamma. James era al settimo cielo, sentiva il bisogno di gridare al mondo quanto fosse felice. Guardava Anne, la guardava veramente. Lei era lì con lui in una situazione banalissima. Anne sembrava aver dimenticato l'incidente e sorrideva come James non l'aveva mai vista . Forse perché la conosceva da pochissimo. Improvvisamente la consapevolezza di non sapere nulla di lei lo fece star male. Così mentre Anne era impalata davanti al banco dei surgelati, James le si avvicinò.
“Anne, quale è il tuo cognome?”
“Green. Perché ?”
“Niente. È solo che stavo pensando che tu indossi la mia felpa preferita e io neanche ti conosco.”
“Allora potremmo anche dire che io non so chi sei ma mi sto fidando troppo di te: sono salita sulla tua auto, sono venuta nel tuo appartamento e ora ti sto anche aiutando con la spesa.”
Touché. La colpa è tua allora. Ok mi sento meglio adesso.”
Detto ciò tornò a dedicarsi alle compere.
Invece anche Anne si era resa conto della paradossalità di quella situazione. Quello era un completo sconosciuto. Non poteva essere una scena da copione in cui un ragazzo aiuta una ragazza e i due si innamorano follemente. Voleva vivere qualcosa di reale. Cercò di non essere così felice e di tornare al suo stato di calma e monotonia. Doveva affrontare una cosa alla volta. Per prima cosa riordinò gli avvenimenti della giornata. Allora: aveva lavorato, si era fatta male, era stata aiutata ed ora aveva perso la possibilità di fare quegli straordinari. La sua priorità adesso era quella di trovare un nuovo lavoro. Quanto poteva essere difficile? Invece la verità la colpì dritta sul volto: trovare un altro lavoro sarebbe stato impossibile.
Era giunta alla conclusione che la sua situazione stava diventando insostenibile. Era come se vivesse già da sola e dovesse provvedere a se stessa. Le mancava qualcuno che si prendesse cura di lei. Era la figlia più piccola e da sempre era certa di essere nata per errore. Aveva due fratelli maggiori e pochi anni dopo la nascita del secondogenito i suoi genitori si erano separati. Però non avevano messo in conto il suo arrivo. Sua madre aveva nascosto di essere rimasta incinta e lo disse a suo padre solamente dopo che egli firmò le carte per il divorzio. Non appena suo padre prese coscienza di quello che era accaduto non trovò la forza di lasciare sua moglie. Perciò continuarono a vivere insieme, anche essendo ormai divorziati, per crescere Anne. Se lei non fosse nata, sua madre avrebbe continuato a vivere in quella casa con i suoi due figli e suo padre si sarebbe trasferito in un nuovo appartamento. Lei si sentiva la causa dell'infelicità dei suoi genitori e di conseguenza dei suoi fratelli. Viveva con due persone che non si amavano più da molto tempo e che erano diventati indifferenti l'uno verso l'altro. Il fratello più grande ormai si era sposato mentre l'altro, Micheal, aveva lasciato casa non appena era diventato maggiorenne. L'unico obiettivo di Anne era quello di andarsene il prima possibile da quella casa, in modo che i suoi genitori avessero potuto finalmente rifarsi una vita l'uno lontano dall'altro. L'assenza dei fratelli rendeva tutto più difficile. Non sopportava di vederli seduti al tavolo della cucina ognuno perso nel proprio Mondo. Erano come due estranei misantropi costretti a vivere sotto lo stesso tetto. Il lavoro e la scuola erano anche un'ottima occasione per stare lontano dal gelo di casa Green. Certo, aveva avuto un'infanzia come tutti gli altri bambini fortunati, avendo i suoi genitori recitato la parte della famiglia perfetta. Poi un Natale suo fratello Micheal le aveva aperto gli occhi. Lei era abbastanza grande per capire, aveva detto. Dopo quella conversazione pianse tutte le notti, ma era enormemente grata a Micheal per averle detto la verità. I suoi genitori non si erano arresi all'evidenza che ormai lei sapesse la verità, ma continuarono a recitare come sempre. Questo fatto la distruggeva e ogni giorno di indifferenza logorava un po' di più la sua anima. Doveva lasciare quella casa. L'unico modo che aveva trovato per dimostrare ai suoi genitori di amarli era stato quello di ridare loro la libertà.
Aveva un bisogno incredibile di piangere. Ora. In quel preciso istante. Così all'improvviso. Non fece neanche in tempo a formulare quel pensiero che le prime lacrime iniziarono a rigarle il viso. Non si curò neanche di nasconderle o di asciugarle. Cercò James con lo sguardo e lo trovò vicino al banco del pane. Gli si avvicinò e si fermò alle sue spalle.
“James, potresti riaccompagnarmi a casa?”
“Compro del pane e andiamo.” James non si voltò.
“James ,veramente, devo andare subito.”
Forse il tono di Anne gli aveva fatto capire che qualcosa non andava e questa volta si girò immediatamente.
Di nuovo la vista di lei in lacrime lo pietrificò.
“Anne che succede?” James allungò una mano verso il suo volto. Anne senza dire nulla indietreggiò evitando il contatto e singhiozzando. James lasciò ricadere la sua mano lungo il fianco, inerte e conscio del fatto che Anne non volesse condividere con lui quel momento.


Note delle autrici:
salve, Mondo! Allora, innanzitutto grazie per aver letto il capitolo e per essere arrivati fin qui! E un grazie speciale a tutti quelli che hanno recensito / messo nelle preferite / messo nelle seguite etc.
Vi amiamo.
Ora, volevamo informarvi che molto probabilmente fra un paio di giorni posteremo un altro capitolo; poi, con la scuola, non si sa se riusciremo ad essere molto presenti.
Ultima cosa: ormai abbiamo praticamente finito di scrivere la fanfiction; ci mancano giusto le scene finali. Quindi, se avremo tempo proveremo a postare i capitoli più velocemente possibile.
Abbiamo finito, davvero. Speriamo che recensiate ancora!
Un bacio, a presto. xx

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Capitolo 15
*** Capitolo quindici. ***


Capitolo quindici.

Tristan era in piedi di fronte all'imponente cancello di ferro battuto guardando il foglio sul quale Lara Cunningham aveva annotato l'indirizzo di Marjory, chiedendosi se quella fosse la casa giusta. Dietro il cancello un vialetto infinito di terriccio si estendeva fino all'interno del giardino, affiancato da due file di enormi cipressi. Seduto sul cofano della sua auto, Tristan stentava a credere che quella fosse la casa di Marjory; tuttavia la grande sagoma di ferro che mostrava la scritta "Montgomery" e che era fissata sul muro accanto al cancello, gli confermava ciò che la sua compagna di classe avesse detto.
Ci riflettè su qualche istante e si avvicinò al citofono, esitando prima di premere il piccolo bottone d'argento. Mentre Tristan guardava ancora il cancello e quella specie di Mondo delle favole che si nascondeva dietro di esso, la voce di Marjory uscì fuori dal pannello del citofono.
"Chi è?" chiese, sebbene avesse già visto il ragazzo attraverso la piccola telecamera incorporata all'aggeggio.
Tristan sorrise al suono della voce della ragazza, prendendo coscienza del fatto che fosse molto più felice di vederla fuori orario scolastico, piuttosto che tra i banchi dell'aula di francese.
"Sono Tristan!" rispose con voce squillante.
"Entra!"
Il cancello si aprì, lasciando davanti a Tristan la bellezza del lungo viale e dei cipressi spolverati di neve. Il ragazzo salì in auto e attraversò il giardino, sollevando una grossa nuvola di terriccio marroncino. Una volta arrivato davanti all'entrata di casa, una grossa fontana di marmo bianco faceva capolino al centro della piazza, dove la luce pallida del sole si rifletteva contro lo strato di ghiaccio e scintillava contro le stalattiti gocciolanti, attaccate alla pietra. Dietro l'imponenza di essa, una villa bianca si ergeva in tutto il suo splendore; due scalinate infinite portavano alla porta d'ingresso, dove Marjory era già affacciata in attesa dell'ospite. Tristan scese dalla sua vecchia auto e si avviò verso le scale. Quando si ritrovò di fronte a Marjory non potè fare a meno di sorridere vedendola. Senza che i due ragazzi dicessero qualcosa, entrambi si ritrovarono nell'ingresso della casa di Marjory.
L'interno - se possibile - era ancora più spettacolare e incredibile dell'esterno. Un'enorme rampa di scale in legno scuro attirava l'attenzione di Tristan. Il salotto era grande circa quanto l'intero primo piano di casa sua. E quello non era niente in confronto a tutto il resto.
Marjory iniziò a sentirsi scocciata, mentre osservava Tristan ancora imbambolato davanti alle scale. Quello che più le dava fastidio era avere quelle reazioni dalle persone che conosceva; era per quel motivo che non aveva mai invitato nessuno a casa sua.
"Studieremo nel salotto." affermò lei, indicando il grande tavolo ovale piazzato alla destra di Tristan. Su di esso due grandi libri erano già stati aperti e fogli di ogni tipo erano sparsi ovunque, compreso il pavimento. Tristan si diresse in soggiorno e accarezzò le sedie di legno scuro e pelle bianca. Quella gli sembrava la casa dei sogni; e non poteva credere che fosse la dimora di Marjory.
"Perché non me l'hai detto?" domandò il ragazzo, osservando meravigliato l'enorme lampadario di cristallo che sovrastava il tavolo.
"Non me l'hai mai chiesto..." rispose Marjory, mentre numerava dei fogli che erano disposti in modo disordinato intorno a lei.
Tristan la guardò e capì che quell'argomento non era uno dei preferiti di Marjory. Si sedette accanto a lei e iniziò a leggere le prime righe del libro che Marjory aveva lasciato sul tavolo. Sebbene quello fosse un testo di letteratura francese, Tristan si stupì di se stesso constatando che la comprensione gli era più facile del previsto.
"Cominceremo con il libro scolastico..." indicò la ragazza, riferendosi al manuale che Tristan aveva fra le mani.
"Poi riassumeremo e approfondiremo con il secondo libro, che ho trovato nei vecchi scaffali di mio padre."
Tristan era sorpreso; Marjory era estremamente organizzata, preparata e volenterosa di fare che quasi veniva voglia anche a lui, di lavorare a quello stupido progetto. Il tema trattato era quello di La fin'amors, che Tristan scoprì riguardare solo ed esclusivamente l'amore medievale e cortese. Nonostante quel progetto fosse una noia totale, quel pomeriggio si stava rivelando divertente, mentre Marjory continuava a scrivere fogli e fogli di appunti e Tristan si limitava a leggere i paragrafi del libro, per di più con una pessima pronuncia.
Ad un tratto, un ragazzo apparì dalle scale. Tristan lo guardò impassibile, mentre Marjory continuava a scrivere e non si era accorta della sua presenza. Il ragazzo ai piedi delle scale cominciò a sentirsi in soggezione sotto lo sguardo inquisitorio di Tristan. Quest'ultimo non avrebbe mai immaginato che Marjory potesse avere un ragazzo, e in più non riusciva a credere che lei non gli avesse detto che questo ragazzo avrebbe partecipato al loro pomeriggio di studi.
"Oh! Lui è Owen..." disse Marjory guardando Tristan. "Mio fratello."
Il fratello di Marjory sorrise e si avvicinò, quando vide che l'espressione di Tristan si era tranquillizzata. Dal canto suo, lui era stato uno sciocco a pensare ad Owen in quel senso. Il suo lato geloso ed iper protettivo stava ancora avendo la meglio su di lui, ma la cosa peggiore era che Tristan non riusciva a controllarlo. I due ragazzi si strinsero la mano, mentre Marjory continuava a scrivere alla velocità della luce.
"È tornata la mamma!" disse Owen. "Ho visto la macchina dalla finestra."
Marjory sorrise, ringraziando il fratello con un cenno del capo per averla avvisata. Quando i ragazzi sentirono la porta dell'ingresso chiudersi, Owen sgattaiolò in cucina, portando con se' il telefono di casa. Nel salotto apparve la madre di Marjory, una bellissima donna sulla quarantina, stretta in un tailleur grigio scuro e con una folta chioma bionda.
"Ciao, tesoro." la donna baciò sua figlia sulla fronte con fare teatrale e soltanto allora vide Tristan.
"E lui chi è?" chiese allegra, sventolando i ricci di sua figlia con le mani.
"Lui è Tristan. È quì per un progetto di studio."
"Salve, signora Montgomery!" disse il ragazzo, alzandosi e stringendo la mano alla mamma di Marjory.
La donna guardò Tristan sorridendo e continuò ad osservare i due ragazzi per l'intero pomeriggio, mentre loro lavoravano insieme. Per sua madre, Marjory non era mai stata una ragazza socievole e il fatto che sua figlia avesse portato un amico a casa rendeva la donna piena di entusiasmo. Per questo, la signora decise che quel ragazzo sarebbe stato più di un amico per Marjory. Il pomeriggio era ormai inoltrato e l'ora di cena si stava avvicinando. La relazione di francese dei ragazzi si trovava a malapena alla metà e, dopo svariate discussioni, arrivarono alla conclusione che si sarebbero dovuti vedere almeno un altro paio di volte. A Marjory iniziava già a scocciare il fatto di doverlo vedere ancora fuori scuola. Quando i ragazzi si alzarono da tavola e quando Tristan ripose i suoi quaderni nella borsa, la mamma di Marjory apparì di nuovo davanti a loro.
"Rimani a cena da noi, caro?" chiese a Tristan asciugandosi le mani nel canovaccio da cucina.
"Cosa?" gridò Marjory in preda al panico. Averlo a cena a casa loro sarebbe stata la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso.
"Credo che Tristan abbia già degli impegni..." si affrettò a spiegare, lanciando degli strani segnali a sua madre con lo sguardo.
"Veramente mi farebbe molto piacere! Mia madre non è a casa e avrei comunque cenato da solo" Tristan mostrò un sorriso alla mamma di Marjory.
Quando la ragazza vide le labbra di lui incresparsi in un sorriso, sentì il Mondo caderle addosso: averlo a cena con l'intera famiglia sarebbe stato un disastro. Tristan si divertiva a far innervosire Marjory, e quella era un'occasione perfetta. Inoltre non lo faceva soltanto per renderla agitata, ma soprattutto per passare del tempo in più insieme a lei. In realtà Tristan non voleva che Marjory passase del tempo da sola. La ragazza prese i libri dal tavolo, se li strinse tra le braccia e si avviò per le scale. Per un secondo a Tristan parve di vederla di nuovo tra i corridoi scolastici. La seguì su per le scale di legno scuro che tanto avevano attirato la sua attenzione, dopo essersi preoccupato di ringraziare a dovere la mamma di Marjory per l'invito. Prima che se ne accorgesse, Tristan si ritrovò nella camera da letto di Marjory.
Le pareti della stanza erano colorate di una tonalità chiarissima di giallo che si abbinava perfettamente ai mobili chiari e alle coperte arancioni. Davanti alla finestra vi era una graziosa e immancabile poltrona a muro, anch'essa rivestita di una simpatica stoffa arancione. Sulla parete più grande era fissata una grande libreria colma di libri di ogni genere. Marjory poggiò i libri sulla scrivania e si affrettò a chiudere la porta della stanza.
"Hai intenzione di rovinare la mia vita anche fuori dalla scuola? Perché per ora te la stai cavando alla grande!"
"Ti sbagli... Pensavo di facesse bene un po' di compagnia." ammise Tristan e in quel momento le sue intenzioni erano tutt'altro che cattive.
Marjory si accasciò sul letto, nascondendo il volto tra le mani.
"Ti prometto che andrà bene..." sussurrò Tristan e per la prima volta Marjory si sentì rassicurata dalla sua voce. Quando la signora Montogomery annunciò la cena - qualche minuto dopo - i ragazzi scesero le scale e si ritrovarono di fronte al padre di Marjory. Tristan si sentì in soggezione davanti allo sguardo severo dell'uomo.
"Buonasera, signore." L'uomo tenne lo sguardo fisso su quello di Tristan, scrutando attentamente ogni suo minimo particolare: dai capelli tirati su, ai vestiti trasandati. Una volta arrivati in soggiorno l'intera famiglia era in piedi attorno alla tavola; quando anche Tristan e Marjory ebbero preso posto, la madre della ragazza iniziò a sussurrare una preghiera. Anche Tristan abbassò il capo, dopo un generoso consiglio di Owen. Quando si sedettero, Tristan osservò le pietanze che riempivano la tavola e non potè fare a meno di gioire interiormente. Seduto accanto a Marjory percepiva la sua agitazione, mentre la serata proseguiva come una normale cena di famiglia. Tristan fissò le mani tremanti di Marjory e la guardò negli occhi, cercando di tranquillizzarla con lo sguardo.
"Allora figliolo..." enunciò il padre della ragazza. "Cosa fanno i tuoi genitori?"
Marjory guardò Owen con preoccupazione, capendo che per Tristan fosse arrivato il momento dell'interrogatorio di famiglia.
"Bhè..." cominciò il ragazzo pulendosi la bocca con un tovagliolo di stoffa. "Mia madre è avvocato e mio padre... in realtà lui è andato via quando ero molto piccolo e non so esattamente quale sia la sua occupazione al momento."
"Ma è terribile!" piagnucolò la signora Montogomery.
Marjory rimase in silenzio, fissando la tovaglia davanti a se'. Tristan non sapeva niente della sua vita prima di quel giorno? Bhè, neanche lei sapeva niente di lui, apparte il fatto che suo padre se ne fosse andato quando lui era bambino.
"Oh, no... Non è così male come sembra!" e in realtà a Tristan non sembrava dispiacere molto di quel fatto.
Quando la cena era ormai arrivata al termine, Tristan e il signor Montgomery discutevano del calcio, mostrando entrambi le loro idee divergenti.
"Credo che sia ora che tu vada..." suggerì Marjory.
Tristan annuì guardandola e con educazione si alzò da tavola. Volse lo sguardo al viso dispiaciuto della madre di Marjory.
"È stato un piacere signora Montgomery, e grazie per la cena."
"Ti prego, chiamami Sarah!"
Tristan sorrise e strinse la mano al padre della ragazza.
"Arrivederci!" gridò quando Marjory lo ebbe accompagnato alla porta di casa.
"Grazie per la serata." sussurrò lui alla ragazza. Lei sorrise e lasciò che Tristan andasse via. Rimase a guardarlo mentre montava sulla sua auto malandata e sfrecciava via lungo il viale, lasciando una nuvola di terriccio dietro di se'.

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Capitolo 16
*** Capitolo sedici. ***


Capitolo sedici.

Erano da pochi minuti passate le otto di sera e Brad si era magicamente trasportato di fronte al vialetto di Amanda. Aveva parcheggiato la sua auto, lasciato il motore accesso e impostato l'aria calda al massimo della temperatura. Ora si ritrovava con gli anfibi immersi nella poltiglia di neve sporca mista all'acqua, a farfugliare a mezza voce una canzone che probabilmente avrebbe sentito al concerto subito dopo. Ora che era lì, fermo ad aspettare che Amanda uscisse di casa, con i biglietti del concerto fra le mani, si rese effettivamente conto che sì, sarebbe andato a quel concerto con lei. Se li rigirò fra le mani ed iniziò a giocare con il logo argenteo sul retro di uno di essi, poi se li infilò nella tasca interiore della giacca per evitare che si rovinassero e nascose il volto nella sciarpa. Quando Amanda uscì dalla porta di casa, Brad fu colto di sorpresa. Il cuore cominciò a rimbalzargli nel petto mentre la guardava avvicinarsi, stretta nel cappotto di lana a causa del freddo. Sicuramente quello che provava per Amanda era notevolmente cambiato nell'ultimo periodo. Si era accorto di volerla; di volerla davvero. Non che prima avesse una specie di odio nei suoi confronti, ma mai si era sentito vicino a quella ragazza come lo era in quel momento. Forse era il modo in cui parlava; la sua timidezza; il modo in cui arrossiva e abbassava lo sguardo ogni secondo; i suoi capelli e il fantastico profumo che li caratterizzava; oppure i suoi occhi. Bhè, quelli giocavano un ruolo importante. Di una particolare tonalità di verde, che tendeva allo smeraldo in alcuni giorni e al grigio in altri. Quando Amanda si fermò davanti a Brad, gli mosse una mano davanti al volto per ridestarlo dai suoi pensieri e sorrise. Brad boccheggiò a vuoto, fissando attentamente quelle labbra stendersi e poi tornare alla loro forma naturale. In quel momento Brad pensò che Amanda fosse più bella delle altre volte: forse era per la carnagione di porcellana, che con il freddo rispecchiava ancora di più la delicatezza della sua pelle; oppure il naso e le guance arrossate per il vento sferzante; o ancora le sue labbra piene e rosee. Ogni cosa di lei mandava Brad su di giri. Sorrise anche lui quando si accorse di averla fissata più del dovuto. Strinse la mano ad Amanda, impacciato e timido allo stesso tempo. Poi le aprì lo sportello dell'auto e la fece sedere. Quando entrambi furono nell'auto, Amanda si abbandonò alla piacevole sensazione di calore che l'aria le donava. Brad iniziò a maneggiare con i pulsanti dello stereo, che produsse qualche rumore strano e cominciò a diffondere una melodia a basso volume. Presto, le prime parole di una canzone dei Foster The People si fecero eco nell'abitacolo. Amanda sorrise ed abbassò lo sguardo; adorava quella canzone. Volse gli occhi oltre il vetro del finestrino e osservò delle gocce di pioggia correre sulla superficie cristallina. Al di fuori dell'auto, tutto sembrava in perfetta tranquillità.
La ragazza alzò lo sguardo al cielo, e osservò il manto grigio sgombro di nuvole che le sovrastava la testa. Poi si voltò verso Brad, curiosa di sapere cosa il ragazzo stesse facendo in quel preciso istante. Come poteva prevedere, lo sguardo corrucciato del ragazzo era fisso sulla strada davanti a se', e le sue mani strette sul volante. Amanda osservò i suoi muscoli tesi e il colore delle nocche, che ora tendevano al giallo. Quando Brad si accorse di essere osservato, si voltò nella direzione di Amanda, causando un rossore sulle guance di quest'ultima ben evidente. Rimase confuso; c'era di sicuro qualcosa che la turbava.
"Non ti piace la musica?" chiese con gentilezza. Amanda alzò il volto all'improvviso, scuotendo la testa.
"Oh, no... Non preoccuparti!"
Brad sorrise e tornò a guardare la strada, tenendo il tempo della canzone sul volante. Amanda guardò di nuovo il cielo; a giudicare dall'assenza di nuvole si poteva intendere che quella sera non sarebbe ne' piovuto ne' nevicato. Almeno era quello che Amanda sperava. Qualche minuto dopo arrivarono. Il posto dove si sarebbe tenuto il concerto non distava molto da casa loro ed era facilmente raggiungibile in auto. Ciò consisteva in un enorme distessa di prato subito fuori dal confine della città. Entrambi scesero dall'auto e gli sportelli si chiusero con un tonfo. Amanda si sentì rinata quando vide lo sciame di persone avvicinarsi ai cancelli del posto. Un uomo controllava che tutti quanti avessero i biglietti, e dopo che questo avesse controllato i biglietti dei ragazzi, loro si ritrovarono sulla grande distesa d'erba a fronteggiare la sontuosità del palcoscenico. La sfrontatezza di Brad permise loro di infilarsi tra la folla e riuscire a raggiungere un posto decente, quantomeno per scorgere le sagome dei componenti del gruppo. Amanda sorrise soddisfatta e si pose davanti a Brad in modo da avere una posizione pressocché buona per lo spettacolo. Qualche minuto dopo sarebbe iniziato il concerto e Brad si rese conto di essere arrivato giusto in tempo, solo quando diede un'occhiata al suo orologio da polso.
"Brad? - cominciò Amanda infilando una mano nello zainetto. - Ti va se ci facciamo una foto?"
Brad rimase sorpreso. Fino a qualche giorno prima trovava difficile che Amanda gli rivolgesse la parola, mentre adesso voleva una foto con lui. Non stette a pensarci più di molto e annuì. La ragazza tirò la macchina fotografica fuori dalla tasca anteriore dello zaino e iniziò a maneggiare con i pulsanti. Brad sospirò e si guardò intorno: la folla era talmente vasta e fitta che guardando all'orizzonte non si notava nemmeno dove questa finisse. Amanda esultò di gioia quando l'obiettivo della macchina si sporse, e si parò davanti a Brad alzando la macchina verso l'alto. Il ragazzo rivolse un sorriso sincero verso l'obiettivo e posizionò una mano sulla testa di Amanda, mimando le orecchie di un coniglio. Un lampo di luce apparì e sparì d'un tratto e i ragazzi impiegarono un bel po' di tempo per recuperare a pieno la percezione della realtà, a causa della luce. Subito dopo l'atmosfera cambiò. I riflettori del palco si spensero e la notte venne illuminata solamente da luci verdi. Il fumo artificiale si sparse nell'aria e Amanda ebbe un brivido di eccitazione quando si accorse che tutti intorno a lei stessero urlando. Quella era la prima volta che partecipava ad un concerto della sua band preferita e non aveva minimamente idea di cosa aspettarsi da quella serata. Aveva passato gli ultimi due anni e mezzo a fissare immagini sul suo computer e a fantasticare su come sarebbe stato incontrare Alex Turner dal vivo. Ed ora era lì, a guardarlo a pochi metri da lei. E doveva tutto a Brad. Sorrise involontariamente quando pensò a quel fatto. Che in qualche modo quel ragazzo stesse lentamente facendosi spazio fra i suoi pensieri? No. Amanda non avrebbe permesso a nessuno di abbattere il muro di ostilità che si era creato fra lei e il genere maschile; non di nuovo. Eppure ragionandoci, in quel momento si ritrovava da sola ad un concerto con Brad, schiacciata contro il suo petto. Il contatto tra i loro corpi la rassicurò e decise di smettere di pensare al rapporto tra lei e il ragazzo.
La prima canzone iniziò e Amanda gridò tanto da far ridere Brad di gusto. Mai l'aveva vista così... A briglia sciolta. Alzò un braccio al cielo in segno di acclamazione e cominciò ad osservare Amanda; infondo quella non era la sua band preferita. Era pur vero che conosceva svariate canzoni di quel gruppo, ma sicuramente se non avesse trovato la scusa di Amanda non sarebbe mai andato a quel concerto. Ora era più che felice di essere lì. Brad non era mai riuscito a starle così vicino. Inspirò a fondo l'odore di mela verde dei suoi capelli. Sicuramente quella scena doveva sembrare bizzarra vista da fuori. Amanda si voltò verso Brad, trovandolo a pochi millimetri dal suo viso. Il suo cuore cominciò a battere più velocemente, sebbene la ragazza non potè dare una spiegazione a quel suo repentino cambiamento emozionale. Brad la guardò negli occhi e rimase imbambolato di fronte a tutta quella bellezza.
La ragazza si intimorì. Perché mai avrebbe dovuto avere quella reazione davanti a lui? Si voltò di nuovo, cercando di evitare lo sguardo del ragazzo. E ci riuscì. Per tutta la durata dello spettacolo, Amanda si limitò a fissare l'immagine statuaria del front man del gruppo e a cantare a gran voce ogni canzone. Ma a Brad tutto ciò bastava. Essere lì con lei; poterle stare così vicino; essere il motivo della sua felicità, anche solo per una sera. Quando il concerto finì ad Amanda rimase solo una brutta sensazione di malinconia e il ricordo di una serata fantastica. L'impresa più ardua di quella sera non fu la convivenza con Brad, bensì il riuscire ad andarsene da quel posto. Come il ragazzo ben immaginava, una volta terminata l'ultima canzone la folla si riversò ad ondate sul vialetto di brecciolino che si trovava al di fuori dei cancelli. Quando anche i due furono immersi dalla folla, Amanda rimase basita dalla violenza con la quale le persone si scagliavano contro di lei. Era pur vero che tutti desiderassero andar via da quel posto, ma non era assolutamente un comportamento civile, quello. In un momento si ritrovarono a camminare spinti soltanto dal flusso della folla. Amanda si voltò verso Brad che nella foga era stato scaraventato a qualche metro da lei. Lo supplicò con gli occhi per qualcosa che anche lei credeva impossibile. Lui, dal canto suo, sapeva di dover fare qualcosa o avrebbe perso di vista Amanda e sarebbero passate ore prima che i due si fossero rincontrati. Brad reagì d'istinto; sapeva di doverci andare piano con quella ragazza. Un passo falso gli sarebbe costato troppo. Tese la mano verso Amanda, ormai impegnata più che altro ad evitare di cadere a terra. La ragazza guardò titubante prima la mano, e poi il ragazzo. Quanto tempo era passato dall'ultima volta che aveva stretto la mano ad un ragazzo? Ci riflettè su qualche istante. Non c'era tempo. Velocemente afferrò la mano di Brad e si ritrovò scaraventata al suo fianco, stretta dal braccio possente di lui. Per un secondo si sentì al sicuro; poi i due ripresero a camminare. Per fortuna, al loro arrivo Brad era riuscito a trovare un parcheggio piuttosto vicino all'entrata del posto; ragion per cui qualche minuto dopo - grazie ad alcuni spintoni dati qua e là dal ragazzo - entrambi si ritrovarono davanti all'auto di Brad.
"Finalmente!" esordì esasperato lui, accasciandosi sullo sportello dell'auto e passandosi una mano fra i capelli. Amanda ridacchiò nervosamente.
"Già." commentò sfregandosi le mani dal freddo. Sebbene i suoi guanti di lana fossero stati fissati alle mani per tutta la durata della serata, le sue dita avevano assunto un colore simile al violaceo ed ogni minimo movimento risultava assolutamente problematico per lei.
Quando entrambi furono saliti in macchina, la vecchia auto di Brad ci mise un po' per mettersi in modo a causa del freddo penetrante di quella sera di Dicembre. Nonostante tutto, ci volle ben poco tempo prima che la temperatura si facesse abitabile. L'auto partì ed Amanda inizio a fare finta di osservare la città oltre il finestrino, sebbene il buio e la condensa formatasi sul vetro non le permettessero di scorgere granché. Tutto ciò pur di non dover incontrare di nuovo lo sguardo di Brad. Era vero, si vergognava. Quella sera si era mostrata estremamente debole e, che lei lo volesse o no, Brad era riuscito ad avvicinarsi a lei più di quanto qualunque altro ragazzo le si fosse avvicinato negli ultimi mesi. Abbassò il capo senza un apparente motivo; pensare a quell'argomento la rendeva ogni volta inspiegabilmente triste. Prima che Amanda potesse rendersene conto - un po' per il suo stato di sovrappensiero perenne e un po' per la sua scarsa percezione del tempo - si ritrovarono di fronte al vialetto di casa sua. Un silenzio imbarazzante si fece largo nella situazione. Amanda si slacciò la cintura di sicurezza, e quel click fu l'unico suono che si udì da quando l'auto si era fermata. La ragazza si guardò intorno; non sarebbe di sicuro stata lei a rompere il ghiaccio. Brad sospirò.
"Bhè, buonanotte." sussurrò.
Amanda annuì; non aveva, tuttavia, intenzione di andarsene senza averlo ringraziato.
"È stata una bellissima serata."
"Già."
Amanda aprì lo sportello e mise un piede fuori dall'auto, sul marciapiede. Per un qualche strano motivo, il suo subconscio sembrava del tutto riluttante all'idea di lasciare quel ragazzo. Scacciò subito quel pensiero e scosse la testa.
"Allora, buonanotte." disse, e chiuse lo sportello. Si voltò di nuovo e guardò Brad, che fissava un punto nel vuoto davanti a se'. Si diresse verso il portone di casa sua. Doveva ammettere che una parte di se' aveva sperato che Brad le avesse dato un motivo per rimanere ancora un po' lì fuori, sebbene il freddo la stesse uccidendo. Infilò la chiave nella serratura e la fece scattare. La porta si dischiuse in un secondo.
"Amanda!" gridò Brad alle sue spalle. La ragazza sorrise al suono di quella voce.
Brad si fermò davanti a lei, appoggiandosi al muro per riprendere fiato, come se la corsetta di un metro appena improvvisata fosse stata una maratona.
"Volevo chiederti... Ti andrebbe di uscire insieme un giorno di questi?"
Amanda si immobilizzò. Non era quello ciò che avrebbe voluto sentire. Deglutì a vuoto, facendo scomparire il groppo enorme che le si era formato all'altezza della gola e boccheggiò qualcosa al vento.
"Bhè... S-sì." balbettò. "Insomma, si potrebbe fare."
Brad sorrise. Ovviamente era quello che sperava da qualche giorno a quella parte. Tuttavia non vedeva in lei quella nota di entusiasmo che desiderava. Smise di pensarci; infondo avrebbe avuto un vero appuntamento con lei.
"Forte! Allora, buonanotte!" esclamò per l'ennesima volta e sgattaiolò via, salendo di nuovo in auto e parcheggiandola qualche metro dopo.
"Buonanotte." sussurrò Amanda una volta che se ne fu andato. Quando finalmente si ridestò dai suoi pensieri, entrò in casa e chiuse la porta dietro di se' lasciando che il buio la avvolgesse e abbandonandosi ai suoi pensieri.

 

Note delle autrici:
salve a tutti! Ecco a voi il sedicesimo capitolo... E' inutile dire che speriamo vi piaccia e che recensiate etc.
Sarebbe bello ricevere dei consigli o altro...
Ora, volevamo chiedervi una cosa IMPORTANTE: come immaginate tutti i personaggi???
Fateci sapere... A presto xx

 

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Capitolo 17
*** Capitolo diciassette. ***


Capitolo diciassette.

La porta della caffetteria si dischiuse in un lampo e il suono dei campanelli sul soffitto annunciò che qualcuno era appena entrato. Brad si avvicinava con tutta calma al bancone del bar, dove avrebbe ordinato il suo solito caffè macchiato con doppia panna alla signora Collins. Quando l'anziana signora lo vide avvicinarsi, non vi fu alcun bisogno che Brad parlasse, data la sua abituale visita a quella caffetteria. La signora Collins era una graziosa sessantenne che viveva nello stesso quartiere di Brad, precisamente tre case oltre la sua. L'aveva conosciuta il primo giorno che aveva messo piede nella caffetteria, e da quel giorno la vedeva con costanza almeno tre o quattro volte alla settimana. Dopo qualche secondo di attesa, un bicchiere di cartone colmo di cappuccino bollente faceva capolino sotto il suo naso. Brad estrasse il portafogli dalla tasca posteriore dei jeans e si fece tintinnare qualche moneta fra le mani, poi le posò sul bancone.
"Non ce n'è bisogno, ragazzo!" bisbigliò la signora Collins con voce roca, prendendo le monete e posandole nuovamente sulla mano di Brad. Succedeva veramente spesso che Brad andasse lì per ripararsi dal freddo e scaldarsi con una bibita calda, ragion per cui la maggior parte delle volte la donna gli permetteva di non pagare. Brad insistette per parecchio tempo al fine di pagare; in fondo non era sua intenzione continuare a frequentare quel posto per avere la garanzia di avere un cappuccino gratis. Alla fine cedette. La dolcezza di quella signora rendeva difficile dirle di no. Brad ripose le monete nella tasca, promettendosi che la volta successiva avrebbe avuto il polso fermo e si sarebbe impuntato pur di pagare. Salutò la signora con una stretta di mano ed un sorriso e si preparò per uscire, tirando la zip della sua giacca fino all'estremità del collo.
La porta si aprì di nuovo e i campanelli suonarono ancora. Una folata di vento entrò dallo spiraglio e scompigliò il ciuffo ribelle e disordinato di capelli di Brad. Un brivido gli percorse la schiena. Per un attimo l'idea di restare nella caffetteria e farsi venire a prendere da sua madre gli attraversò la mente, ma poi ripensò al fatto di volersi riposare un po', per cui optò per l'opzione di andare a piedi. Brad mise il primo piede fuori dalla porta e nuovamente fu riluttante all'idea di lasciare il locale per imbattersi nel freddo pungente. Una voce alle sue spalle lo fece sobbalzare. Era una voce femminile che Brad - nonostante si sforzasse al massimo - non riusciva a riconoscere. A giudicare dalla tonalità acuta poteva intendere che si trattasse di una ragazza; aveva già sentito quella voce, ne era sicuro. Eppure non riusciva a ricollegarla a nessun volto. Si voltò lentamente e chiuse la porta di vetro, ponendo un ostacolo fra se' e il vento gelido. Cercò con lo sguardo la ragazza che aveva cercato la sua attenzione qualche secondo prima e, dopo aver passato lo sguardo su tutte le persone, si accorse che una ragazza stesse agitando il braccio al vento. Nonostante non riuscisse a ricordare dove l'avesse vista, era sicuro di conoscerla. Una ragazza minuta e bassina, dai lunghi capelli scuri e ricci. Era come se fosse la copia femminile di Brad. Nella testa del ragazzo continuava a rimbalzare la stessa domanda: dove ti ho vista?
Nell'attesa di una brillante illuminazione, Brad si avvicinò al tavolino sul quale erano sparsi diversi libri scolastici e vi appoggiò il suo bicchiere di cartone. Aspettò che la ragazza gli desse in permesso e si sedette. La guardò negli occhi, cercando di schiarirsi le idee. Ma niente. Proprio non riusciva a ricordarla.
"Sono Samantha! L'amica di Amy." esclamò lei.
Brad si sentì un idiota. Come aveva fatto a dimenticarla? Gli aveva aperto la porta qualche giorno prima; era pur vero che l'avesse vista per qualche secondo, ma pensava di aver impresso la sua immagine nella mente. Si soffermò a pensare alle ultime parole di Samantha. Amy. Allora era così che i suoi amici la chiamavano. Sorrise involontariamente.
"Ho saputo che siete andati ad un concerto insieme, sabato sera!" asserì di nuovo lei. La voce squillante della ragazza faceva in modo che l'attenzione dei pochi presenti si riversasse su di lei. Brad era in qualche modo infastidito dal fatto che tutti stessero ascoltando la sua conversazione. Annuì con fermezza e sorseggiò il suo cappuccino per qualche secondo, in piccole quantità per evitare di ustionare lingua e esofago.
"Bhè, è un miracolo che ti abbia concesso un appuntamento dopo così poco tempo."
Brad annuì di nuovo. Non aveva niente da dire: sapeva che Amanda era quel genere di ragazza che avrebbe preferito qualunque cosa pur di non uscire con un ragazzo troppo presto. C'era, tuttavia, qualcosa di inspiegabile in tutto ciò. Perché mai sarebbe dovuta essere così ostile?
Si strinse nelle spalle bevendo ancora. Il cappuccino stava finendo troppo in fretta e a Brad ne sarebbe servito un altro per occupare il suo tempo durante la conversazione.
"Sai... Dopo quello che è successo..." azzardò Samantha, sapendo che Brad non sapesse assolutamente niente di quel fatto. Tuttavia, però, voleva che lui sapesse e ancor di più voleva che la sua migliore amica uscisse con un ragazzo. Brad aggrottò le sopracciglia; se l'intenzione di quella ragazza era di mettergli la pulce nell'orecchio, ci era riuscita perfettamente.
"Che intendi?" mormorò Brad con timore; non era sicuro di voler sapere.
Samantha si appoggiò allo schienale della sedia. Sapeva che Amanda l'avrebbe uccisa se avesse saputo quello che stava per fare, ma lei doveva farlo. La sua migliore amica odiava quando si parlava di quell'argomento, soprattutto quando lei non c'era.
"Sai che l'anno scorso Amanda è stata con un ragazzo, Luke"
Brad sentì i suoi muscoli tendersi; non era mai stato un ragazzo geloso, ma era ben evidente che il suo interesse per Amanda gli rendesse difficile parlare di quell'argomento senza alterarsi. Annuì e Samantha continuò.
"Quando si sono lasciati lei è stata malissimo..."
Samantha abbassò lo sguardo ricordando il periodo terribile che la sua amica aveva passato qualche mese prima. Brad iniziò a tremare; non era sicuro di voler affrontare il resto del discorso. Ma Samantha continuò senza che lui proferisse parola.
"Insomma, quella fu la sua prima relazione seria; il suo primo amore; la sua prima volta." Una nota di imbarazzo caratterizzò l'ultima frase della ragazza.
Brad si mosse sulla sedia dal nervosismo. Stava davvero assistendo ad una conversazione del genere? Si guardò intorno, livido in volto per l'irritazione.
"Non capisco dove tu voglia arrivare." disse. Poi bevette l'ultimo sorso del suo cappuccino; era finito giusto in tempo. Guardò Samantha neglio occhi: la preoccupazione per la sua amica era realmente percepibile dallo strano velo grigio che copriva le sue particolari iridi scure e brillanti. Un sospiro esasperato uscì fuori dalle labbra della ragazza. Era felice di essersi tolta quel peso; Amanda avrebbe potuto odiarla quanto voleva, ma era sicura che prima o poi l'avrebbe ringraziata per quel che aveva appena fatto. E in più Brad non le sembrava un ragazzo tanto stupido da giocare con i sentimenti della sua migliore amica. Tornò a scrivere; più che altro si limitava a sottolineare con una matita mangiucchiata le parole in grassetto sul libro. Avrebbe forse dovuto aspettare che Brad se ne andasse di sua spontanea volontà? Le sembrava totalmente scortese chiedergli di uscire e lasciarla studiare, poiché era stata lei a chiedergli di sedersi. Non fu necessaria nessuna richiesta di Samantha. Brad si alzò dal tavolino, prendendo il bicchiere ormai vuoto e le chiavi di casa sua. Non sapeva esattamente cosa dire a Samantha; se ringraziarla o meno. In fondo non aveva fatto niente di speciale, se non intimorirlo a tal punto da farlo dubitare sul suo prossimo appuntamento con Amanda. Si schiarì la voce e Samantha alzò il volto, posando i grossi occhi da cerbiatto su di lui.
"Ehm, è stato un piacere..." bofonchiò Brad grattandosi la nuca dall'imbarazzo.
"Anche per me!" esclamò entusiasta la ragazza. Brad fece un cenno col capo e si allontanò dal tavolo, dimenticando anche di salutare la signora Collins a causa dei troppi pensieri che gli rimbalzavano nella testa. Purtroppo per lui era arrivato il momento di affrontare la sorta di bufera di neve che nel frattempo si era scatenata all'esterno. Non stette a badarci più di tanto: non gli dispiaceva l'idea di passeggiare sotto la neve, e a consolarlo era il fatto che poco tempo dopo si sarebbe ritrovato al caldo sotto le coperte di casa sua. In più nel pomeriggio avrebbe dovuto incontrare i suoi amici e passare un pomeriggio con loro era forse la cosa più bella di tutte. Poi pensò ad Amanda, a cosa stesse facendo in quel momento; la immaginò a casa con suo fratello e si ritrovò a sperare di vederla anche solo per un nano secondo e di sfuggita, una volta arrivato a casa. Fu proprio allora che Brad si infilò le mani in tasca, cominciando a camminare sul manto leggero di neve che aveva iniziato ad attecchire a terra, lasciando delle leggere impronte dietro di se'.
Era chiaro che il vero inverno fosse appena arrivato.

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Capitolo 18
*** Capitolo diciotto. ***


Capitolo diciotto.

Marjory uscì velocemente di casa dopo aver salutato suo fratello, infilandosi il caldo cappotto di lana. Percorse alla svelta il lunghissimo viale del suo giardino, applicando la tecnica che aveva perfezionato in tutti quegli anni per evitare di scivolare sul ghiaccio. Una volta oltre il cancello iniziò a pensare a quello che sarebbe successo in quel pomeriggio e uno strano senso di inquietudine si fece largo dentro di lei. Per qualche motivo che lei ancora non conosceva, Tristan era riuscito ad ottenere il suo numero di telefono, così le aveva mandato un messaggio dicendole di farsi trovare a casa sua per le quattro di quel pomeriggio; poi le aveva annotato l'indirizzo. Era per quella ragione che lei si ritrovava in un pomeriggio ugioso di Dicembre a percorrere le vie centrali della città alla ricerca della casa di quel ragazzo. Il senso dell'orientamento non era mai stato il suo forte, ragion per cui dovette fermarsi numerose volte a chiedere informazioni a qualche anziano signore. Dopo svariate peripezie, Marjory giunse davanti alla casa di Tristan. Ricontrollò l'indirizzo sul suo cellulare e lo ripose al sicuro in una tasca. Titubante suonò il campanello. Tristan scese le scale correndo, tanto era il suo entusiasmo di vedere Marjory. Arrivò in soggiorno e vide sua madre intenta ad emozionarsi di fronte ad una serie televisiva.
"Mamma, non ti sei accorta che c'è qualcuno alla porta?"
"Oh, Tristan... Sii gentile, occupatene tu!" rispose la donna, tenendo lo sguardo fisso sulla televisione. Tristan sbuffò e si recò alla porta. Il tempo che impiegò per girare il pomello sembrò triplicarsi. Come si sarebbe comportato una volta che avrebbe aperto la porta? Non aveva mai presentato nessuna ragazza a sua madre. Non sapeva affatto come agire. Marjory e Tristan si trovarono uno di fronte all'altro a guardarsi negli occhi. Guardandolo attentamente in viso e scrutando il suo sorriso limpido e cordiale, Marjory si rese conto - per la prima volta - di essere felice di vederlo. Tristan tornò in se' e la fece entrare in casa, chiudendo la porta dietro di lei. Pensò che forse, se sua madre avesse continuato a fissare il televisore in maniera del tutto assente, non ci sarebbe stato bisogno di imbarazzanti presentazioni. Entrambi raggiunsero il soggiorno e Marjory iniziò ad osservare attentamente l'arredamento particolare di quella casa. I suoi occhi guizzarono verso la tv e un'espressione entusiasmata si fece spazio sul suo volto.
"Che c'è?" chiese Tristan guardandola.
"Tua madre sta guardando una delle mie serie televisive preferite!" replicò lei.
Tristan roteò gli occhi, mentre sua madre si voltò nella loro direzione, al suono di quelle parole. La donna sorrise amichevolmente e si sporse oltre il divano, tendendo un braccio verso la ragazza.
"Tu devi essere Marjory." La ragazza sorrise e strinse la mano alla donna.
"È un piacere, signora Evans."
La madre di Tristan si alzò dal divano, raccogliendo dei fazzoletti umidi e dirigendosi verso la cucina. Prima però, si occupò di passare accanto a suo figlio per sussurrargli qualcosa all'orecchio.
"È anche più carina di quanto mi avessi detto!" disse ammiccando in direzione della ragazza, facendo in modo che lei la sentisse. Marjory arrossì improvvisamente e abbassò il volto; Tristan si limitò a rimproverare sua madre con lo sguardo. Quando la donna sparì oltre la porta della cucina, Tristan prese la mano di Marjory e la strattonò guidandola nella sua stanza da letto. Quando il ragazzo sbattè la porta dietro di se', borbottando qualcosa sul fatto che sua madre fosse la persona più imbarazzante che avesse mai conosciuto, Marjory lasciò cadere la borsa con i libri in un angolo della stanza. Si voltò e osservò attentamente il tutto: di fronte a lei le tipologie più disparate di strumenti musicali sfoggiavano la loro bellezza. La ragazza ebbe un fremito e scattò in direzione di un vecchio pianoforte a muro che era appoggiato ad una parete nascosta della stanza.
"Ah, suono la metà degli strumenti che vedi qui dentro." disse Tristan.
Marjory lo guardò: in realtà non aveva mai conosciuto nessun ragazzo della sua età che sapesse suonare qualcosa. Accarezzò i tasti ingialliti del pianoforte e chiuse gli occhi. Tristan si avvicinò alla libreria della sua stanza e ne estrasse il libro di francese, per poi lanciarlo sul letto. Iniziò a sfogliare le pagine svogliatamente, mentre rifletteva sul da farsi di quel pomeriggio. All'improvviso delle note confuse di fecero sentire nella stanza. Tristan alzò il capo e trovò Marjory intenta a premere le dita sui tasti. Tipico. Doveva aspettarsi che una ragazza come lei sapesse suonare uno strumento che richiedesse tale grazia. Scosse la testa sorridendo.
"Marjory ti prego... Abbiamo tanto lavoro da fare, lascia perdere!"
La ragazza sbuffò, si alzò e si sedette sul bordo del letto, incrociando le gambe. Tristan cominciò a leggere. Marjory lo ascoltava con attenzione, lasciandosi catturare più dalla voce del ragazzo che dal testo di francese. Scosse la testa quando quest'ultimo pronunciò l'ultima parola, chiudendo il libro e posandoselo sulle gambe. Una smorfia indispettita si dipinse sul suo volto.
"Non stavi ascoltando, vero?"
Marjory si rizzò sulla schiena, spalancando gli occhi. Era vero: non aveva ascoltato una parola di quello che il ragazzo avesse appena detto, nonostante fosse stata tutto il tempo a farsi cullare dal suono della sua voce. Tristan ridacchiò. Era sorpreso persino lui, nel notare che i ruoli si fossero invertiti e che fosse diventato lui quello volenteroso di studiare. Bhè, passare un pomeriggio chiuso in camera a leggere non era di sicuro la sua attività preferita, ma il fatto che quel giorno Marjory fosse lì a tenergli compagnia gli faceva andare bene qualunque cosa.
La voce di sua madre lo fece saltare giù dal letto. Tristan corse sul pianerottolo delle scale e si sporse oltre la ringhiera. Era arrivato il momento di accompagnare sua madre a lavoro, ma il ragazzo non aveva calcolato fino a qualche momento prima che ciò implicasse il fatto di lasciare Marjory a casa da sola. Purtroppo per lui non c'era via d'uscita. Tornò in camera e informò Marjory dei suoi piani, dicendole che sarebbe tornato a casa entro pochi minuti. La ragazza si limitò ad annuire, prendendo in mano il libro e iniziando a leggere. Tristan chiuse la porta della sua stanza e corse in salotto. Sua madre lo aspettava in macchina, sventolando le chiavi oltre il finestrino per far intendere a suo figlio di sbrigarsi. Quando Tristan entrò in auto e chiuse la portiera, i suoi muscoli si rilassano grazie all'aria calda che vi era all'interno. Sapeva di dover affrontare la ramanzina di sua madre nei riguardi di Marjory, ragion per cui mise in moto ancor prima che sua madre potesse proferire parola, e accese la radio. La donna ridacchiò volgendo lo sguardo fuori dal finestrino; il cielo coperto di nuvole bianche faceva intendere che di lì a poco sarebbe nevicato di nuovo, e Tristan si ritrovò a pensare di voler essere a casa prima dell'imminente cambiamento climatico. Fu allora che sua madre parlò, vedendolo immerso nei suoi pensieri.
"Tesoro, è molto carina!"
"Mamma, possiamo parlarne un'altra volta?" chiese il ragazzo esasperato. Sapeva che sua madre non gliel'avrebbe data vinta tanto presto.
"È la prima volta che ti vedo con una ragazza..." fece sua madre, guardando oltre il vetro con aria malinconica, nel ripensare a quando suo figlio era ancora un bambino. Tristan scosse la testa sorridendo; voleva bene a sua madre forse più di chiunque altro, il fatto era che proprio non aveva voglia di parlare con qualcuno di Marjory e tutta la faccenda che si era costruita intorno a lei. Non ne aveva neanche mai parlato con i suoi amici, ma sapeva che in un modo o nell'altro quel giorno sua madre sarebbe scesa dall'auto con tutte le informazioni che avrebbe voluto.
"Mamma, è solo la mia compagna di studio, ok?"
"È davvero una ragazza graziosa." ripetè la donna. Conosceva suo figlio talmente bene da sapere che prima o poi i due si sarebbero ritrovati ad uscire insieme. L'auto si fermò davanti ad un grosso edificio grigio cemento. Tristan spense il motore e sospirò; finalmente avrebbe potuto smettere di parlare di Marjory. Sua madre si slacciò la cintura di sicurezza e si sporse verso Tristan per baciargli la fronte.
"Fate i bravi..." sussurrò, e scese dall'auto.
Tristan ripartì più in fretta possibile e percorse ogni tipo di scorciatoia che gli fosse possibile, tanto era il suo entusiasmo di rivedere Marjory. Quando rientrò in casa un silenzio assordante abitava ogni stanza. Salì al piano di sopra, dove sperava che Marjory fosse rimasta a studiare. Prima di entrare nella stanza si soffermò ad ascoltare attentamente ogni minimo rumore, ma il panico montò in lui quando l'unico pensiero che si formò nella sua testa - dopo aver sentito il silenzio più totale - fu che Marjory fosse andata via senza neanche avvertirlo. Senza pensarci su un secondo di più spalancò la porta e si catapultò all'interno della stanza con il respiro affannato. Passò in rassegna ogni angolo della camera, quando si accorse che Marjory fosse ancora lì. Sul letto vi era accovacciata la ragazza, più indifesa di quanto Tristan l'avesse mai vista, con il cuscino stretto fra le braccia e il libro ancora aperto su di se'. Tristan sorrise; era così bello guardarla dormire che sarebbe rimasto lì seduto per tutta la vita. Tristan prese una coperta dalla cassapanca al fondo del letto e con delicatezza la stese sul corpo della ragazza. Quando si avvicinò per prendere il libro, il profumo dolce ed elegante di Marjory fu l'unica cosa che arrivava alle narici di Tristan. In quel momento il desiderio di baciarla davvero lo stava divorando più di qualunque altra volta. Ma si trattenne; non voleva che pensasse che si fosse approfittato di lei mentre dormiva. Le baciò semplicemente la fronte, sfiorandola con le labbra e si sedette alla scrivania con l'intento di scrivere qualcosa su quel progetto di francese. Il compito non si sarebbe rivelato molto facile, dato il suo costante desiderio di passare almeno un minuto a fissarla. E fu così che passò il suo pomeriggio fino a sera: scrivendo un paio di parole e tornando a guardarla. Ma venne il momento in cui lei si svegliò, e Tristan pensò di averla vista finalmente felice se solo il suo sguardo non si fosse accigliato non appena Marjory avesse notato l'ora.

 

 

Note delle autrici:
hola people du Monde! Anche il diciottesimo capitolo è andato!
Allooooooooooora, avete letto che FORSE i ragazzi verranno a Roma? Ecco, speriamo bene più che altro perché il post in cui davanoi l'annuncio sembra sparito!!
Comunque, leggete. Bye xx

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Capitolo 19
*** Capitolo diciannove. ***


Capitolo diciannove.

“Connor credo di aver lasciato la mia sciarpa nella tua macchina”
Queste furono le prime parole che Emily rivolse a Connor quel lunedì mattina in corridoio. Il fatto che una come lei parlasse con uno come lui non era passato inosservato e qualche studente curioso li guardava di sottecchi. Connor riusciva soltanto a pensare a quanto Emily stesse bene senza trucco e con i capelli lasciati morbidi sulle spalle. Era certo che quel cambiamento di stile dovesse essere scaturito dagli avvenimenti del venerdì precedente. Mentre la riaccompagnava a casa gli era sembrato di cogliere un aspetto di lei che non aveva mai notato prima. Gli era sembrata stanca e avvilita, come se la parte da recitare l'avesse sfinita. Non aveva neanche tentato di mantenere un contegno e aveva pianto tutto il tempo. Connor ovviamente non riusciva a capacitarsi di un comportamento simile e non sapendo cosa fare, aveva fermato la macchina davanti alla prima caffetteria che aveva incontrato. Una volta lì , aveva chiesto ad Emily di rimanere in macchina mentre lui entrava nel locale. Ne era uscito qualche minuto dopo portando un bicchiere di fumante cioccolata calda e porgendolo alla ragazza. Emily non aveva saputo nascondere la sorpresa e vedendo quel buffo ragazzo che le offriva della cioccolata , non poté far altro che ridere. Connor si era sentito sollevato nel vedere la sua reazione e perciò aveva ripreso il tragitto verso casa di Emily. Lei, dopo aver guardato timidamente per un po' il bicchiere, aveva ceduto e aveva iniziato a bere . Il liquido caldo la riportò alla vita reale e si rese conto della situazione che stava vivendo. Connor la stupiva sempre di più. In quel ragazzo c'era qualcosa che lei non aveva mai compreso. Lei lo conosceva come il ragazzo rompiscatole che combinava disastri a scuola, ma quello seduto di fianco a lei non era quella persona. Poteva notare che lui le lanciava occhiate preoccupate, ma non le aveva chiesto nulla neanche una volta. Le stava concedendo il suo spazio e dal modo in cui teneva le mani sul volante poteva comprendere quanto in realtà fosse lui quello a disagio. Dopo aver finito di bere si sentì in dovere di ringraziarlo. Quello era stato il loro unico scambio di parole, dopodiché Connor l'aveva lasciata davanti casa sua augurandole un buon fine settimana. Adesso lei era di nuovo davanti a lui e Connor era felicissimo di poter avere ancora l'occasione di parlare con lei.
“Sei sicura? Non mi sembra di averla notata.”
Emily alzò un sopracciglio e puntò il suo sguardo nei suoi occhi.
“Ne sono certa. Ti dispiacerebbe andare a controllare?”
“Ma adesso c'è lezione! Non vorrai mica farmi arrivare tardi per una sciarpa?”
“Da quando in qua ti preoccupi di arrivare in orario?”
“Da quando mi sono stancato di passare tutti i miei pomeriggi in punizione.”
“Ti prometto che non finirai in punizione per il ritardo. Userò i miei poteri di secchiona per calmare il professore.”
Emily stava sorridendo e Connor non seppe resistere.
“Se la metti così dovrò accettare. Ma ti avverto River è parcheggiata lontanissimo dal cancello.”
“Va bene. Vorrà dire che correremo.”
“Sto scoprendo cose di te che non avrei mai immaginato.”
“Per esempio?”
“Sai correre. O almeno credi di saper correre.”
Detto ciò iniziarono a ridere e Emily giurò che gli avrebbe dimostrato di essere più veloce di lui. Si diressero verso l'uscita mantenendo una certa distanza, come se non volessero far capire di conoscersi. Emily prese gli sguardi degli altri compagni come una sfida e volendo vedere la loro reazione si avvicinò a Connor e lo prese sottobraccio. Immediatamente una ragazza del secondo anno li fissò e diede un colpetto sulla spalla dell'amica per farle notare lo strano evento. Emily Scott che teneva sottobraccio Connor Ball. Evento senza precedenti. Connor guardò Emily sorpreso e quando lei gli indicò con un cenno del capo le due ragazze decise di stare al suo gioco. Con un gesto improvviso le passò un braccio sopra le spalle e e iniziò a ridere. Emily rise a sua volta e fece finta di parlare con lui. Uscirono da scuola in quel modo e non appena la porta si chiuse scoppiarono in una risata fragorosa.
“Hai visto le loro facce?”
“E' stato esilarante. Ci guardavano come se fossimo due foche ballerine appena scappate da un circo. È davvero così strano che tu possa essermi simpatico e che io passi del tempo con te?”
“Si Emily. Lo è anche per me.”
Emily si fermò puntando i piedi per terra. Veramente tutti credevano che lei fosse una specie di mostro snob e senza cuore? Eppure lei non si sentiva così. Decise di parlare un po' con lui per scoprire cosa pensasse veramente di lei.
“Perché ? Spiegami dai.”
“E' solo che tu sei irraggiungibile per tutti.”
“Invece no. Adesso sono qui a parlare con te.”
“Sì, ma solo per uno stupido scherzo del destino: hai dimenticato la tua sciarpa.”
Ma Connor non sapeva che il destino non c'entrava nulla. Emily aveva lasciato di proposito la sciarpa e per tutto il week-end aveva sperato che lui la trovasse e che la cercasse per restituirla. Era rimasta veramente colpita da quel ragazzo. Le era sembrato quel tipo di persona con cui non si può evitare di diventare amici. E lei in quel momento aveva bisogno proprio di quello, di una persona con cui poter parlare e confrontarsi. Connor camminava guardandosi le punte delle scarpe e moriva dalla voglia di dirle qualcosa. Emily se ne rese immediatamente conto.
“Connor c'è qualcosa che devi dirmi? Vedo i pensieri nella tua testa ronzare come matti”
Connor emerse dal suo stato di trance e la fissò per un attimo. Si disse di rischiare. Voleva provare a capire qualcosa di più di quella ragazza. Non era mai stato così curioso. Emily era avvolta da un alone di mistero e lui voleva svelarlo a tutti i costi. Nel frattempo erano arrivati alla macchina. Connor invece di rispondere aveva estratto dalla tasca le chiavi e aveva aperto la portiera. Era entrato e aveva chiuso lo sportello. Emily allora fece lo stesso dal lato del passeggero.
“Vedi se riesci a trovare la sciarpa.”
Connor intanto stava armeggiando con la radio in cerca di un a stazione decente. Emily rimase a guardarlo per un attimo per il modo in cui si stava svolgendo quella conversazione. Definirla paradossale sarebbe stato un eufemismo. Senza dire altro allungò il braccio sotto il sedile e recuperò la sua sciarpa. Connor la guardò con sospetto.
“Come facevi a sapere che l'avesti trovata lì sotto?”
“Non lo sapevo, è solo che ero certa che tu non avessi controllato in un posto del genere e per questo non ti sei accorto di nulla.”
“Infatti è andata così.”
“A cosa stavi pensando prima?”
“A nulla.”
“Forza Connor spara.”
Connor la osservò in cerca di approvazione e lei gli fece un cenno con il capo.
“Allora cosa è successo in teatro? Non avevo mai visto la perfetta Emily Scott in quello stato.”
“Grazie per avermelo ricordato. Sai di solito le persone normali non trattano argomenti spiacevoli per attaccare bottone. Non sono affari tuoi. Dovresti essere abbastanza sveglio da capire quando tacere.”
“Vedo che siamo nervosetti eh? E pensare che io volevo soltanto ringraziarti per avere impedito a Sean di schiacciarmi come una mosca. Non era mia intenzione essere invadente.”
Emily nel frattempo non aveva fatto altro che cambiare stazione in continuazione, facendo riecheggiare per tutto l'abitacolo i fastidiosi ticchettii dei pulsanti dell'antiquata radio. Emily smise di toccare la radio e si rivolse verso il finestrino.
“Altra precisazione: di solito i ragazzi non dovrebbero negare di essersi trovati in difficoltà in situazioni come la tua?”
Emily cominciò a disegnare con le dita spirali sul vetro tutto appannato dalla condensa.
“Perché dovrei? Ero veramente nei guai. Che problema c'è ad ammetterlo? Non so se mi hai guardato bene, ma non sono affatto un colosso che incute terrore. Sono piuttosto il piccoletto che tutti prendono di mira. Comunque il tuo tentativo di cambiare discorso è riuscito alla grande. Sei un'ottima attrice. Sappiamo entrambi che qui quella che ha avuto una crisi sei stata tu, perciò ti chiedo soltanto di ascoltarmi per qualche istante e farmi solo dei cenni con il capo per rispondere alle mie domande. Tu saprai anche recitare, ma non inganni un ragazzo da parete.”
“Ragazzo da parete?”
“Sì, sai quei tipi di ragazzi che osservano tutti e tutto nell'ombra senza essere notati.”
“Io ti ho sempre notato. A scuola sei terribile.”
“Chi ti dice che io non sia un attore?”
“Giusto, potrebbe essere. A quali domande devo rispondere?”
“Allora innanzitutto devi confermare alcune delle mie teorie.”
“Va bene, ma mi rifiuto di fare cenni con il capo. Non mi piace essere messa a tacere in questo modo. Se ho qualcosa da dire lo dico senza problemi.”
“Non ti credevo così...”
“Normale? Non sono mica un mostro. Non vado sempre in giro con i libri sottobraccio e i capelli in ordine. Sono anche capace di mangiare patatine fritte con le mani e di uscire senza trucco. Il fatto che io eviti certi atteggiamenti non significa che io sia una macchina.”
“Va bene. Ora ascoltami. Per prima cosa credo che Josh non sia la causa dei tuoi problemi, giusto? Voglio dire si vede che niente e nessuno può sfiorarvi. Perciò la causa deve essere un'altra. Secondo me la pressione degli altri ti sta soffocando. Frequentiamo le lezioni insieme dalle elementari e non mi è mai capitato di vederti prendere un voto più basso dell'eccellenza. O sbaglio? Forse ora sei arrivata al punto di non ritorno.”
“Dovrei fidarmi di te? E dirti la verità?”
“Certo. Io sono la tua ultima speranza. L'unico con cui puoi sfogarti. Ami troppo Josh per opprimerlo con i tuoi problemi e la tua famiglia ti crede una dea. Perciò io sono lo psichiatra di turno che risolverà i tuoi problemi.”
Connor si stava divertendo un mondo ad infastidire Emily e anche lei da quando lui aveva cominciato il suo discorso non aveva fatto altro che ridere.
“In fondo hai ragione. Il fatto che tu ti sia offerto di ascoltarmi cade al momento giusto. Niente sta più andando secondo i miei piani e io non posso sopportarlo. La scuola mi sta uccidendo lentamente, la mia famiglia non si accorge di niente e Josh si preoccupa troppo per me perché non sono stata presa all'audizione.”
“Questi sarebbero problemi? Interessante...”
“So cosa dirai adesso: nel mondo ci sono persone che muoiono di fame e in guerra e tu ti preoccupi dei voti.”
Connor la guardò sbigottito.
“Invece non volevo farti la ramanzina. Volevo solo dirti che sono problemi risolvibili.”
“E sentiamo... come?”
“Grazie a me!”
Entrambi scoppiarono a ridere. Emily non rideva così tanto da troppo tempo. Emily era piegata su se stessa e capiva che il suo scoppio di ilarità non era dovuto a nulla di particolare. Era solo una dimostrazione di benessere. Aveva voglia di gridare al mondo quanto fosse serena. Tutto questo grazie a qualche battuta di Ball.
“Connor?”
“Si?”
“Perché non ci siamo mai frequentati prima d'ora?”
Connor inarcò le sopracciglia e si grattò il mento con fare teatrale.
“Vediamo... forse perché tu sei sempre stata su un altro pianeta ?”
“Non è affatto vero.”
“Mi hai mai salutato? O sorriso?”
Emily passò velocemente in rassegna i suoi ricordi e quelli di Connor erano sempre legati a un senso di fastidio. Non riusciva a spiegarsi perché.
“Forse hai ragione. D'altronde tu non hai mai fatto nulla per farti odiare.”
“Emily Scott che ammette di avere torto! Lo segnerò sul mio calendario.” Lei lo spinse contro il finestrino divertita.


Note delle autrici:
hola, gente!!! Poche cose: abbiamo finalmente finito di scrivere la FF ed abbiamo pianto come se non ci fosse un domani.
Speriamo che continuiate a seguirci! a presto xx

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Capitolo 20
*** Capitolo venti. ***


Capitolo venti.

James aprì gli occhi esattamente un istante prima che la sua sveglia suonasse. Le immagini dei giorni precedenti continuavano ad alternarsi nella sua testa e durante la notte si erano confuse con i colori e i frammenti tipici dei sogni e degli incubi. Non appena la sua radiosveglia cominciò a trasmettere a tutto volume le previsioni meteorologiche della giornata, James si premette il cuscino sulla testa e si girò verso la parete. I suoni della radio non riuscivano a smorzare il caos nella sua mente. L'unica cosa chiara era che tutto era iniziato quando aveva riaccompagnato Anne a casa il venerdì precedente. Le lacrime di lei erano state il primo sintomo del problema che si sarebbe poi creato tra di loro. Il fatto che lei si fosse subito allontanata da lui e che non gli avesse rivolto la parola per tutto il viaggio di ritorno lo preoccupava, sospettava di poter essere stato in qualche modo lui la causa. Ma non si sarebbe mai aspettato quello che successe nel week-end. Il venerdì sera Anne fece di tutto per evitarlo. Soltanto a fine serata lei era andata a cercarlo chiedendogli di poter parlare per qualche minuto. Gli aveva detto che non aveva tempo per frequentarlo ancora. James allora piuttosto turbato dalla conversazione , ma senza darlo a vedere, le aveva detto che quello per lui non era stato un appuntamento ma voleva soltanto essere gentile e evitare che lei stesse male. James aveva cercato di mostrarsi indifferente. Anne non si aspettava quella risposta. Credeva che lui fosse interessato a lei. Per lei quella giornata aveva significato molto e proprio per questo doveva troncare la cosa sul nascere. Avere un amico o peggio ancora un ragazzo avrebbe significato avere dei legami che avrebbero condizionato le sue scelte. Questo non poteva permetterselo. Sapeva per esperienza, guardando la sua famiglia, che dove c'erano dei segreti da mantenere non potevano esserci relazioni. I suoi genitori nascondendole la verità le avevano reso la vita un inferno. Come loro erano insinceri, anche lei non aveva mai osato mostrare quanto tutta la loro vita fosse sbagliata. James non poteva e non doveva vedere il mostro che le attanagliava lo stomaco ventiquattro ore su ventiquattro. Più persone sapevano, più il problema si sarebbe ingigantito. Lei si era aspettata, mentre preparava il discorso da fargli, che lui si sarebbe mostrato dispiaciuto o almeno scosso dal suo silenzio. James in quel momento aveva pensato che sminuire quello che era successo fosse la scelta migliore. Soltanto adesso si rendeva conto di aver commesso un grave errore. Anne in quel momento era a casa sua, nella sua cucina insieme a suo fratello. A breve suo padre l'avrebbe accompagnata a scuola come tutte le mattine. Michael era tornato a casa per un breve periodo visto che a causa di una perdita il suo appartamento era inagibile. Quella mattina c'era qualcosa di insolito. Sua sorella non canticchiava e non aveva il sorriso sulle labbra. Aveva invece delle profonde occhiaie e mangiava il suo toast in silenzio in un angolo del tavolo. Michael non sapeva che Anne era stata in piedi tutta la notte cercando annunci per un lavoro. Nonostante le ricerche non aveva trovato nulla e continuava a pensare a quanto fosse stata stupida ad illudersi che James potesse iniziare ad essere suo amico. Poi quella mattina verso le cinque aveva sentito la porta di casa aprirsi e richiudersi, segno che la recita era iniziata. Era suo padre che rientrava per fingere di aver dormito in casa, ma in realtà lui passava tutte le notti e gran parte del suo tempo libero nella sua casa, un paio di isolati più in là. Pensare che suo padre conduceva quella vita per colpa sua le fece desiderare di non essere mai nata. Forse per questo con James era andata male, lei non meritava di essere felice. Dopo essersi crogiolata in questi pensieri così catastrofici, la sua ragione, sotto forma delle parole di Michael , aveva preso il sopravento. Michael quella mattina vedendo Anne così triste impiegò un istante per capire che quella notte quando le aveva rivelato la verità aveva distrutto sua sorella. Posò con forza la tazza di caffè sul tavolo quasi rovesciandone il contenuto. Anne alzò lo sguardo dal toast a suo fratello con aria interrogativa.
“Anne adesso basta.”
“Che ho fatto adesso?”
“Smettila di recitare e di desiderare di non essere nata!”
Anne sobbalzò. Suo fratello la conosceva meglio di quanto credesse. Sentire i suoi pensieri espressi ad alta voce da un'altra persona le fece uno strano effetto. Aveva veramente desiderato di non essere nata? Adesso si sentiva immensamente stupida. Una di quelle ragazzine che passano i migliori anni della loro vita frignando per qualsiasi cosa e una volta vecchie cercano di tornare indietro per vivere le gioie che non hanno mai potuto provare. Era troppo confusa. La situazione le stava sfuggendo di mano. E come ogni volta cercò l'aiuto di Michael. Magari parlarne con lui sarebbe stato utile.
“Mike tu non sai che significa. Io vivo col pensiero di aver rovinato le vite dei nostri genitori. Hai notato i livelli di assurdità dei loro comportamenti? La casa è tappezzata di foto di famiglia, ogni giorno ceniamo tutti insieme , mamma e papà che si comportano come due sposi novelli davanti a me per poi dormire in case separate ogni notte. Sono stanca di tutto questo. Come dovrei comportarmi? Dovrei far vedere che soffro per questa situazione? Poi loro si sentirebbero ancora peggio.”
“Ma anche fingere di essere la figlia più felice del mondo e fare tutto da sola non è possibile. Credi che io non sappia che tu lavori o che studi a scuola tutti i pomeriggi? O che tu non abbia amici? Come credi che mi senta io? Mi sento tagliato fuori dalla tua vita e mi sento uno schifo per averti lasciata qui da sola, ma speravo che mamma e papà si sarebbero accorti della tua situazione non avendo più me in giro per la casa.”
“Invece Mike da quando sei andato via la cosa è insopportabile. Se prima si erano indifferenti, adesso cercano di convincermi del loro amore. Ci mentiamo a vicenda e io sono stufa di recitare e di assistere a questa commedia.”
“Diglielo allora!”
“Con quale coraggio?”
In quel momento suo padre entrò in cucina. Matthew Green non sopportava arrivare in ritardo e guardava i suoi figli infastidito. Si allentava con movimenti convulsi la cravatta che lo soffocava e batteva il piede a terra spazientito. Ma né Anne né Michael si erano mossi. Anne tremava , ma suo padre non se ne sarebbe mai accorto. Michael invece decise di intervenire tempestivamente dicendo a suo padre che l'avrebbe accompagnata lui a scuola, almeno avrebbero potuto parlare ancora. Il signor Green uscì dalla cucina brontolando, dopodiché sarebbe sicuramente tornato a casa sua fingendo di andare a lavorare. Anne finalmente si alzò e iniziò a respirare profondamente. Michael le cinse le spalle e l'accompagnò di sopra. Anne intanto stava immaginando il discorso che avrebbe fatto ai suoi genitori una volta a casa. Durante il tragitto verso scuola, Michael l'aveva consolata e le aveva dato il coraggio di parlare con i suoi.
“Allora Anne a stasera. Mi raccomando non tirarti indietro proprio ora. Ci sarò anche io così se le cose si mettono male prenderò papà a schiaffi.”
Anne era immensamente grata a suo fratello che nonostante si comportasse come qualsiasi ventenne scapestrato era anche tutta la sua famiglia ormai.
“A dopo Mike . Grazie.”
“Dovere sorellina. Visto che stai per toglierti questo peso vedi di farti qualche amico.” Qualche amico. Già. Nel corso della mattinata Anne aveva ricevuto numerose telefonate da James, ma non aveva mai risposto. Quello che proprio non desiderava era la sua compassione. Lui si era interessato a lei solo perché le faceva pena. Ecco la triste verità. James dal canto suo non poteva immaginare quello che stava accadendo nella mente di Anne. Nel pomeriggio quando Anne rifiutò la sua ennesima telefonata, uscì di casa. Mentre scendeva le scale correndo si scontrò con il povero Will che cullava Jacob sul pianerottolo. Will sembrava disperato.
“Hey Will che succede?”
“James. Sono in crisi. Non riesco a far addormentare Jacob e sono indietro con la stesura del quarto capitolo. Entro una settimana il mio editore vuole il manoscritto sulla sua scrivania e io sono ancora in alto mare. Roxane è bloccata in ufficio con gli straordinari da un mese ormai. Non ce la farò mai. Devo trovare una soluzione. Tutte le babysitter che ho contattato non gradivano la zona e non si sono neanche presentate per un colloquio.”
James poté notare che quando Will era agitato diventava logorroico. Non smetteva di parlare e James si aspettava di vederlo soffocare da un momento all'altro visto che non prendeva pause tra una parola e l'altra. Intanto il piccolo Jacob si agitava tra le braccia del padre piangendo e gridando. Chissà come facesse una cosina così piccola a gridare tanto forte.
“Will stai calmo. Ti aiuterò a trovare una babysitter.”
Non appena queste parole uscirono dalla sua bocca capì di aver trovato il lavoro perfetto per Anne e il modo per aiutare Will. Will era rimasto impalato sul pianerottolo e sostenendo Jake con un solo braccio si era portato la mano sulla fronte e si massaggiava una tempia. James ammirò moltissimo il coraggio di quel ragazzo.
“Grazie James. Ma veramente non voglio disturbarti.”
“Non ringraziarmi ancora. Sappi solo che ti ho trovato una babysitter. Stasera ti do la conferma, adesso devo andare.”
Detto ciò corse via lasciando il povero Will senza parole a disperarsi con Jacob. James si tuffò letteralmente fuori dal palazzo, scivolando quasi sui gradini esterni ricoperti di ghiaccio. Si avvolse nella sciarpa e lì mentre correva verso il parcheggio, stretto nel suo cappotto e con i capelli che non si decidevano a stare fermi, aveva tutta l'aria di un piccolo aviatore con la sciarpa rossa che svolazzava tutto intorno e lo colpiva in viso. Arrivò davanti alla sua auto completamente infreddolito, con il naso rosso e i piedi congelati. Salì in macchina e mise in moto, sicuro della sua destinazione. Non gli importava di sembrare un folle. Doveva capire cosa era successo con Anne e doveva offrirle quel lavoro, visto che era stato lui a spingerla a licenziarsi. Guidò parlando al telefono con Connor. Il suo comportamento lo aveva sorpreso. Inizialmente temeva che Con si sarebbe arrabbiato per il fatto che lui mostrasse interesse per Anne. In fondo sapeva che l'amico non era del tutto indifferente alla ragazza. Connor invece si era comportato come una ragazzina iperattiva e volle sapere tutto quello che era successo tra di loro. James adesso lo stava aggiornando sulla sua spedizione verso casa di Anne e Connor cercava di capire cosa muovesse le azioni del suo amico. James ammise di non saperlo veramente, ma gli disse che non voleva che tra loro finisse prima di cominciare. Non poteva esserne innamorato, non la conosceva abbastanza, ma qualcosa lo spingeva a stare vicino a lei. Connor gli consigliò di fare quello che sentiva e riagganciò. James avrebbe giurato di aver sentito una voce femminile in sottofondo. Quella sera avrebbe indagato meglio. Il suo amico lo aveva praticamente liquidato in due minuti. Questa cosa lo insospettiva. Nel frattempo villette a schiera e piccoli giardini si susseguivano per la strada e non appena James riconobbe casa Green frenò di scatto. L'ultima volta che ci era stato era notte e adesso era stato difficile riconoscere il luogo. La casa era fantastica. Il portico e la veranda erano già ricoperti di addobbi natalizi e una slitta con tanto di renna fiancheggiava la porta d'ingresso. James lasciò l'auto sul bordo della strada. Prima di avvicinarsi alla porta si sistemò i capelli specchiandosi nello specchietto della sua auto piegandosi sulle ginocchia. In quel momento sentì un colpo di tosse alle sue spalle. Si girò e si ritrovò faccia a faccia con un ragazzo dai capelli corvini. Gli era stranamente familiare e impiegò ben poco ad individuarlo come il fratello di Anne, si assomigliavano tremendamente.
“Ehm ciao! Sono James un amico di Anne.” Michael non credeva ai suoi occhi. Quello era veramente un amico di sua sorella. Quindi lei non era completamente sola. Si sarebbe impegnato ad apparire il più gentile possibile. Si stampò un sorriso quasi idiota in faccia.
“Ciao. Sono suo fratello Michael . Anne non mi ha mai parlato di te.” James vedendo l'espressione di Michael scoppiò a ridere.
“Beh, lei non mi ha mai parlato di te quindi siamo pari.”
Michael si era lasciato trasportare dallo scoppio di ilarità di James.
“Da quanto tempo conosci mia sorella?”
“Da pochissimo. E anzi non so neanche se siamo ancora amici. Ero venuto per parlarle. È in casa?”
Michael ripensò al comportamento di Anne. Adesso capiva. Quel ragazzo doveva avere qualcosa a che fare con lo strano umore di suo sorella. Voleva approfondire la cosa.
“No mi dispiace, ma è ancora a scuola. Ma se non hai altro di meglio da fare puoi aspettarla in casa, qui fuori si congela.”
“Grazie. È veramente importante che io le parli adesso.”
“Questa cosa non mi quadra. Credo che tu abbia molto da raccontarmi. Mentre parliamo che ne dici di una partita alla playstation? Ho speso il mio ultimo stipendio per quello splendore.”
“Perfetto. Ma per quanto riguarda Anne neanche io ho molto chiara la situazione.”
“Ne verremo a capo prima o poi.”
Mentre Michael e James diventavano migliori amici all'insaputa di Anne, quest'ultima stava tornando a casa su un odioso autobus visto che la macchina le era stata portata via un po' di sere prima al pub, perché in sosta vietata, e come se non bastasse i suoi non se ne erano neanche accorti. Se ne stava seduta con il cappuccio della giacca tirato su e la testa poggiata al finestrino. Rischiò di addormentarsi e di perdere la fermata. Intanto i suoi genitori erano tornati a casa e avendovi trovato James lo stavano tempestando di domande alle quali James cercava di rispondere nel modo giusto per fare bella figura. Dovette inventare di aver conosciuto Anne a scuola e di essere passato per chiederle aiuto con una ricerca. I genitori di lei non lo convincevano. Il signor Green aveva un sorriso troppo tirato, mentre sua madre si guardava continuamente intorno come se si sentisse osservata. Anne non arrivava così fu costretto ad accettare l'invito a cena. Così l'imbarazzante conversazione si interruppe e mentre la signora Green cucinava, James poté starsene tranquillo a giocare con Michael . Quando sentirono il campanello della porta, James e Michael sussultarono. Michael spense immediatamente il videogioco e andò ad aprire, mentre James fece mente locale e pensò a quello che le avrebbe detto. Si trovarono davanti ad una Anne stravolta che non appena vide James fu costretta a scuotere la testa come per scacciare un'allucinazione.
“Tu che ci fai qui?”- gridò puntando il dito al petto di James. I signori Green avevano lasciato le loro occupazioni per accogliere Anne e adesso erano comparsi sulla porta della cucina. Il signor Green cingeva i fianchi della moglie e lei sorrideva a Anne raccontando di come il suo amico si fosse presentato per parlare con lei. James non capì la reazione di Anne e quest'ultima deviò tutta la sua rabbia da James ai suoi genitori, notando il modo in cui si abbracciavano e sorridevano. Gettò il suo zaino a terra e raccogliendo tutto il coraggio che non aveva mai avuto disse finalmente quello che pensava.

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Capitolo 21
*** Capitolo ventuno. ***


Capitolo ventuno.

Tristan si fece largo tra la folla. Il suo intento era quello di raggiungere l'armadietto di Marjory prima del suono della seconda campanella. Dopo il pomeriggio precedente non l'aveva più sentita. Per qualche strana ragione, Marjory si era svegliata di soprassalto ed era letteralmente fuggita da casa sua, lasciando lì tutte le sue cose e senza salutarlo. L'aveva chiamata la bellezza di dodici volte e le aveva lasciato quattro messaggi in segreteria, ma non aveva ottenuto alcuna risposta. Ed ora lei era lì, in fondo al corridoio. Tristan le si avvicinò, posandole una mano sulla spalla. La ragazza sussultò.
"Mi hai spaventata!" gridò dopo che si fu girata, portandosi una mano sul petto. Tristan roteò gli occhi.
"Allora sei ancora viva..." disse sarcastico.
Marjory chiuse con forza l'armadietto, facendo risuonare il rumore ferreo e brusco lungo tutto il corridoio. Successivamente oltrepassò Tristan e iniziò a camminare lungo il corridoio, per dirigersi nell'aula dove si sarebbe tenuta la sua lezione d'inglese. Tristan la seguì, spintonando tutti gli studenti che intralciavano il suo passaggio.
"Perché non mi hai richiamato?" chiese a Marjory.
La ragazza si strinse nelle spalle tenendo - come al solito - un libro fra le braccia. Decisa a non farsi abbindolare nuovamente da quella sottospecie di ragazzaccio, Marjory continuava a camminare imperterrita lungo il corridoio senza degnare di uno sguardo Tristan e salutando con lo sguardo qualche ragazza poggiata al muro - che puntualmente non ricambiava il saluto a causa della poca confidenza. Tristan sbuffò d'un tratto, improvvisamente scocciato da tutto quel teatrino che Marjory stava mettendo in piedi. Senza troppi preamboli le si piazzò davanti, impedendole di passare.
"Che fai?" chiese lei imbarazzata guardandosi intorno.
"Ora dimmi cos'è successo ieri..."
La ragazza sospirò, improvvisamente colta da uno strano senso di inquietudine appena ripensò a quello che era successo quando era tornata a casa: come c'era da aspettarsi, suo padre era andato su tutte le furie quando l'aveva vista rientrare ad un orario - a detta sua - così indecente; le aveva posto una miriade di domande riguardanti ciò che avesse fatto e soprattutto con chi avesse passato quel pomeriggio. Quando Marjory aveva dato le sue spiegazioni, tralasciando alcuni particolari incriminanti, - come il fatto che si fosse addormentata a casa di un ragazzo che neanche conosceva davvero - suo padre le aveva proibito di rivedere Tristan, sostenendo che fosse una cattiva influenza per lei.
"Che ti aspettavi?"
"Non lo so... Magari che mi avessi almeno salutato. O che avessi risposto alle mie chiamate. O ai miei messaggi..." pronunciò Tristan scandendo bene le parole per contenere la rabbia che in quel momento lo divorava.
"Davvero credevi che tra noi ci fosse quel rapporto?"
Marjory pronunciò quelle esatte parole con la massima indifferenza che le fosse possibile. Non poteva certo raccontare a Tristan che suo padre le aveva impedito di passare del tempo con lui. In fin dei conti quella era una mentalità ancora medievale e Marjory provava una specie di vergogna al solo pensiero che qualcuno sapesse che genere d'uomo era suo padre. Insomma, fosse stato per lei non avrebbe mai rinunciato all'unica persona della sua vita che si avvicinasse di più ad un amico. Per di più quelle strane sensazioni che provava in presenza di Tristan nell'ultimo periodo la rendevano ancora più confusa. Le palpitazioni, le farfalle nello stomaco, il nervosismo. Marjory era sicura sul da farsi: se avesse preso le distanze da Tristan, nessuno dei due si sarebbe fatto del male. O almeno così sperava. L'importante era che nessuno sapesse perché Marjory si stesse comportando in quel modo. Ma Tristan sapeva.
Il ragazzo si lasciò scivolare le braccia lungo i fianchi, mentre un momento di razionalità gli attraversava la mente.
"È per tuo padre, non è vero?" sussurrò puntando lo sguardo in un punto vuoto del corridoio. "Non gli sono piaciuto..."
Tristan si era fatto mentalmente quel discorso già un paio di volte, ma sentirlo pronunciare da se stesso e in quel preciso momento rendeva fondati tutti i suoi sospetti.
"Non essere sciocco..." biascicò Marjory, usando un linguaggio fin troppo elevato per quel genere di conversazione. Ora che ci ripensava, stava avendo una discussione con Tristan - una delle più serie che avesse mai intrattenuto con una persona - nel bel mezzo del corridoio scolastico. Al solo pensiero un colore rossastro si fece spazio sulle sue gote, mentre il ragazzo che le stava di fronte continuava a fissare il vuoto immerso nei suoi pensieri.
"Tristan, tutto bene?" Marjory iniziò a preoccuparsi quando il ragazzo non diede segni di vita. Nella sua testa continuavano ad intrecciarsi in maniera confusa decine e decine di pensieri; come, per esempio, perché era riuscito a non piacere proprio al padre dell'unica ragazza che avesse voluto davvero. Gli sarebbe piaciuto pensare a Marjory come alla ragazza della quale era innamorato. Tuttavia non si sentiva ancora pronto a prendersi una responsabilità del genere; in fondo non era mai stato realmente innamorato di qualcuno nella sua vita. E se fosse stata proprio lei la ragazza del quale si sarebbe presto innamorato? E se avesse già perso la testa per lei? Il ricordo di ciò che si erano appena detti lo colpì come una lama tagliente. La verità era chiara e semplice: era innamorato di lei. Incontrovertibilmente, inspiegabilmente e illogicamente innamorato di lei. Eppure si trovava di fronte a quella ragazza, in quel preciso momento, e di fronte alla certezza che non avrebbe più potuto averla. Soltanto perché aveva sbagliato le cose con suo padre. Era perché aveva titubato nello stringergli la mano? Era perché aveva ribattuto sull'argomento dello sport, durante la cena? Tristan non riusciva davvero ad immaginare per quale strano motivo il signor Montgomery avesse deciso di escludere sua figlia dalla sua vita.
"Lui non vuole che tu mi frequenti..."
Le parole gli uscirono dalla bocca senza che lui potesse controllarle. In un nano secondo aveva dato voce a tutti quei pensieri che si erano aggrovigliati nella sua mente negli ultimi cinque minuti. Marjory si lasciò sfuggire un sospiro ed abbassò il capo. Quella era la pura e cruda verità. Non avrebbe potuto farci niente. Era destino: non aveva mai sopportato Tristan e proprio nell'unico momento della sua vita in cui si stava finalmente avvicinando a lui, suo padre doveva impedirglielo. Ben le stava. Avrebbe dovuto fidarsi di quel ragazzo dal primo momento. La cosa che la faceva stare più male era che lei volesse passare ancora ogni ora di studio insieme a Tristan, ma non poteva fare niente. Quel ragazzo riusciva a renderla sempre stranamente di buon umore; era una dote nascosta che Marjory aveva portato alla luce in quegli unici due giorni che avevano passato insieme. Entrambi pensarono a quanto le cose fossero successe in fretta. In quell'unico weekend Tristan era riuscito a far cambiare il giudizio di Marjory nei suoi confronti ed era riuscito ad allontanarla di nuovo. Faceva davvero così schifo con le ragazze? A quanto pare sì, dato che aveva speso l'ultimo mese e mezzo della sua vita ad escogitare un piano per conquistare l'attenzione di Marjory e poi se l'era lasciata sfuggire in quel modo. Ripensò alla prima volta in cui l'aveva baciata nel corridoio e un senso di amarezza lo invase. Si era davvero illuso che tutto quell'odio si sarebbe mai potuto trasformare in qualcosa di diverso? Tornò a guardare Marjory; la sua guancia destra rigata da una lacrima silenziosa. Tristan rimase immobile; non sapeva neanche se avrebbe ancora avuto il coraggio di rivoglerle la parola. Era finito tutto. E apparentemente soltanto perché Marjory era stata a casa sua fino a tardi e perché la sua prima impressione sul padre della ragazza era stata pessima. Tristan la osservò: la pelle chiara, il vestito di lanetta marrone che sembrava essere stato cucito apposta per lei e i capelli tirati indietro da un elegante fermaglio. Era talmente aggraziata ed elegante che soltanto guardarla rendeva Tristan infinitamente triste.
"Mi dispiace..." sussurrò la ragazza in un impeto di disperazione, ma senza scomporsi. Ormai la vista le pareva appannata e le voci attorno a lei cominciavano a diventare meno chiare. Aveva sbagliato tutto. Era riuscita a mandar via l'unico ragazzo che si fosse mai interessato a lei, per di più per i bizzarri modi antiquati di suo padre. Per un attimo le balzò in testa l'idea di mandare tutto all'aria e fare quello che diceva lei, per una volta. Poi ripensò a cosa sarebbe successo se avesse disobbedito in tale modo. E pensare che a sua madre Tristan era piaciuto. Quella sera, dopo la cena, la donna era entrata in camera di sua figlia per il suo solito discorsetto sui ragazzi. "È adorabile..." le aveva detto accarezzandole i capelli. E anche ad Owen sembrava andare a genio quel ragazzo. Perché suo padre doveva essere così complicato? Il suono della campanella riportò entrambi i ragazzi nel Mondo reale. Quando si riscossero dai propri pensieri si resero conto di non essersi mossi di un millimetro. Se ne stavano ancora lì, nel bel mezzo del corridoio a sussurrare frasi a mezz'aria ed a pensare. Marjory si asciugò frettolosamente la stupida lacrima che le era scesa lungo l'altra guancia e si strinse i libri al petto. Tristan la guardò negli occhi; quegli occhi scuri e profondi che sembravano parlare al posto di Marjory. Eppure Tristan non li avrebbe più rivisti, almeno da quella distanza ravvicinata. Il ragazzo chiuse gli occhi, cercando di fare ordine nei suoi pensieri. Ormai non avrebbe potuto fare altro: non c'era futuro per loro due e doveva rassegnarsi a questa idea. Un sospiro caldo e amareggiato uscì dalle sue labbra e in quella frazione di secondo la tranquillità più assoluta sembrò impadronirsi dei suoi sensi. Riaprì gli occhi, pronto per dire a Marjory che sarebbe finita lì, che sarebbe tornato tutto come prima e che non era colpa sua. Ma quando Tristan guardò avanti a se' nessuno lo stava guardando. Marjory era sgattaiolata via per evitare di avere un crollo di nervi lì, in mezzo al corridoio. La verità era che più guardava quel ragazzo e più si rendeva conto che le scelte di suo padre fossero sbagliate. Tristan sorrise a vuoto.
Non sarebbe mai riuscito a fingere di non averla mai conosciuta.

Note delle autrici:
allora, gente! come prima cosa volevamo chiedere umilmente perdono per aver postato così in ritardo (la diretta incaricata è una nulla facente). Poi, volevamo ribadire che ormai la FF sta finendo - mancheranno sì e no quattro capitoli più l'epilogo. Ringraziamo comunque infinitamente tutti quelli che ci hanno sopportato (e supportato) fino ad ora e tutti quelli che si sono impegnati per farci sapere cosa ne pensavano della storia. Speriamo che continuiate ad essere così attivi perché ci fa davvero tanto piacere il fatto che ci seguiate!
A presto xx

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Capitolo 22
*** Capitolo ventidue. ***


Capitolo ventidue.

Il telefono continuava a vibrare e a diffondere le note di She moves in her own way. Emily voleva quasi fingere di non sentirlo, così non avrebbe dovuto pensare a quello che stava accadendo veramente. Era nel suo locale preferito, al suo solito tavolo e di fronte a sé aveva l'ultima persona che avrebbe mai immaginato: Connor Ball. Dopo aver recuperato la sciarpa, lei era stata molto restia a tornare in classe, perciò aveva temporeggiato chiacchierando e ridendo con Connor come non mai. Quel ragazzo era una forza della natura, doveva ammetterlo. Le sembrava di conoscerlo da sempre. Si era dimostrato molto divertente, ma non solo. Le aveva fatto bene parlare con lui. Tra una battuta e un'altra era riuscito a farla parlare dei suoi problemi, se tali si possono definire. Emily si era innamorata del suo modo di fare. Così quando si resero conto che ormai le lezioni della giornata sarebbero andate perse, lei propose di andare a fare colazione nel suo locale preferito. Connor aveva accettato subito senza esitare. Anche lui era rimasto notevolmente sorpreso da come gli eventi si erano evoluti. Emily gli piaceva. E anche molto. Non riusciva più a considerarla come la secchiona che non gli era mai andata a genio. Adesso la vedeva come una delle ragazze più interessanti e meravigliose che avesse mai conosciuto. Si era dimostrata sensibile, alla mano e con uno spiccato senso dell'umorismo, oltre ad essere tremendamente intelligente e audace. Quando parlava gesticolava moltissimo disegnando in aria trame complicate e circoli infiniti. Connor glielo aveva fatto notare più volte e lei sosteneva che fosse una conseguenza della recitazione. Infatti assumeva delle pose e aveva delle espressioni teatrali. Quella ragazza era plasmata per essere un'attrice.
Emily si decise finalmente a rispondere e quando notò il numero sul display un sorriso le aveva illuminato  il volto. Connor allungò il collo e lesse “JOSH” a caratteri cubitali sul piccolo schermo. La sensazione che provò non fu gelosia, né tanto meno invidia. Era sollievo. Era contento che Josh l'avesse chiamata. Da quello che Emily gli aveva raccontato, lei era molto preoccupata che, adesso che Josh era entrato a far parte della compagnia teatrale, si dimenticasse di lei. Fortunatamente Josh era stato abbastanza sveglio da non farsi sfuggire una ragazza del genere. Emily si portò il cellulare all'orecchio e rispose. Si alzò dal tavolo e prima di allontanarsi mimò delle scuse a Connor che le fece segno di aver capito. La telefonata fu molto breve e Emily tornò al tavolo raggiante. Si sedette e dopo aver riposto il telefono nello zaino, quasi a volersi dimenticare di quell'oggetto, incrociò le mani sul tavolo.
“Telefonata piuttosto breve.... ma sembra che vada tutto bene... non è vero?”
Emily sollevò lo sguardo dalle sue mani e rispose a Connor sempre con sguardo sognante.
“Certo. Josh mi ha detto che si era preoccupato della mia assenza e che voleva assicurarsi che io stessi bene.”
“E questo è il motivo per cui sprizzi gioia da tutti i pori?”
“Si ,perché significa che non si è dimenticato di me. Vuol dire che nonostante io non sia stata presa alle audizioni lui mi ama ancora.”
“Avevi dei dubbi?”
Emily fissò Connor dritto negli occhi quasi a volerlo fulminare.
“Tu non puoi capire. Sei un ragazzo. E comunque Josh ti saluta.”
Questa volta fu Connor a fulminare Emily.
“Gli hai detto che sei con me?!”
“Perché hai qualche problema a far sapere che sei con me? E se pensi che Josh potrebbe ingelosirsi non è mica un crimine stare con un amico.”
Connor sorrise e cercò con lo sguardo la cameriera, che notando il ragazzo che agitava un braccio nella sua direzione si avvicinò al tavolo.
“Buongiorno, cosa posso portarvi?”
Connor non diede neanche il tempo ad Emily di aprire bocca e ordinò due frappè al cioccolato.
La cameriera si allontanò portando con sé i menù che fino a poco prima erano abbandonati sul loro tavolo. Emily fissò Connor con aria interrogativa.
“Con che succede?”
La domanda di Emily fu seguita da un'altra risata del ragazzo. Connor non smetteva di sorridere e la guardava come un bambino davanti al suo giocattolo preferito.
Finalmente Connor si decise a parlare, dopo che Emily lo ebbe pizzicato più volte sul braccio e dopo che la cameriera ebbe poggiato sul tavolo la loro ordinazione.
“Emily ti rendi conto che mi hai appena chiamato “Con” e definito tuo amico?!”
Emily scosse la testa ridendo e si allungò sul tavolo per dare una spinta a Connor che andò all'indietro contro lo schienale della sedia.
“E pensare che io credevo che avessi ricordato una bella barzelletta. Credevo fosse implicito, o per te sono ancora una sconosciuta rompiscatole che ti ha fatto finire in punizione?”
“E che mi ha inzuppato mentre ero in strada passando con il suo maggiolone attraverso un'enorme pozzanghera.”
Emily scoppiò a ridere e si piegò in due sulla sedia tenendosi lo stomaco. Non poteva credere che Connor ancora le portasse rancore per quell'episodio. Dopo che il suo impeto di risa si fu calmato, si alzò e aggirò il tavolo. Arrivò davanti a Connor e come in una scena teatrale si inginocchiò implorando il suo perdono. Allora fu Connor a scoppiare a ridere e dopo aver lasciato Emily a scusarsi per due minuti buoni la prese per mano e la spinse verso il suo posto. Una volta tornati l'uno di fronte all'altra capirono che quel giorno da sconosciuti o quasi da nemici erano diventati qualcosa di meglio.
Emily porse un bicchiere a Connor e lei afferrò l'altro.
“Facciamo un brindisi.”
“Brindiamo alla coppia di amici più male assortita di questo mondo. Alla secchiona e all'idiota. Cento di questi giorni.”
“A noi!.”
Emily e Connor rimasero seduti in quel locale fino all'ora di pranzo. Erano venuti a conoscenza di moltissime cose l'uno dell'altro, dalle più futili, come le chiacchiere sulla scuola, fino ai progetti di Emily con il teatro e al lavoro di Connor e ai suoi amici. Non volendo tornare a casa avevano deciso di pranzare lì insieme. Mentre stavano decidendo cosa ordinare, l'attenzione di Emily fu attirata da una ragazza che si dirigeva verso di lei e scuoteva convulsamente la mano in segno di saluto. Quando arrivò loro di fronte Emily l'accolse con un abbraccio. La ragazza sembrava non essersi accorta minimamente di Connor. Era una ragazza minuta e buffa. Indossava l'uniforme scolastica accompagnata da enormi scarponi verdi e un berretto di lana dello stesso colore che le copriva i corti capelli corvini che la facevano assomigliare ad un funghetto.
Quando si sciolsero dall'abbraccio, Emily passò alle presentazioni.
“Connor, Daisy. Daisy, Connor.”
Daisy notò solo in quel momento il ragazzo con l'enorme massa di capelli seduto davanti ad Emily.
“Ciao Connor! Piacere di conoscerti. Spero che tu sia un amico di Emily. Se così fosse saresti il primo che mi abbia mai presentato. Sono emozionata.”
Daisy saltellava allegramente e fingeva di asciugarsi una lacrima con il dorso della mano. Connor rideva di cuore e cercava di immaginare che collegamento potesse esserci tra le due ragazze. Emily sembrò cogliere al volo il suo interrogativo.
“Con, lei è la sorellina di Josh.”
Daisy la guardò inferocita.
“Hey sono più piccola di te solo di un anno! Io non utilizzerei termini pesanti!”
Daisy sbuffò e prendendo una sedia dal tavolo vicino si accomodò accanto ad Emily.
“Ecco per punizione mangerò con voi! E tu mia cara dovrai comportarti bene, altrimenti racconterò tutte le cose imbarazzanti che so di te a Connor.”
“Fai pure Daisy, sono curioso di sapere qualcosa su miss perfettina!”
“Emily il tuo amico già mi piace.”
Emily sorrise davanti all'intesa che si era creata tra Connor e Daisy. Mancava solo una cosa a rendere tutto perfetto.
“Emily puoi darmi un attimo il tuo telefono, devo fare una chiamata”.
Emily consegnò il suo telefono a Connor, che si allontanò, senza fare domande. Probabilmente il suo era scarico o forse non aveva credito. Connor tornò poco dopo , scusandosi e chiedendo se potevano aspettare ancora una decina di  minuti per ordinare. Daisy ed Emily assecondarono la sua richiesta tempestandolo di domande. Mentre aspettavano, Daisy estrasse il suo telefono dalla tasca e lo poggiò sul tavolo sbloccandone lo schermo. Connor ,che giocava distrattamente con il posacenere sul tavolo, colse l'immagine sullo sfondo.
“Non posso crederci! Ma quello è un drago barbuto!”
Daisy si accorse dell'ammirazione negli occhi del ragazzo e fece un segno di assenso un po' confusa.
“Ehm... si perché?”
“E' tuo?”
“Si me lo hanno regalato i miei l'anno scorso. Si chiama Tristan.”
Emily rise colpendo Connor su un braccio.
“Hey ma non è il nome di uno dei tuoi migliori amici?”
“Si! Adesso non  potrò più guardare Tristan con gli stessi occhi. L'immagine di un drago barbuto prenderà sempre il sopravvento sulla sua faccia angelica. Comunque Daisy, anche io ho un drago barbuto!”
“Veramente?! Credevo che a nessuno piacessero quegli esserini. Come si chiama?”
“Rex! Guarda ti mostro qualche foto.”
Daisy spostò la sedia e si avvicinò a Connor che tirò fuori il suo I-phone all'apparenza perfettamente funzionante. Allora perché non lo aveva utilizzato per fare quella telefonata? I minuti passavano , mentre Emily guardava divertita un euforico Connor e una dolcissima Daisy che intrattenevano una conversazione sull'alimentazione dei draghi barbuti. Lei stava morendo di fame, ma Connor non aveva ancora dato l'ok per ordinare. Ad un certo punto sentì un tocco sulla sua spalla. Si voltò e si ritrovò davanti Josh. Si alzò e lo abbracciò di getto.
“Cosa ci fai qui?”
“Diciamo che un nostro amico ha voluto farci una sorpresa.”
Josh salutò Connor e Daisy e prese posto, rubando anch'egli una sedia dal tavolo vicino.
“Va bene adesso possiamo ordinare.”- disse Connor staccando finalmente gli occhi da Daisy.
“Sei stato tu non è vero? Per questo hai preso il mio telefono, per chiamare Josh.”
Connor fece una smorfia e si complimentò con Emily per aver impiegato un tempo enorme a capire chi avesse chiamato, definendola per la prima volta un po' tonta.
Connor guardò Josh che baciava Emily e fu felice di avere con loro anche Daisy, per quanto fosse contento che quei  due non avessero problemi, non era mai piacere fare il terzo incomodo. La piccola Daisy era molto divertente e con quella frangetta fin sopra agli occhi e il naso rotondetto gli ricordava un personaggio dei cartoni animati. A fine pasto tra risate, battute e abbracci di gruppo si sentivano veramente ridicoli. Josh e Connor erano praticamente estranei, ma nell'euforia generale si sentivano accomunati da quel senso di benessere e amicizia. Decisero che quello sarebbe diventato il loro punto di ritrovo e che vi sarebbero andati almeno una volta alla settimana. Uscirono dal locale e tutti rabbrividirono all'unisono a causa del freddo. Emily si staccò un attimo da Josh e si avvicinò a Connor, prendendolo sottobraccio.
“Hey.”
“Hey”-le fece eco il ragazzo.
“Grazie ancora.”
“Di cosa?”
“Di tutto questo.”- disse Emily spostando lo sguardo su Josh e Daisy dietro di loro e poi soffermandosi sul viso di Connor. Lo stava ringraziando di aver dato inizio a un qualcosa che le sarebbe mancato una volta che lei sarebbe partita.
Josh decise di riaccompagnare Emily, e lei prontamente fece pressione affinché Connor riaccompagnasse la piccola Daisy. Daisy acconsentì arrossendo e prendendo il posto di Emily accanto a Connor. Josh e Emily prima di salutare gli altri, fecero l'occhiolino a Connor. Poi li abbracciarono e ognuno andò per la sua strada. Quando entrarono in auto, Daisy era imbarazzata. Non sapeva cosa dire. Connor invece era curioso di sapere qualcosa di lei.
“Dimmi qualcosa di te.”-disse mettendo in mostra uno dei suoi sorrisi più belli.
“Cosa vuoi sapere?”- chiese Daisy arrossendo.
“Vediamo... se potessi viaggiare nel tempo... che epoca sceglieresti di visitare?”
Daisy scoppiò a ridere.
“Tu sei matto Connor Ball.”
“Lo so. Lo so.”
 

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Capitolo 23
*** Capitolo ventitre. ***


Capitolo ventitre.

Anne indossava di nuovo la felpa di James. Inoltre era nel suo letto e i suoi piedi erano nei suoi calzini. Non avrebbe mai immaginato che le sarebbe capitato di vivere una situazione simile. Dall'altra stanza sentiva James che russava e al piano di sopra il rumore di un aspirapolvere. Sollevò piano la testa e si guardò allo specchio appeso vicino all'armadio. I suoi occhi erano contornati da uno scuro circolo di mascara e arrossati, testimonianza evidente della serata più brutta di tutta la sua vita. Ma da una parte era sollevata. Aveva risolto il suo problema, anche se ora non sapeva bene come affrontare le conseguenze e si odiava per aver coinvolto anche James, che per colpa sua aveva passato la notte sul divano.
Anche James fu svegliato dal rumore dell'aspirapolvere. Si stiracchiò sentendo un atroce dolore alla schiena e al collo. Ecco. Il divano non era consigliato per dormire, ma se pensava al motivo della sua trasferta notturna, si diceva che avrebbe passato tute le notti della sua vita sul divano pur di aiutare Anne. Quella sera aveva visto una parte della sua vita che non avrebbe mai augurato a nessuno. Dal momento in cui aveva gettato lo zaino in terra e aveva gridato contro i suoi genitori, si era reso conto di chi fosse Anne veramente. Sotto gli sguardi stravolti dei presenti Anne aveva dichiarato di conoscere la verità e che se i suoi genitori non avessero ripreso il controllo delle loro vite avrebbero distrutto la sua. Aveva detto loro che erano la causa della sua sofferenza e che invece di aiutarla con la loro commedia la stavano consumando. Disse loro che lavorava da mesi e che cercava di passare più tempo possibile lontano da casa. Disse di sapere di essere la causa dell'infelicità dei suoi genitori e anche che si odiava per quello. Poi chiese loro di perdonarla e uscì di casa sbattendo la porta. James e Michael erano all'apice della preoccupazione e la inseguirono per la strada mentre i suoi genitori erano diventati delle maschere di cera. James e Michael trovarono Anne che piangeva seduta dietro casa  e non trovarono altro da fare che stringerla in un abbraccio e  lasciarla sfogare. Quando i tre cominciarono a battere i denti dal freddo, Michael  si  staccò  con riluttanza da sua sorella e l'affidò alle cure di James, che gli promise di occuparsi di lei mentre lui sarebbe tornato a parlare con  suoi genitori. Rimasti soli, James aiutò Anne ad arrivare alla macchina, la fece accomodare e partì alla volta di casa sua, dove tra lacrime e singhiozzi Anne si era finalmente addormentata.
James decise di affrontare la cosa con cautela e lasciare ad Anne tutto lo spazio di cui potesse avere bisogno. Si alzò dal divano liberandosi dal piumone che si era trascinato in salotto. Il parquet scricchiolava sotto ogni suo passo perciò era sicuro che Anne fosse sveglia. Si avvicinò alla sua porta e bussò piano attendendo una risposta. Probabilmente Anne gli disse di entrare, o forse no, James non aveva sentito nulla, ma decise di aprire comunque la porta. Anne si ritrovò davanti James in boxer e canottiera. Lui impacciato si spettinava i capelli sulla nuca aspettando che lei dicesse qualcosa.
“James, non stai morendo di freddo?”-disse Anne ridendo.
Di tutto quello che poteva dirgli , andava proprio a parlare della sua mise. Ma vederla sorridere gli fece tirare un sospiro di sollievo. Quella era la ragazza più forte che avesse mai conosciuto.
“Adesso che mi ci fai pensare sto congelando.”
Allora Anne si spostò su un fianco del letto e sollevando le coperte diede dei colpetti sul materasso vuoto invitando James a raggiungerla. James si precipitò sotto le coperte, e come se fosse la cosa più normale del mondo strinse Anne in un abbraccio. Anche per Anne quel gesto risultava naturale, perciò si lasciò stringere e appoggiata al suo petto inspirava il profumo di James. Sentiva che il suo unico nemico adesso era il tempo. Conosceva quel ragazzo da pochissimo, eppure stare così con lui le sembrava lo scopo della sua vita. Lui era arrivato da pochissimo, ma aveva già sconvolto la sua esistenza. Continuava a ripetersi che se non fosse stato per lui, lei sarebbe stata ancora una ragazza sfruttata dal suo capo e succube del dolore dei suoi genitori. James da parte sua pensava anch'egli a quanto Anne fosse diventata importante per lui, ma non era più spaventato, come lo era stato in precedenza, dalla velocità con cui tutto stava accadendo. Voleva vivere la sua felicità ora e adesso e voleva avere la certezza che Anne non lo avrebbe più evitato.
Entrambi avevano capito quindi che la loro situazione non aveva bisogno di spiegazioni o chiarimenti. Si prepararono ad accettare gli eventi che il destino da lì in poi avrebbe riservato loro.
“James grazie. Non so cos'altro dirti. So che ti dovrei un mucchio di spiegazioni, ma non saprei da dove cominciare.”
“Non devi dirmi nulla. Ci ha pensato Michael.”
Anne si staccò dal suo petto e chinò il capo all'indietro per guardare James negli occhi con aria interrogativa. James iniziò ad accarezzarle i capelli , quasi a voler evitare di rispondere alla sua domanda silenziosa. Lei lo afferrò per il mento per attirare la sua attenzione.
“E va bene. Stanotte ho chiamato Michael non appena ti sei addormentata. So che non avrei dovuto immischiarmi, ma ero molto in pensiero. Non posso credere a quello che hai dovuto affrontare. Mi dispiace.”
Anne allora si allontanò di scatto e balzò giù dal letto lasciando James pietrificato al suo posto.
“James io non voglio la tua compassione! Non sono un cucciolo bisognoso di cure! Smettila di guardarmi come se fossi appena scampata da una catastrofe!”
James si alzò e la raggiunse. La afferrò per i polsi costringendola a guardarlo negli occhi.
“Anne tu credi che io sia qui con te perché mi fai pena? Hai mai provato a pensare che io magari voglio che tu stia bene perché tengo a te? Non posso credere che tu non l'abbia ancora capito. Se fossi stato alla ricerca di buone azioni da compiere avrei fatto volontariato in un canile, non avrei certo cercato una ragazza in una situazione difficile. Mi piace passare il tempo con te e controllare che non ti succeda niente. Non puoi biasimarmi per questo.”
James allentò la presa sui polsi e Anne credendo alle parole del ragazzo davanti a lei, si alzò sulle punte e eliminò la distanza tra i loro volti. Poi posò le sue labbra su quelle di James. James rispose al bacio e si rese conto del fatto che quella ragazza riusciva sempre a sorprenderlo. Quando si staccarono, rimasero a fissarsi per un tempo indefinito fino a quando James iniziò a tremare. Anne sorridendo lo spinse verso il letto e lo avvolse nella coperta. James si sedette e Anne si mise a gambe incrociate di fronte a lui. Non sapeva cosa dire in una situazione del genere. Ma d'altronde lei lo aveva baciato, adesso toccava a lui dire qualcosa. James intuì che Anne si aspettava che lui parlasse, perciò le prese il volto tra le mani.
“Anne promettimi che non sparirai più e che non cercherai più di evitarmi. Non ti libererai mai di me. Inoltre so dove abiti e tuo fratello sarebbe pronto ad avvisarmi di ogni tua eventuale fuga.”
“Va bene, ma renditi conto che ti stai caricando un fardello molto pesante. Quando mi conoscerai meglio non so se vorrai ancora essere la mia ombra.”
“Quando sarà ne riparleremo. Per adesso promettimelo.”
Anne voleva gridare con tutta la sua voce per la felicità, ma si limitò a sussurrare una singola parola.
“Prometto.”
La mattinata si svolse in modo assurdo. Dopo tutte quelle dichiarazioni e quelle promesse erano tornati alla loro vita quotidiana. Ricevettero quasi immediatamente una telefonata da Will che chiedeva assistenza immediata. Perciò Anne senza neanche cambiarsi era scesa da Will e dopo aver preso tutte le cose necessarie al bambino era tornata nell'appartamento di James portando in braccio un urlante Jacob, che evidentemente non sopportava che i suoi denti stessero iniziando a sbucare. Anne riuscì a calmarlo e passò tutta la mattinata cullandolo davanti alla televisione che trasmetteva un vecchio film in bianco e nero. James si era assentato solo per una mezz'ora per fare la spesa, non volendo perdere tempo lontano da Anne. Tornò a casa e trovò il piccolo Jacob addormentato tra le braccia di Anne che era sul divano assorta da quel vecchio film. James si sedette accanto a lei e guardarono insieme la fine. Anne poi gli affidò Jacob e si mise all'opera per preparare il pranzo. Mentre il pollo si rosolava in padella e James si era appisolato con Jacob, decise di chiamare a casa. Le rispose suo fratello fortunatamente. Non era ancora pronta a parlare con i suoi, ma doveva avvisarli di stare bene. Michael le sembrò sollevato e lo avvisò che per quel giorno sarebbe rimasta da James. Michael si mostrò d'accordo e la salutò dandole appuntamento all'indomani.
Anne dopo aver riattaccato si ritrovò a fissare James sul divano. Si soffermò sulle sue ciglia che gli ombreggiavano le gote e sulle sue labbra che erano piegate in un sorriso. Rischiò quasi di far bruciare il pasto e una sua imprecazione non troppo contenuta svegliò James. Quest'ultimo portò Jacob a letto e lo circondò di cuscini per evitare che cadesse. Dopodiché raggiunse Anne, lasciandole un bacio sulla fronte prima di sedersi in tavola. Durante il pranzo scherzarono e ridettero come matti. James poté constatare che Anne aveva un meraviglioso senso dell'umorismo e Anne notò che sotto i modi da stupido di James si nascondeva un ragazzo molto acuto e anche capace di comprenderla al primo sguardo. A pomeriggio inoltrato riportarono Jacob da Will che li ringraziò di cuore, pagando Anne molto più del necessario. Anne accettò il denaro sotto la pressione di Will ma si fece promettere che da lì in aventi avrebbe pattuito lei la cifra. Passarono il resto del pomeriggio sistemando l'appartamento e facendo qualche partita ai videogiochi. Anne chiamò anche una sua compagna di scuola per farsi fare il resoconto della giornata. Partendo dalla scusa della scuola, Anne e James si tempestarono di domande. Si fermarono solo quando i loro stomachi cominciarono a brontolare.
James era sdraiato sul divano e aveva la testa poggiata sulle gambe di Anne che mentre parlava giocava con i suoi capelli. James si mostrava permissivo anche nei confronti dei suoi amati capelli. Doveva ammettere che quella ragazza lo rendeva incapace di reagire a qualsiasi cosa. Quel momento perfetto fu interrotto dal suono del campanello. James si alzò di malavoglia, si sistemò la felpa che gli si era arrotolata sulla schiena e andò ad aprire. Si ritrovò faccia a faccia con i suoi genitori. Un grido di sorpresa gli morì in gola.

 

 

Passare un'intera serata a lavoro con i tuoi genitori tra i piedi quanto potrà mai essere brutto?
James si era posto questa domanda non appena i suoi avevano varcato la soglia del suo appartamento. Non avrebbe mai immaginato che si sarebbe addirittura divertito. I suoi genitori avevano accolto Anne come un miraggio. Sua madre l'aveva ricoperta di complimenti, anche se entrambi i ragazzi avevano continuato ad insistere sul fatto di essere solamente amici. James doveva ringraziare Anne per averlo costretto a riordinare nel pomeriggio. Il suo appartamento era molto pulito e ordinato, così non aveva fatto brutte figure con i suoi genitori, con sua madre in particolare, da maniaca dell'ordine qual'era.  I signori McVey partirono ben presto con un interrogatorio al quale Anne pose tempestivamente fine ricordando che il loro turno a lavoro sarebbe iniziato a breve.
 Così partirono tutti alla volta del Black Crown stipati nell'auto di James.
Anne era rimasta ammaliata dai coniugi McVey. Erano gentili, premurosi e molto alla mano. Tutto ciò che i suoi genitori non erano mai stati.
Una volta arrivati al locale, si erano separati e mentre i signori McVey si erano seduti ad un tavolo in prima fila, Anne aveva indossato il grembiule da cameriera e aveva accompagnato James a prepararsi. Fortunatamente non c'erano tracce del capo.
James era molto nervoso. I suoi genitori l'avrebbero ascoltato per la prima volta. Certo lo avevano sentito un migliaio di volte a casa sua, ma non era la stessa cosa. Anne servì la cena ai genitori di James, che passeggiava in cucina come un disperato. Anne dovette spingerlo fuori a calci e lo spintonò sul palco. Gli ci volle un bel po' per smettere di tremare mentre suonava, ma alla fine i clienti del locale iniziarono a seguirlo e ad essere pienamente coinvolti. Questa volta qualche coppietta si alzò per ballare e nella confusione generale Anne andò a parlare con Connor. Lo trovò che stava riempiendo un vassoio da portare in sala.
“Hey Con!”
Connor si voltò sorpreso di vederla.
“Hey Anne come va?”
“Diciamo bene. Adesso. Devo supporre che James ti abbia raccontato tutto, non è vero?”
Anne era certa che James ne avesse parlato con il suo migliore amico, ma questo fatto non la infastidiva.
“Non mi ha spiegato i particolari, mi ha solo detto che stava impazzendo perché tu non volevi condividere i tuoi problemi con lui. Poi l'altra notte mi ha chiamato ed era molto agitato. Mi ha detto che tu eri da lui e che era rimasto molto sorpreso da te. Poi si è scusato non so quante volte. Non certo di avermi svegliato alle tre del mattino, ma di essersi affezionato a te. Detto così sembra ridicolo, ma lui sosteneva che io avessi più diritto di lui ad essere innamorato di te.”
“E lo sei? Perché l'ultima cosa che vorrei è essere la causa dei vostri litigi.”
“No Anne. Non lo sono. Non fraintendermi tu sei fantastica e come avrai notato da quando lavoriamo insieme ho sempre avuto un debole per te, ma nulla di più. Inoltre sono felicissimo che quel cretino del mio amico si sia innamorato di te. Tu non puoi vederlo, ma io si: tu lo stai aiutando molto.”
“Tu non immagini neanche quanto lui stia aiutando me. E grazie per avermi detto queste cose. Sei un vero amico.”
Amico. Perché tutte le ragazze che conosceva lo definivano sempre un ottimo amico? Ma nonostante tutto, Connor non poteva che essere riconoscente ad Anne e Emily. Loro lo consideravano importante e lui era contento di significare qualcosa per loro. Voleva loro bene e augurava loro tutta la felicità possibile. Certo loro non erano come Tristan, Brad o James, ma magari con il tempo anche la loro amicizia sarebbe diventata così necessaria alla sua vita.
“Anne un'ultima cosa.”
“Dimmi.”
“Mi raccomando vedi di non far soffrire il mio amico. Altrimenti dovrei andare io a consolarlo e a buttarlo fuori dal suo appartamento.”
“Promesso.”
Anne si avvicinò a Connor e lo prese per mano. Lo portò in sala e dopo essersi accertata che il capo non ci fosse, lo trascinò davanti al palco. James capì al volo le sue intenzioni ed iniziò a suonare Breakeven.
“Anne cosa stai combinando?-sbraitò Con.
“Balla con me.”- rispose Anne ridendo.
“Questa non te la perdonerò mai.”
“Hey con questa siamo pari.”
Anne e Connor ballarono sotto lo sguardo contento di James, fino a quando il signor Brown non li fulminò dall'altro capo del locale. Così tornarono a lavorare, felici della complicità che si andava creando fra di loro.
James per tutta la sera  non staccò mai gli occhi da Anne.

Note delle autrici:
salve, Mondo! Volevamo (di nuovo) avvisarvi del fatto che mancano esattamente due capitoli più epilogo e noi stiamo affogando in un mare di feelings. Avevamo pensato di pubblicarli tutti insieme, ma crediamo che ciò non succederà. Ci chiediamo se ci sia ancora qualcuno che ci segue, ma siamo talmente affezionate alla storia che anche se nessuno la legge più, noi continuiamo!! Quindi, se c'è qualcuno là fuori, buona lettura e grazie per l'attenzione! :) A presto xx (molto presto)

 

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Capitolo 24
*** Capitolo ventiquattro. ***


Capitolo ventiquattro.

Quella sera il vento tirava ancora più forte rispetto agli altri giorni e Brad ed Amanda non si capacitavano del fatto che proprio la sera del loro primo vero e proprio appuntamento il clima fosse così insostenibile. Amanda si specchiò un'ultima volta, i capelli accuratamente tenuti indietro da un fermaglio e un maglione color crema addosso. Scese in salotto dove i suoi genitori l'aspettavano, convinti che qualche minuto dopo Amanda sarebbe uscita in centro con Samantha. La ragazza abbassò il capo senza un motivo apparente, di fronte alle invadenti domande di suo fratello riguardo quella serata; decise all'istante che il giorno seguente gli avrebbe fatto un discorsetto. Si recò nel corridoio dell'ingresso e indossò alla svelta una sciarpa di lana e il cappotto, e si chiuse la porta alle spalle. Il vento forte le fece lacrimare gli occhi e le arrossò subito le guance. Ciò che la preoccupava maggiormente era il fatto che ormai avesse deciso, insieme a Brad, di fare una passeggiata a piedi. Non era sicura di riuscire ad arrivare al termine della serata. In realtà non sapeva neanche perché avesse accettato quell'invito. Brad le piaceva, più o meno; ma era pronta per uscire nuovamente con un ragazzo dopo così poco tempo? Scacciò quei pensieri scuotendo la testa, quando vide Brad avvicinarsi al suo vialetto. Sorrise; una sensazione di leggerezza si fece spazio dentro di lei, quando guardò il viso del ragazzo e finalmente capì di aver fatto la cosa giusta accettando quell'invito. In fin dei conti non poteva rimanere sola per sempre. Brad ricambiò il sorriso.
"Dove andiamo?" chiese impacciato.
Amanda si strinse nelle spalle: avrebbe lasciato a lui il compito di scegliere. Brad si incamminò senza una parola e senza una meta precisa, lasciando che Amanda lo affiancasse in fretta. Il suono dei loro passi veniva percepito come un brusio avattato contro la neve. Brad prese ad osservare i suoi scarponcini, trovandoli improvvisamente l'aspetto più interessante di quella serata. Aveva fatto bene ad invitarla ad uscire? Senza che lui ne sapesse niente, in pochi secondi rimbalzarono nella sua testa tutte le domande che qualche minuto prima avevano ossessionato Amanda. Il ragazzo maledisse la mattina precedente; ripercorse con la mente la conversazione avuta con Samantha. Forse aveva ragione lei: tutto ciò era sbagliato.
"Qualcosa non va, Brad?" chiese Amanda, fermandosi improvvisamente. Aveva da subito notato che qualcosa nell'umore del ragazzo non andava. Eppure era convinta che Brad aspettasse quel momento da un po' di tempo. Quest'ultimo scosse il capo.
"No, niente... Non preoccuparti!" disse voltandosi. Amanda sorrise, decisa che avrebbe finto di credergli.
I due ripresero a camminare e in un attimo si ritrovarono in centro. Un fastfood poco affollato faceva capolino di fronte a loro. Brad ci pensò un po' su: era ora di cena.
"Ti va un boccone?" chiese in un sussurro, indicando il locale con il capo e mantenendo lo sguardo serio.
"Sono vegetariana." disse Amanda. Brad impallidì, non ne sapeva niente.
"M-mi dispiace, non lo sapevo..."
"Sto scherzando! - disse lei ridacchiando - non ti agitare."
Entrambi entrarono nel locale, Brad stupito per il repentino cambio di personalità della ragazza. Si sedettero ad un tavolo, dopo aver ordinato una buona manciata di cibo scadente per cena. Amanda cominciò a mangiare, sotto lo sguardo attento di Brad. Il ragazzo la osservava con l'intento di capire il più possibile riguardo alla situazione di Amanda. Se fosse lì perché lo volesse davvero o meno. Lei sorrideva, guardando Brad furtivamente e tornando a mangiare. Non c'era niente che non andava. Tuttavia Brad non riusciva a comportarsi normalmente con lei: era chiaro che le parole di Samantha lo avessero influenzato più di quanto lui credesse. Prese un boccone dal suo piatto e si schiarì la gola.
"Come va con la scuola?" chiese Amanda, nel tentativo di iniziare una conversazione.
"Bene... I miei voti sono notevolmente migliorati nell'ultimo periodo!" rispose Brad con un sorriso.
"Hai già deciso cosa farai all'università?"
"Ci sto ancora pensando..." rispose solamente. Amanda abbassò lo sguardo: lo stava forse annoiando?
"Tu, invece?" chiese Brad prendendo un sorso d'acqua.
Il volto di Amanda si illuminò. Era una delle poche occasioni in cui poteva parlare a qualcuno dei suoi piani per il futuro.
"Bhè, mi piacerebbe molto frequentare l'accademia di danza, ma so che con il mio diploma sarebbe impossibile... Credo che frequenterò la facoltà di letteratura all'università di Manchester, sempre se sarò accettata!" disse d'un fiato. Brad l'ascoltava senza mostrare, però, molto interesse per quell'argomento. Non sapeva neanche lui perché si stesse comportando a quel modo. La domanda che lo ossessionava da tempo era: Amanda sarebbe ancora uscita con lui dopo quella sera? Di sicuro no, se avrebbe continuato a comportarsi così. Sbuffò e poggiò il mento sulla mano. Amanda abbassò gli occhi: non pensava di averlo scocciato così tanto. Nessuno dei due parlò più per il resto della cena. Brad pagò anche per conto di Amanda e quando uscirono dal locale i due ricominciarono a camminare.
Amanda prese Brad sotto braccio e poggiò la sua testa sulla sua spalla, guardando con aria sognante le decorazioni natalizie. Girò il viso verso Brad; le luminarie si riflettevano sul suo viso in un modo strano, facendo risaltare ancora di più la sua espressione corrucciata. Amanda sospirò, pensando che quella sera non stava andando come l'aveva immaginata. Credeva che avrebbe passato una serata perfetta, mente fino a quel momento il loro appuntamento era un disastro. Si era illusa un'altra volta.
Improvvisamente Brad si fermò e quando Amanda tornò a prestare attenzione alla realtà si rese conto che i due ragazzi si erano addentrati in un luna park ed ora si trovavano davanti ad una gigantesca ruota panoramica. Brad sorrise guardando Amanda; il volto di lei caratterizzato da una profonda ruga fra le sopracciglia.
"Brad... Soffro di vertigini!" sussurrò con voce tremante, guardando impaurita la grande giostra di fronte a se'. Brad respirò profondamente, prendendola per mano.
"Non aver paura... È solo una giostra!" le sussurrò all'orecchio con gentilezza. Amanda arrossì per la prima volta quella sera, sia per l'imbarazzo dovuto alla sua stupida paura delle altezze sia per la pericolosa vicinanza alla quale Brad l'aveva sottoposta avvicinandosi a lei in quel modo. Un brivido le attraversò la schiena quando il respiro caldo di Brad si infranse contro il suo collo.
"Fidati..." continuò il ragazzo. Amanda annuì: ci avrebbe almeno provato.
Brad pagò qualche sterlina all'uomo che si occupava dell'attrazione e si sedette con Amanda su un vagone. Quando la macchina si mosse la ragazza strinse forte la protezione di ferro con una mano, mentre Brad rimase in silenzio. Non era mai stato bravo a far sentire meglio le persone. Le posò una mano sull'avambraccio.
"Sta' tranquilla."
Amanda annuì, chiudendo gli occhi.
"Ho bisogno che tu parli di qualcosa... - soffiò Amanda con poca voce - Qualunque cosa, basta che serva per distrarmi."
Brad si grattò la nuca, innervosito mentre iniziava a pensare a qualcosa di sensato da dire che potesse rendere più piacevole quel giro sulla ruota. Poi un'illuminazione.
"Hai presente i biglietti? Quelli del concerto di sabato sera..."
Amanda annuì, tenendo gli occhi chiusi e cercando di immaginarsi di nuovo le scene del concerto. Come se si trattasse di un miracolo, la sensazione di terrore scomparve e la ragazza si sentì di nuovo come se stesse per scoppiare dall'entusiasmo.
"Bhè, in realtà non avevo la più pallida idea di come avrei fatto a procurarmeli, fino al pomeriggio stesso."
Brad non sapeva perché dicesse tutte quelle cose. In effetti non era il modo migliore per conquistare Amanda, ma il ragazzo notava che con quell'argomento riusciva a farla sentire meglio. Sorrise senza un motivo apparente e tornò ad osservare Amanda, quando si accorse che anche lei lo guardava. I loro sguardi si incontrarono per un tempo che ad entrambi parve infinito, mentre lentamente la distanza tra i loro volti si faceva nulla. Il cuore di Amanda perse un battito. Stava davvero succedendo? Non poteva fare a meno di pensare che non fosse la cosa migliore che avesse mai fatto, soprattutto dopo la spiacevole situazione che aveva passato con il suo ex fidanzato. Eppure non riusciva ad agire; tutto succedeva come se lei non potesse controllarlo.
"Amy..." sussurrò Brad a pochi centimetri dal suo volto, col fiato corto.
Quel momento di surrealtà si spezzò in un secondo ed Amanda tornò nel Mondo reale. Da quando aveva iniziato a chiamarla in quel modo?
"Io... Devo dirti una cosa" continuò il ragazzo.
Amanda si tirò indietro, stringendo la fronte in un cipiglio. La voce di Brad caratterizzata dalla preoccupazione.
"Ti ascolto." disse lei sulla difensiva.
Brad prese un lungo respiro. Doveva farlo, Amanda meritava di saperlo.
"Ieri mattina ho incontrato Samantha e..."
Amanda entrò nel pallone, mentre la confusione più totale si faceva spazio nei suoi pensieri. Proprio non riusciva a collegare quel discorso a qualcosa che potesse farla innervosire.
"Insomma, abbiamo parlato anche di te... Sapeva del concerto di sabato e del nostro appuntamento di stasera. Mi ha parlato dell'ultimo ragazzo che hai avuto e di ciò che è successo tra voi..."
Amanda arrossì. Non avrebbe mai pensato che Samantha potesse essere tanto sleale da andare a spifferare tutte le sue storie con altre persone.
La giostra si fermò in quel preciso istante e appena Amanda se ne accorse balzò fuori dal vagone e si intrufolò nella folla, fermandosi in un punto non distinto della piazza. Brad la raggiunse in un istante e quando la affiancò poté notare la rabbia montare in lei. Amanda strinse le braccia al petto; era furiosa e non desiderava passare un minuto di più in quel posto e in compagnia di Brad. Era stata così sciocca a pensare che potesse essere diverso dagli altri. Gli voltò le spalle, ma Brad rimase deciso ad andare fino in fondo a quella storia.
"Non è stata colpa sua... E neanche mia... Ha soltanto voluto avvertirmi su quello che avevi passato. Ovviamente mi ha chiesto di non farti soffrire, e io le ho promesso che ci avrei provato, ma..." Brad si incupì di colpo; anche se ci aveva provato non era riuscito nel suo intento. Posò una mano sulla spalla di Amanda, ma quando lei si allontanò quel gesto lo colpì come una lama tagliente.
"Portami a casa, Brad..."
"Amanda, io..."
"Portami a casa subito, ho detto!" gridò lei in preda all'esasperazione, mentre una lacrima silenziosa le scorreva lungo la guancia. Brad sospirò e si incamminò lentamente verso l'uscita del luna park. Amanda lo seguì.

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Capitolo 25
*** Capitolo venticinque. ***


Capitolo venticinque.

* bip * Hey, Amy! Sono Brad... ehm... Venerdì sera ci sarebbe il ballo di Natale della mia scuola; mi chiedevo... Non è che ti andrebbe di venirci con me? Richiamami. * bip *
Amanda si infilò l'unico paio di scarpe con il tacco che possedeva, chiedendosi ancora per quale motivo lo stesse facendo. Qualche giorno prima aveva ricevuto quel messaggio da Brad che l'aveva spinta a fare quella pazzia. Il motivo per cui si era vestita di tutto punto e adesso si stava recando al ballo con quel ragazzo era piuttosto semplice: suo fratello l'aveva praticamente obbligata a farlo. Egli stesso riteneva di aver ascoltato per caso uno dei numerosi messaggi sulla segreteria che Brad aveva lasciato a sua sorella e aveva da subito capito che tra quei due c'era qualcosa; dopo tutto quello che era successo a sua sorella, avrebbe fatto qualunque cosa pur di vederla di nuovo felice con un ragazzo; e Brad gli sembrava quello giusto. Era per quel motivo che le aveva regalato un nuovo vestito e un nuovo paio di scarpe e aveva iniziato a farle un discorso profondo sul perché dovesse andare a quella festa e perdonare quel ragazzo. Amanda non era mai stata sicura di quello che faceva; anzi, sapeva con certezza che stesse facendo la cosa sbagliata. Eppure suo fratello le aveva esposto una tesi sul vero amore che era stata tanto convincente da farle cambiare idea. Ora Amanda se ne stava seduta sul bordo del letto, dondolando le gambe avanti e indietro e osservando l'unico paio di scarpe con il tacco che avesse avuto in vita sua. Per un attimo la situazione in cui si trovata le sembrò assolutamente irreale e assurda. Sapeva di non voler rivedere Brad così presto, ma sapeva anche di voler andare a quella festa per poter chiarire. Come si era ritrovata a pensare numerose volte anche in quel momento non poté fare a meno di ragionare sul fatto che Brad fosse l'unico ragazzo che era riuscito ad avvicinarsi a lei negli ultimi mesi e soprattutto dopo così tanto tempo e Amanda non poteva permettere che tutto finisse così presto. Lo doveva a se stessa. Si alzò dal letto, sistemandosi il vestitino verde a maniche corte che suo fratello aveva scelto per lei. Poi si guardò nuovamente allo specchio; per quanto potesse sembrarle ridicolo e stupido, in quel momento si ritrovò a pensare che fosse semplicemente bellissima conciata in quel modo. Eppure non aveva neanche messo su troppo trucco, giusto quel poco necessario per coprire la minuscola cicatrice che si era procurata da bambina all'altezza del sopracciglio. Sorrise ripassando il solco della ferita ormai chiusa con la punta dell'indice. Quando suo fratello gridò dalle scale, Amanda scese velocemente in salotto con tutta la rapidità che i suoi tacchi – pur essendo alti solo nove centimetri – le permettevano e indossò la giacca e un foulard leggero che riuscissero a coprirla un po'. Suo fratello Aaron la guardò con ammirazione, come l'avrebbe guardata sua madre accorgendosi che fosse cresciuta così tanto e così in fretta; aveva scelto proprio bene quel vestito. Quella particolare tonalità di verde si intonava perfettamente con i suoi occhi, facendone risaltare il colore che quella sera tendeva tante volte al grigio e tante volte allo smeraldo. Amanda abbassò il capo imbarazzata e arrossì lievemente, non essendo mai stata abituata ad essere osservata a quel modo, seppur da suo fratello. Lo seguì in macchina, sedendosi comoda sul sedile e cercando di non far stropicciare la parte posteriore della gonna, cosa che le era praticamente impossibile a causa dello strano tremolio che le sue gambe avevano assunto per l'agitazione. Quando l'auto partì, Aaron sfrecciò a tutta velocità in direzione della sala comunale, dove si sarebbe tenuta la festa.

Il ticchettio insistente del grande orologio di legno stava iniziando a far innervosire James. Inoltre gli ricordava che il tempo stesse continuando a passare nonostante per lui si fosse fermato qualche giorno prima. Michael lo aveva avvisato che Anne voleva sistemare le cose con i suoi prima di rivederlo. Diceva che finché non avesse trovato un equilibrio stare con lui sarebbe stato un problema. Non poteva rimanere a vivere da lui e se ogni volta che tornava a casa dopo una giornata felice con lui doveva affrontare di nuovo troppa tristezza non avrebbe sopportato la differenza. Anne non aveva avuto neanche il coraggio di parlare con James. Era stato Michael a parlare con lui per giustificare il silenzio di sua sorella. Michael, dopo aver visto come James si interessasse a sua sorella, aveva ritenuto che quella fosse la cosa giusta da fare. Anne aveva promesso a James che non sarebbe più sparita , ma evidentemente era una promessa che non poteva mantenere. Tra tutte le ragazze con cui era uscito, Anne era l'unica ad avere una situazione difficile. Era sempre stato il tipo di ragazzo spensierato, ma da quando aveva iniziato a prendere decisioni importanti era cresciuto veramente molto. Anche per questo adesso era certo che Anne stesse facendo un errore tenendolo a distanza. Connor e i ragazzi avevano cercato di distrarlo il più possibile, ma si erano resi conto che non c'era modo per sollevare il morale di James. Connor credendo di aiutarlo lo aveva fatto ingaggiare come cantante di spalla per il ballo di Natale alla sua scuola. Infatti adesso si trovava nella grande sala municipale addobbata e trasformata per l'occasione. James passeggiava avanti e indietro nella stanzetta che gli era stata riservata come camerino strimpellando qualche accordo. Non era arrabbiato con Connor per averlo trascinato a quella serata, ma in quel momento non si sentiva veramente in forma per suonare. Indossava uno smoking grigio con i risvolti neri e una camicia bianca fresca di lavanderia. Il papillon era sciolto perché a causa dell'agitazione si sentiva soffocare. I suoi pensieri torbidi furono interrotti da una voce squillante. Una ragazza era entrata nella stanza senza che lui se ne accorgesse e adesso cercava di attirare la sua attenzione. Evidentemente era una delle studentesse organizzatrici del ballo perché una cartellina sotto il suo braccio era in netto contrasto con l'abbigliamento da fata. Aveva i capelli biondissimi acconciati sulla nuca e tenuti fermi da un fermaglio di fattura antiquata. Era stretta in un vestito azzurro mare che incrociato sul dietro le lasciava la schiena scoperta nonostante fossero in pieno inverno. Lei si schiarì la gola più volte e James tornò a concentrarsi sul suo viso.
“Ciao, James! Io sono Emily Scott. Piacere di conoscerti. Spero tu abbia tutto ciò di cui hai bisogno.”
“Ehm... si grazie.”
Il nome di quella ragazza gli era stranamente famigliare e come faceva a conoscere il suo nome? Si rispose immediatamente. Sicuramente essendo un'organizzatrice aveva letto il suo nome su qualche programma della serata. Ma non riusciva proprio a ricordare in che occasione avesse sentito parlare di una certa Emily Scott.
“Dunque dovresti iniziare tra dieci minuti. Dopodiché te e gli altri ragazzi vi alternerete sul palco.”
“Perfetto. Spero soltanto che apprezziate la mia musica. Solitamente il mio pubblico è di un'età media di 40 anni.”
Emily lo tranquillizzò sorridente e James si lasciò ammaliare da quella ragazza. Sembrava una piccola mamma pronta a caricarsi il peso del mondo sulle spalle e a fare in modo che tutti stessero bene. Pochi istanti dopo furono raggiunti da un ragazzo che ovviamente James non aveva mai visto.
“Josh che ci fai qui?”-chiese Emily sorpresa rivolgendosi al nuovo arrivato.
“Eri sparita! Credevo volessi abbandonarmi al ballo!”
James cercava di trattenere le sue risate. Si trovava davanti al tipico caso di ragazzo iperprotettivo. Poi pensò che lui non era stato da meno con Anne e un'espressione seria tornò sul suo volto. Fortunatamente Emily parlò di nuovo.
“James, questo esemplare di studente medio è il mio ragazzo. Non è in grado neanche di stare da solo mentre io mi occupo della riuscita del ballo.”
James strinse la mano a Josh che rendendosi conto che lui fosse il cantante della serata non esitò a richiedergli una delle canzoni preferite di Emily. Emily sentendo la richiesta si sciolse letteralmente ai piedi dei due ragazzi che la guardavano scuotendo il capo. I ragazzi furono interrotti ancora da un altro ospite dell'ormai piena stanza: Connor. Il ragazzo saltò praticamente in braccio al suo amico che ricambiò l'abbraccio. Anche Connor era vestito come James non l'aveva mai visto. Lì con il suo completo nero e le scarpe lucide sembrava molto più grande. L'unica cosa che non era stata intaccata da quello spirito di eleganza che riempiva l'aria erano i capelli spettinati del ragazzo e i numerosi bracciali di corda che fuoriuscivano dalle maniche della giacca.
“Hey ma allora vi conoscete!?”-fu la reazione di Emily.
Connor si sciolse dall'abbraccio e dando una pacca sulla spalla dell'amico diede le dovute spiegazioni.
“Em, Josh lui è uno dei miei migliori amici di sempre, nonché fantastico cantante.”
“Adesso tutto è più chiaro”.
“Ragazzi non è che potreste lasciarmi un attimo solo con James?”
Emily e Josh non faticarono a comprendere che Connor dovesse parlare di cose serie. Ma Josh prima di uscire guardò Emily con fare complice e si rivolse a Connor.
“Hey, stasera Daisy ha passato ore intere a prepararsi. Evidentemente sperava di incontrare una persona speciale.”
Detto ciò uscì facendo l'occhiolino a Connor che era rimasto impalato. James capendo che le cose si stavano complicando e cogliendo le parole di Josh come un ottimo appiglio cercò di sdrammatizzare.
“Non sarà mica quella Daisy con cui ti ho visto in macchina qualche giorno fa?”
Adesso James riuscì a ricordare in quale occasione aveva sentito parlare di Emily. Era stato Connor a farlo. Connor allora si riprese dal suo stato di trance.
“James, qui dobbiamo parlare di te e non di me.”
James si grattò la nuca. Odiava parlare dei suoi sentimenti. Ma magari Connor era la persona più indicata visto che aveva seguito la storia più da vicino.
“Come va con Anne?”
James ricominciò a camminare strimpellando. Cercava una risposta adeguata. Non sapeva come esprimersi perciò si limitò a scuotere il capo.
“Con, non va. Non l'ho più sentita dopo l'ultima sera al locale e come avrai notato non è più venuta a lavorare. Will mi ha detto che si è occupata di Jacob, ma che faceva di tutto per non incontrarmi neanche per caso per le scale. Credo di aver sbagliato tutto. Sono stato troppo pressante. Ho corso troppo. Avrei dovuto darle più tempo senza infilarmi a forza nella sua vita.”
Connor ammutolì davanti al discorso del suo amico. Quindi James sentiva di essere lui ad aver esagerato. Non aveva capito un bel niente.
“James, non è affatto colpa tua fidati e posso dimostrartelo. Però tu promettimi che stasera ti esibirai e proverai a divertirti.”
“Con sto male, vorrei soltanto capire come tornare da lei. Vorrei parlare con lei e spiegarmi, ma non me ne ha mai dato la possibilità. Deve essere molto arrabbiata e pentita. Soprattutto del bacio.”
Connor non poteva resistere ancora guardando James che si autocommiserava.
“James dai smettila! Ho una sorpresa per te. Ma devi andare a suonare. Adesso. Io sarò in sala a sostenerti così come Tris e Brad. Sappi che siamo fieri di avere te come amico. Almeno per quanto riguarda me non ti cambierei per nulla al mondo.”
“Grazie Con. Per me è lo stesso. Ma basta con i sentimentalismi. La mia sfera emotiva è già al limite del collasso. Non vorrei avere una crisi di pianto proprio ora. Rovinerei la mia immagine di cantante bello e indipendente.”
Connor abbracciò ancora il suo amico facendo il loro rito portafortuna: ogni volta che dovevano affrontare qualcosa di importante i ragazzi si abbracciavano e si sfregavano i menti inclinando la testa all'indietro. Quella cosa li metteva sempre di buon umore. Così Connor e la sua promessa di una sorpresa diedero a James la forza necessaria per uscire e dirigersi verso la sala. L'ambiente era spettacolare. Doveva ammetterlo. Emily aveva fatto uno splendido lavoro. I muri erano coperti da migliaia di foto – moltissime in bianco e nero - prese dagli annuari del passato e del presente. Quello era il loro ballo. Ognuno di loro ne era parte. Una parte del locale era stata riservata ad un piccolo palco e ad uno spazio abbastanza ampio per ballare, mentre un quarto era occupato da tavoli rotondi coperti di vettovaglie. Ma in quel momento nessuno pensava al cibo. Erano tutti in piedi davanti al palco in attesa della musica. Erano tutti lì per scatenarsi e godersi quella festa con le persone più importanti della loro vita. James poté arrivare sul palco senza attraversare la folla, facendo il giro da dietro. Quando salì sul palco fu accolto da un fortissimo applauso e dalle urla di qualche ragazza, anche se ora l'unica ragazza di cui aveva bisogno era lontana.
“Buonasera Saint Lennox! Siete pronti? Fatevi sentire!”
James per non deludere le aspettative dei ragazzi che volevano scatenarsi iniziò con un pezzo che riusciva sempre a farlo ballare: Mr Brightside. Soltanto a metà del pezzo si rese conto che il gruppo cui doveva fare da spalla era diventato il suo supporto. Tre ragazzi si erano appropriati di batteria, basso e chitarra elettrica. Circondato da altri musicisti l'effetto era a dir poco fantastico. I ragazzi decisero di mantenere quei ruoli e si esibirono in altri pezzi. La serata procedeva a meraviglia. Tutti ballavano e si divertivano. James ad un certo punto notò Josh tra la folla che gli fece un cenno verso Emily. James allora si ricordò della sua richiesta e dopo essersi messo d'accordo con i ragazzi iniziò a cantare.
Written in these walls are the stories...
James non poté proseguire. Il suo sguardo fu catturato da una ragazza vestita di bianco che era appena entrata nella sala accompagnata da Connor. Quella era Anne. Sbatté le palpebre un paio di volte e accorgendosi che l'immagine di lei non svaniva come in un sogno si precipitò giù dal palco, lasciando la folla ammutolita.

Tristan si agitava da circa mezz'ora come un forsennato; da quando lui e i ragazzi avevano messo piede alla festa, lui non era riuscito a stare fermo un attimo, misurando a grandi passi la stanza e facendo innervosire Brad. Difficile da credere, ma quella sera Tristan aveva indossato un paio di jeans nuovi di zecca, una giacca blu, una camicia, una cravatta e delle scarpe lucide. Si passò una mano fra i capelli particolarmente ordinati, sporgendosi verso Brad che sorseggiava un bicchiere di punch all'arancia in tutta tranquillità, guardando a destra e a manca per tutta la sala.
“Ricordami di non lasciarmi convincere, la prossima volta... Questa giacca è scomodissima!” esclamò facendo degli strani gesti con le braccia, rendendosi buffo di fronte agli altri studenti.
Brad sospirò a metà fra l'esasperato e il divertito e roteò gli occhi. Era riuscito, per la prima volta in vita sua, a far vestire bene Tristan. Insomma, erano pur sempre ad un ballo studentesco. Tristan si guardò intorno, cercando James con lo sguardo. L'amico si trovava poco più in là, sul palco improvvisato, con un'agitazione addosso visibile da metri e metri di distanza. Sebbene avesse già esordito con alcune canzoni, non gli riusciva proprio di essere tranquillo di fronte a tutta quella gente. Tristan lo guardò negli occhi e, con sguardo severo alzò il pugno per intimargli di essere forte e deciso. James annuì impercettibilmente e si posizionò nuovamente di fronte al microfono. Non appena la sua voce risuonò nella sala, i ragazzi si liberarono in un applauso chiassoso che contagiò presto tutti i presenti nella sala. Senza mezzi termini, James ricominciò a suonare un'altra delle canzoni che aveva scelto per quella sera, senza badare allo scarso numero di persone che al momento popolavano la sala. Ciò che gli importava era solo concentrarsi su di se' e sull'esibizione. Tristan e Brad intercettarono la testolina bionda di Connor poco lontano dal palco, che si avvicinava a loro stretto nel completo nero elegante.
“Che figurino...” ammiccò Brad nei suoi confronti, sollevando il bicchiere ormai vuoto in sua direzione.
“Divertente!” rispose sarcastico l'amico, aggiustandosi i lembi della giacca. Ora gli studenti entravano dalla grande porta decorata ad arco con palloncini dorati a dozzine. Purtroppo, però, Tristan non aveva ancora visto Marjory varcare quella soglia e temeva che quella sera la ragazza non sarebbe affatto andata alla festa; specialmente dopo quello che si erano detti qualche giorno prima a scuola. Scosse la testa negando qualcosa che solo lui stava pensando, abbassando lo sguardo sulle sue scarpe lucide di vernice. A Brad e Connor non sfuggì quel gesto, infatti fu per quella ragione che il suo migliore amico si affrettò a chiarire cosa ci fosse che non andava. In un modo o nell'altro, Brad era sempre stato il più premuroso tra i suoi amici; specialmente quando si trattava di Tristan.
“Tutto ok?” chiese lasciando un bicchiere di cartone in mano a Tristan e Connor. A quanto pareva il ragazzo era ossessivamente fissato con quella bevanda, quella sera. Brad sapeva che offrire al Mondo intero un bicchiere di punch era uno dei modi più bizzarri per nascondere il suo nervosismo. Tristan annuì, svuotando metà del bicchiere con un solo sorso. Tornò a prestare attenzione all'entrata, dove decine di persone entravano in coppia nella sala. Poi lo vide. Owen. Tristan ebbe un sussulto, sebbene non si trattasse di Marjory in carne ed ossa. Il ragazzo scomparve in un attimo, inghiottito dallo sciame di persone. Poi sotto gli occhi di Tristan guizzarono di nuovo i colori della giacca a quadri del ragazzo. Tristan lo guardò attentamente. Quando Owen si fu allontanato dagli altri ragazzi, raggiunse il centro della pista da ballo dove, fino a quel momento, un gruppo di coppie si erano recate. Tristan ammise di esserci rimasto un po' male per la buca che Marjory gli aveva dato. Insomma, non che si fossero dati un vero e proprio appuntamento, ma era ovvio che quella sera avrebbero potuto parlare ancora, se lei si fosse presentata. Owen si guardò intorno, sistemandosi il ciuffo perfettamente laccato. Poi una ragazza lo affiancò. Indossava un bellissimo vestito rosso con le spalline e la gonnellina di tulle, e i capelli castani le svolazzavano oltre le spalle. Tristan ripercorse con lo sguardo il suo corpo e ci mise meno di un secondo a riconoscerla. Quella era proprio Marjory.

Amanda entrò nella sala solo quando ormai la festa era iniziata da ore. Aveva aspettato fuori nel cortile, al freddo, per circa un'ora interdetta sul da farsi. La realtà era che aveva tremendamente paura di rivedere Brad; ogni volta che si trovava davanti a quel ragazzo tutti i suoi buoni propositi svanivano nel nulla. Nella sala gli studenti si scatenavano sulle note delle canzoni che James si cimentava a suonare ogni volta. Amanda sorrise guardando i ragazzi che si scatenavano sulla pista; la vista di James che si divertiva a quel modo nel cantare una canzone diversa ogni cinque minuti la fece riempire di spensieratezza. Poi ricordò il motivo per cui era andata lì e trasalì. Il nervosismo era palpabile in lei e si poteva notare dallo strano tic nervoso che aveva preso la sua gamba e dal modo con il quale si torturava le mani. Si avvicinò ad un tavolo imbandito, esaminando le foto appese ai muri fin quando non ne trovò una di Brad e dei suoi amici appesa sulla parte più alta del muro. Sorrise guardandola ed appoggiò la sua borsetta sul tavolo insieme al foulard. Sussultò quando una mano calda sfiorò la sua gelida. Le venne la pelle d'oca e si irrigidì d'un tratto quando si rese conto che solo una persona poteva averla sfiorata in quel modo. Quando si voltò il suo sguardo incontrò quello di Brad, il quale sorrise e prese anche l'altra mano di Amanda fra la sua.
“Ti va di ballare?” chiese timidamente Brad sussurrandole all'orecchio.
Quando il respiro del ragazzo soffiò sul collo nudo di Amanda, questa chiuse gli occhi e si abbandonò a quella sensazione. Annuì impercettibilmente e Brad la trascinò sulla pista, mentre James – per l'occasione – iniziava a suonare un lento. Brad cinse i fianchi di Amanda con le braccia e guidò le mani di lei dietro la sua nuca. I due iniziarono a muoversi a ritmo di musica dondolandosi sui piedi visto che Amanda non poteva permettersi grandi movimenti con i suoi tacchi. La ragazza poggiò la fronte sul petto di Brad e nascose il volto sulla sua giacca respirando il suo profumo per imprimersi bene in testa ogni sensazione di quel momento. Tutto doveva sembrarle esattamente com'era stato, quando ci avrebbe ripensato due anni dopo. Amanda sospirò affranta spostando, poi, lo sguardo verso Brad il quale le sorrise dolcemente. Doveva sistemare le cose; ora, in quel momento. Brad le sembrava così importante che non poteva permettersi di perderlo. Fu allora che Amanda prese coraggio; fece un bel respiro e cercò di buttarsi.
“Mi dispiace.” sussurrò.

Note delle autrici:
allora, oggi ci sono un po' di cosette da dire:
- questo è, tecnicamente, l'ultimo capitolo. Tecnicamente, perché a breve posteremo l'epilogo che chiarirà un po' le idee a tutti;
- lo sappiamo, adesso siete mezze arrabbiate perché abbiamo lasciato questo ultimo capitolo mezzo a metà (non si capisce cosa ne sarà delle loro storie); tranquille, l'abbiamo fatto di proposito per lasciarvi la sorpresa dell'epilogo;
- presto - molto presto, forse anche domani - metteremo questo BENEDETTISSIMO epilogo che (speriamo) vi piacerà a bestia perché è super sdolcinato e ci abbiamo messo tutta la nostra buona volontà da fangirls per scriverlo (terminandolo tipo alle 3 del mattino);
-  ci teniamo a precisare che nel pubblicare l'epilogo lacrimeremo fino alla morte perché ci siamo affezionate a questa storia più di quanto pensassimo; nell'occasione, volevamo ringraziare infinitamente tutti quelli che hanno letto, recensito, messo tra le preferite, messo tra le seguite etc etc. Siamo strastrafelici che siate arrivate a leggere fin qui e vi siate sorbiti tutti questi venticinque capitoli.
Abbiamo finit, davvero... Quindi, ci vediamo all'epilogo!
A presto xx

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Capitolo 26
*** Epilogo. ***


Epilogo.

Pomeriggio inoltrato, cielo coperto di nuvole. Il clima autunnale rende il paesaggio meraviglioso. Guardando al di là della scogliera a strapiombo sulla costa, verso l'interno si vede la foresta tramutata in una distesa rossa e arancione, accesa come il fuoco, ma fredda come il ghiaccio. La spiaggia è deserta. Qua e là sono sparsi ricordi di giornate estive ormai lontane. Qualche secchiello, un paio di ombrelloni e una tavola da surf scrostata dal sole e dal sale. È lì che James è sdraiato avvolto in una coperta di lana ruvida. Era passato moltissimo tempo da quando era stato lì l'ultima volta e troppe cose erano cambiate. Non era più il ragazzo che aveva lasciato casa per inseguire un sogno. Non riusciva neanche a ricordare come si sentisse all'epoca. Tutto quello che importava era che adesso era felice. Giungere a quel traguardo gli era costato molto. Spesso si era lasciato abbattere dalle piccole difficoltà, ma come sempre i suoi amici lo avevano aiutato a rialzarsi. Dire che la sua carriera fosse ormai avviata era esagerato. Lui continuava a lavorare per vivere e come se non bastasse aveva anche ripreso gli studi. Ma nonostante tutto era soddisfatto. Se c'era una cosa in cui aveva imparato a credere, quella era il destino. Non ci aveva mai dato conto prima di quel periodo della sua vita. Poi il caso aveva voluto che Connor gli trovasse quel lavoro al Black Crown. Ecco quello era stato il punto di partenza per un nuovo inizio. Ripensava con nostalgia ai primi giorni di lavoro, ma con dispiacere ricordava solo la sua ansia. Aveva dimenticato quello che aveva provato la prima sera sul palco. Rimpiangeva di non aver tenuto un diario o di non essersi confidato con qualcuno. Eppure erano passati solo due anni. Però ricordava come se gli fosse stato impresso a fuoco nella mente il momento in cui si era ritrovato su quella spiaggia prima di lasciare casa. Ennesimo scherzo del destino che gli sarebbe per sempre servito da monito. Non avrebbe mai più dovuto provare quel senso di impotenza. Non sarebbe scappato più. Un mugolio lo riportò alla realtà. Il peso sul suo addome si spostò leggermente. Le cose erano cambiate. Adesso c'era qualcuno con lui su quella spiaggia. Quel qualcuno si era appena destato da un sonno poco profondo e cercava di attirare la sua attenzione. James sentì una mano sfiorargli la nuca e tracciare circoli all'attaccatura dei capelli. Sussultò al contatto con quella mano fredda e senza esitazione la prese tra la sua mano destra così grande al confronto. In risposta quel qualcuno sbuffò e riportò la mano tra i suoi capelli. James odiava quando qualcuno gli toccava i capelli. Ma doveva rassegnarsi a quella piacevole tortura, perché non si trattava di un “qualcuno” qualunque... quel qualcuno era Anne.

 

Stava fissando il menù da almeno dieci minuti, nonostante lo conoscesse meglio del suo codice fiscale. Le pioggia continuava incessante da giorni. Avrebbe ricordato quel periodo come le vacanze più piovose di sempre. Ma tornare a casa era stato indispensabile. Ogni volta che lasciava il college avrebbe voluto gridare di gioia. Non era felice per il fatto di essere in vacanza, ma per il fatto di poter tornare a casa. Teneva il conto di quanti giorni dovesse aspettare prima di riabbracciare le persone che amava. Non riusciva ancora a gestire la lontananza nonostante fossero passati due anni. Certo esistevano i telefoni, internet, Skype...ma non si potevano abbracciare i propri amici o baciare la propria ragazza attraverso uno schermo. I minuti continuavano a passare e lui era ancora seduto solo a quel tavolo. Il prima possibile, magari quella sera stessa, avrebbe rivisto i ragazzi. Ma ora moriva dalla voglia di vedere un'altra persona. Cominciò a picchiettare con le dita sul tavolo, e quando aveva ormai iniziato a spazientirsi, la campanella della porta del locale suonò. I loro sguardi impiegarono un istante a trovarsi. Connor si impose di non alzarsi e di non correre verso la porta. La figura stava impiegando un tempo infinito per avvicinarsi. Se c'era una cosa che mancava a Connor, quella era la pazienza. Era stanco di aspettare. La figura sembrò notare la sua agitazione perciò si affrettò facendosi strada tra i tavoli affollati. Annullò le distanze tra loro piegandosi sul tavolo. Quando si trovarono a pochi centimetri gli gettò le braccia al collo e per la spinta rischiarono quasi di cadere a terra, su quel pavimento che avevano calpestato così tante volte, in quanto quello era il suo locale preferito. Dopo qualche secondo Connor fu liberato dall'abbraccio e delle labbra calde si posarono sulle sue. Connor sperava che quel bacio facesse comprendere alla ragazza quanto gli fosse mancata e quanto avesse sognato quelle labbra nell'ultimo mese. Sperava che non fosse l'ennesimo sogno. Poi la ragazza si staccò  e si tolse il cappotto bagnato. Dopo essersi seduta sulla sedia di fronte,  cercò le mani di Connor poggiate sul tavolo e le strinse nelle sue.
“Scusami per il ritardo. Ho avuto dei problemi nel dare da mangiare a Tris.”


Marjory uscì dall'aula con il volto in fiamme e la testa che le girava a causa dell'ultima ora di lezione che aveva passato a scrivere numeri su un foglio. Si portò una mano alla fronte, scostando la frangetta che le ricadeva sugli occhi. Si avviò all'istante al suo armadietto. L'ateneo dell'università quel giorno era deserto e camminare per quei corridoi vuoti riempiva Marjory di uno strano senso di inquietudine. Non era passato molto tempo dall'ultima volta che l'aveva visto, ma non passava minuto in cui Marjory non pensasse a quel sorriso, a quegli occhi castani o a quei capelli biondi. Quando raggiunse il suo armadietto ci si appoggiò contro affranta. Tristan le mancava più di ogni altra cosa. Sarebbe stata più che felice di passare un pomeriggio insieme a lui, davanti al caminetto di casa sua, con una cioccolata calda fra le mani ed un buon film in tivù. Estrasse alla svelta il cellulare dalla borsa e controllò la casella dei messaggi e quella della segreteria. Entrambe vuote. Non c'era da stupirsi: il suo ragazzo le aveva assicurato che si sarebbero visti il pomeriggio stesso e Tristan non era mai stato uno di quei fidanzati pressanti che chiamano le proprie ragazze ogni secondo. Marjory gettò nuovamente il telefono nella borsa di stoffa, senza curarsi se questo sarebbe andato a finire fra i suoi libri o meno. Sospirò e ripose i libri nel suo armadietto, chiudendo l'anta con un tonfo che risuonò lungo tutto il corridoio vuoto. Soltanto una ragazza le era passata alle spalle e Marjory era riuscita a riconoscerla. Stranamente aveva sempre associato quella ragazza a Heather, l'ochetta del suo liceo. Chiuse gli occhi nuovamente, cercando di reprimere il forte dolore alla testa che si portava dietro da quando si era svegliata e sua madre le aveva fatto la predica su come dovesse vestirsi quella sera alla sua festa di beneficenza. Un senso di nausea la assalì quando ripensò a cosa avrebbe fatto quella sera; se non poteva portare Tristan alla festa di sua madre, allora non avrebbe avuto alcuna ragione di andarci. Ma, fortunatamente, il suo ragazzo era stato molto comprensivo e non aveva fatto storie quando Marjory gli aveva detto che sarebbe stato meglio se lui non avesse partecipato a quella festa di gala. Marjory sospirò e si voltò circospetta, cercando di non cadere rovinosamente a terra appena un giramento di testa la colpiva. Si trovò confusa appena si voltò. Il suo corpo era intrappolato tra l’armadietto e la figura alta e statuaria di Tristan. La sua improvvisa presenza aveva spaventato Marjory a tal punto da farla sobbalzare facendo schiacciare la sua schiena contro l’armadietto. Le braccia del ragazzo si spostarono immediatamente, fino ad appoggiare delicatamente i palmi delle mani contro la superficie di ferro.  Prima che Marjory potesse dire o fare qualcosa, però, si ritrovò in una situazione con la quale aveva imparato a convivere negli ultimi tempi. Non ci impiegò molto a capire cosa stesse succedendo: le labbra di Tristan erano premute contro le sue. La ragazza incrociò le braccia dietro la nuca di Tristan, attirando il volto del ragazzo verso di se'. Le erano mancate così tanto quelle labbra durante il weekend nel quale non si erano potuti vedere. Marjory sorrise con le labbra ancora su quelle del suo ragazzo; i loro respiri si fondevano e Tristan poteva, finalmente, bearsi di nuovo del profumo dolce ed elegante di Marjory.
“Mi sei mancata.” le disse all'orecchio.


La cucina di casa Simpson era molto graziosa, con una penisola in marmo e mobili scuri. Amanda si mise subito alla ricerca degli ingredienti necessari per permetterle di preparare due sandwich. Tutto ciò che le serviva era del pane e sapeva che in casa di Brad non lo avrebbe trovato facilmente. Lo trovò in uno sportello della dispensa, ma notò con dispiacere che la busta era sull’ultimo ripiano. Purtroppo però, Amanda non era mai stata molto alta e la sua poca altezza non le permetteva di arrivare a prendere ciò che le serviva. Brad entrò in cucina, trovando Amanda che si impegnava per raggiungere l’ultima mensola della dispensa. Il grande maglione che indossava si sollevava ogni volta che lei stendeva il braccio eccessivamente. Tutto ciò non serviva a molto, dato che Amanda non sarebbe riuscita ad arrivare al suo scopo. Sollevandosi ancora, brontolò qualcosa di incomprensibile; poi si arrese, sbuffò e si voltò appoggiandosi afflitta al piano di marmo. Il suo sguardo trovò subito quello di Brad che, appoggiato allo stipite della porta la osservava con un’aria divertita. Amanda si ricompose appena si accorse della sua presenza; anche se ormai vedeva Brad praticamente tutti i giorni, non si era ancora abituata completamente al fatto che ormai stessero insieme; erano una coppia.
“Serve una mano?” la voce profonda di Brad ancora intorpidita dal sonno la ridestò dai suoi pensieri. Amanda sorrise ed annuì, dormire in pieno inverno con Brad, sul divano, era ormai diventata una delle sue attività preferite. Nonostante Brad non fosse mai stato un primato in altezza, Amanda era ancora più bassa di lui e quella era una delle tante cose che a Brad piacevano. Brad si voltò in direzione della dispensa e sollevò un braccio per arrivare a prendere il pane. Quando il suo corpo si avvicinò pericolosamente a quello di Amanda, lei fu in grado sentire il profumo di Brad al quale si era tanto affezionata. Lei sorrise involontariamente, un secondo prima di ritrovare Brad accanto a se’.
“Grazie.” sussurrò. Amanda prese il pacco di pane che aveva tanto atteso e tornò a preparare i sandwich. Brad la osservava; gli piaceva catturare i minimi particolari di ogni movimento di Amanda. Sorrise mentre guardava i suoi occhi attenti e i piccoli ciuffi di capelli rossi che le ricadevano davanti al viso un secondo dopo che Amanda li sistemava dietro le orecchie. Brad si posizionò dietro ad Amanda, cingendole i fianchi con le mani ed appoggiando il mento sulla sua spalla. Iniziò subito a strofinare il suo naso sul collo di Amanda, assaporando a pieno il suo profumo per evitare di dimenticarlo qualunque cosa sarebbe accaduta. Amanda si voltò, improvvisamente colta da un'irrefrenabile voglia di baciare il suo ragazzo. Quando i loro sguardi si incrociarono Amanda sorrise e Brad si perse a guardarla per alcuni secondi. Le labbra del ragazzo si posarono su quelle di Amanda sfociando in un bacio dolce ed appassionato. Amanda strinse nella sua minuscola mano la felpa di Brad, come a non voler dimenticare mai quel momento; per un istante le tornò in mente la prima volta in cui si erano baciata alla festa di Natale, due anni prima. Quando Amanda si staccò da Brad, questo la guardò negli occhi sorridendole come un bambino.
“Ti amo.” le disse semplicemente. Amanda trattenne il respiro; sebbene avesse sentito quelle parole già un paio di volte prima, le facevano comunque uno strano effetto. Ormai stava insieme a Brad da due anni e in tutto quel tempo non aveva ancora preso confidenza con il fatto che dovesse dormire con lui, ogni tanto; con il fatto che spesso dovesse presentarsi a cena con i genitori di lui; con il fatto che spesso sua madre trattava Brad come fosse suo figlio. Amanda sorrise pensando a quanto fosse felice in quell'esatto momento.
“Anch'io.” disse sincera, prima che le sue labbra si posassero nuovamente su quelle di Brad.

 

Fanfiction terminata alle 02.08 del 2 febbraio 2014.


Note delle autrici:
eccoci qua! La fine è arrivata! Volevamo ringraziare infinitamente tutti quelli che hanno letto / recensito perché senza di voi non ci sarebbe stata nessuna FF.
Speriamo che la storia vi sia piaciuta e che siate dispiaciute almeno quanto noi che sia finita! :( Per quanto riguarda noi sentiremo la mancanza di ogni singolo personaggio, visto che ci siamo affezionate a loro come se fossero stati reali. Speriamo che anche l'epilogo vi sia piaciuto e vi abbia emozionato. Noi lo amiamo e ogni volta che lo rileggiamo, fa sempre lo stesso effetto!
Un ringraziamento particolare a tutte quelle che ci hanno fatto sapere cosa ne pensavano, poiché grazie ai vostri consigli siamo riuscite a migliorare e ci farebbe molto piacere leggere che a qualcuno piace ancora la storia.
Se vi va passate a leggere anche le altre nostre fanfictions. :)
Arrivederci, Irene ed Eleonora. :)

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