The Madhouse In Berlin

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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


The Madhouse in Berlin

 

PROLOGO

Edificio ovest dell’ospedale psichiatrico Welt, Berlino.
Sezione H.
Zona altamente riservata e protetta.
Solo personale autorizzato.
 
Cella #1
Paziente: Alfred F. Jones
Crisi di identità multipla. Tendenza a compiere atti estremi sotto nome della sua personalità deviata. Il paziente si identifica con più d’uno di noti personaggi di fantascienza comparsi su riviste e in programmi televisivi.
Pericoloso verso la sua incolumità.
Sedare se necessario.
 
Cella #2
Paziente: Arthur Kirkland
Affetto da schizofrenia paranoica accompagnata da allucinazioni uditive e visive. Il paziente è stato precedentemente coinvolto in crimini estremi eseguiti – a suo dire – per ordine di voci provenienti da creature in comunicazione con il suddetto.
Pericoloso per l’incolumità altrui.
Trattare con psicofarmaci.
 
Cella #3
Paziente: Kiku Honda
Affetto da una grave forma di autismo denominata “Sindrome di Asperger”. Il paziente tende all’isolamento più estremo, ciò comporta la mancanza totale di comunicazione da parte di Honda e l’assenza di emotività.
Caso delicato, solo personale esperto.
Non trattare con psicofarmaci.
 
Cella #4
Paziente: Francis Bonnefoy
Grave forma di pansessualismo deviata da un complesso di sadomasochismo. Il paziente è affetto dal “Complesso del Borderline” che gli provoca attrazione sessuale verso qualsiasi persona/oggetto in grado di generargli piacere fisico.
Pericoloso per la sua incolumità e per quella altrui.
Trattare con cautela.
 
Cella #5
Paziente: Antonio Fernandez Carriedo
Affetto da una grave forma di pedofilia. Il paziente riscontra precedenti episodi di violenza fisica e psicologica su minori. È inoltre in atto il processo per la diffusione di materiale pedopornografico da parte di Carriedo.
 
Cella #6
Paziente: Lovino Vargas
Affetto da una pesante forma di isteria. Il paziente riscontra l’uso di atti violenti sia verbali che fisici verso chiunque tenti di stabilire un approccio. Si registra come possibile causa il trauma infantile.
Trattare con sedativi se necessario.
Autorizzato l’uso dell’elettroshock.
 
Cella #7
Paziente: Ivan Braginsky
Grave sindrome della doppia personalità. Il paziente manifesta duplice atteggiamento, può risultare estremamente pericoloso per l’incolumità altrui nonostante l’apparenza innocua. Si registrano gravi precedenti penali.
Massima allerta.
 
Cella #8
Paziente: Natalia Arlovskaya
Pluriomicida. La paziente presenta una grave forma di deviazione mentale tutt’ora sconosciuta che si manifesta con crisi di possessione. Tutti i suoi precedenti penali sono sfociati in brutali omicidi seriali.
Autorizzato l’uso della camicia di forza.
Allerta estrema.
 
Cella #9
Paziente: ? 
 
Un intero edificio solo per otto persone.
Otto persone malate, pericolose per la società. Il lerciume e lo schifo che deve essere tenuto nascosto, non è consentito nemmeno far finta che esistano mostri del genere.
Mostri.
Eppure, inchiostrate tra quei pochi fogli che mi rigiro nervosamente tra le dita sudaticce, io non vedo altro che le vite di otto esseri umani.
Li rileggo ancora una volta, soffermandomi però sui loro nomi e non sulla descrizione della patologia. Non è ciò che mi hanno insegnato. Bah... al diavolo!
Non vi è trascritto nemmeno un nome tedesco. Qui, in un angolo di Berlino dimenticato da Dio come un vecchio e cupo giardino ormai invaso dall’edera selvatica, si è radunato un microcosmo che non è altro che la copia miniaturizzata del mondo in cui vivo.
Rilego con attenzione ogni scheda nella rispettiva cartella clinica, gialla, che riporta il nome del paziente a caratteri neri, scritti a mano con un pennarello indelebile.
Ripongo tutto nel cassetto dell’archivio di metallo, fin troppo grande per quelle sole otto cartelle, ma non si sa mai. Qui, i pazienti sono sempre fin troppo ben accolti.
Guardo l’orologio appeso al muro, tondo e bianco. Ogni cosa è fottutamente bianca in questo edificio! Sono quasi le nove, tra qualche minuto sarà ora di iniziare la solita ispezione mattutina prima della terapia quotidiana.
Mi massaggio le tempie, stanco e avvilito. Forse ho tempo per un altro caffè.
Mi infilo il camice lindo come l’abito di una sposa ed esco dall’ufficio, chiudendolo rigorosamente a chiave.
C’è sempre il tempo per un altro caffè.
Il corridoio è immerso nella luce bianca delle lampade artificiali. Non si bada a spese qui, le lampade al neon sono attive ventiquattro ore su ventiquattro.
Qualche infermiera mi passa di fianco, stringendo cartelline rigide rigonfie di scartoffie appoggiate al petto. Sono sempre molto carine e disponibili, nonostante l’ambiente, infatti mi salutano tutte con un cenno del capo.
“Buongiorno, Dottor Beilschmidt.”
 Io ricambio, ma senza tutto quell’entusiasmo.
Quando sono già sparite dalla mia vista, butto l’occhio alle mie spalle, godendomi il panorama ben meritato delle loro natiche sode fasciate dalle divise bianche. Eh, sì, solo personale altamente qualificato. Se solo quelle gonne fossero un po’ più corte non mi lamenterei sempre così tanto.
 
Il caffè è più rovente dell’inferno. Sembra un ferro da stiro acceso, sciolto in tazza per la gioia della mia lingua. Con tre sorsi è già nel mio stomaco.
Mi appoggio alla parete, ricontrollando un altro orologio da muro, sincronizzato al secondo con tutti quelli posizionati in questo edificio. Sono le nove e due minuti, ora dovrei proprio andare.
Appoggio la tazza sul tavolino di fianco alla macchinetta dell’espresso, l’inserviente verrà a recuperarla più tardi per portarla in cucina a lavare.
C’è una porta, proprio di fianco al tavolo del caffè – tazze, cucchiaini, zucchero e anche del latte! - anch’essa è bianca, ma nella parte più alta è stato appiccicato un adesivo triangolare dentro al quale sono disegnate due figure stilizzate. Quella a sinistra indossa una gonnella, l’altra è un semplice omino.
Scuoto la testa, ripetendomi quella domanda che mi sono sempre fatto dal primo giorno in cui ho iniziato a lavorare qui.
Chi cazzo è quell’idiota a cui è saltato in mente di mettere il cesso di fianco all’area del caffè?!
Proprio mentre mi scervello su questo dilemma esistenziale, la porta si spalanca brutalmente, e ne esce una figura altrettanto brutale e cafona. Mi volto di scatto, facendo finta di non averlo notato, ma è troppo tardi.
Gilbert si sistema la cintura dei pantaloni – bianchi – e mi è subito addosso, stringendomi il collo con un braccio come fossimo al raduno dell’Oktoberfest.
“Wahahahah, il Dottor Beilschmidt è uscito dal suo limbo ed è tornato tra i mortali. Siamo proprio mattinieri oggi, eh, Ludwig?”
Lo spingo via, trattenendo a fatica l’impulso di rifilargli un pugno nello stomaco. Mi risistemo il camice che mi ha gentilmente stropicciato e mi avvio verso il cuore dell’edificio.
“Il mio lavoro non ti riguarda, Gilbert. Ero stato chiaro quando ho acconsentito la tua assunzione, qui. Non devi permetterti di intrometterti.”
“Eh?! E chi si intromette? C’è forse una legge che mi vieta di dare il buongiorno al mio caro fratellino?”
Continua a seguirmi come una stupida oca, con quella sua parlata oscenamente fastidiosa ed inadatta ad un ambiente come questo.
“No, ma ce n’è una che ti impone di svolgere il lavoro per il quale sei profumatamente pagato.”
“Facevo una pausa.”
“Alle nove e due minuti? Un po’ precoce.”
“Non venire a farmi i conti in tasca! Merda...” Esclama acido.
“E pensare che qui la guardia sono io. Ripeto, è la grandiosa autorità che ti sta di fianco quello che dovrebbe occuparsi dell’ordine di questa baracca. Quando sei fuori da quella gabbia di matti sono io il capo, Herr Doktor!”
Lo ignoro.
Dopo anni di condivisone forzata ho capito che ormai è questa l’unica strategia.
Cristo, proprio quando credevo di essermi sbarazzato di lui ecco che mi ripiomba tra le braccia come un pacco postale. Proprio qui dentro, poi!
“Maledetta sia la volta in cui ho acconsentito...” Gli ripeto, sperando di cacciarlo dalla mia vista, almeno per ora.
Lui mi batte una pacca sulla spalla.
“Eh, già.” Dice con aria trionfante.
“Nonostante tu prenda il doppio del mio stipendio e nonostante che nel corso degli anni tu sia diventato almeno quattro volte più ricco di me, io resto sempre il più gran figo della famiglia. Vero, Lud?”
Devo mantenere la calma.
Sono in un luogo in cui la calma è sacra. Esercito una professione dove la calma è il primo comandamento.
Devo. Stare. Calmo.
 
Intanto, siamo già di fronte alla porta blindata. Quella porta blindata.
Arresto il passo, bloccando lo sguardo sulla piccola ruota in acciaio inserita sulla parte sinistra. Il meccanismo di apertura è simile a quello di una cassaforte. Solo pochi, però, conoscono la combinazione.
Mi porto il pugno chiuso davanti alla bocca, dando un paio di colpi di tosse, sperando che Gilbert capisca che deve togliersi dalle palle.
Lui mi colpisce nuovamente la spalla.
“Beh, salutami il Paese delle Meraviglie. Io torno ad assicurarmi che il Bianconiglio non scappi di nuovo.”
Se ne va ridendo.
Idiota.
 
La porta è alta quanto tutto il corridoio. È pesantissima da aprire, devi afferrarla con entrambe le mani per aprirti uno spazio.
Inizio a girare meccanicamente la ruota, come tutti i santi giorni, pronto a riaffrontare quell’inferno.
Come. Tutti. I. Santi. Giorni.   

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


CAPITOLO 1

 

“Lo so che è una soluzione disperata .Ma...ma voglio provarci. Se questo servirà a riportarlo indietro, allora sono disposto anche a rimetterci io stesso.”

 
Èil rumore assordante dei freni che fanno presa sulle rotaie a svegliarmi. La carrozza si arresta bruscamente e io finisco con il naso schiacciato sul sedile davanti a me, che puzza di muffa e di vecchio. Mi stropiccio gli occhi, ancora assonnato, poi butto subito lo sguardo fuori dal finestrino appannato.
Il cielo è nuvoloso, di un triste colorito plumbeo.
Dietro di me le persone iniziano già a spopolare il vagone, spingendosi a vicenda per aggiudicarsi la prima boccata d’aria dopo un estenuante viaggio di sedici ore. Io continuo a guardare fuori e vedo già la signora con quel buffo cappello giallo, che era seduta di fianco a me, appoggiare i suoi bagagli sotto l’insegna blu della nostra destinazione: Berlino.
Sorrido allegramente, raccogliendo la valigia e mettendomi la borsa tascapane intorno al collo. Ho l’istinto di saltellare giù dai gradini del treno, tanto sono felice di essere arrivato, ma tutti questi tedeschi sembrano così seri e credo che potrebbero arrabbiarsi se facessi troppa confusione, così scendo con calma, schiacciato come una sardina dai loro corpi che urtano su di me, facendomi mancare il respiro. Non appena tocco terra poso la valigia, emettendo un profondo sospiro di liberazione.
Guardo attentamente i visi delle persone che vagano nella stazione. Cupi, seri, grigi come il cielo della loro capitale. Un po’ mi rattrista, sono sicuro che se solo qualcuno li abbracciasse anche solo una volta al giorno sarebbero tutti più felici.
Rimango fermo, di fianco al treno ancora sbuffante, e vicino a me passa il capostazione che fischia l’ultimo richiamo per i passeggeri ritardatari. Il suono acuto e assordante del fischietto non è nulla in confronto alla sua voce dura e secca, che sembra davvero fatta per impartire ordini. Credo abbia detto qualcosa come: Partenza, in carrozza! Ma non ne sono sicuro.
Rovisto tra le tasche della giacca e finalmente trovo il foglietto stropicciato su cui sono scritti i due indirizzi che mi ero prefissato di imparare a memoria. Ci ho provato, lo giuro, ma li ho scordati quasi subito. Il tedesco è una lingua così diversa dall’italiano e ho fatto una fatica immensa anche solo per imparare quelle poche frasi di estrema utilità.
 
Subito fuori dalla stazione fermo un taxi, agitando la mano per aria. Masticando un tedesco impacciato gli indico l’indirizzo dell’albergo e, incredibilmente, l’uomo mi capisce. Wow, faccio progressi!
Mentre percorriamo le grandi vie del centro di Berlino inizio già ad ispezionare il territorio in cerca della mia meta successiva. Appoggio il mento sulle braccia, incrociate sopra al bordo del finestrino che ho lasciato aperto per far entrare un po’ di aria, anche se fa freddo. Guardo le case schierate corrermi davanti con occhi malinconici.
Il pensiero di quel luogo mi rattrista, ma mi riempie anche di speranza.
Che strano... è possibile provare questi due sentimenti insieme?
 
La camera d’albergo è piccola, ma pulitissima. L’arredamento spartano è ridotto ai minimi termini. Tutto sommato non importa, d’altronde dovrò solo dormirci.
Mi massaggio la spalla indolenzita, come tutte le altre ossa, poi mi butto a pancia insù sopra al materasso, fasciato da una coperta rossa a quadri. Sembra un letto di nuvole rispetto ai sedili del treno. Chiudo le palpebre, desiderando di rimanere lì a dormire per sempre. Mille pensieri iniziano già a frullarmi nella testa e mi rendo conto, a malincuore, che non è il caso di starsene troppo a poltrire. Eppure quel letto è così soffice...
Senza alzarmi, riapro di nuovo il foglietto accartocciato, questa volta esercitandomi sulla pronuncia del secondo indirizzo, con il primo – quello dell’albergo - me la sono cavata discretamente.
Il nome dell’edificio mi sembra così difficile.
“Welt Klinischen.” Lo ripeto almeno cinque volte: voglio essere sicuro di arrivarci al più presto possibile e non è il caso di far sbagliare strada al tassista.
Mi rialzo dal materasso con un salto, poi inizio a frugare nella valigia abbandonata sul tappeto scarlatto di fianco al letto, in cerca di tutti i documenti necessari.
“Vediamo un po’... carta d’identità, passaporto, cartelle cliniche, visto d’ingresso. Ah, potrebbe essere utile anche il certificato di nascita!”
Infilo tutti i documenti nella tascapane.
I miei, ma soprattutto i suoi.
 

***

 
“Ho bisogno di vedere la sua documentazione.”
La guardia armata mi ha bloccato subito il passaggio. Lui e il suo collega sono irremovibili, fermi come statue di marmo davanti al grosso cancello in ferro nero della clinica. Sulla cima delle sbarre sono stati forgiati degli spuntoni, affilati come lance, che mettono i brividi solo a guardarli.
Vicino all’anta sinistra un uomo se ne sta acciambellato dentro ad una specie di torretta di guardia, osservando ogni mio minimo movimento. Sono tutti vestiti allo stesso modo, con delle divise bianche e larghe che mi ricordano quelle dei disinfestatori di topi. Sul taschino destro cucito sul petto ognuno di loro ha ricamato il proprio cognome, ma io non riesco a leggere nessuno dei due. Sotto le visiere dei cappelli bianchi, sempre facenti parte della divisa, i loro occhi mi squadrano e, anche se sono solo in due, io mi sento accerchiato. Forse è perché la loro arma è carica e mirata sul mio cuore.
Posso buttarmi a pancia all’aria?
La guardia che mi ha fermato mi tende la mano, dopo essersi sistemato il fucile dietro alla schiena. Il suo collega lo sta ancora imbracciando, puntandolo verso di me.
Il cuore inizia già a martellarmi dentro al petto e nemmeno il vento freddo di fine autunno riesce ad asciugarmi il sudore che sgorga dalla fronte.
Con mano tremante estraggo il visto e il documento di identità e glieli porgo. L’uomo, dopo averli sfogliati, arriccia il naso. Deve essere per via del mio nome.
“Feliciano Vargas?”
“S-sissignore.”
Lo ha pronunciato malissimo, ma non mi offendo.
“Ha il visto d’ingresso, Herr Vargas?”
“C-certo. Il passaporto e il visto sono sotto la carta d’identità.”
Lui apre il passaporto, facendolo vedere anche al suo compare, e i due si scambiano un cenno di assenso.
L’uomo che mi ha ispezionato mastica qualche parola in tedesco cattivo dentro alla radiolina. La risposta – un suono confuso e insabbiato – arriva in un battibaleno da quell’aggeggio, ma non ho afferrato niente del discorso.
“E cosa ci fa un turista come lei in questa zona di Berlino?” Mi chiede, poi.
“Veramente... non sono un turista. Io devo... devo far visita ad un parente ricoverato in questo ospedale.”
I due si guardano con aria scandalizzata.
“Visita?” Sbraita l’altra guardia, che ha finalmente abbassato l’arma.
“Questa è una zona ad alto rischio e pericolo, solo il personale autorizzato vi può accedere.”
“Ma... ma, veramente a me era stato detto che una volta all’anno si poteva entrare per far visita ai pazienti. Ecco, guardi...”
Estraggo un altro foglio su cui sono scritti articoli e leggi a me del tutto incomprensibili. È un documento vecchio, battuto a macchina, con qualche sbavatura d’inchiostro ai lati. Ma mi è stato detto che, se mi fossi presentato con quegli scarabocchi, allora sarei potuto entrare.
I due guardano quelle scritte con la mia stessa perplessità.
“La prego.” Imploro quasi piagnucolando.
Probabilmente devo avere un’aria pietosa, perché i due si ammorbidiscono. Uno di loro aggrotta la fronte.
“Se vuole, possiamo parlare direttamente con i dottori del Welt, o con la guardia interna. Non sapevamo nulla di questo giorno di visita, ma forse loro potranno aiutarvi, sono sicuramente più aggiornati di noi a riguardo.”
Sta addirittura parlando più lentamente, scandendo bene ogni singola parola.
Il mio viso s’illumina.
“Grazie, grazie! È davvero molto importante per me.”
“Attenda.”
Riprende in mano la radiolina ed ordina qualcosa che non capisco, sempre con quel tono duro come un pugno di ferro.
Dopo neanche due minuti, la gigantesca porta dell’ospedale bianco, a qualche centinaia di metri dall’enorme cancello, si apre e ne esce quella che sembrerebbe un’altra guardia. L’uomo, infatti, è tutto vestito di bianco. Il suono dei suoi passi si mescola al tintinnio del mazzo di chiavi che ha appeso alla cintura, affianco al fodero della pistola che avvolge l’arma. Nemmeno i suoi capelli d’argento riescono a brillare sotto quel cielo uggioso.
La strada sterrata che permette l’accesso all’ospedale è parecchio lunga e lui ci impiega parecchio per percorrerla, nonostante cammini a passo spedito, come un soldato. Quando finalmente giunge alla fine, si ferma con aria spavalda dietro il cancello che lo separa dai colleghi. Evidentemente non sono ancora sicuri di potermi far entrare, per questo non lo aprono.
Mi perfora subito con due occhi rossi come il fuoco, per poi squadrarmi con un sorriso sarcastico stampato sulla faccia.
“È lui?”
“Sì, insiste per voler entrare. Da quel che ho capito vorrebbe far visita ad un parente. Gli ho spiegato che la situazione non lo permette, ma...”
“Visita?!” Esclama l’uomo.
Sposta quegli occhi diabolici – o, almeno, così mi sembrano – sulla guardia che ha in mano i miei documenti.
“Ma qui nessuno riceve visite. Non è che ha sbagliato ospedale?”
“Non credo, mi ha dato questo foglio.”
L’uomo glielo passa attraverso le sbarre. La guardia vestita di bianco scorre le righe del documento, tanto prezioso per me, e inarca le sopracciglia facendosi sempre più dubbioso ad ogni parola che legge.
“Forse dovrei parlarne con mio frate... cioè, con il dottor Beilschmidt.”
“Ho il permesso di lasciarlo passare, comandante?”
“Sì, lo scorterò io dentro al Welt.”
Solleva lo sguardo dalla carta e poi me la restituisce, regalandomi un ghigno che mi fa gelare il sangue nelle vene.
“Non ha l’aria pericolosa.”
L’altro uomo di sorveglianza esterna annuisce, poi lancia un urlo secco alla torretta di guardia e, dopo che il tizio appollaiato in cima ha sollevato un pollice verso l’alto, il cancello si apre con un cigolio sinistro. La guardia bianca si fa da parte e volge il palmo della mano verso la clinica.
“Prego.” Ringhia, con tono per niente amichevole.
Mentre cammino sulla stradina sterrata il cuore mi si alleggerisce e riesco persino a sorridere. Certo, questo edificio mette davvero paura, non dà l’idea di un ospedale accogliente, ma ora non do molta importanza a questo particolare.
La struttura principale è bassa, deve avere un piano solo, ma è molto lunga. Chissà, forse avrà anche dei sotterranei.
La guardia, non appena arriviamo alla porta d’ingresso, inizia ad inserire diverse chiavi nelle serrature di forme e dimensioni diverse. Le gira una dopo l’altra con maestria, facendole scattare come molle. Io faccio un passo all’indietro, sollevando il naso al cielo, per farmi un’idea di quanto sia alta quella porta. Nel farlo, noto la vernice lattea delle mura, marchiata proprio sopra le nostre teste con una grande lettera H che ricopre tutta la facciata dell’edificio, dalla cima della porta fino al tetto.
Ricontrollo le cartelle cliniche che ho sotto il braccio.
Ospedale psichiatrico “Welt”, Berlino. Sezione H.
Non c’è dubbio. Il posto è questo.
Finalmente la gigantesca porta blindata si apre con un movimento lento e pesante. La guardia mi fa cenno di seguirlo.
“Venga con me, e non si allontani.”
Io obbedisco docilmente.
 
La parete del corridoio, come il soffitto e il pavimento, è spalmata di un’accecante vernice bianca, che crea un effetto quasi allucinogeno, riflettendo la luce sparata dalle violente lampade al neon, che scorrono come piante rampicanti sul soffitto. Dovunque svoltiamo, poi, è sempre possibile consultare un orologio a muro.
Superiamo un paio di porte chiuse, senza vetri, solo di legno, ma su tutte quante sono inchiodate delle targhette di ottone su cui sono scalfiti dei nomi lunghi e impronunciabili per me.
Finalmente ci fermiamo e la guardia bussa con insistenza sull’uscio di uno di quei tanti uffici. È esattamente uguale agli altri.
Almeno, questo è quello che penso.
Con un altro sforzo disumano, per uno come me, provo a leggere quel nome così complicato.
Doktor L. Beilschmidt.
La testa inizia a girarmi.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2

 

“Che strano, ho davvero l’impressione di averti già incontrato...”

 
Mi annoio sempre con il lavoro d’ufficio. Non è per stare chiuso tra quattro mura a compilare scartoffie che sono diventato medico. Tuttavia, non sono qui solo per curare, ma anche per studiare. Di pomeriggio, però, questo posto è così barboso.
Sbadiglio, posando la penna sul foglio e incrociando le braccia dietro al collo. Il mio lamento si innalza come una preghiera, che viene prontamente eseguita, anche se diversamente da quello che vorrei.
La voce di Gilbert spacca il silenzio ancor prima del colpo delle sue nocche sulla porta.
“Ohi, Dottor Beilschmidt! Abbiamo visite.”
Io inarco un sopracciglio.
Apre la porta senza troppa delicatezza, non dandomi nemmeno il tempo di realizzare quell’assurdità - visite? -,  e mi cerca con lo sguardo, trovandomi sepolto tra le cartelle cliniche ammucchiate sulla scrivania.
“Ludwig...” Ripete, e io continuo a guardarlo con un’espressione contorta. Proprio non gli riesce di serbare un minimo di rispetto? Poi si fa da parte, e io mi sento svenire.
Con il pollice indica qualcosa alle sue spalle. La stanza inizia a girare in un vortice di scintille colorate, ma viaggiano così velocemente da sembrare bianche. Si stringono, accerchiando quel qualcosa dietro a Gilbert.
“... credo che questo ragazzo abbia bisogno di scambiare quattro chiacchiere con te.”
Non è possibile.Ripeto a me stesso.
Sbianco in volto, spingendo all’indietro la poltrona a rotelle. Il cigolio delle ruote sul pavimento è l’ultimo rumore che percepisco.
Le scintille... le scintille... le scintille lo imprigionano.
Il ragazzo spunta con aria timida da dietro la schiena di Gilbert, con una mano appoggiata sotto la bocca, poi mi sfiora con lo sguardo lucido e vacillante, la testa piegata di lato. Ha una tale espressione da ebete stampata in faccia che verrebbe voglia di prenderlo a schiaffi. Ma non posso: non riesco a scrollare le mano dal bracciolo della poltrona, trema troppo.
Non è possibile... il viso... i capelli... anche il ciuffo!
Gilbert mi si avvicina, ma lo vedo arrivare solo con la coda dell’occhio. Il mio sguardo è irremovibile, e credo di aver abbassato il labbro inferiore, restando a bocca spalancata.
Lui mi schiocca un paio di volte le dita davanti agli occhi, ma io vedo solo una macchia sfocata.
“Ohi, dottore? Ludwig, svegliati!”
Appoggio la lingua al palato, con la speranza di trovarci almeno una goccia di saliva per inumidirla.
“Ma... ma tu...” Balbetto con voce impastata. “... che cosa ci fai qui fuori?”
Sono impietrito sulla sedia come se mi avessero sparato una scarica elettrica dritta nel cranio.
Il ragazzo piega la testa dall’altro lato, accentuando quella ridicola espressione da bradipo.
Ora che ci penso, però...
“Eh? Ci siamo già incontrati?” Mi chiede, e a questo punto lo sciame di luci si spegne, ammosciandosi sul pavimento per poi sparire una volta toccata terra. Come le stelle filanti il giorno di capodanno. Piego il collo in avanti, sperando di metterlo più a fuoco, ora che il vortice si è placato.
Gilbert non si lascia sfuggire l’occasione per prendermi per il culo, così inizia a battermi la schiena. Sento le costole vibrare.
“Wahah, ma che ti sei fumato, Lud? Oppure hai esagerato con la birra? Ahahah, ora dovrò farti un bell’ammonimento per averti beccato a bere sul posto di lavoro e...”
“Chiudi quella fogna, Gilbert!”
Torno lucido, finalmente, e mi alzo in piedi, spingendo Gilbert lontano dalla mia vista.
Ora è il ragazzo a tremare, facendosi scudo con le braccia.
“Tu...” Gli punto l’indice addosso. “...come hai fatto a uscire? Oppure sei entrato? Oppure tu...?”
“Rilassati, Ludwig, è tutto sotto controllo.” Cerca di rassicurarmi Gilbert, lisciandosi la divisa.
“È entrato insieme a me, lui è un... turista. Volevamo appunto parlarti di questo prima che tu cadessi in trans. L’ho sempre detto che ti fa male passare tutto il giorno con questi...”
Turista?!” Ripeto con tono scandalizzato.
Mi schiarisco la voce, passandomi una mano tra i capelli. Quando la ritiro è madida di sudore e le do una strofinata sul camice.
“Qui non si ricevono turisti, non è uno zoo.”
“Ah, ehm, lo so. Cioè... è quello che mi hanno detto le guardie qui fuori, però...”
Inizia a trafficare dentro alla borsa che gli pende dal collo.
Ha uno strano accento, e parla un tedesco davvero impacciato.
Mi porge con le mani umidicce dall’agitazione un foglio mezzo sciupato e sporco d’inchiostro.
“Io dovrei... incontrare mio fratello. È un vostro paziente.”
Prendo in mano il foglio senza nemmeno guardarlo. Non riesco a scollargli gli occhi di dosso.
“Fratello?!”
Spalanco palpebre e bocca. Il peso sul petto mi si scioglie come un pezzo di ghiaccio sotto il sole.
“Ora ho capito!” Esclamo, forse a voce troppo alta, posandomi una mano sul mento e il mio viso finalmente si distende.
Ignoro ancora la scartoffia che mi ha affidato il ragazzo e mi volto, spalancando il cassetto dell’armadio in acciaio – il quinto a partire dal basso – dove conservo le cartelle cliniche. È un gesto improvviso, quasi violento, quello con cui tiro la maniglia, incastrandoci le dita. Le vite dei miei pazienti scorrono tra i miei polpastrelli con movimenti fulminei.
“...Kirkland... Jones... ah, ecco!”
Sollevo una cartellina gialla con aria soddisfatta , mostrandola sia al ragazzo che a Gilbert.
“Lovino Vargas. Ecco dove ti ho già visto.”
La appoggio sulla scrivania e lei diventa una macchia gialla in un mare bianco.
Mi siedo nuovamente sulla poltrona girevole, appoggiando il mento sulle mani incrociate. Rilasso i muscoli del viso, distendendo le labbra in un leggero sorriso.
“Questo spiga tutto. Dovete essere gemelli, voi due, dico bene? Sei davvero sputato a lui, forse tranne che per...”
Lo guardo meglio, adesso, con occhi diversi, meno angosciati. Lui sembra ancora disorientato e spaventato. Un cerbiatto in mezzo alle tigri. Ora sono davvero sicuro che quello non sia Lovino Vargas.
“... tranne che per lo sguardo.” Procedo. “I tuoi capelli sono più chiari, poi. E quel... ciuffo... a tuo fratello spunta dalla parte opposta, dico bene?”
Lui tenta un accenno di sorriso, ma sembra sinceramente sorpreso da tutte quelle informazioni che ho saputo fornirgli.
“Sembra che lei lo conosca davvero bene.” Mi rivela con un tono che non ha nulla di sarcastico, giocherellando con le dita.
Io annuisco.
“Infatti, è uno dei pazienti più esigenti, qui al Welt. Dà un sacco di problemi. Proprio questa mattina l’ho messo sotto sedativi, oggi aveva una giornata particolarmente storta.”
Il ragazzo si porta una mano vicino alla bocca, riassumendo quell’aria spaventata da cerbiatto ferito.
“Eh? Sedato? Lui è stato molto...”
“Tornando a noi, Ludwig...” Si intromette Gilbert.
Proprio non gli và giù il fatto di non essere al centro dell’attenzione per qualche minuto. È più forte di lui, ormai non lo biasimo nemmeno più.
“Lui è il signor... Feliciano Vargas. Il passaporto dovrebbe essere in regola, l’ho controllato io stesso. Solo per noi direttamente dalla Repubblica Italiana!” Dice, indicandolo con un gesto di capo.
Non me ne intendo di italiano, ma credo abbia pronunciato malissimo il suo nome.
“E, appunto, è qui per far visita al fratello. Sì, so quello che stai per dirmi: non si può, non è possibile, è impensabile... ma ti consiglio di dare un’occhiata a quella paginetta.”
Ah, il foglio che mi ha dato! Me n’ero totalmente scordato.
Abbasso gli occhi, ma quello che vedo non mi piace per niente. Tutti e due rimangono in silenzio, e Vargas mi fissa come aspettandosi un miracolo da me. È molto probabile che non abbia capito un accidente di tutti quei vecchi commi e articoli scritti lì, e io sono l’unico su cui può fare affidamento per tradurli. In pochi secondi mi sono già fatto un’idea della situazione, scorrendo quelle righe fitte e nere impresse sulla carta sbiadita.
Mi schiarisco la voce.
“Capisco, queste leggi sono molto chiare. Un giorno solo, eh? Tuttavia, in quel singolo giorno a disposizione, il paziente ha diritto di ricevere la visita di un solo parente o amico. E qui dice, inoltre, che la visita dovrà essere sorvegliata da almeno un membro facente parte del personale autorizzato, e l’incontro non potrà durare più di un’ora. Capisco, capisco...”
Mi massaggio le palpebre.
Sì, capisco... ma preferirei non farlo.
“Che facciamo, Ludwig?” Mi domanda Gilbert con tono neutro, a braccia incrociate.
Io sospiro. È l’unica cosa che riesco a fare davanti a questa gatta da pelare.
“Le leggi sono leggi. Herr Vargas ha diritto ad una visita e noi dobbiamo fare in modo che questo diritto venga rispettato.”
“Ma... ma non era mai successo. E se fosse solo una balla? Se quelle scartoffie non fossero altro che un falso abilmente messo insieme da lui per fregarci come polli?”
Con un pollice piegato di lato indica Feliciano, che ha giunto le mani davanti al petto come in segno di preghiera. Anche io lo guardo, e inarco le sopracciglia.
Un falso abilmente messo insieme da questo tizio? Oh, andiamo, Gilbert, ma lo hai visto?!
La mia professionalità mi impedisce di urlarglielo, ma è sempre la mia professionalità che mi costringe a fare un’altra cosa.
“Gilbert, questo documento è autentico, ha tutti i timbri e le firme necessarie. Se questa legge non è mai stata messa in pratica, qui al Welt, è solo perché nessuno ha mai sentito il bisogno di farla valere. È triste da dire, ma è questa la verità.”
Feliciano si rattrista. Non so quanto possa aver capito del mio discorso, ma sembra che il succo gli sia arrivato.
“Nessuno è mai venuto a visitare i pazienti? È bruttissimo...”
Giuro che se scoppia a piangere lo sparo fuori dalla finestra a calci.
Che razza di tipo...
Per fortuna riesce a trattenere le lacrime.
“Lei non deve preoccuparsi di niente, Herr Vargas.” Cerco di rassicurarlo. “Per quanto ci possa sembrare assurda come richiesta, non sarò di certo io ad andare contro le regole di questa clinica.”
“Ah, che bello! Posso davvero vedere mio fratello?”
Ma che fa? Ora ride come un bambino di cinque anni? Probabilmente anche lui avrebbe bisogno di una bella lobotomia. Tuttavia...
Mi volto per nascondere il rossore. Quel suo viso raggiante è così... insolito.
“Certo. Ovviamente, dovrà essere sotto la mia sorveglianza.” Farfuglio.
I neuroni di Gilbert scattano come molle.
“Dovrò venire anche io? Sembra divertente!” Dice, strabuzzando gli occhi.
“No, io basto e avanzo, Gilbert. Tu stattene al tuo posto.” Lo blocco subito.
Con la sua presenza potrebbero verificarsi situazioni alquanto ingestibili.
“Come ho già detto prima, Lovino Vargas è stato sedato proprio questa mattina. Ora è cosciente ma dovrebbe essere relativamente innocuo. Ah, un’ultima cosa...”
Mi volto, riprendendo a guadare Feliciano negli occhi. Ogni minimo segno di imbarazzo è andato a farsi benedire. Sono un professionista, diamine...
“... lei potrà avere un contatto solo di tipo visivo e verbale, capito? Niente baci, o abbracci, o qualsiasi cosa facciate per dimostrarvi affetto, chiaro?”
Sono un po’ rude, e lui abbassa gli occhi, avvilito.
“Sì, ho capito.” Mormora.
Io annuisco.
“Bene, allora mi segua, Herr Vargas. La scorto io.”
“Eh, e io che faccio?” Sbraita Gilbert, indicando se stesso con la punta dell’indice.
Io lo fulmino.
“Tu tornatene al tuo lavoro, altrimenti giuro che rinchiudo pure te.”
Perché devo subirmi questo ogni giorno? Merda... eppure è lui il fratello maggiore.
 

***

 
La guardia vestita di bianco chiama il dottore con quel nome così lungo e complicato sempre Ludwig. Chissà se potrebbe offendersi se anche io lo chiamassi in quel modo? Il suo cognome è così difficile.
La guardia, che il dottore chiama Gilbert, se ne va con aria imbronciata, con le mani affondate nelle tasche. Mi sembra quasi offeso.
Io e il dottor Ludwig prendiamo tutt’altra direzione, verso la fine di quel corridoio così bianco e deserto.
“Mi segua.” Mi dice lui.
Pronunciato in tedesco sembra quasi che mi stia impartendo un ordine. Io obbedisco.
Il rumore dei nostri passi rimbalza malinconico tra le pareti spoglie. Tutto il resto tace. Io odio il silenzio, meglio rimediare!
“Ehm, dottor Ludwig...”
“Beilschmidt.”
“Bei... Biels... Belsh...”
“Non fa niente. Cosa vuole chiedermi?”
Non lo faccio apposta. Abbasso lo sguardo, vergognandomi della mia incapacità.
“Ho notato... che non c’è nessuno in questo ospedale, oltre a lei e alla guardia vestita di bianco.”
“Si sbaglia. Il nostro stuff comprende medici e infermieri che hanno ottenuto i massimi riconoscimenti nel loro campo.”
“Ma... ma qui non c’è nessuno. Sembra deserto.”
“È vero. Nel nostro lavoro non è necessaria la socializzazione tra il personale. Il Welt è una clinica particolare, se non se ne fosse già accorto.”
“Ah, sì, lo so.”
Non sono pienamente sincero nella mia risposta. Dal primo momento in cui ho messo piede qua dentro è come se la mia mente e il mio corpo fossero stati invasi da brividi, facendomi accapponare la pelle.
Mi stringo le spalle, sperando di trovare conforto in questo abbraccio solitario.
C’è qualcosa che non va in questo ospedale.
“Quindi... lei non si incontra mai con i suoi colleghi?” Chiedo di nuovo al dottore.
So che potrei sembrare invadente, ma parlare con qualcuno è l’unico sollievo che posso trarre da questa situazione.
“Di rado.” Mi risponde con tono freddo. “Anzi, ora che mici fa pensare, incrocio di tanto in tanto qualche infermiera che, tuttavia, non mi ha mai assistito durante le visite o le sedute di cura. Per il resto, ho contatti solo con Gilb... cioè, con il comandante Beilschmidt perche lui è il responsabile dell’edificio H. Nemmeno lui, tuttavia, ha mai avuto a che fare con altre guardie.”
“Ma se è un posto che dovrebbe essere sorvegliato al massimo, come mai c’è una sola guardia per edificio?”
Lui si ferma, guardandomi con aria spaesata. E non la smette di fissarmi. Il bianco dei suoi occhi luccica, abbagliato dal riverbero delle lampade.
“Ma è ovvio... occorrono poche guardie proprio perché è impossibile eludere il sistema di sicurezza. È praticamente impensabile scappare o entrare nelle celle senza le chiavi, sarebbero necessari attrezzi da scassinatori fin troppo difficili da reperire. La struttura è già invalicabile di per sé, e arruolare altri dipendenti sarebbe solo uno spreco di fondi. ”
“Ah, certo, ora ho capito!” Esclamo, sorridendogli.
Cavoli, il dottor Ludwig è proprio intelligente, ora capisco perché lo hanno messo a lavorare in questo ospedale.
 

Ma c’è cascato sul serio? È solo ingenuo, oppure è un idiota totale?

 
“È proprio così...” Continua il dottore. “Infatti, quando sono stato assunto, ho fatto il colloquio solo con il direttore generale e mi era stato detto fin da subito che avrei dovuto contare solo sulle mie forze. Non ho mai visto nessuno da allora, ma i compiti sono sempre stati eseguiti da tutto il personale. Per esempio, non vede quanto è pulito qui? Eppure non ha visto passare alcun inserviente, giusto?”
“Ehm, no, non ne ho visto nessuno.” Rispondo docilmente.
Il dottore scuote la testa.
“Nemmeno io. Quell’uomo non si è mai fatto vedere, eppure ogni giorno le tazze sono pulite, le lenzuola sono lavate e i pavimenti sono più lucidi degli specchi di un palazzo reale. Le basta come prova?”
“Io... credo di sì.”
Non saprei aggiungere altro. Il posto è davvero strano e agghiacciante, ma il dottore sembra davvero sicuro di quel che dice.
 

Tsk, ci mancava solo l’italiano tontolone che arriva a mettermi la pulce nell’orecchio...

 
“Ehm, c’è un’altra cosa di cui volevo parlarle, dottore.” Gli rivelo, mentre continuiamo a percorrere il corridoio. Inizio già a chiedermi quanto tempo ci voglia prima che termini questa esasperante camminata in mezzo al nulla.
“Io sono venuto qui anche per sapere quando... quando potrò portare a casa mio fratello.”
Il dottor Ludwig non mi risponde subito, ma continua imperterrito a camminare.
“Difficile a dirsi, molto difficile.” Mi risponde finalmente, ma le sue parole mi arrivano come una secchiata di pietre.
Tento di incrociare il suo sguardo.
“Non... non può venire con me subito?” Gli chiedo con occhi lucidi.
Il dottore interrompe il mio piagnucolio.
Herr Vargas...”
Lui abbassa il capo verso di me, senza interrompere la marcia.
“Lei è consapevole dello stato in cui si trova suo fratello?”
Io ci penso su, poi scuoto la testa.
“Non esattamente. È stato nostro nonno a decidere di mandarlo qui per curarsi. Secondo me non era neppure malato. È solo successo un incidente, credo, con...”
“Sbaglia, Herr Vargas. Suo fratello è, al contrario di quello che pensa, uno dei casi più complicati, intrattabili e peggio gestibili di tutta la clinica.”
Ludwig parla con le mani giunte dietro alla schiena, con aria da grande perito. Chiunque si fiderebbe delle sue parole, anche se fanno molto male come in questo momento.
“Ci vorrà parecchio prima che io riesca a curarlo. Premesso che sia possibile farlo, visto che rifiuta qualsiasi tipo di aiuto.”
“Ah, ma lui è sempre stato così.” Gli svelo con un sorriso.
Mi viene quasi da ridere, ripensando a quando vivevamo insieme in Italia.
“Si è sempre comportato in quel modo con tutti. Ma non è davvero una persona cattiva. In fondo, lui...”
“È malato, Herr Vargas.” Mi gela le parole in bocca con una sola frase.
Socchiude gli occhi, marciando a testa alta davanti a sé.
“Lovino Vargas soffre di una grave forma di isteria, non sono capricci infantili di un ragazzo un po’ scorbutico, qui c’è in gioco la sua psiche più profonda. È un individuo pericoloso sia per gli altri che per se stesso e sarebbe un’incoscienza lasciarlo a piede libero.”
Io mi rattristo di nuovo, e abbasso lo sguardo, non sapendo come rispondere, quasi sentendomi in colpa per i problemi che causa mio fratello.
“Quindi...” Balbetto dopo attimi di silenzio.
“Io... potrò rivederlo solo tra un anno?”
“Esatto, Herr Vargas.”
“E se... se venissi solo a portare del cibo di mese in mese a lei, dottore, glielo consegnerebbe da parte mia?”
“No, non mi è concesso farlo. Si ricorda? Non è permesso alcun contatto con l’esterno tranne che per un giorno. Senza contare il fatto che...”
Riposa i suoi occhi di ghiaccio su di me.
“... la dieta qui è ferrea, ne va della salute dei pazienti.”
Io ci rimango male.
Inizio a giocherellare con le dita, intrecciandole e annodandole.
“È davvero un peccato.” Piagnucolo. “Sono sicuro che si sarebbe sentito di sicuro meglio.”
“Con tutto il rispetto, Herr Vargas, sono certo del fatto che non sia la pasta, o la pizza, o qualunque cosa voi mangiate a casa vostra, che fa guarire i malati.”
Sospiro, sconsolato.
Io, invece, sono sicuro che non l’ha mai assaggiata in tutta la sua vita. Se lo avesse fatto, non direbbe queste cose.
Sto appunto per dirglielo, quando finalmente il corridoio si interrompe.
“Eccoci.” Dice il dottore. “Ora stia vicino a me e non tocchi niente. È la prima volta che sorveglio una... visita, ma tutto dipende dal suo comportamento, chiaro?”
Io annuisco, non capendo cosa possa esserci di così terribile. Devo solo vedere mio fratello, chiedergli come si sente e dargli conforto.
Cosa potrà mai esserci di così pericoloso in questo posto?
 

***

 
Il bianco mi invade.
Ho sperato invano in un cambio di colore, magari qualcosa di più allegro. Invece, ormai, ho tristemente capito che nel Welt il bianco ragna sovrano. Provo a far finta che sia copertura di mozzarella per tirarmi su il morale, ma non serve a nulla.
Quel bianco è solo luce morta.
Il dottor Ludwig  richiude la porta blindata, che mi ricorda quella di una cassaforte, dietro di sé e ricomincia a camminare con passo sicuro.
Questo posto mi fa paura e quando inizio a tremare come una foglia, fissando le pareti nivee come se volessero inghiottirmi, lui se ne accorge subito.
“Tutto bene, Herr Vargas?” Mi chiede.
Io annuisco debolmente, cercando di distrarmi.
“Ehm, c’è... molto silenzio, qui.” Farfuglio.
Lui, invece, è sicuro e serio come al solito.
“Certo. Tutte le celle sono insonorizzate, è per mantenere la quiete generale, altrimenti, nel peggiore dei casi, sembrerebbe di star dentro ad una gabbia di scimmie. In questo modo i pazienti non hanno la possibilità di aizzarsi a vicenda.”
“C-capisco.”
Accelero il passo, guardandomi intorno.
La porta di ogni cella ha lo stesso sistema di ingranaggi della porta principale, ma su queste ci hanno marchiato dei numeri con la vernice nera. Ogni stanza è parecchio distanziata dalle altre, così non riesco a capire quante siano realmente, né tantomeno a vedere la fine del corridoio.
“Quante persone ci sono qui dentro?”
“Otto.”
Risposta fredda, secca, quasi brutale. Io rimango stupito.
“Così pochi?!” Esclamo, disubbidendo alla regola della quiete generale, ma Ludwig non si lamenta.
“Sono pazienti... speciali, Herr Vargas.” Mi risponde con naturalezza. “Solo il Welt dispone della competenza adatta per prendersene cura.”
Questa frase dovrebbe rallegrarmi. Dovrei ritenermi fortunato nel sapere che mio fratello si trova nella struttura più efficiente al mondo. Lui è al sicuro, al Welt. Però, non riesco ancora a scrollarmi di dosso questo disagio, e questa pelle d’oca. Il dottor Ludwig deve avere una mente di ferro per resistere in un posto del genere tutto il giorno.
Camminiamo spediti tra i numeri, quelli dispari alla mia sinistra, quelli pari alla mia destra.
Tre... quattro...
“Eccoci.”
Cinque.
Ludwig si ferma davanti alla porta metallica, candida come un fiocco di neve, che è stata sporcata da quel numero cubitale che ora dovrebbe essere il nuovo nome di Lovino.
“Cella numero cinque. Lovino Vargas.”
Da come li ha pronunciati il dottore, sembrano più i dati di un carcerato in prigione che quelli di un malato in clinica.
Ricomincia di nuovo quel gioco di chiavi, combinazioni e ingranaggi. Deve essere davvero difficile ricordarsi tutto il procedimento. Io non ci riuscirei mai.
“Un momento...” Intervengo io, e Ludwig si ferma a guardarmi.
“Pensavo che avrei potuto solo vederlo da lontano. Se lei mi apre la porta, lui...”
“Non si preoccupi per questo.” Mi rassicura Ludwig. “È al sicuro, glielo posso garantire. Le nostre celle sono speciali esattamente come i pazienti.”
Gira l’ultima chiave, l’ultima molla scatta. Spinge quella pesante anta in acciaio ed io sento balzarmi il cuore in gola.
Lovino...
“Stia a vedere.” Mi invita Ludwig, ed io aguzzo lo sguardo, di nuovo aggredito dal bianco.
Tanto bianco... tanto bianco... solo bianco. Bianco... bianco... bianco e...
“Lovino!”
Tutta la tensione si scioglie in quel mio grido.
Fratello...
 
Gli occhi mi si gonfiano di lacrime, e sono pesantissime da trattenere. Chiudo le palpebre per rischiarire la vista appannata e due grosse gocce, grandi come perle, rotolano giù dalle mie guance. Non riesco ancora a capire se sia gioia o dolore.
Gioia, mio fratello. Lo rivedo dopo anni. E il dolore, perché Lovino ora, al mio sguardo, non è altro che un giocattolo rotto gettato nella spazzatura. È stato abbandonato, e io non ho fatto nulla per impedirlo.
Mi porto le mani davanti alla bocca e sento scivolare le lacrime tiepide tra le dita.
“Lovino...” Riesco a sussurrare tra i singhiozzi.
È voltato di schiena, disteso sulla branda, senza coperta, il materasso è rivestito solo da un lenzuolo bianco. Ha la testa appoggiata su un basso e rigido cuscino, rivolta verso il muro. Poi, la gira verso di me.
“Lovino!” Esclamo più forte, e sembra che il mio incitamento funzioni, perché ora è riuscito persino a voltare le spalle.
Devo cercare di farmi sentire, non credevo che sarebbe stato in grado di udirmi perché, tra me e lui, si erge una spessa barriera trasparente che arriva fino al muro. Potrebbe essere vetro, o plastica molto grossa. Sento il forte istinto di andare ad appoggiarci le mani ed urlare a squarciagola il nome di mio fratello, ma devo ricordarmi l’ammonimento di Ludwig.
Lovino non ha nemmeno aperto gli occhi, cerchiati da due pesanti occhiaie nere e intorpiditi dalla sedazione, che il dottore mi è subito affianco.
“Ha visto? Non c’è nulla da temere, è una stanza nella stanza. In questo modo sono in grado di visitarli senza doverli prelevare dalla loro cella e, quando devo somministrargli delle cure, basta che io prema questo pulsante...”
Mi indica un piccolo bottone rosso sulla parete vicino alla porta, coperto e protetto da un coperchio di plastica.
“... e la barriera si abbassa, dandomi tutto il tempo di chiudere la porta d’accesso, per non rischiare che qualcuno scappi. Ovviamente mi porto sempre dietro una ricetrasmittente così, nel caso dovessi essere costretto a rinchiudermi qua dentro con uno di loro, avrei sempre la possibilità di contattare la guardia.”
Riprendo a guardare Lovino, anche lui vestito di bianco. Vesti larghe, ma stirate a regola d’arte, che si confondono con la sua carnagione, lattea, che non incontra i raggi del sole da troppo tempo. Socchiude le palpebre e due occhi stanchi, offuscati e spenti, puntano verso di me.
“Feli... Felician...o.” La sua voce è un tremolio.
Io mio strofino la faccia, asciugandomi le lacrime con la manica della giacca e gli sorrido.
“Sì, sono io, Lovino. Sono venuto a trovarti.”
Inconsciamente sto parlando in italiano. Spero che Ludwig non si offenda, ma non mi sembra particolarmente interessato. Si è messo sull’attenti, con le mani dietro alla schiena, sull’uscio della cella, dando le spalle a me e a Lovino. Sembra proprio un soldato, visto da dietro, anche se indossa il camice.
Io mi avvicino con cautela alla teca, sperando che anche Lovino riesca a raccogliere le forze per arrivarci.
Allineati perfettamente su un asse orizzontale ci sono cinque file parallele di fori grandi quanto una moneta. Probabilmente servono per il passaggio dell’aria, anche perché non c’è nemmeno una finestra. Solo quel misero letto, in un angolo di quella stanza fastidiosamente bianca.
“Ce la fai ad alzarti?” Gli domando, anche se so che è stordito dagli psicofarmaci e potrebbe risultare difficile per lui anche solo sollevare un braccio.
Piego la testa di lato, in attesa di una risposta.
Lovino emette gemiti confusi e tra di essi riesco di nuovo a distinguere il mio nome. Poi, come se avesse realizzato solo ora la situazione, spalanca gli occhi, piegando all’ingiù un angolo della bocca.
“Feliciano!” Grugna tra i denti e si precipita in un lampo davanti a me, macinando quel poco terreno come una furia. Pesta le mani sulla barriera, che emette un tonfo sordo.
Io arretro di un passo, spaventato, e anche Ludwig si gira a guardare. Lovino è di nuovo in sé, nonostante la sedazione. I capelli spettinati gli si sono appiccicati alle guance e alla fronte imperlata di sudore. Soffia come un toro, dilaniandomi con due occhi spaventosi, ancora spenti come i primi che ho incrociato, ma più arrabbiati. Le pupille sono quasi inesistenti dentro all’iride, diventata piccola come una capocchia di spillo.
“Che cazzo stai facendo, Feliciano?! Tirami fuori di qui, bastardo!” Mi urla, ma il suono mi arriva ovattato a causa della parete divisoria.
Io vorrei piangere di nuovo. Come posso fargli capire che deve rimanere?
“Lovino, non posso portarti via, ma il dottor Ludwig ha detto che possiamo stare insieme per un’ora...”
Cosa?! Ma che cazzo stai dicendo?! Ora fai accordi con quel bastardo tedesco mangia patate? Fatti dare le chiavi da quel figlio di puttana e liberami!”
“Lovino... io non...”
Mi si stringe il cuore nel vederlo ridotto in quegli stati. Non è giusto...
Nemmeno lui si merita questo.
Ludwig mi appoggia una mano sulla spalla, mentre mio fratello continua a sbraitare e a battere sul vetro.
“All’inizio ero scettico nel farla entrare qui...”
“Vi ammazzo, bastardi! Vi strangolo tutti e due!” Continua il turpiloquio di Lovino.
“... tuttavia, quando mi ha rivelato il suo desiderio di portarlo a casa, ho capito che farglielo vedere di persona era la cosa più giusta.”
“È un complotto contro di me, figli di puttana?! Svegliati, Feliciano! Sei mio fratello, tirami fuori di qui, cazzo!”
“Ora capisce perché è pericoloso che giri a ruota libera? Consideri che c’è ancora del sedativo nel suo corpo.”
Io guardo prima Ludwig, con gli angoli delle palpebre che bruciano come i fuoco, poi Lovino e le lacrime sgorgano copiose.
“Sì, io ho... capito.” Rispondo con voce tremante.
Ludwig annuisce.
“Bene, suppongo che possiamo anche finirla qua.”
“S-sì... finiamola qua.” Dico con tono avvilito e sconsolato.
Mentre Lovino continua a imprecare assurdità contro di me e contro il dottore, io e Ludwig usciamo dalla stanza. Io ho il capo abbassato. Avrei voluto stare di più assieme a lui, ma mi fa troppo male starlo a guardare.
 

***

 
“Spero che abbia compreso la mia situazione, e che si sia messo nei miei panni, Herr Vargas.
Feliciano abbassa gli occhi, nascondendo il tremolio del labbro con il palmo della mano. Ha davvero l’aria di un cucciolo spaurito, ma non sono tipo da farmi intenerire così facilmente.
Lui annuisce.
“Sì, ho capito ma, proprio per questo...”
Si toglie le mani da davanti la bocca ed alza lo sguardo, che si incontra col mio.
“... per questo ho deciso che, se lui non può uscire di qua, allora sarò io a rimanergli accanto.”
“Cosa?!” Esclamo, scandalizzato.
Inizio a camminare verso l’uscita, passando di nuovo davanti alle celle silenziose come tombe, per invitarlo a fare altrettanto.
“Le ho già spiegato, Herr Vargas, che anche se lei rimanesse a vivere a Berlino non potrebbe comunque...”
“Non intendevo qui a Berlino, io desidero rimanere qui al Welt.”
Lo guardo con aria sconcertata, mai mi era capitata di sentire una simile follia, nonostante il mio lavoro consista proprio in questo. Lui, però, sembra serissimo. È la prima volta che gli vedo impressa un’espressione così tenace da quando è qui.
“Vuole scherzare? Ha intenzione di farsi rinchiudere?”
“A voi manca un inserviente, giusto?” Mi chiede e, capendo dove vuole arrivare, non so come rispondergli.
“Ecco...” Comincio borbottando, grattandomi la nuca. “... non ho detto che non ci sia, ma solo che non si vede. I suoi compiti, infatti, sono sempre svolti con perizia e non posso lamentarmi. Il personale non ci manca, senza contare che sarebbe una notevole spesa, doverci occupare del suo salario.”
“Ah, ma non mi interessa essere pagato!” Mi interrompe, rincominciando a piagnucolare.
“A me basta sapere che mio fratello è vicino a me.”
Emetto un profondo sospiro e tutti e due stiamo in silenzio mentre richiudo la porta blindata alle mie spalle. Quando ho finito e sto per incamminarmi verso l’ufficio, lui mi blocca nuovamente, afferrandomi una manica del camice con un gesto triste, senza traccia di violenza.
“La prego, dottor Ludwig...”
Ma è davvero così difficile, il mio cognome?
“... lei e la guardia vestita di bianco avete lo stesso lungo e difficile cognome, vero?”
La sua domanda mi coglie di sorpresa e io ho un attimo di esitazione.
“Anche lei sa cosa significa avere un fratello.”
Mi guarda fisso con due occhi lucidi e gonfi. Uno sguardo che ti spezza il cuore.
“Ora sono io a chiederle di mettersi nei miei panni, dottor Ludwig.”
Inarco le sopracciglia, e credo di aver assunto un’espressione pietosa. Per nulla professionale.
“Io... vorrei anche aiutarla, Herr Vargas.” Mi giustifico, tentando di celare il mio cedimento.
“Ma delle assunzioni se ne occupa solo il direttore generale, non dipende da me.”
Feliciano abbassa il capo, con aria da cane bastonato.
“Capisco...” Sussurra, e tempo che stia per rimettersi a piangere.
Dio... non resisto. Non ho ancora capito se voglio picchiarlo o consolarlo.
“Tuttavia, Herr Vargas...” Dico, dopo aver dato un colpo di tosse.
Credo di aver riacceso un barlume di luce in lui, perché alza la testa di scatto, quasi sperando in un miracolo.
“... posso sempre telefonare e chiedere di prenotare un colloquio di lavoro per lei.”
“Eeh? Davvero? È meraviglioso!” Esclama raggiante. Questi suoi sbalzi d’umore sono fastidiosamente imprevedibili.
Mi schiarisco nuovamente la voce.
È solo per il bene del Welt, non sto facendo alcun tipo di favoritismo.
“Mi segua, provo a fare una telefonata.”
“Ah, certo! Grazie, grazie mille, dottor Ludwig!”
Mi rincorre quasi saltellando. Non ha ancora capito che questo non è il paese dei balocchi.
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3

 

Chi sei?

 
“Ma, direttore, sta dicendo sul serio?” Esclamo con la bocca quasi incollata alla cornetta del telefono.
Mi inumidisco le labbra, in attesa di un risposta.
“Ma certo, un inserviente in più non può che giovare alle condizioni del Welt. Non farti tutti questi problemi, Beilschmidt.” Risponde la voce mielata del direttore generale attraverso i fori.
Rimango in silenzio, osservando il telefono, come aspettandomi di incrociare il suo sguardo.
“E ricorda...” Continua lui con voce incalzante. “...va bene così. Lascia che pure che lavori per noi.”
“C-certo, direttore Edlestein. Se lei ordina questo...”
“Bravo.” Si complimenta lui, senza troppa enfasi. “Sapevo di poter contare su di te. Fallo iniziare domani.”
Mette giù la cornetta ed io mi ritrovo ad ascoltare il malinconico suono della linea assente. Sospiro, socchiudendo le palpebre.
Forse...Penso tra me e me, mettendo a posto l’apparecchio.
Un po’ di vivacità farà bene ad un mortorio come questo...
 

***

 
In ogni cosa che faccio combino disastri.
Forse non è il caso di dirlo a Ludwig. Credo si fidi di me, se ha acconsentito a farmi lavorare al Welt.
“Allora...”
Mi osserva con lo sguardo serio, quasi severo, tenendo le braccia incrociate davanti al petto. Le mie, invece, sono strette intorno al manico dello spazzolone in legno, verniciato di bianco, che mi ha appena dato.
“... i suoi compiti sono semplici ed elementari.” Prosegue Ludwig. “Tutto quello che deve fare, Herr Vargas, è ripulire il corridoio in modo che non ci sia neanche un granello di polvere, e anche le lampade al neon devono essere costantemente lucidate. Troverà una cesta con i panni sporchi vicino all’entrata delle celle ogni giorno, lei deve solo pensare a portarla in lavanderia. Poi c’è la questione delle stoviglie sporche e quelle pulite da riordinare nell’angolo del caffè. Ah, ovviamente i bagni dovranno essere sterilizzati a regola d’arte. C’è qualcos’altro che dovrei specificare, Herr Vargas?”
Io guardo prima lui, sempre impeccabile nel suo camice lindo, poi i vestiti che mi sono stati forniti. Dovrò indossare sempre questi durante i miei turni di lavoro. Bianchi, ovviamente. È una divisa molto simile a quella di Gilbert, ma non mi è stato consegnato né il mazzo di chiavi, né il fodero della pistola. Non ho nemmeno il mio nome cucito sul taschino.
“Ehm, no, è tutto chiaro. Solo...”
Piego la bocca in un sorriso, semplice, ma più unico che raro in questo ambiente.
“...chiamami Feliciano. Io ti chiamo Ludwig, vorrei essere ricambiato. Poi, Herr Vargas non mi piace. È troppo tedesco.” Gli chiedo, usando il tono più sincero e naturale che mi riesce.
Ludwig mi sembra contrariato sin da principio, e gira la testa di lato con fare imbarazzato.
“Mmm... ci proverò. Non è nella mia natura dare tanta confidenza ad un estraneo.”
“Eh? Ma io non sono un estraneo, ormai lavoriamo insieme, siamo amici!”
Gli prendo le mani e lo spazzolone mi cade sulla spalla. Un gesto che, incredibilmente, sembra spaventarlo.
“Cercherò di non fare pasticci.”
Ludwig dopo una prima esitazione accenna un sorriso, il primo che gli vedo disegnato sul viso.
“Sento che sarà difficile.” Risponde senza cattiveria.
Si scioglie dalla mia presa e si incammina verso la porta di ferro, quella a forma di portellone di cassaforte, dietro alla quale è imprigionato Lovino insieme alle altre sette persone.
Prima di sparire alza una mano, sempre dandomi le spalle.
“Tienilo d’occhio fin che puoi, Gilbert.” Dice, e il fratello fa capolinea dal suo ufficio, spalancando la porta con violenza.
“Non darmi ordini, Herr Doktor!” Sbraita come al solito, ma Ludwig non lo sente: è già sparito dietro all’angolo del corridoio.
Io porto un pugno vicino alla bocca, inarcando le sopracciglia dalla tristezza. Mi sento già solo, anche se c’è Gilbert.
“Chissà quando tornerà?” Piagnucolo.
Gilbert, intanto, ha già sigillato l’ufficio e sta giocherellando con il suo mazzo di chiavi, facendo girare l’anello che le raccoglie intorno all’indice.
“Di solito esce per ora di pranzo, poi torna dentro nel primo pomeriggio, a meno che non abbia qualche lavoro burocratico urgente da potare a termine.” Mi risponde con tono acido, per nulla rassicurante.
Con aria spavalda gira i tacchi e s’incammina alle mie spalle.
“Ti saluto, Italiano.” Mi dice sempre con quello stesso tono di voce.
Io mi volto verso di lui, riprendendo in mano lo spazzolone.
“Eh? Mi lasci da solo anche tu?”
“Non fare il bambino, non corri alcun pericolo fuori dalle celle. Tu pensa solo a pulire i cessi, anche io ho dei compiti da svolgere.”
“E... e quando torni?”
Non mi risponde. Se ne va anche lui.
 
Il silenzio è assordante. Non riesco a capire se il ronzio che sento proviene direttamente dalle mie orecchie o dalle lampade al neon. Mi guardo intorno un’ultima volta, in balia della mia stessa solitudine.
Solo.
Socchiudo le palpebre, e mi accorgo che sembra quasi di stare dentro ad una bolla. Sento che mi sta quasi per mancare il fiato, così le riapro, giusto in tempo per vedermi passare davanti tre infermiere. Mi strofino gli occhi, dapprima incredulo, studiandole con meraviglia, ipnotizzato dal rumore dei loro tacchi sulle piastrelle. Poi mi accorgo che sono davvero carine, e che quelle divise mettono in risalto le loro curve ben proporzionate insieme alle gambe lunghe e slanciate fasciate dalle gonne. Per non parlare delle dita fini, laccate di un rosa tenue, strette intorno a quelle che sembrano altre cartelle cliniche. Loro si accorgono di me proprio quando sto per sollevare una mano, con la speranza di attirare la loro attenzione, e mi salutano con un semplice cenno del capo. Poi, spariscono dietro ad un angolo, proprio come Ludwig e Gilbert.
Sospiro, appoggiando tutto il peso sul manico della scopa. Di nuovo solo.
“Devo mettermi al lavoro, altrimenti Ludwig si arrabbierà.” Mi dico, sconsolato.
Inizio a passare lo spazzolone su tutta la superficie lattea del corridoio, e non riesco a sollevare un solo granello di polvere.
Ma allora è tutta fatica inutile?
Emetto un altro sospiro. Io odio faticare, odio lavorare, ma se si tratta di stare anche solo un po’ di più vicino a Lovino allora non mi lamenterò.
Ho iniziato a percorrere il corridoio verso destra, e finalmente vedo la parete che ne segna la fine. C’è il solito orologio appeso in cima, ma sotto scorgo il famoso tavolo del caffè.
“Ah, se non sbaglio devo ripulire anche quello.”
Accelero il passo, ed ora riesco a notare anche l’insegna sulla porta del bagno lì affianco. Al solo pensiero di doverci mettere mano rabbrividisco, ma ho come l’impressione che non sarà poi così sporco.
Il tavolo appoggiato alla parete è ordinatissimo. Le tazze sono impilate una sopra l’altra in tre colonne di uguale altezza. I cucchiaini sono riposti dentro ad una scatola in plastica bianca di forma cilindrica. Le bustine di zucchero sono sparse, invece, in una ciotola ovale.
“Oh, ma c’è anche il latte!” Esclamo involontariamente, quando vedo la piccola brocca in acciaio che lo contiene.
Se è tutto così in ordine, io cosa dovrei fare?
Ci penso un po’, poi sfilo da una delle grandi tasche della mia divisa una panno in cotone bianco, quello con cui dovrei lucidare le lampade. Prendo la prima tazza in cima a una delle tre pile ed inizio a passarci sopra il morbido straccio con movimenti circolari. Ma, credo di non averla afferrata abbastanza saldamente, perché subito mi scivola dalle dita e si infrange sul pavimento, facendo schizzare i cocci di porcellana tra i miei piedi.
Mi copro istintivamente la bocca con entrambe le mani, iniziando a tremare e a sudare freddo.
“Oh, no! Ho già combinato un disastro, Ludwig si arrabbierà tantissimo!”
Il mio urlo rimbalza tra le pareti.
Rimango impalato per una decina di secondi, guardando la tazza infranta in mille pezzi, poi mi decido a chinarmi, per provare a rimediare al mio errore. Stendo il panno bianco per terra ed inizio a posarci sopra ogni singolo frammento più in fretta che posso.
“Ecco, se Ludwig lo venisse a sapere mi caccerebbe subito, e io non potrei vedere Lovino per il resto della mia vita, poi Ludwig mi odierà per sempre e non saremo più amici e... ahi!”
Un coccio mi ha tagliato la punta dell’indice. Lo lascio ricadere sul pavimento e mi porto il dito tra le labbra, cercando di fermare il sangue. Un lieve sapore ferroso si insinua tra i miei denti. Sento già le lacrime salirmi agli occhi.
“È colpa di questo posto...” Mi lamento. “...mette troppa paura.”
Sto già pensando di restarmene lì a piangermi addosso per il resto della giornata, quando sento una sbuffata di aria sollevarsi vicino alla mia spalla.
“Non ti preoccupare, ci penso io a mettere in ordine.” Mi sussurra una vocina flebile e delicata.
Io mi spavento.
Oh, no. Mi sto ammalando al cervello pure io? Forse è perché ieri sono andato vicino alle celle. Che mi abbiano contagiato?
Deglutisco a fatica, facendomi forza.
“Chi... chi sei? Dove sei?” Chiedo alla voce misteriosa, guardandomi in giro.
Lei risponde subito.
“Sono qui, di fianco a te, non mi vedi?”
Le sue parole sembrano proprio il sussurro del vento.
Io mi volto e ciò che vedo mi fa rimanere a bocca aperta.
“Tu... tu sei...” Balbetto, ancora stordito da quell’inaspettata comparsa. La mia vista inizia a vacillare.
Il ragazzo osserva il pavimento, inginocchiato di fianco a me, mentre inizia a raccogliere con cura il resto dei frammenti della tazza. I suoi occhi dolci, nascosti da un paio di occhiali rettangolari, sono attenti e concentrati.
“...l’inserviente?” Termino la mia domanda dopo quelli che sembrano anni.
Lui sorride, voltando il capo verso di me.
“Hai indovinato.” Sussurra. Faccio quasi fatica a sentire quello che dice.
Lui socchiude le palpebre.
“Non era mai successo che qualcuno si accorgesse di me. Ti ringrazio.”
Io, ancora intimorito, non riesco a capire come devo comportarmi. Inizio a stropicciarmi i bordi della divisa per il nervosismo.
“Io... forse... ti ho rubato il lavoro?”
“No, non mi dispiace un po’ di compagnia.”
Chiude l’impacco di cocci bianchi e mi porge il fagottino con un gesto calmo e lento.
“Cerca solo di fare più attenzione, e soprattutto di non ferirti più. D’accordo?”
“S-sì, va bene.” Gli rispondo con una punta d’imbarazzo.
“Ah, a proposito...”
Tendo la mano davanti a me.
“...io sono Feliciano Vargas, sono contento di averti incontrato.”
Lui mi guarda confuso, sistemandosi una ciocca di morbidi capelli biondi dietro all’orecchio, e arricciandosi con un dito il lungo ciuffo che gli pende dalla fronte.
“P-piacere. Io mi chiamo Matthew Williams.”
Ha ignorato totalmente il mio gesto. Probabilmente è da tanto che non chiacchiera con qualcuno. Anche lui indossa la divisa bianca proprio come me, ed anche lui tira fuori dalla tasca il suo straccio bianco. Poi, inizia a strofinare il pavimento.
“Ehm, volevo chiederti...” Provo ad approcciarmi, dopo aver ritirato la mano.
“...perché nessuno si accorge di te? È una cosa molto strana, non trovi? Insomma, sono qui solo da questa mattina e già ci siamo parlati. Invece né Ludwig né Gilbert, che sono qui da un sacco di anni, ti hanno mai nemmeno incrociato.”
“È sempre stato così...” Risponde lui con voce debole, come fosse la cosa più ovvia. “... anche quando ero malato la situazione era la stessa. Chissà, forse non sono mai guarito del tutto.”
“Malato?” Ripeto io, sentendomi stringere il cuore.
“Esatto.” Annuisce Matthew, senza smettere di pulire. “Io ero un paziente del Welt, alcuni anni fa. Poi sono guarito o, almeno, questo è quello che mi hanno detto, e così mi sono ritrovato a fare l’inserviente.”
“Sei rimasto qui a lavorare? Ma come? Non avevi voglia di uscire, di ritornare dai tuoi parenti, o dai tuoi amici?”
Lui abbassa il capo ancora di più, ed un boccolo fulvo gli cade sugli occhi.
“Là fuori non c’è più posto per me.” Dice. “Una volta che entri al Welt, non ne puoi più uscire.”
“Eh? Ma no, non è possibile, ti stai sicuramente sbagliando!” Esclamo io, intimorito dai suoi sussurri.
“Io devo riportare a casa mio fratello, un giorno. Poi devo tornare anche io in Italia dal nonno, non posso restare imprigionato qui dentro.”
Lui piega un angolo della bocca in un’espressione triste.
“Che bello, tu vuoi davvero bene a tuo fratello. Quando ero malato, nessuno è mai venuto a farmi visita, o si è mai preoccupato per me.”
Interrompe il suo lavoro, sollevando il naso da terra verso la luce artificiale delle lampade, che si riflette sulle lenti dei suoi occhiali.
“Forse è proprio perché a nessuno è mai importato di me che mi sono ammalato.” Mi rivela con un’aria così malinconica che mi strazia l’anima.
Quanto vorrei abbracciarlo...
“Forse potrò sembrare scortese, ma... posso chiederti... che tipo di malattia avevi?”
Lui sospira, chiudendo quei bellissimi occhi azzurri, come se stesse scavando nei ricordi più remoti della sua mente.
“Soffrivo di depressione, non mi sentivo accettato dal mondo, era come se la mia presenza non fosse mai stata considerata da nessuno. Mai qualcuno che mi chiedesse un’opinione, o anche semplicemente che si ricordasse il mio nome. Ero assalito da un forte complesso di inferiorità, così, dopo aver ripetutamente tentato il suicidio, mi hanno rinchiuso qui. Per i primi tempi, però, ho provato ad uccidermi anche dentro alla mia cella. Sentivo che, dovunque andassi, la situazione non sarebbe cambiata. In questo mondo io non esistevo.”   
Rimango letteralmente scandalizzato da quel racconto. Un sentimento di pietà, mista a compassione, mi solletica il cuore.
“Ma... alla fine ti hanno liberato, vuol dire che sei guarito.” Tento di rassicurarlo, ma lui scuote la testa.
“No, credo che l’unico motivo per cui io sia uscito dal programma di cura è perché, dopo parecchio tempo passato nella cella, ho smesso di provare a uccidermi. Te l’ho detto, non importa con chi io abbaia a che fare. A nessuno importa di me.”
Mi gela con quest’ultima frase, e io rimango impietrito.
Com’è possibile che esista una persona così disperata, e che nessuno si sia mai accorto della sua tristezza?
Stringo un pugno, esibendo uno dei miei sorrisi migliori, anche se forzato.
“No, non è vero!” Esclamo. “Io sto parlando con te, non ti sto ignorando. Se vuoi possiamo diventare amici anche subito.”
“A-amici?”
Matthew arrossisce, e un’altra ciocca bionda gli cade sopra ad una delle lenti degli occhiali.
Io non demordo.
“Certo! Poi, quando mio fratello sarà dimesso, ti porterò in Italia con noi, e magari faremo venire anche Ludwig. Vedrai, ci divertiremo insieme!”
Penso di rallegrarlo, di tirargli su il morale che si trascina sotto i tacchi, ma lui sembra di nuovo avvolto dalla stessa grigia nuvola di malinconia. Distoglie gli occhi dal mio volto sorridente. 
“Tu... credi davvero che tuo fratello potrà uscire, e anche il dottor Beilschmidt?”
“Eh? Ma certo che possono! Quando Lovino sarà guarito andremo via tutti insieme.”
Matthew distende il viso in un sorriso spento, triste.
“Non è così, Feliciano.” Sussurra. “Te l’ho detto, una volta entrati al Welt... non è più possibile uscirci...”
Si volta verso di me, e il suo sguardo spegne anche l’ultimo rimasuglio del mio sorriso. I suoi occhi rassegnati mi stanno già condannando.
“... nemmeno tu potrai.”
Mi si gela il sangue nelle vene e d’istinto ruoto lo sguardo dietro di me, per distaccarmi da quell’espressione glaciale. Inconsciamente ho strizzato le palpebre.
Me ne resto in quella posizione, tremante, per almeno un minuto. Quando riesco a raccogliere tutto il coraggio necessario per girarmi, Matthew è sparito. Davanti a me, rimane solo il fazzoletto annodato con dentro i cocci della tazza che ho fatto cadere.
Insieme ad un orsacchiotto di pezza.
 

***

 
Ho percepito fin da subito che questo tizio sarebbe stato una sanguisuga. Proprio quel tipo di persona che ti trascini dietro incollato alla gamba, senza riuscire a staccartelo di dosso. L’unica cosa in cui speravo era di non avere a che fare con una palla al piede scansafatiche.
Povero me...
 
Non ho idea della quantità di tempo che possa aver trascorso accoccolato sotto la porta del mio studio, con le ginocchia incollate al petto e la faccia nascosta tra le braccia, strette intorno alle gambe. Mi blocco, incredulo davanti a quello spettacolo che è di una pateticità unica e resto in silenzio, aspettando una sua reazione.
Feliciano, sentendo i miei passi arrestarsi, alza gli occhi rossi di pianto. La luce delle lampade sbatte contro le guance inumidite dalle lacrime.
Lo guardo perplesso, non sapendo nemmeno io se esserlo più per quella sua assurda sceneggiata, o più per l’orso di pezza che stringe tra le gambe e il petto come un marmocchio frignante. Feliciano scatta in piedi come un pupazzo a molla e si aggrappa al mio camice, rischiando di far cadere dalle mie mani le cartelle cliniche – dopo la seduta di oggi devo ricordarmi di aggiungere ninfomania alla voce delle patologie di Natalia Arlovskaya -. Affonda la faccia tra la stoffa bianca e scoppia in lacrime.
“L’inserviente! Ho... ho visto... l’inserviente! È un fantasma, un fantasma, Ludwig! Non mi devi più lasciare da solo in questo posto. Ho avuto tanta paura!”
Inarco le sopracciglia. Avevo ragione riguardo la sua lobotomia.
Con un movimento impacciato riesco ad infilare le cartelle sotto al braccio, in modo da avere entrambe le mani libere, e gli afferro le spalle scuotendolo un paio di volte.
“Calmati, Feliciano! Se non la smetti di piangere non riesco a capirti!” Gli urlo, cercando di far placare il suo pianto isterico, ma sembra che il mio intervento provochi l’effetto opposto. Vorrei tirargli una sberla, ma temo che potrebbe perdere i sensi, deboluccio com’è.
“L’inserviente...!” Continua a ripetermi tra un singhiozzo e l’altro. Poi alza il braccio, indicando la parte di corridoio alle sue spalle, senza voltarsi.
“...io ho visto l’inserviente fantasma. Mi ha detto cose orribili, io ho avuto paura e sono tornato indietro a cercarti, e...”
“Un momento!” Lo blocco, scuotendogli le spalle. “Hai visto l’inserviente? Non è possibile, nessuno lo ha mai incrociato. Allora è stato lui a...”
Abbasso lo sguardo verso l’orso di pezza che Feliciano continua a stringere tra le braccia.
“... a darti l’orso?”
Feliciano annuisce.
“L’ho trovato dopo che lui se n’è andato, sparendo nel nulla. Forse...”
Alza le spalle, premendoselo sulla faccia, come volesse proteggersi.
“... forse tornerà a prenderlo.”
Mollo la presa su di lui, appoggiandomi due dita su una tempia. Chiudo gli occhi, concentrandomi sullo sciame che sento ronzare nella mia testa.
“Probabilmente hai solo avuto un’allucinazione, Feliciano.” Provo a razionalizzare i fatti. “Sai, è normale in un posto chiuso sentirsi spaesati. Forse hai avuto un mancamento e lo hai solo sognato.”
“No, non è possibile!”
Scuote la testa, poi alza l’animaletto di pezza, portandomelo vicino al naso.
“Come avrei potuto prendere questo, altrimenti? E poi...” Continua lui. “...mi ha anche detto il suo nome. Ha detto di chiamarsi Matthew Williams. Sono sicurissimo!”
Spalanco le palpebre, rimanendo pietrificato davanti a quel nome.
“Matthew... Williams?” Balbetto. “Ne sei proprio sicuro? Se stai dicendo una bugia io...”
“È tutta la verità! Ha anche detto di essere stato un paziente della clinica, tanti anni fa, e che poi è stato rilasciato.”
“Infatti, infatti. Ma lui non è...” Le parole mi si spengono in bocca.
Tutto il bianco del corridoio mi arriva agli occhi come una serie di flash epilettici. Mi appoggio una mano sulla fronte, imperlata di sudore gelido.
“Feliciano...” La mia voce trema. “Tu non sei entrato nel mio studio, vero?”
Lo vedo con la coda dell’occhio piegare la testa di lato.
“Eh? No, non l’ho fatto. La guardia Gilbert l’ha chiuso a chiave, questa mattina.”
Come se ci si potesse fidare di Gilbert...
Io mi appoggio con tutto il peso sulla maniglia, ed effettivamente la porta è bloccata. Mi passo una mano tra i capelli, facendo un respiro profondo, e prendo la chiave della stanza dal mazzo attaccato alla cintura, trovandola solo dopo alcuni tentativi. Apro la porta, e faccio segno a Feliciano di seguirmi.
“Vieni, devo mostrarti una cosa.” Gli dico, e lui non se lo fa ripetere due volte.
Entra nell’ufficio senza chiuderlo e si piazza in piedi di fianco alla mia scrivania, osservandomi mentre mi rituffo dentro al solito armadio metallico.
“Feliciano, quell’uomo, Matthew Williams, ti ha detto di essere l’inserviente, non è così?”
Lui esita.
“Ehm, sì. E anche i suoi vestiti erano uguali ai miei, quindi lo era per forza.”
“E ti ha anche detto di essere stato un paziente del Welt, giusto?” Gli domando di nuovo, passandomi tutte le cartelline gialle che trovo tra le dita.
“Sì, ha detto così.” Risponde Feliciano, sempre con qualche attimo di esitazione.
“Capisco.” Annuisco io. “Dimmi, poi...”
Interrompo la domanda di colpo, poi sollevo la cartellina sbiadita e spiegazzata che riporta il nome in stampatello maiuscolo del nostro uomo.
“Matthew Williams, eccolo qui.”
“Matthew Williams?!”
Una terza voce si unisce al coro mio e di Feliciano. Tutti e due ci giriamo alle nostre spalle, e vediamo Gilbert appoggiato sotto l’architrave della porta a braccia incrociate, con il suo immancabile sorriso beffardo stampato sulle labbra.
“Davvero state avendo a che fare con Williams? Wow, cosa mi sono perso questa mattina?” Ci domanda con tono acido.
Io getto la cartella clinica sul tavolo, richiudendo il cassetto.
“Nulla che ti riguardi, Gilbert. Feliciano ha solo...”
“Ho visto l’inserviente e lui ha detto di chiamarsi Matthew Williams e che una volta era ricoverato qui e che...”
“Ehi, ehi, frena un secondo!” Esclama mio fratello, portando le mani avanti. “Hai davvero visto Matthew Williams? Ma, non è possibile. Vero, Lud?”
Mi lancia un’occhiata allucinata e io apro la prima pagina della cartella. Al solito foglio con tutti i dati personali è stata unita con una graffetta una sua fotografia rettangolare, alta pochi centimetri.
Io sposto i documenti verso il bordo della scrivania, chiamando Feliciano con un gesto.
“È lui che hai visto?” Gli domando.
Feliciano si avvicina timoroso, come temendo che il tizio fotografato possa prendere vita e uscire dalla carta per mangiarlo in un boccone. Lo guarda attentamente e poi annuisce. Io sento un brivido corrermi lungo la spina dorsale.
Anche Gilbert si è avvicinato, incuriosito, ma non aggiunge altro.
Io abbasso il capo, prendendo un respiro profondo.
“Feliciano, come vedi, Matthew Williams è stato davvero un ospite del nostro ospedale, ma c’è anche da dire che...” Porto l’indice vicino ad una data scritta in grassetto in alto a sinistra. “...che lui è morto anni fa. Poco dopo che io arrivassi a lavorare qui.”
Gilbert deforma i lineamenti del viso in un’espressione sadicamente entusiasta, mentre Feliciano ha ripreso a tremare, stringendosi l’orso al petto.
“Allora... allora ho visto davvero un fantasma?”
“Puoi dirlo forte!” Esclama Gilbert, battendogli una mano sulla schiena.
Io scuoto la testa, sapendo di essere l’unico sano di mente, qui dentro. Mi schiarisco la voce.
“Non è detto.” Ribadisco, frenando l’entusiasmo di mio fratello. “Come ho già specificato prima, c’è sempre la possibilità che si sia trattata di una semplice allucinazione. Forse, Feliciano ha già visto questa foto e questo nome dopo essere entrato nel mio ufficio, magari perché qualcuno si è dimenticato di chiuderlo a chiave...”
Incrocio le braccia, fulminando Gilbert, pur sapendo che il mio discorso fa acqua da tutte le parti.
Lui piega le labbra all’ingiù, disgustato.
“Per chi mi hai preso? Lo studio era sigillato. Poi...” Riacquista improvvisamente il sorriso. “... è molto più divertente pensare che si sia trattato davvero di un fantasma, non trovi?”
“No! I fantasmi non esistono, Gilbert.”
“Oh, e invece sì! Anzi, ti dirò di più...”
Afferra Feliciano, stringendolo sottobraccio e sollevando l’indice al cielo come stesse facendo ruotare una palla da basket invisibile.
“Ti narrerò la leggenda della macabra morte di Matthew Williams che si tramanda di generazione in generazione, qui al Welt.”
“Ti prego, Gilbert...” Mi lamento io, appoggiandomi alla scrivania con aria stanca.
Feliciano guarda mio fratello con occhi terrorizzati. Il ragazzo trema dalle dita dei piedi fino alle punte dei capelli.
“Oh, ma è una storia bellissima. L’ho sentita dalle guardie qui fuori, mi stupisco che tu non la conosca.” Mi rimprovera Gilbert, poi riprende a guardare Feliciano.
Si fa scuro in volto, e i suoi occhi diventano due lumini rossi in mezzo al buio che gli copre il viso.
“Si narra che Matthew Williams fosse il paziente più trascurato di tutto il Welt. I dottori andavano a visitarlo di rado, e persino gli inservienti si dimenticavano di portargli da mangiare anche per parecchi giorni. A volte capitava che restasse da solo per una settimana intera. Comunque, Williams si faceva più magro, fragile e debole mese dopo mese, ma nessuno si accorgeva di questi cambiamenti nel suo fisico, così non furono presi provvedimenti di alcun tipo per rimetterlo in forma. Un giorno, evidentemente spaventato all’idea di morire di fame o, più semplicemente, stanco di essere trascurato, lacerò le sue vesti con i denti in tante piccole striscioline e con quelle tappò tutti i buchi della parete divisoria. Il condotto dell’aria si trova proprio nella prima parte della stanza ed è inutile specificare che, senza ossigeno fresco, il poveretto morì soffocato dopo poche ore. Ma sai qual è la cosa più bella?”
Feliciano scosse la testa a fatica, come se il collo gli si fosse arrugginito.
Gilbert proseguì.
“La cosa più bella, o spaventosa – dipende dai punti di vista – è che la porta della sua cella venne aperta solo due settimane dopo, visto che nessuno si occupava di lui. Il suo cadavere venne trovato immerso nei liquami, prosciugato come una mummia. Matthew Williams si stava già decomponendo, sciogliendosi come un cubetto di ghiaccio sotto il sole. Chissà...” Aggiunse con tono malizioso. “... magari il suo corpo potrebbe trovarsi ancora lì.”       
“Adesso basta, Gilbert!” Tuono io, con tono di rimprovero.
Non ci tengo a vedere Feliciano svenuto per terra solo per le stronzate di quel coglione di mio fratello.
“Sono tutte balle.” Continuo io, abbassando il timbro di voce. “Matthew Williams è morto, è vero, ma io entro nelle celle ogni giorno e ti posso assicurare che in nessuna...”
“Entri davvero in ogni cella, Ludwig?” Mi chiede Gilbert, con voce ben più seria e pacata di quanto mai mi aspetterei da uno come lui.
La luce nei suoi occhi diventa più opaca, quasi trasudasse l’oscurità stessa.
“E che mi dici, Ludwig, della cella numero nove? Lì ci entri?”
Esito, e una goccia di sudore mi rotola su una tempia.
“No, certo che no. Lo sai anche tu che la cella numero nove è vuota, Gilbert.”
“Vuota? Ma tu non puoi saperlo con certezza, Lud. Non l’hai mai aperta di persona e, stando a quello che si racconta in giro, potrebbe essere sul serio la tomba del nostro amico.”
“Potrebbe anche essere, se solo sapessi leggere, ogni tanto.” Sbotto, innervosito.
Riprendo in mano la cartella clinica, mostrandogli la prima pagina. Batto più volte con l’indice sulla casella che specifica il numero di cella.
“Matthew Williams...” Ringhio. “... era ospitato nella cella numero uno. Quella occupata in questo momento da Alfred F. Jones.”
“Ah, sì, l’americano! Ora ricordo.” Esclama Gilbert, battendosi il palmo sulla fronte e tornando lo stesso gradasso di prima.
Io riprendo fiato.
“Ecco, infatti.”
Guarda caso, Alfred F. Jones assomiglia in maniera allucinante a Williams, ma questo non lo aggiungo. Non vorrei sollevare altre questioni. Gilbert, comunque, non mi sembra ancora pienamente soddisfatto.
“Io, però...” Si lamenta, portandosi l’indice vicino alle labbra. “...un salto nella cella numero nove lo farei lo stesso. Magari hanno buttato lì il suo cadavere dopo che è schiattato nella numero uno.”
Feliciano si stringe le spalle.
“Eeh? Dobbiamo andare a cercare il suo cadavere? Ma io ho paura!”
“No, non ti preoccupare, Feliciano.” Lo rassicuro, guardando Gilbert in cagnesco. “Noi non andremo a cercare alcun cadavere. Dico bene? È una storia successa anni fa, e non c’è alcun motivo di prenderla tanto a cuore.”
“Andiamo, Ludwig! Ci impiegheremmo solo qualche minuto, non facciamo mica del male a qualcuno. È semplice, diamo un occhiata e filiamo via. Senza contare il fatto che...”
Mi si avvicina, iniziando a punzecchiarmi la guancia con la punta dell’indice. Sulla faccia ha stampato un ghigno animalesco.
“...te lo si legge in faccia che anche tu muori dalla curiosità di andare a dare una sbirciata in quella maledetta stanza.”
Io spingo via la sua sudicia mano dal mio viso, arricciando il naso dal nervosismo.
“No, non verrò meno ai miei compiti solo per assecondare le tue stupide fantasie!”
 
Ed è così che ci ritroviamo tutti e tre di nuovo a passeggio per il pavimento che striscia in mezzo alle celle. Ma questa volta proseguiamo fino in fondo, fino alla cella numero nove che chiude il corridoio.
Abbiamo appena superato la numero sette alla nostra sinistra – paziente: Ivan Braginsky – e la numero otto alla nostra destra, un po’ più in avanti – paziente: Natalia Arlovskaya - .
“Ah, la mitica numero nove!” Esclama tutto d’un fiato Gilbert.
Davanti a noi, la porta bianca marchiata dal numero con la vernice nera, pesante come catrame, è circondata da un’aura di ghiaccio che ti pietrifica le vene. La guardo con occhi vitrei, continuando a mordermi il labbro inferiore. Mi volto alla mia sinistra, verso Gilbert. I suoi occhi la fissano con aria di sfida, la sua bocca è un ringhio da selvaggio. Feliciano, alla mia destra, trema come un pulcino bagnato, aggrappato alla manica del mio camice.
Gilbert lo schernisce.
“Avresti potuto portarti quel pupazzo come arma di protezione, invece di lasciarlo nello studio, Italiano.”
Come risposta, Feliciano emette un piagnucolio strozzato.
Guardo le serrature, deciso ad aprirle, ma la mia mano non si muove. Agito le dita ingessate, che si rifiutano di spostarsi sulle chiavi appese alla cintura.
È molto strano... Penso. Perché solo io e Feliciano abbiamo questa reazione? Forse per lui è normale, pauroso com’è. Ma io? Per me questi dovrebbero essere gesti abitudinari.
Appoggio il palmo della mano sulla superficie metallica, freddissima al tatto. Non appena la mia pelle la sfiora ho un mancamento. Le orecchie si tappano e non riesco a tenere le palpebre sollevate. Il corridoio diventa un vortice nero che mi risucchia il cervello.
Mi piego in avanti, credendo di essere sul punto di svenire e faccio scivolare la mano verso il basso. Non appena la stacco dalla porta, però, ritorna tutto normale.
Emetto un pesante sospiro che mi fa esplodere i polmoni, poi raddrizzo la schiena, asciugandomi il sudore con la manica sinistra del camice.
“Stai bene, Ludwig?” Chiede Feliciano, allarmato.
Io annuisco.
“Va tutto bene, deve essere un calo di zuccheri, niente di più.”
Che diavolo c’è in questa stanza?!
Afferro il mazzo di chiavi con mano ferma ed inizio a sciogliere gli ingranaggi.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***



N.d.A. Ringrazio danonleggere per avermi mandata a ricontrollare il cognome di Austria ^^




CAPITOLO 4

 

Silenzio. Tre cuori che si fermano, tre respiri che si spengono. Ogni centimetro in cui la porta avanza, la tenaglia intorno al mio stomaco si fa più stretta.
Feliciano non guarda, ha nascosto il viso dietro alla mia schiena, e sento la sua fronte premuta sulle mie spalle. Non appena è visibile il primo spiraglio, Gilbert ci si tuffa a capofitto, immergendosi nella luce e bloccandomi la vista. E la porta continua a scorrere. L’anta tocca il muro, ormai è spalancata, e sia io che mio fratello arretriamo di un passo, rintontiti dalla luce che ci frigge i bulbi oculari.
“Non... non è possibile...” Sibila Gilbert a denti stretti, tenendosi un braccio davanti alla fronte per farsi ombra.
Non riusciamo a togliere gli occhi dalla stanza, e anche Feliciano, incuriosito, spunta da dietro di me, come una marmotta che fuoriesce dalla tana. Gilbert allarga le braccia tremanti, contorcendo le dita come fossero zampe di ragno.
“Ma... qui...” La sua voce si fa più aspra.
Io emetto un profondo respiro, socchiudendo le palpebre. Lui si gira di scatto, incenerendomi con il suo sguardo di fuoco.
“Qui non c’è niente!” Urla deluso, e io mi lascio scappare un sorriso tirato, davanti alla camera sterile e immacolata. Le lenzuola della branda sono lisce come appena stirate.
“Sul serio ti aspettavi di trovare un cadavere putrefatto, Gilbert?” Ho il coraggio di chiedergli, ma la mia voce trema ancora. Provo ad agitare i polpastrelli - le mie mani sono ancora gelide - per sciogliere il formicolio che punge ogni singolo dito.
Gilbert mette il broncio, e la sua figura gobba, con le mani buttate nelle tasche, sparisce dietro alle mie spalle.
“’Fanculo, ho davvero le palle piene di questo posto.” Ringhia.
Lo vedo andare via con la coda dell’occhio, perché non riesco ancora a scollare lo sguardo dalla cella vuota, ma illuminata e curatissima – per quanto necessiti di attenzione quell’ambiente spoglio – come se davvero stesse ospitando un paziente. È ipnotizzante.
La morsa sullo stomaco si trasferisce nuovamente nella testa e ricominciano i capogiri, seppur più deboli rispetto a quando ho toccato la porta. Gesto che non ho intenzione di ripetere, se non per chiuderla. Feliciano allunga il collo, stringendo ancora di più la stoffa che mi fascia la schiena, poi arriccia la punta del naso, come se stesse annusando l’aria. Solleva una gamba con un movimento rigido e meccanico e, quando il piede ha di nuovo toccato terra, scioglie la presa dal mio camice. Si avvicina a passo felpato all’entrata della stanza, come farebbe un coniglio mentre tenta di rubare della lattuga vicino alla tana di una volpe.
Davanti a me, sotto l’arcata di accesso, le sue spalle paiono ancora più piccole e fragili. L’intera sua sagoma nera sembra restringersi,trafitta da mille raggi di luce che si espandono direttamente da un unico punto all’interno della cella. Spalanco gli occhi, ancora più in preda ai giramenti di testa, e un alternarsi di lampi e colori mi schiaffeggia la vista. Un vortice di sfere luminose inizia a frullare intorno a Feliciano, senza che lui se ne renda conto, e lo stritola. La sua sagoma diventa solo un’ombra nera girata di spalle. E lui rimpicciolisce...
Mi afferro il capo, affondando le unghie nelle tempie, e strizzo gli occhi, serrando i denti fino a sentire lo stridere dello smalto. Mi piego in due dal dolore che mi martella il cranio e mi sbilancio in avanti per trovare l’appiglio della porta metallica e richiuderla per sempre, per quanto mi riguarda. Feliciano si accorge del mio gesto e balza all’indietro. Le suole delle sue scarpe fanno singhiozzare il pavimento. 
Dopo essermi buttato letteralmente sull’ingranaggio del portellone, riesco nel mio intento e sbatto la porta, sigillandola, intrappolando quella bastarda luce psichedelica. La voce di Feliciano copre il mio respiro pesante ed affaticato.
“Ti senti male, Ludwig?”
Si è inginocchiato di fianco a me, guardandomi con un’espressione innocente, quasi voglia scusarsi. Io mi strofino la faccia con il palmo della mano e soffio fuori una boccata d’aria.
“Ho solo avuto un mancamento, come prima. Ora... usciamo, prima che mi manchi di nuovo l’aria.”
Faccio appello all’ultimo grammo di energia che mi è rimasta nelle gambe e mi rialzo, trascinandomi fuori dal corridoio degli orrori come uno zombie, ma bianco come un fantasma. Feliciano si ferma, lancia una veloce occhiata alla cella numero cinque e il labbro inferiore gli trema un paio di volte. Poi, corre verso di me ed entrambi ci lasciamo alle spalle quel folle incubo.
 

***

 
Mi sono sentito dire molte volte che ho la testa vuota, ma mai prima d’ora ho avuto la sensazione che fosse davvero così.
Quando la porta della cella numero nove si apre – vuota, fatta eccezione per il letto spoglio dietro alla barriera forata – il cervello mi si spegne e le gambe iniziano a muoversi da sole. Faccio strisciare i piedi sul pavimento, allontanandomi dalla schiena di Ludwig.
Voglio entrare. Devo entrare.
Mi fermo proprio sotto l’arco di entrata, ipnotizzato da quel vortice bianco.
No, non posso entrare da solo. Ludwig... anche Ludwig deve entrare. Io devo... io devo...
Mi volto, e Ludwig è a terra, accasciato sul muro come uno straccio bagnato.
 
 
Questa stanza mette troppa paura.Penso, mentre abbandoniamo le celle alle nostre spalle. Ma devo tornarci... io devo...
Appoggio una mano sulla tempia, come per placare l’orrendo fischio che mi perfora il cervello. Scuoto la testa e raggiungo Ludwig correndo, lui è già di qualche passo più avanti a me. È ancora pallido come un lenzuolo, ma il suo sguardo non è più vacuo.
“Ludwig... non torniamo mai più in quella stanza. Metteva troppa paura, vero?” Gli chiedo, facendo occhi da cerbiatto e incrociando le mani davanti al petto.
Lui socchiude le palpebre, fissando i suoi stessi piedi che avanzano verso l’ufficio. Probabilmente Gilbert ci sta già aspettando là.
“Era strana, senza ombra di dubbio.” Mi risponde, e io sono felice che mi capisca.
“Però...” Aggiunge con tono deciso. “... c’è davvero qualcosa che non quadra in questo ospedale, a cominciare dall’inserviente, dall’orso, e dagli altri dipendenti invisibili. Senza contare quella stanza che... no, è molto probabile che non centri niente. Solo io ho avuto quella reazione. Tu e Gilbert state bene, dunque è solo un problema mio.”
“No, invece. Secondo me hai ragione!” Esclamo, saltellando davanti a lui, interrompendogli il passo. “Anche io ho sentito qualcosa di strano. Non so spiegarlo, ma non voglio più provare una sensazione del genere.”
Ludwig mi guarda con occhi stanchi e offuscati. Si massaggia una guancia, proprio sotto le occhiaie ancora poco marcate.
“Non ti preoccupare, non lo rifaremo. C’è da dire, però, che è un bel mistero.”
 
Come sospettavo, Gilbert ci stava aspettando nell’ufficio di Ludwig e lo troviamo spaparanzato sulla poltrona girevole, con i piedi appoggiati sulla scrivania e le braccia incrociate sul petto. Ludwig si abbandona con la schiena contro uno degli armadi in ferro dove custodisce i documenti dei pazienti. Non emette un fiato, nonostante l’atteggiamento spavaldo del fratello. Non ha proprio la forza di lamentarsi.
Io chiudo la porta, e mi siedo a gambe incrociate in un angolo, in ascolto del nostro silenzio tombale. Ad un certo punto, Ludwig sospira.
“Io credo...” Dice, a testa bassa. “...che ci sia qualcosa di strano, in questo ospedale.”
Gilbert alza il naso verso il soffitto.
“Tsk, solo perché tu stai impazzendo non vuol dire che tutto il resto del mondo ti stia seguendo, Ludwig.” Gli risponde con tono acido, ma lui non si scompone.
Ludwig solleva il capo, squadrando il fratello con sguardo severo.
“Ora ti faccio una domanda, Gilbert.”
La guardia si volta, lanciandogli un’occhiata superficiale. Ludwig si schiarisce la voce.
“Hai mai visto qualcuno, oltre a me o Feliciano, in questo edificio?”
Gilbert inarca il collo ancora più all’indietro, sospirando rumorosamente.
“Bé, ci sono le guardie qui fuori, poi ho incontrato il direttore il giorno del colloquio. Ah, mi stavo quasi dimenticando...”
Assottiglia lo sguardo, piegando le labbra in un sorriso da pervertito. Solleva le braccia, agitando le dita come se stesse tastando qualcosa di soffice.
“... non scordiamoci di quelle infermiere con quel culo tutto da scopare.”
Le guance di Ludwig si tingono di un rosso acceso e lui, paonazzo in volto, distoglie gli occhi da Gilbert. Io mi porto un indice sotto alla bocca.
“Scopare? Ma che...?”
“No, lascia stare, Feliciano.” Mi interrompe Ludwig, con aria sconsolata. Poi ricomincia a discutere con il fratello, ricomponendosi.
“Sì, quelle... le incrocio anche io, ogni tanto, ma solo di sfuggita. In realtà non le ho mai viste lavorare.”
Io mi stringo le spalle, raggomitolandomi nell’angolo, la mia tana sicura. I denti mi battono dalla paura se solo ripenso a quando le ho incontrate, appena poche ore fa.
“Aaah! Ma quelle le ho viste anche io! Erano fantasmi?”
Ludwig non risponde subito ma fa spallucce, e ciò mi spaventa ancora di più. Sinceramente, mi aspettavo un “No!” secco.
“Chi lo sa. Ora come ora, potrebbero anche avere una qualche relazione con l’inserviente che hai visto tu, Feliciano. Comunque, oltre a questo...”
Solleva la schiena dell’armadio, sgranchendosela.
“... io non ho mai visto nessun altro medico tranne me, qui dentro, anche se è pieno di uffici. Fino ad ora non ci ho trovato nulla di strano perché pensavo fosse solo una questione di turni.”
“Già, guarda a caso non ci hai mai dato importanza proprio fino ad ora!” Interviene Gilbert.
Mi squadra con occhi cattivi dall’alto in basso, sempre con le braccia incrociate sul petto.
“Poi arriva lui e ad un tratto cominci a sollevare mille questioni. Non è che potrebbe centrare qualcosa? Dopotutto, è stato solo questo italiano a vedere l’inserviente. Fidati, lui è più sciroccato di tutti i tuoi amichetti là dentro messi insieme.”
Io aggrotto la fronte, deformando la bocca in un’espressione pietosa.
“Eh? No, non è vero! Io non sono pazzo, l’inserviente l’ho visto davvero!” Esclamo tra i singhiozzi, affondando il viso fra le mani. Mi viene di nuovo voglia di piangere.
Ludwig si fa scuro in volto.
“Feliciano non centra niente, Gilbert. Anche lui ha avuto la mia stessa sensazione quando siamo andati nella cella numero nove. È sulla mia stessa barca.”
“Ah, sì?!” Sbotta Gilbert.
Si solleva dalla poltrona, schiacciandola contro il muro con un gesto violento, poi va a puntare i piedi davanti al fratello. Non riesco a vedergli il volto, mi dà le spalle, ma scommetto che mette una paura del diavolo.
“E se fossi tu il matto, qui dentro?” Gracchia, ma a voce bassa.
Ludwig lo guarda come fosse un pugile sul ring, ma non cede alla provocazione e lo spinge via con un gesto ampio. Io mi alzo in piedi, pronto a seguirlo nel caso decidesse di uscire dalla stanza.
“Io chiamo il direttore, voglio vederci chiaro.”
“Lascia perdere!”
Gilbert tenta di fermarlo, e gli grida contro.
“Non faresti altro che metterlo ancora più in crisi di te. Tsk, quell’austriaco... anche lui sarebbe da rinchiudere per aver accettato di assumere questo qui ad occhi chiusi. È stato un errore a dir poco madornale.”
Ludwig si ferma davanti alla porta ancora chiusa, e si volta a pugni stretti verso Gilbert.
“Vogliamo parlare della tua, di assunzione? Sai, probabilmente è stato quello l’errore più madornale di Roderich Edelstein.”
Gilbert stringe i denti, livido di rabbia, e si precipita fuori dalla stanza urtando la spalla di Ludwig, ma lui non raccoglie l’istigazione e si limita a grugnire abbassando le palpebre.
“Lo chiamo io.” Aggiunge la guardia, prima di andarsene.
“E comunque...” La sua voce è solo un eco che rimbalza nel corridoio. “...io sono la guardia più grandiosa che potrà mai permettersi questa fogna di ospedale!”
I suoi passi si allontanano, diventando un suono sempre più soffocato. Poi, sparisce.
Io e Ludwig siamo di nuovo da soli. Lui si abbandona sulla poltrona, affondando tutto il peso sulla pelle imbottita. Si tuffa sullo schienale e inarca le spalle, tastando dietro di sé con la mano. Quando la fa riemergere, stringe l’orso dell’inserviente, rimasto schiacciato dal sedere di Gilbert fino a qualche minuto prima. Ludwig lo appoggia sulla scrivania e inizia ad osservarlo con aria pensosa, come fosse uno dei suoi pazienti durante una seduta.
Io mi avvicino.
“Ehm, Ludwig, noi... noi non dovremo di nuovo entrare in quella stanza per risolvere il mistero, vero?”
Lui scuote la testa, senza togliere gli occhi dall’orsetto.
“Mi auguro di no, ma le speranze che tutto si sistemi solo chiarendo quattro cose con il direttore generale sono abbastanza vane. Dobbiamo...” Fa una pausa, appoggiando il mento sulle mani incrociate davanti a lui. “Dobbiamo tenerci in allerta. Qualsiasi cosa succeda, dobbiamo essere in grado di cavarcela da soli.”
“Usciremo, vero?”
Lui finalmente alza lo sguardo su di me, assumendo un’aria interrogativa, probabilmente perché non comprende il senso della mia domanda. Io abbasso il capo.
“Ecco... l’inserviente mi ha detto che nessuno esce più dal Welt, una volta entrato. Mi ha messo paura.”
Ludwig annuisce con fare comprensivo.
“Capisco, ma non devi temere questo. Anche se noi alloggiamo nei dormitori costruiti apposta per il personale, non significa che non siamo liberi di andarcene quando vogliamo. Piuttosto...” Di colpo di fa serio. “... tu ora non devi preoccuparti di nulla, e nemmeno Gilbert. Ma io temo che dovrò riaffrontare quella stanza, prima o poi.”    
“Eeh? Ma perché? Avevi detto che non...”
“Perché è sicuramente parte della questione. Quei... mancamenti non sono normali, Feliciano. Io e te abbiamo percepito qualcosa tra quelle mura, ma non me la sento di coinvolgerti nuovamente.” Scuote la testa. “Non ora, per lo meno. Senza contare il fatto che è una tua decisione. Prima, però, dovrò ancora occuparmi di una certa faccenda riguardo ai pazienti.”
Io piego la testa di lato. Mi sono spaventato un po’, quando ha di nuovo tirato in mezzo la storia della cella numero nove, e in un certo senso mi sento combattuto. Ho paura, ma percepisco che...
“Perché i tuoi pazienti?” Gli chiedo.
Lui si porta un indice sulla tempia e la sua espressione si fa più concentrata.
“Perché voglio capire quanto di vero possa esserci qua dentro. Anche se fosse tutta una truffa, voglio almeno assicurarmi che i pazienti siano veri e che io non stia passando le mie giornate frugando nella testa di un branco di fantasmi mentecatti.”
“E come faresti?”
Ludwig dà un’ultima occhiata all’orso, borbottando qualcosa tra le labbra.
“Ora è complicato da spiegare. Diciamo che dovrei essere costretto ad utilizzare una tecnica speciale, chiamiamola sperimentale. È un azzardo, più che altro, qualcosa che non ho mai tentato. Sinceramente, non so nemmeno se funzionerà, ma potrebbe essere utile per vedere le cose da un altro punto di vista.”
Non ho capito un gran che, ma preferisco non scocciarlo con domande inutili. Con la mente, però, ritorno a...
“Verrà coinvolto anche Lovino?” Chiedo docilmente, ma quasi impaurito in previsione di una sua risposta affermativa.
Lui aggrotta la fronte.
“Molto probabilmente sì, ma non ti spaventare, starò attentissimo. Aspetterò il momento più adatto per occuparmi sia di loro che della numero nove, ora sono troppo stanco.”
Oddio, è stanco! Vorrei tanto rimanere qui con lui ma forse si arrabbierebbe. Incrocio le gambe, abbassando la testa verso il pavimento.
“Ehm, allora io...” Mi volto verso la porta, facendo una piccola piroetta che mi snoda le gambe. “...torno a lavorare.”
Ludwig annuisce.
“Va bene, ma non combinare altri danni.”
Stringo la maniglia in ottone, prima di girarla, e gli sorrido sperando di sollevargli il morale. Provo ad esibire un saluto militare un po’ impacciato, portandomi il dorso della mano destra vicino alla fronte.
“Aglio ordini!”
Si sistemerà tutto, ne sono certo.
 

***

 
“Niente? Cosa significa niente, Gilbert? Credevo che avessi parlato con il direttore!”
Sbatto le mani sulla scrivania, facendola spostare di qualche millimetro. Le gambe rivestite di ottone cigolano, strisciando sul pavimento.
Gilbert si gratta la nuca, per nulla preoccupato della mia sfuriata. Alza le spalle, ruotando gli occhi con fare rilassato.
“Non prendertela con me, io l’ho chiamato proprio come volevi tu. Non è colpa mia se non mi ha rivelato quello che volevi sentirti dire.”
Con un salto si mette a sedere sul bordo della scrivania, lasciando penzolare le gambe. Io faccio scivolare verso di me alcuni fogli prima che li schiacci.
“Comunque...” Continua lui. “... anche riprovare a contattarlo sarebbe inutile. Io farei la figura del coglione che ha bisogno di farsi ripetere le cose trenta volte, e a te racconterebbe esattamente la stessa storiella che ha spiattellato a me.”
Distolgo lo sguardo da mio fratello, abbassandolo sulla superficie del tavolo, e inizio a tamburellarci sopra le punte delle dita. Sospiro, considerando che, effettivamente, non è un ragionamento poi così sbagliato e mi getto di peso sulla poltrona, inclinando lo schienale. Ora i miei occhi sono riversi sul soffitto, ed io mi lascio rapire dalla luce bianca del tubo al neon.
Mi inumidisco le labbra.
“Allora...” Dico con tono sconsolato.
Gilbert ruota il collo verso di me.
“... anche secondo Edelstein qui è tutto regolare? La versione è sempre quella, nulla di nuovo. Medici assenti per via dei turni, infermiere che si occupano solo di faccende irrilevanti con il mio lavoro, e l’inserviente è semplicemente un tizio schivo. A questo punto viene da chiedermi...”
Mi scollo dallo schienale imbottito e appoggio i gomiti sulla scrivania, questa volta senza preoccuparmi di spiegazzare qualche documento. Mi massaggio il mento, perso nel mio monologo.
“... quanto sia coinvolto Edelstein stesso in questa faccenda. Ormai è appurato che tutto quello che ci racconta non è altro che una palata di letame fumante.”
“Non prenderti tutto il merito!” Esclama Gilbert, puntandomi l’indice addosso in segno di rimprovero. “Se ieri non ti avessi tenuto sveglio io, tu ti saresti addormentato come un ubriacone al banco dell’osteria. Eppure era stata tua l’idea di non abbandonare lo studio per ventiquattrore, in modo da verificare l’attività giornaliera e notturna del Welt.”
“Lo so, lo so.” Lo liquido io, come se stessi parlando con un marmocchio capriccioso. Poi, torno subito serio.
“Però, devi ammettere che è stata una mossa illuminante. Come sospettavo, non abbiamo rilevato alcun movimento. Se ci fossero stati davvero altri dottori, sarebbero passati davanti alla porta del mio ufficio almeno una volta, è un percorso obbligatorio per accedere alle celle dei pazienti.”
Gilbert annuisce. La sua gamba colpisce un lato della scrivania, emettendo un tonfo ovattato.
“Sì, davvero bizzarro. Le uniche che si sono fatte vive sono state quelle fighe di infermiere, ma lo hanno fatto solo per provocazione, te lo dico io. Magari è un complotto anche quello. Dio Mio, sembra che abbiano scritto scopami sulle chiappe.”
Già, hanno davvero un bel culo.
Cerco di nascondere qualsiasi mia minima variazione espressiva, stringendomi la faccia tra le mani e massaggiandomi le tempie con movimenti circolari.
“Lasciamo perdere le infermiere.” Dico, seppur a malincuore. “La questione è, Gilbert, che ci stanno tutti prendendo in giro. Questo ospedale potrebbe essere solo uno spettacolo di marionette, o qualsiasi altra buffonata. Ma di una cosa sono certo...”
Scatto in piedi, passando davanti a Gilbert. Mi piazzo immobile di fronte all’armadio metallico con le mani incrociate dietro alla schiena. Sì, l’armadio che contiene le vite dei miei pazienti.
“Se tutto questo fosse vero, se le ipotesi di complotto non fossero solo una fantasia dei miei neuroni, allora le vere vittime sarebbero comunque solo loro.”
Poso una mano sulla superficie liscia e fredda dei cassetti.
“Dovrò occuparmene il prima possibile e, per farlo, temo di essere costretto a ricorrere al Transfert. In ogni caso...” Chiudo gli occhi, abbozzando un sorriso che sa di speranza. “... chi verrebbe mai a saperlo? Anche se non è del tutto legale, questo è l’unico modo per vederci chiaro e sono disposto a tutto per raggiungere il mio obiettivo.”
Probabilmente, Gilbert non ha il coraggio di contraddirmi e non aggiunge altro. Il silenzio è interrotto solo dal tonfo dei suoi piedi che ricadono sul pavimento.
“Fa’ come ti pare, non me ne intendo.” Mi dice, dandosi una ripulita alla divisa.
Il mazzo delle sue chiavi tintinna.
“Comunque...” Prosegue, e io mi volto verso di lui. “... cosa ne facciamo del beota mangia-pasta qui fuori?”
Con un gesto del pollice indica la porta chiusa del mio ufficio. Feliciano sta ripulendo i corridoi, ma non sento alcun rumore provenire dall’esterno.
“Vuoi elettrizzare pure lui? Magari è un fantasma come l’inserviente, oppure una spia mandata per tenerci d’occhio.”
Io socchiudo le palpebre e scuoto la testa.
“No, non è così. Io credo che Feliciano Vargas sia davvero nella nostra stessa posizione. È capitato qui per caso e...”
Le parole che ho scambiato qualche giorno fa con Edelstein, in vista dell’ammissione di Feliciano, mi perforano il cervello come un proiettile di ghiaccio. Quasi mi sento mancare il fiato.
Va bene così, Beilschmidt. Ricorda, va bene così.
No, mi rifiuto di credere che Feliciano mi stia prendendo in giro. Quando abbiamo aperto la stanza numero nove lui... ah, ecco! La stanza numero nove!  
“Gilbert!” Tuono, e mio fratello fa un balzo all’indietro, contorcendo il viso in un’espressione quasi scandalizzata.
“Che vuoi, ora?”
“Feliciano non sta pianificando un bel niente! Lui ha avuto la mia stessa reazione alla stanza numero nove. È molto probabile, invece, che lui sia il tassello che ci sarà utile per risolvere la questione!”
Appoggio il mento sulle nocche, continuando a ragionare sotto questa prospettiva, che non sembra convincere Gilbert. Lui sospira, mettendosi le mani in tasca.
“Non so quale sia il tuo piano, ma secondo me è meglio cavarcela noi due soli. Anzi...”
Si getta su di me, accerchiandomi il collo con un braccio. Io ruoto gli occhi da un’altra parte, cercando di evitare il suo ghigno.
“...perché non lasci che io faccia irruzione direttamente nei piani alti di questa baracca? Sarà semplice, faccio il culo a qualcuno e lo costringo a vuotare il sacco su tutto quello che sa.”
“Assolutamente no!” Esclamo, fulminandolo con lo sguardo. “Questa cosa va risolta qui e Feliciano, essendo parte del problema, è anche parte della soluzione.”
Me lo scollo di dosso, e lui pianta il broncio, dando un calcio all’aria. Io mi risistemo il colletto del camice.
“È deciso, mi prendo qualche settimana per prepararmi al Transfert e poi esamineremo i pazienti uno ad uno.”
Serro i pugni e le dita sudaticce scivolano come fossero ricoperte di sapone. Per il Transfert sarei pronto anche subito. Se voglio aspettare che passi ancora del tempo, prima di ribaltare questa clinica come un guanto, è solo perché sento una scarica di brividi divorarmi i muscoli al solo pensiero di riaffrontare la cella numero nove.
Purtroppo, so già che sarò costretto a farlo.
 
 
Il Transfert è pronto. Mette quasi un senso di soggezione, stringerlo tra le mani.
Passo il pollice sulla prima cinta di stoffa imbottita di cuscinetti in gomma piuma, poi lo faccio scivolare sui cavi in rame rivestiti di plastica colorata – uno blu, uno rosso e due gialli – che strisciano da sotto la stessa benda nera, andando ad infilarsi sotto il tessuto dell’altra fascia, esattamente identica alla prima. Apro la chiusura in velcro, che si lamenta come se avessi calpestato della plastica accartocciata. Esamino per bene quell’aggeggio che dovrò poi richiudermi intorno alla fronte.
Arriccio il naso in segno di disapprovazione.
Sembrerò di sicuro un idiota, oppure uno di quelli che, per disperazione, vendono il proprio corpo in nome della scienza, lasciando che venga sottoposto a chissà quali torture in cambio di soldi.
Mi infilo nel braccio tutte e due le fasce scure, lasciando penzolare i fili ripiegati che mi toccano le ginocchia. Mi sollevo dalla poltrona dell’ufficio, sospirando.
È l’unica soluzione.
Esco dalla stanzina che inizia a puzzare di umido, e faccio scattare la chiusura dietro di me. Non ho nemmeno preso le cartelle cliniche, non mi serviranno. Alzo il braccio, dal quale ciondolano i morbidi anelli frontali, gli unici due elementi che costituiscono il tanto famigerato Transfert. Smetto di guardarlo, e l’aria di sfida nei suoi confronti mi si spegne negli occhi, poi abbasso lo sguardo sulle setole dello spazzolone che scivolano sulle mattonelle lattee. Sono davvero ben lucidate.
Però...Sorrido compiaciuto. Se non altro ha speso bene quel mese in cui è stato qui.
Subito dopo che ho chiuso la porta, Feliciano ruota sulla punta di un piede, voltandosi verso di me. Ha disegnato un semicerchio immaginario con lo spazzolone sulla superficie liscia e splendente del pavimento. Nulla però brilla più del suo sorriso, ora come ora.
“Oh, hai finito di lavorare, Ludwig? Che bello, oggi hai fatto prima!”
Anche il suo tedesco è migliorato.
Si avvicina a me saltellando come un cerbiatto, lasciando perdere il suo lavoro. Ha appoggiato il manico della scopa sulla spalla destra, come se stesse imbracciando un fucile. Ma mi sembra un paragone fin troppo forzato, per uno come lui.
“Feliciano...” Gli dico con tono neutro, frenando il suo entusiasmo.
Lui piega la testa di lato, con un’aria che sembra abbia disegnato sulla faccia un punto interrogativo. Io sollevo il braccio che sostiene il Transfert, stando attento a non far scivolare le due fasce.
“Ora devo tornare là dentro.” Liquido tutta la bufera neuronale che solleverò solo con questa frase. È evidente che non so nemmeno io cosa aspettarmi.
Feliciano piega gli angoli delle labbra all’ingiù, inarcando le sopracciglia.
“Eh? Mi lascia qua da solo? Ma io ho paura. E quanto tempo dovrai starci?”
“Non lo so.” Gli rispondo scuotendo la testa. “Ma tu devi promettermi...”
Gli afferro le spalle, così sottili e fragili sotto la mia morsa fin troppo brutale. Lo fisso dritto negli occhi, proprio come un padre guarderebbe il proprio figlio prima di partire per una battaglia. Alla fine... è proprio una guerra, quella che andrò a combattere.
“Devi promettermi che se io non dovessi uscire da lì entro ventiquattrore, tu scapperai. Lascia il Welt, lascia Berlino, tornatene in Italia e non rimettere mai più piede qui dentro, hai capito?”
Il suo labbro inferiore inizia a tremare, e una lacrima, piccola come una goccia di rugiada, affiora da un angolo della sua palpebra.
“Devo abbandonarti qui?”
Io annuisco.
“Esatto. Scappa, Feliciano, non c’è altra soluzione.”  
“E Lovino? Io avevo promesso che lo avrei riportato a casa, un giorno. Non posso lasciare qua anche lui per sempre.”
Io volto il capo dietro di me, sapendo che, alla fine del corridoio, la porta dell’inferno mi aspetta.
“A tuo fratello ci penso io, non ti preoccupare. Lo vedi questo?”
Alzo il braccio destro, staccandolo dalla sua spalla, e Feliciano avvicina il naso ai cavi penzolanti.
“Questo è il Transfert, Feliciano. È un apparecchio molto speciale che mi permette di entrare nella mente di chiunque io voglia. Non è un metodo molto ortodosso, ma credo che mi servirà a comprendere meglio un sacco di cose, per quanto riguarda questa clinica e i suoi ospiti. Tuo fratello incluso, ovviamente.”
Feliciano non sembra abbia capito molto, e si porta l’indice tra le labbra.
“Vuoi dire che riuscirai a leggere i pensieri di Lovino?”
“Non esattamente, sarò come uno spettatore di ciò che accade nel suo subconscio. Comprendere la psiche dei pazienti del Welt sotto questa prospettiva mi aiuterà a capire se c’è davvero un valido motivo per cui li abbiano rinchiusi qui, oppure se anche loro sono sfortunate vittime di questa assurdità.”
“E farà male? Quell’arnese ha un aspetto spaventoso.” Piagnucola, indicando il Transfert avvolto intorno al mio braccio.
Io scuoto la testa, sperando di rassicurarlo.
“No, non è pericoloso. Infatti, questo è il passaggio che mi preoccupa di meno.”
Quella porta, anche se non la vedo ancora, mi sta chiamando, lo sento. Sussurra parole di sfida che attirano il mio sguardo come una calamita.
Inizio a giocherellare con le unghie, per attenuare il nervosismo.
“Se c’è una cosa che davvero mi spaventa è la stanza numero nove.” Confesso, senza vergognarmi del mio timore.
Feliciano, al suono di quella maledetta camera, si allarma e scatta all’indietro con un balzo.
“Vuoi tornare in quella stanza?!” Esclama, prima di appendersi al mio camice, con occhi supplichevoli.
“Allora portami con te, anche io devo tonarci. Ti prego!”
Le sue dita sono aggrappate come artigli sulla stoffa bianca, e non sembra abbiano intenzione di cedere. Io gli afferro i polsi, ma stando attento a non fargli male.
“No, tu devi stare qui con Gilbert. Deve esserci almeno una persona in grado di uscire, nel caso accadesse l’inevitabile. È più sicuro per tutti, capisci?”
“Ma io non voglio vederti di nuovo andare via!”
Feliciano scoppia in un pianto amaro, che si scioglie sulle sue guance arrossate. Le sue lacrime brillano come diamanti mentre rotolano sulla sua pelle, gocciolando sotto il mento.
La mia testa comincia a vacillare, come se stessi perdendo l’equilibrio. È la stessa sensazione che ho provato quando ho visto la sua sagoma nera sotto l’arcata della cella numero nove. Anche la sua voce ora sembra che si sia rimpicciolita. Devo avere il cervello liquefatto se sto avendo addirittura delle allucinazioni uditive.
“Ma... cosa dici?” Gli domando, scosso da un tremolio. “Andare via... di nuovo?”
Lui abbassa il capo, smettendo di piangere come se si fosse pentito della sua stessa affermazione.
“Ti prego, lascia che venga anch’io.” Replica.
Ripenso a quello che è successo un mese fa davanti alla numero nove, al suo arrivo, e a tutte le rivelazione che sono uscite alla luce del sole, forse solo grazie a lui.
Ossigeno ogni centimetro del mio corpo con un profondo sospiro e aggrotto la fronte, tentando di assumere l’espressione più severa che mi riesce.
So già che me ne pentirò...   
“Se solo ti metterai a piangere anche solo una volta, sappi che non potremo tornare indietro con tanta facilità.”
“Non succederà, lo giuro!” Esclama, strofinandosi gli occhi con la manica troppo larga della divisa.
Io ammorbidisco lo sguardo di ferro.
“Va bene, allora noi...”
“Stavate pensando di lasciare solo il sottoscritto, brutti bastardi?”
Gilbert salta fuori da dietro l’angolo del corridoio, puntandoci l’indice contro. Le labbra sono piegate in un ghigno disgustato.
“Non ho intenzione di rimanere qui mentre voi saltellate in giro come due sposini nel paese dei matti.”
Incrocia le braccia e solleva il mento, squadrandoci con occhi che proiettano scintille di malizia.
“Nel caso ve lo stiate chiedendo, allora sì, ho sentito tutto quello che vi siete detti, e l’ho trovato vomitevole. In ogni caso, da qui non vi muovete senza di me!”
Mi massaggio le palpebre con aria avvilita.
Forse, il vero inferno è sempre stato qui fuori.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


 

CAPITOLO 5

 
 
Cella #1
Paziente: Alfred F. Jones
 
L’atmosfera è fredda e stagnante all’interno della cella numero uno. Il condotto di ventilazione, però, è acceso e riesco a percepire il ronzio che vibra nei tubi cementati sopra le nostre teste. Ma queste stanze sono fatte per essere dimenticate, sono fatte perché solo una persona possa perdersi nel loro oblio. Solo una. Non è mai capitato, nella storia del Welt, che così tanti individui si ritrovino a respirare la stessa aria in quelle quattro mura.
Gilbert, di fianco a me, emette un lungo e acuto fischio, che si confonde per qualche secondo con quello del condizionatore, e stringe le mani attorno al bacino, sbilanciandosi in avanti.
“Wow, questo deve essere uno sballato forte.” Commenta con eleganza, guardando attraverso la barriera divisoria trasparente, quasi invisibile, se non fosse per i fori dell’aria.
Feliciano ha afferrato con due dita il bordo della manica del mio camice e si limita a starsene immobile, seminascosto dalle mie spalle. Per me, la situazione non è poi così nuova, ho perso il conto di tutte le volte in cui sono entrato qui dentro.
Sollevo il mento, incupendo lo sguardo.
“Jones.” Chiamo con voce ferma l’inquilino della numero uno.
Lui è da prima che ci guarda, da quando siamo entrati. È seduto sulla branda, a gambe piegate con le ginocchia all’infuori, ad ali di farfalla. Le mani sono aggrappate intorno ai piedi, facendo combaciare le due piante.
Ci saluta con un sorriso innocente, quasi infantile, ignorando completamente lo scherno di Gilbert. I suoi occhi premono su di noi, due vortici d’acqua che rispecchiano il bagliore della lampada bianca sul soffitto.
“Oh, dottore, finalmente è tornato!” Esclama con voce squillante.
Tende il collo in avanti, aguzzando la vista, e le sue palpebre si assottigliano.
“Perché è lei, vero, dottore? La vedo più largo del solito, oggi.”
“Non ti preoccupare di questo. Ci sono altre due persone, ma non influenzeranno la nostra chiacchierata. Tu fai finta che non ci siano.”
Gli parlo con naturalezza, proprio come farei con chiunque altro. È la prima regola, con loro. Mi devo sforzare il più possibile di non farli sentire diversi.
Il suo viso si irradia più del sole e i suoi zigomi arrossiscono come due pomodori maturi. Alza il mento al cielo con aria fiera, drizzando la schiena.
“Questo vuol dire che ha chiamato qualcun altro per ammirare le mie gesta, dottore? Ah, ah, ah, sono felice di avere pubblico!”
Se ne rimane impalato come un adone in posa per un quadro, a ridere a squarciagola. Gilbert ha piegato la testa di lato, e il suo viso è una maschera di ribrezzo. È da quando abbiamo messo piede nella stanza che non riesce a scollargli gli occhi di dosso.
“Mio Dio, oltre ad essere idiota è anche cieco? Come fa a non accorgersi di...”
“Effettivamente...” Lo interrompo, prima che possa terminare la frase piegandola sul lato narcisistico. “... Alfred F. Jones è miope, e anche parecchio. Sono stato costretto a togliergli gli occhiali per evitare che si rompano, in previsione di una sua caduta. Non voglio di certo trovarlo una mattina con un vetro conficcato in una pupilla.”
Gilbert sbuffa, e il disgusto si trasforma in un broncio. Io mi risistemo il camice, incastrando bene il Transfert nel gomito, stando attento che non cada per terra, e mi schiarisco la voce.
“Bene. Ora chiudi la porta, Gilbert, così posso sollevare la barriera. Cerchiamo di non tirarla troppo per le lunghe.”
Gilbert emette una smorfia di disapprovazione, ruotando gli occhi al cielo. Poi, come se qualcosa lo avesse d’improvviso fulminato, arriccia la bocca in un ghigno malefico.
“Ehi, eroe!” Urla ad Alfred, massaggiandosi il mento.
Lui lo corregge subito, interrompendo la risata.
“Super-eroe! Non hai notato che sono nella stanza numero uno? Sono il migliore, per questo non posso limitarmi ad essere un semplice eroe.”
Esibisce un sorriso smagliante, mettendosi una mano sul petto, raccogliendo le sue stesse lodi. Gilbert non ci dà peso, e agita una mano per aria.
“Va bene, va bene, come vuoi tu. Ma, spiegami una cosa: se hai davvero dei super poteri, come mai non ti liberi da questa cella, eh? Potresti farla sparire, oppure abbatterla con un pugno. E che ne dici di teletrasportarti? Sarebbe una bazzecola per te.”
Gilbert!” Ruggisco contro di lui, afferrandolo per il colletto della maglia.
La stoffa della sua divisa si sfrega sotto le mie dita, quasi lasciandoci il segno. Sento tutte le vene pulsarmi dalle mani fino alle tempie. Volendo, potrei persino sollevarlo da terra. Feliciano è arretrato, chiudendosi nelle spalle come un riccio impaurito. Io digrigno i denti, trapassando mio fratello con una sola occhiata.
“Ero stato chiaro a riguardo, non devi parlare con i pazienti! Dio solo sa cosa potresti far frullare loro in testa con quei due neuroni zoppi che ti ritrovi. I commenti tienili per te, una volta tanto. E se non ci riesci ci penserò io a farteli ringoiare, ci siamo capiti?”
Cominciamo bene. Anzi, non abbiamo ancora cominciato e già ho i nervi a fior di pelle per colpa di questa testa di cazzo.
Gilbert, dopo essersi liberato dalla mia morsa di ferro, si gira di spalle, incrociando le braccia come una smorfiosetta.
“Chiedo venia, Herr Doktor.” Risponde sarcastico, quasi sputando le sue scuse contro di me, con disprezzo.
Io emetto un profondo sospiro, rilassando tutti i muscoli.
“Ah, ma non devi scusarti!” Interviene Alfred al posto mio, alzando un indice al cielo.
“È una domanda del tutto lecita. Ma, vedi, se io usassi i miei poteri sarebbe una sfida ad armi impari, non credi? Io posso uscire di qui anche senza il loro aiuto. Anzi, sono sicuro che sarà il mondo a venire a liberare me, ad un certo punto, perché si sentirà indifeso!”
Feliciano piega la testa di lato e nei suoi occhi brilla una scintilla di confusione. Non credo abbia capito il suo ragionamento. Penso gli farebbe piacere sapere che siamo in due, molto probabilmente in tre.
Gilbert borbotta qualcosa tra una soffiata e l’altra, poi si decide ad eseguire il mio ordine e va a ruotare la chiusura della porta, che viene sigillata ermeticamente. Io mi affretto a premere il pulsante che mette in moto la barriera, in modo da poter raggiungere Jones e fargli indossare il Transfert. Spingo la punta dell’indice sul bottoncino rosso, schiacciandolo dentro al muro.
“Sto abbassando la barriera, Jones. Puoi anche scendere dal letto.”
“Arrivo!”
Si alza in piedi con uno scatto fulmineo e spinge tutto il peso sul materasso piegando in avanti le spalle, poi salta giù dal letto come stesse decollando. Non vedendoci bene, ovviamente sbaglia le coordinate di volo, e finisce col muso spremuto contro il divisore in plastica che non ha ancora finito di ritirarsi.
Ecco perché gli ho impedito di indossare gli occhiali. Certo, se li avesse indossati non avrebbe sbagliato e non sarebbe andato a sbattere. In quel caso allora... ah, ma chi se ne frega!
Il suo sedere va a baciare il pavimento e lui emette un gemito confuso, soffocato dalla mano che massaggia la punta del naso.
“Ho poca energia.” Si lamenta, a occhi strizzati. Apre una palpebra, ruotando la pupilla lucida verso di me. “Ehi, dottore, aveva promesso che avrei potuto mangiare almeno un panino, un giorno. Il mio corpo ne ha bisogno! Altrimenti continuerò a far figure di questo genere, senza il carburante necessario.”
Io scuoto la testa, avvicinandomi a lui cautamente, a passo lento.
“Se accetterai di fare questo esperimento con me, ti prometto che ti farò mangiare tutti gli hamburger che vuoi, d’accordo?”
Il meccanismo della barriera scatta. Il divisore si è ritirato del tutto dentro al soffitto.
Alfred riapre entrambi gli occhi, due lampi celesti che tremano di contentezza. Il naso si è già arrossato, come le sue guance.
“Davvero? Devo solo fare un esperimento? E che cosa dovrei fare? Usare uno dei miei poteri?”
“No, ma qualcosa di simile. Vedi, questa speciale macchina...” Sfilo il Transfert dal mio braccio e glielo mostro nei minimi particolari, avvicinandolo al suo viso. “...è un trasmettitore di super poteri. Se lo indosseremo insieme allora l’energia che ti donerò si trasferirà nella tua mente, assumendo le sembianze di nuovi poteri che tu assorbirai.”
“Eeeh? Davvero avrò dei poteri ancora più forti? Ma è magnifico!” Esclama, stringendo i pugni dalla contentezza. Mille scintille si spargono dai suoi occhi, come uno sciame di fuochi d’artificio.
Io annuisco, ma non pensavo che ci avrebbe davvero creduto.
“Bene, allora. Adesso te l’aggancio.”
Yes, Sir!
Si mette a gambe incrociate, io invece mi inginocchio, per essere pronto a scattare in qualsiasi evenienza. Faccio passare la fascia, sotto alla quale affondano le radici dei cavi, sopra i suoi capelli fulvi, che si scompigliano. Allaccio il velcro, stando attento a non stringergliela troppo, e ripeto la stessa operazione sulla mia testa.
Gilbert e Feliciano si sono avvicinati, presi dalla curiosità, ed entrambi allungano il collo verso di noi.
Ora, non so quello che dovrei fare. Credo basti lasciar scorrere i pens...
 

***

 
 

Eppure... un tempo eri così grande.

 
Mi piace giocare con i soldatini che mi ha regalato Arthur. Hanno il viso fiero, uno sguardo tenace, le spalle larghe e la schiena dritta. Se fossero vivi, scommetto che sarebbero potentissimi.
Mi gratto il ginocchio nudo – i pantaloni mi coprono solo metà della gamba – solleticato dagli umidi fili d’erba del giardino. Il sole è sorto solo da poche ore, e la rugiada non è ancora del tutto asciutta. Mi appoggio con una mano sul prato tiepido e spruzzato di goccioline d’acqua, mentre con l’altra sollevo la statuina, immergendola sotto i raggi dell’astro mattutino. Anche i colori della divisa sono bellissimi, penso: bianco, rosso e blu. La punta della baionetta che imbraccia il soldatino emette una piccola scintilla che mi fa strizzare le palpebre.
Chiudo gli occhi, respirando l’aria frizzante che scuote le cime degli alberi, e sento le foglie che scrosciano, componendo una dolce sinfonia. All’improvviso, un dolce profumo caldo e zuccherato mi solletica il naso, passandoci sotto come una scia.
“Alfred, vieni! È pronta la colazione.”
Riapro gli occhi, voltandomi verso la casa da dove è partito il richiamo. Un raggio di sole si scontra sul vetro della finestra, abbagliandomi la vista. Stacco la mano dall’erba, coprendomi la fronte con il braccio, e vedo Arthur fermo sull’uscio, anche lui si sta riparando gli occhi con la mano. Il sole proietta la sua ombra sul muro, allungandola fino a farle toccare la finestra del primo piano.
“Sbrigati ad entrare, altrimenti si raffredda il tè.” Replica, e io gli sorrido.
Effettivamente, ho un certo languorino. Mi alzo in piedi, ripulendomi i pantaloni dai granelli di terra e dai petali di una pratolina che ho schiacciato.
“Arrivo subito!”
Mi infilo il soldatino in tasca e corro a casa. Arthur è già rientrato.
 
Mi aggrappo al bracciolo della sedia, dandomi una forte spinta con i piedi per riuscire a salirci, poi faccio scivolare la tazza di porcellana bordata d’oro verso di me, afferrandola per il piattino, e comincio a riempirla di cucchiaiate di zucchero.
“Non esagerare.” Mi rimprovera Arthur, mentre versa il tè già filtrato nelle due tazze.
Io inizio a mescolare la bevanda fumante ancor prima che lui si sieda. Ha anche portato un vassoio argentato stracolmo di biscotti alle mandorle, e lo ha posato proprio di fronte a me. Allungo la mano e ne agguanto uno, il più grosso, e lo tuffo dentro alla tazza, inzuppandolo nel mio tè. Una cascata di gocce roventi annaffia tutto il piattino ed una schizza sulla tovaglia finemente ricamata, ma Arthur non sembra accorgersene. Io faccio finta di niente, coprendola con il tovagliolo. Se la scoprisse si arrabbierebbe moltissimo.
Addento il dolcetto ammorbidito e, aggredito dal sapore amaro che si spreme in tutta la mia bocca, mi scappa una smorfia. Fa proprio schifo, il suo cibo, ma ho talmente fame che mi mangerei anche una fetta di pane spalmata di Marmite.
Lui non tocca i biscotti, limitandosi a sorseggiare dalla sua tazza.
“Cosa stavi facendo in giardino a quest’ora, Alfred?” Mi domanda, e io mi affretto ad inghiottire il boccone.
“Stavo giocando con i soldatini a salvare il mondo, mi stavo divertendo.” Gli rispondo con la bocca ancora impastata di poltiglia di biscotto.
Ne prendo un altro dal vassoio e ricomincio ad imbrattarlo nel tè. Arthur abbassa lo sguardo, posando la tazza sul piattino, poi scuote la testa con aria contrariata.
“Ormai stai iniziando a diventare grande, Alfred, dovresti cominciare a comportarti come tale, pensando ad investire il tuo tempo in attività più serie. Non potrai passare tutta la tua vita a giocare, lo sai anche tu.”
“Ma io da grande voglio fare il super eroe, non mi serve ricordare tutte quelle cose barbose che mi dai da leggere. Non ho tempo di impararle.” Gli rispondo, ingollando la pastella innaffiata con un sorso di tè tiepido.
Arthur scuote nuovamente il capo.
“Sai che io penso solo al tuo bene. Se intendi intraprendere la strada della ribellione sarà solo il tuo futuro a rimetterci.”
“Eh? Ma io non mi voglio ribellare, Arthur, voglio solo che tu mi lasci decidere la mia strada da solo.”
Lui appoggia un gomito sul tavolo – mi ha sempre detto che è maleducazione, uffa! – e affonda la guancia nel pugno chiuso, mescolando svogliatamente quel che è rimasto del tè con l’altra mano.
“Devi fidarti delle mie scelte, Alfred, io so cos’è meglio per te. Pensare di diventare grande per salvare il mondo con dei poteri immaginari ti affonderà. Le persone non hanno bisogno di pazzi spericolati che credono di vivere solo nutrendosi della gloria.”
Io faccio ciondolare le gambe dal bordo della sedia, e abbasso lo sguardo sulla superficie della bevanda ambrata, che ha smesso di fumare. Fisso il mio stesso riflesso: sono ancora poco più di un poppante che puzza di latte. Mi scosto il ciuffo dalla fronte, lasciando ben visibile il volto tondo e delicato.
“Forse, se io tentassi... e se tu mi lasciassi provare... io potrei anche dimostrarti che gli eroi esistono.”
“Dubito che potresti farmi cambiare idea, Alfred.” Mi interrompe subito Arthur. “E poi, non posso permettere che tu perda così il tuo tempo, che tu getti la tua vita nella spazzatura solo per inseguire una chimera.”
Chimera?
Io alzo il viso, tentando di incrociare la sua espressione di rimprovero. Arthur ha di nuovo voltato lo sguardo, i suoi occhi smeraldini fissano il vuoto fuori dalla finestra. Se ne sta pigramente abbandonato sul gomito, con il bordo della tazza appoggiato sulle labbra.
“Ma tu credi nelle fate e negli unicorni, vero?”
Arthur sputa il tè nel piccolo recipiente in porcellana, tossendo un paio di volte. Si asciuga la bocca con il tovagliolo in tinta con il ricamo della tovaglia e si schiarisce la voce.
“Non... non centra niente, Alfred. Io continuo comunque ad amministrare la mia vita nel modo più corretto. Se ogni tanto ti sembra che certi miei comportamenti non siano del tutto ortodossi, sappi che mi guardo bene dallo spiattellarli in giro come se niente fosse. Il tuo caso è diverso, Alfred, perché tu hai deciso di voler vivere della tua stranezza, un giorno.”
“Stranezza?”     
Sento un tonfo nel cuoricino, e mi stringo la maglia all’altezza del petto.
Allora è così che mi vede?
“Non c’è nulla di strano nel decidere di cambiare le cose.” Gli confesso, abbassando gli occhi sulle ginocchia.
La luce filtrata dalla finestra si posa sui miei capelli, riversati sulla fronte, e irradia un riflesso color miele. Sento la sedia di Arthur spostarsi sul pavimento, e lui mi si avvicina, posandomi una mano sulla testolina.
“Io voglio solo che tu non corra pericoli, lo sai, Alfred?” Chiede retorico, abbassando il capo per cercarmi sotto i fili dorati che mi nascondono il viso.
“Se resterai accanto a me, facendo il bravo, la tua vita sarà sicura e senza problemi.”
Io scuoto la testa, e il palmo della sua mano mi strofina i capelli.
“Ma io voglio viverla come piace a me, non posso rimanere per sempre sotto la tua protezione.”
Sollevo gli occhi lucidi che, tuttavia, non hanno versato una sola lacrima.
“Io sono sicuro che da grande sarò fortissimo, e che potrei persino proteggere te, Arthur. Ma, ti prego, dammi la possibilità di dimostrarti che sono in grado di cavarmela da solo.”
Arthur abbassa le palpebre, non cedendo al mio sguardo di supplica.
“Se ti permettessi di fare sempre quello che vuoi, Alfred...” Stacca la mano dalla mia testa e si volta, dandomi le spalle con le dita incrociate dietro alla schiena. “... ho davvero la sensazione che potresti cacciarti in guai di dimensioni astronomiche.”
No, si sbaglia.
Stringo i pugnetti e una nuova luce anima i miei occhi, più agguerriti e combattivi.
Quando crescerò... quando crescerò diventerò fortissimo. Diventerò l’eroe della terra e dimostrerò ad Arthur che si sbaglia. So che si arrabbierà moltissimo, ma devo imparare a cavarmela da solo, senza il suo aiuto.
Gli eroi... sanno contare solo sulle loro stesse forze.
 
 
Mi appoggio con tutto il peso sulla maniglia in ottone, stringendomi la spalla con l’altra mano, a denti serrati. I grilli cantano nel giardino, tra i ciuffi d’erba colpiti dai deboli raggi di una luna nascosta da pesanti nuvoloni grigi. Che notte da lupi...
Respiro a fatica, e uno sbuffo di condensa si gonfia davanti alla mia bocca, per poi dissolversi nell’aria gelida che mi penetra nelle ossa. Giro la maniglia, facendo scattare la serratura, e chiudo la porta dietro di me, dandole una spinta con la spalla sana.
Quando sento finalmente il tiepido calore dell’ingresso che mi rilassa i muscoli, mi lascio scivolare sulla superficie lignea, sedendomi per terra a gambe divaricate e il braccio ciondolante sul mio fianco. L’altro è sempre stretto attorno alla spalla indolenzita.
Passo velocemente il dorso della mano sulla guancia e, quando lo espongo alla luce della luna che filtra dalla finestra del corridoio, lo vedo sporco di sangue nero come la pece. È molto probabile che me lo sia spalmato su tutta la faccia, infatti sento che la pelle del viso si è inumidita. Con la stessa mano tocco la punta del naso, ma la ritiro subito, soffocato dal dolore lancinante che mi stritola fino sulla fronte.
Merda... probabilmente l’ho rotto...
Tolgo gli occhiali, esaminandoli sotto il riverbero lunare. Sono scheggiati e una stanghetta è piegata. Me li rinfilo sulla fronte, incastrandoli tra i capelli collosi, probabilmente anch’essi sporchi di sangue, e cerco di distrarre la mente dal dolore alla spalla, che si dirama su tutto il braccio fino alla punta delle dita. Provo a muoverle, ma è come affondare la mano in una vasca di spilli.
“Che diavolo hai combinato, Alfred?!”
Lo strillo di Arthur rimbomba attraverso tutto il corridoio e, quando sollevo la testa, lo ritrovo materializzato davanti a me. La sua ombra copre tutta la mia figura, che sembra una vecchia marionetta da rottamare. Arthur indossa ancora i vestiti da giorno, probabilmente mi stava aspettando alzato.
Io cerco di mostrarmi positivo anche davanti ai suoi occhi furenti. Forzo un sorriso, che tenta di coprire i miei ghigni di dolore.
“È davvero... una sfiga... non avere il potere della rigenerazione. Questa volta... mi hanno... proprio fregato.”
Lui si china, aggrottando la fronte, livido di rabbia. Quando si piega, il suo ginocchio scrocchia, e il suo fiato mi arriva subito fino al collo.
“No, è davvero una sfiga che tu non abbia il potere del buon senso, Alfred! Quante volte dovrai prenderle, prima di imparare che non puoi buttarti alla cieca in...?”
“Questa volta la situazione era... diversa. Non pensavo che... che mia avrebbero colpito. Mi sono detto: Ehi, vuoi che dei rapinatori rischino di diventare degli assassini solo per fregare qualche spicc... Ahia!”
Arthur ha provato a toccarmi la mano che fascia la spalla, ma non voglio mollare la presa e affondo le dita nella stoffa della giacca. Lui inarca le sopracciglia.
“Rapinatori?! Cristo, Alfred, ti sei messo in mezzo ad una rapina solo per...”
“Dovevo bloccarli. Ho pensato che sarebbe stato facile, anche solo scazzottandoli con due colpi ben assestati ma... ehi, fermo!”
Riesce a scollarmi le dita dalla spalla, ed io non posso fare altro che ritirare la mano zuppa di sangue appiccicoso. La giacca è squarciata in una taglio netto e dalla pelle il liquido scarlatto spurga a fiotti. Arthur sbianca in volto, io invece ridacchio, quasi divertito.
“Le pistole erano finte, come avevo sospettato, ma non avevo messo in previsione l’idea di un coltello.”
Arthur piega all’ingiù gli angoli della bocca e si toglie la sua giacca, tappandomi la ferita con una delle due maniche. Quando fa pressione, strozzo un gemito tra i denti.
“Non puoi continuare così...” Mi rimprovera con tono abbattuto. “Perché non la smetti di fare follie, Alfred?”
Il sorriso mi si spegne in volto, ed ingoio quel dolore lancinante come un boccone amaro.
“Per aiutare le persone. Il mondo ha bisogno di eroi.”
“No, invece. Non lo fai per questo, Alfred.”
Arthur solleva gli occhi severi, schiacciandomi sulla porta solo con quello sguardo.
“Tu lo fai per compiacerti, solo per dimostrare a te stesso che vali qualcosa. Non sei affamato di giustizia, Alfred. Hai fame solo di gloria.”
Le sue parole mi colpiscono come una mazzata alla nuca. Abbasso gli occhi, guardando il sangue che gocciola sul pavimento. Vicino alla mai gamba si è estesa una macchia scarlatta, che scivola come vernice sopra al marmo.
“No, non è vero.” Scuoto la testa. “Io lo faccio perché... perché io... so di essere in grado di cavarmela anche senza...”
“Ah, certo. Infatti, si vede come te la cavi bene.” Risponde sarcastico.
Arthur molla la presa e lascia che continui da solo a far pressione sulla ferita. Si alza in piedi, strofinandosi le mani pregne del mio sangue sulla camicia. Poi si volta, dandomi le spalle, ed io mi ritrovo abbandonato sul ciglio della porta.
“Se è questa la vita che ti sei scelto, allora non ti fermerò. Non posso impiegare la mia esistenza a correre dietro alle tue follie, Alfred. Se questo è il tuo modo per ripagarmi della protezione che ti ho sempre offerto, allora accomodati. Pensavo che fossi diventato grande abbastanza da aver superato quella fase ribelle.”
Trattengo il fiato, assalito dai capogiri. Probabilmente sto perdendo troppo sangue. Arthur, però, non mi aiuta. Credo che non potrò mai più ritirarmi sotto la sua ala a leccarmi le ferite.
Perché non mi capisce?
Strizzo gli occhi, e mi infilo in tasca l’altra mano con un gesto lento e arrugginito. Quando la estraggo, anche il viso del soldatino che reggo si macchia di sangue. Una piccola sbavatura rossa sul mio cuore.
Non sono io a non essere cresciuto.Penso, stringendo la statuina tra le dita tremanti e appiccicose. È lui a volere che io rimanga piccolo. Se crescessi davvero...
La sua schiena viene divorata dall’ombra del corridoio.
...allora si sentirebbe troppo debole per me.
 

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


CAPITOLO 6

 
Arthur Kirkland sparisce, diventando un tutt’uno con il buio corridoio che lo ingloba come dentro ad una bolla di scura pece. L’uomo si dissolve, e tutta la stanza diventa nera. Non ho più alcun colore a cui aggrapparmi, o una minima presenza di vita. Semplicemente, sto cadendo nel nulla. Stringo i denti, alzando gli occhi nel vuoto, scavato nel pozzo più profondo di una memoria che non è la mia.
Proprio come una vita che si sta spegnendo, o che sta venendo al mondo, vengo accecato da una lampo bianco, nato da un semplice luccichio improvviso. Muovo le palpebre con uno sforzo disumano.
“...udw... Lud... ig!”
Sembrano incollate, non vogliono rispondere. Pur provandoci, non riesco a staccarle. Tutto quello che ottengo dalla mia fatica è la visione di una semplice luce tremolante, che affiora attraverso gli spiragli lasciati aperti dalle ciglia.
“Lud...ig!”
Per il resto, il corpo è paralizzato. Per quanto mi riguarda, potrebbe anche essere sparito. Braccia, gambe, tutto...
Non mi sento appesantito, no.
Io non sento.
“...dwig! Lud...! ...ri...cchi! ...eglia... i!”
Un pizzico proprio sotto agli occhi, l’unica parte di me che sembra ancora intatta, seppur inadoperabile, mi fa ricredere alla mia teoria. Forse, il mio corpo non è andato perduto durante il Transfert.
Di nuovo quel formicolio, ma stavolta più forte, come uno schiaffo di spilli.
“Ludwig, apri gli occhi, porca miseria! Svegliati!
Sì, lo schiaffo c’è, dritto sulla mia guancia.
Sbatto le palpebre ripetute volte, mettendo a fuoco quella che sembra una tavolozza di colori malamente spremuti e mescolati a casaccio. Contraggo ogni singolo muscolo del mio corpo, soffocando il fiato per la fatica. Qualcosa mi sbatte sul fianco. Ah, il mio braccio! Sono riuscito a muoverlo, e anche il busto è tornato sensibile, a quanto pare.
Una sagoma bianca, snella e lunga sta volando su di me. Ora sono più lucido, e anche la vista è abbastanza chiara. Sollevo la mano, appoggiandone il dorso sul mio naso, a palmo aperto. Quel qualcosa si lascia avvolgere dalla mia presa, cadendoci dentro.
Apro completamente gli occhi, stanchi e pesanti come se qualcuno ci avesse soffiato sopra un pugno di sabbia, ma già abbastanza consapevoli di quel che mi accade intorno. Diciamo, quel che basta per vedere il braccio di Gilbert stretto tra le mie dita intorpidite.
Quel bastardo mi stava prendendo a schiaffi.
Ora mi rendo conto di essere a pancia insù, con il naso sollevato verso il soffitto – ah, eccola, la luce! -. I raggi della lampada battono violentemente sui capelli di Gilbert, facendoli brillare come argento vivo. I suoi occhi scarlatti mi osservano da sotto le palpebre assottigliate.
“Era ora, Herr Doktor. Direi che hai dormito abbastanza.” Butta lì la frase come se stesse raccontando una barzelletta, ma vedo una goccia di sudore rigargli una tempia.
“Ah, Ludwig! Finalmente ti sei svegliato!”
Qualcosa mi schiaccia la cassa toracica e io mi lamento, tra rantoli e gemiti, strizzando gli occhi. Quando li riapro, per l’ennesima volta, ritrovo il viso di Feliciano chino su di me. Lui è appoggiato di peso sul mio petto con entrambe le mani, facendomi respirare a scatti profonde boccate irregolari.
Gilbert lo spinge via, liberandomi una presa d’aria, e mi scuote la spalla.
“Dai, cerca di tirarti su. Non fare la femminuccia.”
Testa di cazzo. Vorrei vedere te, in una situazione del genere.
Facendo appello ad ogni mio grammo di volontà inarco la schiena, gemendo a denti stretti. Così mi ritrovo seduto, con Feliciano che mi sostiene una spalla. Lui inizia subito a frignare.
“Credevo che non saresti più tornato in te! Sembravi morto, Ludwig! È stato spaventoso...”
“Qua... quanto...”
Agito la lingua tra le guance secche, sperando di riuscire ad inumidirla almeno un po’, e sgranchisco la mandibola arrugginita.
“Quanto sono stato... dentro al Transfert?”
Mi porto le punte delle dita sulla fronte, toccandomi la fascia di stoffa imbottita di gomma piuma che ancora mi cinge la testa.
Gilbert alza gli occhi al cielo.
“Direi un’ora e dieci. Forse qualcosa di più, ma è stata una tortura. Una noia mostruosamente infinita. Non facevate altro che stare fermi come due monaci uno di fronte all’altro ad occhi chiusi. Se non fosse...”
“Hai interrotto tu il Transfert?” Lo blocco, ruotando gli occhi verso di lui con un gesto fulmineo.
La mia voce non è arrabbiata quanto vorrei.
Gilbert incrocia le braccia con aria seccata.
“Per chi mi hai preso? Certo che non l’ho interrotto io, non so nemmeno come funziona, quell’aggeggio. Ma ho intuito che il processo fosse terminato quando lo yankee è caduto per terra come una pera. Ha proprio tuonato il pavimento, avresti dovuto vederlo! Secondo me si è massacrato la bocca, è caduto di faccia.”
Appoggio la mano di fianco a me, sul lato destro, aprendo il palmo sul pavimento come una ventosa e ruoto il busto all’indietro, seguendo la scia di cavi che penzolano dal mio cranio. Inarco un sopracciglio, piegando all’ingiù un angolo della bocca.
Alfred F. Jones è spaparanzato al suolo come uno straccio bagnato, gettato in un angolo dopo essere stato passato sopra ai vetri. Un ginocchio è leggermente piegato verso l’esterno, e la punta del piede va a toccare il polpaccio dell’altra gamba distesa. Un braccio è nascosto sotto la pancia, e tre dita gli spuntano da sotto il bacino, a contatto con il pavimento. L’altro braccio, invece, è piegato verso la testa, coprendogli la bocca, e la mano è arricciata in un pugno sfiorato dalle ciocche dorate tutte scompigliate. Le palpebre sono chiuse, ma il viso è sereno, come immerso in un bel sogno.   
Anche lui è ancora sotto la forte stretta del Transfert.
“È... caduto a terra?” Chiedo, quasi incredulo.
Gilbert annuisce.
“Sì, non so spiegarmelo, è successo in un baleno. Come se avesse preso un infarto improvviso. Poi sei scivolato anche tu, per quello ti ho svegliato. Credevo foste rimasti stecchiti.”
Io striscio a gattoni verso Jones, che sembra tutt’altro che morto, ma non si sa mai. Poso delicatamente due dita sotto la sua gola e resto in silenzio. Una vena pulsa sotto i miei polpastrelli.
“No, è vivo, per fortuna.” Dico, sospirando.
Gli strappo il velcro del Transfert, sfilandoglielo con cautela da sotto la testa, stando attento che non sbatta per terra. Toccando la fascia, mi rendo conto che è bagnata.
La mia testa inizia a prudere, così ripeto l’operazione e, una volta sbarazzatomi di quella presa soffocante, mi scompiglio i capelli con le unghie, facendo prendere aria a tutto il cranio.
“Hai scoperto qualcosa, allora?” Gilbert arriva subito al sodo, ma io non mi giro nemmeno a guardarlo. Non stacco gli occhi dalla figura di Jones, che dorme come un bambino.
“Ho capito solo che Alfred F. Jones non è altro che un casinista egocentrico.” Sospiro, abbassando le spalle.
Gilbert grugnisce alle mie spalle.
“Tutto qui? Più di un’ora di agonia solo per...!”
“Va bene così, Gilbert.” Gli rispondo con calma. “Abbiamo appurato che il Transfert funziona e, cosa ben più importante, che i pazienti del Welt sono reali e non un mucchio di fantasmi. Certo...”
Abbasso il capo, premendomi su una tempia.
“... la loro reclusione qui dentro potrebbe risultare discutibile, se andassimo avanti così.”
Ruoto il busto, e Gilbert mi accerchia con uno sguardo contorto. Il suo labbro inferiore è leggermente abbassato.
Feliciano è inginocchiato di fianco a lui, e stringe le mani al petto con occhi vacillanti.
“Che vuoi dire?” Mi chiede Gilbert. “Che in fondo non sono poi così fuori di testa?”
“Non ho detto questo.” Gli rispondo, alzandomi in piedi. “Ma credo che sarà interessante vedere il mondo dagli occhi di un fuori di testa. Siamo solo alla prima cella, ne abbiamo di strada da fare.”
“Aspetta!”
Gilbert scatta su due piedi come un pupazzo a molla.
“E che ne facciamo di Jones? Vuoi lasciarlo nel mondo dei sogni come se non fosse successo niente? Io gli darei una bella scossa e sentirei cos’ha da dire lui.”
“Lascia perdere, Gilbert.” Placo la sua impulsività pur rimanendo meno emotivamente coinvolto possibile.
Mi sistemo il colletto del camice, guardando un’altra volta il giovane americano che riposa come un ghiro in letargo.
“Ne ha già passate abbastanza, per oggi.”
Mi avvicino alla porta e serro le dita attorno alla ruota dentata in acciaio. Feliciano saltella alle mie spalle, stringendo le mani su un lembo del mio camice, un gesto che percepisco a malapena.
Gilbert si è impietrito a pugni chiusi in mezzo alla stanzina. Quando ruoto il capo per chiamarlo, è lui il primo ad aprire bocca.
“C’è qualcosa che non mi torna.” Ringhia, fissando il pavimento. Poi solleva gli occhi di fuoco, puntandoli su di me come due mirini laser.
“Se il Transfert ti ha permesso di capire i tuoi pazienti più a fondo in una sola ora, rispetto ad anni di sedute solo con la tua esperienza di medico, perché non hai tirato fuori prima quell’arnese, eh, Ludwig? Immagino che ti saresti risparmiato un bel po’ di lavoro e fatica.”
Io abbasso le palpebre, inumidendomi le labbra.
“Hai detto bene, Gilbert. Solo con la mia esperienza di medico. Vedi, se non ho usato il Transfert è stato proprio perché volevo curare queste persone solo con la mia bravura, solo con le mie forze. Ma, a quanto pare, ci sono cose che la mente umana non può capire, o non vuole percepire, chissà. Il punto è, Gilbert, che il Transfert...” Riprendo fiato, riempiendo i polmoni. “... che il Transfert costituisce la mia più grande sconfitta sul campo professionale.”
Gilbert rimane ammutolito, poi sbuffa, mettendosi le mani in tasca.
“Fa’ come ti pare.” Borbotta, avvicinandosi con passo pesante al mio fianco.
Passa anche lui la mano sulla serratura e la ruota verso destra, facendola scattare.
“Secondo me non è una sconfitta, Ludwig.” Dice una voce squillante dietro di me.
Sia io che mio fratello ci giriamo, e Feliciano ci sfiora con un tenero sorriso. Piega leggermente la testa di lato, e il ciuffo arricciato si posa sulla sua spalla.
“Alfred non mi sembra triste. Guarda, sta persino sorridendo mentre dorme. Se quella strana fascia serve a consolare le persone, rendendole felici, allora è qualcosa di cui andare fieri, e non una vergogna.”
Feliciano...
Io ricambio il gesto, piegando lievemente le labbra.
Grazie.
 

***

 
Cella #2
Paziente: Arthur Kirkland
 
“Trovo che sia davvero una cosa triste, il fatto che vi abbiano dimenticati. È così interessante ascoltare le vostre storie.”
Arthur Kirkland ci accoglie di spalle, non si volta nemmeno quando sente scattare la serratura del portellone. Gesticola per aria, parlando al muro, e ogni tanto abbassa la testa, guardandosi le ginocchia. Le sue gambe sono incrociate, e il materasso è leggermente piegato sotto il loro peso.
“... sì, lo so che è una grande scocciatura per voi, ma la verità è che...”
Spinge l’aria con il palmo della mano, come se si stesse liberando dalla stretta di qualcosa.
“Se metti il muso lì mi fai il solletico...” Continua a dire, con un tono che è a metà tra lo scocciato e il divertito, poi si risistema la stoffa della maglia bianca, continuando a parlare alla parete.
“Ha allucinazioni?” Mi domanda Gilbert, inarcando un sopracciglio. “Sei sicuro che non sia solo fatto?” Aggiunge con un risolino acido, mettendosi una mano davanti alle labbra.
Io scuoto la testa.
“Era una delle ipotesi, quando lo hanno rinchiuso per la prima volta, ma le analisi erano negative su ogni fronte. E, inoltre, non avrebbe la benché minima possibilità di assumere droga qui dentro, lo sai anche tu.”
Lui sbuffa, come segno d’assenso, poi si gira e richiude il portellone, stringendo la ruota in acciaio. Io non perdo tempo e sollevo la piccola barriera di plastica che ricopre il pulsante rosso, azionando subito il meccanismo della parete divisoria. Quando inizia a sollevarsi, accompagnata dal cigolio degli ingranaggi, Kirkland si impietrisce come una statua, e rimane in ascolto fino a che non si apre uno spiraglio di almeno una decina di centimetri. Ruota il capo dietro di sé, squadrandoci con aria perplessa.
“In tre?!” Esclama, inarcando le sopracciglia e socchiudendo le palpebre.
“Devo aspettarmi qualcosa di ambiguo, oggi, dottore?”
Ruota tutto il corpo verso di noi, senza scollarlo dal materasso, poi appoggia il gomito sul ginocchio, affondando le nocche sulla guancia.
“A proposito...” Aggiunge, puntando gli occhi solo su di me. “... la cultura tedesca è davvero affascinante, non capisco perché non facciate nulla per salvaguardare il vostro bagaglio folkloristico. Gli elfi delle foreste tedesche non hanno nulla a che vedere con quelli delle campagne inglesi, sono davvero colpito!”
Sono abituato a dichiarazione del genere, anzi, potrei benissimo affermare che questa sia una delle più lucide che io abbia mai sentito pronunciare dalle sue labbra.
Ruoto il capo al mio fianco, e vedo Gilbert premersi la mano sulla bocca, piegando le guance arrossate verso l’alto, soffocato dalle risate. L’altra mano, invece, è ben stretta intorno alla pancia piegata in avanti. I suoi gomiti quasi vanno a toccare le ginocchia. Gli occhi strizzati iniziano a lacrimare, inumidendogli gli angli delle palpebre.
“Gilbert...” Lo chiamo con tono di rimprovero. Lui si limita a ruotare le pupille cerchiate di rosso verso di me. “...contieniti, per l’amor del cielo.” Gli ringhio.
Lui si strofina gli occhi, tra uno spasmo e l’altro, e finalmente riprende fiato. Kirkland non sembra allarmato, tantomeno offeso, infatti continua a guardarlo con la stessa aria annoiata di prima.
“Lo lasci ridere, dottore.” Mi dice con una smorfia. “Vedrà come smetterà, quando verrà a sapere che un unicorno gli sta succhiando la divisa.” Aggiunge con un sorrisetto sadico, ma le palpebre rimangono sempre semichiuse.
Gilbert resta di sasso, interrompendo di colpo la sua risata. Si fa d’improvviso scuro in volto ed inizia a guardarsi in giro con un’espressione allucinata. Le suole delle sue scarpe strisciano con movimenti isterici sulle piastrelle, facendole singhiozzare.
Feliciano si è tenuto in disparte fino ad adesso, senza emettere un fiato, ma ora inizia anche lui a lanciare occhiate fugaci per tutta la stanza, imitando Gilbert, ma con un mezzo sorrisetto stampato sulle labbra.
“Davvero? Ma dov’è? Io non lo vedo!” Esclama. Io mi rifiuto di rispondergli.
Gilbert si stropiccia la giacca della divisa, innervosito, e fa qualche passo all’indietro, vacillando.
“Tsk, razza di sciroccato. Come se potessi credere ad una tale assurdità.” Grugnisce.
Kirkland piega la testa verso l’alto, sollevando il naso al soffitto. La mano su cui si regge viene nascosta dai capelli dorati.
“Sì, lo so. Non ha capito che gli stava mangiando i pantaloni, e non la giacca. In compenso, però, ha appena schiacciato le ali ad una fatina che gli ronzava intorno, che barbaro.” Dice con aria sconsolata, scuotendo la testa, a chissà quale creaturina del suo paese della meraviglie.
Io mi avvicino, sfilandomi il Transfert dal braccio e mostrandogli una delle fasce. Lui, dopo un primo attimo di esitazione, prende a guardarla con occhi incuriositi. Io gli rivolgo una profonda occhiata.
“Non credo ci sia bisogno di fare giri di parole con te, Kirkland. Forse anche tu hai avuto a che fare con strumenti del genere. Riesci almeno ad intuire di che cosa si tratta?”
Lui allunga il collo e sfiora uno dei fili in rame rivestiti in plastica con la punta dell’indice. Il suo naso si arriccia.
“È un connettore, o qualcosa del genere?”
“Più o meno.” Gli rispondo, annuendo. “È un Transfert e, come hai intuito tu, connette le menti e trasferisce i pensieri. Darò solo una veloce occhiata alla tua testa e poi ti lascerò in pace, sei d’accordo?”
Il suo viso s’incupisce, e Kirkland butta giù un boccone di saliva. Una goccia di sudore gli riga una tempia.
“Vuoi dire che...”
 

“Perché non la smetti di fare follie, Alfred?”

 
“Ho già intuito quello che potrebbe spaventarti.” Gli confesso e lui mi guarda con aria dubbiosa, sfumata ancora dal panico.
“Sappi, però...” Continuo. “... che ho già usato il Transfert su Alfred F. Jones.”
 

“Se questo è il tuo modo per ripagarmi della protezione che ti ho sempre offerto, allora accomodati. Pensavo che fossi diventato grande abbastanza da aver superato quella fase ribelle.”

 
Kirkland aggrotta la fronte, sgranando gli occhi e il riverbero della luce si schianta sui suoi iridi verdi.
Io ammorbidisco lo sguardo.
“Non ti preoccupare.” Lo tranquillizzo, avvicinandogli una fascia del Transfert e permettendogli di indossarla da solo.
“Credo di aver capito la situazione. Tu fammi arrivare la conferma.”
Esita, in un primo momento, poi agguanta il Transfert e scuote la frangia all’indietro,  lasciando aperto uno spazio sulla fronte. Lo indossa ad occhi chiusi, letteralmente.
“Se qualcosa dovesse andare storto, sappi che non esiterò a lanciarti una maledizione. Ti marchierò con l’amuleto della disgrazia funesta.” Mi minaccia con tono acido.
Anche io mi infilo il Transfert, ma rimango serio.
“Non succederà.” Gli rispondo, pacato.
Ne sono certo.
 

***

 
Il gesso bianco scorre sul pavimento di pietra ruvida, che mi graffia il palmo della mano su cui mi sto reggendo. Lo sgretola in una fine polvere bianca, che lascia una scia circolare tutta intorno a me. Striscio per terra, sul suolo freddo e pungente che mi gratta le ginocchia, fino a che la punta del gessetto non chiude il cerchio, completando la prima parte del rituale. Rimango chino a quattro zampe, sempre nel pieno centro del seminterrato buio e umido, illuminato solo dalla fioca fiammella di una candela, appoggiata fuori dal cerchio, vicino al libro aperto da cui sto seguendo le istruzioni.
Ruoto gli occhi, seguendo la traiettoria bianca che ho lasciato sul pavimento, e mi scosto la frangia dalla fronte per esaminare meglio il mio lavoro. Strofinandomi una guancia la segno con una sbavatura di gesso e, quando tolgo la mano, accenno un sorrisetto di soddisfazione.
“Bene. Le misure del cerchio dovrebbero essere a posto.”
Mi trascino a gattoni fino al bordo della circonferenza, stando attento a non sfiorarla neanche con la punta delle unghie. Una mano è sempre appiccicata al pavimento, tenendomi in equilibrio, mentre l’altra la faccio passare oltre il cerchio, per girare la pagina del vecchio tomo ingiallito che giace nella penombra della candela. La cera lacrima lentamente dalla cima, ammucchiandosi nel piattino dorato.
Afferro un angolo con estrema delicatezza, voltando la pagina su cui si intravedono alcune venature marroni, impresse dai decenni che quel libro ha trascorso nella cantina ammuffita. Svelo la parte successiva, facendo scorrere lo sguardo attento sui segni d’inchiostro scritti a mano, con un corsivo finissimo ma elegante, impressi vicino allo schema successivo della circonferenza. Le è stato aggiunto un triangolo concentrico con alcune formule latine adiacenti ai lati.
Chiudo gli occhi, inarcando le sopracciglia, poi sospiro. Il mio fiato rimbomba su tutte le pareti, coperte in ogni centimetro da vecchi armadi in legno, stracolmi di libri, pergamene e antichi manoscritti. Alcune ampolle, mezze piene di liquidi colorati e ricoperte di polvere, sono ordinatamente riposte nei ripiani più alti, abbandonate lì da anni.
Mi sollevo sulle ginocchia, affondando le mani sul fondo della mia schiena, facendola schioccare.
“Meglio accelerare il ritmo.” Brontolo a denti stretti. “Entro oggi dovrò almeno completare la prima metà.”
Prendo un punto sul cerchio e da lì inizio tracciare delle linee nette da una parte all’altra della circonferenza. Una manciata di brillantini luccicanti mi cade sul dorso della mano che impugna il gesso, mentre un dolce suono di campanelle mi solletica l’orecchio.
“Che cosa stai disegnando di bello, oggi?”
Ruoto lo sguardo davanti a me, scollandolo dal lavoro sul pavimento grigio e umido. La piccola fatina mi osserva con occhi curiosi, nascosti in parte dalla cascata di capelli castani, puntati in fronte da un fiorellino bianco, che le scivolano sulla spalla fino a caderle sulla schiena. I piedini ondeggiano come compiendo dei piccoli saltelli, permettendole di tenersi in equilibrio sull’aria. Le manine sono incrociate dietro alla schiena, fasciate da alcuni nastri di un velluto color verde acqua, intrecciati attorno alle dita. Da uno spacco sul vestito azzurro, largo e voluminoso che la avvolge fino alle ginocchia, spuntano un paio di ali da farfalla, larghe e colorate come la tavolozza di un pittore impressionista. Le sue labbra sottili si piegano in un tenero sorriso.
Io alzo un dito al cielo, dandomi arie da gran maestro.
“È un progetto nuovo. Nulla di eccezionale, ma ero semplicemente curioso di mettermi alla prova con questo esperimento.”
I suoi occhi brillano di meraviglia, mentre le sue ali continuano a spargere luccichii su tutto il pavimento.
“Oooh, che bello! Posso restare a guardarti?”
Io annuisco, indicando la mia spalla.
“Accomodati.”
Lei batte le mani, sfilando le dita da dietro la schiena, e si siede a lato del mio collo, afferrandomi la spallina della giacca per non rischiare di cadere.
“Vuoi evocare qualche strana creatura?” Mi chiede tutta eccitata.
Io riprendo a segnare il pavimento con la polvere di gesso e arriccio le labbra, pensandoci su.
“Non saprei, potrebbe venire fuori qualsiasi cosa!”
“Speriamo che sia l’orco delle carote!” Esclama un’altra voce mielata come un lecca-lecca tuffato nello sciroppo di zucchero.
Io e la fatina osserviamo il riverbero della fiamma della candela che danza come un’odalisca. Sotto quella luce, si materializza una palla di pelo da cui spuntano due lunghe orecchie che toccano il pavimento. Sbatte un paio di volte le tozze ali che si diramano dalla schiena, mettendo in risalto la sfumature di acquamarina. Il coniglietto trotterella vicino al cerchio, dandosi una ripulita al muso con le zampe anteriori.
“Anche io voglio assistere!” Dice con tono incalzante.
Io sospiro.
“E va bene, ma fai attenzione a non rovinare il cerchio. Altrimenti dovrò rifare tutto da capo.”
“Starò buono, lo prometto.” Mi rassicura, passando la linguetta tra le unghie delle zampette.
Io annuisco, levandomi l’espressione da finto arrabbiato dalla faccia.
“Bravo. Anzi, renditi utile e dettami le formule.”
“Va bene! Allora... Solis Nuntium...”
“No, non ora! Quando te lo dirò io. Non vedi che sto ancora tracciando i vertici?”
“Ah, scusa.”
Il coniglio abbassa la testolina e sposta gli occhi, piccoli e neri come goccioline di  petrolio, di nuovo sul mio lavoro. Io mi rimetto all’opera e l’unico suono percettibile sono le scampanellate delle ali della fatina, brevi e veloci come singhiozzi.
Mi schiarisco la voce.
“Dov’è l’unicorno? Di solito non ci lascia mai da soli.” Chiedo alle due piccole creature con aria vaga, senza distogliere la concentrazione dal cerchio.
La fatina inizia a dondolare le gambe, e i piedini rimbalzano sulla stoffa della giacca.
“Sai che non gli piace restare nei luoghi bui, preferisce di gran lunga la luce del sole. Non posso dargli tutti i torti, comunque...”
Alza il nasino verso il soffitto e i capelli le ricadono all’indietro, scivolando come un panno di seta.
“... credo stia seguendo Alfred come gli avevi chiesto. È davvero ubbidiente, quell’unicorno. È da almeno una settimana che gli è alle costole, e lui non si è accorto di nulla!”
Il coniglietto annuisce.
“Già, ti verrà ad avvisare non appena compirà qualche bravata delle sue. È stata un’idea geniale, sceglierlo come guardia del corpo invisibile.”
Io socchiudo le palpebre, posando il pollice sul segno che ho appena tracciato.
Maledizione, ho incurvato di troppo la riga.
Mi inumidisco le labbra, facendo schioccare la lingua.
“Sì, una bella idea.” Replico con tono acido. “Se solo non combinasse tutte quelle bravate, io non avrei bisogno di adottare misure così drastiche. Possibile che gli sia così difficile starsene buono e tranquillo?”
La fatina si porta la punta dell’indice vicino alle labbra.
“Buono e tranquillo?” Sibila con una vocina timida. “Ma tu l’hai fatto rimanere così per molti anni. Secondo me ha solo voglia di vivere la sua vita scegliendosi da solo la strada da percorrere.”
“No.” Scuoto la testa. “Io conosco Alfred e so anche quali grilli gli ronzano nel cervello. Sarebbe una follia lasciarlo andare per i fatti suoi.”
“Ma le follie sono una cosa buona.” Interviene il coniglietto con un sorrisino che spunta dal suo musetto paffuto.
“Anche tu, Arthur, compi alcune follie, giusto? Ah, a proposito, stai uscendo dai bordi. Quel lato dovrebbe essere inclinato non più di quarantacinque gradi.”
Io scatto sulle ginocchia, staccando le mani da terra. Piego un angolo della bocca all’ingiù, guardando il cerchio con occhi demoralizzati.
Oh, no. Devo cancellare tutto il lato!
Estraggo lo spazzolino di setole spelacchiate dalla tasca, e spolvero via il gesso con movimenti rapidi e profondi.
“Io non faccio follie.” Replico con una punta di nervosismo, inarcando un sopracciglio. “Perché paragonate anche voi il mio atteggiamento a quello di Alfred? La differenza è netta! Lui mette in pericolo se stesso e le altre persone, io non faccio del male a nessuno. Che problema c’è nel volerlo indirizzare sulla retta via?”
“Quello non è indirizzare!” Pigola la fatina, strattonandomi delicatamente una ciocca di capelli.
“Se Alfred finirà nei guai sarà anche colpa tua. Proprio ora che dovresti stargli vicino, tu...”
“Ehi! È stato lui a dirmi che se la può cavare anche da solo!”
Incrocio le braccia, guardando la piccolina accomodata sulla mia spalla con aria di rimprovero.
“Decidetevi. Prima dovrei lasciarlo andare, poi mi dite che dovrei stargli più vicino. Volete sapere come la penso io? Che farebbero solo che bene a rinchiudere un mentecatto come lui!”
Gli occhi tondi della fatina si inumidiscono, risplendendo ancora di più. Arriccia la bocca a cuore, piegando la testa di lato.
“No, non è vero. Staresti male, invece.”
Io non mi faccio impietosire e impugno nuovamente il gesso, passandolo sulle dita come se stessi arrotolando una sigaretta. La polvere bianca mi sporca tutti i polpastrelli.
Distolgo lo sguardo dalle sue lunghe ciglia che sbattono davanti agli occhioni.
“Mhm, tanto non succederà mai. Nemmeno lui riuscirebbe a compiere un’idiozia tale da farsi rinchiudere.” Borbotto, appoggiando la punta del gesso sulla circonferenza.
“Se vuoi conoscere la mia opinione, Arthur...” Mi dice il coniglio, dopo che ho tracciato la linea. Io faccio finta di non sentire, continuando a disegnare, scuro in volto. “... la gente ti etichetterebbe come un matto ancor più deviato di lui. Ti ricordi quando nessuno ti credeva, riguardo a noi?”
La frangia mi ricade davanti agli occhi, e sollevo le spalle con un gesto istintivo.
“Sì, lo ricordo. Per questo ho deciso di tenervi nascosti, e di evitare di parlare con voi in pubblico. Ma, il fatto è che voi...”
Poso il gesso, mettendomi in ginocchio, con i palmi delle mani appoggiati sulle cosce. I polpastrelli lasciano un’impronta bianca sui pantaloni.
Guardo il coniglietto dritto negli occhi, mentre la fatina ascolta il nostro discorso silenziosamente.
“... il fatto è che voi siete reali, non sono io il pazzo! È la gente che non riesce ad aprire abbastanza gli occhi per vedervi.”
Stringo i pugni, sentendo le unghie che affondano nella carne.
“Anzi, loro non vogliono vedervi. Non sono in grado di andare oltre la semplice realtà che li circonda e si accontentano. Sono loro nel torto, sono loro i ciechi...” Digrigno i denti. “... non io!”
Ringhio queste ultime parole come un cane rabbioso, ma il coniglietto continua a sorridere. Io riprendo fiato, emettendo un profondo sospiro ad occhi chiusi.
“E comunque...” Continuo con tono più pacato. “... non vedo come questo potrebbe centrare con la faccenda di Alfred.”
Il coniglio strizza gli occhietti, poi si butta a pancia insù. Una palla di pelo che rotola.
“Chi lo sa? Magari un giorno ti potremmo essere d’aiuto per tirarlo fuori dai guai, anche se Alfred non crede in noi.”
Io accenno un sorriso tirato.
“Per il momento mi basta che teniate d’occhio quell’ingrato. Il resto è ancora tutto da vedere.”
Mi ripiego sul pavimento e il gesso riprende a scorrere, scivolando come una ballerina sul ghiaccio.           
 
 
La porta è bloccata dall’uomo con la divisa blu, immobile come una statua di pietra sotto l’architrave. Ha un’aria fredda, le mani giunte dietro alla schiena, il petto infuori e il mento alzato. I suoi occhi mi scrutano dall’ombra della sua fronte. È davvero alto – o sono io a essere basso? – così sono costretto a piegare il collo all’indietro, per guardarlo in faccia.
Il mio sguardo vacilla, proprio come il mio labbro inferiore, che non riesce a trattenere la furia.
“Portarlo via?! Cosa significa portarlo via?! Dovevate solo curargli le ferite, nessuno mi aveva detto che...”
“Ordini dai medici, Sir. Non è di mia competenza.” Risponde il poliziotto in blu, arrivato solo una decina di minuti fa dopo una veloce chiamata direttamente dal reparto.
Digrigno i denti, allargando le braccia. Magari, così facendo, mi sentirà meglio.
“Questo si chiama sequestro di persona! Lei è un rappresentante delle autorità, dovrebbe sapere che è un reato punibile!” Sbotto, aggrottando la fronte dalla rabbia.
Lui è impassibile.
“È tutto nella norma, Sir. I medici lo hanno catalogato come disturbo della psiche e, inoltre, dovrà comunque pagare per il reato che ha commesso.”
“Non c’è stato alcun reato! Io l’ho portato qui perché lo curaste dai tagli inflitti dal rapinatore, ed è lui che dovreste punire! Alfred non centra niente con tutto questo, è stato appurato che si trovasse lì per caso e che abbia solo provato a sventare la rapina.” 
Il poliziotto scuote la testa con un movimento meccanico.
“Mi spiace, ma ha commesso un’aggressione a tutti gli effetti, Sir. Sappiamo che questo è solo uno dei suoi precedenti penali. Non deve preoccuparsi, lo affideremo a degli specialisti, poi tornerà a casa più sano di prima.”
“Ma, io non...”
Stringo i pugni, abbassando lo sguardo sui miei piedi. Sento i polsi tremare e, per quanto provi a muovere la lingua, non riesco ad inumidire la bocca.
“Può andare, Sir.” Continua il bell’imbusto. “Ci penseremo noi a darle  notizie sul ragazzo.”
Strizzo gli occhi fino a che il nero non diventa un flash bianco che mi acceca. Giro un piede verso il corridoio, per tornare a casa, ma non riesco a muoverlo dal pavimento. Mi mordo un labbro, cercando di far sorgere un’idea per impedire che portino via Alfred.
D’un tratto, sento qualcosa di caldo e vellutato sfiorarmi il pugno steso su un fianco. Una sbuffata d’aria calda mi solletica le dita. Riapro gli occhi, e il piccolo unicorno appoggia il muso sotto la mia mano, guardandomi con gli occhi lucidi. Seduta sul corno, con le gambe a ciondoloni, la fatina tiene lo sguardo puntato davanti a lei, verso la figura del poliziotto. Il suo tenero sorriso si è sciolto in un ghigno furioso ed i suoi occhi, tanto dolci, si sono infuocati in una brace incandescente. Ti seppelliscono con un solo battito di ciglia.
Sento un peso premermi sul piede, così abbasso il capo, e il coniglietto alato appoggia le zampine sulle mie scarpe. Le punte delle sue orecchie toccano quel freddo pavimento bianco, tipico degli ospedali. Con le unghiette, inizia a grattarmi l’orlo dei pantaloni.
“Arthur, devi fermarli! Ho un brutto presentimento. Non farglielo portare via.” Sussurra, quasi piangendo.
Io strabuzzo gli occhi, aprendo un palmo della mano verso l’alto. Non posso parlare con loro in pubblico, e sono ancora di fronte al poliziotto.
“Imponiti!” Ribadisce il coniglietto, e il suo sguardo si accende. Il mio, invece, si ammoscia, trovandomi impotente davanti a quella situazione.
Scavalco con lo guardo la spalla del poliziotto, e lo fermo sulla porta in legno verniciato di bianco dietro alla quale è rinchiuso Alfred.
Tra poco lo porteranno via.
Sembra quasi una bocca, quella porta, penso. Una grande bocca che lo sta divorando. Le labbra mi tremano, e sento il sudore che inizia a sgorgare sulla fronte. L’unicorno mi spinge leggermente la mano con il muso, come per sollecitarmi, poi zampetta dal poliziotto, afferrandogli un lembo della divisa, che inizia a succhiare. Ovviamente lui non se ne accorge.
“Fa’ qualcosa, Arthur!” Incalza, sempre il coniglietto, ma io non riesco a togliere gli occhi da quella maledetta porta.
“U-un momento...” Balbetto, e sembra che io abbia riacquistato l’attenzione del bell’imbusto.
Il bianco dei miei occhi vacilla, ma spero di riuscire a...
Non ci crederà mai. Dio, è un’idea demenziale, ma deve crederci.
“Quelle cose che ha fatto... beh, sappiate che sono stato io a ordinargli di farle.” Proseguo, puntandomi l’indice al petto. “Alfred non centra nulla, la causa delle sue pazzie sono io.”
Il poliziotto storce il naso davanti al mio ghigno. Si schiarisce la voce, sciogliendo la posizione rigida sull’attenti.
“Anche se così fosse, Sir, non posso comunque passare sopra ai suoi reati. Se desidera stendere una dichiarazione, allora io...”
“Sì, lo desidero!”
“Mi lasci finire. Ho capito a cosa sta puntando.” Mi dice lui, con sguardo gelido. “Ma sappia che, anche se si costituisse, entrambi sconterete la pena che vi spetta. Tuttavia, ciò non toglie che il signor Jones verrebbe comunque scortato in una clinica specializzata, indipendentemente dalla sua testimonianza.”
Di nuovo il mondo mi cade addosso. Il pavimento trema, e mi sprofonda sotto i piedi. Per fortuna che c’è il coniglietto a reggermi.
Anche tu sei pazzo, Arthur. Ricordalo.
È un sussurro, oppure non ha mai pronunciato qualcosa di simile?
L’animaletto mi fa l’occhiolino con quel suo sguardo da tenero innocente.
“Sì, ma...” Insisto io, squadrando il poliziotto bastardo, con occhi di fuoco.
Grazie, ragazzi.
“...io sto confessando tutto, siete obbligati ad ascoltarmi, e se vi dicessi che la causa di tutto sono io, come sto facendo adesso...”
“Come possiamo essere sicuri che stia dicendo la verità, Sir?” Mi domanda con superiorità, senza scomporsi.
Io sorrido, puntando l’indice contro la sua giacca.
“Lo chieda all’unicorno di fianco a lei!”
 

***

 
Non sono gli schiaffi di Gilbert a svegliarmi, questa volta. La luce, che non ha in alcun modo interferito con il sonno forzato indotto dal Transfert, inizia a farsi sempre più pressante. Le mie palpebre vacillano, infastidite da quel riverbero quasi pungente. Le dischiudo lentamente, e loro si aprono come petali di un bocciolo.
Anche il recupero della sensibilità è stato più rapido, questa volta. Prima di iniziare a distinguere le forme, ancora offuscate, riesco già a percepire a tatto il tessuto dei pantaloni della divisa sotto le mie dita.
I piedi mi fanno male, sono stati schiacciati sotto alle mie natiche per tutto il tempo che ho passato dentro alla testa di Arthur Kirkland. Il mio corpo non è stato altro che un contenitore vuoto.
Provo a sbattere le ciglia un paio di volte, e quella macchia indistinta di colori mescolati tra loro si riordina, componendo il viso di Kirkland, fermo su di me. Le palpebre semichiuse nascondono due occhi lucidi, pesanti. La sua spossatezza è tradita solo da quel mezzo sorriso che gli sfiora le labbra. Piega ancora di più un angolo della bocca verso l’alto, inarcando un sopracciglio.
“Allora, hai visto... abbastanza?” Mi chiede con voce affaticata, come se avesse appena concluso una corsa.
Una goccia di sudore gli rotola giù da una tempia, scivolando prima sul mento per poi cadere sul petto, sopra la stoffa della divisa che si abbassa e si rialza con movimenti profondi. La goccia caduta gli forma sulla maglia un alone che si estende a macchia d’olio. Con mano tremante si sposta la cordicella blu del Transfert dalla spalla, lasciandola scivolare giù per la schiena ricurva.
Io mi stropiccio gli occhi, poi porto le mani umidicce sulla fronte, tastando il Transfert in cerca della chiusura.
“Non me ne avevi mai parlato prima, Kirkland.”
Stranamente, il mio respiro è decisamente più regolare del suo. Non appena trovo il lembo sporgente mi affretto a strapparlo dal velcro, senza intervenire sul corpo del mio paziente. Appoggio delicatamente la fascia sul pavimento, di fianco a me, ribaltando la testa all’indietro. Mi do una scompigliata ai capelli e vedo Feliciano insieme a Gilbert seduti alle mie spalle. Tutti e due hanno le gambe incrociate, ma Gilbert è appoggiato svogliatamente sul gomito che preme sulla sua coscia.
Quando ributto la testa davanti a me, Kirkland ha ancora il Transfert avvolto intorno alla fronte, ma i suoi occhi sono più bassi, tanto da sembrare chiusi. Snoda le gambe incrociate, divaricandole davanti a sé, e la punta del suo piede mi sfiora il ginocchio. Io decido di fare altrettanto, liberando i miei polpacci dal peso del mio fondoschiena.
Kirkland inizia a far scorrere il dito sul pavimento, come se stesse componendo dei disegni su del vetro appannato.
“Puoi immaginare da solo il perché. Ne sono sicuro, dottore.” Sibila, mantenendo il solito timbro acido. “Non potevo rimangiarmi tutta la versione una volta entrato in clinica. Ho mentito per una buona ragione, e tutt’ora non me ne pento.”
Ruota le pupille, che si scontrano con il mio sguardo attento e consapevole.
“Cosa avrei dovuto fare? Lasciare che lo portassero via senza oppormi?”
Io chiudo le palpebre, appoggiando le dita alla punta del mento.
“No, ovviamente, infatti non ho intenzione di criticare questa tua decisione. Però, tu hai detto di aver mentito per una buona causa ma, da quel che ho potuto vedere, la tua bugia si è limitata solamente all’incitamento di Jones.”
Lui aggrotta la fronte e le sue labbra sono scosse da un leggero tremolio.
Io riprendo il discorso.
“Perché tu sei davvero convinto di vedere queste creature. Dico bene, Kirkland? Anche le nostre normali sedute degli anni passati lo hanno confermato.”
Il tremolio prende di nuovo la forma di un sorriso sarcastico.
“Se avessi ammesso di non credere più in loro, e di non vedere alcuna fata o unicorno che sia, voi mi avreste sbattuto fuori all’istante. Ma, hai ragione, dottore, il motivo non è solo questo.”
Si asciuga la fronte dal sudore, risucchiando una grossa boccata d’aria. Il suo petto si dilata sotto la divisa bianca.
“Se non ho mai negato l’esistenza di queste creature è perché sarebbe stato come gettare nella spazzatura il mio vero essere. Tu rinunceresti a ciò che sei davvero? Certo che no. Qualsiasi cosa mi diranno, e in qualsiasi modo verrò giudicato, non cesserò mai di coltivare la mia vera natura.”
Assottiglia lo sguardo, lasciando di sasso i due spettatori alle mie spalle. Non sento giungere nemmeno un fiato dalle loro bocche.
Io annuisco, accennando un sorriso.
“Capisco. Quindi, non ti interessa rimanere qui per il resto della tua vita? Ormai il danno è fatto ed è irrimediabile, secondo quanto mi stai dicendo.”
Lui arriccia il naso, guardandomi con aria di sfida.
“Dovresti aver capito che non sono uno che si piega così facilmente.” Mi risponde, portandosi le mani alla fronte e affondandole tra le ciocche dorate in cerca della chiusura del Transfert. Strappa il velcro con uno scatto rapido, gettandolo vicino alle gambe, dove già giace l’altra fascia.
“Tuttavia...” Aggiunge, piegando un angolo delle labbra verso il basso. “... non potrei mai andarmene di qui senza Alfred, anche se per una qualche maledizione smentissi tutto quello in cui credo.”
Si passa una mano tra i capelli, sistemandoseli dietro ad un orecchio, ma la ciocca gli rimbalza subito dov’era prima.
“Sappia una cosa, dottore, io non mi riterrò mai clinicamente guarito fino a che non lo sarà anche lui.”
Sento Feliciano, dietro di me, emettere un debole lamento, come un singhiozzo. Gilbert, invece, si limita a sbuffare. Probabilmente il suo viso sarà un vortice di disgusto.
Io volgo gli occhi al cielo, portandomi due dita su una tempia e ci tamburello sopra un paio di volte.
“Certo, è chiaro che tu ti senta in dovere di stargli accanto. Lo capisco anche perché sono entrato nella testa di Jones. Ma, qui dentro le celle sono separate e c’è il divieto assoluto di qualsiasi tipo di comunicazione con gli altri pazienti.” Aggrotto la fronte, squadrandolo con occhi dubbiosi. “Mi spieghi come pensavi di essergli d’aiuto, pur sapendo fin da principio che entrambi avreste subito un rigido isolamento?”
Kirkland abbassa il capo, e il volto viene coperto dall’ombra dei suoi capelli. Si inumidisce la bocca, poi affonda i denti nel labbro inferiore.
“Forse, inconsciamente, questo mi era sembrato un valido modo per punire me stesso.”
Io intreccio le dita, avvicinandole al mio mento.
“Ti sei sentito in colpa?” Gli chiedo con tono freddo, ma la sua risposta è una semplice alzata di spalle.
Sciolgo il mio sguardo di ghiaccio in un sorriso sincero e appoggio le mani a terra, dandomi una spinta per sollevarmi.
“Va bene.” Annuncio, dandomi una sistemata ai vestiti stropicciati.
Abbasso gli occhi su Kirkland, ancora abbandonato sul pavimento.
“Puoi andare.”
La sua testa scatta come una molla. Kirkland inarca il collo all’indietro, rivelandomi il viso deformato dalla confusione.
“Eeeh? Ma che stai dicendo?!” Esclama a bocca spalancata.
La frangia gli ricade sulle sopracciglia contorte, brillando alla luce delle lampade artificiali. Dietro di me sento il rumore delle suole dei miei accompagnatori strisciare sulle mattonelle.
Gilbert mi afferra una spalla, stringendola in una morsa infuocata.
“Già, vorrei saperlo anch’io! Hai intenzione di farlo uscire di qui come se niente fosse? Sai bene che ci sono delle regole precise per il rilascio dei pazienti, non è qualcosa che si risolve nel giro di pochi minuti.”
Io ruoto il capo alla mia destra, incontrando lo sguardo furioso di Gilbert, che mi aggredisce con un ghigno tagliente. I suoi denti sporgono.
Non mi scompongo.
“Direi che oggi abbiamo già infranto un bel po’ di regole. Una più, una meno...”
Prendo la sua mano con la punta delle dita, scollandola dalla mia spalla. Butto lo sguardo dietro di me, cercando Feliciano con la coda dell’occhio e lo trovo impalato davanti alla porta, con le mani giunte in grembo e la fronte bassa.
A lui penserò dopo.
Faccio un passo in avanti e Kirkland è sempre spaparanzato per terra ad occhi sgranati.
“Puoi seguirci ed io ti indicherò l’uscita, così potrai andartene dal Welt anche da solo. Se non ti dispiace, noi abbiamo una gita da portare a termine.”
Lui fa schioccare la lingua sul palato, ruotando gli occhi verso la parete alla sua destra.
“Sono... davvero libero di andare? Non è una trappola, o chissà cos’altro?”
Io scuoto la testa.
“No, puoi fidarti.”
Kirkland serra le palpebre, allargando un sorriso su tutto il viso.
“Beh, era proprio ora!” Sbotta di colpo, e l’intero suo corpo inizia a sbiadire.
Io mi stropiccio gli occhi, pensando che mi si sia offuscata la vista per via della stanchezza ma, quando li riapro, Gilbert è sbiancato come un lenzuolo, ipnotizzato dalla figura evanescente di Kirkland. La bocca di Gilbert è talmente spalancata che sembra gli stia per cadere la mandibola da un momento all’altro.
D’istinto, allungo una mano tremante, bagnata di sudore gelido, verso il pavimento e tento di agguantare ciò che è rimasto del mio paziente. Ma Kirkland si dissolve come vapore sotto il tocco delle mie dita, che agitano quel fumo formando un piccolo vortice. Quando ritiro la mano, di lui non è rimasto nemmeno il respiro.
 
 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


CAPITOLO 7

 
Agito le dita, stringendole e riaprendole come se stessi strizzando una pallina di gomma. Le faccio ondeggiare un paio di volte nell’aria che, fino a qualche istante fa, Arthur Kirkland stava respirando.
Arriccio la bocca, emettendo un profondo sospiro.
“Sì, come pensavo, non è rimasto più nulla di lui.”
Raddrizzo le ginocchia, facendo strofinare delicatamente i polpastrelli tra di loro davanti alla punta del naso.
“Neanche una molecola.” Sibilo.
Gilbert deglutisce un grosso boccone di saliva e arretra di un passo, più rigido di un palo.
“V-vuoi dire che... che era anche lui un...”
“Un fantasma?” Gli rubo le parole di bocca, posando gli occhi sul Transfert abbandonato al suolo. Poi scuoto la testa.
“No, di questo sono certo. L’operazione col Transfert è stata un successo, non avrebbe potuto funzionare se Kirkland non fosse stato un uomo in carne ed ossa. Non è possibile esplorare la mente di una materia ectoplasmatica.”
Mi volto verso Gilbert, battendomi due dita sulla tempia.
“Il cervello deve essere fisico e reale per conservare memorie, ricordi e sensazioni.”
Gilbert riprende a respirare, abbassando lo sguardo sulla parte di pavimento su cui era seduto l’inglese.
“Ma... allora... come ti spieghi questa assurdità?”
Io mi chino a raccogliere il Transfert, e faccio passare le dita sulla fascia che ha cinto la testa di Kirkland per tutto il processo di rievocazione. È umida e fredda, pregna del suo sudore. Vero sudore.
Mi faccio scappare un lieve sorriso.
“Chi lo sa. Per come stanno le cose, è addirittura possibile che possedesse davvero dei poteri magici.” Gli rispondo, quasi con tono scherzoso.
Gilbert mi lancia un’esclamazione di disgusto.
“Ma non farmi ridere!” Urla con tono tagliente, arricciando il naso. “È lo stesso ragionamento che ho usato con lo yankee. Non trovi anche tu che se avesse potuto scappare prima di adesso lo avrebbe fat...”
Al suono di quell’epiteto faccio scattare la mia testa all’indietro, stoppando le parole di mio fratello con un unico sguardo sconcertato. Lui inarca un sopracciglio, confuso, poi mi imita, sbarrando le palpebre. Il suo iride scarlatto trema.
Io mi rialzo in piedi, rapido come una molla.
“Non... dirmi che...” Tento di sibilare tra le labbra balbettanti.
Gilbert mi scambia uno sguardo d’intesa e annuisce con decisone. Si lancia verso la porta, gettando Feliciano in un angolo, ancora pietrificato dalla paura, ed afferra la ruota dell’ingranaggio, snodandolo in fretta e furia. Quando l’entrata è sbloccata, sento arrivare una folata d’aria fresca che mi inonda le narici.
Gilbert corre, imboccando il corridoio a destra, e il suono delle sue falcate si allontana. Feliciano si avvicina con passo felpato all’arcata d’ingresso, spingendo fuori solo la punta del naso.
“Dov’è andato?” Sussurra, ma io mi limito ad assorbire una boccata d’ossigeno dopo quell’apnea infinita.
Credo proprio che non riuscirò a spiccicare parola fino al ritorno di Gilbert. Inizio a contare il numero di miei respiri, tanto per distrarmi nel tempo d’attesa. Ma, soprattutto, per non far impazzire il mio cervello.
... Quattro...
Un suono ovattato striscia nel corridoio.
... Sette...
Un colpo, probabilmente una porta che sbatte, che si sovrappone all’inconfondibile urlo di mi fratello.
... Dieci...
Il rumore dei passi si fa più chiaro. Le mie orecchie tremano.
... Quindici...
 
Gilbert si accascia sull’entrata, abbracciando l’arcata per riprendersi dall’affanno. Le sue spalle ricurve si alzano e si abbassano ritmicamente, attraversate da violenti spasmi. L’ombra della frangia gli copre occhi e fronte, lasciando visibile solo la sua bocca spalancata, avida di ossigeno.
“Lud... anf... l-lo yankee è...” 
Sgrano gli occhi, sbiancando in volto. Un tonfo gelido mi schiaccia il petto, mozzandomi il fiato.
Ho già capito cosa vuole dirmi.
Gilbert riesce a raddrizzarsi, senza mollare la presa sull’entrata, e mi guarda con occhi allucinati.
Io annuisco.
“Immaginabile.” Sospiro, socchiudendo le palpebre. “Non sarebbe uscito da qui senza di lui, eh? Beh, ha mantenuto la promessa, a quanto pare..”
Feliciano inizia a fissare entrambi con aria confusa, facendo saettare gli occhi da una parte all’altra.
“Che cosa è successo?” Chiede, inclinando lievemente la testa.
Io stringo il Transfert in una morsa di ferro e inizio a dirigermi a passo pesante verso il corridoio.
“Andiamo.” Ordino ad entrambi con tono deciso.
“Abbiamo altre persone di cui occuparci, non possiamo passare tutta la giornata a fissarci le palle degli occhi. Muoviamoci.”
Sto per uscire definitivamente dalla cella numero due, con il Transfert sotto braccio, ma qualcosa mi strattona il bordo dei pantaloni, impedendomi di attraversare la soglia. Mi volto di scatto, ma tutto ciò che riesco a vedere è un’ombra nera di forma ovale, coronata da un paio di ali tozze e corte, zampettare sotto i miei piedi. Poi si dissolve nel bianco del corridoio.
 
 
Cella #3
Paziente: Kiku Honda     
 
“Beh, che cosa stai aspettando?” Mi chiede Gilbert, impaziente davanti alla mia esitazione.
Io mi limito a guardare il numero tre verniciato sulla porta della stanza, e ne seguo la forma con un lento movimento degli occhi. Appoggio una mano sul mazzo di chiavi, sfiorandolo, mentre l’altro braccio rimane inerte, steso su un fianco.
Gilbert sbuffa, brontolando qualcosa sotto i baffi, e si appiglia al meccanismo d’innesto dell’entrata.
“Forza, aprila!” Esclama, dando un colpo sulla porta con il palmo aperto.
Io agito le chiavi con i polpastrelli, ma non afferro quella della numero tre. Non ne prendo nessuna.
“Gilbert, forse...” Gli dico con voce calma. “...forse è meglio che questa volta tu resti fuori.”
Gilbert strabuzza lo sguardo, incredulo, e solleva il labbro superiore fino a mettere in bella mostra il suo canino appuntito. Molla la presa, allargando le braccia e rivolgendo i palmi verso l’alto.
“E per quale motivo dovrei farlo?! Solo per permetterti di giocare al detective strizza cervelli? Ah, ma ho capito!” Urla, puntandomi l’indice al petto.
Gli angoli delle sue labbra toccano il mento.
“Vuoi prenderti tutto il merito, eh?! Speri che, quando sarà rivelato lo scandalo Welt, gli onori e le glorie siano attribuiti solo a te, Herr Doktor? Se credi di fregarmi, allora...”
“È proprio per questo che tu non puoi entrare nella numero tre, Gilbert!” Tuono, seppellendolo con un solo sguardo.
Feliciano fa un salto sul posto, poi nasconde il viso dietro alle mani, tremando come una foglia. Io mi gonfio il petto, incupendomi in volto.
“Non posso permettermi di portarti davanti a Kiku Honda con quell’atteggiamento che ti trascini sempre dietro, Gilbert.” Riprendo fiato, abbassando la voce. “È un soggetto estremamente delicato e sensibile. È vero che c’è stato un qualche minimo miglioramento in lui, ma l’ho potuto registrare solo dopo mesi di faticosissimi tentativi.”
La mia ombra si ingigantisce su Gilbert e si allarga sulla parete, coprendo il suo ghigno animalesco.
“Non ti permetterò di mandare tutto all’aria.” Concludo ringhiando.
Io e Gilbert continuiamo a guardarci storto per ancora degli attimi, poi cede. Volta la testa di lato, chiudendo le palpebre con atteggiamento altezzoso.
“Tsk, sai che me ne importa di uno sgorbio giapponese divorato dalle seghe mentali.” Dice, dando un calcio all’aria.
Per fortuna, intuisce da solo che deve togliersi dalle palle e appoggia il sedere contro il muro alla destra dell’entrata. Curva la schiena verso il basso, tuffando le mani nelle tasche.
“Quando vi servirà aiuto, siete pregati di non venire a disturbare la mia somma magnificenza.”
Io ruoto gli occhi al cielo, rimboccandomi le maniche, pronto a varcare la soglia. Sbuffo una grossa boccata d’aria con tono avvilito.
“Vieni, Feliciano.”
“Eh?” Mi risponde lui, facendo sbucare il naso da dietro il muro di dita davanti al suo viso.
Piega la testa dall’altro lato, e una ciocca della frangia gli copre l’occhio.
“Io posso venire? Davvero?”
Io annuisco, inserendo la grossa chiave nel primo ingranaggio metallico.
“Sì, vedi...” Butto l’occhio sulla figura di mio fratello, che sta sibilando imprecazioni tra le labbra. “... al contrario di Gilbert, tu potresti essermi molto utile.”
Feliciano si porta la punta dell’indice sopra al petto.
“Cosa? Io?” Mi chiede, con tono incredulo.
Io sfilo la chiave, agitando il mazzo in cerca della seconda. Senza farmi vedere, piego la bocca in un leggero sorriso.
“Certo. Vedi, se tutto andasse come ho previsto...”
Mentre giro la chiave, la fascia frontale intorno al braccio mi scivola verso il gomito.
“... forse non sarò nemmeno costretto ad usare il Transfert.”
 

***

 
Sono davvero contento che Ludwig conti su di me e che mi abbia addirittura affidato un incarico importante, scegliendo me al posto di Gilbert!
Stringo i pugni, liberando in tutto il corpo una scarica di energia che corre in ogni mia singola fibra.
Ce la metterò tutta.
 
Ludwig entra nella cella numero tre passandomi davanti, senza voltarsi per chiudere la porta. Io mi fermo subito, guardando prima la sua schiena e poi l’entrata spalancata.
“Ehm, Ludwig...” Gli domando con voce incalzante e lui si volta con un’espressione interrogativa stampata sul volto.
Io gli indico la porta con un pollice.
“Non dovremmo chiuderla?”
Il suo sguardo dubbioso si scioglie, lasciando al suo posto un leggero sorriso. Lui scuote la testa.
“No, non servirà. Ora sta’ a vedere cosa succede.” Mi dice con tono morbido.
Si volta nuovamente, coprendomi la vista con le sue spalle larghe, poi incrocia le braccia dietro alla schiena, e le due fasce del Transfert gli scivolano sul polso.
Io zampetto di lato, aggrappandomi alla manica del suo camice. Assottiglio le palpebre, aguzzando la vista, e solo ora mi rendo conto di una cosa fondamentale.
Quella stanza è così... nitida. Riesco a vedere con estrema chiarezza la parete bianca di fronte a noi.
Le labbra mi si schiudono dalla sorpresa.
“La barriera divisoria... non c’è!” Esclamo.
Ludwig non ha toccato alcun pulsante da quando siamo entrati, e questo vuol dire solo che...
“Ludwig... l’hai sollevata prima di entrare?” Gli chiedo, ma lui scuote la testa.
“No. A dire la verità, non c’è mai stato bisogno di abbassarla.”
Io mollo la presa intorno alla stoffa del suo camice e mi addentro di qualche passo nella cella, superando Ludwig.
“Ma, non hai paura che possa scappare? La barriera è stata costruita apposta perché non succeda, giusto?”
“Esatto. Ma, con Kiku Honda la fuga è l’ultima delle nostre preoccupazioni.”
Io ruoto il capo, cercando lo sguardo di Ludwig come se avessi capito male e volessi farmi ripetere in faccia quell’assurdità. Lui socchiude le palpebre, guardandomi con un’espressione paterna.  
“Fai fatica a crederci, non è vero?” Mi chiede, e io provo a balbettare una qualche scusa impacciata tra le labbra.
Ludwig solleva un braccio – quello attorno a cui è avvolto il Transfert – e indica qualcosa alle mie spalle.
“Coraggio, prova ad andare da lui.”
Io scuoto la testa, come per riprendermi da un intontimento e inizio a cercare Kiku, facendo roteare gli occhi prima sulla brandina, poi sulla parete. Il mio sguardo rapido si blocca su un piccolo fagotto bianco ammucchiato in un angolo del lettino. Lo osservo attentamente, assottigliando la vista, e in un primo momento non mi sembra altro che un mucchio di lenzuola raggomitolate e pronte a finire in lavatrice.
Mi avvicino di qualche passo, con le spalle piegate in avanti, e vedo finalmente aprirsi uno spiraglio in mezzo a tutta quella stoffa. Mi piego ancora di più – ormai mancano pochi passi prima di raggiungerlo del tutto – e in quel piccolo spazio buio nel mezzo del mucchio bianco scorgo un paio di grandi occhi nocciola che mi spiano.
Dopo un paio di attimi di incertezza, allargo un sorriso, portando la punta del mio naso ad una manciata di centimetri dalla testa di Kiku. È sicuramente lui!
“Ah, eccoti! Ti ho trovato.” Esclamo, appoggiando le mani sulle ginocchia.
Il mucchio di lenzuola scatta, come attraversato da uno spasmo, e Kiku sgrana gli occhi per poi nascondersi di nuovo, coprendosi con un lembo di stoffa.
Io piego la testa di lato, arricciando le labbra in un’espressione delusa. Giro lo sguardo verso Ludwig, che non si è mosso di un millimetro, e inarco le sopracciglia.
“Che cosa devo fare, Ludwig?” Gli chiedo, temendo di averlo già deluso.
Lui, però, non sembra arrabbiato e si avvicina a passi lenti al mio fianco.
“Comportati normalmente, Feliciano.” Mi risponde con voce calma.
Sfila una mano da dietro la schiena e rivolge il palmo verso il soffitto.
“Tutto quello che devi fare è essere te stesso.”
Io aggrotto la fronte in un’espressione decisa – sto cercando di essere duro come lui, ma non credo mi riesca bene – e annuisco.
Alzo le braccia per aria, allargandole come se stessi abbracciando la Torre di Pisa.
“Vieni fuori insieme a noi, Kiku! Andiamo tutti a...”
“A-aspetta, Feliciano.”
Ludwig mi agguanta il colletto della divisa per dietro, prima che io abbia tempo di tuffarmi sul fagotto di stoffa. Io ammoscio le spalle, rimanendo appeso alle dita di Ludwig come un gattino preso per la collottola. Sollevo il naso verso i suoi occhi.
Dove ho sbagliato?
“Cerca... cerca solo di non essere troppo precipitoso.” Mi riprende, ma senza usare un tono troppo severo.
Molla il lembo della mia divisa, e io sollevo la schiena, rimettendomi dritto.
Kiku è immobile, avvolto nella sua tana di stoffa. Sembra quasi che non respiri. Io avvicino il naso al fagotto, alzando un sopracciglio.
“Mhm, come facciamo a fargli indossare il Transfert se nemmeno mette la testa fuori di...?”
“... stra...” Un sussurro soffocato mi fa rimangiare la mia domanda.
Anche Ludwig ruota il capo, in modo da sentirci meglio. Io tendo l’orecchio il più possibile, ed un altro spiraglio si schiude nel rifugio del ragazzo. Io e Ludwig osserviamo quell’accenno di viso che emerge dal buio, in religioso silenzio.
Le sue labbra, sottili e delicate, si schiudono lievemente sotto a un piccolo naso di cui riesco a vedere solo la punta.
“C’è un estraneo, dottore.” Sibila Kiku, ruotando gli occhi nocciola verso Ludwig. L’iride gli trema come gelatina.
Ludwig si abbassa, appoggiando le ginocchia al pavimento e un braccio sul materasso. Annuisce deciso.
“Non devi avere paura di lui.” Gli dice, indicandomi. “Il suo nome è Feliciano, e non ti farà del male.”
“Ma... ma io non l’ho mai visto prima. La... la prego, dottore, lo mandi via.”
Io mi incupisco in volto. È davvero triste sapere che qualcuno ha paura di te.
Anche io decido di scendere alla sua altezza, ed incrocio le gambe, sedendomi accanto a Ludwig.
“Scusami se prima ti ho spaventato, Kiku.” Gli dico con tono di rammarico, poi però riprendo subito a sorridere.
“Esci fuori, dai, così facciamo amicizia.”
Kiku scuote la testa, facendola strusciare contro le lenzuola.
“Feliciano...” Mi chiama Ludwig.
Volgo lo sguardo verso di lui, incontrando i suoi occhi azzurri irradiati dalla luce.
“... so che ti potrebbe suonare strano, il fatto che abbia paura di uscire.” Trae un profondo respiro, socchiudendo le palpebre. “Ma ora guarda.”
Ludwig fa incrociare di nuovo i suoi occhi con quelli del ragazzo imbacuccato dentro al lenzuolo.
“Kiku...” Lo chiama incredibilmente per nome, poi indica l’uscita con il pollice, come volesse fare l’autostop. “...la porta è aperta. Puoi uscire, sei libero.”
“Eh?!” Esclamo io, strabuzzando gli occhi. Resto a fissare Ludwig con quell’espressione inebetita. Lui invece resta serissimo. “Ludwig... d-davvero vuoi...?”
“No, sto bene qui.” Gli risponde Kiku, secco. Poi si copre ancora di più.
Io non ci capisco più nulla.
Ludwig emette un altro profondo sospiro, nascondendo la delusione con un sorriso tirato. Volto lo sguardo verso Kiku, cercando i suoi occhi.
“Cosa?! Davvero non vuoi uscire? Ma... Ludwig ti ha appena detto che sei libero di andare. Libero, capisci? Puoi di nuovo tornare a casa!”
“No, ho paura ad uscire.” Sussurra con voce soffocata.
Io avvicino di più il viso al suo morbido rifugio.
“Eh? E perché hai paura? Noi non ti vogliamo fare del male. Puoi fidarti.”
La punta del suo naso fa di nuovo capolinea dalla montagna di stoffa spiegazzata. Un sibilo esce dalle sue labbra con tono neutro.
“Le... persone...”
Solleva i suoi occhi tristi su di me. È la prima volta che riesco a incrociarli direttamente.
“Io sto bene da solo. Non voglio vedere le persone.”
Prima che io possa aprire bocca per chiedere chiarimenti, Ludwig si lascia scivolare per terra. Probabilmente iniziano a fargli male le ginocchia, appollaiato com’è. Ludwig piega una gamba verso il petto, e i cavi del Transfert sfiorano il terreno.
“È uno shock culturale.” Mi spiega, poi appoggia il braccio sul ginocchio, lasciando ciondolare le dita della mano verso terra. “La cultura occidentale ha avuto un impatto tanto forte quanto veloce sul Giappone che, fino a poco prima, si era trovato in uno stato di quasi totale isolamento.”
Sospira, e gli occhi di Kiku lo scrutano con attenzione.
“Non tutti hanno reagito bene alle nuove condizioni di vita, e hanno trovato un rifugio sicuro solo nei loro ricordi, trascorsi nella vita che conducevano prima. Estremizzando la situazione, si è arrivati ai casi come quelli di Kiku. La sua patologia può essere principalmente classificata come autismo, ma non è da escludere nemmeno l’ipotesi di un accenno di xenofobia.”
Io ascolto attentamente la spiegazione di Ludwig, osservando ogni suo minimo movimento facciale, pur non capendo un accidente di tutti quei termini strani che usa.
“Shock culturale?” Ripeto, abbassando lo sguardo.
Poi mi rivolgo di nuovo a Kiku. “Ma, allora vorrai sicuramente tornare nel tuo paese, a casa tua. Ora ti stiamo dando la possibilità di farlo, di uscire da questo brutto ospedale.” Stringo i pugni, inarcando le sopracciglia. “Perché dici di non volerci fare ritorno? Ci sono un sacco di persone qui dentro che darebbero l’anima pur di avere questa possibilità.”
Kiku stringe il panno di stoffa intorno alla sua testa, facendo affiorare di più la punta del naso.
“Io non esco... perché per tornare in Giappone dovrei prendere un aereo, e stare in mezzo alla gente che io non voglio incontrare. Poi dovrei parlare con le persone che incontro per strada, e non saprei proprio come comportarmi se... se...”
Strizza gli occhi e si nasconde di nuovo, tuffandosi nel nero sotto le lenzuola.
“No... non potrei mai uscire di qui. Ormai preferisco starmene al sicuro, anche se lontano da casa.”
Il suo corpo è tutto uno spasmo, ma la sua voce rimane ferma e pacata.
Io raddrizzo la schiena, portandomi un indice tra le labbra. Sollevo le sopracciglia, e continuo a non capirlo.
“Ma non ti manca niente del tuo paese? Non c’è qualcosa di cui senti il bisogno? Ah, per esempio...”
Batto un pugno sul palmo dell’altra mano, riacquistando la mia espressione sorridente.
“...io sono qui solo da poco più di un mese e già mi manca tantissimo la pasta, la pizza e tutta l’Italia, ovviamente!”
Allungo il collo, guardandolo sotto la coperta di cotone. “C’è qualcosa in particolare che vorresti rivedere?”
Kiku riapre gli occhi, e una debole scintilla vacillante brilla nel buio. Riesco a malapena a vedere le sue palpebre socchiudersi sugli occhi, scrutando nel buoi delle lenzuola. Oppure è il suo cuore ad emanare tutta quell’oscurità?
“Mhm... i... gatti.” Mi risponde dopo un attimo di esitazione.
Io sento il mio cuore alleggerirsi. Ludwig, invece, aggrotta la fronte. Probabilmente non gliel’ha mai sentito dire.
“Ecco! Vedi che hai un buon motivo per uscire?” Esclamo, stracolmo di gioia, ma lui scuote la testa.
“Non... non dire sciocchezze. Tu non...”
“Secondo me stai già guarendo!” Continuo con tono fiero, come se fossi diventato io il dottore.
Balzo in piedi, piegando la schiena su di lui, senza smettere di sorridere. Allargo le braccia, divaricando gli spazi tra le dita.
“Ora, dobbiamo solo farti uscire allo scoperto.”
Kiku sgrana gli occhi, e una goccia di sudore gli riga la fronte, scivolando su una guancia.
“Ti ho detto che non voglio uscire. Io...”
Agguanto con entrambe le mani la candida stoffa che lo tiene intrappolato nel buio, e gliela sfilo di dosso con un gesto ampio, facendola svolazzare sopra le nostre teste. Credo di aver visto un mago compiere un gesto del genere, una volta.
La coperta solleva una folata d’aria che agita i capelli di Kiku, neri come l’ebano, che gli ricadono sulla fronte lattea.
Anche Ludwig si è rialzato, e fissa il ragazzo con occhi allarmati. Ma Kiku rimane immobile, allucinato.
È emerso! Ho fatto la magia!
Le mani sono paralizzate davanti al suo viso, piegate come se stessero stringendo ancora la stoffa della coperta. Il suo sguardo sconvolto è perso nel vuoto, e non riesce ancora a far uscire una singola parola dalle labbra semiaperte, tremanti.
Io appoggio per terra il lenzuolo, ammucchiandolo, e mi metto davanti a lui.
“Hai visto? Non è stato così traumatico, vero?”
Le sue palpebre spalancate si toccano dopo attimi di lugubre silenzio e Kiku ruota gli iridi verso di me, sollevando le sopracciglia. Io distendo un altro sorriso, sperando di essere ricambiato, ma lui striscia all’indietro come un gambero impaurito, raggomitolandosi contro il muro con la faccia immersa nelle ginocchia.
“Perché... perché lo hai fatto? Che cosa volete da me?”
“Eh? Ma io l’ho fatto per aiutarti.”
Appoggio le mani sul sottile materasso, chinandomi di fronte a lui.
“Voglio solo diventare tuo amico. E scommetto che anche Ludwig lo vuole, vero?”
Ruoto il capo alle mie spalle e Ludwig solleva le spalle di scatto, facendo una buffa smorfia con la bocca.
“Eh? Diventare amici? Veramente, io non...”
“A... amici?” Ripete Kiku, alzando la testa dalle gambe.
Le sue guance sono velate di rosa. Appoggia il viso sul ginocchio, e una ciocca corvina gli cade sulla stoffa della divisa ospedaliera bianca, che mette ancora più in risalto il nero dei suoi capelli.
“Non ho mai preso una decisione del genere. Sicuramente si corrono dei rischi.”
“Rischi?”  Piego la testa di lato, fino a toccarmi una spalla con un orecchio. “ Non lo so, però avere degli amici è divertente! Se lasci che ti aiutiamo...”
Gli prendo delicatamente le mani, scollandogliele dalle gambe, e lui s’irrigidisce, squadrando ogni mio più piccolo movimento con occhi assaliti dal panico.
“... se lasci che ti aiutiamo, poi usciremo tutti insieme e diventeremo amici.”
Kiku piega gli angoli delle labbra verso il basso, sconcertato dalla visione delle sue mani nelle mie. Sento le scarpe di Ludwig strisciare sul pavimento.
“Feliciano...”
Sollevo la punta del naso, che sfiora una delle fasce del Transfert impugnate da Ludwig. Il suo braccio è teso verso di me.
“... se vuoi, ti do il permesso di usare il Transfert su Kiku.” Mi dice con tono serio.
La sua voce è ferma e decisa, non credo proprio che sia uno scherzo. Io spalanco le palpebre e scollo il viso da quell’aggeggio, inarcando all’indietro il collo.
“Eh?! Vuoi davvero che lo usi io? Ma...”
Ludwig si china su di me e mi avvolge l’anello di stoffa imbottita attorno alla fronte, scostandomi i capelli con le dita.
“Ludwig, aspetta! Io non... non so come...”
“Non ti preoccupare.” Mi blocca lui, allacciandomi la chiusura in velcro. I cavi che si insinuano sotto al pesante tessuto sono freddissimi. Io stringo i denti, trattenendo un gemito.
La frangia torna a cadere sulla stoffa che mi cinge la fronte.
“Nemmeno io sapevo cosa avrei dovuto fare.” Mi svela Ludwig, con un sorriso.
Kiku si libera dalla mia presa, e si rintana tra le sue stesse spalle, piegandole a riccio.
“Cosa volete fare?”
“Rilassati.” Lo rassicura Ludwig, munendo anche lui del Transfert.
La fascia nera fa quasi perdere le sue tracce tra i capelli di Kiku. Solo i fili colorati restano ben visibili.
“Sei in buone mani.” Prosegue, dando un’ultima controllata ai lacci in rame che ci uniscono.
Io sento già un formicolio salirmi la spina dorsale. Con gli occhi cerco Ludwig, sperando in un suo conforto.
“Mi raccomando.” Mi dice lui, posandomi una mano sulla spalla. “Stai...”
 
 

***

 
Il tramonto è sempre bellissimo sul monte Fuji.
Poso le mani sul morbido legno della veranda, inclinando la schiena all’indietro, e le maniche del kimono scivolano fino alla punta delle dita, coprendole. Sollevo il naso verso la cima del monte innevato, avvolto da un cielo rosa, che si sfuma di arancione verso le pendici. Un ramo dell’acero giapponese piantato in giardino si scuote, e sento un uccellino sfrecciare via dal cespo di foglie rosse, cinguettando. Udendo il suo battito d’ali colpire l’aria, il gattino raggomitolato di fianco alle mie gambe incrociate tende le orecchie, ruotando gli occhi al cielo. Un’onda di luce scorre sul suo pelo nero come l’inchiostro.
Il gatto emette un lungo e profondo sbadiglio, dandosi una ripulita ai baffi con un gesto della zampa, e si rimette a dormire, affondando il muso nel mio kimono blu notte. Gli passo una mano tra le orecchie, accarezzandogli la morbida pelliccia vellutata, poi riprendo a guardare il monte, attorniato dalle verdi foglioline che brulicano sui rami dei ciliegi piantati nel prato.
La primavera è vicina, e si vede già qualche bocciolo rosa decorare l’albero, facendolo assomigliare ad un prezioso scettro ingemmato.
Che pace. Il Giappone è proprio una terra meravigliosa.
 
 
Il capo del governo tamburella le dita tozze sulla superficie del tavolo, distogliendo gli occhi dal mio sguardo intimorito. Si passa una mano sulla testa semi calva, abbandonandosi sullo schienale della poltroncina imbottita da ufficio.
Io chino la testa, appoggiando le mani giunte sul grembo. La tiepida luce primaverile filtra attraverso i miei capelli, accecandomi la vista.
“Signor Capo del Governo, quello che lei mi chiede è...”
“Assolutamente fattibile, Honda.” Mi risponde con voce impastata, e le sue guance paffute si tingono di rosso.
“Capisci che è una svolta radicale per il nostro paese, e desidero che tutto fili liscio. Non dobbiamo farci scappare l’occasione di aprire i porti con il mondo occidentale.”
Smette di battere le dita sul tavolo, e mi punta l’indice addosso, sistemandosi il colletto della camicia che stringe con l’altra mano.
“Ecco perché mi aspetto molto da te e dalla tua diplomazia, Honda. Un bravo ambasciatore deve saper gestire i rapporti con arguzia e strategia. Ma, soprattutto, non dovremo mostrarci indecisi o tantomeno deboli davanti a loro.”
Posa una mano sul petto, slacciando un bottone dall’asola. Quella giacca sembra che stia per esplodere, fasciata intorno alla sua pancia ben pronunciata.
Io piego la schiena ancor più verso il basso, e i capelli corvini mi ricadono completamente davanti alla fronte.
“Certamente, Signor Governatore. Ma, vede, il mio timore è che io non riesca nell’intento di approcciarmi a loro. Non che io non creda nella sua strategia politica, però temo che...”
Socchiudo le palpebre, inarcando le sopracciglia.
“... temo che queste persone siano molto diverse da noi ed è la prima volta che il Giappone si ritrova a...”
“Infatti, Honda, io non sto chiedendo al Giappone di fare questo sforzo. Non ora, per lo meno.” Mi interrompe, schiarendosi la voce.
Incrocia le dita sudaticce sotto al mento, sbilanciando il peso in avanti.
“Lo sto chiedendo a te.”
“Ma... ma, signore...” Balbetto, iniziando a grondare di sudore. “... non credo di essere in grado di... ecco... se solo si potesse evitare, o se venissi sostituito.”
“Ma non si può evitare, Honda. E della tua sostituzione non se ne parla.” Mi risponde lui, con una voce così profonda da sembrare l’eco del suo stomaco.
“Capisco perfettamente ciò che ti turba, e non è la prima volta che dimostri un atteggiamento simile, non solo con gli stranieri. Diciamo...”
Ruota la poltrona girevole alla sua destra, mostrandomi il suo profilo.
“... che il tuo è un problema con gli estranei in generale. Mi viene da chiedermi perché mai tu abbia deciso di seguire la via dell’ambasciatore diplomatico, se il contatto con le persone ti spaventa così tanto.” Sbuffa, quasi stesse trattenendo una risata. “Tuttavia, ti sei sempre dimostrato un gran lavoratore, devo riconoscerlo, e credo che questo sia l’unico motivo per il quale tu ti trovi ancora qui, a chiacchierare con me.”
Io mi mordo il labbro inferiore, continuando a fissare il pavimento. Butto fuori uno sospiro d’aria dal naso.
“Pensavo che...” Rispondo con voce calma. “... pensavo che, così facendo, avrei potuto superare la mia fobia, ma...”
“Ecco, vedi? E infatti io voglio aiutarti, Honda.” Esclama.
Scivola giù dalla sedia imbottita, incrociando le mani dietro alla schiena.
“Però questa è l’ultima possibilità che posso darti. Se il tuo comportamento dovesse risultare inadeguato, dovrò prendere severi provvedimenti nei tuoi confronti.”
Io mi irrigidisco, e una scossa pungente scivola giù dalla mia schiena.
“Io, quindi, sarò congedato?”
Il governatore ruota il collo basso e largo verso la mia figura china. Il suo sguardo s’incupisce, avvolgendosi di un buio spettrale.
“Non esattamente, Honda. Ma non ci pensare, per il momento. Tu...”
Sia ferma davanti alla finestra. Un petalo di ciliegio è appena svolazzato dietro al vetro.
“... tu pensa solo a fare una bella figura con i nostri ospiti.”
 
 
Non uscirò mai più fuori di casa.
Mi ritiro sotto al futon, strisciando come fanno i vermi dentro alla terra umida. Mi scavo una tana sotto le coperte, e vengo avvolto da un buio ancora più pesto di quello che aleggia nell’intera camera. Ormai l’aria inizia a farsi umida, appesantita dall’odore degli avanzi del ramen istantaneo, abbandonato alla sua lenta decomposizione in un angolino. Una ciotola è ancora piena, con la linguetta in stagnola sigillata sul bordo, ma ora non ho fame e, soprattutto, non ho voglia di andare in cucina per mettere a bollire l’acqua.
Rimetto il naso fuori dal futon, abbassando gli occhi sul pavimento in legno. Il mio fiato sottile solleva una manciata di granelli di polvere. Dovrò dare una ripulita. Se dovessi prendere qualche malattia sarebbero guai. Non voglio essere costretto a chiamare il dottore.
Lo schermo arrotondato del piccolo televisore appoggiato per terra contro il muro è l’unica fonte di luce in quell’oscurità, ed illumina il pavimento di vari colori tenui che si alternano come lampi. Quando il riverbero si fa più acceso sono costretto a strizzare le palpebre, per proteggere gli occhi infastiditi. Quella luce mi martella il cranio.
Mi accoccolo come un gatto, avvolto dalla coperta pesante e dal materasso. I capelli mi coprono tutto il viso, nascondendo la mia espressione abbandonata.
Ecco, se potessi proseguire così la mia vita sarei felice. Non voglio tornare fuori.
Sullo schermo della televisione scorrono le immagini mute del notiziario, e riesco solo a leggere i titoli. Strette di mani, inchini, estranei, estranei e ancora estranei...
 

Assenza improvvisa dell’Ambasciatore Honda all’incontro di Tokyo. Il Capo del Governo tranquillizza: “È solo un inconveniente, porteremo in ogni caso avanti i rapporti di pace.” Voci sussurrano di una possibile crisi da parte dell’Ambasciatore. L’incontro di Tokyo si è comunque svolto in un ambiente sereno, il presidente americano ha...

 
Tuffo la faccia tra le lenzuola, assalito dai brividi. Mi stringo la stoffa attorno al viso, stringendo i denti.
Anche se... anche se si fosse trattato di altri giapponesi io...
Io ho provato a non deludere il Governatore, ma se avessi fatto qualcosa di sbagliato poi... no.
Rilasso i muscoli della schiena, abbandonandomi a peso morto nel mio limbo.
Io non ho paura di loro solo perché sono stranieri. Io ho paura delle persone.
Faccio scivolare le mani intorno alla testa, schiacciando le tempie.
Perché non posso restarmene in pace da solo? Le relazioni comportano solamente problemi,decisioni e incomprensioni. No, non posso farcela, è troppo complicato, non ha senso! In questo mondo a me basta la mia stanza, il mio buio, e me stesso. Sono loro quelli che non mi capiscono, sono loro quelli che...
“Signor Honda.”
Riapro gli occhi, svegliato dal tonfo proveniente dal corridoio. Una voce ovattata striscia fino alla mia stanza.
Io emergo dal futon, restando in silenzio ma con il cuore fermo in gola. Il suo pulsare mi mozza il fiato.
“Siamo venuti per ordine del Governatore, Signor Honda.”
Il cuore mi torna a martellare nel petto. Tutto il mio corpo è attraversato da spasmi, affogato nel sudore gelido.
Sento lo scorrere della porta e l’eco di numerosi passi farsi più chiaro.
“La preghiamo di non opporre resistenza. Siamo qui per aiutarla, Signor Honda. Abbiamo ordine di scortarla in una struttura più adeguata alle sue esigenze.”
La porta viene totalmente assorbita dalla parete, e tre sagome nere si materializzano sulla soglia,inondate dai raggi luminosi provenienti dal corridoio. Una folata d’aria fredda mi stritola il cranio.
Il mondo esterno è davvero terrificante.
 
 

***

 
Riesco a svegliarmi da solo. Credo sia stato il dolore alla testa ad avermi strappato dai ricordi di Kiku. Un leggero tremolio mi scuote le palpebre, e basta solo quella lieve oscillazione per farmi serrare i denti dal male. È come se un chiodo rovente mi stia trapassando il cranio da tempia a tempia.
Lascio che il lampo bianco svanisca davanti ai miei occhi, poi riprovo ad aprirli ma con l’aiuto delle mani, che sollevo lentamente verso il viso. Mi massaggio le guance con la punta delle dita e finalmente riprendo l’intera padronanza del mio corpo.
Schiudo gli occhi su Kiku, piegato su se tesso con la faccia nascosta tra le ginocchia richiamate al petto. I fini capelli neri sono caduti sul Transfert, nascondendolo, così i cavi sembrano uscire direttamente dalla sua testa.
Istintivamente, tocco la mia fascia, infilandoci sotto le dita per liberarmi dal prurito.
Mi inumidisco le labbra screpolate.
“È già... finito?” Borbotto, ruotando lo sguardo in cerca di Ludwig.
Kiku rimane immobile.
“Sì, ce l’hai fatta.” Risponde una voce al mio fianco.
Io mi volto e Ludwig è seduto di profilo, con una mano sotto il viso serio. Le nocche gli reggono il mento, e i suoi occhi sono puntati dritti verso Kiku.
“Allora...” Prosegue, ma senza nemmeno una piccola traccia di impazienza. “... cos’hai visto?”
Io stringo le mani sul grembo, nascondendo lo sguardo.
“Ecco... io...”
“Dottore, è pregato di...”
La voce soffocata di Kiku interrompe il mio balbettare. Sento la sua fronte strisciare sulla stoffa dei pantaloni e, in mezzo alla fitta frangia, si fa spazio una scintilla color nocciola, che si apre lentamente.
“... è pregato... di non farlo mai più.”
Ludwig sospira, abbassando il capo, e io, sempre con la schiena ricurva, ruoto il collo, osservando la sua reazione.
“Ludwig, ho sbagliato qualcosa?” Gli chiedo, inarcando le sopracciglia.
Lui scuote la testa, abbassando le palpebre.
“No, tu non centri nulla. Mi spiace averti coinvolto, forse la colpa è solo mia.”
Inarca la schiena verso l’alto, spingendo tutto il peso sulle mani appoggiate dietro di lui.
“A quanto pare, ho fallito lo stesso, nonostante il Transfert.” Dice, poi apre gli occhi verso la luce che si dirama dal soffitto. “Sono stato uno stupido a pensare che le persone possano guarire solo con dei sorrisi.”
Io piego le labbra all’ingiù, alzando le spalle, come sperando di nascondermi.
L’ho deluso. È colpa mia.
Torno a posare gli occhi su Kiku, che fissa i suoi piedi nudi con sguardo triste. È coperto fino alle guance dalle ginocchia. Stringe ancora di più le dita attorno alle gambe e affonda il naso tra la stoffa bianca della divisa.
Io scuoto la testa, sbarazzandomi di quella mia espressione abbattuta. Faccio scorrere lo sguardo sui cavi che ancora ci legano.
Se dovessi alzarmi non dovrebbero rompersi, credo che siano abbastanza lunghi.
Snodo le gambe ingessate, facendole scivolare sul freddo pavimento e, aiutandomi con una spinta delle mani, mi sollevo su due piedi. La testa mi gira un paio di volte, così allargo le braccia sui miei fianchi per tenermi in equilibrio.
Kiku solleva la fronte verso di me. Inarca le sopracciglia, sbarrando gli occhi lucidi e  tremanti.
Io addolcisco lo sguardo, come per rassicurarlo, e sbilancio il busto in avanti, tendendo le braccia verso di lui. Quando i nostri petti si incontrano, gli stringo le spalle in un morbido abbraccio, appoggiando il mento nell’incavo del suo collo.
Il corpo di Kiku raggela sotto la mia presa, come attraversato da una scossa paralizzante.
“Ma... cosa stai...” La sua voce trema.
Io striscio sul materasso di fianco a lui, sfilandogli lentamente le braccia dal busto. Kiku rimane impietrito, fissandomi come se lo avessi appena accoltellato. Io piego il collo verso terra, sperando di ricevere dei complimenti da Ludwig, ma lui è ancora più spiazzato di Kiku. Ci guarda con occhi attoniti e la bocca semiaperta, rigido come una pietra. Il fiato gli si è mozzato in gola.
Tento di rivolgermi nuovamente a Kiku.
“Vedi?” Dico, sorridendo. “Non si deve avere paura delle persone. Di noi puoi fidarti, anzi...”
Gli afferro le mani e una spolverata di rosa si estende a macchia d’olio sul suo viso.
“... tu aspettaci fuori, e quando tutto questo sarà finito noi verremo a prenderti e ce ne andremo via insieme.”
“Andare là fuori?”
Kiku piega il capo verso la sua sinistra, ruotando le pupille in direzione della porta aperta.
“Voi dite che dovrei uscire da solo? Ma...”
“No, non da solo.” Gli rispondo, scuotendo la testa. “Non serve che tu esca dal Welt. Basta solo che tu metta piede fuori da questa stanza e dal corridoio. Poi usciremo tutti insieme, te lo prometto. Vero, Ludwig?”
Ludwig esita, scattando come se lo avessi appena risvegliato da un sonno profondo.
“Vuoi che esca da qui con noi?” Mi chiede con tono secco.
Io annuisco, allargando il sorriso.
“Certo che sì. Se Kiku ha tanta paura del mondo esterno non potrà mica farcela da solo, Ludwig.”
Stringo le dita ancora di più attorno a quelle del mio nuovo amico e i suoi polsi si contraggono.  
“Ma se noi lo aiutassimo, restandogli affianco, allora tutto si sistemerebbe, giusto? Però...” Guardo Kiku con sguardo deciso. “... ora noi dobbiamo andare dagli altri pazienti per aiutare anche loro. Devi avere solamente fiducia in noi e ascoltare i nostri consigli.”
“Fiducia?” Risponde lui, sfilando le sue mani dalle mie.
“Aspetta, Feliciano.” Ludwig mi blocca, prima ancora che io possa rispondere.
Io mi giro a guardarlo.
“Hai visto anche tu cosa è successo a Jones e a Kirkland? Quello che avverrà nelle celle che ci aspettano ci è del tutto ignoto. Potrebbe accadere di tutto. Noi potremmo...” Aggrotta la fronte, abbassando gli occhi al suolo. “Considerando il fatto che ci aspetta la cella numero nove, noi potremmo...”
Cala il silenzio. Un rumore gelido e tombale.
Io scuoto la testa, levandomi dalla mente quei cattivi pensieri. I cavi del Transfert mi ciondolano sulle spalle, così io mi ricordo di averlo ancora addosso.
Prima, però, è meglio toglierlo a Kiku. Poso delicatamente le dita sulla sua fascia, strappandogli l’apertura stando attento a non tirargli i capelli. Il Transfert scivola via dalla sua fronte bagnata di un sudore gelido e io lo poso sul materasso, dove giace assieme al gomitolo di cavi legati ancora alla mia testa.
Ripeto l’operazione con la mia fascia, slacciandola dalla fronte arrossata, e mi scuoto i capelli.
Aaah, molto meglio.Penso, arieggiando il capo.
“Facciamo così.” Dico con voce squillante, rivolgendomi a Kiku.
Lui sibila un gemito, arricciando le labbra.
“Come si fa, nel tuo paese, per stringere una promessa?”
Kiku rilassa i lineamenti del viso, poi emette un sospiro profondo e allo stesso tempo malinconico.
“Beh...” Socchiude le palpebre e stacca una mano dalle gambe, sollevando il mignolo ancora arricciato con un movimento delicato. “... noi ci stringiamo i mignoli.”
“Perfetto!” Esclamo, annodando subito il mio dito attorno al suo.
Le sue dita sono fredde e sottili, come ramoscelli di ghiaccio.
Allungo l’altro braccio verso il basso, porgendo il mignolo anche a Ludwig, ancora col sedere per terra.
“Torneremo a prenderlo. Non è vero, Ludwig?”
Lui posa lo sguardo sconcertato sulla mia mano. Gliela avvicino ancora di più, allargando il sorriso. Ludwig abbassa gli occhi, intrecciando il suo dito attorno al mio con una presa ben più forte di quella di Kiku.
“In che guai mi stai cacciando, Feliciano?”
“Nessun guaio” Rispondo io, trattenendo un risolino.
“Ci stiamo solo facendo una promessa. Forza, Kiku...” Mi rivolgo nuovamente al giovane giapponese. “... porgi anche tu l’altro mignolo a Ludwig.”
Kiku in un primo momento sembra riluttante, ma quando abbassa la spalla per incrociare lo sguardo di Ludwig, lui lo aspetta già con il mignolo teso.
“Ora che siamo diventati amici...” Proseguo io. “... ci ritroveremo tutti quando usciremo di qui.”
Le nostre dita intrecciate forgiano come una catena. Una catena forte come una promessa di amicizia, di libertà.
 

“Te lo prometto. Qualsiasi cosa succeda, io ti giuro che...”

 
Il cuore mi si gonfia di speranza. Ma, allora perché...
 

“Non posso infrangere la promessa. Lo so che è una situazione disperata, me l’avete già detto mille volte, ma è tutto quello che ci rimane. Io non... posso... gliel’ho promesso... gli ho giurato che...”

 
... la testa continua a girarmi?

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


CAPITOLO 8

 
 
La testa mi gira. Seguo con lo sguardo il vacillare dei nostri mignoli intrecciati. Le nostre mani, insieme al viso di Feliciano, si offuscano bordandosi di nero.
Un buio che mi risucchia, come volesse portarmi via, fa sciogliere la realtà che mi circonda come cera calda che cola dalle pareti.
Agito il capo, snodando entrambe le prese, e tutto torna normale. I muri al loro posto e i contorni delle facce di Feliciano e Kiku perfettamente nitidi.
Appoggio una mano sul ginocchio, dandomi una spinta che mi aiuta a rialzarmi. Vacillo un paio di volte, reggendomi il capo con le punte delle dita. Anche le ultime scintille che mi accerchiano la fronte si dissolvono.
“Forza, Kiku.” Gracchio tra i denti, mentre mi sgranchisco la schiena. Emetto un profondo sospiro e sono di nuovo in forma.
Kiku alza il mento, guardandomi con quei suoi occhi, profondi come pozzi, nascosti sotto il caschetto.
“Ora ti facciamo uscire di qui.”
Ruoto il capo al mio fianco e Feliciano mi sorride.
 
Kiku varca la soglia della cella numero tre a capo chino, con la schiena ricurva ancora fasciata dal lenzuolo bianco. Perlomeno, ne è uscito con le sue gambe.
Gilbert, quando ci vede, si scolla dalla parete, rimbalzando davanti a noi come un grillo.
“Era ora, maledizione! Avevate intenzione di piantarci le radici, per caso?”
Kiku emette un gemito, il suo sguardo si sgrana, e fa un salto all’indietro, sbattendo la schiena contro Feliciano. Lui gli dà una leggera pacca sulle spalle.
“Va tutto bene, Kiku, lui non è pericoloso. Credo.” Lo rassicura, schernendo mio fratello con una risata giocosa.
Gilbert solleva un sopracciglio, piegando la bocca in una smorfia. Non fa assolutamente caso alla battuta di Feliciano.
“E così lo avete portato fuori, eh? Non è sparito anche lui come l’Inglese e l’Americano?” Chiede, e io scuoto la testa.
“No, però anche lui è libero di lasciare l’edificio, non c’è motivo per il quale resti qui.”
“Esatto, esatto! Poi ci siamo fatti la promessa di stare tutti assieme quando usciremo anche noi!” Esclama Feliciano, allargando le braccia in aria.
Gilbert sghignazza, sputacchiando una spruzzata di saliva che vola fuori dalle sue labbra. Si preme una mano davanti alla bocca, soffocando una risata isterica. Io tossisco un paio di volte, per far tacere tutti e due.
“In ogni caso... abbiamo lasciato l’entrata aperta, se non sbaglio. Dico bene, Gilbert?”
Lui si asciuga le palpebre dalle lacrime con una nocca e raddrizza la schiena, rilassando i muscoli delle braccia.
“Sì, la serratura è chiusa ma non con la chiave. Potrebbe aprirla chiunque.” Dice, dopo un profondo sospiro.
Io annuisco.
“Bene. Allora Kiku può anche aspettare fuori dal corridoio. Non ha senso farlo proseguire con noi.”
Il giovane giapponese si stringe le spalle nel lenzuolo, e gira il capo verso la porta blindata all’estremità del corridoio con un gesto arrugginito, spettrale.
“Io... dovrei... uscire da solo?” Balbetta, strabuzzando gli occhi terrorizzati.
Io incrocio le braccia dietro alla schiena, raddrizzando la schiena e gonfiandomi il petto.
“Esattamente. Vedi, se riuscirai a varcare quella soglia, allora darai la prova di esserti davvero guadagnato la tua libertà.”
Kiku nasconde gli occhi dietro alla fitta frangia. Si morde un labbro, senza emettere un fiato.  Feliciano lo guarda con i pugni stretti davanti al petto, come stesse cercando di incitarlo. La sua fronte aggrottata gli dona un’aria insolitamente seria. Kiku gli lancia un’occhiata veloce e Feliciano annuisce, lasciandosi scappare un gemito in fondo alla gola.
Kiku posa lo sguardo sui suoi piedi, ancora nudi e bianchi, infreddoliti dal gelido pavimento. La sua schiena ricurva si abbassa e le sue narici buttano fuori una grossa boccata d’aria. Poi fa un passo, lento e silenzioso come quello di un gatto, e non si ferma. Il bordo del lenzuolo striscia sul pavimento, percorrendo la via del ritorno.
Io sospiro, e sulla mia bocca compare un sorriso compiaciuto.
Bravo, Kiku.
Feliciano, di fianco a me, alza il braccio verso l’alto, scuotendo la mano come se stesse spalmando della vernice a mezz’aria.
“Ciao, Kiku! Aspettaci, ti verremo a prendere, lo promettiamo!” Esclama, e Kiku sparisce, divorato dalla luce del corridoio.
 
Rimango con l’orecchio teso ancora per una manciata di secondi, aspettando che la porta blindata si chiuda. Il tonfo metallico mi fa tremare il timpano.
Emetto un profondo sospiro di sollievo, asciugandomi col dorso della mano una goccia di sudore che è rotolata giù dalla fronte.
“È uscito per davvero. Bene, avevo ancora il timore che potesse sparire come Jones e Kirkland.”
Feliciano si volta e abbassa la mano, portandosela vicino alla bocca. È bastato solo pronunciare i nomi degli ex pazienti del Welt per far sciogliere il suo sorriso.
“Ormai non può più accadergli nulla, vero? È al sicuro fuori dal corridoio, ormai il peggio è passato.” Mi dice, ma io m’incupisco in volto.
Abbasso gli occhi, invece di guardarlo dritto in fronte e rassicurarlo.
Non ne sono del tutto convinto, ma è meglio non allarmarlo. Se solo...
“Ah, Ludwig, però...” Scatta Feliciano,stringendosi le spalle tremanti. “...ti ricordi cosa mi ha detto l’inserviente? Lui... lui mi ha assicurato che nessuno potrà mai uscire dal Welt.” Ingolla un grosso boccone di saliva, deformando la bocca in un ghigno che gli serpeggia tra le guance.
“Tu credi che Kiku starà bene, fino al nostro ritorno? E Alfred e Arthur? Loro saranno davvero sani e salvi?”
Io piego le labbra, risucchiandole dentro la bocca. Mi batto due dita su una tempia, e una vena mi pulsa sotto i polpastrelli.
“Non lo so.” Concludo, assalito dai dubbi.
Non posso mentirgli. E lo farei, se gli dicessi che sicuramente stanno tutti bene.
Feliciano nasconde lo sguardo, come se si stesse vergognando delle sue stesse paure. Fa sfregare un piede attorno alla caviglia, giocherellando con le dita annodate sul grembo.
Sento un tonfo colpirmi in pieno petto, vedendolo così abbattuto. Una morsa gelida mi stritola il cuore, mozzandomi il fiato in gola. Stringo un pugno, aggrottando la fronte.
È sempre stato Feliciano a trovare il lato positivo in ogni disavventura che abbiamo incontrato qui al Welt. Lui ha capito che qualcosa non quadrava in tutta la faccenda, lui ha parlato con il fantasma di Matthew Williams, lui mi è stato accanto durante le operazioni col Transfert, lui ha fatto uscire Kiku dalla cella.
Se non fosse stato per Feliciano, tutto questo non...
Mi avvicino a lui a passo tranquillo e inarco la schiena, allungando le braccia sopra il suo petto. Feliciano guarda le mie mani stringersi attorno alle sue spalle con occhi sorpresi. Solleva la punta del naso e quell’espressione intristita svanisce del tutto.
“Tutto quello che posso dire con certezza, è che non lo sapremo mai fino a che non arriveremo in fondo a questa faccenda. Per cui...”
Volto il capo con un scatto, e la stoffa del camice mi gratta la pelle nuda del collo.
“... muoviamoci. Ne abbiamo di strada da fare.” 
 
 
Cella #4
Paziente: Francis Bonnefoy
 
La chiave sfiora l’entrata della serratura, senza entrarci.  Mi fermo qualche secondo a guardare la ruota metallica, il meccanismo di apertura della cella, poi sollevo gli occhi e seguo la vernice nera che marchia la porta con il numero quattro. I riflessi delle lampade lo illuminano di una luce bianca che brilla sugli angoli.
Mi inumidisco le labbra e aggrotto la fronte. Conosco bene il suo ospite, e una brutta sensazione inizia a strisciare tra i miei neuroni.
“Forse...”
Mi volto alla mia sinistra, abbassando leggermente lo sguardo. Feliciano ha ancora stampato sulla faccia il sorriso che ha sostituito la smorfia di tristezza, ancor più ampio rispetto a quello che si è scambiato con Kiku poco fa.
Io arriccio il labbro.
“... non è il caso che tu entri, Feliciano.”
Lui piega la testa di lato, guardandomi con occhi annebbiati dalla confusione. Addio, sorriso.
“Eh? Perché non posso, Ludwig?” Solleva le sopracciglia e il suo sguardo assume un tono pietoso. Le labbra gli tremano. “Forse, prima ho sbagliato qualcosa?”
Io scuoto la testa.
“No, non è come credi. Vedi, il fatto è che...”
“Ah, un momento! Ho capito tutto!” Mi interrompe Gilbert, sbraitando come se volesse squarciare l’aria.
Si toglie le mani dalle tasche e stringe i pugni, sollevando gli occhi fino all’architrave dell’entrata. La sua bocca si piega in un ghigno sadico, e una scintilla scarlatta gli brilla nel mezzo dell’iride.
“Qui dentro c’è un serial-killer, non è vero? Che fortuna! E io che pensavo non ci saremmo mai arrivati.”
Batte una palmo della mano sulla porta e il tonfo metallico rimbomba per tutto il corridoio. Le sue palpebre si dilatano ancora di più.
“Secondo voi chi vorrà uccidere per primo tra noi? Quello più forte, o quello più indifeso? Oppure quello più figo?” Continua a chiedere, premendosi il petto con la punta di un pollice.
Io ritiro la chiave, facendomela rigirare tra le dita che la riscaldano.
“Quasi mi dispiace deluderti, lo sai?” Gli confesso, ma senza un minimo di rammarico.
Il suo sorriso svanisce, e piega il capo verso di me, lasciandolo ciondolare appeso al collo.
“Eh? E perché? Se qui dentro non c’è un feroce e folle assassino, allora perché preoccuparsi tanto?” Domanda Gilbert, facendo scivolare la mano sulla superficie.
Quando raggiunge la ruota dentata, i polpastrelli si scollano.
Io socchiudo le palpebre.
“Gilbert, hai mai sentito parlare di pansessualismo?”
In mezzo a noi cala un pesante e fastidioso silenzio.
Lui contorce lo sguardo, arricciando naso e bocca. Il bianco dei suoi occhi inizia a brillare. Gli scappa una smorfia e si copre le labbra con il dorso della mano. Le guance gli si sono gonfiate come quelle di un rospo.
Alza l’altra mano, puntando l’indice su Feliciano. La manica della divisa gli copre il braccio fino alle nocche.
“Non dirmi che ti preoccupi di... oh, andiamo, Lud!” Esclama tra uno sghignazzamento e l’altro.
Si avvicina a passo pesante, svanendo alle mie spalle. Quando mi volto, la sua mano è schiacciata sulla testa di Feliciano, sfregandola come se volesse svitargliela dal collo. Feliciano piagnucola come un gattino smarrito sul ciglio della strada.
Gilbert mi lancia un’occhiata d’intesa con un sopracciglio inarcato.
“Fidati...” Ghigna, stringendo la morsa. “... questo qui non lo farebbe rizzare nemmeno ad Enrico Ottavo.” Conclude con estrema finezza, e io alzo gli occhi al cielo, sospirando.
In ogni caso, c’è la barriera divisoria.   
 
 
Francis Bonnefoy si passa le dita tra i capelli, sistemandosi una fine ciocca dorata dietro all’orecchio, che gli avvolge il lobo come incorniciandolo. Chiude le palpebre sottili, emettendo un profondo sospiro.
“E così li state facendo uscire tutti, eh? Che idea originale, dottore, sbaraccare questo edificio.” Mi dice con voce mielata, che passa attraverso i fori del muro trasparente come una melodia ondulante.
Bonnefoy si distende su un fianco, facendo ciondolare un braccio giù dalla brandina. Affonda il gomito dell’altro braccio nel materasso, appoggiando tutto il peso della testa sulle nocche del pugno chiuso. I capelli fulvi gli scivolano dalla testa, intrecciandosi tra le dita della mano, coprendola.
“Suppongo che dovrei aspettarmi la mia immediata liberazione, stando a quel che dite. Ah, meno male!” Esclama euforico, alzando il braccio ciondolante con un gesto ampio e lento.
“Potrò finalmente liberarmi di questi stracci. Sì, credo che sarà questa la mia soddisfazione più grande, una volta fuori di qui.”
Io incrocio le mani dietro alla schiena. Il Transfert è ben incastrato sulla spalla.
Gli occhi mi si incupiscono, mentre attraversano la barriera ancora intatta tra di noi.
“Non correre troppo. Non ho mai detto di aver liberato gli altri pazienti così, all’acqua di rose.” Sollevo il mento, abbassando le palpebre. “Ovviamente, il tuo caso è lievemente diverso dagli altri, ma anche tu dovrai darmi prova che meriti davvero questa liberazione.”
Bonnefoy riapre un occhio. Lo zaffiro incastonato tra la cascata dorata. Solleva un fine sopracciglio, distendendo i lineamenti del viso.
“Meritarmi la liberazione? Mi permetta, dottore, ma...”
Si rialza, mettendosi seduto sul bordo del lettino. Richiama un ginocchio al petto, avvolgendolo in un abbraccio, e mi guarda con aria scocciata.
“... io non sarei nemmeno dovuto finire qui dentro. Insomma, vengo paragonato ogni santo giorno a tutto quel branco di bifolchi, zoticoni e mentecatti che alloggiano intorno a me.”
Chiude le palpebre, appoggiando il mento sul ginocchio.
“Sono totalmente fuori luogo, dottore. Io non merito la liberazione, io la esigo.”
Io ruoto gli occhi al cielo, già aspettandomi un commento di mio fratello. Ovviamente, non si fa aspettare.
Gilbert si cinge le mani ai fianchi e supera la figura di Feliciano, fermo al mio fianco, portandosi più vicino al divisore. Avvicina la bocca alla barriera trasparente, piegandola in una smorfia.
“Davvero lo credi? Beh, sulla tua cartella c’è scritto tutt’altro.”
Ma se non l’ha nemmeno letta!
Stringo i pugni, e le mani iniziano a sudarmi come la fronte. Digrigno i denti, trattenendo l’impulso di strozzarlo.
Lo sta sfidando.
Bonnefoy si passa una mano tra i capelli setosi, inclinando leggermente la testa di lato.
“Oh, andiamo...” Incalza con tono malizioso.
Le sue labbra si piegano in un sorriso ammaliante, quasi provocatorio. In una parola, femminile.
“... pensavo che fosse reato solo se non consenziente, se sa cosa intendo.”
Arriccia il naso, sbattendo le ciglia sugli occhi, come aspettandosi una nostra reazione.
Gilbert si limita a trattenere uno sghignazzamento, voltando il capo verso l’uscita.
Io sospiro.
“Questa non è una prigione.” Ripeto per l’ennesima volta al mio paziente. “È un ospedale. Qui le persone non vengono rinchiuse perché sono dei criminali, non tutte per lo meno, ma perché sono malate.”
Bonnefoy si fa d’un tratto scuro in volto, fulminandomi con lo sguardo.
“Io non sono malato.”
Si sistema un’altra ciocca dietro ai capelli.
“Né tantomeno un pericolo per la società. Le sue sono solo chiacchiere, dottore. La verità è che non sa che pesci pigliare con uno come me, giusto?”
Sistemo un cavo del Transfert che mi sta scivolando dalla spalla e incrocio le braccia. Lancio un’ultima occhiata al connettore, docile e immobile sotto la mia presa. La sua stoffa si è scurita, rispetto alla prima volta che l’ho impugnato.
A che servirebbe? Penso, sfregando un pollice sul tessuto ruvido.
“Sai una cosa?” Domando secco a Bonnefoy, quasi sfidandolo.
Lui alza le sopracciglia, senza emettere fiato.
“Hai ragione. Francamente, non conosco una cura per la tua... patologia, e dubito che anche questo metodo di cui ti ho parlato poco fa funzionerebbe. Perciò...”
Volto i tacchi, avvicinandomi con passo deciso alla parete bianca. Appoggio la punta dell’indice sul coperchio in plastica che protegge il pulsante rosso.
“... io non ho proprio tempo da perdere, oggi. Vuoi andartene da solo? Fa’ come ti pare. Se dovessi rimetterti in qualche guaio, di quelli seri, almeno sarai fuori dalla mia coscienza.”
Bonnefoy sgrana lo sguardo, sollevando il mento dalla mano. I suoi occhi brillano, illuminandogli il viso latteo.
“Mi lascia andare sul serio? È ... è davvero così semplice?”
Io sollevo il coperchio, annuendo.
“Se è quello che vuoi.” Gli dico con un’alzata di spalla.
Gilbert sbuffa, alzando al cielo i palmi delle mani. La sua espressione è tornata d’un colpo seria.
“Cosa?! Così... senza usare il Transfert? Ma... ma ti togli tutto il divertimento. Dai, Lud, non c’è gusto!” Gracchia, ma io non gli do retta.
Spingo il bottone rosso, che penetra nella parete, e la barriera inizia a sollevarsi. Bonnefoy è già in piedi, e segue il movimento del muro trasparente con occhi lucidi e la bocca spalancata dalla contentezza.
Feliciano, forse spaventato dal rumore dell’ingranaggio arrugginito, corre all’indietro piazzandosi di nuovo al mio fianco.
“Ehm, Ludwig...” Inizia, senza perdere di vista la barriera che s’innalza.
Io abbasso gli occhi e Gilbert tira l’orecchio, senza farsi notare troppo.
“Mhm, che c’è?” Gli chiedo, e Feliciano posa lo sguardo sulla mia spalla.
“Davvero non vuoi usare il Transfert? Non è che hai detto una bugia solo per...”
Io scuoto la testa ancor prima che possa finire la frase.
“No. Secondo il mio parere, sarebbe davvero inutile. Inoltre, non ci tengo a entrare nel suo subconscio.” Confesso con una punta di imbarazzo.
Il divisore è ormai quasi in cima e Feliciano mi sorride.
“Ah, meno male! Non mi sarebbe proprio piaciuta l’idea di dovermi rimettere quella fascia. Pensa che ho ancora mal di testa.”
Io scatto, irrigidendo tutto il corpo e, soprattutto, la mano. Non so con quale sforzo disumano io riesca a trattenerla, prima che possa fiondare d’impulso sulla sua bocca per tappargliela.
Gilbert strabuzza gli occhi. I suoi iridi mi perforano. Un tremito gli scuote le spalle, e lui rabbrividisce dall’ira che inizia a gorgogliargli nello stomaco.
Come?! Ripeti un po’, Feliciano!” Sbraita.
Io abbasso il capo, socchiudendo le palpebre.
Merda.
Gilbert si precipita da Feliciano a passo pesante, scuotendogli le spalle. È livido di rabbia.
“Hai usato il Transfert?! Davvero ti ha permesso una cosa del genere?!” Gli chiede, urlando.
Feliciano inizia a tremare sotto la sua morsa. I suoi occhi vacillano, già inumiditi dalle lacrime.
“Ecco... noi... Ludwig ha pensato che... io avrei potuto risolvere il problema di Kiku da solo... se solamente avessi usato il Transfert al posto suo.” Balbetta, quasi sull’orlo del pianto.
Gilbert arriccia il naso in un ghigno animalesco.
“Ah, davvero?”
Si volta verso di me, senza scollare le mani dalle spalle di Feliciano. Ha inarcato le sopracciglia, e le palpebre si sono assottigliate. Il suo viso è una maschera di ribrezzo.
“Alla faccia della professionalità, Herr Doktor.”
Io mi incupisco in volto. Non posso permettere di farmi trattare così.
“Hai qualcosa da ridire, Gilbert? Che importanza ha chi l’ha usato, il Transfert? Ora Kiku sta bene, è questo l’importan...”
“Ah, ma per favore!” Sbotta, mollando la presa da Feliciano. Le sue mani si chiudono a pugno, e lui affonda le unghie delle dita fino nella carne. Una minuscola gocciolina di sangue gli rotola dalla piega di un dito.
“Risparmiami le tue pseudo cazzate da capitano dell’etica. Sai, mi hai proprio deluso.”
Allunga un paio di passi verso di me, poi stende il braccio con il palmo rivolto verso l’alto, ancora sbavato di rosso.
“Avanti, dammi quell’aggeggio.” Mi ordina con voce ferma. È agghiacciante.
Io gli guardo prima la mano, poi centro di nuovo i suoi occhi in fiamme.
“Hai voglia di scherzare? Non metto un mio paziente in mano a...”
“Aspetta, non dirmelo! Com’è che era? Ah, certo!” Esclama, alzando gli occhi al cielo.
“Io e i miei due neuroni zoppi, dico bene?” Conclude, tornando a posare lo sguardo di pietra su di me.
Io ruoto gli occhi verso il francese, che ci osserva da quando la barriera ha smesso di ritirarsi. È appoggiato al muro con le braccia conserte sul petto, e le sue labbra sono arricciate in un’espressione che ha dell’infantile. Conoscendolo, si starà sentendo trascurato.
Sollevo il braccio, stringendo le dita attorno alle fasce nere che mi cerchiano la spalla. Le sfilo e le lancio addosso a Gilbert, sbuffando. Lui le afferra per un pelo.
“Divertiti.” Sbotto, sperando di intimidirlo, ma ho come l’impressione che non abbia ancora ben compreso il tipo di mente che sta per esplorare.
Gilbert allarga un sorriso smagliante che gli tinge le guance di rosso. Ruota i piedi, facendoli scivolare sul pavimento lucido.
“Ehi, Francese, mettiti seduto. Devo provare una cosa.” Gli dice, sogghignando.
Bonnefoy alza il naso verso il soffitto, chiudendo delicatamente le palpebre.
“Davvero? Che peccato, avrei preferito il moretto. Non importa...”
Si trascina davanti a Gilbert, già piazzato per terra a gambe incrociate, poi lo imita ma facendo ciondolare la testa dalla schiena ricurva.
Io mi appoggio al muro, godendomi la scena con le braccia incrociate sul petto.
Gilbert solleva i cavi annodati per aria, lasciando ciondolare le due fasce. Inizia a passare le dita sulla stoffa nera, contorcendo lo sguardo.
“Ecco, suppongo che questo vada da... no, era quell’altro. Ma se metto questo qui allora...”
D’impulso getta la testa verso di me e io alzo le spalle, lasciandomi scappare un sorrisetto.
Lui mi ricambia con una smorfia.
“Tanto... tanto riesco ad arrangiarmi. Cosa credi che sia, un idiota totale? Vuoi che non sappia mettere in ordine quattro cavetti?”
La sua dichiarazione mi arriva come uno sputo.
Si rimette all’opera e io abbandono la testa, lasciando che ciondoli verso il pavimento.
Non lo metto in dubbio.
 

***

 
Un dolce profumo di rose affonda le mie narici, inebriandomi il cervello. È quasi nauseante, un colpo alla testa che mi fa arricciare la bocca di disgusto.
Sbatto le palpebre, ma ci riesco solo con un occhio. Un lato della faccia è completamente sprofondato nel soffice cuscino che stringo tra le braccia.
Un cuscino. È evidente che non sono più al Welt.
Però, c’è qualcosa che non va.
Mi stropiccio il viso con una mano che sfilo da sotto le coperte – la mia pelle è insolitamente liscia e morbida – e mi sgranchisco la vista che si schiarisce, mettendo a fuoco lentamente l’ambiente che mi circonda. Sollevo leggermente la testa dal letto, emettendo un profondo sospiro. La mia bocca è piegata in una smorfia di disgusto.
C’è qualcosa che non va.
È una stanza orribile! Piena di mobili in legno appartenenti a chissà quale epoca. Gli angoli arrotondati dei vari ripiani si arricciano in piccole onde che si sovrappongono, formando motivi decorativi davvero disgustosi. Non parliamo dei soprammobili, poi! Cianfrusaglie inutili in argento, pietre preziose e... non so che cavolo possa essere tutta questa robaccia, insomma.
C’è qualcosa che non va.
Ruoto la testa lentamente, ispezionando meglio la stanzina. Nei quattro angoli sono riposti dei vasi che brulicano di fiori freschi, finemente dipinti con spirali e riccioli colorati. I sottili petali vellutati, che abbondano intorno agli steli, traboccano dai bordi di cristallo. Ah, è da lì che viene l’odore, allora!
Ma, continua ad esserci qualcosa che non va.
Ruoto gli occhi verso una delle due porte, quella posizionata accanto ad una finestra ad arco bordata d’oro. Una tenue luce filtra attraverso il vetro, illuminando i sottili granelli di polvere che galleggiano nell’aria. Il legno delle porte è della stessa tonalità dei mobili, tanto che in un primo momento faccio fatica a distinguere le une dagli altri. Sopra ad una cassapanca, strapiena di chincaglieria, un grande specchio riflette la parete opposta, ornata con una composizione di piccoli quadri acquerellati.
Mi gratto la tempia, facendo una smorfia. C’è decisamente qualcosa che non va.
Già, non sono di sicuro più al Welt. Tuttavia... avrei dovuto trovarmi nella mente del Francese, come aveva detto Ludwig, invece sono ancora IO!
Mi metto a sedere sul materasso e la sottile coperta mi scivola fin sotto la pancia. Vengo scosso da un brivido leggero che mi scorre sul petto e sulla schiena. Sgrano gli occhi, assalito da un dubbio.
Assottiglio lo sguardo, facendo scivolare lentamente una gamba sul letto, e il lenzuolo si sfrega direttamente a contatto con la mia pelle. Direttamente.
Oddio. Ti prego, non dirmi che...
Scosto con un gesto timido il lembo della coperta, che mi scopre una natica. Nuda.
Spalanco gli occhi, piegando all’ingiù gli angoli della bocca, pietrificandomi in quella posizione.
“Ma sono nudo!”
Un urlo s’innalza dalle mie labbra, squarciando la calma della stanza, apparentemente paradisiaca. Ma la voce non è la mia.
Dopo un rapido scatto di sorpresa, mi stringo la gola, incrociandoci le dita davanti che iniziano a tremare.
“Dove diavolo sono...?” Dalla mia bocca fuoriesce sempre lo stesso patetico tono mielato, che sostituisce la mia meravigliosa voce graffiante.
Mi sento sbiancare, e tutto il corpo inizia a far sgorgare fiumi di sudore gelido. Salto fuori dal letto, cingendomi il busto con il lenzuolo, e mi precipito davanti allo specchio con il cuore martellante in gola.
Appoggio tutto il peso su una mano aperta sul tavolo appoggiato alla parete – l’altra sta ancora stringendo la stoffa – e spalanco la bocca a metà. Gli occhi mi s’infossano nelle palpebre, coronate da due sottili sopracciglia dorate che si sollevano quasi fino all’attaccatura dei capelli. Una vampata di orrore mi investe in pieno, travolgendomi con la sua gelida morsa.
Dovrei ridere o piangere, adesso?
Quel bastardo di uno specchio sta riflettendo la mia somma magnificenza incatenata nel volgare corpo di quel francese!
Non riesco ad urlare, non ne ho la forza.
Mi passo la mano sul mento, velato da una sottile barba incolta, poi faccio correre le dita tra i capelli, dalla nuca fino alle spalle. Ondeggiano come spighe di un campo di grano, riflettendo la luce dorata che entra dalla finestra. Lascio ciondolare la mano sul fianco e una ciocca bionda ricade sul viso, davanti ad un occhio. Il cielo azzurro tra le spighe dorate.
Ma perché cazzo mi è venuta in mente questa frase?! È disgustosa!
Do un’ultima occhiata in giro, tremando come una foglia.
Tutto è disgustoso qui dentro.
Mi metto di nuovo le mani tra i capelli, affondando le dita nella pelle del cranio. La coperta cade, ammucchiandosi ai miei piedi. Lascio scorrere le unghie su tutta la faccia, e queste rimangono incollate alla pelle come a volerla strappare. Il mio viso si deforma in un urlo muto e angosciante, che rimane soffocato all’interno della bocca spalancata. Credo di aver visto un quadro simile alla mia espressione, una volta.
“Devo uscire di qui.” Gracchio con quella voce da effeminato. “Devo uscire, capire dove sono e farmi riportare indietro da Ludwig, subito!”
Dilanio la bocca in un ghigno, stringendo un pugno davanti al petto.
“Quel bastardo! Sono sicuro che è tutta opera sua. Ma certo, vuole farmela pagare. Ma gli farò vedere io. Quando uscirò di qui gli riempirò il culo di così tante botte che non riuscirà più a sedersi per una settimana!”
 
Il sole non è ancora del tutto sorto sulla mia testa, probabilmente è mattina. Una tiepida mattina che si sta gradualmente svegliando in mezzo agli alti condomini, ricolmi di terrazze coperte da grandi tende colorate. Dai tetti rossi si ergono dei comignoli stretti e uniti tra di loro, come le canne degli organi.
Sollevo il naso al cielo, sbavato da qualche ciuffo di nuvola, ma azzurro come non l’avevo mai visto a Berlino. Annuso l’aria, solleticato da un profumo zuccherato di pane, che aleggia fuori da una locanda con dei tavolini bronzati sistemati fuori dalla porta. Solo due di loro sono occupati. Le tazze di caffè fumano sulla loro superficie, accanto ai cesti di dolci appena sfornati che traboccano di creme e di marmellate di vari colori. Le persone accomodate sulle sedie chiacchierano animatamente, con dei sorrisi raggianti come il sole stampati sulle labbra. Una donna si sistema il largo cappello rosa che gli copre la fronte, scostando il fiocco da davanti gli occhi e lasciandolo cadere sulla cascata di capelli biondi. Con la stessa mano solleva la tazzina fumante, portandosela vicino alle labbra che hanno appena smesso di ridere, e che si rilassano sotto il fluire della bevanda calda che scivola nella bocca. L’uomo comodamente abbandonato sulla sedia di fronte a lei, abbassa il giornale e scuote la testa con le palpebre strizzate e la bocca arricciata. Credo stia trattenendo a fatica un risolino.
Passo davanti ai vetri del bar, ignorando completamente sia i passanti che le persone sedute ai tavoli, e gemo di disgusto, stropicciando quel viso così delicato che mi ritrovo. Non mi sono ancora abituato a questo corpo.
Mi passo una mano tra i vestiti più decenti che ho agguantato in quel guardaroba, tastando il tessuto così morbido e liscio che mi fascia la pelle. Allungo il collo verso la mia immagine riflessa, sistemandomi il colletto della camicia. Inarco un sopracciglio, piegando un angolo della bocca all’insù. Non è che stia poi così... no, non devo nemmeno pensarlo!
Scuoto la testa e riprendo a marciare sulla stradina – pulitissima, senza nemmeno una traccia di cartine o rifiuti gettati a terra – che ramifica tra i ristoranti, i bar e le botteghe con le vetrate zeppe di inutili ornamenti. In ogni angolo che svolto mi capita di incrociare qualche passante, tutti sorridenti e di buon umore, ma anche vestiti con quegli abiti assurdi cuciti in chissà quale manicomio.
Una giovane coppietta mi passa di fianco. Lei è agganciata al braccio del ragazzo, e saltella ridendo come una puledrina. Lui le scosta una ciocca di capelli dalla fronte e le dà un tenero bacio sulla punta del naso.
Quasi arrossisco, e non capisco perché.
Passandomi di fianco, la ragazza mi urta la spalla e si volta coprendosi le labbra con le dita.
Oh, pardonnez-moi, monsieur. Je suis très désolée.
È incredibile anche che io riesca a capire quello che mi dice.
Io scuoto la testa, agitando una mano per farle capire di non preoccuparsi. Lei sorride come una bambina e riprende a passeggiare con il suo amante.
Istintivamente abbasso gli occhi suo fondoschiena, che si muove sotto alla gonna fasciata in vita. Forse è u po’ piccolo, devo ammetterlo, ma non mi dispiacerebbe comunque farmi un giretto.
Ruoto gli occhi sul ragazzo, facendoli scorrere dalle sue spalle fino alle gambe.
Però... anche lui non mi dispiacerebbe.
Balzo all’indietro sgranando gli occhi, dandomi una scossa al capo. Butto giù un boccone di saliva accompagnato da una smorfia. Sollevo il palmo della mano e faccio volare uno schiaffo dritto sulla mia guancia. La pelle mi brucia.
“Non devo nemmeno pensarlo! Che cazzo mi sta succedendo?!”
Rimango impietrito a pugni chiusi in mezzo alla strada, con le persone che mi passano vicino. Mi guardano tutti con la fronte aggrottata.
Io mi lascio scappare un grugnito.
Devo andarmene di qui. Rivoglio il mio corpo, rivoglio la mia virilità! Devo. Andare. Via. Da. Qui.
 
Guardo la cattedrale con occhi di sfida, come a volerla incenerire. Il rosone scaglia scintille colorate che mi abbagliano gli occhi, e io mi copro la fronte con un braccio.
“Notre Dame, eh? Questa la conosco persino io.” Sibilo tra me e me.
Poso lo sguardo sulla guglia più alta, ancora in ombra. Il sole del mattino bacia solo la parte bassa della facciata, coprendola fino alla punta delle cuspidi.  
“Forse, se mi piazzassi in un punto alto potrei rimettermi in contatto con la mia dimensione. Magari il Transfert funziona come un cellulare.”
Stringo i denti e muovo il primo passo verso l’enorme porta d’accesso, a pugni stretti sui fianchi. Passo vicino a una folla di turisti che stanno scattando foto alle luci del mattino che colorano la chiesa, aggiudicandosi i posti migliori nella piazza. Per fortuna che quasi nessuno entra nella cattedrale, sarebbe un bel problema superare la fila.
 
Il vento è fresco e frizzante sulla cima di Notre Dame. Chiudo gli occhi, assaporando per qualche secondo l’aria fresca che mi scuote i capelli. Sento i fili dorati ondulare sopra un orecchio, facendomi il solletico. I capelli mi accarezzano l’intero viso, avvolgendolo in un delicato abbraccio.
Riapro lentamente le palpebre, posando la vista sulla mastodontica piazza. L’ombra della cattedrale la copre quasi completamente, oscurando le figure delle persone che passeggiano.
“Tutto sommato...” Sospiro, alzando le spalle. “... Parigi è anche accettabile, come posto. Questo francese non se la passa poi così male.”
Aggrotto la fronte. Non posso perdermi in chiacchiere.
Sollevo le braccia al cielo con uno scatto repentino, allargando le spalle.
“Sono qua, Ludwig! Mi senti? Riportami indietro! Ne ho abbastanza di stare in questa fogna!”
Uno sbuffo di vento mi solleva il lembo della camicia e un piccione va a posarsi sulla testa di un gargoile, aggrappandosi ad un corno con le zampette. L’uccello tuba, singhiozzando un paio di volte, poi spalanca le ali e svolazza via gettandosi nel vuoto.
Ancora qui.
Deglutisco, riprendendo a respirare.
Mi sporgo dal cornicione, buttando le mani oltre il muro di pietra, freddo, che mi preme sulla pancia. I capelli mi cadono sulle guance.
“Voglio uscire di qua, Ludwig! Hai sentito?! Interrompi il Transf...!”
“Ah, ecco dov’eri finito, Francis.”
La mia sbraitata viene interrotta da una vocina sottile che mi sorprende alle spalle.
Mi do una spinta all’indietro, voltandomi con la schiena ancora ricurva e le braccia teste davanti a me. Il mio sguardo si ammorbidisce.
La giovane ragazza piega la testa di lato e i capelli fulvi le vanno a coprire una spalla. Le mani intrecciate sul grembo si sciolgono, e lei porta un dito vicino all’orecchio, arricciandosi la morbida ciocca con la punta dell’indice.
“Ti ho cercato in casa ma non c’eri. È stata davvero una fortuna trovarti qua.”
Io mi stropiccio gli occhi con una nocca, cercando di nascondere lo sguardo imbarazzato. Torno a guardarla, avvolta da un vestito in lino rosso e arancione che si gonfia sotto il soffiare del vento.
È davvero carina.Penso.
Lei mi si avvicina, alzando le braccia verso di me. Io arretro, allontanandomi. Una violenta scossa mi contrae la schiena, facendomi alzare le spalle fino alle guance. Quando lei ha già le braccia attorno al mio collo, io finisco con le scapole contro il muro.
“Mi sei mancato.” Sussurra.
Piego le labbra verso il basso, irrigidendomi come uno stoccafisso.
“Ehm... scusami ma... noi ci conosciamo?” Le chiedo con voce impacciata, che suona davvero ridicola con quel tono che mi hanno appioppato.
Lei solleva la testa, guardandomi con occhi confusi, senza sciogliere la presa.
“Ma, come? Non ricordi, Francis? Non ti ricordi della tua Jeanne?”
Io inarco le sopracciglia, forzando un sorrisetto. Sento il suo respiro avvolgermi il collo.
“Io... veramente... sai, è... è una storia lunga. Questa mattina è stata un po’ insolita.” Borbotto, scollando lo sguardo dal suo dolce faccino.
Lei lascia scivolare le braccia sui miei fianchi, incrociandosele sul petto.
“Davvero? Effettivamente ti comporti in maniera un po’ insolita, oggi. Stai per caso poco bene?” Mi domanda con tono apprensivo, inclinando la testa di lato.
Io gesticolo, scuotendo il capo.
“No, no, nulla di tutto ciò. Ma, mi sento solo un po’ diverso, ecco tutto.”
Mi gratto una tempia con la punta dell’indice, ruotando gli occhi sul panorama. Parigi si apre davanti al mio sguardo, perdendosi all’orizzonte, avvolta dalla luce rosea del mattino.
“Vediamo, è come se non fossi più io.”
Ho l’impressione che mi stia per cacciare in un guaio.
Jeanne piega le labbra in un tenero sorriso, poi si avvicina al cornicione, appoggiandosi sulle pietre con le braccia piegate. L’occhio mi cade accidentalmente sul suo seno che strabocca dalla scollatura del vestito. Una vampata di calore mi tinge le guance di rosso.
Ma perché oggi non penso ad altro che a scopare?
Jeanne abbassa le palpebre, guardando il sole, un disco bianco che emerge dai tetti delle case.
“Sul serio? Parlamene, dai.”
Io la osservo, abbassando a mia volta le palpebre. Ruoto i piedi verso di lei, che non distoglie lo sguardo dal panorama.
Abbasso il capo.
“Ecco...” Comincio, pur non sapendo come continuare.
Faccio un profondo respiro. Forse lei è la mia unica speranza.
Apro le braccia, allargando il petto, poi aggrotto la fronte, piegando la bocca in un ghigno di disgusto.
“Tanto per cominciare mi sono svegliato nudo come un verme. Ora, capisco che l’orgoglio per la propria mascolinità sia assolutamente lecito e rispettabile, ma questo è troppo! Poi, cammino per strada...” Continuo, indicando il pavimento. “... e non solo scopro che mi vorrei sbattere ogni ragazza che incrocio, ma anche... anche...” La mia voce inizia a vacillare, e non riesco a terminare quell’improponibile assurdità.
Jeanne distende un sorrisetto e le sue guance si velano di rosso.
“Anche i ragazzi?” Interviene e io rimango di sasso.
Jeanne finalmente si volta, calmandomi solo con una dolce occhiata.
“Dov’è il problema, Francis? C’è forse qualcosa di così orrendamente sbagliato che ti dovrebbe impedire di desiderarlo?”
Io esito, strabuzzando lo sguardo, poi lo distolgo da lei.
“Beh, direi di sì. Insomma, è davvero da malati...”
Ora capisco davvero perché il Francese sia rinchiuso al Welt.
“... insomma, non credo che sia la cosa giusta, ecco tutto.” Concludo, mettendomi le mani in tasca e dando un calcio all’aria.
“Certo...” Continuo a testa bassa, mormorando tra le labbra. “Lui non fa... voglio dire, io non faccio male a nessuno, credo, ma non trovi anche tu che sia...”
“Secondo me, Francis...” Mi interrompe Jeanne, allungando il busto dal muretto che dà su Parigi.
Solleva il naso al cielo e i suoi occhi brillano sotto i raggi mattutini.
“Ogni forma d’amore è sempre qualcosa di meraviglioso, indipendentemente da come essa si manifesti.”
Io inarco un sopracciglio, inclinando lievemente il capo. Il vento mi fa oscillare i capelli davanti al viso, sono totalmente rapito dall’aura che avvolge quella ragazza. Socchiudo le labbra, lasciando che l’aria fresca me le accarezzi.
“Forma d’amore, dici? Bah...” Mi lamento sbuffando, abbassando gli occhi. “Andarsene in giro nudi sperando di sbattersi qualcuno in ogni angolo sarebbe amore, per te?”
“Beh, sicuramente, Francis...”
Gira lo sguardo dolce, quasi materno, puntandolo su di me.
“Non si tratterrebbe di odio. È questo l’importante.”
Io resto ammutolito.
Jeanne si liscia la gonna, e il vento gliela fa svolazzare intorno alle caviglie.
“Io credo che, se le persone si amassero un po’ di più, allora non ci sarebbe bisogno di lottare, di far scoppiare guerre e di uccidersi a vicenda. Pensa che bello...” Alza nuovamente gli occhi verso le nuvole che biancheggiano in mezzo all’azzurro. “Se invece che fare la guerra si facesse l’amore, allora le persone sarebbero davvero felici, non trovi?”
Io la guardo, illuminata dal sole parigino. Una perfetta estranea, per quanto mi riguarda, che si mette a parlare di questo genere di cose.
Scuoto la testa.
No, devo resistere. La mia somma magnificenza non può piegarsi a certi discorsi.
Deglutisco, e lei mi si avvicina a passo lento e felpato, come una gatta. Un brivido mi si arrampica sulla spina dorsale.
“Già, credo proprio...” Mi sussurra, accarezzandomi la nuca, dietro all’orecchio. Un brivido gelido mi si arrampica sul collo e una leggera scarica mi scuote il cuore, facendolo pulsare dentro al mio petto.
I miei capelli si intrecciano intorno alle sue dita.
“Credo che, anche se ti sembra assurdo, questo sia un buon modo per migliorare le cose.”
Sorride, e le sue guance si gonfiano.
“Se solo ci si amasse un po’ di più, in qualunque modo, forma e misura, allora il mondo...”
Socchiude gli occhi, avvicinando il suo viso al mio. Io inizio a sudare, irrigidendomi sotto il suo tocco.
Resisti. Resisti, maledizione!
“... sarebbe...”
Le nostre labbra si incontrano, e lei mi affonda le dita tra i capelli. I nostri petti si uniscono e sento il suo cuore battere sopra la mia pelle. I muscoli del viso si rilassano, e le palpebre mi cadono davanti agli occhi, chiudendosi. Sciolgo le mani, ancora pietrificate a mezz’aria, e gliele cingo attorno ai fianchi sottili, stringendola e avvolgendola attorno al mio corpo. Divoro una boccata d’aria dalle narici, senza scollarmi dal bacio che intreccia i nostri respiri.
Le nostre bocche premute mi trascinano nel buio.
 

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


N.d.A. Nei capitoli precedenti ho parlato di Lovino come l'ospite della cella numero cinque. 
           Ricontrollando, però, ho scoperto di aver commesso un errore. Come risulta dal prologo, infatti, la cella numero cinque è occupata da Antonio, mentre               Lovino si trova in quella successiva, la numero sei.
           Chiedo umilmente scusa per la distrazione.
           La trama, in ogni caso, non ne dovrebbe risentire in particolar modo.
           Buona lettura e... scusatemi ancora!  ^^"



CAPITOLO 9

 
Credo proprio che sia il caso di svegliare Gilbert. È da un’ora che il processo del Transfert è iniziato, e mi scollo solo ora dalla parete, avvicinandomi ai corpi inerti di mio fratello e di Bonnefoy.
Aggrotto la fronte, posandogli una mano sulla spalla solo per pietà. La mia gamba sfiora le mani del francese, avvinghiate attorno al busto di Gilbert. La testa di Bonnefoy è appoggiata sul suo petto, schiacciando un paio di cavi del Transfert che strisciano sulle gambe incrociate di Gilbert. Il viso di Bonnefoy è velato da un’espressione paradisiaca, segnata da un lieve sorriso che lui fa strofinare sulla divisa di Gilbert.
Scuoto di nuovo le spalle di mio fratello, quasi raccapricciato da quello spettacolo di dubbio gusto.
“Svegliati, Gilbert. Prova ad aprire gli occhi.”
I capelli gli oscillano davanti alla fronte, attraversati da onde argentate. Un braccio ciondolante al suo fianco viene scrollato da un rapido tremito, come una scossa improvvisa. Bonnefoy continua a dormire beatamente, e il suo respiro si alterna a qualche acuta risatina.
Scuoto il capo e lo sguardo sconsolato mi cade sulla mia mano. Faccio muovere le dita leggermente separate come se stessi tastando l’aria. Sollevo il braccio sopra la testa, e quello vola a palmo aperto su una guancia di Gilbert.
Vendetta.
La testa di Gilbert si ribalta fino a che il naso non va a toccargli la spalla. Quando la rigira, io ho ancora la mano tesa davanti a me, e le dita mi prudono.
Sbatte le palpebre ripetute volte, poi si porta i pugni sul viso,stropicciandosi gli occhi affaticati. La sua guancia si arrossa, colorandogli la pelle con lo stampo della mia mano.
“Ma... ma che... sono... sono tornato?” Gracchia con voce ancora impastata.
Io tiro un sospiro di sollievo e sento il passo trotterellante di Feliciano avvicinarsi.
“Evviva, sei tornato sano e salvo!” Esclama, precipitandosi di fianco a me con le braccia aperte per aria.
Gilbert si porta una mano sotto la fascia del Transfert, grattandosi la tempia pregna di sudore. Quando la sfila, appoggia le dita sulla guancia gonfia e rossa, massaggiandosela. Non riesce ancora a tenere aperte del tutto le palpebre vacillanti.
“Era ora, maledizione. Non ne potevo più di stare dentro a quell’aggeggio. Io...”
Abbassa gli occhi, e Bonnefoy stringe la presa attorno al suo bacino, strofinandosi come un gattino. Gilbert sgrana le palpebre, e i suoi iridi si infiammano.
Si getta all’indietro con uno scatto fulmineo. Solleva un ginocchio e punta quello sguardo infernale contro il francese. L’ombra del suo piede si allunga sulla testa di Bonnefoy, oscurandogli i capelli d’oro. Il piede di Gilbert si schianta contro la sua faccia, facendolo ribaltare all’indietro.
“Razza di schifoso, tieni quelle luride manacce lontano dal sottoscritto!” Gli urla, deformando i lineamenti del viso in una maschera di orrore misto a disgusto.
Gilbert si libera dall’abbraccio, strisciando all’indietro come un gambero, ma la sua fuga viene arrestata dai cavi del Transfert che lo tirano nuovamente in avanti, richiamandolo alla testa di Bonnefoy. Gilbert sbatte la faccia sul pavimento e rimane impietrito al suolo, rantolando qualche maledizione impronunciabile.
Io mi porto il dorso della mano davanti alla bocca, trattenendo a stento una risata.
Gilbert ruggisce, strappandosi l’apertura del Transfert con mano tremante, e le vene ramificanti tra le dita che gli pulsano. Getta via la fascia, facendola cadere di fianco alla testa di Bonnefoy che giace pacifico sul pavimento. La cascata di capelli fulvi gli nasconde l’anello di stoffa ancora stretto attorno alla sua fronte.
Gilbert si trascina a gattoni per qualche passo, grugnendo come un cane rabbioso. Concentra tutte le sue forze sulle gambe e scatta in piedi, di fronte a me. Io rimango immobile, anche se l’istinto di schiaffeggiarlo di nuovo per dargli una calmata è forte.
“Tu!” Sbraita, agguantandomi per il camice.
Il suo sguardo mi perfora, i nostri nasi arricciati quasi si sfiorano.
“Perché non mi hai detto che avrei mantenuto la mia personalità durante il processo, eh?! È stata in assoluto l’esperienza più schifosa e raccapricciante di tutta la...”
“Fermo, fermo! Che cosa stai dicendo, Gilbert?”
Gli afferro le mani, scollandole dalla stoffa del mio camice. Aggrotto la fronte, piegando un angolo della bocca verso il basso.
Che diavolo sta succedendo?
Faccio pressione sulle sue braccia e lui arretra di un passo. Gilbert sbuffa come una locomotiva, e il suo fiato di fuoco fa oscillare il tessuto della mia divisa.
“Cosa significa che hai mantenuto la tua individualità?” Continuo a chiedergli. “Vuoi dire che non sei entrato nella mente di Francis Bonnefoy? Che il Transfert è stato un totale fallimento?”
“No che non ci sono entrato!” Mi risponde gracchiando.
Sfila le mani dalla mia presa, e trae un profondo respiro refrigerante dandosi una ripulita alla divisa candida, già umidiccia di sudore.
“Insomma... ero lui ma anche io! Cioè, ero io dentro al corpo del francese. Pensavo che non sarebbe stato così!”
Io volto lo sguardo e lo punto nel vuoto. Mi inumidisco le labbra, passandomi una mano tra i capelli.
“No, infatti. Quando ho usato il Transfert su Jones e Kirkland sono stato totalmente assorbito dalla loro personalità e dai loro ricordi. Non ragionavo come se fossi stato ancora Ludwig Beilschmidt, ma mi lasciavo semplicemente trascinare dagli avvenimenti senza capacità di arbitrio.”
Mi porto una mano sotto il mento, ruotando le pupille tremanti verso Feliciano.
“È stato così anche per te, non è vero, Feliciano?” Gli chiedo, e lui scatta, portandosi più vicino a me. Inclina la testa, guardandomi con occhi interrogativi.
Io mi schiarisco la voce.
“Voglio dire, quando hai usato il Transfert su Kiku, non hai avuto la possibilità di scegliere di cambiare i ricordi intervenendo sugli avvenimenti con la tua personalità, giusto?”
Dio, spero abbia capito quello che gli ho chiesto. 
Feliciano si porta un indice tra le labbra, sollevando il naso al cielo.
“Eh? Beh, direi di no. Anche io non riuscivo a fare o a decidere niente con la mia testa, quando sono entrato nella mente di Kiku.”
Alza l’indice e punta il soffitto, simulando uno sguardo serio.
“Io ero diventato Kiku sotto ogni punto di vista.”
Annuisco,  massaggiandomi il mento con le dita. Poi, volgo nuovamente lo sguardo severo su Gilbert, ancora scosso e tremante di rabbia.
“Quindi, Gilbert, è stata tutta fatica sprecata? Alla fine non abbiamo compreso a pieno cosa si cela nella mente di Francis Bonnefoy?”
Lui esita e distoglie gli occhi da me. Inizia ad agitare le dita impiastricciate, intrecciandole tra di loro con scatti nervosi. Una goccia di sudore gli scivola dalla fronte.
“Beh, non esattamente.” Risponde con voce trascinata. “Io sentivo il suo pensiero e percepivo la sua mentalità, ma allo stesso tempo riuscivo ad organizzare le forze per rifiutare entrambi e ribellarmi, mantenendo la mia solita personalità.” Aggiunge con tono fiero, gesticolando per aria con una mano.
Io mi porto le mani dietro la schiena. Socchiudo le palpebre, abbassando la fronte sul pavimento. Un angolo della mia bocca scatta per un secondo verso l’alto.
“Capisco, ora è tutto chiaro.” Annuncio, e sia Gilbert che Feliciano mi squadrano trattenendo il fiato.
Io mi schiarisco la voce, tornando subito serio.
“Vedi, Gilbert, tu possiedi un ego talmente smisurato che ti ha impedito di aprirti con umiltà alla mente e alla soggettività di un’altra persona. Per te è stato più importante far valere la tua individualità che accettare di vivere i ricordi altrui, sottomettendoti agli atteggiamenti di un uomo così diverso da te.”
Riapro gli occhi, sollevandoli verso la luce di una lampada. Il riverbero bianco mi abbaglia, quasi ipnotizzandomi.
“Tuttavia...” Proseguo, con voce più calma. “Non possiamo nemmeno considerarlo un totale fallimento. Anzi, grazie al tuo aiuto, Gilbert, abbiamo capito che non tutti possono utilizzare il Transfert. Ci vuole, diciamo, una certa predisposizione.”
Abbasso lo sguardo su Gilbert, ammutolito. Lui contorce il viso in una smorfia e getta la testa di lato. Un’ombra scura cala sulla sua fronte.
“Tsk, tanto ne ho avuto abbastanza. Puoi tenerti il tuo giocattolo, non ti chiederò certo di usarlo di nuovo. Ne ho già le palle piene di quell’arnese infernale.”
Ruota gli occhi verso la figura del francese ancora imbambolato a terra, avvolto dai cavi svolazzanti che si attorcigliano intorno al suo busto come radici.
Feliciano saltella davanti a Gilbert, inclinando leggermente la testa di lato. Il solito sorriso da ebete stampato in faccia.
“Però potresti aver scoperto comunque qualcosa di importante su di lui. Tu credi che...” Gira anche lui lo sguardo verso Bonnefoy. “Che sia possibile liberarlo? Non è pericoloso come crediamo?”
Gilbert arriccia il naso, strabuzzando gli occhi scarlatti che si accendono come tizzoni ardenti. Le guance si tingono di rosso, e non credo sia per il mio schiaffo.
“Ecco... veramente, io...” Balbetta, facendo roteare lo sguardo con aria confusa.
Si porta una mano sulla nuca, strofinandosela con movimenti nervosi.
“Io non saprei dire. Insomma... forse non è pericoloso come pensiamo, ma resta il fatto che il suo cervello sia totalmente deviat...”
“Oooh, ma cosa stai dicendo?” Interviene una voce mielata, che si sovrappone alla gracchiata di Gilbert.
Tutti abbassiamo gli occhi al pavimento. Bonnefoy è disteso sulle piastrelle bianche, quasi confondendosi con esse a causa del colore della divisa. La pancia è rivolta all’ingiù e le ginocchia sono inclinate. Sta facendo dondolare le gambe a mezz’aria, con i gomiti piegati, appoggiati sul suolo liscio e lustro, e i pugni chiusi che gli sostengono la testa.
I suoi occhi lucidi e scintillanti squadrano il viso arrossato di Gilbert, accompagnati da un sorriso malizioso.
“Pensavo che avessi imparato almeno qualcosa, durante il tuo piccolo tour.” Gli dice, passandosi una mano tra i capelli mossi che gli spuntano dalla fascia nera ancora stretta attorno alle sue tempie.
Le dita si intrecciano con i cavi del Transfert, ancora rampicanti sul suo cranio.
Gilbert solleva le sopracciglia, aprendo la bocca come per aggiungere qualcosa. Le parole, però, gli muoiono tra le labbra. Alza le spalle, rannicchiandole vicino al capo, e punta l’indice tremante su Bonnefoy. Il rossore è del tutto sbiadito, affogato da un bianco cadaverico che lo invade fino alla punta dei capelli. Gli iridi iniziano a vacillare.
“No... non è possibile. È uno scherzo... tu non puoi...” La voce gli trema come un disco rovinato.
Bonnefoy inclina la testa e una ciocca dorata gli scivola sul naso.
“Sul serio non hai imparato nulla? Ma che peccato.” Gli dice.
Gilbert geme, e arretra di un passo, sostenuto dalle gambe che paiono ingessate.
“Ma, allora... tu eri... eri...” Sta quasi urlando, ora.
Bonnefoy strizza un occhio, poi si posa sue dita sulla labbra, schioccando un bacio che soffia direttamente verso mio fratello. Gilbert si preme una mano sulla bocca e sbianca come un fantasma, iniziando a grondare di sudore gelido. Violenti spasmi gli scuotono ogni singolo muscolo, lasciandolo fossilizzato nel bel mezzo della stanza. Gilbert trattiene a fatica un conato di vomito, ricaccia la bile in fondo allo stomaco con un gemito di sofferenza. Deglutisce il boccone amaro e la schiena gli si piega verso il pavimento.
Io e Feliciano ci guardiamo, inarcando le sopracciglia con aria confusa.
Gilbert ruota le caviglie di scatto, e inciampa sui suoi stessi piedi, cadendo al suolo. Riesce a parare lo schianto con le braccia e si dà una veloce spinta che lo fa scattare in un angolo della stanzina. Quello occupato fino a poco fa da Feliciano. Lì si inginocchia, e si raggomitola tra le mura, perdendosi in un rantolio confuso.
Io mi avvicino di qualche passo, lento, quasi timoroso. Come se mi stessi approcciando ad un animale selvatico. Contorco la bocca in una smorfia, e allungo un braccio verso una sua spalla con un gesto cauto.
“Gilbert, ma che stai...”
Gilbert butta la testa all’indietro, interrompendo la mia domanda. Il volto è stropicciato in un’espressione di orrore. Gli occhi sono infossati, nascosti dall’ombra dei suoi capelli sudaticci, incollati sulla fronte. Continua a lamentarsi, scorticandosi la lingua penzolante dalle labbra con le unghie che si attanagliano dentro alla carne. Una goccia di saliva rotola tra le dita, finendogli sul polso.
Io arriccio lo sguardo.
“Ma che è successo, Gilbert?” Insisto.
Lui annaspa.
“Portalo fuori di qui!” Tuona, ancora con la lingua stesa sul mento. “Non mi interessa cosa abbia fatto, né tantomeno cosa farà. Ma toglimelo dalla vista, Ludwig! Fa’ che porti il suo schifoso culo francese fuori di qui, chiaro?!
Io esito, ancora più confuso.
Cosa diavolo è successo durante il Transfert?
Cerco subito di allontanare strani pensieri dalla mente, concentra domi solamente sul lato puramente razionale. Sollevo un sopracciglio e allargo un sorriso di soddisfazione.
Vuoi vedere che...
Mi volto verso Bonnefoy che fischietta come un fringuello, ancora spaparanzato a terra.
“Non hai mai lasciato del tutto la tua testa. Non è forse così, Bonnefoy?” Gli chiedo, ma senza la minima traccia di sarcasmo.
Lui abbassa le palpebre, sospirando.
“Ehi, ho anche io il mio orgoglio. Ma, a parte questo...” Riapre un occhio, colpendomi con una scintilla azzurra. “Cosa mi dici, dottore, ho guadagnato la mia libertà?”
Io appoggio il mento sulle nocche, guardando Gilbert con la coda dell’occhio.
“Beh, non credo che il nuovo Dottor Beilschmidt avrà qualcosa da ridire a riguardo. Perciò...”
“Sbattilo fuori, Ludwig! Ti prego, mandalo via da qui!” Sbraita Gilbert, reggendosi sulle ginocchia traballanti.
Feliciano si è chinato di fianco a lui. Gli sta sfregando la schiena con il palmo della mano con aria paterna. Piega la testa di lato, tentando di incontrare il suo sguardo, ma Gilbert è irremovibile, chiuso nel suo guscio.
Io alzo le spalle.
“D’accordo, allora. Direi che sei libero.”
Lo sguardo di Bonnefoy sprizza scintille che cadono al suolo, spargendosi sulle piastrelle come residui di fuochi artificiali. Si alza in piedi, giungendo le mani davanti al petto.
“Finalmente! Me ne andrò da questa volgare topaia e mi sbarazzerò di questi insulsi stracci!” Esclama, saltellando verso la porta. Si trascina il Transfert alle spalle per tutto il tragitto.
Io mi rimetto in piedi con uno scatto e lo afferro per i cavi, dandogli uno strattone che lo blocca sull’entrata. Bonnefoy geme come se gli fosse andato un boccone di traverso.
“Ti lascio andare, è vero, ma non metterti in altri guai e, soprattutto...” Aggrotto la fronte, incenerendolo con lo sguardo. “Vedi di non spaventare Kiku o di turbare in qualunque altro modo la calma di questo edificio, quando uscirai. Promettimelo, o...”
“Promesso, promesso.” Si difende lui, portando le mani in avanti.
Bonnefoy solleva le sopracciglia, assottigliando lo sguardo.
“Mi conterrò, dottore.”
Io annuisco.
Gli sfilo la fascia del Transfert, e lui si dà una scompigliata ai capelli che ondeggiano per aria emanando riflessi dorati.
Gilbert si rialza a fatica, tenendosi aggrappato al muro come se stesse patendo le pene dell’inferno, tutte riversate sulle sue spalle. Esce per ultimo dalla stanza numero quattro, ingobbito dalla rabbia e dalla vergogna.
 
 
Cella #5
Paziente: Antonio Fernandez Carriedo
 
Feliciano inarca le sopracciglia e intristisce gli occhi, sollevati sulla cima della stanza orrendamente tatuata dal numero cinque. Abbassa il capo, percorrendo con lo sguardo il corridoio che biancheggia alla nostra destra.
“Ludwig, manca una stanza, vero?” Sibila, nascondendo gli occhi sotto alla frangia castana.
Io sollevo il mazzo di chiavi, iniziando a trafficarci con le dita scivolose. Scuoto la testa, senza levare gli occhi dalla cintura.
“Non ci pensare.” Gli dico, socchiudendo le palpebre. “Questa stanza ci porterà via parecchio tempo. Ho come la sensazione che...”
Smetto di agitare le chiavi, pur senza impugnare quella giusta, e ruoto gli occhi gelidi sulla vernice nera che segna la porta lattea.
“Ho come la sensazione che sarà parecchio difficile trovare un valido motivo per far uscire di qui il suo ospite.”
Feliciano si volta nuovamente verso di me, piegando gli angoli della bocca verso il mento.
“Che vuoi dire?” Mi domanda. “Che questa persona è realmente cattiva?”
“Ah, fammi indovinare!” S’intromette Gilbert, aprendosi uno spazio tra me e Feliciano con un colpo di spalla.
Gli è tornato il buon umore.Penso, con una punta di rammarico.
L’ espressione disgustata si è di nuovo riplasmata, assumendo la forma del suo solito, sadico ghigno.
“Adesso c’è il killer, vero? Finalmente, ne ho abbastanza di deviati, schizofrenici o effeminati.”
Io assottiglio lo sguardo, incupendomi in volto.
“Già, forse sarebbe di gran lunga meglio.” Dico con tono fermo, ma il mio animo inizia a scuotersi. “Purtroppo, Gilbert, qui dentro è nascosto qualcuno che si porta alle spalle crimini ben peggiori di semplici assassinii. E con questo non sto assolutamente difendendo coloro che si macchiano di omicidio, tuttavia... ” Soffoco il fiato in mezzo al petto, incapace di continuare.
Gilbert tuffa le mani nelle tasche, inclinando la testa verso di me con aria spavalda.
“E cosa potrebbe esserci di peggio? Pensavo che l’assassinio fosse in assoluto il reato peggiore che una persona possa compiere.” Mi rivela con tono più serio.
Io abbasso gli occhi e respiro a fondo, interrompendo quell’insopportabile apnea. Le narici mi si riempiono di aria che puzza di chiuso.
“Ovviamente, sono punti di vista.” Incomincio. “Ma credo che la pedofilia sia il reato più grave e imperdonabile che un essere umano possa marchiare sulla sua stessa pelle.”
Gilbert ammutolisce, sgranando le palpebre come è successo poco fa con la storia di Bonnefoy. Dilania la bocca in una smorfia di orrore, il suo viso pietrificato sembra una maschera.
Feliciano sbianca in volto, coprendosi la bocca con le mani impallidite. Le vene bluastre serpeggiano viscide tra le sue dita.
“Ma... ma come...” Feliciano prende a tremare dalla testa ai piedi, e persino il ciuffo arricciato sembra scuotersi sotto i suoi spasmi. “Come può aver fatto una cosa del genere?”
“Me lo chiedo anch’io.” Sbotta Gilbert, grugnendo.
Serra i pugni, e stringe i denti fino a far stridere lo smalto.
“Ma chi è questo bastardo, Ludwig?” Mi chiede con tono acido, puntando gli occhi infuocati di nuovo sulla porta.
Io mi schiarisco la voce, sistemandomi il colletto del camice con due dita gelide.
“È uno straniero. Spagnolo, per la precisione, anche se è vissuto in Italia per un certo periodo di tempo. Il suo nome è Antonio Carriedo e...”
Cosa?! Non è possibile, Ludwig!” Esclama d’un tratto Feliciano, lanciando un urlo che si squarcia per tutto il corridoio.
Un silenzio agghiacciante ci stritola, la sua aura cala tra di noi come un fantasma.
Io getto lo sguardo che vortica nella confusione su Feliciano, e lui si aggrappa al mio camice sollevando la punta del naso verso la mia. Le sue labbra tremano.
“Ci deve essere un errore, ne sono sicuro! Il nome è sbagliato, non è vero, Ludwig? Ti prego, dimmi che è una bugia. Dimmi che Antonio non è davvero imprigionato qui dentro!”
Sbatte le palpebre sopra agli occhi già velati di lacrime, stringendo la stoffa con dita tremolanti. Io esito, e le mie labbra cedono, spalancandosi sotto il peso di tutto quel caos che mi frulla nella testa. Gilbert si avvicina a passo pesante, allungando il collo su Feliciano.
“Che cosa cerchi di dire, Italiano?” Gli domanda.
Feliciano si asciuga gli occhi con una manica della giacca e tira su col naso. Poi, abbassa gli occhi verso il pavimento.
“Ecco, la persona che è rinchiusa in questa cella... io credo... credo proprio di conoscerla.”
“Questo l’avevo capito.” Si lamenta Gilbert, passandomi davanti.
Avvicina lo sguardo inquisitorio a quello di Feliciano.
“Quello che voglio sapere è perché tu conosca una persona del genere. Giusto, Lud?”
Io rimango immobile, raggelato. Con uno sforzo disumano faccio schizzare gli occhi da Feliciano alla porta. Poi di nuovo su Feliciano. Il mio sguardo, però, non cambia espressione.
“Lui abitava vicino a noi.” Continua Feliciano, intrecciando le dita davanti al grembo. “Poi un giorno l’hanno portato via, ma non ho mai capito cosa avesse fatto. Il nonno si è sempre rifiutato di parlarmene. Però io non andavo spesso a trovarlo, per cui non saprei dire molto a riguardo. Di solito, era Lovino che...”
La parole gli si spengono in bocca. La sua fronte inizia ad imperlarsi di sudore gelido come la morte. Feliciano è più pallido di un cadavere.
Ruota gli occhi allucinati, infossati nelle palpebre scure, e li incrocia con i miei.
“Ludwig... non può essere che le due malattie siano collegate, vero?”
Io resto in balia dei mille pensieri che continuano a vorticare nel cranio, prendendolo a martellate. Prima o poi imploderà, ne sono certo.
Mi riempio i polmoni d’aria che corre fino al cervello, rigenerandolo con una boccata d’ossigeno. Ruoto il capo, allontanando gli occhi dallo sguardo sciupato di Feliciano.
Antonio Carriedo è accusato di pedofilia, mentre Lovino Vargas ha iniziato a soffrire d’isteria in età infantile. In più, i due si conoscevano ed hanno avuto contatti proprio nel periodo in cui le due patologie hanno iniziato a manifestarsi. Se le mie deduzioni fossero esatte... Mio Dio, due piccioni con una fava!
“Ho i miei buoni motivi per crederlo, purtroppo.” Concludo. La mia voce inizia a dare segni di cedimento, ma devo essere forte.
Feliciano arretra, affondando le dita tra i capelli. Scuote il capo, e il suo viso si annaffia di lacrime.
“No, no, non è possibile! Antonio non... non avrebbe mai fatto delle cose simili. Non su Lovino, poi! Non è così, non è così, Ludwig!”
Solleva gli occhi gonfi e lucidi. Le guance si sono già arrossate, inondate dalle lacrime che rotolano come biglie dalle sue palpebre.
“Ti prego. Ludwig... non...” Continua a singhiozzare. “... non dirmi questo.”
 
La porta si apre con un cigolio agghiacciante, che ci stringe addosso ancora di più quell’atmosfera già gelida di per sé. Traggo un profondo respiro dalle narici e avanzo di un passo, lasciandomi avvolgere dalla luce, così fredda e falsa, che brilla nella cella numero cinque.
Mi porto una mano vicino alla spalla e impugno il Transfert, affondando le dita nella stoffa nera, pesante, e quasi completamente fradicia di sudore. Abbasso gli occhi, scuri e severi come quelli di un inquisitore, su Carriedo.
Il ragazzo è raggomitolato in un angolo del letto, i piedi nudi sono coperti da un lembo del lenzuolo che è scivolato in parte sul pavimento. Si strige le ginocchia al petto e affonda il viso tra le braccia smagrite, ossute come quelle di un cadavere, che sbucano dalle maniche fin troppo larghe della divisa. La folta chioma castana gli copre la fronte, sfiorando la stoffa candida.
Il tonfo dei miei passi sul suolo lo svegliano dal suo intorpidimento. Carriedo si limita a scostare una ciocca di capelli con le punte delle dita, e solleva un sopracciglio. Il suo occhio, avvolto come da una sottile pellicola opaca, mi scruta senza troppa attenzione.
“Buongiorno, dottore.” Mi saluta con voce smorta, occlusa dalle sue braccia intrecciate attorno alla bocca.
Solleva il mento dalle gambe, scrollandosi i capelli anarchici dagli occhi con un lento gesto del capo. Si passa una mano sulla guancia, distendendo le due profonde occhiaie infossate sotto le palpebre.
“Non mi aspettavo di vederla qui a quest’ora, dottore.” Continua. “Di solito le sessioni si tengono in tutt’altro momento. Devo aspettarmi qualcosa di diverso?” Mi chiede, sempre con quella voce spenta, come se stesse uscendo da una bambola con le batterie agli sgoccioli.
Io mi mordo un labbro, farcendolo scorrere un paio di volte sotto l’arcata dentale.
“Sì, effettivamente, e sei pregato di collaborare. Poi...” Abbasso le palpebre, ruotando gli occhi verso la porta. “Non sono solo, oggi. Vorrei che...”
“Già, non è solo. Hai capito, Spagnolo?”
Gilbert irrompe alle mie spalle, e si fionda dentro alla stanza trascinandosi con le spalle piegate in avanti e i pugni chiusi. Punta i piedi a terra, indicandosi il petto con il pollice.
“Ti conviene ascoltare quello che ti diciamo senza fare storie, hai capito? Le persone come te qui dentro dovrebbero essere spedite direttamente alla gogna, non meriterebbero nemmeno di...”
“Tappati la bocca, Gilbert!” Ruggisco, facendogli ringoiare le parole.
Sbuffo, e punto nuovamente lo sguardo su Carriedo, che ha alzato l’occhio.
“Dicevo...” Continuo, schiarendomi la voce. “Credo che ci sia qualcuno che potresti conoscere, qui con noi.”
Carriedo inarca le sopracciglia, serrando leggermente le labbra. Io ruoto il busto verso l’entrata, deglutendo a fatica.
“Vieni. Puoi entrare, adesso.”
Feliciano obbedisce, zampettando timidamente da dietro la porta, con le mani incrociate sul ventre e la fronte bassa. Si ripara gli occhi dalla luce abbagliante, poi scosta il braccio, guardando oltre il vetro forato.
Il respiro di Carriedo si mozza, rimanendo bloccato in gola, e la patina opaca davanti agli occhi svanisce, quasi scivolando giù dalle palpebre. Rivela un luccichio che non gli avevo mai visto addosso. Gli illumina gli iridi, facendoli sembrare schegge di diamante.
Feliciano spalanca la bocca, allargandola in un sorriso che gli sfiora le guance.
“A-Antonio! Allora è vero, sei tu! Sei proprio tu, Antonio!” Esclama con voce tremante di gioia.
Con sole tre falcate raggiunge la parete divisoria, appiccicandoci sopra i palmi delle mani come due ventose.
“Non sai quanto sono felice di vederti!” Continua a ripetere Feliciano, e Carriedo si sporge in avanti, reggendosi con le mani aggrappate al bordo della branda.
“Non è possibile. Tu sei...” Strabuzza gli occhi, e le pupille iniziano a vacillare. “Tu sei Feliciano. Ma certo, il piccolo Feliciano Vargas! Sei davvero diventato grande. È incredibile, ma tu... tu che cosa ci fai a Berlino?  E in un posto del genere, poi?”
Io aggrotto la fronte.
Se non l’ha confuso con il fratello, significa che conosce davvero entrambi. E anche molto bene, soprattutto per il fatto che sia riuscito a riconoscerlo dopo anni.Penso.
Il viso di Feliciano si intristisce, e lui piega le labbra verso il basso.
“Sono qui da più di un mese, Antonio. Se solo avessi saputo prima della tua reclusione al Welt, io... Ma il motivo è un altro! Io sono venuto a Berlino per...”
“Antonio Fernandez Carriedo.” Sbotto, bloccando il nevrotico balbettare di Feliciano.
Sia lui che Carriedo puntano lo sguardo su di me.
Io mi porto le mani dietro alla schiena raddrizzando le spalle. Le mie vertebre s’irrigidiscono, un cavo del Transfert mi scivola sul polso.
“Oggi è iniziato un graduale processo di sgombero della sezione H dell’ospedale Welt, dove alloggi tu in questo momento. Prima di te...” Mi inumidisco le labbra, divaricando leggermente i piedi. “Prima di te sono già stati liberati quattro pazienti, scagionati dalle loro colpe grazie ad una rivalutazione delle loro patologie.”
Lascio cadere le due fasce sul gomito, e lo sollevo davanti al mio petto.
“Ciò è potuto accadere grazie all’uso di questo strumento sperimentale. Ora, ti prego di lasciarmelo utilizzare anche su di te, in modo da poter provare anche la tua innocenza.”
Lo sguardo di Carriedo vacilla. Posa gli occhi tremanti, infossati in un’espressione stravolta, sul Transfert. Lo guarda come se gli stessi mostrando il suo cuore appena strappato dal petto, ancora pulsante. Fa ciondolare la fronte in avanti, lasciando ricadere i capelli su di essa, celando l’orrore che gli maschera il viso.
“Perché dovrei farlo, dottore? Non ce ne sarebbe motivo.” Confessa, rimettendosi a sedere con la schiena inarcata verso il basso. “Quante volte glielo dovrò ripetere, dottore? Io sono colpevole di tutto ciò di cui abbiamo sempre parlato, non ho nulla da cui scagionarmi. Io...” Solleva leggermente il capo, scoprendosi un occhio gonfio e lucido. “Io non merito di uscire da qui. Non ci sarebbe motivo di indagare più a fondo sulla questione. Ho fatto quello che ho fatto e il mio posto è questo, non ci sono scusanti.”
Gilbert e Feliciano rimangono di sasso, pietrificati davanti a quella mostruosa confessione. Gilbert dilania i denti, trucidandolo solo con una fulminea occhiata.
“Lurido bastardo.” Ringhia con voce inasprita dalla furia.
Io sospiro sconsolato, rimanendo immobile nella mia posizione, mentre Feliciano non riesce ancora a scollarsi dal divisore. Le mani tremolanti che continuano a premere sulla parete trasparente hanno già lasciato un leggero alone sulla superficie. Poggia la fronte sul vetro, sollevando le spalle.
“No, non è vero, Antonio. Io non posso credere ad una tale assurdità. Tu non fai queste cose, io ti conosco. Non... non ne saresti capace.” Piagnucola, versando due grosse lacrime che precipitano al suolo, schiantandosi sul pavimento.
Le labbra di Carriedo tremano. Lui le affonda con una feroce morsicata, ritirandole dentro la bocca.
“Perdonami, Feliciano.” Sibila con voce strozzata, tornando a nascondersi sotto la chioma.
Feliciano lascia scivolare i polpastrelli sul muro trasparente, facendo singhiozzare la plastica. Poi, solleva la testa con uno scatto fulmineo e si volta, precipitandosi verso il muro alle mie spalle. Punta lo sguardo dritto sul pulsante rosso, allungando le dita sul sottile coperchio che lo protegge.
Io sgrano gli occhi, e mi volto quasi inciampando sui miei stessi piedi. Tendo un braccio verso di lui, ma è già troppo tardi.
“Feli...!”
Alza la piccola custodia di plastica, premendo il dorso della mano sul tasto che affonda dentro al muro. Il meccanismo inizia a cigolare, e gli ingranaggi issano la barriera lentamente.
Io rimango imbambolato, con il Transfert che penzola intorno al gomito e i cavi che mi sfiorano le ginocchia.
Feliciano si avvicina a testa alta. Non l’avevo mai visto così deciso e tenace. Prende in mano con delicatezza le due fasce del Transfert, sfilandomele dal braccio, e si allontana dietro di me, lasciandomi pietrificato come una statua nel bel mezzo della cella. Supera la barriera piegando la testa di lato per non sbatterci contro. Non ha ancora finito del tutto di sollevarsi.
Feliciano alza le sopracciglia e forza un sorriso, porgendo con un gesto gentile il connettore a Carriedo.
“Antonio, noi possiamo aiutarti.” Gli dice, rilassando la voce. “Però tu devi permetterci di osservare nella tua testa, così guarderemo i tuoi ricordi e le tue memorie. Potresti dimostrare di essere innocente, capisci?”
Carriedo aggrotta la fronte, sollevandola dalle ginocchia, e il suo labbro inizia a tremare. D’istinto scioglie la presa attorno alle gambe, portando le mani sulle tempie.
“Tu vuoi... guardare nella mia testa? Ma così...” Le parole gli si mozzano in bocca, e lui stringe la presa attorno ai capelli. “No, non lo farò mai. Non posso permettertelo, Feliciano. Tu non... non hai idea... di quello che vedresti. Non posso, non posso, capisci?” Ripete con voce strozzata, come sull’orlo del pianto.
Feliciano non demorde e si piega in avanti, afferrandogli le spalle. Anche le sue mani tremano.
“Ti prego, Antonio, fatti aiutare. Non importa quello che vedremo ma, se tu ci permetterai di usare il Transfert, allora c’è la possibilità che...” Allunga il collo, inclinando la testa verso il basso. “C’è la possibilità che anche Lovino possa guarire. È probabile che le vostre malattie siano collegate e...”
Lovino?!” Esclama Carriedo, alzando gli occhi strabuzzati verso Feliciano.
Le sue pupille si sono talmente rimpicciolite da essere scomparse dentro all’iride.
“Ma cosa... cosa centra Lovino? Lui è a casa, adesso, giusto? Lui non...”
I loro sguardi si attraggono, risucchiandosi a vicenda in quel vortice di cordoglio. Feliciano abbassa le palpebre.
“È proprio per lui che mi sono recato qui a Berlino, Antonio. Lovino...” Lascia ciondolare la testa, stringendo la presa attorno alle spalle di Carriedo. Feliciano affoga tra i suoi stessi singhiozzi. “Lovino è rinchiuso qui dentro da più di tre anni, ormai. Io volevo solo restargli accanto, non potevo abbandonarlo qua. Lui si è ammalato e ce l’hanno portato via. Io non pensavo... non pensavo che avrei ritrovato anche te in un posto del genere. Volevo solo riportarlo a casa...”
Gli occhi di Feliciano si sciolgono in un fiume di lacrime amare che gli solcano le guance, rosse e gonfie sopra le labbra piegate dal dolore.
Carriedo spalanca la bocca, e il suo sguardo vacilla nel vuoto. Un iride ruota verso di me.
“Io non lo sapevo. Perché... perché nessuno mi ha mai detto che Lovino si trovasse qui?” Esclama con voce straziata.
Io indurisco lo sguardo.
“Ovviamente non potevo sapere che i vostri due casi avrebbero potuto essere collegati e poi, per una pura questione di privacy, non avrei potuto comunque rivelartelo.”  Sollevo il mento, socchiudendo un occhio. “Lovino Vargas è stato ricoverato qui dopo otto anni dall’inizio della tua reclusione.” Concludo.
Carriedo lascia cadere la testa sotto le spalle, affondando la faccia nel palmo di una mano. I capelli gli si annodano intorno alle dita.
“Per tutti questi anni... per tutti questi anni lui... lui è stato a soli pochi passi da me.” Singhiozza con voce strozzata.
 La sua schiena è scossa da violenti spasmi.
“La prego, dottore, mi dica...” Solleva la faccia stravolta, bianca come un lenzuolo. “Mi dica che è tutto uno scherzo. Mi dica che Lovino non si trova qui dentro.”
Allunga il collo, dilaniando la bocca in un gemito. I suoi occhi sono lacerati dal supplizio.
“La prego!”
Io aggrotto la fronte, puntando lo sguardo sul pavimento.
Quanto possono essere davvero collegati, i due casi?
Mi porto una mano sotto il mento, sbattendo le palpebre per schiarirmi la vista.
“Ora che ci penso, Lovino Vargas soffre d’isteria e una delle cause principali di questa patologia è proprio il trauma rimosso che affiora dal subconscio, sotto forma di lapsus o altre manifestazioni violente.” Dichiaro con voce ferma. “ Stando a quello che mi dite, e considerando il collegamento che lui ha con Carriedo, il trauma di Lovino potrebbe davvero essere...”
Gilbert è ancora ammutolito di fianco a me, mentre Carriedo non riesce a sciogliere quel suo sguardo di supplica.
Digrigno i denti, aggrottando la fronte, e mi fiondo su di lui con uno slancio. Lo agguanto per una manica della divisa.
“Andiamo, forza!” Gli ordino, strappandolo dalla soffice presa di Feliciano, ancora piegato davanti al lettino.
Carriedo tenta di liberarsi puntando i piedi a terra, e mi costringe a trascinarmelo dietro come un sacco di patate.
“Aspetti! Ma che...”
“Voglio vederci chiaro in questa storia!” Tuono.
Antonio Carriedo lascia la cella numero cinque per la prima volta dopo undici anni.      
 
 
Cella #6
Paziente: Lovino Vargas
 
Appoggio tutto il peso di una spalla sulla porta blindata, quasi la volessi sfondare. L’enorme anta in ferro, segnata dal numero sei di Lovino Vargas, si trascina a fatica sopra al pavimento, aprendosi solo a metà.
Scollo le mani dalla divisa di Carriedo, appoggiando entrambe sull’architrave, come a voler bloccare il passaggio. Carriedo subito si aggrappa a una mia spalla, tendendo il collo verso l’interno della cella. Io ruoto il busto e gli do una spinta all’indietro, premendogli un palmo della mano sul petto.
Lui inarca le sopracciglia, piegando le labbra in una smorfia sofferente. Io rispondo scuotendo la testa.
“Non ora. Ti dirò io quando potrai entrare.”
Carriedo esita, poi abbassa la testa con aria sconsolata.
“Va... va bene.” Sussurra.
Io annuisco, poi lancio un’occhiata a Gilbert.
“Assicurati che non entri fino alla mia chiamata.” Gli ordino, e lui sbuffa ruotando gli occhi al cielo.
“Basta solo che non mi lasciate qua fuori tutto il tempo come con la numero tre.”
“No, hai la mia parola.” Gli prometto, socchiudendo le palpebre. “Dopo vi farò entrare.”
Volgo nuovamente lo sguardo verso la cella, facendo segno a Feliciano di seguirmi con un gesto del capo.
“Andiamo. Tu mi servi adesso.” Forse ho usato un tono un po’ troppo brusco, ma lui non sembra prendersela.
Sento i nervi friggere. Si contorcono e si annodano attorno ai muscoli, scaricando scosse roventi su ogni singola fibra del mio corpo. Faccio persino fatica a mantenere la voce ferma.
Feliciano scatta, rimbalzando sul posto come una molla.
“Sì, arrivo!” Esclama, raddrizzando la schiena.
Corre al mio fianco, e insieme varchiamo la soglia della cella numero sei.
 
Gli ingranaggi si innescano, il loro cigolio inizia a tremare tra le pareti. La barriera si sta alzando, divorata dal soffitto che la ritira come una lingua larga e trasparente. Stringo il pugno, già premuto sul tasto rosso alla parete. Il sudore che scorre, lacrimando tra le dita, fa gemere la pelle. Uno spiffero sbuffa dietro ad un mio orecchio, a causa della corrente proveniente dall’esterno. La porta blindata è rimasta aperta.
Feliciano si sbilancia in avanti, con le mani irrigidite davanti al petto, tese verso la brandina bianca. Si sporge ancora di più, lasciandosi quasi cadere, e poggia all’ultimo momento il peso sul piede.
“Lovino! Sono...”
“Aspetta, Feliciano, non avere fretta.” Lo blocco subito, agguantandogli una spalla senza stringergliela troppo. Non ce n’è bisogno con uno come lui.
Lo sguardo di Feliciano è dritto verso il fratello, gli occhi sono già annebbiati dalle lacrime. Le braccia ingessate, a gomiti piegati verso il basso, iniziano a tremare insieme a tutto il suo busto. Percepisco gli spasmi che attraversano la sua pelle corrermi sotto il palmo della mano.
Un veloce brivido, come una scossa, fulmina il corpo straziato di Lovino Vargas, abbandonato a se stesso sulla brandina. La pancia è rivolta verso il basso e, quando emette un profondo respiro, la schiena gli si gonfia, facendo cigolare le reti del lettino. Un occhio si apre, e una sottile ciocca bruna gli scivola da dietro l’orecchio, coprendo quella scintilla di follia che ci sta trapassando. La palpebra spalancata si riabbassa lentamente, e il suo occhio inizia a vacillare.
Il meccanismo di ingranaggi scatta, la lingua di plastica trasparente è stata ingurgitata completamente dalla bocca.
Lovino Vargas divora un’altra boccata d’ossigeno, poi le labbra si piegano, assumendo lineamenti animaleschi. Un ringhio fuoriesce dai denti digrignati, che stridono come volessero lacerarci in soli due morsi ben assestati. Lovino inarca la schiena, scivolando a quattro zampe sulla branda. La testa ciondola tra le spalle, lasciando che i capelli cadano sulla fronte. Fa scorrere una mano sul materasso, poi la solleva contorcendo le dita.
Lovino trema dalla punta dell’unghia fino alla spalla.
“Voi... bastardi... mi...” Grugnisce, deglutendo pesanti bocconi di saliva tra una parola e l’altra.
Feliciano squittisce e balza in avanti, tentando di liberarsi dalla mia presa. Io premo le dita intono alla sua spalla, e gli afferro una mano stringendola attorno al suo polso.
“Stai calmo, Feliciano. Aspetta che...”
“Giuro che vi ammazzo tutti e due, sudici bastardi!”
Lovino si piega, caricando il peso su braccia e gambe. Si lancia in avanti, spinto come una molla giù dal letto.
Quando cade sul pavimento inciampa subito, finendo con il naso schiacciato a terra e un braccio piegato davanti alla fronte.
Solleva il capo, e i capelli si scuotono davanti ai suoi occhi. Le pupille infuocate ci riducono in cenere.
“Feliciano... schifoso di un bastardo... mi hai... mi hai di nuovo...”
“No, Lovino, ascolta! Io non ti ho abbandonato. Sono tornato per liberarti.” Piagnucola Feliciano, posandosi una mano sul petto.
Lovino dilania la bocca.
“Non dire cazzate! Giuro che... giuro che...”
Stringe i pugni, sbattendone uno sul pavimento.
Io inarco le sopracciglia, lasciando scivolare la mano giù dalla spalla di Feliciano, e sciolgo le dita ancora avvolte attorno al suo polso. Pesto i piedi per terra, marciando verso Lovino che rantola al suolo come un verme sotto il sole.
Lovino solleva le spalle, strizzando le palpebre.
“Giuro che vi ammazzo tutti e due!”
Il suo urlo squarcia l’aria stagnante della cella numero sei.
Prima che possa sollevarsi del tutto, mi precipito su di lui. Letteralmente.
Le fasce del Transfert traballano attorno alla mia spalla, e le spingo indietro, verso l’ascella, per evitare che i cavi si spezzino, strappati dalla furia di Lovino.
Gli fiondo una ginocchiata sulla schiena, schiacciandola con il peso di una gamba, poi gli afferro la testa, e le mie dita fanno presa sulla sua nuca come tentacoli di polipo. Gli premo la guancia sul pavimento, freddo, e Lovino chiude un occhio, gemendo. Io gli afferro entrambe le braccia, incrociandogli le mani sulla schiena sotto alle scapole, ben ferme sotto la mia pressione.
“Bastardo di... un... un crucco...” Ringhia, lacerandomi solo con la coda dell’occhio, coperta dalla frangia che gli cade sulla fronte.
Io non cedo al suo sguardo e forzo ancora di più la morsa sul suo cranio.
“Ora vedi di calmarti, se non vuoi che ti pianti una siringa dritta sul collo, va bene? Dovresti ricordarti cosa si prova, immagino.”
Lovino deglutisce, poi piega le labbra fino a che gli angoli della bocca non toccano il mento. Emette un debole piagnucolio identico a quelli di Feliciano.
Il gemello rimbalza verso di noi, inginocchiandosi accanto a Lovino. Feliciano abbassa il collo, tentando di incrociare i suoi occhi furenti, infossati tra le palpebre rosse come braci.
“Lovino, ora devi ascoltare Ludwig. Se ti fiderai di noi allora potremo farti uscire. Te lo prometto, ma tu devi calmarti, fratellino.”
Sta parlando in italiano. Non capisco nulla di quello che dice, ma spero che riesca a placarlo anche solo a parole.
Lovino guaisce come un cane bastonato, e tenta di raggomitolarsi sotto il mio peso che continua a schiacciarlo.
“Fratello, eh? Ma che cazzo stai dicendo? Mi hai abbandonato qui, Feliciano. Tu e quel bastardo del nonno non aspettavate occasione migliore per sbattermi fuori dai piedi, non è vero?” Lovino scuote la testa, sfregando i capelli sotto il mio palmo. Il ciuffo arricciato striscia sul pavimento. “Tu non sei più mio fratello.”
Gli occhi di Feliciano si gonfiano di lacrime. Le sue guance si arrossano, facendolo diventare paonazzo.
No, non deve assolutamente mettersi a piangere!
“Lovino... ti prego...” Continua Feliciano, coprendosi gli occhi con il lembo della manica che gli pende dal braccio. “Ti prego... non dire cos...”
“Entra, Gilbert!” Sbotto, lacerando le parole di Feliciano prima che possa scoppiare in lacrime.
Gilbert si sporge sull’entrata, appoggiandosi all’arcata con entrambe le mani.
“Sei sicuro?” Mi chiede, allungando il naso.
Alza il pollice, puntandolo alle sue spalle.
“Porto dentro anche lo spagnolo?”
Io annuisco, iniziando già ora a trattenere il fiato.
Gilbert agguanta qualcosa e inizia a tirarla dentro alla cella.
Quel qualcosa viene subito abbagliato dalla luce bianca, trascinato da mio fratello come un cane al guinzaglio. Carriedo, una volta dentro, solleva lo sguardo da sotto la massa di capelli scompigliati e lo punta verso di me.
Il corpo di Lovino si pietrifica.

Carriedo spalanca le palpebre, socchiudendo le labbra. I suoi iridi si rimpiccioliscono.
“Non è possibile... Lovino, tu... tu sei...”
Tutto il corpo di Lovino scarica un forte tremito, che mi scuote il palmo della mano poggiato sulla sua testa e quello che gli stringe i polsi intrecciati. Premo ancora di più il peso della gamba sulla sua schiena, non sapendo cosa aspettarmi.
Lovino inizia ad agitarsi e si dimena come un indemoniato.
“Lasciami! Ti ho detto di mollarmi, crucco! Mi... mi sta...”
Comincia a urlare, scuotendosi sotto il mio peso come un leone imbufalito. Con un grugnito riesce a sfilarsi le mani da dietro la schiena, ma non le usa per picchiarmi.
Lovino ruota il busto, scivolando sotto la mia gamba, e si stringe le tempie come a voler spremere gli occhi fuori dalle orbite. Strizza le palpebre, dilaniando la bocca in un urlo demoniaco.
Mi sta scoppiando la testa!
Riesco subito a bloccarlo, agguantandolo per un braccio.
Lovino continua a gemere, rantolando al suolo come una lumaca tuffata nel sale. Le sue unghie affondano nei capelli, graffiando la pelle del cranio.
Guardo lui, poi Feliciano immerso nel suo stesso cordoglio, impotente davanti al fratello sofferente.
Carriedo si piega sotto la morsa di Gilbert e lascia scivolare un lamento fuori dalle labbra. La sua testa ciondola verso il pavimento. Se non ci fosse il braccio di Gilbert a reggerlo, annodato sotto alla sua ascella, probabilmente si sarebbe già accasciato a terra.
Io aggrotto la fronte, sollevando un braccio sopra la mia testa e tenendo il palmo ben rigido. Lovino continua a urlare.
“Che cazzo mi state facendo, bastardi? Perché la testa mi...”
La mano vola dietro al suo collo e gli assesta un colpo secco sulla nuca. Lovino tace, un gelido silenzio divora l’atmosfera della stanza. Il corpo del ragazzo si ammoscia, e le palpebre si abbassano, coprendogli quegli occhi colmi di odio e di confusione. Un ultimo rantolo esce dalle sue labbra che rimangono semiaperte, e tra le sue membra ormai inerti scorre un ultimo spasmo.
Traggo un profondo respiro dalle narici e mi lascio scivolare al suo fianco. Lo abbandono sul pavimento come un fantoccio rotto.
Feliciano si porta una mano davanti alla bocca.
“Lovino!” Esclama, precipitandosi da lui con uno scatto fulmineo.
Gli cinge delicatamente le spalle e appoggia la testa del fratello, che ciondola a peso morto, sulle sue ginocchia. Li guardo bene, mentre Feliciano gli posa una mano sulla fronte, scostandogli i capelli. Io inarco un sopracciglio.
Fa davvero impressione, vederli insieme. Sono identici.
 
Lovino Vargas giace tra le braccia del fratello, più innocuo di un agnellino. Percepisco a malapena il rumore del suo respiro che passa tra le labbra, suonando come poco più di un sibilo. Ruoto lo sguardo verso Carriedo, ormai completamente squagliato sul pavimento, a gattoni, vicino ai piedi di Gilbert. Lui è comodamente appoggiato al muro.
Abbasso le palpebre.
“Carriedo, c’è qualcosa...” Gli domando, portandomi una mano sulla spalla, andando a sfiorare le fasce del Transfert. “C’è qualcosa di cui dovrei venire a conoscenza, prima di iniziare il processo?”
Carriedo si trascina verso la parete bianca alle sue spalle, e appoggia le braccia ciondolanti sulle ginocchia piegate verso il petto. Scuote la testa con un sorriso triste.
“Le ho già detto tutto, dottore. Quello che lei vedrà sarà solo...” Si inumidisce le labbra, poi manda giù un boccone di saliva. “Sarà solo una conferma di tutto quello che ho già confessato.”
Una scossa mi attraversa la spina dorsale.
Poso gli occhi su Lovino, abbandonato sulle ginocchia di Feliciano che lo protegge con le sue fragili e tremanti braccine.
E se fosse tutto vero? Se io dovessi trovarmi a...
“Ludwig!” Gilbert mi chiama dall’altro lato della stanza.
Faccio scattare la testa, incrociando il suo sguardo vacillante. Lui aggrotta la fronte, arricciando le labbra.
“Ludwig, riflettici bene. Se questo bastardo ha fatto quel che ha fatto, tu ti ritroveresti a vivere tutto dentro ai suoi ricordi, dentro alla sua mente e dentro al... al suo corpo!” Assottiglia lo sguardo, ghignando con disprezzo. “Ti senti pronto ad affrontare un’esperienza simile?”
Di nuovo un brivido mi fa tremare la schiena.
Chiudo le palpebre poi, sfilandomi il Transfert dal braccio, allungo la prima fascia verso la testa di Lovino. Mi faccio spazio delicatamente tra le braccia di Feliciano, rigide sotto il mio tocco.
“Non posso fare altrimenti.” Gli rispondo, annuendo.
Gli stringo il velcro e passo una veloce occhiata sui cavi, tastandoli con i polpastrelli per assicurarmi che non si siano danneggiati durante la lotta con Lovino. Mi scappa un sorriso. Tutto a posto.
“Sono pronto a qualsiasi eventualità. Non importa cosa succederà, io...”
Apro la fascia, facendola scorrere intorno alla mia fronte e dietro la nuca. È ancora bagnata. La stoffa è intrisa di sudore gelido che mi fa stringere i denti.
“Andrò avanti, fino in fondo.”
 

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


CAPITOLO 10

 
Li odio. Li odio tutti e due, questi bastardi.
Digrigno i denti, facendo schioccare la lingua sul palato , con la speranza di non esplodere dalla rabbia. Sistemo il cuscino sotto la schiena, appoggiato allo schienale del divano, e affondo con tutto il peso nell’imbottitura di piume. Accavallo le gambe, i piedi ciondolano su e giù contorcendo la caviglia che inizia a fare male. Mi gratto la testa – mi prude da morire, maledizione – sfilando una mano umida da dietro la nuca. Faccio scorrere le dita fino all’orecchio, e il ciuffo arricciato si annoda intorno al polpastrello. Quando sfilo l’indice, la ciocca rimbalza di nuovo sopra la spalla.
Sollevo lentamente una palpebra, le sopracciglia sono inarcate fino alla base del naso.
“Come sei bravo, Feliciano. Sei proprio l’amore del nonno, lo sai?”
Il nonno cinguetta come un fringuello ubriaco, e sfrega i capelli di Feliciano che si scuotono sotto il suo tocco, arruffandosi tra le sue dita. Feliciano sorride e abbassa lo sguardo, quelle sue guance paffute da marmocchio di dieci anni arrossiscono come peperoni. Le sue gambe pallide e graciline ciondolano dal forte ginocchio del nonno. Feliciano si porta le mani sulla testa come per reggersi, sfiorando quelle del nonno ancora avvolte sopra la sua fronte.
“Mi fai il solletico così, nonno.” Le sue minuscole dita si appigliano attorno a quelle grandi e grosse del nonno, ormai nodose come la corteccia di un albero secolare.
Il vecchio abbassa le palpebre, coprendo gli occhi che ridono insieme a Feliciano. China il capo in avanti, avvicinandosi alla sua faccia.
“No, Feliciano, il solletico te lo faccio ora.”
“Ah, ah! Ti prego, nonno, ora... ah, ah!”
I due bastardi si sfregano le guance a vicenda e si coccolano come due rincitrulliti. Il bicchiere d’acqua appoggiato sul tavolo, mezzo vuoto, filtra i raggi del sole che si riflettono sulla superficie lignea. Una striscia di luce bianca si allunga dal fondo del vetro, e si arrampica sulla schiena di Feliciano appoggiata al bordo del tavolo. Una fogliolina di origano svolazza giù dall’architrave della cucina e si posa proprio sotto l’entrata. Sollevo gli occhi, coperti dalle palpebre semichiuse, sopra la porta. Il cespo ornamentale si sta seccando, con il caldo che fa. Arriccio il naso, dando un’inspirata all’aria che profuma di spezie. Le narici mi pizzicano.
Piego una angolo della bocca verso il mento, aggrottando la fronte. La scenetta messa in mostra nella stanza affianco mi disgusta.
Feliciano ride come un idiota e continua ad accarezzare l’irta barba scura che vela il viso del nonno. Stringe le gambe attorno al suo polpaccio, come per evitare di cadere.
“Sei proprio un bravo nipotino, Feli. Sì, l’amore del nonno.”
Io faccio scivolare una mano sul fianco e la alzo sopra la testa, agitando le dita come se stessi imitando la sua vomitevole parlantina. L’altra mano è ancora arricciata attorno alla ciocca di capelli.
Punto gli occhi al cielo, facendo una boccaccia con la lingua di fuori. Almeno di questo si accorgeranno, che diamine!
Ruoto il capo di nuovo verso i due amorini, che non la smettono di farsi le carezze come una coppia di sposi. Sbuffo, rilasciando tutta la rabbia dalle narici, e digrigno i denti per la seconda volta. Sfilo il dito che continua ad arricciare il ciuffo, e questo si riannoda vicino all’orecchio. Si ritira come una molla.
Emetto un profondo sospiro, accompagnato da un grugnito, e salto giù dal divano con un balzo. Una nuvoletta di polvere si solleva da sotto le mie scarpe.  Mi raddrizzo la schiena irrigidita, facendola schioccare sotto a pressione delle mani. Quel cuscino era duro come un masso.
“Ehi, voi, sto uscendo, capito? Se non mi vedete, io...”
Le parole mi muoiono in bocca quando nessuno dei due muove ciglio davanti alla mia voce. Arriccio la bocca e mi cingo i fianchi con le mani. I gomiti piegati all’infuori come i duri. Pesto i piedi sul pavimento, divaricando le gambe.
“Ehi, bastardi! Avete capito quello che vi ho...”
“Lovino, ti pare il caso di usare questo linguaggio?” Sbotta il nonno, scurendosi in volto.
Il sorriso gli si piega in una smorfia contrariata, e i suoi occhi s’incupiscono quando incrociano i miei. Ah, e così si accorge si me solo quando dico le parolacce? Bene. Molto bene.
Feliciano si aggrappa ad un braccio del nonno e le sue gambe si stringono attorno al suo ginocchio che ha smesso di rimbalzare. Io e mio fratello ci scambiamo uno sguardo assente.
Stringo i pugni e alzo il mento. Il petto mi si gonfia come un pallone.
“Io parlo come cazzo mi pare. Ora, se non vi dispiace, esco da questo buco di casa così potrete continuare tutte le vostre cretinate in santa pace, d’accordo?” Ringhio come un cane rabbioso.
Volto i tacchi, sempre a pugni ben stretti, e marcio verso la porta pestando i piedi per terra come un soldato. Sento un tonfo dietro di me. Qualcosa è caduto su pavimento.
“Lovino, aspetta. Non fare così.” La voce di Feliciano non è altro che un fastidioso ronzio alle mie spalle.
Io scuoto la testa, come per cacciarmi di dosso quel piagnucolio, e i capelli mi si scompigliano sulla fronte. I passi felpati di mio fratello suonano come un flebile eco tra le pareti dello stretto corridoio.
Blocco il passo davanti alla porta di legno, semplice ed essenziale come l’intera nostra casetta. Stringo la mano sudaticcia attorno alla maniglia tonda e la pelle scivola sull’ottone lubrificato, lasciandolo umido.
“Torna indietro, Lovino, dai! Non ti arrabbiare.” Il frignare di mio fratello si avvicina, e quel suono mi fa tremare l’orecchio.
Mi mordo un labbro e spalanco la porta, lasciando entrare un’ondata di aria calda e umida che mi mozza il fiato. I polmoni si appesantiscono, è il cemento stesso a scivolare nelle narici.
Un gruppetto di uccellini sfrecciano via dal prato, andando a rifugiarsi dentro al boschetto che circonda la casa. Le chiome degli alberi sono immobili, non tira nemmeno un alito di vento. Mi allargo il colletto della maglia con due dita, già sentendomi soffocare. Sollevo il naso verso il cielo spaventosamente azzurro, senza nemmeno una sbavatura di nuvola. Il sole è alto e mi copro gli occhi con il palmo della mano per farmi ombra. I suo raggi pestano come i cazzotti di un pugile. Ardono come l’inferno, in questo pomeriggio di fuoco.
Il passo di Feliciano si arresta dietro di me, a due passi dalla soglia. Io volto il capo, assottigliando lo sguardo. Il labbro piegato verso il basso.
Mi piace quest’aria da duro. Quando la sfoggio, la differenza tra me e mio fratello diventa abissale. Invalicabile.
Feliciano giunge le mani sul petto e le sue sopracciglia si inarcano in uno sguardo di supplica.
“Torna in casa, Lovino. Non fare i capricci, altrimenti il nonno si arrabbia, lo sai.” Piagnucola.
Io piego la bocca in una smorfia di disprezzo, aggrottando la fronte.
“Chi se ne sbatte.”
Salto fuori dall’architrave dell’entrata con un salto da grillo senza nemmeno voltarmi. Afferro l’anta con le dita, spingendo il braccio all’indietro con un movimento violento. La porta sbatte, e Feliciano sparisce dietro di lei. Il rumore fa scappare un altro stormo di uccellini che stavano cinguettando tra i cespugli in cerca di vermetti.
Salto giù dai gradini della veranda, e due grossi riccioli di polvere si ingrossano tra i miei piedi. Do un calcio all’aria, sfiorando la sabbia della stradina che serpeggia da casa mia fin dentro al boschetto. Una manciata di sassolini rotola vicino ai bordi della piccola via. Mi tuffo le mani nelle tasche e inizio a percorrerla con il sole che mi martella sulla schiena ricurva.
“Vi odio tutti, bastardi.”
 
Striscio i piedi sulla stradina, dando ogni tanto un calcio a dei sassi più grandi. Li scaglio fuori dal sentiero, lasciando che si perdano tra le foglie degli arbusti rinsecchiti che crescono ai lati, alla base degli alberi. Cerco di tenermi il più possibile sotto l’ombra delle chiome, per ripararmi dal sole di agosto, pesante, che ti divora come un’ondata di ferro fuso. La schiena sudaticcia inizia già ad appiccicarsi alla stoffa della maglia. Mi asciugo la fronte, completamente fradicia, con un braccio nudo. La pelle mi si imbratta tutta di sudore. Che schifo.
Boccheggio come un cane accaldato, lasciando che la punta della lingua penzoli dalle labbra. L’aria è densa e umida, sembra quasi di ingollare vapore appena uscito da un ferro da stiro. Faccio persino fatica a distinguere i profumi. Solo quello della resina, che lacrima dalla corteccia degli alberi secolari, è perfettamente riconoscibile.
Le cicale gridano tra i ciuffi d’erba, quasi assordandomi. È un suono lungo e continuato, che mi spappola il cervello. Per di più ho il peso di mille raggi di fuoco sulle spalle, la vista che inizia a vacillare e tutta la maglietta insudiciata di sudore.
Stringo i denti, e faccio volare un calcio su un sasso che mi è rimbalzato tra i piedi, facendomi quasi inciampare.
“Merda!” Gli urlo, e lui sparisce tra i cespugli ingialliti, mettendo a tacere delle cicale.
Io soffio come un toro imbufalito, riprendendo a marciare a occhi bassi.
“È tutta colpa loro se esco sempre di casa. Non sono abbastanza bravo e buono per quel vecchiaccio, eh? Certo, solo Feliciano è quello bravo, solo Feliciano è il più buono di tutti. Sempre loro due insieme a fare gnè gnè, mentre io me ne sto in un angolo come un idiota ad assistere a quella buffonata. Beh, glielo faccio vedere io!”
Lascio ondeggiare un piede sotto di me, prendendo la spinta, poi lo faccio piombare dritto su un altro sasso più grosso e appuntito degli altri. La pietra si scaglia contro il tronco di un albero, rimbalzandoci sopra come una pallina di gomma. Il sasso schizza di nuovo verso di me, dritto sotto il ginocchio. La roccia scivola sulla gamba, e lacera la pelle in un taglio netto. Purtroppo, non è davvero di gomma.
“Ahia, merda!” Mi lamento, piegandomi dal dolore.
Mi stringo la gamba con le dita impiastricciate di sudore che, ben presto, inizia a mescolarsi con il sangue che fiotta dallo squarcio proprio sotto la rotula.
Sollevo la mano, imbrattata di liquido rosso che gocciola dalle dita. Il labbro inferiore inizia a tremarmi.
“Non è giusto. Tutte a me, capitano.”
Piagnucolo come una femminuccia, gli occhi iniziano a pizzicarmi quando sbatto le palpebre. Due grosse lacrime rotolano giù dalle guance, scivolando fin sotto la gola.
 
Mi appoggio con entrambe le mani sul bordo del pozzo. Su una delle pietre grigie, che circondano il profondo buco nero, lascio un’impronta rossa della mia mano. Faccio scivolare il sedere verso il centro, sistemandomi per bene.
Butto la coda dell’occhio alle mie spalle, squadrando la piccola casetta rustica seminascosta dai rami degli alberi. Abbasso lo sguardo sul piccolo orto, gravido di pomodori maturi, e il mio stomaco gorgoglia facendo tremare la pancia.
Credo di essere arrossito in faccia, così distolgo gli occhi da quel ben di Dio, e tuffo la mano dentro al secchio pieno d’acqua tiepida sull’argine del pozzo. Qualche schizzo spruzza fuori dalla tinozza ma evapora subito, col caldo che fa!
Agito le dita tra gli zampilli d’acqua, poi strofino la mano grondante sotto il ginocchio, lavandomi la pelle dal sangue che ha già smesso di scorrere.
Sollevo gli occhi al cielo, imbronciandomi in viso. La mano continua a strofinare la gamba.
Gli do al massimo cinque minuti, per farsi vivo. Sì, tra cinque minuti giuro che levo le tende e me ne ritorno a...
“Che cosa ci fai fuori a quest’ora del pomeriggio, Lovino?”
L’orecchio mi si drizza, e le dita smettono di massaggiare il ginocchio, irrigidendosi intorno alla cima della coscia. Lascio ciondolare le gambe dal bordo del piccolo muretto, e i talloni vanno a sbattere sulle pietre. Arriccio il naso, deformando il viso in una smorfia.
“E a te cosa importa? Volevo uscire e l’ho fatto.”
“Ma a quest’ora il sole batte troppo forte. Lo sai che è pericoloso? Potresti prendere un’insolazione.”
“E anche se fosse così?”
Mi giro di scatto, lasciando che la frangia si scuota sulla mia fronte.
Antonio distende un sorriso rilassato, e accavalla le gambe sopra il bordo del pozzo. – Ma quando diavolo è arrivato? - Inarca all’indietro la schiena, appoggiando tutto il peso sulle mani stese vicino ai fianchi. Getta lo sguardo verso il cielo, scuotendosi l’ammasso di capelli castani che gli ricoprono la testa.
“Come siamo di malumore, oggi.” Ridacchia, abbassando le palpebre.
Inclina il capo verso di me, socchiudendo un occhio. “È successo qualcosa a casa?”
Io inarco un sopracciglio, poi abbasso gli occhi, gonfiando le guance in un’espressione imbronciata.
“No, sono solo incazzato con il nonno e con Feliciano. Tutto qui. Loro due sono...” Alzo di nuovo il mento verso l’alto, lasciando che i raggi del sole filtranti tra alle foglie lo solletichino.
“Sono sempre schierati contro di me. Il nonno non fa altro che coccolare Feliciano, poi inizia a dirgli che è il più bravo, che è il più buono, che è il migliore di tutti e a me...” Mi mordo un labbro.
Sollevo la mano impiastricciata di sangue misto a sudore verso il petto. Mi sfrego la spalla, a testa china.
“A me mai niente. Quel bastardo ha occhi solo per quella mammoletta di Feliciano.”
“Capisco, Lovino, capisco.”
Antonio annuisce, mettendosi una mano sotto il mento. Si spinge in avanti, inclinando la schiena verso di me. Io mi limito a guardarlo con la coda dell’occhio.
Ha inarcato le sopracciglia in un’espressione buffa, a anche le labbra sono più arricciate.
“Non è che tuo nonno si è arrabbiato per il linguaggio che ultimamente hai iniziato ad usare? Sai, è importante rivolgersi nel modo corretto ad un adulto. Se dipendesse da me, ti avrei già risciacquato la bocca col sap... ehi, Lovino!” Esclama di colpo, interrompendo la frase.
Io strabuzzo gli occhi, e lo guardo con aria interrogativa. Ma che diavolo gli è preso?
Antonio aggrotta la fronte e abbassa lo sguardo sulla mia gamba.
“Cosa ti sei fatto al ginocchio? Ti sei ferito mentre venivi qui?” Mi chiede, e io ruoto le pupille verso la gamba con un gesto fulmineo.
Spalanco le palpebre, davanti al fiume di sangue che ha ripreso a straripare dalla lacerazione. Subito copro il taglio con il palmo della mano, iniziando a spalmare via il fluido scarlatto che sgorga a fiotti. Il sangue sembra quasi freddo, in confronto alla pelle bollente.
“Non è niente, è solo un graffietto. Ora mi passa.” Mi giustifico, ma Antonio scuote la testa.
“No che non ti passa, Lovino. Devi medicarlo subito, oppure ti verrà un’infezione e...”
“Sì, sì, va bene. Ora puoi smettere di fingere di preoccuparti per me.”
Agguanto il bordo del secchio in legno ammuffito e lo inclino verso il basso, puntando il bordo verso il mio ginocchio. Affogo la gamba in un’ondata d’acqua che mi entra fin nelle scarpe, bagnandomi anche i calzini.
Getto il secchio a terra, poi mi strofino i palmi delle mani sulla maglia.
“Ecco fatto.” Brontolo, piantando il muso.
Antonio abbassa il capo, sospirando con aria sconsolata. Le sue ciocche castane sono attraversate da ondate di una luce color miele.
“Non dire queste cose, Lovino. Lo sai che io mi preoccupo sul serio.” Solleva lo sguardo, avvolgendomi con i suoi occhi dolci. “E anche tuo nonno si preoccupa, solo che tu non accetti il suo affetto, tutto qua.”
Io rilasso i lineamenti del viso. Sollevo il labbro inferiore, distogliendo lo sguardo da Antonio. È così patetico che mi fa pena.
“Bah, tutte balle. Piuttosto, se dici davvero di preoccuparti per me...”
Ruoto il busto, allungando un braccio verso di lui, ancora con la schiena piegata davanti a me. Inizio ad agitare le dita per aria come se stessi tastando qualcosa di morbido. Con l’altra mano mi stringo la pancia, che ha ripreso a gorgogliare.
“Meno chiacchiere e sgancia. Sto morendo di fame.” Gli ordino con un grugnito.
Antonio mi fissa la mano con sguardo perso, poi distende un sorriso, ridacchiando sotto i baffi. Abbassa gli occhi, volgendoli alle sue spalle.
“E va bene, hai vinto tu.” Dice, ruotando il busto dietro di sé.
Avvolge il suo bacino con un braccio e la mano gli sparisce dietro alla schiena.
Io allungo il collo, sentendo già la saliva sciogliersi nel palato, ai bordi della lingua.
Quando Antonio fa riemergere la mano, mi porge un grosso pomodoro lucido, ben maturo, stretto tra le sue dita. I raggi del sole gli illuminano la buccia, rossa come il fuoco, che sembra stia per scoppiare da un momento all’altro, a forza di trattenere tutta quella polpa.
“Ogni tanto...” Inizia Antonio, ma io ho già agguantato l’ortaggio, portandomelo sotto il naso.
Lo faccio passare sotto le narici, assaporando tutto il suo aroma. Profuma ancora di terra. Abbasso le palpebre e spalanco le fauci, avvicinandolo ai denti pronti a dilaniarlo. Affondo le zanne, bucando la buccia, e il succo inizia già a colarmi sulla lingua, scivolandomi giù per la gola.
Antonio scuote la testa, sospirando.
“Potresti anche chiedere per piacere.”
“Mhf... sì, sì. Come no. Contaci.” Gli rispondo con la bocca piena di poltiglia rossa.
Strappo un altro morso dal pomodoro, spremendogli tutto il succo fresco e saporito che mi inonda la bocca. Mi gronda dagli angoli delle labbra fino a scivolare sul mento, gocciolando per terra. Qualche seme mi rimane incastrato tra i denti, ma non importa.
Schiaccio le mani appiccicose, pregne del dolce e fresco sugo di pomodoro, sulla faccia, mandando al macello tra le mie fauci anche l’ultimo pezzo avanzato. Mi lecco le labbra e le dita, stando attento che non vada sprecata nemmeno una goccia.
Dio, questi pomodori sono l’unica cosa che dà un senso alla vita di questo inutile bastardo.
Ritiro la lingua, socchiudendo un occhio verso Antonio. Lui è da quando ho iniziato a mangiare che mi osserva, e l’unica cosa che voglio è che tolga quel suo sudicio sguardo da me.
Antonio allunga la punta dell’indice, iniziando a punzecchiarmi la schiena incurvata.
“Allora, adesso che ti è tornato il buon umore, ti lascerai medicare quella gamba?”
“Non mi toccare.”
“Dai, Lovino. Fai il bravo.”
“Ti ho detto di non toccarmi.”
“Poi ti do altri pomodori.”
“Non mi toccare!” Gli urlo, schiaffeggiando la sua mano via dal mio fianco.
Lui la ritira subito.
Volto la testa di scatto, riducendolo ad un mucchio di cenere solo con un’occhiata di fuoco.
“Se ti dico che non mi devi toccare, non mi devi toccare, chiaro?! Comunque...” Abbasso il tono, lasciandomi scivolare giù dal bordo del pozzo. Una volta a terra mi strofino i pantaloni, la sabbia incastrata tra le pietre me li ha tutti sporcati.
Antonio inclina il capo e mi guarda restando seduto. Io pianto il muso un’altra volta, cingendo le mani ai fianchi.
“Se proprio ci tieni, accetto l’offerta di prendere altri pomodori. Ma non ti sognare di toccarmi la gamba. Sta benissimo, va bene?”
Una lacrima di sangue rotola fino alla caviglia, lasciando una scia scarlatta su tutta la gamba.
 
Antonio mi stringe la garza sotto la rotula, facendola scorrere con movimenti lenti e delicati sopra la mia pelle. Quando preme sulla ferita, stringo i denti trattenendo un gemito. Brucia.
Il cotone sotto la fascia si è già incollato alla ferita, facendomi provare una sgradevole sensazione di umido sotto il ginocchio. Antonio strappa con i denti un’altra lingua di nastro adesivo dal rotolo color carne e mi chiude i due lembi della garza bianca e sterile. Fa scorrere la mano sul ginocchio, passando il pollice sul rigonfiamento del cotone.
“Va meglio, ora?” Mi chiede, alzando gli occhi luminosi.
Io agito la gamba, e uno sciame di pizzichi mi scorre sulla ferita. Faccio una smorfia, il naso mi si arriccia.
“Sei un incapace. Continua a bruciare come prima.”
“È normale, Lovino. Il disinfettante sta facendo effetto, devi solo aspettare che il taglio si rimargini e sarà tutto a posto come prima.”
Appoggia le mani sulle ginocchia e si solleva in piedi, sgranchendosi la schiena. Un raggio di sole lo colpisce su una guancia, penetrando la fresca ombra che ci protegge dal calore sotto il portico.
Io affondo le spalle sullo schienale della sedia impagliata, abbandonando le mani sui braccioli. Chiudo gli occhi, respirando l’aria frizzante che profuma di orto. In teoria, ci sono anche dei fiori sul terrazzo, ma non riesco a percepirne l’odore. Sono tutti secchi, piegati come scheletri sui bordi dei vasi di terracotta sistemati sul cornicione. Quell’incapace non sa nemmeno prendersi cura di quattro piantine.
Antonio salta giù dai tre gradini che danno sul giardino abbagliato dal sole, immergendosi nella sua luce dorata. Uno sbuffo di vento gli scuote la chioma, scoprendogli un orecchio. Ruota il capo, guardandomi con un sorriso apprensivo.
“Resta buono lì, io torno subito.”
Io sbarro una palpebra, guardandolo con occhi contrariati.
“Ma che fai?” Ringhio. “Mi lasci da solo anche tu, bastardo? Ti ho detto che volevo venire anch’io nell’orto.”
“Se muovi troppo la gamba c’è il rischio che ti si riapra la ferita.”
Io sbuffo.
“Bah, che cretinata.” Esclamo, saltando dalla sedia.
Mi precipito anch’io giù dalle scale, tuffandomi nella canicola rovente. Antonio abbassa gli occhi e io gli pianto il muso.
“Non pensare nemmeno di lasciarmi più da solo, chiaro?!” Gli sbraito contro, ma lui mi risponde con un sorriso, abbassando le palpebre sugli occhi scintillanti.
Sorride sempre, questo tizio. È insopportabile!
Mi sfrega i capelli con un palmo aperto, e la frangia mi si arruffa tutta.
“Hai ragione, Lovino. Non lo farò più.”
Io arriccio il naso, piegando le labbra in una smorfia. Una vampata improvvisa di caldo mi assale le guance.
“E non mi toccare.” Dico, sfilandomi dal suo tocco.
Supero Antonio a capo chino, stringendo i pugni vicino ai fianchi. Dopo solo tre passi il piede già affonda nella terra soffice, calpestando una radice di pomodoro che striscia tra le zolle scure.
 
“Lovino, ma che fai?” Esclama il bastardo, inarcando le sopracciglia sotto la fronte aggrottata.
Io richiudo lentamente la bocca, spalancata davanti al pomodoro che stringo tra le dita. Ruoto gli occhi sulla sua espressione di rimprovero, distaccandoli dalla superficie rossa dell’ortaggio, liscio e morbido sotto i miei polpastrelli. Una goccia di saliva mi scivola fin sotto il mento.
Antonio rizza la schiena, rimanendo in equilibrio solo sulle ginocchia nude immerse nella terra. Appoggia il cesto vicino alla treccia di rametti e foglie che si contorcono sopra i pomodori maturi, rigurgitati dalla terra come grossi rubini. Antonio si posa una mano sul fianco, allungando il collo verso di me.
“I pomodori dovresti raccoglierli, non mangiarli.” Il suo tono non ha nulla di arrabbiato. Non sei nemmeno capace di incazzarti come si deve, idiota?
Io abbasso gli occhi, sempre con la mia solita aria imbronciata, e lancio un paio di volte il pomodoro per aria, a pochi centimetri dal mio palmo. Striscio con le ginocchia sul terriccio, mettendomi più vicino al cumulo di ortaggi maturi che fiorisce dall’orto. La terra umida e tiepida è davvero fastidiosa sulle ginocchia nude, devo cambiare posizione o non mi toglierò mai più di dosso questo prurito. Spero solo che la garza non si sporchi.
Sbuffo una soffiata d’aria dalle narici, sollevando il mento con atteggiamento altezzoso.
“Eddai, tu hai un orto intero. Che vuoi che sia per un pomodoro solo?”
“Sì, è vero, ma...” Mi risponde lui, riprendendo in mano il cesto riempito solo a metà.
Guarda l’ammucchiata di pomodori e si rattrista, abbassando le palpebre.
“Quest’anno, purtroppo, il raccolto è stato piuttosto misero. La causa devono per forza essere le piogge scarse, così il terreno non ha potuto fertilizzarsi a sufficienza.”
“Eh? Ma che dici, sei rimbambito?” 
Inizio a ruotare la testa intorno a me, ispezionando il piccolo campo brulicante di pomodori.
“Io qui ne vedo tantissimi. Sei tu quello che è diventato cieco.” Sbotto e lui si lascia scappare un risolino, soffocandolo tra le labbra.
Antonio si china sulla terra, affondando le mani dentro ad una grossa zolla. Strappa con un colpo secco una radice verde, che si spezza facendo il rumore di un ramoscello vivo e pieno di linfa. Antonio raccoglie il pomodoro, avvolgendolo tra le dita con una presa morbida e delicata.
“Hai ragione, Lovino. Non è il caso di preoccuparsi tanto.”
Allunga il braccio verso di me, facendo scorrere i polpastrelli sulla buccia del pomodoro, spolverandolo dai granelli di terriccio.
“Puoi mangiarne quanti ne vuoi.” Mi dice con un sorriso caldo, ancora più del sole che batte sulle nostre teste.
Io mi mordo un labbro e le mie guance si gonfiano come quelle di un rospo imbronciato.
“Beh, è il minimo, dopo tutto il lavoro che mi fai fare, razza di bastardo sfruttatore.” Borbotto e agguanto il pomodoro con una gesto rapido, strappandoglielo dalle mani.
Affondo i denti nella polpa, lacerando la buccia. Lascio affogare la lingua nel sugo dolce, mentre Antonio scuote la testa, sempre con quel suo sorrisetto da idiota.
 
Ora si respira meglio. Traggo una profonda boccata d’aria fresca, abbandonandomi sulla sedia di paglia imbottita, all’ombra del terrazzo. Mi lascio scivolare fino in fondo allo schienale. Socchiudo le palpebre, che mi riparano gli occhi dal sole che sta scomparendo dietro al boschetto. Una palla rossa inghiottita dalle chiome scure.
Una bava di vento mi passa tra i capelli, facendomi il solletico alle orecchie. La fronte imperlata di sudore si rinfresca sotto quell’arietta che è come un balsamo divino.
Anche Antonio sospira, sistemando la cesta vicino all’ultimo gradino della veranda, di fianco alla ringhiera in legno. Si appoggia di peso sul cornicione, incrociando le braccia sudaticce davanti al petto. Lascia ciondolare la testa sopra le mani e alcune ciocche di capelli vanno a coprirgli le dita.
“Uff, abbiamo fatto proprio un bel lavoro. Vero, Lovino?” Mi chiede, asciugandosi la fronte con un braccio.
I capelli gli rimangono incollati sulla fronte.
Io socchiudo le palpebre che iniziano ad appesantirsi, lasciando che la stanchezza mi trascini dentro all’imbottitura della sedia. Agito le gambe un paio di volte ma smetto subito, sono pesanti come macigni. Ruoto le pupille verso il ginocchio. La vista inizia già ad annebbiarsi, abbagliata dal riverbero del sole che allunga le ombre su tutto il prato. La garza è sporca, ma almeno il taglio non brucia più.
“Se lo dici tu...” Borbotto con un filo di voce.
Le mie labbra rantolano suoni confusi, come dei gorgoglii. Antonio alza il naso all’orizzonte, mettendosi il palmo della mano davanti alla fronte.
“Accidenti, tra poche ore sarà buio.” Mi dice, ma il suono si fa sordo e lontano. “Forse, dovresti tornare a casa. Tuo nonno sarà...”
La sagoma di Antonio si annebbia, e ben presto viene divorata dal nero che mi invade la vista. Le palpebre si chiudono lentamente, serrandosi in una morsa che mi imprigiona gli occhi straziati. Lascio cadere la testa su una spalla, e le labbra semiaperte sfiorano il braccio, ricoperto da una pellicola salmastra che mi fa pizzicare la lingua.
Maledetto sudore, maledetta fatica, maledetto lavoro. Maledetto Antonio!
 
La mia testa è un macigno. Un macigno imbottito di sabbia che mi trascina verso il basso, impedendomi persino di riaprire gli occhi. Il grido assordante di una cicala soffia via una spolverata di quella fottuta sabbia, alleggerendomi il peso sul collo.
Ogni cosa sotto di me traballa, come se mi stessero ritmicamente colpendo dal basso. Tutto quel trambusto mi aiuta a sollevare le palpebre. Un minuscolo spiraglio si schiude lentamente davanti alla mia vista, ma i miei occhi puntano il buio.
Il coro di cicale mi solletica l’orecchio, ma è letteralmente calpestato da un suono più secco e forte, che si ripete ogni volta che il rimbalzare sotto di me mi colpisce la pancia. È un rumore familiare, che ho sentito un centinaio di volte. Sono pietre che scrocchiano, mescolandosi tra di loro come se qualcuno le stesse masticando.
Sbatto le palpebre, pesanti come blocchi di cemento, e il nero sbiadisce. Le sagome degli alberi sono circondate dal blu scuro della notte. Dai tronchi si allungano ombre spettrali, che diramano sul letto di ghiaia e sabbia che serpeggia nel boschetto.
Allargo le narici, riempiendomi di quell’aria più fresca, ma ancora umida come una boccata di vapore tiepido.
Un altro colpo sotto di me, più forte, mi fa sbattere il mento su qualcosa di ruvido e pizzicante. La pelle sotto la mia gola è umida e calda, chissà da quanto tempo sono appoggiato in quella posizione? Sfrego le dita intorpidite, tastando il tessuto che mi gratta la faccia.
Solo ora mi rendo conto di essere davvero in alto e che, soprattutto, la stradina bianca e grigia si sta muovendo sotto i miei occhi. Ruoto lo sguardo annebbiato alla mia destra, e il mio naso si tuffa dentro alla chioma castana di Antonio, facendomi il solletico su tutto il viso.
Sento la presa di un suo braccio farsi più forte intorno alle mie gambe e lui mi sistema meglio sulla sua spalla con una leggera spintarella. Stavo scivolando per davanti e sarei finito col sedere sulla terra dura e sassosa.
Giro il capo davanti a me, lasciandolo ciondolare insieme alle braccia sulla sua schiena. Mi aggrappo con le dita al tessuto della maglia e affondo il viso nella stoffa, chiudendo di nuovo gli occhi.
È colpa sua se ora mi riaddormenterò, i suoi passi sono troppo lenti e morbidi. Non è così che si cammina, porca miseria!
Mi è tornato sonno.
 
Il rumore delle cicale è svanito.
A farmi riaprire gli occhi, questa volta, è il cinguettio di un passero che canticchia una stupida canzoncina. Un fruscio d’ali interrompe la sua esibizione, portandosi via quel pigolare. Se n’è andato. Bravo.
Le palpebre iniziano a vacillare, solleticate da un debole raggio tremolante che mi sfiora la fronte, scendendo fino alla base del naso. Agito le mani, strofinandole sul tessuto decisamente più morbido della maglia di Antonio. Anche la faccia è premuta dentro a quel paradiso di sofficità, così riesco ad aprire solamente un occhio e a respirare l’aria densa e speziata di casa mia solo con una narice.
Sì, la finestra che vedo oltre la ringhiera del letto è decisamente quella della mia camera. I vetri sono trapassati dai raggi bassi e ancora rossi del sole di prima mattina. È sorto solo da poche ore, immagino.
Traggo un profondo respiro ruotando il capo, comodamente tuffato nella stoffa profumata, verso il basso, spremendolo dentro alla coperta che avvolge il letto. Inarco lentamente la schiena ingessata, facendo forza sui palmi delle mani premuti sul materasso vicino ai miei fianchi. Inclino la testa all’indietro e mugugno dei rantolii confusi tra le labbra arricciate.
Mi porto un pugno chiuso davanti al viso, stropicciandomi gli occhi ancora assonnati. Quando li riapro, una sagoma sfocata sul bordo del letto si allunga verso di me, ingrandendosi.
“Ah, buongiorno, Lovino. Hai dormito bene?”
Che palle. Anche oggi Feliciano si è alzato prima di me.
Grugno qualcosa tra i denti, e delineo bene i bordi della figura di mio fratello, accovacciato di profilo sul materasso, con i piedi nudi ciondolanti sul pavimento. Stringe una mano sul cuscino di fianco a lui e se lo porta al petto, coccolandoselo come un cucciolo.
Io digrigno i denti, e i miei piedi sbattono sulla ringhiera inferiore del letto.
Non si sono nemmeno degnati di farmi appoggiare la testa sul cuscino, quei bastardi.
Striscio sul materasso, facendo scivolare le gambe davanti alla schiena dritta , incrociandole. Gli occhi mi cadono sulla garza stretta attorno al ginocchio. È sporca, tutta impolverata di terra, ma la ferita è ancora protetta.
“Assolutamente no.” Rispondo con uno sbuffo, distogliendo lo sguardo da Feliciano.
Lui butta la testa all’indietro, senza mollare la presa sul cuscino, cercandomi con gli occhi.
“Ma se hai persino russato!” Ridacchia divertito.
Bastardo.
“Sai, sembravi davvero stanco. Quando ti abbiamo messo sul letto non hai fiatato. Dormivi così bene che il nonno non ti ha nemmeno voluto togliere i vestiti per metterti il pigiama. Non voleva disturbarti, e ha anche detto che se solo tu fossi così buono più...”
“Come sono tornato a casa?” Sbotto, interrompendo la sua fastidiosa parlantina.
Mi do una grattata alla nuca, scompigliandomi ancora di più i capelli già spettinati. Feliciano alza gli occhi al cielo e il suo viso torna serio.
“Ti ha portato a casa Antonio, ieri sera. Ha detto che ti eri addormentato sotto la sua terrazza e che non riusciva a svegliarti. Così ti ha caricato su una spalla e ti ha portato indietro.”
Io arriccio il naso, sentendomi le guance andare in fiamme. Faccio passare la mano tra i capelli verso la fronte, coprendomi il viso con un braccio.
“Ehi, io non... non l’ho fatto apposta. Non volevo addormentarmi, solo che...”
“Il nonno si è arrabbiato, Lovino.” Mi interrompe subito Feliciano.
La sua voce squittisce come quella di un topolino. Ha anche lo stesso suono malinconico.
Io spalanco le palpebre, sentendo un forte tonfo in mezzo al petto. Poi, il cuore si ferma. Sposto la mano dal mio volto, fulminando Feliciano con un’occhiata gelida che gli lancio da sotto la frangia.
“E per quale motivo l’ha fatto?” La voce inizia a tremarmi dentro la gola.
Feliciano solleva le sopracciglia, appoggiando la testa sul cuscino. Affonda completamente il mento dentro l’imbottitura piumata.
“Ha detto che non devi stare troppo fuori di casa, che non va bene che tu vada ogni giorno da Antonio. Il nonno si è arrabbiato anche con lui, gli ha detto che dovrebbe impedirti di entrare in casa sua, e che pensa che sia una brutta faccenda, il fatto che voi due stiate insieme così tanto tempo.”
Io mi mordo un labbro, nascondendolo fra i denti. La mia testa scatta di lato con un grugnito di disapprovazione, e la punta di un canino affonda nella carne. Non esce sangue, ma fa un male del diavolo.
“Che razza di cretinate sta dicendo, quel vecchio?” Sbraito con la voce ancora arrochita dal dolore.
Sollevo un palmo della mano verso l’alto, aggrottando la fronte. “Che male può esserci nell’imbambolare una persona che ti offre del cibo senza nemmeno fartelo pagare? Non so di cosa si preoccupi il nonno, ma se conoscesse bene Antonio capirebbe che non è altro che il più grande fesso mai apparso sulla faccia della ter...”
“È proprio questo che non piace al nonno, Lovino.” Piagnucola Feliciano, stringendo le mani attorno al cuscino.
Io lo squadro con la coda dell’occhio. Appoggio la mano alzata su una coscia, contorcendo le dita attorno alla pelle liscia e morbida.
Feliciano abbassa la fronte.
“Il nonno ha detto che non si fida e che potrebbe essere una persona cattiva, in realtà. Che potrebbe farti del male, Lovino.”
Strabuzzo gli occhi allucinati, e il sangue mi si ghiaccia nelle vene.
“Che cosa stai dicendo, Feliciano?!” Gli urlo, ringhiandogli contro.
Feliciano annaspa, nascondendo il viso dietro al cuscino.
“Io... io non lo so. È stato il nonno a dire che è... che è pericoloso e che non bisogna fidarsi degli estranei che ti danno troppa confidenza.”
“Tu non lo conosci nemmeno!” Tuono, gettandomi su di lui con uno scatto.
Affondo le dita nella stoffa del cuscino come a volerlo sbrindellare per scarnificare Feliciano. L’imbottitura lo protegge.
“Tu e il nonno non siete altro che dei bastardi se vi mettete a lanciare accuse su Antonio senza averci nemmeno mai parlato. Che cazzo volete sapere voi due, eh?!” Gli urlo nell’orecchio, con la bocca dilaniata dalla furia.
Feliciano inizia a tremare, piagnucolando come uno stupido poppante.
“Non... non ti arrabbiare, Lovino. Io non...”
“Io vi odio, Feliciano. Vi odio tutti e due!” La mia voce si fa più cupa e profonda, come se avessi vomitato quelle parole direttamente dallo stomaco.
Feliciano smette di singhiozzare, e solleva lo sguardo vacillante da dietro il cuscino.
“Ma... Lovino, che stai...?”
“A voi due non frega niente di me!” Esclamo con voce graffiante.
Sgancio le dita dalla stoffa, stringendo i pugni tremanti ai miei fianchi. “Tu e il nonno non mi considerate nemmeno. Non vi importa se io rimango da solo in disparte, vi frega solo di voi due.”
“Lovino, aspetta! Non dire...”
“No, fammi finire!” Ruggisco, puntandogli un indice addosso. “Se sto da solo allora va tutto bene, se sparisco da un’altra parte allora si scatena la tragedia, vero? D’improvviso vi importa del mio bene e di ciò che faccio.”
Deglutisco un boccone amaro, inarcando le sopracciglia. “E in più ve la prendete con Antonio. Voi due bastardi volete solo... volete solo...”
Digrigno i denti in un ghigno selvaggio. Traggo un profondo e avido respiro con le narici.
“Voi due volete solo che io sia triste per l’eternità, vero? Scommetto che se ci fosse la possibilità di sbattermi fuori dai piedi lo fareste all’istante!”
“Non è vero, Lovino! Smettila di dire assurdità!” Esclama Feliciano, e le sue guance si colorano di rosso.
Trattiene un lamento tra le labbra vacillanti e lascia cadere il cuscino per terra. Si china su di me, avvolgendomi il pungo rabbioso e tremante con entrambe le mani. Le sue dita scorrono sulla mia pelle, accarezzandola dolcemente. Le mie vene s’ingrossano, il sangue pulsa sotto i morbidi polpastrelli di Feliciano.   
“Io e il nonno ti amiamo, lo sai anche tu. E non permetteremmo mai che ti accada qualcosa di brutto. Ti staremo sempre accanto, Lovino, ogni volta in cui avrai bisogno di noi.” Mi dice, allargando un sorriso tra le guance arrossate.
Io stropiccio lo sguardo, guardando le sue mani che coprono la mia con la fronte aggrottata. Chiudo le palpebre, piegando all’ingiù un angolo della bocca.
“Tutte balle. Mi abbandonereste, ne sono certo.” Sbotto, ma Feliciano scuote la testa.
“No, Lovino. Il nonno ti vuole bene e, indovina un po’...”
Io socchiudo un occhio. Feliciano, davanti a me, piega la testa di lato sorridendo come il sole.
“Anche io te ne voglio tanto e ti prometto che non ti abbandonerò mai, qualunque cosa dovesse succedere.”
Il mio viso si rilassa, e lascio che il broncio si sciolga come cera sotto il sole. Abbasso la testa, quasi sconsolato, continuando a fissare le sue mani che mi avvolgono in quella calda presa.
“Tu mi vuoi bene, eh?” Mormoro, facendo scivolare le parole giù dalle labbra come un fluido viscoso.
Strizzo le palpebre e mi torna in mente come hanno accusato quel fesso di Antonio solo perché mi regala i pomodori e perché si occupa di me più di loro. Penso che, quando non ci sono, il nonno si arrabbia solo perché perde il controllo su di me, altrimenti sgriderebbe...
Spalanco gli occhi, sentendo una vampata di calore stringermi in una morsa soffocante. La mia mano inizia a grondare di sudore, e le dita di Feliciano ci scivolano sopra. Scuoto la testa con un movimento meccanico, arrugginito, senza distogliere lo sguardo dal basso.
“No, Feliciano. Tu... tu non sei altro...”
Mi mordo un labbro, traendo un profondo sospiro dalle narici. Feliciano inclina il collo verso di me.
“Lovino, ma che...?”
“Tu non sei altro che un ipocrita, Feliciano!” Ruggisco, strappandomi dalla sua presa.
Ritiro il pugno sul petto, ancora chiuso, e mi massaggio il polso con le dita dell’altra mano. Squadro Feliciano con due occhi taglienti, affettandolo in due solo con uno sguardo. Lui si porta i pugnetti vicino alla bocca, la sua faccia diventa una maschera di confusione.
“Anche tu... anche tu sei come me, Feliciano. Mi vieni a dire queste cose, ma alla fine anche tu...”
 

Feliciano trema, e il suo viso si disseziona con un movimento rapido e scattante. Il suo volto è deformato da linee nere che lo trapassano come frecce.

 
Feliciano inarca le sopracciglia, e le sue palpebre iniziano a vacillare. Si giunge le mani sul petto, guardandomi con occhi lucidi e pietosi.
“No, non dire così. Ti prego, Lovino, io...”
“Oh, sì, Feliciano.” Gli ringhio, tendendo il collo verso la sua figura fragile e indifesa, quasi volessi divorarlo.
Quando vedo due lacrime affiorargli ai bordi degli occhi, arriccio il naso. Non sa fare altro che piangere.
“Cosa penserebbe il nonno se gli andassi a dire che...”
 

La stanza si offusca, risucchiata da mille vortici scuri. Dalle pareti inizia a colare un fluido denso e nero come pece che lacrima fino a depositarsi sul pavimento. L’oscurità ingloba l’intera camera, una macabra bolla che si gonfia tra le quattro mura.

 
Feliciano inizia a singhiozzare, e scuote la testa facendo ondeggiare i capelli sulla fronte. Strizza le palpebre, lasciando sgorgare i fiumi di lacrime che gli solcano le guance gonfie.
“No, non farlo. Ti prego. Tu non...”
 

Feliciano viene scosso da violente scariche. I suoi lineamenti si scompongono, assorbiti dal vuoto.

 
“Non dirglielo, Lovino! Lui non deve sapere che...”
 

Il nero inghiotte Feliciano e tutta la stanza, inglobando entrambi in un abbraccio di tenebra, che mi fa precipitare nel nulla.

 

***

 
Non riesco a respirare. Un duro e stretto anello mi strozza la gola, impedendomi di trarre un sospiro, di parlare, di urlare.
Il buio mi divora la vista, non riesco a capire se sono riuscito nell’intento di sollevare le mani per aggrapparmi a quella cosa che mi sta soffocando per strapparla via.
Il naso e le guance iniziano a pizzicarmi, gli occhi sembrano scoppiare fuori dalle orbite. Spalanco la bocca provando a prendere una boccata d’aria, ma la lingua è pietrificata sul palato.
Una forte scarica elettrica mi trapassa il busto, squarciandomi i polmoni in uno strappo rovente. La lingua si abbassa, lasciando libera la gola da cui fuoriesce un gemito straziato. Il petto si gonfia come un pallone, assorbendo ogni singola molecola di ossigeno che divoro in quell’unica boccata d’aria.
Spalanco gli occhi ma si accecano subito, abbagliati dalla lampada della stanza numero sei. Continuo a boccheggiare avide sorsate d’aria, inzuppato in un bagno di sudore gelido. Il mio corpo è tutto un tremito.
“Ohi, Ludwig!” Esclama Gilbert in lontananza.
Sento i suoi passi avvicinarsi. Il suo viso, già nitido e ben lineato, cala vicino al mio.  Gilbert allunga una mano sulla mia guancia, dandole un leggero schiaffetto.
“Cosa stai facendo? Non ti sembra di esserti dimenato troppo?”
Inarca un sopracciglio, piegando le labbra in una smorfia. “Che diavolo hai combinato, là dentro? Prima inizi a rotolarti come un indemoniato, ora ti svegli all’improvviso con una faccia da paura.”
Io tento di rallentare il respiro, e ruoto la testa al mio fianco, distaccandola dal riverbero bianco. Due cavi del Transfert vanno a infilarsi dietro al mio orecchio. Sono freddi, e un brivido mi corre sulla nuca.
Gilbert mi afferra una spalla, voltandomi nuovamente verso di lui. Assottiglia lo sguardo, impallidendo come un lenzuolo.
“Ehi, non dirmi che ti stava... insomma...”
“Stai bene, Ludwig? È tutto a posto, vero?” Esclama una voce di fianco a me. Squittisce come una paperella di gomma.
Io scuoto la testa. Mi massaggio una tempia coperta dalla fascia, poi volto il capo verso Feliciano, mettendomi a sedere. La testa mi gira un paio di volte, mi sono sollevato troppo velocemente.
Feliciano allunga il collo, guardandomi con occhi affogati nel cordoglio. Le pupille gli tremano come gelatina. Stringe una mano attorno al petto di Lovino, ancora abbandonato come un vecchio fantoccio sulle sue ginocchia. Fa scorrere l’altra mano tra i capelli del fratello, accarezzandogli la fronte visibilmente imperlata di sudore.
Lovino emette un gemito che si soffoca in gola. Stringe i denti, soffrendo come se lo avesse appena toccato con un ferro rovente. I cavi del Transfert gli serpeggiano da sotto la fascia come viscidi esseri intenti a divorargli l’intera testa. Una sua mano stringe un filo, quello blu. È rimasto annodato intorno alle sue dita.
Feliciano piega la bocca all’ingiù, interrompendo il suo continuo tremito.
“Ti prego, dimmi che state bene tutti e due.” Sibila con voce strozzata.
Io mi inumidisco le labbra screpolate con un filo di saliva e mi allargo il colletto del camice, stretto come una serpe attorno al mio collo.
“S-sì, per il momento. Per lo meno...”
Ruoto gli occhi, ispezionando la stanza bianca in cerca di Carriedo. Avvito il busto all’indietro, poggiando il peso su una mano incollata al pavimento. È sempre raggomitolato al muro, con la testa nascosta tra le ginocchia rannicchiate al petto. I suoi profondi occhi verdi mi spiano da sotto le ciocche castane. Sono immobili, incastonati come biglie inerti tra le sue palpebre.
Io alzo le sopracciglia, lasciando che una goccia di sudore mi righi la fronte per poi scivolare a lato del naso.
“Per ora non ho trovato alcuna prova contro o a favore di lui. Però, non capisco come mai il processo si sia interrotto così di colpo, non era mai capitato con gli altri pazienti. Non so cosa mi sia successo, ma forse... forse è solo...”
Torno a voltarmi verso mio fratello, e mi sfioro la testa con le dita tremanti.
“Forse è solo un po’ di stanchezza. Il Transfert deve aver ceduto involontariamente e mi sono trovato catapultato qui prima del previsto.”
“Prima del previsto?” Gilbert stropiccia il viso una smorfia. “Questo vuol dire che... che dovrai rifare tutto da capo?” Mi domanda, alzando il palmo della mano al cielo.
Si sta lamentando come se tutto questo toccasse a lui.
Io chiudo le palpebre, scuotendo il capo con un gesto lento.
“No. Io penso che i ricordi partiranno da dove si sono interrotti. Tuttavia, sì, dovrò rituffarmi nella mente di Lovino Vargas perché...”
Poso lo sguardo su Lovino, innocuo come un agnello in catene, con quell’espressione distrutta dipinta sul volto. Poi, alzo gli occhi su Feliciano.
Sono costretto a reggermi la testa con le dita, per evitare di svenire e di sbattere la nuca sul pavimento. Di nuovo quelle braccia nere che vorticano attorno a lui, anche se solo per un secondo.
“Ho ancora qualcosa da mettere in chiaro.” Concludo con voce più decisa.
Mi do una sistemata al Transfert, facendolo scivolare nella posizione corretta sulla fronte.
“Carriedo.” Sbotto, senza voltarmi verso di lui, però.
Sento la stoffa della sua divisa che si sfrega. Probabilmente ha alzato il capo.
Stringo le dita attorno alla fascia, traendo un profondo respiro dalle narici.
“Aspettami.”

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


CAPITOLO 11

 
Il disco arancione si abbassa, lasciandosi trascinare dentro al boschetto scuro, disegnato come un’enorme sagoma nera davanti al cielo roseo. La sua luce mi colpisce gli occhi in pieno, ma riesco a tenere aperte le palpebre senza troppa fatica. Sono quasi accarezzate dai tenui raggi solari che schizzano all’orizzonte, diramandosi su tutto il prato, allungando le ombre degli alberi sul manto d’erba.
Antonio si appoggia alla ringhiera della terrazza, buttando tutto il peso sulle braccia incrociate sulla barriera di legno. Ruoto il capo verso di lui, stringendo le dita attorno alla colonna per evitare di scivolare giù dalla ringhiera. Annodo le gambe attorno al legno, caldo, quasi bollente, rimanendo in perfetto equilibrio con la schiena ben dritta.
Antonio socchiude le palpebre, affondando il viso nella luce rossastra che gli fa brillare la pelle come bronzo. Una bava di vento gli scosta una ciocca castana, spostandogliela davanti all’orecchio.
“Sai, Lovino, ero convinto che...” Mi dice, ruotando gli occhi che si incrociano con i miei. “Ero convinto che tuo nonno ti avesse impedito di tornare qua da me. Dopo la sfuriata dell’altro giorno, pensavo che ti fossi preso una bella strizza e che non ti saresti più fatto vedere.”
Io abbasso le sopracciglia, deformando la bocca in una smorfia. I nostri occhi non si scollano.
“Non m’importa un accidenti di quello che pensa quel vecchio. Io faccio quello che mi pare, con o senza il suo permesso. E poi...”
Ruoto il busto, appoggiandomi con il petto sulla colonna di legno, premendoci sopra con la spalla. Allungo il braccio, tuffandolo dentro alla cesta in bilico sulla ringhiera. Navigo con la mano tra i pomodori lisci e morbidi, ancora con la buccia tiepida e umida. Ne stringo uno tra le dita senza schiacciarlo troppo e raddrizzo nuovamente la schiena, portando subito l’ortaggio rosso come il fuoco davanti alle mie labbra.
“Quei due bastardi a casa mi fanno morire di fame. Almeno qui...” Spalanco le fauci, e addento il pomodoro con avidità, spremendolo sotto i denti. “Almeno qui posso mangiare in santa pace.” Concludo, con la bocca ripiena di poltiglia succosa.
Una goccia mi schizza fuori dalle labbra, piovendomi sulla gamba.
Antonio sorride, e le guance gli si velano di rosso.
“Oh, ma come sei gentile.” Mi dice con tono scherzoso. “Allora tu mi vieni a trovare solo per mangiarti i miei pomodori. Ah, che delusione.”
Lascia ciondolare la testa in mezzo alle spalle, e la frangia gli cade sulla fronte, sfiorando le braccia appoggiate al cornicione.
Io mando giù il boccone, che mi scivola nella gola rinfrescandola come un balsamo. Addento un altro morso, più piccolo, e inizio a masticarlo lentamente. Una guancia mi si gonfia, ripiena della sua polpa.
“Direi di sì. Sarai anche un inutile bastardo, ma i pomodori ti riescono proprio bene, devo ammetterlo.”
Deglutisco, poi socchiudo le palpebre, abbassando gli occhi sulla sua figura ancora china, abbagliata dal riverbero solare.
In fondo, è un bravo bastardo. Non riesco a capire di cosa si preoccupi tanto, il nonno.
Socchiudo le labbra, avvicinando il pomodoro mezzo mangiato alla bocca, già distendendo la lingua per avvolgerlo. Poi ci ripenso, e abbasso il braccio appoggiandolo sulla gamba. Stringo le dita attorno alla sua buccia, e spremo involontariamente qualche goccia che rotola su ginocchio.
“Sai, credo che il nonno ti abbia detto delle cose strane, l’altro giorno.” Mormoro, arricciando la bocca.
Antonio solleva il capo e aggrotta la fronte, squadrandomi con due occhi attenti. Una scintilla luccica attraverso i suoi iridi smeraldini.
Io scosto lo sguardo, ruotandolo sui miei piedi ciondolanti.
“Ecco, Feliciano mi ha detto che il nonno crede che tu possa farmi del male, per questo non vuole che io venga qui. Ma quel vecchio è stupido.” Traggo un respiro profondo, imbronciandomi in viso. “Ha detto che è pericoloso, il fatto che io resti tutto il giorno insieme a te. Spiegami cosa diavolo possa esserci di male. Insomma, di cosa dovrei avere paura? Che tu mi metta in catene e che mi obblighi a lavorare nel campo? Beh, in fondo lo hai già fatto, ma se...”
“Farti del male?” Mormora Antonio, raddrizzando la schiena.
Io annuisco, senza scollare gli occhi dal suolo. Lui fa scorrere le braccia nella ringhiera di legno, e solleva il naso al cielo, tuffandolo nella luce arancione del sole che ormai è già stato inghiottito quasi completamente dalle chiome degli alberi.
“Ah, oddio, ora capisco.” Mi dice, ridacchiando.
Ma è una risata seria, strana. Non mi piace come suona.
Si riappoggia con tutto il peso sul cornicione, ma ora è lui ad allontanare lo sguardo da me.
“Lascia stare, Lovino. Non è il caso che un bambino sappia queste cose.” Dice, scuotendo la testa.
Io alzo il capo, sollevando un sopracciglio. Pianto un broncio che mi scurisce tutto il viso, già coperto dall’ombra del tetto che si sta allargando su di noi.
“E perché no? Guarda che io sono già grande abbastanza. Se è una cosa che mi riguarda, allora ho il sacrosanto diritto di sapere su cosa stiate confabulando tu e il nonno di così segreto.” Sbraito.
Antonio si stringe le spalle, sempre nascondendo lo sguardo, e si sfrega la nuca con un gesto nervoso.
“No, Lovino. Non spetta a me dirti queste cose. Sei ancora piccolo e...”
“Tutte balle!” Ringhio.
Sollevo la mano annaffiata dal succo di pomodoro e mi lancio quel che è rimasto dell’ortaggio direttamente tra le fauci, buttandolo giù senza nemmeno masticarlo. Incrocio le braccia davanti al petto, arricciando il naso in una smorfia.
“Avanti, spiegami tutto quello che sta succedendo. Ora!”
Antonio fa scorrere le dita tra i capelli, emettendo un profondo sospiro. Volta il viso paonazzo davanti a sé, nascondendo l’imbarazzo con un risolino tirato.
“Beh... vedi... a volte capita che gli adulti facciano... certe cose, e... e va bene, certo, se sono gli adulti a farle. Ma... se vengono fatte sui bambini, allora diventano sbagliate.” Socchiude le palpebre, facendo tornare seria la sua espressione. “E imperdonabili, a parer mio.”
Rilasso i lineamenti del viso, ruotando gli occhi all’orizzonte. Stringo i pugni attorno alla ringhiera, e il mio respiro rallenta.
“Ah, ho... ho capito.” Mormoro, anche se non sono del tutto sincero. “Centra per caso con quelle cose che fanno i grandi nei film?” Aggiungo, arricciando le labbra.
Inarco un sopracciglio e lascio cadere la punta della lingua su un angolo delle labbra. “Insomma… quando si abbracciano, si baciano, poi una volta un tizio ha tolto la maglia all’altra tipa e si è messo a…”
“S-sì… ho… ho afferrato il concetto, Lovino.” Mi interrompe Antonio.
Strizza le palpebre, e il suo sorriso inizia a tremare, come se stesse per esplodere in una risata. Si nasconde il capo tra le spalle, continuando a grattarsi la nuca come un cane pulcioso.
“Più o meno è così.” Socchiude un occhio con gesto lento e timido. “Resta il fatto che non dovresti sapere queste cose.”
Io alzo le sopracciglia, abbassando le palpebre. Sollevo il naso al cielo, e il sole mi fa prudere la punta.
“Tanto mi fanno schifo. Non mi passa nemmeno per la testa di interessarmi di robe simili.” Scuoto la testa, aggrottando la fronte. “Io da grande non le farò mai.”
Antonio sorride, piegando la bocca in un’espressione dolce. I suoi occhi brillano di una luce calda e avvolgente, che sembra quasi accarezzarmi.
“Bravo. Ma ora non ci pensare più.” Dice, sospirando. “Tu pensa solo a essere ubbidiente e a non fare più arrabbiare tuo nonno. So che ora potrebbe non sembrarti vero, ma lui ti vuole bene, Lovino.”
Io torno scuro in volto, e getto il capo di lato con un gesto deciso. Stringo i denti, e lo smalto stride come un violino scordato.
“Non è vero. Smettetela di dirlo. Lui e Feliciano mi abbandonerebbero anche subito, se ne avessero l’occasione.” La voce mi trema, diventa più cupa.
Antonio si avvicina, facendo strisciare le braccia sulla ringhiera. Il suo sguardo è sempre incollato al sole che tramonta.
“No, Lovino, sei tu che stai abbandonando loro, venendoti a rifugiare qua da me ogni giorno. Sai, se solo tu provassi ad avvicinarti un po’ di più...”
“Stai dicendo che vorresti lasciarmi solo pure tu?” Gli ringhio, dilaniandolo con due occhi infuocati.
Lui scatta, poi torna a sorridere, addolcendo lo sguardo.
“Ma cosa dici? Sai che non ti abbandonerei mai, Lovino.”
Allunga una mano verso di me, posandola delicatamente sulla testa. Fa scorrere le dita tra i capelli, arruffandomi la frangia.
“Te lo prometto.” Mi dice.
Sento le guance andarmi a fuoco. Nascondo il rossore imbronciando il volto e gonfio le guance come quelle di un rospo, arricciando la bocca.
“Non mi toccare, bastardo. E smettetela tutti di promettermi stupide cazzate, va bene?”
Antonio abbassa la testa, senza sciogliere il sorriso, e lascia scivolare le dita giù dalla mia fronte. Si porta la mano vicino al petto, incrociando di nuovo le braccia sul cornicione.
“Hai ragione, Lovino. Perdonami.”
“No che non lo faccio.” Sbotto, tornando a posare gli occhi sulla palla di fuoco che si sta lentamente spegnendo, divorata dal blu della notte.   
 
“Lovino, fermati! Dove stai andando?”
Feliciano si appiglia al bordo della mia maglia, la tira verso di sé strattonando la stoffa che mi avvolge la pancia. I suoi piedi tracciano il solco sulla ghiaia della stradina, i sassolini sotterrano la punta delle scarpe.
Io stringo i denti e continuo a camminare, non mi interessa se la maglia si strapperà.
“Smettila, Feliciano. Vai al diavolo, maledizione!” Gli urlo senza nemmeno voltarmi.
Affondo le unghie nella carne delle sue mani che stringono attorno alla stoffa, ma la presa non cede. Feliciano piagnucola, soffocando i singhiozzi a denti stretti. Inizia a farsi pesante da trascinare.
“Non posso lasciarti andare, Lovino. Se tu vai, poi il nonno si...”
“Non mi frega niente, hai capito?!” Sbraito.
La mia testa scatta all’indietro. I miei occhi, oscurati dall’ombra della frangia, fulminano Feliciano già quasi in lacrime. Le sue ginocchia sono quasi del tutto piegate, il suo naso mi sfiora la coscia nuda, coperta dai pantaloni solo fino alla natica.
Il sole pesta su di noi, ma sembra abbia una particolare predilezione per mio fratello. Il viso latteo di Feliciano brilla, affogato nei suoi raggi che gli coronano i lineamenti come un’aureola. Feliciano risponde al mio ringhio furibondo con una smorfia sofferente. Il labbro inferiore gli trema.
“Lovino, ascoltami. Resta a casa, non voglio che tu ti metta nei guai.”
“Ma stai zitto, ipocrita!” Ruggisco, strizzando le palpebre. “Tu... tu non...”
Sollevo il ginocchio e ruoto la caviglia verso di me, scaricando tutta la rabbia che mi bolle dentro al petto solo nel piede alzato. Sprigiono tutta la furia accumulata in un calcio che vola dritto su Feliciano. Gli piomba in pieno petto, e mio fratello emette un gemito strozzato, quasi un tossito. Le sue dita sciolgono la morsa e graffiano l’aria, cercando un appiglio invisibile per parare la caduta.
Feliciano sbatte la testa nel terreno ricoperto dai sassolini aguzzi. Strizza le palpebre e i denti gli si serrano. Sta inutilmente provando a trattenere tutto il dolore in gola.
Io arriccio il naso.
“Ti sta bene.” Gli dico, strofinandomi la fronte già imperlata di sudore.
Serro i pugni sui fianchi e Feliciano si rimette seduto, raddrizzando la schiena con un movimento arrugginito. Ha solo un occhio aperto, gonfio e lucido, e con una mano si strofina la nuca impolverata. Una lacrima gli fiorisce dall’angolo della palpebra ancora chiusa.
“Perché fai così, Lovino?” Mi chiede con tono vacillante, già sull’orlo del pianto.
Io aggrotto la fronte, alzando le spalle fino a che non toccano i lobi delle orecchie.
“Perché io... io...”
Mi mordo un labbro, e i denti affondano nella carne. Una goccia di sangue mi scivola sulla lingua, il sapore del ferro si espande a macchia d’olio in tutta la bocca.
Feliciano continua a guardarmi con quell’espressione innocente, con la testa piegata di lato e le sopracciglia alzate.
Io sbuffo, poi volto i tacchi, facendo scricchiolare le suole delle scarpe sulla stradina.
“Bah, al diavolo.” Mormoro tra i denti digrignati.
Abbasso la testa e mi addentro nell’ombra del boschetto a passo pesante, macinando il terreno come a volerlo frantumare dietro di me.
Le cicale gridano come se le stessero sgozzando.
 
Bugiardo.
Schifoso, lurido, dannato bastardo di un bugiardo.
Antonio ride. Ride come se avesse il sole in bocca. Il sole vero, invece, mi sta divorando alle mie spalle. Mi brucia la pelle prendendola a scazzottate, alto sulla mia testa. Le foglie immobili, mezze secche e metà cadute morte, riparano ben poco da quella feroce palla gialla.
La poca ombra proiettata basta solo per nascondere il mio viso, buio e affossato sotto le frangia sudaticcia. I capelli si sono incollati tra di loro, raggruppandosi in grosse ciocche scure.
Il cuore mi si ferma in mezzo al petto, frantumando la cassa toracica con un unico, ultimo battito. I miei occhi spalancati sono irremovibili, l’iride ristretto trema come scosso da spasmi.
Le labbra di Antonio si muovono, ma il suo sguardo continua a sorridere. Inclina il capo alla sua destra e arrosisce, alzando le spalle con un gesto timido.
Io striscio le unghie sulla corteccia dell’albero, una scheggia mi penetra nella carne. Mi riparo dietro al tronco lasciando scivolare i piedi tra le radici, ma i miei occhi continuano a guardare.
La veranda è ben ombreggiata. Sembra fresca, adatta ad una giornata soffocante come questa.
Tre gocce di sudore mi rotolano sul collo, infilandosi dentro alla maglia. Quando arriva in fondo alla schiena, un brivido mi scuote la spina dorsale.
Le labbra di Antonio si muovono. Balbettanti, impacciate, ma non mi arriva alcun suono. Sono troppo distante. Oppure, semplicemente non ho voglia di ascoltare. Antonio solleva il braccio sopra la testa, poi lo lascia cadere, leggero come una piuma, attorno alle sue spalle. Gliele avvolge in un morbido abbraccio, lei ride a sua volta, lasciandosi trasportare vicino al suo petto.
Troia.
Antonio le passa una mano tra i capelli fulvi, quasi castani sotto quell’ombra, e inizia a giocherellare con i nastri che le legano le ciocche, sopra le orecchie. Lei arriccia il naso, e trattiene una risata cavallina portandosi una mano davanti alle labbra. Si squaglia come burro sotto il sole, in quell’abbraccio, cadendo tra le braccia di Antonio come colta da un sonno improvviso. I due arricciano i nasi, le punte si avvicinano sfregandosi tra loro.
Lei ride un’altra volta, abbandonata sul petto di Antonio, protetta dalle sue braccia che le cingono i fianchi. Lo guarda inclinando il capo all’indietro, e Antonio abbassa la fronte, avvicinando il viso al suo.
Io arretro di un passo, l’erba secca si strofina come paglia sotto le scarpe. Il sangue mi si ghiaccia nelle vene e il mondo comincia a girare.
Le cicale continuano a gridare. Mi assordano, e il cerchio attorno alla mia testa si stringe, spappolandomi le tempie.
“Ma cosa dici? Lo sai che non ti abbandonerei mai, Lovino.”
Bugiardo. È solo un bugiardo.
Do le spalle alla casa che dà sull’orticello, ma le scintille bianche mi ostruiscono la vista. Chissà se mi sono voltato verso la via di casa?
“Te lo prometto.”
Tutte cazzate.
Piego la schiena, pesante come se stessi trasportando un macigno sulle spalle, e mi appoggio le mani sulle ginocchia. Gli occhi puntano nel vuoto. Provo a socchiudere le labbra serrate, ma non riesco a farci passare nemmeno un filo d’aria.
Un uccello mi zampetta davanti, poi svolazza via, decollando a rasoterra.
Il groppo in gola si scioglie, e io divoro l’aria boccheggiando come un cane accaldato.
Le cicale continuano a gridare.
 
“Lui... lui me l’aveva promesso.”
Affogo la faccia tra le mani bagnate dal sudore che si spalma sulle palpebre, facendole bruciare come un urticante. Appoggio la schiena al tronco di un albero e piego le spalle in avanti, richiamandole vicino al viso. Scuoto la testa, le dita si sfregano tra i capelli umidi e appiccicosi.
“Perché tutti mi abbandonano? Cosa ho fatto di...”
Sollevo la faccia dalle mani, le guance mi si saranno arrossate come pomodori. Mi strofino il naso con il braccio, ostruito dalla soluzione salmastra che spurga dalla mia pelle. Dio... questa umidità mi mozza il fiato.
“Sono tutti dei bugiardi.” Ringhio, aggrottando la fronte. “A nessuno importa di me. Né al nonno, né a Feliciano, né tantomeno ad Antonio. Se penso... se penso solo a quanto sono stato stupido a fidarmi di lui, io...”
Sbraito una maledizione a mezz’aria. Uno stormo di uccelli si spaventa e fruscia via dalla chioma di un albero.
Traggo un respiro profondo e appoggio la nuca alla corteccia, ruvida, che mi gratta la pelle come una roccia acuminata. Socchiudo le palpebre, riparando gli occhi dai raggi solari che si insidiano tra le foglie.
“Se solo ci fosse un modo. Un modo per fargli capire che ha fatto un’enorme cazzata ad abbandonarmi. Del nonno e di Feliciano non m’importa, loro possono anche andare al diavolo. Ma lui me l’aveva promesso!”
Strizzo le palpebre, mordendomi il labbro solo con la punta di un canino.
“No, non può passarla liscia. Non s’infrangono le promesse in questa maniera. Gliela farò pagare.” Stringo un pugno, alzandolo al petto. “Sarà lui che verrà a chiedermi scusa in ginocchio, poi. E ci penserà due volte prima di abbandonarmi un’altra volta. Più ci penso e più mi viene voglia di prenderlo a pugni con le mie stesse mani, quel bastardo.”
Distendo i lineamenti del viso, le mie palpebre e la fronte si rilassano. I raggi del sole mi solleticano il naso, arrampicandosi come radici su tutta la pelle del viso.
“Ma come faccio a fargli capire che l’ha combinata grossa? Forse, se lo mettessi in imbarazzo davanti a tutti, allora verrebbe a supplicarmi di non spargere più in giro queste voci. E allora capirebbe che la colpa in realtà è solo sua, perché mi ha lasciato solo, che diavolo! Magari potrei dire che l’ho visto sbaciucchiarsi con quella là, io mi vergognerei tantissimo se...”
Il mondo intorno a me si ferma, l’aria ristagna come una nube bollente, intrappolandomi nel sua abbraccio rovente. Una vampata m’investe in piena faccia.
Un angolo della bocca mi si piega verso l’alto, deformandomi la guancia in un ghigno. Gli occhi mi si accendono come braci incandescenti.
“Ma certo!”
Le cicale continuano a gridare.
 
Il nonno è seduto vicino alla finestra, abbandonato con tutto il peso sullo schienale della sedia, quella sistemata a capotavola. L’odore della cucina m’inebria i sensi. Mi fa venire voglia di chiudere gli occhi e assaporarmi quel vortice di aromi e spezie.
Il nonno ha le palpebre socchiuse, sul viso ha stampato un sorriso da ebete, e si regge la guancia con un palmo della mano completamente affondato sulla metà del viso. Il gomito appoggiato sul tavolo slitta leggermente in avanti, rischiando di fargli sbattere il mento sulla superficie di legno.
Sta fantasticando. Lo fa spesso, e io mi sono sempre chiesto cosa gli passi per la testa in quei momenti.
Il sole basso lo avvolge con i suoi raggi arancioni proiettati dal vetro della finestra.
Io faccio un passo in avanti, spostandomi dall’architrave dell’entrata della cucina, e il rumore del mio piede che ricade sul pavimento lo scuote.
Si sveglia subito dal suo sonno mistico, e strabuzza gli occhi, ruotandoli verso di me con aria interrogativa.
“Lo... Lovino, da quanto sei lì?” Mi chiede, inarcando un sopracciglio.
Io non rispondo, e avanzo a passo felpato verso di lui. Le mani incrociate dietro alla schiena e la fronte bassa. I miei occhi, però, sono due lanterne ancora più abbaglianti del sole di mezzogiorno, puntate solo su di lui.
Davanti al mio silenzio, il nonno si allarma e ruota il busto sulla sedia, guardandomi con un’espressione seria.
“Va tutto bene, Lovino? Ti senti male?”
Io scuoto la testa.
“No, ma devo dirti una cosa.” Gli rispondo.
Il nonno esita e sgrana gli occhi, attraversati da una luce strana. Arriccia le labbra, poi si schiarisce la gola.
“D’accordo, dimmi pure.” La sua voce è ferma e decisa, ma il suo sguardo lo tradisce e inizia a vacillare.
Io mi avvicino ancora di più, aggrappandomi al suo ginocchio. Alzo la fronte, incrociando quei suoi occhi attenti.
“Posso dirtelo nell’orecchio?” Gli mormoro e lui aggrotta la fronte.
Il nonno mi cinge la schiena con un braccio e si abbassa, tendendomi l’orecchio come gli ho chiesto. Il suo respiro si appesantisce, e le sue dita stringono sulla mia pelle.
“Certo. Coraggio, Lovino.” Mi dice, abbassando anche lui il tono come me.
Io mi lascio scappare un sorrisetto senza farmi vedere, poi rilasso nuovamente le labbra, avvicinandole alla sua testa. Apro il palmo di una mano, coprendomi la guancia con un gesto lento, quasi timido.
“Devo dirti una cosa che mi ha fatto Antonio.”
 
Ora sto aspettando. Non devo fare altro.
Il cuscino spacca-schiena del mio letto mi avvolge l’intero collo, la testa sprofonda dentro alla sua stoffa rigida come il marmo. Ma ora non m’importa.
Abbasso le palpebre lentamente, rilassando le gli occhi, e distendo un lieve sorriso sotto le guance. Accavallo le gambe sul materasso, lasciando ciondolare un piede sul ginocchio dell’altra gamba.
“Ora voglio proprio vedere con che faccia si presenterà qui a chiedermi scusa.” Ridacchio, lasciando scivolare le mani dietro alla nuca.
La schiena distesa sul materasso inizia a farmi male.
“Credo che sarò disposto a perdonarlo solo se mi supplicherà in ginocchio. Anzi...” Continuo, alzando il naso verso il soffitto. “Mi aspetto come minimo la scorta dei suoi pomodori per un anno intero. Gratis. Beh, in fondo li ho sempre mangiati gratis, ma questa volta sono sicuro che avranno un sapore diverso. Il sapore della giustizia, sì!”
Ruoto il capo verso la finestra della camera, affogando l’orecchio dentro al cuscino.
Il sole è sparito. Anche l’estate sta giungendo al termine. Un cupo cielo plumbeo, carico di nuvoloni grossi e gonfi di pioggia brontola sopra il boschetto. La fioca luce grigiastra riesce a malapena a filtrare dal vetro, e illumina solo un piccolo angolo del pavimento, ricoperto da una sottile pellicola di polvere. Le nuvole si contorcono e si divorano a vicenda, brontolando e ruggendo come animali.
Io sollevo un sopracciglio.
“Tanto ora potrà avere tutti i pomodori che vorrà. Con questa pioggia imminente, l’orticello non riuscirà nemmeno a contenerli, di tanti che ne cresceranno.” Chiudo gli occhi, sorridendo con aria soddisfatta. “Le cose iniziano a girare bene. Sì, davvero bene.”
Un rullare di passi mi trascina fuori dai miei deliziosi pensieri. Socchiudo una palpebra e resto in ascolto, ma sempre con lo sguardo puntato sulla finestra. Il rombo si avvicina, poi si arresta dando un colpo secco proprio dietro di me. Il rumore dei passi scompare, sostituito dal respiro pesante di Feliciano.
Io mi volto lentamente, lasciando rotolare il busto sul materasso. Feliciano ha appoggiato una mano sull’architrave, che sta lentamente scivolando verso il suolo. L’altra è stretta attorno al ginocchio piegato, tremante come scosso da una scarica di spasmi. Tutto il suo corpo trema.
Non riesco a vedere i suoi occhi, sono nascosti dalla frangia che gli è caduta sulla fronte. Il busto di Feliciano si gonfia e si sgonfia come un palloncino, riempiendosi d’aria boccheggiata a fatica. Il respiro gli sprofonda nella gola mescolandosi a rantolii confusi.
“Lo... Lovino... devi...” Le parole gli si inceppano in bocca, come incise su un disco rotto.
Io alzo la schiena dal letto, chinandomi verso di lui. Tendo il collo, aggrottando la fronte con aria imbronciata.
“Che cosa vuoi, Feliciano?” Grugnisco, gonfiando le guance.
Feliciano solleva il capo. I suoi occhi lucidi s’infossano dentro al viso sciupato dalla fatica. Gli angoli delle labbra si piegano verso il basso e le sopracciglia s’inarcano in un’espressione sconvolta.
“Lovino... devi... devi correre subito. Stanno... stanno...”
Salto giù dal materasso con un solo balzo. “Riprendi fiato, maledizione!” Gli sbraito.
Pesto un paio di passi al suolo e abbasso lo sguardo sulla sua figura china.
“Si può sapere cosa diavolo sta succedendo?”
Feliciano sgrana gli occhi e il fiato gli si mozza in gola.
“Stanno portando via Antonio. Ci sono delle auto a casa sua e anche il nonno. Non so cosa stia succedendo, ma devi venire subito!”
Silenzio. Non sento arrivare più nessun altro suono dalla bocca di mio fratello.
Una morsa rovente mi stritola il cuore, squagliandolo dentro al petto. Sbianco in volto, la mia pelle diventa gelida e pallida come ricoperta da una maschera di neve. La gola è secca, ogni goccia di saliva evapora, lasciandomi la lingua all’asciutto e incapace di muoversi.
Provo a socchiudere le labbra, ma non succede nulla. Feliciano è sempre spiaccicato contro l’architrave, immobile, con i suoi occhi da cerbiatto puntati su di me.
Io arretro di un passo, le gambe arrugginite sembrano cigolare. Una scossa mi trafigge le tempie.
“Ma... cosa stai dicendo?”
 
Una goccia di pioggia, pesante come una lacrima di piombo, mi centra in pieno la fronte. Un’altra mi sfiora l’orecchio, sfrecciandomi di fianco al viso.
Alzo il naso al cielo. Le chiome degli alberi si muovono, scorrono come una pellicola sopra di me. Il cielo romba, tuona furioso. Le cicale hanno smesso di gridare.
Stringo i denti, senza smettere di correre, divorando il terreno a falcate feroci, che macinano la ghiaia sotto le suole. Butto la coda dell’occhio alle mie spalle e tendo l’orecchio. Feliciano è rimasto indietro e si trascina dimenando le braccia ai fianchi, come sperando di spingersi più avanti.
 Traggo una boccata d’aria, raccogliendo tutto il fiato che mi avanza nella gola. “Nessuno ti ha chiesto di seguirmi!”Gli urlo.
Feliciano fa una smorfia di fatica, piegando le spalle in avanti per correre più velocemente.
“Guarda che... che anche io... anf... sono preoccupato. Quegli uomini che sono scesi dall’auto facevano davvero paura, e anche il nonno era arrabbiatissimo. Non l’avevo mai visto così, Lovino. Ho avuto davvero paura. È successo qualcosa di strano?”
“E io... io cosa ne posso sapere, mi spieghi?”
“Pensavo... visto che tu e Antonio siete sempre insieme... magari tu potresti...”
“Ti ho detto che non ne so nulla, va bene?!” Esclamo, ruotando gli occhi davanti a me.
Non riesco ancora a vedere la casa, e nemmeno il pozzo. Solo scuri tronchi che si allungano verso il cielo come spettri ululanti.
“Piuttosto...” Borbotto, ripulendomi la faccia dalla pioggia.
Le nuvole iniziano a scaricare l’acqua su tutto il boschetto, le foglie tremano sotto le gocce che picchiano su di loro. La ghiaia comincia a impantanarsi, rimanendo incollata sotto le scarpe come calce fresca.
“Tu che cosa ci facevi là, Feliciano? Come hai fatto a scoprire che il nonno era andato a casa di Antonio e che delle macchine lo stavano prendendo, eh?” Tuono, digrignando i denti.
Feliciano esita, e rallenta il passo abbassando gli occhi sui suoi piedi.
“Ecco... io, veramente... stavo...” Non conclude la frase, le sue parole si spengono in un mormorio confuso che gli muore tra le labbra.
Io dilanio la bocca in una smorfia feroce, e volto di scatto il capo davanti a me, infischiandomi di lui. Lo butterei tra gli alberi con una spinta, ma non ho tempo da perdere.
Scarico tutta l’energia che mi rimane solo nelle gambe, facendo mangiare la polvere a quella mammoletta di Feliciano che non riesce a stare al passo.
“Lovino, aspetta! Non correre!”
Il rumore dei miei passi e lo scrosciare della pioggia coprono le sue parole, inghiottite dal bosco che mi sto lasciando alle spalle. Poi, finalmente, i tronchi degli alberi si aprono, la foresta scompare dietro di me.
Il cielo grigio, quasi nero, avvolge la piccola casetta come a volerla divorare in un solo boccone. La terra incrostata sulle ruote dell’auto bianca e blu sta scivolando via, annaffiata dalla pioggia.
Io mi nascondo dietro all’albero proprio come l’altro giorno ma, questa volta, è lo scrosciare del diluvio a tapparmi le orecchie. Le gocce gelide mi inzuppano i vestiti già incollati alla pelle, freddi e pesanti come una morsa di ghiaccio. I capelli grondanti mi rimangono appiccicati sulla fronte, inondata dallo scorrere dell’acquazzone. I rivoli diramano sulla pelle, rinchiudendo la faccia in una fitta rete d’acqua.
Solo pioggia, non sento nient’altro.
Nemmeno i due uomini che continuano a muovere le labbra, con i visi curi e gli sguardi di pietra che fissano Antonio dall’alto in basso. Antonio è chino sulle ginocchia, seduto sulla panchina con le mani tra i capelli. Il suo viso è sciupato, pallido come un lenzuolo. Gli occhi infossati nelle palpebre si gelano mentre guardano i suoi stessi piedi. Scuote la testa un paio di volte, balbettando qualcosa che non capisco.
La pioggia continua a cadere, trascinando le loro parole in un vortice scrosciante.
Un’altra figura sbuca da dietro la colonna. Prima non l’avevo vista, è rimasta lì dietro fino ad adesso. Quando quella sagoma assume i lineamenti del nonno, il sangue mi si gela nelle vene.
Pensavo fosse una balla. Pensavo che Feliciano me lo avesse raccontato solo per mettermi paura, invece il nonno c’è per davvero!
I suoi occhi sono spirali di fuoco, che vorticano nel viso livido di rabbia come mai l’avevo visto prima.
Io scuoto la testa. No... il nonno non si arrabbia mai, non l’ha mai fatto, non mi ha mia sgridato in quel modo. Perché... perché sta urlando in quella maniera contro Antonio?
Antonio inarca le sopracciglia, ruotando le pupille vacillanti verso di lui, ma continua a tenersi nascosto tra le spalle. Muove le labbra, ma riesce a comporre solo qualche sillaba.
Il nonno s’irrigidisce come una statua di pietra. Inarca le braccia, e le vene gli pulsano sulle mani, facendogli contorcere le dita. Si fionda su Antonio con uno scatto feroce, agguantandolo per la maglia come se lo volesse fare a pezzi. Ne sarebbe capace. Potrebbe trucidarlo come farebbe con un foglietto di carta straccia.
Ma non voglio che lo faccia. Perché sta succedendo questo?
Una vena pulsa sul collo del nonno, e lui continua ad aggredire Antonio che non fa altro che strizzare le palpebre, senza reagire.
Di nuovo una scossa mi fulmina il cervello. No... non può essere. Non possono aver fatto questo solo per... per...
I due uomini allontanano il nonno spingendolo in un angolo, ma ci pensano loro ad afferrare Antonio. Uno di loro lo prende per una spalla e lo inizia a trascinare verso i gradini della terrazza. L’altra persona è occupata a trattenere il nonno imbufalito in un angolo.
Il cuore mi martella nel petto, il ghiaccio nelle vene si scioglie, e il sangue inizia a ribollire.
Antonio è chino, la fronte nascosta dalla frangia e gli occhi bassi. L’uomo mastica qualche parola tra i denti, come se stesse abbaiando, ma Antonio non fa nulla.
Poi, accade qualcosa.
Una scintilla sotto i suoi capelli, un luccichio verde si alza, scivolando verso di me. Basta quello. Basta solo un secondo. E durante quel misero secondo i nostri occhi s’incontrano, fermando il tempo attorno a noi. Un solo suo occhio in mezzo alle ciocche castane, un solo mio occhio da dietro la corteccia bagnata. Sul mondo cala un drappo grigio che avvolge tutto ciò che ci circonda.
Sbianchiamo tutti e due, le nostre pupille quasi scompaiono dentro all’iride. La pioggia, però, riprende a scorrere.
Antonio si abbandona tra le braccia dell’uomo, piegandosi come un salice piangente. Non fa nulla per opporsi, ma lui sa che...
Socchiudo le labbra, lentamente. “No... fermi... lui...” Il mio sussurro si perde nel bosco.
La macchina lo inghiotte, ed entrambi gli uomini ci saltano sopra a loro volta. Il motore si accende, rombando, e l’auto mi passa di fianco con i tergicristalli al massimo. Una ruota sprofonda in una pozzanghera, annaffiandomi con quella sudicia acqua fangosa.
Il mio collo si gira, seguendo la corsa dell’auto.
È colpa mia.
“Fe... fermi!” Tuono.
Scatto come un cervo, iniziando ad inseguire le strisce delle ruote solcate sulla stradina. La pioggia mi martella sulla faccia e sul petto, le ciglia grondano, annebbiandomi la vista.
“È stato un incidente! Lui non centra nulla, è mia la colpa! Ho detto una bugia. Una bugia, avete capito?!”
Il mio corpo trema, ma non capisco se sia per il freddo o per la rabbia che mi bolle in ogni singola fibra.
“Portatelo indietro, bastardi! Non ha...!”
Il piede mi finisce in una buca, la caviglia si piega sotto il mio peso. Cado come uno stupido imbranato, parando il colpo con le mani che affondano nella poltiglia di sabbia e acqua. Le ginocchia strisciano per terra e i sassi aguzzi le graffiano come artigli. I palmi delle mani mi bruciano.
La pioggia continua a picchiarmi sulla schiena, le gocce cascano dalle punte dei miei capelli grosse lacrime.
“È stato un incidente. È stato un incidente. Io non volevo... non doveva finire così. No... non così...”
Stringo le dita attorno alla ghiaia e alzo la testa al cielo, lasciando che la faccia affoghi sotto la pioggia.
Riportatelo indietro!
Le nuvole continuano a tuonare.
 

***

 
C’è silenzio. Nessuno osa respirare, nessuno riesce a distogliere lo sguardo da me. Sei occhi che mi fissano.
Gilbert si piega in avanti, con le mani appoggiate sulle ginocchia e il collo teso verso di me. Inclina la testa di lato, come a voler cercare il mio viso, ancora sciupato dal brusco risveglio. Feliciano geme, deglutendo un grosso boccone di saliva che scivola a fatica giù per la gola secca. Stringe le dita attorno al corpo del fratello, se lo avvicina al petto fasciandogli le spalle con le braccia tremanti. La testa di Lovino ciondola, totalmente abbandonata tra le mani di Feliciano. La sua espressione non è mutata, ma ora i suoi capelli grondano di sudore gelido.
Butto la coda dell’occhio alle mie spalle, a capo chino, con i fili del Transfert che mi cascano sulla fronte e dietro le orecchie. Sbatto le palpebre un paio di volte, la vista è ancora annebbiata.
Il mio sguardo e quello di Carriedo si incrociano. Il mio da sotto la fascia di stoffa nera, il suo da sotto le ciocche scompigliate della frangia. Il ragazzo è immobile, con la testa allungata verso di me e gli occhi lucidi, pietosi. Dentro di sé sta tremando come una foglia.
“Allora, cos’hai scoperto?” La voce ansiosa di Gilbert mi coglie alla sprovvista, svegliandomi da quel trans.
Ruoto nuovamente la testa davanti a me e lui si è già scurito in volto. Stringe i pugni sulle ginocchia, facendo raggrinzire la stoffa dei pantaloni. Le nocche gli diventano bianche.
“Dai, non tenerci sulla spine.” Continua, aggrottando la fronte. “Dobbiamo linciarlo, oppure no?”
Tutto il viaggio nella testa di Lovino Vargas torna a scorrere nella mia mente come il nastro di una pellicola. Chilometri di diapositive che sfrecciano, accerchiandomi la fronte con una anello ancora più stretto e pesante del Transfert.
Mi poso una mano sul petto, stringendo le dita attorno al camice. Il cuore sta ancora martellando, lo sento pulsare sotto la mia pelle. Mi inumidisco le labbra, secche e asciutte, e una goccia di sudore mi scivola dietro alla nuca, bagnandomi il collo già umido.
“Sicuramente, è stata in assoluto l’esperienza più traumatica che io abbia mai vissuto grazie all’aiuto del Transfert, fino ad ora.” Dichiaro con voce ferma.
Gilbert sgrana lo sguardo, dilaniando la bocca in un ghigno di disprezzo. Ruota le pupille mirando il muro dietro di me, due fiamme roventi puntate contro Carriedo.
“Tu, bastardo...”
“Quello che voglio dire...” Lo blocco subito, alzando il tono.
Mi appoggio una mano gelida e sudata sulla gamba, voltandomi verso Carriedo. Sollevo le sopracciglia, e il mio viso si distende.
“Quello che voglio dire è che la vostra storia è forse ancora più assurda di quella di Jones e Kirkland, per quanto mi riguarda.”
Carriedo inarca un sopracciglio. Ovviamente, non può sapere di cosa io stia parlando.
Gilbert s’irrigidisce, poi si mette al mio fianco guardandomi dall’alto. Si sposta con movimenti rigidi e meccanici, come se avesse le articolazioni arrugginite.
“Cosa stai dicendo, Lud? Cosa centrano loro due, adesso?” Mi chiede con voce impastata.
Io aggrotto la fronte, senza smuovere lo sguardo dallo spagnolo.
“Carriedo, hai almeno una minima idea di tutte le sofferenze che vi sareste risparmiati entrambi, se solo uno di voi due avesse detto la verità?”
Carriedo spalanca le palpebre e il fiato gli si mozza in gola. Feliciano piagnucola alle mie spalle, dopo infiniti attimi di silenzio.
“Che... che cosa vuoi dire, Ludwig?” Domanda con voce vacillante. “Che nemmeno Lovino ha detto la verità? Che era un bugiardo?”
Io mi porto una mano sotto il mento, massaggiandone la punta.
“Non esattamente.” Rispondo. “Riguardo tuo fratello, si tratta più specificatamente di quello che non ha detto, perché l’ha dimenticato. Tutto quello che ho visto durante il processo del Transfert non era mai emerso durante le normali sedute, e questo è avvenuto proprio a causa di uno dei sintomi principali dell’isteria.”
Feliciano arriccia lo sguardo, piegando la testa di lato. Sembra quasi che debba spuntargli da un momento all’altro un punto di domanda dipinto sulla fronte. Gilbert aggrotta le sopracciglia, piegando gli angoli della bocca verso il basso.
“Spiegati meglio. Non ci sto capendo nulla.” Ordina.
Io mi schiarisco la voce.
“Certo. Vedete, prima, se non sbaglio, vi avevo già detto che una delle cause principali dell’isteria è il trauma rimosso che s’insinua nel subconscio del paziente per poi emergere sotto forma di lapsus e attacchi violenti.”
“Sì, sì, va bene. E poi?”
“Lasciami finire, Gilbert. Nascondendosi in quella determinata zona del cervello, il ricordo viene dimenticato, ma solo superficialmente. È per questo che Lovino non ricordava nulla di questi episodi ed è per questo che non ha riconosciuto Carriedo quando lo abbiamo fatto entrare.”
Sollevo le mani verso la fronte, affondando le dita tra i capelli in cerca della chiusura della fascia.
“Noi pensavamo che...” Proseguo con voce più ferma. “Pensavamo che il trauma in questione fosse proprio l’abuso fisico e psicologico da parte di Carriedo. A sostenere la tesi, poi, c’è anche il fatto che i due casi sono tutt’ora collegati.”
Strappo il velcro, lasciando che il Transfert scivoli in mezzo alle mie gambe trascinandosi dietro i cavi che si raggomitolano ai miei piedi.
“Ma non è stato quello, il nostro trauma. Dico bene, Carriedo?”
Lui abbasso lo sguardo, nascondendolo sotto i capelli. Stringe le unghie attorno alla stoffa dei pantaloni che gli fasciano le gambe ancora incrociate.
“Tu non hai mai toccato Lovino.” Dico con voce morbida.
Lui singhiozza, e la sua schiena si alza come attraversata da una leggera scossa.
“Non ne saresti stato mai capace.”
Carriedo stringe i denti, lo stridere dello smalto è udibile fino a qui. Inarca ancora di più la schiena verso le ginocchia e soffoca a fatica il pianto nella gola. Affonda il viso nel palmo della mano, tuffandola nei capelli che cascano dalla fronte. Le lacrime iniziano a scivolare tra le dita, sgorgando come acqua di sorgente appena sciolta dal ghiaccio. La mano è zuppa, grondante del suo pianto amaro.
“Io... io pensavo...”
Carriedo guaisce come un cane bastonato, liberando tutta la tensione che si è accumulata in undici anni dentro alla sua mente, dentro al suo cuore. Undici anni di sofferenze e di angosce che si sciolgono in questo unico attimo.
“Io non... non potevo confessare. Avevo capito... io avevo capito com’erano andate le cose, ma... ma se lo avessi incolpato, allora Lovino avrebbe passato guai ancora più seri. Non potevo permettere di...”
“Guai ancora più seri?” Intervengo, aggrottando la fronte. “Ti ricordo che Lovino Vargas si trova rinchiuso in questa clinica da tre anni, e tutto a causa del tuo silenzio.”
“Non potevo addossare la colpa su di lui!” Tuona Carriedo. L’eco della sua voce rimbomba sulle quattro mura della stanza.
“Ne passava già tante...” Continua, scuotendo la testa. “Sarebbe stata l’ennesima bastonata che avrebbe ricevuto dal mondo. Io non potevo, non potevo, capisce?”
Io resto in silenzio e il mio respiro rallenta. Una morsa mi stringe il petto.
C’è più umanità in queste otto stanze che in tutto il mondo messo assieme.
“Perché non hai detto nulla, quando ho dato inizio all’operazione col Transfert su Lovino?” Gli domando. “Eppure, prima di cominciare, ti avevo chiesto una conferma, e tu saresti stato libero di smentire tutto. Avresti potuto spiegarci i fatti com’erano realmente accaduti, e tutto si sarebbe risolto.”
“Francamente, non pensavo che avrebbe funzionato.” Mi risponde, assottigliando le palpebre.
Si stringe le spalle, nascondendosi tra le sue stesse braccia.
“E poi, sarebbe risultata una scusa poco convincente, detta dopo anni di bugie. Non mi avreste di sicuro creduto. Ho pensato che il mio silenzio sarebbe stata l’unica arma a favore di Lovino. In ogni caso, lui sarebbe uscito dal Welt. Non mi spaventava l’idea di dover rimanere dentro, perché sapevo che lui sarebbe tornato a casa.”
Io aggrotto la fronte. Sta iniziando ad asciugarsi dal sudore, e il leggero spiffero che entra dalla porta mi fa scorrere un brivido sulla schiena.
“Sei rimasto della stessa opinione anche dopo aver saputo che Lovino si trovasse qui? Capisco il tuo silenzio degli anni passati, ma poi…”
“Sarei stato un vigliacco!” Mi interrompe Carriedo, strizzando le palpebre. “Io ero già accusato, tanto valeva continuare la recita fino in fondo. In ogni caso, che il processo fosse andato bene o male, Lovino sarebbe stato salvato.” 
Gilbert si porta un indice vicino alla tempia, massaggiandosela con la punta del dito.
“Aspettate, volete dirmi che in realtà lo spagnolo non ha mai fatto nulla?” Domanda con voce incalzante.
Carriedo scatta, sollevando il capo dalla mano fradicia. Il suo viso arrossato e umido brilla sotto il riverbero delle lampade. I capelli si sollevano, ondeggiano sopra la sua fronte come mossi dal vento. Gli occhi verdi riprendono a splendere, ma di una luce vera, viva.
Carriedo inarca le sopracciglia, piegando la bocca in un lamento.
“Come avrei mai potuto fargli del male?!” Urla, liberando l’ultimo pianto. Un grido che fa scivolare via tutto il dolore degli ultimi anni,che si è depositato sulla sua pelle come uno strato di polvere grigia.
Gilbert aggrotta la fronte, ruotando gli occhi al cielo.
“Un attimo... fatemi capire. Vuol dire che loro due sono qui perché...”
“Carriedo è qui per una bugia di Lovino.” Intervengo subito, abbassando le palpebre. “Mentre Lovino è qui perché si è ammalato d’isteria a causa di una bugia di Carriedo. È stato proprio quell’amaro senso di colpa, il trauma da noi tanto cercato. Deve essere stato un vero e proprio shock, vedersi portar via la propria figura di riferimento da sotto gli occhi. Per uno sbaglio dello stesso Lovino, poi.”
Chino il capo verso il pavimento, lasciandomi scappare una sbuffata che ha del divertito. È tutto troppo assurdo.
“Sono entrambi rinchiusi al Welt per colpa dell’altro. Anche se involontariamente.”
Feliciano abbassa gli occhi su Lovino, e una scintilla gli illumina lo sguardo. La bocca si distende in un lieve sorriso che gli vela le guance di rosso.
“Questo vuol dire che... che abbiamo trovato la cura? Che Lovino può guarire e tornare a casa?” Esclama di gioia, ma la sua voce è ancora scossa.
Lovino si agita nel sonno e arriccia il naso, gemendo debolmente tra le labbra. La sua mano si stringe attorno alle dita di Feliciano con un gesto lento e stanco.
Io rilasso i lineamenti del viso, scuotendo la testa.
“La cura è già stata messa in atto, Feliciano.” Gli rispondo con un tono quasi paterno. “Vedi, un’altra delle caratteristiche dell’isteria è proprio che, quando il ricordo riaffiora dal subconscio e viene vissuto nuovamente, allora i sintomi spariscono e il paziente può considerarsi clinicamente guarito. Certo...” Proseguo, portandomi una mano sotto il mento. “All’inizio potrà essere doloroso per Lovino, ricordare ciò che è successo. Ma la sua aggressività eccessiva sparirà e lui potrà tornare a condurre una vita normale.”
Feliciano si illumina più del sole. Le sue labbra si distendono in un sorriso che si allarga fino alla guance, rosse come pomodori. Due lacrime di gioia fioriscono agli angoli delle palpebre.
“Quindi... questo vuol dire che... che Lovino può...”
Io annuisco, ancora prima che possa finire la frase.
“Sì, Feliciano.”
Ruoto lo sguardo sui suoi occhi lucidi. È la prima volta che lo vedo piangere dalla gioia. Uno strano calore mi accarezza il cuore.
“Lovino può tornare a casa.”
Feliciano spalanca la bocca, gli iridi gli tremano dalla contentezza, e le palpebre gli si gonfiano di lacrime. Due grosse gocce gli rigano le guance e il pianto non si ferma. Gli inonda tutto il viso, gocciolando anche sulla faccia di Lovino.
Feliciano stringe al petto il fratello, affondando il viso tra i suoi capelli. Annega nei suoi stessi singhiozzi, strofinando la fronte sulle guance di Lovino. I cavi del Transfert si annodano attorno alla punta del suo naso.
“Che bello! Torna a casa... Lovino torna a casa! Io sono... sono davvero... davvero felice!”
Gilbert si tuffa le mani nelle tasche e ruota gli occhi al cielo. Si gira, piroettando sulle piastrelle, e dà le spalle a quella scena fin troppo tenera per i suoi standard.
Io volto lo sguardo verso Carriedo, ancora incollato alla parete bianca. Distende anche lui le labbra sul viso, sollevando gli angoli della bocca. I suoi occhi, una volta nient’altro che due bulbi grigi e spenti, si sono totalmente liberati dalla morsa di quella nebbia. Ora brillano, tremanti di gioia.
“Lo liberate? Lo liberate davvero? Grazie al cielo. Oddio, grazie al cielo!” Esclama, rituffando il viso nel palmo della mano.
Io annuisco deciso, e inizio a strisciare verso Lovino. Seguo la scia dei cavi del Transfert che serpeggiano sul pavimento.
Lo guardo bene in volto, anche se è nascosto in parte dalle braccia di Feliciano strette attorno a lui. È stremato, sciupato, la bocca semiaperta lascia uscire solo un debole respiro. Le sopracciglia inarcate gli danno quasi un’aria triste.
Io abbasso le palpebre, e allungo le dita verso la morsa infernale di quell’oggetto che lo ha appena salvato. Slaccio la fascia del Transfert con un movimento lento e attento, facendo scivolare l’anello di stoffa con delicatezza da dietro la sua nuca. Lo getto sul pavimento, e lì giace avvolto dai cavi.
Avvicino le mani al busto di Lovino e le allungo dietro alla sua schiena, facendomi spazio tra la presa di Feliciano. Ma, sembra quasi che abbia paura di cedere, infatti se lo avvicina al petto come fosse un tesoro da proteggere.
“Aspetta, Feliciano.” Gli dico con voce calma e pacata.
Feliciano molla la presa dalla stoffa, ma sfila a fatica le dita dal fratello. Ha inconsciamente paura che io glielo porti via di nuovo, ne sono certo. I suoi occhi arrossati si sollevano su di me, ma il mio sguardo non si scolla da Lovino.
Stringo la presa, avvolgendo il corpo del ragazzo tra le mie braccia. Me lo avvicino al  petto, e finalmente lui si separa da Feliciano, che rimane con le mani sospese a mezz’aria, rigide come ramoscelli secchi.
Lovino sembra così fragile, sotto la mia morsa. Stringo le mani direttamente attorno alle sue ossa, avvolte solo da un sottile strato di pelle fredda, fasciata dalla divisa del Welt fin troppo larga, oscillante come un lenzuolo. Mi do una spinta sulle gambe, e mi rialzo senza fatica con un solo scatto. Lovino è leggerissimo. Tra le mie braccia non sento altro che una bambola rotta.
Vacillo un paio di volte, quando mi rimetto in piedi. La testa mi gira ancora. Mi avvicino a Carriedo a passo lento ma deciso, appoggiando i piedi sul pavimento con movimenti pesanti. La testa, le braccia e le gambe di Lovino ciondolano a peso morto dal mio abbraccio.
Carriedo solleva la testa, e la inclina di lato inarcando le sopracciglia.
“Dottore, ma che...?” Domanda, socchiudendo un occhio.
Io abbasso le palpebre e mi chino, inginocchiandomi di fronte a lui. Gli lascio scivolare il corpo inerte di Lovino tra le braccia, che Carriedo ha già prontamente portato in avanti.
“Prendilo.” Gli dico con un sospiro.
Il corpo del ragazzo è steso su una sua spalla, con le braccia che gli penzolano sulla schiena. Carriedo volta il capo verso di lui, sistemandoselo più comodamente, in modo da non fargli male. Il mento di Lovino è appoggiato vicino all’incavo del suo collo.
“Portatelo a casa.” Concludo, indicando l’uscita con la punta del pollice e abbassando le palpebre sugli occhi.
Carriedo sgrana lo sguardo, rimanendo a bocca aperta come un pesce fuor d’acqua. Poi, anche il suo viso si rilassa, e le sue labbra si distendono nel sorriso più sincero che io abbia mai visto dentro al Welt.
Abbassa la fronte, e una ciocca di capelli gli cade davanti agli occhi.
“Grazie, dottore.” Sussurra.
Le sue guance si rigano di lacrime.
 
“Allora, è tutto chiaro? Basta che voi usciate dal corridoio, poi torneremo a prendervi.” Dico, schiarendomi la voce.
Nel corridoio si respira decisamente un’aria più fresca e leggera. Un toccasana per la mia voce arrochita.
Carriedo stringe le braccia attorno a Lovino, sistemandoselo sulla spalla. Il ragazzo è ancora steso come uno straccio, ma la sua espressione è più serena. Ora sembra davvero che stia solo dormendo.
Carriedo sorride e chiude le palpebre, voltando già i piedi verso l’uscita.
“Certo, ho capito. Vi aspetteremo fuori, così Lovino avrà ancora tempo per riprendersi.” Risponde con voce incalzante.
Feliciano, alle mie spalle, annuisce subito stringendo i pugni davanti al petto.
“Sì, e poi torneremo a casa tutti insieme. Anche con Kiku, ovviamente!” Esclama raggiante.
Gilbert, dietro di noi, punta già l’occhio verso le altre stanze, per nulla interessato dai nostri discorsi.
“Allora vado.” Dice Carriedo.
Prima di andarsene definitivamente, però, allunga la mano aperta verso di me. Io abbasso gli occhi sul suo palmo, e li ruoto nuovamente verso il suo viso. I suoi occhi ardono di speranza.
“Grazie davvero, dottore. Mi dispiace per tutto quello che ho combinato.”
Io sollevo le sopracciglia. Quando rilasso il viso, le palpebre mi ricadono davanti agli occhi. Piego le labbra in un leggero sorriso e stringo quella mano gracilina in una morsa decisa.
“Vedi di non farti più vedere qua dentro, intesi?”
Carriedo annuisce. “Promesso.”
La nostra stretta si scioglie e lui si volta, iniziando a percorrere il corridoio. La luce bianca lo inghiotte.
Feliciano solleva un braccio, gesticolando per aria come aveva fatto con Kiku.
“Ciao, Antonio! Prenditi cura di Lovino mentre ci aspetti!”
Carriedo si gira un’ultima volta, ricambiando il gesto. Solleva il gomito, scuotendo la mano con un movimento lento. Il suo viso continua a sorridere.
Lovino, ad un tratto, socchiude un occhio e una minuscola scintilla nocciola sbuca tra le sue palpebre. Le sue dita si stringono attorno alla stoffa che fascia la schiena di Carriedo. Lentamente, però. Sono ancora deboli.
Il luccichio ruota verso l’alto, puntando il capo di Carriedo sopra di lui. Le labbra di Lovino si schiudono, lasciando scivolare parole mute, sussurri che non arrivano alle mie orecchie. Carriedo solleva la mano distesa sul fianco e la avvicina al braccio cinto attorno al busto di Lovino. Gliela batte delicatamente sotto la spalla un paio di volte. Lovino piega la bocca in un ghigno, mormora qualcos’altro, inarcando le sopracciglia scure, poi la sua testa torna nuovamente a ciondolare. Cade abbandonata sulla schiena di Carriedo, rimbalzando sotto i suoi passi.
Lovino avvolge le mani attorno alla stoffa, affondandoci il viso. Il ragazzo si addormenta di nuovo ma, questa volta, si sveglierà felice.         

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


 CAPITOLO 12
 

 
 

Kolokolokolokolokolo...
 

 
Ludwig ha detto di stare molto attenti, di non abbassare mai la guardia, quando entreremo nella cella numero sette. Mentre girava la chiave della serratura, le sue dita tremavano più del solito. Da fuori non sembra, perché Ludwig è sempre fermo e composto, ma sento che è davvero agitato. Non l’ho mai visto così. Ho paura, sento che potrebbe succedere qualcosa di davvero molto brutto.
 
 
Cella #7
Paziente: Ivan Braginski
 
Passo sotto l’architrave di ferro bianco, coprendomi la fronte con il braccio per ripararmi dalla luce. La schiena di Ludwig, però, mi protegge a sufficienza. Non appena varco la soglia della stanza, lui ruota il capo all’indietro, ma il suo sguardo mi scavalca e punta su Gilbert. Lui è l’ultimo ad entrare.
Ludwig aggrotta la fronte.
“Chiudila bene, mi raccomando.” Gli dice con voce profonda.
Gilbert, dopo un sospiro, si appiglia alla chiusura a ruota dell’entrata, e appoggia una spalla contro la porta metallica.
“D’accordo.” Risponde con un’altra sbuffata.
Fa peso su un piede e trascina la pesante anta sul pavimento. Gli ingranaggi cigolano, poi il tonfo, e le serrature che si incastrano di nuovo.
Ora siamo sigillati.
Gilbert scolla le mani dalla chiusura e se le strofina sulla giacca della divisa. “Fatto.”
Ludwig annuisce, socchiudendo le palpebre.
“Bene. Allora...”
Si sfila il Transfert dalla spalla, lasciandolo cadere tra le dita. Impugna le due fasce e i cavi, guardandoli con aria di sfida. Poi, il suo viso si distende, e gli occhi di fuoco si placano.
“A questo penseremo dopo.” Conclude, e il Transfert cade dalla sua mano.
Una delle fasce gli finisce su un piede, e lui la scosta con un movimento lento, ammucchiandola nel gomitolo di cavi che ciondola sulle piastrelle.
Io strabuzzo gli occhi.
“Eh? Ma, Ludwig, non dobbiamo usare....?”
“Che bello, dottore. Ci sono altre persone.”
Una voce mi ricorda di voltare la testa. Ludwig non ha mai scostato lo sguardo da davanti sé, da quando siamo entrati. Io ruoto solamente un occhio, puntandolo verso il centro della stanza. La barriera è abbassata, per fortuna!
Al di là del vetro forato, seduto sul bordo della solita brandina bianca, Ivan ci sorride con le palpebre chiuse davanti agli occhi. Ludwig ci ha detto il cognome, prima, ma è ancora più difficile del suo.
Io tendo il collo, poggiando il peso sul piede allungato davanti a me. Arriccio il naso, inclinando la testa di lato.
“Ludwig, sei sicuro che quello sia Ivan?” Gli chiedo.
La morsa intorno al mio stomaco si scioglie, e mi scappa addirittura un sorriso. “Non sembra pericoloso.”
Anche Ivan continua a sorridere, osservandoci con quell’espressione calma e pacifica dipinta sul volto. Si appoggia le mani sulle gambe, avvolgendole delicatamente intorno alle ginocchia, senza stringere troppo sulla stoffa della divisa. Inclina lievemente la testa di lato, distendendo ancora di più le labbra, ma i capelli non riescono a toccargli la spalla.
Il riverbero delle lampade gli accarezza le ciocche, facendole risplendere di una luce bianca, dai riflessi di platino. La frangia ondeggia, coprendogli un sopracciglio.
“È stata proprio una bella idea, far venire altre persone, dottore. Ci si sente sempre così soli, qui.”
La sua voce morbida, ovattata dal vetro, ti avvolge come una carezza.
Io raddrizzo la schiena e mi giro verso Ludwig. Lui si è scurito in volto, i suoi occhi sono diventati più cupi. Io provo a sorridergli.
“Non sembra che ci sia da avere paura.” Gli dico, ma Ludwig scuote la testa.
“Ricordi cosa vi ho detto prima, Feliciano?” Mi domanda, aggrottando la fronte.
Io ruoto gli occhi al cielo, portandomi un indice tra le labbra.
“Beh, sì. Hai detto che Ivan è pericoloso e che, anche se può sembrare innocuo, non bisogna mai fidarsi. Che...”
“Esatto. Per cui...” Mi interrompe Ludwig.
Abbassa gli occhi, portandosi le mani dietro la schiena. Il suo sguardo si assottiglia, quando cade sul Transfert ammucchiato ai suoi piedi.
“Ora dovete darmi del tempo per pensare a come affrontare la questione. Devo essere sincero, anche durante le normali sedute alzavo raramente la barriera. Non lo trovavo...” Si morde un labbro. “Non lo trovavo sicuro, ecco tutto. Conosco i suoi precedenti, e non me la sento di mettere così a rischio la vostra incolumità per la mia sconsideratezza.”
Ludwig si lascia andare, appoggiandosi al muro con la schiena ricurva e il capo chino.
“Vi chiedo solo di... di farmi pensare a come gestire la situazione.”
Io inarco le sopracciglia e mi avvicino a lui di qualche passo. È davvero strano, vederlo così abbattuto. Tiene le palpebre abbassate sugli occhi, come se si vergognasse di incrociare il suo sguardo con il mio. Una rapida scossa mi trapassa il cuore, un tremito mi serpeggia su per la schiena.
Ludwig è sempre stato quello forte, quello che risolve ogni situazione. Se si lasciasse andare così, noi...
“Ludwig, stai bene? Non ti devi abbattere.”
Piego le labbra in un sorriso, anche se so che non lo riesce a vedere. “Vedrai che troveremo una soluzione e...”
“Cosa? Non vuole aprire la barriera, dottore?” La voce ovattata di Ivan tronca la mia frase prima che io possa finirla.
Mi volto di scatto, e lui mi sta guardando con due profondi occhi violacei, spalancati sotto la frangia. La luce bianca gli sfiora gli iridi, e un cupo riflesso scuro gli trapassa lo sguardo.
Le palpebre tornano ad abbassarsi, e il sorriso riprende ad accarezzargli le labbra.
“Sarebbe un peccato, dottore.” Continua Ivan. “Questa barriera è così fastidiosa. Stare separati non è per nulla bello. Visto che ci sono altre persone, sarebbe di gran lunga meglio stare tutti insieme, non è d’accordo?”
Ludwig inarca le sopracciglia, una goccia di sudore gli lacrima da una tempia. Io ruoto lo sguardo verso la parete, vicino alla porta blindata. Il piccolo pulsante rosso salta subito all’occhio, in mezzo a tutto quel bianco.
Gilbert mi si piazza subito davanti, interrompendo la mia contemplazione.
“Per una volta sono d’accordo.” Dice Gilbert, aggrottando la fronte.
Si mette le mani sui fianchi e inclina il capo verso Ivan. “È inutile perdere tempo in chiacchiere, Ludwig. Alla cella numero sette, poi! Ormai siamo quasi giunti alla fine e abbiamo capito tutti come andranno le cose.”
Ruota il busto verso il centro della stanza, scollando gli occhi scarlatti, taglienti come una lama affilata, da Ludwig. “Adesso tu userai il Transfert, capirai di aver gettato alle ortiche anni e anni di studi. In realtà questo qui si rivelerà essere un povero disgraziato come tutti gli altri. Racconterà una favoletta strappalacrime per convincere tutti, tu lo libererai, lui uscirà, vivrà felice e contento, e fine della storia.”
Gilbert getta il capo all’indietro, squadrando Ludwig con un ghigno sulle labbra. I due si scambiano un’occhiata gelida.
“E poi, magari, mi dirai anche che il suo caso è collegato con quello della numero otto, giusto? Sarebbe davvero il massimo.” Conclude, sollevando un sopracciglio.
Ludwig abbassa le palpebre e arriccia il naso. La sua schiena è sempre incollata alla parete bianca.
“Se proprio insisti, te lo confermo fin da subito.” Ludwig socchiude un occhio, la luce azzurra è tornata a risplendere nei suoi iridi. “Ivan Braginski, cella numero sette, e Natalia Arlovskaya, cella numero otto, sono fratelli.”
Io strabuzzo lo sguardo, e il labbro inferiore mi cade verso il basso. Raddrizzo la schiena, continuando a fissare la figura china di Ludwig.
“Fratelli? Tutti e due qui dentro?” Inarco le sopracciglia in un’espressione triste. “Ma... ma allora dobbiamo...”
“Fratellastri.” Ivan mi interrompe di nuovo.
Io e Gilbert ci voltiamo verso di lui, e anche Ludwig fa scattare il capo, sollevando il mento. Ivan abbassa la fronte, come volesse nascondere gli occhi chiusi sotto la frangia. La sua bocca continua a sorridere, imperterrita, ma le sue labbra vacillano per un istante. Anche la stoffa della divisa sembra tremare.
Ivan alza le spalle, nascondendo il viso dentro al colletto della maglia bianca fino alla punta del naso.
“Natalia è la mia sorellastra. Dovrebbe saperlo, dottore. I nostri cognomi sono diversi, infatti.”
Oh, no! Altri cognomi difficili? Non riuscirei mai a fare il lavoro di Ludwig. No, non ce la farei proprio.
Ludwig abbassa lo sguardo. Si porta due dita su una tempia, iniziando a massaggiarsela con movimenti circolari. Un angolo delle sue labbra si piega verso il basso.
“Sì, di questo sono a conoscenza. In realtà, non è un dettaglio fondamentale, non cambia molto le cose. Avete comunque trascorso l’infanzia insieme, ed è solo questo particolare che...”
“Aspetta, aspetta, ho capito bene?” Esclama d’un tratto Gilbert.
La sua voce acida e graffiante riesce subito a sovrapporsi a quella calma di Ludwig. Gilbert ci sta fissando con gli occhi sgranati, gli iridi scarlatti scintillano come fiammelle. Piega la bocca in un sorrisetto sadico, e un canino gli brilla sotto la luce delle lampade.
“Avete davvero detto sorellastra? Vuoi dire che... che nella numero otto...” Alza un sopracciglio, e punta l’indice contro la porta blindata che lui stesso ha sigillato. “Vuoi dire che nella numero otto c’è una donna?”
Il suo ghigno diventa un vero e proprio sorriso. Anche io sgrano lo sguardo, rimanendo imbambolato davanti a quella scoperta.
“Una ragazza? Qui dentro?” Domando a Ludwig, sbarrando le palpebre
Lui annuisce.
“Esatto. Ma, con Arlovskaya, il discorso che vi ho fatto per Braginski vale ancora di più.” S’inumidisce le labbra, inarcando un sopracciglio. “Anzi, forse con lei la faccenda è ancora più difficile. È quasi impossibile instaurare un dialogo. Francamente, se dovessi scegliere su chi puntare il dito ed etichettare come causa persa, qui dentro, sceglierei proprio lei.”
Gilbert scuote la testa. Attraversa la stanza saltellando come un grillo, e in sole tre falcate è già davanti a Ludwig. Mi dà una spinta sulla spalla, mettendomi in disparte, e china il capo verso quello del fratello.
“Se qui dentro c’è davvero una donna, allora non può essere trascurata, no?” Gli dice, senza smettere di ghignare.
Ludwig inarca un sopracciglio, ma Gilbert si giunge le mani davanti al petto come in segno di preghiera.
“Ti prego, fammi dare un’occhiatina. Ci metto un attimo, giuro. Mentre tu ti scervelli qua, io potrei andare nella numero otto e...”
“Escluso, Gilbert!” Tuona Ludwig, rizzandosi finalmente in piedi.
Allarga le spalle, ingigantendo la sua ombra su Gilbert.
“Non hai sentito cosa ho appena detto?” La voce si è calmata, e Ludwig trae un leggero sospiro. “È pericoloso. Smettila di giocare con le persone, Gilbert. Pensavo ti fosse bastata l’esperienza che hai avuto con Bonnefoy.”
Gilbert strabuzza gli occhi in un’espressione disgustata. Gli angoli delle labbra cadono verso il mento, e l’iride gli inizia a vacillare. Distoglie lo sguardo sconvolto da Ludwig, soffocando dei deboli rantolii in mezzo alla gola.
“Non... non centra niente. Ora...” Dice, grattandosi la nuca con gesti nervosi. “Ora non ha mica detto che voglio utilizzare di nuovo il Transfert. Voglio solo dare un’occhiata, non faccio del male a nessuno.”
La mano si ferma, sommersa dai capelli argentati che ondeggiano sotto il suo tocco. Ruota gli occhi di nuovo verso Ludwig, ma li tiene più bassi. Sembra quasi che puntino i suoi pantaloni. Gilbert assottiglia lo sguardo, mentre Ludwig lo indurisce.
“Pensala come vuoi.” Gli dice Ludwig, inarcando le sopracciglia. “Ma la risposta rimane no.”
Gilbert sospira, quasi sbuffando, e ruota il busto di lato. Si è ingobbito, con la testa nascosta tra le spalle come un mostriciattolo.
“D’accordo, d’accordo, come vuoi.” Gli risponde gracchiando.
I suoi occhi, però, d’un tratto si accendono come tizzoni, e saettano di novo verso Ludwig. Gilbert si getta nella direzione di prima, buttando tutto il peso solo su un piede. Allunga le mani verso il bacino di Ludwig, le dita si contraggono come zampe di ragno. Un angolo delle labbra si solleva quasi fino all’orecchio.
“Mie!”
Ludwig solleva le braccia dai fianchi, e rimane a fissare il fratello con occhi bassi e increduli. La bocca ha ceduto, le labbra rimangono socchiuse e mute. Gilbert si getta su di lui, schiacciandolo contro il muro. La sua testa preme contro il petto di Ludwig.
“Gilbert... ma che stai...?”
“Prese!”
Gilbert si scolla, scattando all’indietro con un balzo felino. La sua mano è alzata verso il soffitto, e lui la guarda con aria trionfale. La luce delle lampade si schianta in mezzo alle sue dita, il mazzo di chiavi metalliche scintilla come un gioiello sotto i raggi del neon.
Gli iridi azzurri di Ludwig si rimpiccioliscono come spilli, sollevati verso il braccio di Gilbert. Un gemito gli si mozza in gola. Non riesce a muovere un muscolo, è ancora ridotto come un insetto spiaccicato contro il muro. Il labbro inferiore si abbassa, e sento la sua lingua schioccare sul palato.
“Tu... pazzo incosciente...” Sibila con voce storpiata dalla rabbia.
Ludwig butta fuori una sbuffata d’aria dalle narici e stringe i denti, guardando Gilbert in cagnesco. “Non fare idiozie, Gilbert! Ridammi le chiavi, o...”
“Rilassati, Lud. Non c’è alcun problema.” Lo tranquillizza Gilbert, facendo roteare il mazzo intorno all’indice.
Gira i tacchi, ed impugna tra le dita la chiave che ha visto usare prima da Ludwig per aprire la cella numero sette.
“Te l’ho già detto. Do un’occhiata veloce e poi torno qui. Non hai nulla da temere.”
Si piazza davanti alla porta blindata, immobile come una statua. Getta il capo all’indietro, squadrandoci con un sorriso beffardo stampato in volto. La luce delle lampade fa brillare la sua pelle lattea.
“Ci vediamo tra poco.”
 
Gilbert lascia la porta socchiusa. Uno spiffero d’aria, quasi impercettibile, s’intrufola nell’apertura. Mi passa vicino all’orecchio, agitandomi il ciuffo sopra la spalla. Ludwig s’irrigidisce come un palo, i suoi occhi tremano, lividi di rabbia. Digrigna i denti, e lo smalto stride sotto la sua morsa furibonda.
“Razza di...!” Soffoca un’imprecazione in gola e si morde un labbro per trattenerla nello stomaco. Il suo viso diventa paonazzo.
Giro lo sguardo verso Ivan, che se n’è rimasto in silenzio tutto il tempo, a guardare la sceneggiata di Gilbert sempre con quel suo sorriso stampato sulle labbra. Quando i nostri occhi s’incontrano, Ivan abbassa le palpebre, coprendosi gli occhi che mi spiavano da sotto la frangia. Mi sorride e i ricambio. Non posso farne a meno, anche se quel suo sorriso è davvero strano.
Ludwig stringe i pugni sui fianchi e strizza le palpebre, tremante di rabbia.
“Spero che lo faccia a fette.” Ringhia tra i denti.
Io mi torno a mettere al suo fianco, e piego la testa in cerca dei suoi occhi furenti. Lui si porta una mano sulla fronte, riprendendo a massaggiarsi le tempie come prima.
“Non dovresti dire queste cose, Ludwig.” Gli dico, sollevando gli angoli della bocca. “Soprattutto quando non le pensi per davvero.”
Ludwig scosta le dita, lasciando aperto uno spiraglio. La luce di un suo occhio mi lancia una fugace scintilla blu.
“Gilbert a volte farà anche delle cose un po’ sceme.” Continuo, inclinando la testa. “Beh, non solo a volte, ma è comunque tuo fratello e sono sicuro che sarebbe triste se sapesse che dici queste cose su di lui. E poi, tu gli vuoi bene, no? Scommetto che saresti triste anche tu se lo facessero davvero a fette.”
Ludwig ruota gli occhi al cielo e la scintilla scompare dietro alla sua mano. Rilassa le spalle, sospirando a fondo con la bocca.
“È vero, il dottor Beilschmidt...” La voce di Ivan mi coglie alla sprovvista, facendomi rimbalzare sul posto dalla sorpresa. Ruoto il busto, osservandolo da sotto le ciocche della frangia che mi cade davanti agli occhi.
Ivan continua a sorridere. “È proprio una brava persona, sei d’accordo?”
In un primo momento, rimango imbambolato. Non mi aspettavo davvero di sentire un’affermazione del genere da lui, e non so cosa rispondergli. Dopotutto, Ludwig è sempre colui che lo sta tenendo chiuso al Welt. Poi, però, allargo il sorriso sotto le guance, e piego le sopracciglia in un’espressione decisa. Ma è ovvio che so come rispondergli!
Stringo i pungi davanti al petto, sollevando il mento piegato a terra.
“Ah, certo che lo è! Ludwig è in assoluto la persona più brava e straordinaria che io abbia incontrato qui a Berlino!”
Ruoto i piedi, facendoli strisciare sul pavimento lucido, e mi volto completamente verso di lui. “Ludwig è un dottore davvero in gamba. È riuscito a liberare un sacco di persone, qui al Welt, e ha anche guarito mio fratello. Dopo andremo via tutti insieme come ci siamo promessi, e tutto solo grazie a lui!” Annuisco deciso, stringendo ancora di più il pungo davanti a me. “Sì, Ludwig è davvero una persona fantastica!”
Ludwig è riemerso da dietro le dita, e mi guarda con un’espressione contorta. Inarca il sopracciglio sopra a un occhio semichiuso, e arriccia la bocca in una smorfia buffa. Io volto il capo, guardandolo come se mi aspettassi di ricevere dei complimenti.
Lui allarga una mano verso la mia spalla. “Ehm, non è il caso che tu gli dica tutte queste cos...”
“E tu gli vuoi bene?” Interviene Ivan con quella sua voce così morbida e calda.
Io sollevo le sopracciglia e guardo prima Ludwig – ha ancora quell’aria distrutta e devastata – poi poso di nuovo gli occhi su Ivan. Gli rivolgo subito un sincero sorriso.
“Beh, Ludwig è il mio più grande amico. Quindi, certo che gli voglio bene, è ovvio!”
Ivan ricambia il sorriso e inclina la testa di lato.
“Bene, è davvero bello avere degli amici. Sai...”
Le sue palpebre si alzano. Rivelano due occhi profondi, velati come da un’aura scura. Gli iridi violacei s’incupiscono, e sul suo viso cala un’ombra grigia, come una maschera.
“Anche io ho sempre desiderato averne.” La sua voce si è arrochita, il caldo tono morbido è stato completamente sepolto da questo nuovo suono. Sembra quasi che sorga direttamente dallo stomaco, tanto è profondo e cupo.
Un brivido mi corre sulla schiena, attanagliandosi alla spina dorsale come se avesse degli artigli pungenti. Quella voce ha sfiorato il mio cuore con un tocco di ghiaccio, lasciandolo congelato in mezzo al petto. Poi, Ivan sorride di nuovo, e tutto torna normale. Il ghiaccio si scioglie.
“E lei, dottore?” Domanda a Ludwig, abbassando le palpebre.
Ludwig scatta, sgranando gli occhi. Evidentemente, anche lui è rimasto colpito da quel mutamento, ma sembra ancora più scosso di me. Ludwig solleva un braccio e se lo passa sulla fronte, visibilmente imperlata di sudore. Il suo respiro si è appesantito.
Ivan inclina la testa di lato. “Anche lei gli vuole bene?”
Ludwig strabuzza le palpebre e le labbra gli si contorcono in mille forme diverse. Prova a muoverle un paio di volte, ma non dice nulla. Ludwig ruota il capo verso di me con un gesto meccanico, arrugginito. Aggrotta la fronte e solleva le guance che gli sono diventate tutte rosse.
“Beh, ecco... insomma... io...” Il suo balbettare mi fa ridere.
Mi porto il dorso della mano davanti alla bocca, per trattenere gli sghignazzamenti, ma s’interrompono subito.
Un rumore improvviso raggela l’aria della stanza, e sia io che Ludwig torniamo immediatamente seri. Nel corridoio si sente un forte rimbombare, come se qualcuno stesse ruzzolando sul pavimento. Io e Ludwig ci giriamo verso l’entrata e rimaniamo a fissarla. Il mio sguardo vacilla, sto iniziando a spaventarmi, mentre quello di Ludwig è fermo e freddo come una pietra.
La porta blindata di spalanca di colpo. Sbatte contro il muro, portandosi dietro Gilbert, appeso come un panno sporco sull’apertura. Il suo corpo è tutto un tremito, il suo busto si alza e si riabbassa con scatti violenti. Gilbert si lascia scivolare sull’altro lato della porta e getta tutto il peso sulla sua superficie con una sola spinta della schiena.
La porta blindata si richiude sbattendo, e il colpo che dà la serratura mi fa saltare sul posto. Gilbert si accascia a terra, sedendosi con le gambe divaricate davanti a lui e le braccia abbandonate sui fianchi. Continua a buttar giù grosse boccate d’aria, quasi strozzandosi, deformando il viso già stropicciato dallo spavento. Le dita tremanti si schiudono, lasciando cadere per terra il mazzo di chiavi di Ludwig. Tintinna, quando raggiunge le piastrelle.
Gilbert ruota gli occhi allucinati verso di noi, e Ludwig si sporge in avanti.
“Ehi, Gilbert, che è successo?”
Gilbert continua ad annaspare e non risponde. Dalla sua fronte sta gocciolando una cascata di sudore gelido.
Ludwig gli corre incontro e si accovaccia al suo fianco. Aggrotta la fronte, scurendosi in volto. Immagino che sia ancora arrabbiato.
“Stai bene? Ti ha forse ferito in qualche maniera?” Gli domanda, ma Gilbert scuote la testa.
I capelli gli ondeggiano sulla fronte, incollandosi sulla pelle.
“No... anf... non mi... anf... non mi ha fatto niente... ma...” Si passa una mano sul viso, distendendosi la pelle in tutte le direzioni.
Quando solleva le dita, la faccia gli è diventata tutta rossa.
“Ma preferisco che stia là dov’è. Quella è matta, Ludwig.” Continua, martellandosi un dito sulla tempia. “Non so davvero come tu faccia a trattare con una così.”
“Hai chiuso bene la porta?” Gli domanda Ludwig, ingrossando la voce.
Gilbert rilassa le spalle, e le palpebre si socchiudono davanti agli occhi.
“Certo che l’ho fatto! Avevo anche abbassato la barriera, ma...”
“Hai abbassato la barriera?!”
Ludwig si sporge in avanti e gli afferra un lembo della divisa con uno scatto di rabbia. “Come hai potuto compiere un’incoscienza simile? Hai una minima idea di quello...?”
“Ehi, ehi, calmo. Ti ho detto che l’ho chiusa.” Si difende Gilbert, scollandosi le sue mani di dosso.
Ludwig arretra, e lascia andare i vestiti di Gilbert. Le dita scivolano dalla stoffa lentamente, quasi accarezzandola. Ludwig abbassa lo sguardo, chinando la fronte verso il pavimento.
“Me lo auguro per te.” Gli dice con aria sconsolata.              
Gilbert sbuffa, traendo un sospiro di sollievo, e i suoi occhi ruotano immediatamente verso il centro della cella, ancora tagliato in due dal vetro forato.
“Ma, come?” Dice, inarcando un sopracciglio. “Non avete ancora combinato niente? Si può sapere cosa avete fatto in tutto questo tempo?”
Ivan gli sorride, rilassando le palpebre davanti agli occhi.
“Oh, stavamo solo parlando del dottor Beilschmidt.” Gli risponde.
Io annuisco e torno a portare il pugno chiuso davanti al petto.
“Sì, è vero! Stavamo dicendo che, oltre ad essere un bravo medico, è anche una persona fantastica!”
Gilbert gira lo sguardo verso di me con aria svogliata.
“Tu che sei suo fratello...” Continuo, guardandolo finalmente negli occhi. “Dovresti saperlo più di noi. Giusto, Gilbert?”
Gilbert mi risponde con un’alzata di spalle. Un angolo della sua bocca si piega leggermente verso l’alto e il suo ghigno ricompare.
“Beh, mai quanto me.” Risponde, posandosi una mano sul petto.
Ludwig scuote la testa e si dà una spinta per alzarsi più facilmente. Abbassa lo sguardo, dandosi una ripulita alla divisa, e rimane in silenzio. Ivan scuote la testa e la frangia gli ondeggia sopra la fronte.
“Mhm. No, tu non mi piaci proprio, invece.” Dice a Gilbert, sorridendo.
Gilbert gli lancia un’occhiata di fuoco, e il suo ghigno di autocompiacimento si piega in una smorfia di rabbia. Anche lui imita Ludwig, ma si alza con uno scatto ancora più fulmineo. Si cinge le mani ai fianchi e allunga il collo verso Ivan.
Gilbert inarca le sopracciglia. “Ah, povero illuso, non sai quello...”
“Non hai l’aria molto intelligente.” Continua Ivan, distendendo le labbra. “Tu sei uno di quelli che fanno le cose senza pensare, vero? Sì, le persone come te sono in assoluto quelle più sceme e sconsiderate.”
Ivan socchiude gli occhi, sprigionando di nuovo quella strana ombra che gli galleggia sotto la fronte, incupendogli il volto. Le labbra si abbassano, appiattendosi.
“Non dovresti comportarti così. Non è un atteggiamento conveniente, lo sai?”
Gilbert ci rimane di sasso. Il suo sguardo si pietrifica, come se si fosse congelato.
Io arretro di un passo, cercando Ludwig con gli occhi. Anche lui si è scurito in volto, i lineamenti del suo viso si sono irrigiditi d’un colpo.
Gilbert, ad un tratto, scuote la testa come se si fosse risvegliato da un sonno profondo. Solleva un braccio, indirizzando l’indice verso Ivan. Sembra quasi che la punta del dito tremi ancora.
“Wahahahah, sai cosa m’importa di quello che pensi tu?” Gli domanda, ma penso che sia... Com’è che si dice? Ah, sì, retorico!
Gilbert abbassa un sopracciglio, ghignando come un animale. “Tu vali meno delle mie scarpe, qui dentro. Lo sai? Non hai nemmeno il diritto di aprire bocca su di me.”
Ivan non reagisce. Si limita ad assottigliare lo sguardo, e a piegare all’insù gli angoli della bocca. Il suo sorriso, questa volta, mi fa accapponare la pelle.
Gilbert stringe i pugni sui fianchi, e getta la testa verso Ludwig.
“Allora, questo ti basta per capire la situazione?” Gli chiede, aggrottando le sopracciglia. “Devi usare il Transfert, oppure no? Guarda che non sei costretto a lasciarlo libero.”
Ruota gli occhi di nuovo su Ivan, e alza il naso al cielo. “I matti, quelli veri, vanno tenuti in gabbia.”
Ludwig scuote la testa, e muove qualche passo verso di me. Socchiude le palpebre davanti agli occhi, e le pupille si abbassano verso i miei piedi. Anche io punto lo sguardo sul pavimento.
Scosto un piede, e rischio quasi di inciampare tra i cavi raggomitolati del Transfert. Faccio un balzo all’indietro, stando attento a non calpestare nulla.
“Ora non prenderla sul personale, Gilbert.” Gli risponde Ludwig, portandosi due dita su una tempia.
“Comunque...” Continua, sempre con aria pensosa. “Voglio provarci lo stesso, anche se il rischio è più alto del solito.”
Ivan rilassa il viso, risucchiando di nuovo dentro alla pelle quell’aura cupa e grigia che gli aleggia sul volto. Le sopracciglia si sollevano, e le palpebre sbattono un paio di volte sugli occhi che brillano di una luce violacea. Puri, senza alcuna macchia d’ombra.
“Provare cosa, dottore?” Domanda a Ludwig. La sua voce è tornata morbida come una carezza.   
Ludwig alza lo sguardo e lascia scivolare a mano sul suo fianco. Aggrotta la fronte, e le sue dita si allungano verso il pavimento.
“Ah, giusto. Dimenticavo che con te non ne ho ancora parlato.”
Si schiarisce la voce, spostando i piedi che coprono le due fasce giacenti al suolo, come per mostrargliele meglio.
“Vedi, la mia intenzione è quella di usare questo nuovo strumento sperimentale per capire più a fondo i meccanismi della tua psiche. È un metodo che ha funzionato con tutti gli altri pazienti, anche se non è del tutto professionale. Con questo...” Ludwig aggrotta la fronte, e le sopracciglia si inarcano sopra i suoi occhi. “Con questo sarò in grado di capire cosa provi, e cos’hai provato nelle esperienze passate che poi ti hanno condotto qui dentro.”
Ivan ruota gli occhi al soffitto, la luce delle lampade gli fa scintillare l’iride sotto l’ombra dei capelli.
“Mhm. Quindi, lei capirà appieno il mio stato d’animo attuale e quello passato, dottore?”
Ludwig annuisce. “Se tu me lo permetterai.”
Ivan rimane con lo sguardo puntato al soffitto, come se ci stesse pensando su. Di nuovo quella strana luce buia gli attraversa gli occhi, ma solo per un secondo. Nemmeno Ludwig, infatti, sembra accorgersene. Ivan abbassa le palpebre, e torna a sorridere come prima.
“Sembra interessante.” Risponde, piegando la testa di lato.
Ludwig abbandona nuovamente la fronte verso il pavimento, ma rimane immobile. Guarda il Transfert come se ora avesse paura d’indossarlo, e gli iridi azzurri rimpiccioliscono. Stringe i pugni sui fianchi, inumidendosi le labbra.
“D’accordo, allora. Se...”
“Oh, dunque alziamo la barriera? Finalmente!” Esclama Gilbert.
Io rimbalzo sul posto, scattando dalla sorpresa. Io e Ludwig ci voltiamo verso Gilbert e lui ci osserva con aria impaziente. La bocca è piegata in un ghigno che gli arriva quasi alle orecchie. Gli occhi tremano, fremendo dall’emozione.
“Non temere, ci penso io.” Dice, voltandosi con una veloce piroetta.
Ludwig allunga una mano verso di lui, ma riesce a compiere solo un passo. È come se avesse le gambe fossilizzate al suolo.
“Gilbert, aspetta!” Esclama, ma Gilbert è già arrivato alla parete.
Solleva il coperchio trasparente, e spinge tutto il peso sul pugno che si schianta contro il pulsante rosso.
Io e Ludwig ci irrigidiamo. Il rumore degli ingranaggi ci solletica l’orecchio. Una goccia di sudore mi rotola fin sotto il mento, cadendo sulla stoffa della divisa. Io ruoto una pupilla verso il centro della cella. Il mio occhio trema, come tutto il mio corpo.
Ivan si è alzato in piedi e alza il naso al cielo. Il suo sguardo è fisso sulla barriera che si sta lentamente ritirando dentro al muro.
Butto giù un grosso boccone di saliva che quasi mi si blocca nella gola, secca com’è. Ho paura, ma non so perché.
 
La barriera s’incastra, il tonfo degli ingranaggi che si fermano rimbomba tra le pareti, sopprimendo anche l’ultimo agghiacciante cigolio.
Gilbert rilassa le spalle e lascia scivolare la mano dalla parete. Il pugno striscia sul muro e, quando si stacca, le dita si rilassano cadendo al suo fianco. Gilbert abbassa una palpebra.
“Ecco.” Dice, con un sorriso di autocompiacimento. “Non ci voleva poi così tanto, no?”
Io non riesco ancora a muovermi. Ludwig compie qualche passo lento, meccanico, che tonfa sul pavimento rompendo il silenzio glaciale. Si mette davanti a me, e la sua ombra si ingrandisce sul mio petto. Provo ad allungare il naso verso l’alto, ma la sua spalla mi ostruisce la vista. Sento solo la voce di Gilbert che continua a gracchiare come una cornacchia.
“E tu che avevi tanta paura. Di cosa, poi, non ne ho proprio idea. Fidati, in un batter d’occhio potremo finalmente...”
“Gilbert, attento!”
La voce di Ludwig tuona più di un fulmine a ciel sereno.
La sua schiena viene attraversata da un forte tremito e lui si sporge in avanti, come per lanciarsi su qualcosa. Fa cadere tutto il peso solo su un piede, e lì rimane. Le sue spalle si inarcano in avanti, abbassandosi. Ora posso vedere cosa sta succedendo nel mezzo della cella numero sette.
Traggo una profonda boccata d’aria, e il boccone mi rimane incastrato nel mezzo della gola. Il mio intero corpo si paralizza, il sangue nelle vene si ghiaccia, raggelandomi il cuore che ha smesso di battere. I capelli mi si infradiciano di sudore e le ciocche rimangono appiccicate sulla fronte.
L’urlo di Gilbert mi fa arrivare una vampata di caldo improvviso che mi investe come una fiammata rovente. La vista si offusca, ma riesco ancora a vedere il corpo di Gilbert avvolto tra le braccia di Ivan.
Ivan stringe la morsa attorno al busto di Gilbert, avvicinandosi la sua schiena al petto. Le palpebre distese davanti agli occhi, il sorriso dipinto sul volto.
“Mollami! Mollami, bastardo! Tieni le tue manacce lantane dal sottoscritto!”
Gilbert si dimena come un topo in gabbia, cercando di sfilarsi da quella presa. Ha le mani bloccate ai fianchi e riesce a muovere solo le dita. Un braccio di Ivan gli preme sul bacino, avvolgendogli entrambi i gomiti, l’altro è avvinghiato attorno alla sua gola. Gli tiene il mento sollevato verso l’alto e Gilbert riesce a guardare in basso solo con la coda dell’occhio.
Io scatto in avanti, e mi appiglio alla manica del camice di Ludwig.
“Ludwig, fermalo!” Esclamo, quasi con le lacrime agli occhi.
Gilbert non sarà gentile e in gamba come Ludwig, ma nemmeno lui si merita questo!
Gilbert stringe i denti, e soffoca un lamento che gli muore in gola. Le due scintille scarlatte, che brillano tra le palpebre strizzate, ci fulminano.
“Fate qualcosa! Mi vuole ammazzare!” Geme.
Ludwig stringe i pugni sui fianchi e la sua schiena si gonfia. Inarca le spalle e pesta un passo pesante davanti a lui.
Ivan socchiude un occhio, ma la sua espressione serena rimane immutata.
“Io non lo farei, se fossi in lei.” Gli dice con voce mielata.
Ludwig si arresta subito, bloccandosi come una statua. Gilbert sgrana gli occhi lucidi e vacillanti.
“Ma... ma che cazzo stai facendo?” Gli urla, dilaniando la bocca. “Muoviti a liberarmi, Ludwig! Cosa credi che ti faccia? Non è nemmeno armato!”
Ludwig raddrizza la schiena e la sua ombra scura torna a calare su di me. Alza un palmo al cielo e scuote la testa con un movimento rigido.
“È pericoloso in ogni caso, Gilbert. Ora non ti devi agitare. Resta calmo e fai quello che ti dico. Potrebbe comunque essere in grado di spezzarti il collo e...”   
Cosa?! Non dire stronzate! Non voglio ritrovarmi con la testa staccata!”
Gilbert strizza le palpebre e alza ancora di più la fronte al cielo. La sua pelle risplende, investita dalla luce delle lampade.
“Fa’ qualcosa!” Urla. “Saltagli addosso, sparagli, o...”
Gilbert sgrana gli occhi. Il riverbero bianco gli fa tremare gli iridi che brillano come braci incandescenti. Rimane con la bocca mezza spalancata, ma non saprei dire per quanto tempo. Io sono paralizzato dalla paura, protetto dalla schiena di Ludwig. I secondi sembrano interminabili.
D’un tratto, però, Gilbert chiude le labbra e la sua lingua schiocca sul palato.
“Sparare.” Sibila. Quell’unica parola gli serpeggia giù dalla bocca come un sospiro.
I suoi occhi si abbassano, cadendo proprio sotto il braccio di Ivan che gli sta ancora stringendo il bacino.
“La pistola.”
Lui e Ludwig scattano. Gilbert inizia a dimenare il braccio per provare a scollarsi dalla morsa di Ivan e recuperare la pistola. Ludwig balza in avanti come un grillo, allungando le dita verso la cintura del fratello.
Ivan socchiude le palpebre, e anche i suoi occhi si abbassano.
“Oh, hai davvero una pistola?” Dice con tono morbido.
Scioglie lentamente la presa dal busto di Gilbert e la sua mano scorre sul suo fianco come se lo stesse accarezzando. Gilbert si paralizza, strozzando un gemito tra i denti serrati. Ivan stringe la presa attorno al collo de suo prigioniero e, quando la sua mano cade sulla custodia in pelle bianca della pistola, il suo sorriso si allarga.
“Eh, sì. Eccola qua.”
Le sue dita si infilano sotto la chiusura come serpi. Il tappo scatta e la linguetta si alza. La luce si schianta sul metallo della pistola, e quel scintillio quasi mi abbaglia.
Ludwig interrompe di colpo il suo scatto fulmineo, puntando i piedi a terra. Il pavimento cigola sotto le sue suole.
Ivan impugna la parte sporgente dell’arma. Lascia scorrere l’indice all’interno del grilletto, e il pollice scivola con naturalezza sopra la sicura. Solleva il gomito, sfilandola dalla custodia, e la tuffa sotto i raggi delle lampade al neon.
“Presa!” Esclama tutto contento. Il sorriso gli si ingrossa sulle guance e le sue palpebre si assottigliano.
Gilbert si lascia scappare un urlo acuto che quasi mi spacca i timpani. Smette di agitarsi e si fa semplicemente cadere verso il basso. Ormai la presa di Ivan ha ceduto quasi completamente, è troppo concentrato sulla pistola.
Gilbert sguscia via dalle sue braccia e si accascia al pavimento come uno straccio bagnato. Il suo collo si inarca all’indietro, gli occhi non riescono a staccarsi dall’arma. Si appoggia con tutto il peso sulle mani aperte sulle piastrelle, dietro la sua schiena, e le sue gambe iniziano a spingerlo all’indietro. Arretra come un gambero impaurito, finendo con le spalle al muro in pochi istanti.
Anche Ludwig alza il capo, e rimane abbagliato dalla luce metallica che si irradia dalla pistola. Muove le gambe all’indietro, piombando di fronte a me. La sua schiena mi protegge.
Allunga un braccio vicino al mio fianco, e mi spinge ancora di più dietro alle sue spalle. Io tremo come una foglia e riesco solo a nascondermi il viso tra le mani gelide che affondo tra i capelli. Le dita di Ludwig rimangono appoggiate sul mio busto. Si sfregano sulla stoffa della mia divisa, a causa dei miei spasmi continui.
Mi viene da piangere. Ludwig mi sta proteggendo mettendo a repentaglio la sua stessa vita e io non so fare altro che frignare dietro di lui.
“Non ti muovere.” Mi sussurra. La sua voce è ferma, non sembra per niente agitata.
Io socchiudo un occhio, gonfio e lucido, e lo sollevo sopra di me. Non riesco a vedere Ludwig in volto, è girato dalla parte di Ivan, ma mi basta guardare le sue spalle dritte, solide come una quercia, per capire che non sarò mai forte quanto lui.
Deglutisco un boccone amaro e annuisco.
“Va... va bene.” Singhiozzo.
La voce di Ivan, però, mi costringe a disubbidire.
“Mhm. Direi che non è il caso che tu te ne stia lì dietro.” Dice.
Non riesco a vedergli il viso, ma credo che stia sorridendo. È lo stesso tono che usa quando ha il sorriso stampato sulle labbra.
Ludwig arretra di un passo, portando la sua mano ancor più vicina al mio busto. Affondo completamente con il viso dentro al camice, immergendo il naso tra le sue scapole.
“Non farlo, Feliciano. Resta dietro di me.”
“Le ho detto che non è il caso, dottore.”
Io strizzo gli occhi, strofinando la fronte sulla schiena di Ludwig. Quando parla, sento la sua cassa toracica vibrare.
“Mi creda, dottore...” Continua Ivan con quel suo tono tenero e dolce. “Lo faccia uscire di lì. Altrimenti sarò costretto a sparare.”
Una scossa mi fa fermare il cuore dentro al petto. Sento la mano di Ludwig stringere la presa attorno a me.
“D’accordo.” Gli dice. “Provaci.”
Il groppo in gola si scioglie. “No, Ludwig!” Esclamo.
Tutto ma non questo. Tutto ma non questo, ti prego.
Mi scollo dalla sua schiena e scivolo delicatamente via dalla sua presa. La sua mano scorre, cadendo di nuovo al mio fianco. Mi lascio travolgere dai raggi della lampada, mettendomi vicino a Ludwig, a capo chino. Un altro tremito mi corre sulla spina dorsale, e le mie spalle si arricciano, piegandomi verso il basso. Ruoto gli occhi verso il centro della cella, e il sangue mi si ghiaccia nelle vene.
Ivan sorride. Le palpebre sono chiuse davanti ai suoi occhi.
“Così va meglio.” Dice.
Fa scorrere il pollice sul dorso della pistola, appoggiandolo sulla sicura. Il mirino si solleva verso di me, il foro della canna mi guarda come una bocca scura e profonda. Un vortice pronto a risucchiarmi. Il pollice di Ivan scivola verso il basso e la sicura scatta.
“Vedete, è molto meglio senza quella barriera fastidiosa. Ora possiamo stare tutti insieme.”
Mi lascio scappare un gemito. Chino la testa, avvolgendomi il capo tra le dita tremolanti e sudate. Il silenzio cala.
 
Anche se gli occhi di Ivan sono coperti dalle palpebre, sento comunque tutto il loro peso spingere sulle mie spalle. Rimango piegato verso il pavimento, con la testa spremuta tra le mani. Provo a socchiudere un occhio, quello sinistro, ma la vista vacilla.
Anche Gilbert sta tremando, raggomitolato sulla parete come un cucciolo spaurito. Ludwig respira a fatica. Gli occhi allucinati, attraversati da una scossa di paura, non si scollano da Ivan. E dalla pistola.
“Allora, dottore...” Inizia Ivan, distendendo il sorriso pacifico sulla labbra. “Questo esperimento avrebbe dovuto metterla nei miei panni, giusto? Avrebbe dovuto farle capire come ci si sente a vivere nella mia testa?”
Ludwig socchiude le labbra e lascia passare un filo d’aria dentro alla bocca. Si inumidisce la lingua, poi annuisce.
“Esatto. Detto in parole povere, è proprio così.”
“Mhm, capisco.”
Ivan piega la testa di lato e le sue guance si sollevano.
“Mi dica, dottore, lei sa che cosa sia la sofferenza?”
Ludwig sgrana gli occhi e il fiato appena riacquistato gli muore in gola. Butta fuori una boccata d’aria dalle narici e abbassa le palpebre.
“È ovvio, Braginski. Ogni essere umano ha sperimentato la sofferenza almeno una volta nella vita. È un sentimento naturale, che sorge spontaneo nelle nostre menti. Io non sono da meno. Anche io, come tutti, ho sofferto in certe occasioni della mia esistenza.”
“Mhm. Beh, allora è molto strano, dottore.”
Ivan piega leggermente il gomito verso il petto, il mirino della pistola si abbassa di una manciata di centimetri.
“In tutti questi anni in cui sono rimasto chiuso qui al Welt, lei ha sempre avuto la stessa faccia. Sì, ogni giorno in cui io e lei ci incontravamo la sua espressione non mutava.”
Le palpebre di Ivan si sollevano lievemente. Una scintilla violacea si irradia dai suoi occhi. “Sempre quell’aria seria e grigia. Non ha mia dato segno di provare qualche tipo di emozione, davanti a me. Mai. Nonostante io l’abbia vista ogni singolo giorno, durante questi ultimi anni.”
Ivan raddrizza il capo sul collo, le sue sopracciglia si abbassano, distendendo la fronte sotto l’ombra dei capelli.
“No. Secondo me lei non sa cosa sia la sofferenza, dottore.” Conclude, appiattendo le labbra.
Ludwig s’irrigidisce, il suo corpo viene scosso da un leggero tremito. Aggrotta la fronte, contorcendo la bocca in un ghigno di rabbia.
“Se dici questo, Braginski.” Dice, ma la sua voce è ferma e decisa. Non sembra arrabbiata. “Allora dovresti provare a spiegarmi tu, cosa sia la sofferenza.”
Ivan alza gli occhi al cielo. Il suo viso torna dolce e pacifico. I lineamenti si rilassano e lui inizia a fissare il soffitto con aria pensosa.
“Mhm. Cosa ne penso? Beh, direi che sofferto anche io nella mia vita e, ovviamente, qui al Welt dove sono costretto a starmene chiuso, senza vedere o parlare con qualcuno. Però, di una cosa sono certo.”
Torna ad abbassare la fronte. Le palpebre si richiudono davanti alle gemme viola incastonate sul viso, e le labbra si inarcano, piegando gli angoli della bocca verso l’alto.
“È decisamente molto meglio vedere la sofferenza dipinta sul volto di qualcun altro, che provarla direttamente sulla propria pelle.” Lo dice quasi ridendo. Con un tono così ingenuo che pare uscito dalla bocca di un bambino.
Sento una piccola fiammella ardermi nel petto. Raccolgo tutto il coraggio che ho in corpo e scuoto la testa, ancor prima che Ludwig abbia tempo di reagire.
“Questo... questo non è giusto.” Dico con voce tremante.
Tutti si voltano a guardarmi, persino Gilbert, che è ancora ammutolito con le spalle al muro.
Io sgrano gli occhi lucidi, velati dalle lacrime che ancora non scorrono, e incrocio lo sguardo con quello di Ivan che ha socchiuso un occhio.
“Tutti quanti soffriamo, è vero. So anch’io cosa significa e so anche che è una sensazione bruttissima.” Arriccio il naso e aggrotto le sopracciglia, sperando di riuscire a trattenere il pianto.
“Ma è sbagliato augurare agli altri il dolore che ci tocca. Le persone sono fatte per aiutarsi a vicenda, in quei momenti, non per soffrire al nostro posto.” Scuoto la testa e i capelli ondeggiano. “No, è sbagliato. Sarebbe solo un’ingiustizia.”
Ivan ruota di nuovo gli occhi al cielo, rapito dalla luce della lampada bianca.
“Mhm, ingiustizia?” Dice, arricciando le labbra. “In realtà, credo che nessuno mi abbia mai spiegato cosa sia giusto e cosa sia sbagliato.”
Abbassa lo sguardo su di me e mi sorride. “Così io faccio solo ciò che mi fa sentire bene e non mi fa soffrire. È questa l’unica cosa giusta da fare, non credi? Per cui, se io dico che è meglio che voi restiate qui dentro, lo faccio perché desidero che voi rimaniate. Non è perché io voglio realmente farvi del male, siete voi che mi costringete a farvene.”
Sento un tonfo al cuore,e  gli occhi si girano involontariamente verso la porta blindata. Fuori c’è il corridoio, e ancora più fuori del corridoio...
Scuoto la testa.
“No, dobbiamo uscire. Non capisci, fuori... fuori c’è qualcuno che ci sta aspettando!” Esclamo, supplicandolo con occhi vacillanti.
Ludwig stringe i pugni e aggrotta le sopracciglia sotto la fronte.
“Non ti preoccupare, Feliciano.” Mi dice, puntando gli occhi verso Ivan. “Usciremo di qui. Non ricordi? Te l’ho promesso.”
Ivan socchiude un occhio, e il nero torna a galleggiare intorno a lui come una polvere scura e pesante. Alza di nuovo la pistola, come se si fosse ricordato solo ora di averla in mano. Ma la punta contro Ludwig.
“Sì, oggi lei è davvero strano, dottore.” Gli dice, ma la sua voce è mutata.
Di nuovo quel suono cupo e profondo, come se provenisse dalle viscere del suo corpo.
“Come mai oggi il suo sguardo è diverso? Non era mai capitato, ma mi piaceva vederla così spento e triste.”
Ludwig deglutisce un boccone di saliva, una goccia di sudore gli scivola giù per il collo, entrandogli nel camice. Ivan fa scivolare l’indice sopra il grilletto, il pollice si sposta dalla sicura fino alla guancetta.
“Ha detto di voler provare cosa si sente stando dentro alla mia testa, vero? In questo caso, dovrebbe soffrire, dottore.”
Ludwig arretra di un passo. Fissa la pistola come se fosse un cane feroce intento a divorarlo.
“Aspetta, non...”
Il mio cuore si ferma, tutto il mio corpo si congela. Non riesco a muovere una singola unghia.         
Non può sparargli. Non voglio. Mi ha sempre protetto, e io ora non posso fare niente. Niente. Vorrei buttarmi davanti a lui ma le gambe non si muovono.
Muovetevi, gambe. Vi prego, muovetevi!
“No, Ludwig!”
Il mio urlo squarcia il silenzio, ma viene assorbito subito. Il rimbombo dello sparo rimbalza tra le pareti, risucchiando le mie parole come inglobandole dentro ad una bolla.
La canna della pistola getta una sbuffata di fumo grigio. Ma, il mirino è puntato su di me.
 
 
Perché non sento dolore? Mi ha appena sparato, ora dovrei ritrovarmi per terra a rantolare come un animale in una pozza di sangue.
E se fossi già morto?
Una goccia di sudore gelido, quasi sfrigolante sopra la mia pelle rovente, mi scivola sopra una palpebra strizzata. Il liquido salmastro si incastra tra le ciglia, raccogliendosi dentro all’occhiaia infossata.
La lingua secca, incastonata tra i denti stretti, è incollata al palato, incapace di muoversi. Solo quando provo a socchiudere le labbra mi ricordo di avere anche un naso.
L’aria che mi penetra nelle narici è l’unico suono in tutta la stanza, sommersa in un silenzio disarmante. Quando l’ossigeno mi gonfia i polmoni, la mia schiena scrocchia, costringendomi a raddrizzare le spalle. Rilasso le dita delle mani e le unghie fuoriescono dalla carne, insudiciate di sangue tiepido. Ora i palmi mi bruciano, soprattutto quando il sudore scivola sopra i graffi.
Allora sono vivo!
Chiamo a raccolta l’ultima briciola di coraggio che è avanzato in un polveroso angolino del mio cuore, e socchiudo le palpebre arrugginite e innaffiate dai liquami che continuano a spurgare dalla mia fronte. La mia faccia brucia così tanto che sembra stia andando a fuoco.
Solo un raggio di luce mi trafigge l’occhio, e non è nemmeno tanto forte. Forse, è perché, prima di colpire il mio viso, striscia direttamente sulla spalla di Ludwig. L’ombra scura della sua schiena mi copre fino alla punta dei capelli.
Un pugno di ghiaccio mi colpisce in pieno lo stomaco. Un boccone di bile mi risale la gola e io la ricaccio giù ustionandomi il petto. Il conato di vomito si torna a sciogliere, divorandomi le interiora come se avessi ingoiato mille aghi roventi.
Sollevo le sopracciglia sopra gli occhi sgranati, persi e vacillanti nel vuoto.
…No…
La testa di Ludwig si piega in mezzo alle spalle, la sua schiena si inarca verso la pancia. Ludwig si raggomitola come un riccio, abbassando le braccia rigide e contratte sul suo busto. Fino ad un secondo fa erano spalancate ai suoi fianchi.
La luce torna ad abbagliarmi, colpendomi prima con il riflesso dorato dei capelli di Ludwig che si china lentamente davanti a me. Il riverbero mi schiaffeggia gli occhi, e io ritorno alla realtà.
Socchiudo lentamente le labbra, secche e asciutte, e la figura di Ivan torna a materializzarsi al centro della stanza.
“…Ludwig...” Solo un sibilo. Non esce nient’altro dalla mia bocca.
Ludwig, con uno sforzo disumano, tenta di tenersi in equilibrio. Barcolla un paio di volte, poggiando il peso sui piedi che traballano al suolo. Poi, le sue spalle si ammosciano e lui si accascia su di me. Il suo corpo che mi piomba sulla pancia mi mozza il fiato, il peso della sua schiena mi schiaccia contro il muro. Le mie braccia si allungano intorno ai suoi fianchi, ma rimangono pietrificate a mezz’aria.
I miei occhi continuano a fissare il vuoto. Le orbite si gonfiano di lacrime pungenti, le palpebre iniziano a cedere sotto tutto quel peso. Le pupille sono sommerse, innaffiate dal sale, e la vista mi si appanna.
Non ce la faccio più.
I polmoni si gonfiano e quasi esplodono con tutta quell’aria che risucchio dalle narici. Finalmente la bocca si spalanca, le lingua si stacca dal palato portandosi dietro un filo di saliva.
Ludwig!
Gli occhi mi esplodono, spargendo fiumi di lacrime che rotolano fin dentro le labbra.
Ludwig non si muove.

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


CAPITOLO 13
 
Ivan mi sorride, la pistola fumante scintilla sotto il riverbero del neon, tesa davanti al suo petto. Una nuvoletta grigia sbuffa dalla canna, arricciandosi, per poi svanire mentre fluttua verso l’alto. L’aria inizia presto a puzzare di polvere da sparo, un odore acre e pungente che mi penetra le narici.
Guardo Ivan con occhi pietrificati dal dolore. Le lacrime continuano a scorrere, straripanti come un fiume in piena. Ma io resto zitto, imbambolato, con la bocca aperta. Il pianto continua a scivolare sul mento, posandosi delicatamente, come una leggera pioggerellina, sulla spalla di Ludwig. In un secondo, il suo camice è fradicio.
Ruoto le pupille offuscate verso il suo volto stropicciato, che tenta inutilmente di trattenere l’agonia dentro di sé. La punta del mio naso finisce sommersa tra i suoi capelli. Io respiro, e una ciocca dorata si sposta leggermente.
Le ginocchia di Ludwig iniziano a cedere e si piegano in avanti, scaricando tutto il peso sulla schiena. Il suo bacino preme sul mio, schiacciandomi contro il muro.
Il fiato mi si mozza nello stomaco.
Ludwig rilassa la fronte, la bocca dilaniata si distende e le palpebre strizzate si sollevano di poco. Ingolla un ultimo gemito e si lascia cadere al suolo, accasciandosi come un grumo di soffice neve che si sta sciogliendo.
Ivan socchiude gli occhi, appiattendo le labbra sul volto.
“Oh, ma che strano.” Dice con tono sorpreso. “Non avrebbe dovuto mettersi davanti. È tutta colpa sua, se l’ho colpito.”
Io abbasso lo sguardo su Ludwig, caduto immobile ai miei piedi. Le ginocchia non mi reggono, traballano come gelatina. Traggo un altro sospiro dalle narici a anche io mi lascio cadere per terra, gettandomi su di lui con la morte nel cuore. Ludwig ha chiuso gli occhi, e il capo si è inclinato di lato. Una guancia preme sul pavimento.
“No, Ludwig! Perché l’hai fatto?!” Urlo, con voce strozzata dal pianto.
Mi chino sul suo petto, ma le mani mi tremano troppo e non riesco a percepire alcun battito pulsare sotto i miei palmi.
Il pavimento cigola, qualcosa ha iniziato a strisciare sulle piastrelle. L’ombra gobba di Gilbert ci investe entrambi.
“Ohi, Ludwig, svegliati. Non fare cazzate!” Esclama Gilbert, aggrappandosi al suo busto.
La luce dei tubi al neon gli fa brillare il viso, bagnato dal sudore che sgorga dalla fronte. I suoi iridi tremano come fiammelle, dentro alle orbite infossate come pozzi scuri.
Gilbert stringe le dita attorno al polso di Ludwig, e gli solleva il braccio con un gesto lento, impaurito. La mano di Ludwig gronda di un liquido scarlatto, che brilla come succo di rubino sotto il riverbero bianco. Qualche goccia si è infiltrata sotto le sue unghie. Sulla stoffa del suo camice bianco spunta un fiore di sangue proprio sotto il bacino, poco più sopra della coscia. Tutto quel sangue, ora, è spalmato come vernice sul suo palmo che gocciola fiumi di lacrime rosse.
Gilbert sbianca in volto, il suo labbro inferiore trema.
“Oddio.” Mormora con un filo di voce.
Io mi sento svenire. Il cuore smette di martellarmi nel petto, e mi si ferma dritto in gola. Un’ondata di gelo mi stritola lo stomaco.
Strizzo le palpebre, spremendo fuori tutto quello che rimane del mio pianto.
“No, Ludwig!” Esclamo di nuovo, scuotendo la testa.
Mi getto di peso sul suo petto, stringendo le dita attorno al camice. Le mie lacrime continuano a gocciolargli sul busto, ormai già umido e tiepido. I tremiti si espandono su tutto il corpo, la mia schiena è uno spasmo continuo. Soffoco i singhiozzi tuffando il viso tra i suoi vestiti, quasi strozzandomi.
“Doveva colpire me... doveva colpire me, Ludwig. Perché...” Un altro gemito mi mozza il fiato. “Perché ti sei messo davanti?”
Strofino la faccia sulla stoffa che gli fascia il petto, scrollando i capelli davanti al viso distrutto.
“Non morire.” Un altro singhiozzo. Sto letteralmente affogando nelle mie stesse lacrime.
“Apri gli occhi, ti scongiuro. Non morire!”
“Non... non sto... morendo.”
La sua cassa toracica trema. Una profonda vibrazione mi solletica l’orecchio.
Sollevo una palpebra e la sbatto un paio di volte per schiarirmi la vista. Ludwig serra i denti, e la luce dei suoi iridi azzurri lancia una scintilla da sotto l’ombra dei capelli. Io sgrano gli occhi, ancora lucidi e tremanti. Spalanco la bocca, e il mio respiro rallenta.
“Ludwig... ma... ma allora...” Esclamo, stringendo ancora di più le dita attorno al camice.
Sento tutte le mie interiora snodarsi, sciogliendo quel grumo che mi dilaniava lo stomaco dal dolore.
“Ma allora sei vivo!”
Avvicino il mio viso alla sua guancia, premendo tutto il peso sui palmi delle mani appoggiati sul suo petto. Ludwig soffoca un lamento, strizzando una palpebra.
Raddrizzo subito la schiena, impennandomi sulle ginocchia.
Scusascusascusascusa. Non volevo farti male.” Gli dico, arricciandomi le braccia sul grembo.
Gilbert rilassa le spalle e butta fuori dalla bocca una grossa sbuffata d’aria.
“Mio Dio, per un attimo ho...”
“Ah ah ah, dovreste vedervi!”
La voce di Ivan ci fa rizzare sul posto. Il mio sguardo e quello di Gilbert schizzano dritti su di lui. Ludwig riesce solo a ruotare leggermente gli occhi davanti a sé.
Ivan sorride come un raggio di sole. Il suo viso illumina la stanza ancor di più della luce della lampada, che gli accarezza i lineamenti del volto come un’aureola. I suoi occhi sono nascosti dalle palpebre.
“Dovreste proprio vedere le vostre facce. Sì, mi piacciono proprio.” Dice con voce allegra. Il suo sorriso si allarga. “Sono proprio bellissime.”
Io e Gilbert rimaniamo raggelati. Quelle parole ci stringono in una morsa ghiacciata.
Lo sguardo di Gilbert s’incupisce, oscurandogli il volto. Inarca le sopracciglia, e gli occhi si infossano nelle orbite. La bocca si dilania in un ghigno.
“Ludwig, la ferita ti fa molto male?” Domanda al fratello, senza scollare lo sguardo da Ivan.
Ludwig lascia scivolare una mano tremante sulla ferita e un fiotto di sangue spurga dalla stoffa forata, annaffiandogli le dita.
“Non mi ha toccato punti vitali.” Dice Ludwig, strizzando una palpebra.
Non so come faccia. Giuro, proprio non lo so, ma la sua voce non dà il minimo segno di cedimento. È ferma come una roccia.
“Credo di riuscire persino ad alzarmi, basta solo che fermi il sangue.” Conclude, traendo un respiro dal naso.
Gilbert annuisce. “Va bene.”
Gli afferra un braccio e se lo cinge attorno al collo. Le dita di Ludwig gli ciondolano da una spalla.
“Allora usciamo di qui.”
Gilbert si dà una spinta sul piede e raddrizza un ginocchio trattenendo il fiato tra i denti. Ludwig sgrana gli occhi. Si appiglia con l’altra mano sulla divisa del fratello, tirandolo verso il basso.
“No, fermo!” Esclama.
Lui e Gilbert finiscono di nuovo col sedere per terra. Gilbert lo lincia con un’occhiata di fuoco e piega un angolo della bocca verso il mento.
“Che diavolo stai facendo?” Esclama. “Dobbiamo uscire di qui, Ludwig! Questo ci ammazza tutti!”
“Non abbiamo finito, Gilbert! Non abbiamo ancora usato il Transfert e…”
Cosa?! Come puoi pensare ad un’idiozia simile in questo momento?”
Gilbert gli afferra le spalle e stringe le dita, affondandole nella stoffa del camice. Il suo sguardo è sconvolto, stropicciato dalla confusione e dalla paura.
“Dobbiamo andarcene. Al diavolo il Transfert. Questo qui…” Getta il braccio vero Ivan, a palmo aperto. “Questo bastardo ti ha quasi ammazzato, Ludwig! Dobbiamo portarti fuori e curarti prima che tu muoia dissanguato e prima che uccida anche noi!”
“Ti ho detto… ti ho detto che sto bene.” Gli risponde Ludwig, sollevandosi e appoggiando la schiena sul muro.
Si porta una mano attorno al bacino, avvolgendo lo sbocco del sangue che sta ancora grondando.
“Sono un medico. Sono in grado di capire da solo quando è il caso di preoccuparsi.”
Gilbert stringe i denti, traendo un profondo respiro dalle narici. Si getta di nuovo su Ludwig, aggrappandosi al colletto del suo camice.
“Ascolta me per una volta, Ludwig!” Gli urla nell’orecchio. “Andiamocene, o…”
“Non posso uscire da qui!” Tuona Ludwig, aggrottando la fronte.
Gilbert sgrana gli occhi, impietrendosi come una statua. Rilassa le dita attorno alla stoffa del camice, e Ludwig sospira, socchiudendo le palpebre.
“Se uscissi… probabilmente non avrei più il coraggio di rimettere piede qui dentro, capisci?”
Gilbert esita, rimanendo ammutolito per qualche secondo. Poi, scuote la testa.
“Chi se ne frega!” Esclama. “Perché è così importante, Ludwig? Abbiamo già sbaraccato a sufficienza questo posto, non ti pare? Evidentemente c’è un valido motivo per cui questo bastardo russo si trovi qui.”
Gilbert assottiglia lo sguardo, e gli iridi scarlatti vacillano, incrociando quelli azzurri di Ludwig. “Non puoi salvarli tutti. Non c’è alcuna ragione valida per perdere ancora tempo qua dentro.”
“Sì, invece!” Esclama Ludwig, aggrottando le sopracciglia.
Gilbert gli scuote le spalle, avvicinando la punta del naso al suo viso. “Perché?! Cos’è che ti preme tanto?”
Gli occhi di Ludwig s’infossano nelle palpebre. Alza le sopracciglia, aggrottando la fronte, e il sudore gli lacrima da una tempia. La sua pupilla ruota lentamente verso di me.
Io scatto sul posto, rimbalzando sulle ginocchia ancora premute sul pavimento. Mi stringo i pugni sul petto, e inizio a tremare come un pulcino bagnato.
Ludwig socchiude le labbra. “Perché io…”
“Non credo che sia una buona idea, uscire dalla cella.”
La voce di Ivan, di nuovo cupa e cavernosa, ci riporta alla realtà ricordandoci che lui è ancora in piedi e con una pistola stretta in mano. Ci voltiamo tutti. La luce violacea dei suoi occhi socchiusi ci squadra, schiacciandoci contro la parete. Il suo gomito si piega, ritirandosi vicino al busto. La canna della pistola pare quasi inghiottirci in quel vortice nero.
“Gliel’ho già detto, dottore, non voglio che vuoi usciate da qui, e non desidero nemmeno farvi del male. Tuttavia, se deciderete di fare di testa vostra…”
Lascia scivolare il pollice sulla sicura e l’indice stringe attorno al grilletto che cigola. Ivan solleva le sopracciglia sotto l’ombra nera della sua fronte. I suoi occhi s’illuminano, e il sorriso si allarga tra le guance lattee.
“Dovrò sparare di nuovo.”
Io mi lascio scappare un gemito, chiudendomi a riccio tra le spalle. Gilbert deglutisce una boccata di saliva e striscia anche lui verso la parete, schiacciando la schiena affianco a quella di Ludwig.
“Siamo morti.” Dice, stringendosi la testa tra le dita tremolanti. “Morti, morti, morti, morti, fottutamente morti.”
Una morsa di ghiaccio mi stritola il cuore.
No, non posso morire qui. Non ora. Devo tornare a casa con Lovino, con Antonio, con Kiku, con Ludwig! Non posso morire.
Volto il capo verso Ludwig, come per cercare un suo conforto, come sperando di sentire parole rassicuranti uscire dalla sua bocca.
Ludwig china la testa e l’ombra dei capelli gli nasconde gli occhi.
“No.” Scuote la testa. “Non può finire così.”
Mi sento sbiancare come un cadavere. Getto lo sguardo sul pavimento, specchiandomi sulle piastrelle candide che fanno ondeggiare il mio riflesso. Mi accascio a terra con tutto il peso premuto sulle gambe ancora piegate sotto di me. Le braccia mi ciondolano sui fianchi e le dita sfiorano il pavimento, gelido e liscio come un blocco di ghiaccio. La frangia mi cade davanti agli occhi, ostruendomi la vista.
È finita.
All’improvviso, qualcosa inizia a brillare davanti i grumi di ciocche scurite dal sudore.
Spalanco una palpebra, seguendo solo con una pupilla quel scintillio improvviso. Volteggia un paio di volte davanti alle mie ginocchia, disegnando cerchi concentrici a mezz’aria, sempre più grandi. Faccio scattare il capo all’indietro, raddrizzando il collo, e i miei occhi si spalancano, ipnotizzati dal quel bagliore che danza come un fuoco fatuo .
La scintilla piroetta in mille direzioni, e frulla verso il centro della stanza lasciandosi dietro una scia gialla che scompare poco dopo. Si ferma proprio tra me e Ivan – anche lui ha disteso il viso, rapito dallo splendore di quel lumino – . Lì inizia a vorticare come una trottola, e forma un grande disco giallo che fluttua nel mezzo della cella.
In mezzo a quella tempesta di luce dorata, qualcosa inizia a materializzarsi dal pavimento. Una sagoma bianca si compone, avvolta dall’uragano splendente che s’ingrossa sempre di più.
Io spalanco la bocca come un pesce appena rimasto soffocato, totalmente ammaliato da quello spettacolo.
Qualcosa fuoriesce dal vortice, distendendo una figura bianca che si allunga in aria. Il bianco diventa stoffa che ondeggia sotto quel vento magico, e dal bordo della manica sbuca una mano gracile e sottile. Le dita lunghe e secche si arricciano, stringendo la sfera dorata da cui si sta sprigionando quello sciame di scintille luminose. La tempesta inizia a placarsi, il globo giallo si spegne lentamente, come se si stesse addormentando. Anche l’ultima manciata di scintille evapora, dopo aver scosso una massa di capelli fulvi che stanno ancora ondeggiando, mossi dalla corrente.
Ludwig sgrana le palpebre, e le sue labbra iniziano a tremare.
“Non è possibile…” Sibila. La sua voce si è arrochita.
La luce sparisce, divorata letteralmente dal pugno che si chiude, ritirandosi al fianco del ragazzo in piedi davanti a noi. Il braccio gli ricade, ciondolando sopra la stoffa della candida divisa del Welt.
Ludwig allunga il collo, con gli occhi quasi spremuti fuori dalle orbite. “… Kirkland?”
 
***

Il vortice dorato si risucchia dentro alla sua mano, stretta sul suo fianco. Il vento si placa, a poco a poco, e i suoi capelli smettono di fluttuare. Le ciocche gli cadono sopra alle orecchie, riflessi biondi ondeggiano sotto alla luce delle lampade.
La mandibola mi trema, la lingua si stacca dal palato e sfiora le labbra secche, inumidendole.
“Non è possibile…”
Una goccia di sudore mi scivola su un sopracciglio. Il peso che mi grava sul petto si scioglie, e riprendo a respirare a pieni polmoni.
“…Kirkland?” Mormoro con voce ancora arrochita.
Arthur Kirkland rilassa le spalle, le scapole si abbassano sotto la stoffa della divisa che si distende sopra la sua schiena. La mano torna a percorrere il suo fianco e le dita si stringono attorno al suo bacino. Kirkland poggia tutto il peso su una gamba, e ruota il busto all’indietro, mostrandosi di profilo. Le palpebre chiuse davanti agli occhi.
“Sembra proprio…” Dice, con un accenno di sorriso dipinto sulle labbra.
I suoi occhi si socchiudono, liberando la luce smeraldina proiettata dai suoi iridi.
“Sembra proprio che non te la stia cavando proprio alla grande, vero, dottore?”
Io esito e una fitta mi colpisce nel basso ventre. Stringo i denti, avvolgendo le dita attorno alla ferita che continua a pulsare. Un rivolo di sangue mi scorre tra la mano irrigidita.
Braginski piega la testa di lato, socchiudendo le palpebre davanti agli occhi offuscati dalla confusione. Kirkland non sembra preoccuparsi della sua presenza, e alza un palmo della mano verso l’alto, sollevando le sopracciglia.
“Avevo intuito che le cose si stessero complicando, quando le persone hanno smesso di uscire, pur mancando ancora delle stanze. Ma, sul serio, non pensavo stessero andando così male.” Dice, con un sorrisetto sarcastico.
Feliciano solleva il naso verso l’alto, puntandolo sul viso di Kirkland. L’ ombra dell’inglese lo ricopre quasi del tutto.
Io mi mordo un labbro. “Come… come sei…”
“Come hai fatto a tornare qua?!” Esclama Gilbert al mio fianco.
Gilbert si appiattisce ancora di più sulla parete, schiacciando il capo tra le spalle sollevate. Piega un angolo della bocca verso il basso, e le labbra iniziano a tremare.
Deglutisce a fatica un boccone di saliva. “Tu… tu non puoi essere reale. No, non puoi. È un’allucinazione.”
Scuote la testa e un’ondata argentea gli attraversa i capelli. “Come hai potuto… come hai potuto materializzarti così all’improvviso, eh? Spiegamelo!”
Kirkland inarca le sopracciglia e una palpebra si abbassa sopra un’iride.
“Esattamente allo stesso modo con cui sono sparito prima.” Risponde con un ghigno.
Gilbert sibila qualcosa tra i denti e china lo sguardo, inquadrando le sue stesse gambe tremanti stese sulle piastrelle.
“Non… non è una risposta.” Conclude.
Io aggrotto la fronte e sollevo di nuovo gli occhi su Kirkland, abbagliato dal neon che avvolge l’intera cella. Un’altra fitta mi morsica il busto, ma io arriccio il naso, soffocando il dolore tra i denti.
“Kirkland, tu prima sei sparito davanti ai nostri occhi.” Gli dico.
Sento un tonfo allo stomaco, così stringo la presa attorno al bacino. La macchia rossa si allarga anche sulla manica del camice.
“Mi spieghi perché lo hai fatto? E dove diavolo sei finito in tutto questo tempo, eh? Scommetto…” Deglutisco un boccone di saliva amara, sbuffando una soffiata d’aria dal naso. “Scommetto che anche la scomparsa di Jones è opera tua. Dico bene?”
Kirkland solleva un sopracciglio, appiattendo la bocca tra le guance lattee. Ruota gli occhi al cielo, arricciando le labbra in una smorfia infastidita. Le dita stringono attorno al suo busto, stropicciando la stoffa della divisa.
“Mi hai detto che potevo andarmene e l’ho fatto. Mi avresti fatto uscire in ogni caso, tanto valeva farlo a modo mio. Senza contare il fatto che…” Chiude le palpebre, aggrottando la fronte. Il naso si arriccia. “Senza contare il fatto che non mi sono mosso dal Welt. Sono rimasto nel corridoio esterno ad aspettarvi fino ad adesso. Francamente, non mi aspettavo che ci avreste impiegato tutto questo tempo.”
Socchiude un occhio, facendo scivolare un piede nudo sul pavimento di una manciata di centimetri.
“Ti avevo sopravvalutato, dottore.” Conclude, allargando un mezzo sorrisetto.
Io sbuffo una boccata d’aria e raddrizzo la schiena, appoggiando le spalle al muro. Sollevandomi, la ferita mi ustiona la pelle, come se ci avessero buttato sopra un pugno di sale. Sbianco in volto, un’ondata gelata mi travolge la fronte. I capelli iniziano a grondare di sudore e si scuotono sotto i tremiti che iniziano a correre attraverso i miei muscoli.
Deglutisco un conato di vomito, ricacciandolo nello stomaco.
“Sei stato… fuori fino ad adesso?”
Scuoto la testa e un leggero capogiro mi accerchia la fronte. “Come può essere? Hai fatto davvero tutta quella sceneggiata solo per questo? Per muovere tre passi dalla cella? È… è assurdo.”
Sto impazzendo. Sto seriamente impazzendo.
Kirkland sbuffa, aggrottando le sopracciglia. Solleva il naso al cielo, e mi osserva solo con la coda dell’occhio.
“Vuoi una prova? D’accordo, per cominciare…” Torna ad abbassare le palpebre. Un ghigno di rabbia gli fa tremare le labbra. “Per cominciare, Alfred ha già iniziato a fare lo spaccone con quel poveretto avvolto tra le coperte. Sta provando a farlo uscire in tutti modi, ma credo che lo stia solo spaventando ancora di più. Poi quel… quel maledetto francese ci ha già provato con me almeno quattro volte.”
Socchiude un occhio, ruotando la pupilla al cielo. “No, cinque volte. Poi lo spagnolo è insopportabile, non fa altro che parlare, parlare e parlare. Ho preso in seria considerazione l’idea di cucirgli la bocca, ma non ho trovato ago e filo. Ah, poi…”
Abbassa lo sguardo su Feliciano, piegando gli angoli della bocca all’ingiù, quasi toccandosi il mento.
“Tuo fratello è un idiota. Ecco, vi basta come prova?”
Io resto ammutolito, con la bocca mezza spalancata e le palpebre sgranate davanti agli occhi. Mi inumidisco la labbra, sbattendo le ciglia un paio di volte.
“Ecco, credo di sì.” Dico.
Inarco leggermente il collo di lato e aggrotto un sopracciglio. C’è ancora qualcosa…
“Un momento. Il tuo tempismo è stato fin troppo azzeccato. Sei comparso proprio quando…”
“È stato lo sparo.” Risponde Kirkland, tornando serio all’improvviso. “Lo sparo mi ha fatto capire che qualcosa evidentemente stava andando per il verso sbagliato. Ho calcolato il numero della cella in base alle persone già uscite e mi sono materializzato qui.”
“No, Kirkland, non può essere stato lo sparo.” Sbotto, aggrottando la fronte.
Ci avevo già pensato, cosa credi?
Mi inumidisco le labbra, assottigliando lo sguardo.
“Le celle sono tutte insonorizzate, non avresti potuto percepire nemmeno l’esplosione di una bomba, dal momento che siamo sigillati qua dentro. Dal corridoio, poi, è ancora più improbabile.”
“Non ho detto di aver sentito lo sparo, infatti.” Mi risponde lui, inacidendo il tono.
Kirkland arriccia il labbro superiore, infastidendosi di nuovo.
“Ho solo detto che lo sparo mi ha fatto intuire la presenza di un pericolo.”
Io sospiro a fondo. “E come saresti venuto a sapere dello sparo?”
Kirkland piega i lineamenti del viso, sciogliendo la pelle in un’espressione raccapricciata. Inarca un angolo della bocca verso il basso, socchiudendo le palpebre davanti agli occhi. La scintilla verde dei suoi iridi mi trapassa il cranio.
“Me l’ha detto un uccellino.”
Io e lui continuiamo a fissarci come se il mondo intorno a noi fosse svanito, dissolto nel nulla. Mi porto una mano sulla fronte – le dita scivolano sopra la pelle madida di sudore – e riesco a fatica a trattenere una risata.
Feliciano allunga il collo verso Kirkland e si porta i pugni vicino al petto. Si rizza nuovamente sulle ginocchia, e si trascina in quella posizione verso di lui. La sua schiena si allarga e l’ombra che si allunga sul pavimento si confonde con quella di Kirkland.
“Ma allora state davvero tutti bene. Anche Alfred! Meno male, ero davvero preoccupato!” Esclama.
Il viso di Kirkland torna a rilassarsi. Il fastidio che gli oscurava gli occhi si scioglie e lui getta lo sguardo di lato. Le palpebre si socchiudono, e la bocca si arriccia.
“Alfred sta meglio di tutti, credimi. Non ti devi preoccupare per lui.”
Ruota le pupille al cielo, sollevando la punta del naso al soffitto. “Non hai idea della fatica che ho fatto per convincerlo a rimanere fuori. Credo che si stia rodendo il fegato dall’invidia ma, per una volta…” Si appoggia un palmo della mano sul petto, gonfiandolo con aria fiera. “Per una volta, credo che non gli dispiacerà se sarò io a salvare la situazione. Mhm, sì, gli dispiacerà, ma non importa.”
Io traggo un profondo sospiro dalle narici. Il tremito cessa, e i muscoli tornano a rilassarsi. Stringo le dita attorno al camice zuppo di sangue, spremendo qualche goccia fuori dalla stoffa.
“Dunque, siete davvero tutti sani e salvi.” Abbasso lo sguardo, rilassando i lineamenti del viso. “Per fortuna, allora non è tutta una truffa. Siete vivi e reali.”
Un leggero sorriso mi accarezza le labbra. Dopotutto, non ero ancora riuscito a togliermi quel tarlo dalla testa.
“Ehm, scusate se interrompo la vostra piacevole chiacchierata.” La voce di Gilbert mi riporta alla realtà come una doccia gelata.
Faccio scattare il capo al mio fianco e lui mi squadra con due occhi imbronciati.
“Insomma, volendo vi avrei anche offerto un tè con i biscotti, poi ci saremmo lamentati delle code chilometriche alla cassa del supermercato, e del cassiere che è sempre così lento. Ma, in compenso, il fioraio diventa ogni giorno più gentile! L’ultima volta mi ha anche aggiunto tre fiori al mazzo senza farmeli pagare.”
Alza gli occhi al cielo, sospirando.
 “Eh, sì. Ci sarebbero davvero un sacco di cose da raccontarsi, in situazioni simili. Ma, posso ricordarvi che…”  
Il suo viso si stropiccia in un’espressione allucinata. Gilbert sgrana le palpebre, i suoi iridi scarlatti mi fulminano come scintille di fuoco. Solleva un braccio, e punta l’indice verso il centro della stanza, oltre Kirkland.
“Posso ricordarvi che c’è un pazzo bastardo con una pistola carica puntata su di noi?”
Mi scurisco subito in volto e getto lo sguardo nel mezzo della cella. Tutti mi imitano.
Braginski, per un attimo, esita. Poi, cala le palpebre davanti agli occhi, coprendo i riflessi viola che ci stavano spiando. Torna ad allargare il solito sorriso tra le labbra e la sua espressione ridiventa calma e pacifica.
“Perché vi preoccupare per me?” Domanda, inclinando la testa. La pistola è abbassata davanti al suo ventre. “Se ci sono molte persone a tenermi compagnia, io sono ancora più felice. Non dovete preoccuparvi.”
Una morsa gelida mi stritola il cuore. E non è per la ferita. Di nuovo quell’atmosfera ferma e cupa. Di novo quella sensazione appiccicosa che si attacca alla pelle.
Kirkland ruota i piedi sul pavimento, dandoci di nuovo le spalle. Stringe i pugni sui fianchi, e le spalle si irrigidiscono, allargandogli la schiena.
“Vattene, dottore.” Dice con voce ferma. “Ci penso io a tenerlo occupato in qualche maniera. Tu pensa ad uscire dalla cella e a raggiungere gli altri.”
Gilbert annuisce, inclinandosi verso l’uscita.
“Ottima idea.” Gracchia. “L’avevo proposta anch’io, ovviamente, ma sembra che qui nessuno mi dia…”
“Non posso uscire, Kirkland.” Sbotto, esattamente come avevo fatto prima con mio fratello.
Gilbert lascia ciondolare la testa tra le spalle e sospira con aria sconsolata. Kirkland e Feliciano si voltano. Feliciano si stringe un pugno vicino alla bocca, e aggrotta la fronte in uno sguardo di supplica. Gli occhi lucidi gli tremano. Kirkland inarca le sopracciglia, e sgrana le palpebre, incredulo.
Socchiude le labbra, ma l’aria è strozzata in mezzo alla sua gola.
“Ma… sei impazzito?” Mi chiede Kirkland, con voce acida.
Arriccia il naso, ruotando il busto verso di me. Il suo volto s’incupisce e le unghie affondano nella carne dei suoi palmi.
“Guarda come sei ridotto. Quanto credi di resistere, conciato in quel modo? Smettila di atteggiarti e scappa, prima di schiattare sul serio.”
Io scuoto la testa, strizzando le palpebre fino a che il bianco non inizia a lampeggiare davanti ai miei occhi.
“Mancano ancora dei pazienti da esaminare, Kirkland.” Ho alzato il tono. “Non posso andarmene e lasciarli qui. Con voi tutti non mi sono arreso e ora siete liberi. Non posso mollare, capisci?”
“No, non ti capisco, dottore!”
Riapro gli occhi, riprendendo a respirare profonde boccate d’aria. Kirkland aggrotta le sopracciglia, squadrandomi con occhi duri e severi.
“In tutti questi anni…” Mi dice con tono acido. “In tutti questi anni non hai mosso un dito per migliorare la situazione. Abbiamo aspettato una tua qualche reazione, chiusi in quelle maledette celle per Dio solo sa quanto.”
Si fa scuro in volto, i suoi occhi mi sotterrano.
“Ma tu niente. Eri morto più di noi, dottore. Oggi, però, di punto in bianco, decidi di evacuare in tutta fretta questa baracca, sbattendoci fuori uno per uno.”
“Questo l’ho notato anch’io.” La voce di Braginski si intrufola, placando l’ira di Kirkland.
Il giovane inglese si volta di scatto, ma Braginski ruota gli occhi violacei su di me, mantenendo quell’aria serena, anche se il sorriso è sparito.
“Anche secondo me il dottore ha qualcosa di diverso, oggi.” Prosegue. “Non so cosa gli sia preso, ma non mi piace proprio.”
Kirkland esita, e un soffio di paura attraversa per un attimo il mio cuore. L’idea di un’alleanza da parte dei pazienti per vendicarsi su di me s’intrufola come uno schifoso insetto nel mio cervello, ma svanisce quasi subito.
Kirkland sbuffa, e torna a cingersi i fianchi con entrambe le mani. Getta lo sguardo di nuovo verso di me, ma i suoi occhi non minacciano più di tagliarmi in due.
“Sì, non so cosa ti sia preso oggi. Francamente, scusa se te lo dico, ma dubito che tu stia facendo questo solo per il nostro bene.” Sbotta, secco e schietto come al solito.
Io non mi scompongo. Rimango a fissarlo, senza variare espressione. Kirkland ricambia il gesto.
“A cosa stai puntando davvero, dottore? Perché lo stai facendo?”
Allunga il collo verso di me, e la frangia gli ondeggia davanti alla fronte.
“Qual è il vero motivo delle nostre liberazioni? Perché è così importante che le celle siano vuote?”
Un pugno mi centra in pieno lo stomaco. Tutti mi osservano, tutti si aspettano una valida giustificazione. Mi guardo intorno, ad occhi bassi. Già, ora mi sento io, il pazzo inquisito.
Socchiudo le labbra, anche se non so cosa uscirà dalla mia bocca.
“Io…”
Il cervello inizia a friggere.
La stanza numero nove… complotto… Feliciano… la numero nove… la numero nove… nove…!
“Io devo…”
Un colpo fredda le mie parole. Un tonfo batte sulla porta blindata, sprigionando un eco metallico che rimbalza tra le pareti.
Tutti ci voltiamo. Kirkland scatta all’indietro, e la pelle dei suoi piedi nudi singhiozza sul pavimento.
“Ma… ma che…” Mormora Kirkland con voce impastata.
Un altro colpo tuona sull’entrata.
Solo ora realizzo quello che sta succedendo. Una vampata di caldo mi travolge.
Ruoto lentamente il capo verso Gilbert, il collo sembra essersi arrugginito sulle spalle.
“Gilbert…” Lo chiamo, con il cuore in gola.
Lui si volta, e il suo viso è sbiancato come un lenzuolo. Socchiude la bocca, le labbra gli tremano.
“Gilbert… hai chiuso la numero otto?”
Le sue palpebre si spalancano, una goccia di sudore gli rotola a fianco del naso. Gli iridi si rimpiccioliscono, quasi divorati dal bianco dell’occhio.
“Io… io forse ho…” Deglutisce, piegando le labbra in un lamento. “Forse ho sbagliato chiave per la fretta di uscire. E forse la barriera potrebbe… potrebbe essere rimasta aperta.”
Mi abbandono sulla parete, il mio viso si distende in un’espressione rassegnata. Soffoco una risata nel petto, e la schiena si sfrega sul muro, scossa dallo spasmo delirante che mi attraversa ogni fibra del corpo.
La bocca mi si piega in un sorriso sadico, malato.
“Siamo fottuti.”       
 
 
Cella #8
Paziente: Natalia Arlovskaya
 
I colpi continuano a rimbombare sulla porta, alternandosi ai battiti dei nostri cuori che martellano nel petto. Mi porto due dita sulla fronte, premendo le tempie. Le vene pulsano sotto i miei polpastrelli.
Braginski abbassa la pistola, e ritira il gomito su un fianco. La sua maschera scura si scioglie, i lineamenti del viso si contorcono in un’espressione angosciata. Inarca le sopracciglia, gli angoli della bocca si piegano verso il mento.
“Là fuori…”
Solleva le spalle, come sperando di nascondersi. Arretra di un passo e la sua ombra scopre la figura china di Feliciano.
“Là fuori c’è Natalia?”
Un altro colpo, ma questa volta è più forte.
Gilbert si nasconde il capo tra le braccia, guaendo come una cane. Ha ripreso a tremare, e la paura gli ha mangiato la lingua. Meglio così.
Anche Kirkland arretra, ma i suoi occhi sgranati non smettono di fissare l’entrata. Sembra quasi che la porta debba crollare da un momento all’altro.
Kirkland deglutisce.
“Dottore, quanto… quanto è pericolosa?” Mi domanda con voce impastata.
Io sollevo gli occhi su di lui. Anche Feliciano ha ripreso a tremare come una foglia. Si è accasciato di nuovo sul pavimento, gettando tutto il peso sulle gambe piegate sotto di lui. Si porta le mani davanti al viso, chiudendole a pugno.
Io sospiro.
“Parecchio.” Rispondo a Kirkland. “Come ho già detto prima, lei è decisamente la paziente più pericolosa e incontrollabile del Welt. Ancora di più rispetto a com’era Lovino Vargas prima della cura.”
I miei occhi tornano a cadere su Braginski, che si sta lentamente portando vicino al muro. Il suo sguardo vacilla.
“La nostra posizione non è delle migliori, considerando con chi stiamo avendo a che fare.” Proseguo, aggrottando la fronte. “Ma se dovessimo finire nelle mani di Arlovskaya, cadremmo dalla padella nella brace. Ne sono certo.”
Kirkland resta ammutolito. Il suo corpo s’irrigidisce, si pietrifica nel bel mezzo della cella numero sette.
Gilbert solleva la testa di scatto.
“Ehi, un momento…” Esclama.
Io mi volto verso di lui. Il suo viso è ancora stropicciato, ma un sorriso sadico gli deforma le labbra. Gilbert alza gli occhi verso Kirkland.
“Tu puoi portarci fuori. Vero, Inglese? Ma sì, proprio come hai fatto prima con lo yankee. Trasportare qualche persona in più non dovrebbe essere un problema.”
Kirkland stringe i denti e i suoi occhi tornano a posarsi sui suoi piedi. I pugni si serrano attorno ai suoi fianchi.
“No, non lo sarebbe.” Risponde con tono acido.
Fa lentamente roteare le pupille su di me. I nostri sguardi si incrociano.
“Ma qualcuno non vuole darmi retta. Io potrei andarmene di qui e portarvi tutti in salvo letteralmente con uno schiocco di dita. Ma se il dottor Beilschmidt ha deciso che farsi ammazzare costituisce la scelta migliore, allora non posso farci niente.”
Incrocia le braccia sul petto, alzando il mento. I suoi occhi non si schiodano da me.
“Non ho ancora messo a punto un incantesimo per i testardi.”
Io mi lascio scappare un sorrisetto sarcastico. Mi stringo la mano attorno alla ferita –ormai non fa più tanto male, ha anche smesso di sanguinare – e ricambio lo sguardo fermo.
“Rilassati, Kirkland.” Gli dico. “Ho tutto sotto controllo.”
Il suo viso sprofonda nel panico. Kirkland si fa d’improvviso scuro in volto, una rapida ma profonda scossa di terrore gli trapassa gli occhi. Le sue labbra si schiudono, ma la sua bocca resta muta. Lo sguardo di Kirkland cade sulla mia mano insanguinata avvolta attorno al camice zuppo, tinto di rosso.
Che gli prende? Penso, alzando un sopracciglio. Eppure si è accorto fin da subito della mia ferita. Perché mi fissa in quel modo?
“G-già…” Sibila con un filo di voce.
Quella sua faccia mi trapassa il cranio come una freccia rovente. Io l’ho già vista.
“Si vede, infatti.” Continua lui.
Sgrano gli occhi, e il ricordo del viaggio nella mente di Jones mi torna a girare intorno alla fronte come una pellicola. Ecco dove.
Scuoto la testa, cacciando via i vecchi fantasmi.
“Ascolta, Kirkland.” Gli dico, ma un altro colpo m’ interrompe.
Riprendo fiato. “Non pensi anche tu che ci sia qualcosa di strano?”
Il volto di Kirkland riprende il solito colorito. I suoi occhi tornano a brillare della loro solita luce verde, colpiti dal riverbero delle lampade.
Io alzo un braccio, puntando l’indice contro Braginski che si sta trascinando ai piedi della parete.
“Insomma, guarda quello che sta succedendo.” Continuo. “Ti sembra normale un comportamento del genere? Ha una pistola in mano, eppure è quasi più spaventato di noi. È chiaro che…”
Ruoto gli occhi verso Braginski, ma lui non smuove lo sguardo tremante dalla porta.
“È chiaro che ci sia qualcosa sotto.”
Kirkland arriccia il naso. I capelli biondi gli ondeggiano sulla fronte e lui li scuote di lato con un gesto del capo.
“Francamente, non mi interessa. Ma, tralasciando questo fatto…” Le sue palpebre si abbassano. “Cosa pensi di fare per risolvere la situazione? Questi due sono uno più pericoloso dell’altro. Anche volendo, come intendi avvicinarli per poter utilizzare quel tuo… aggeggio?”
Io lascio vagare lo sguardo nel vuoto per qualche secondo. Inarco le sopracciglia, e i denti affondano nel labbro inferiore. Rilasso la schiena sulla parete e appoggio una mano sulla gamba, avvolgendo le dita attorno al ginocchio.
Traggo un profondo respiro, assorbendo l’aria pesante e umida della cella numero sette in ogni fibra del mio corpo. Contraggo la pancia, la mano stretta attorno alla ferita, e mi rialzo con un unico scatto. Striscio sulla parete, piegandomi in due per le fitte lancinanti. La fronte riprende a lacrimare sudore gelido.
Feliciano si allarma e si rizza sulle ginocchia. I suoi occhi si sgranano, le pupille vacillano.
“Ah, Ludwig, non…”
“Apri la porta, Gilbert.” Dico con voce ferma.
Lui e Kirkland spalancano le palpebre, fissandomi come se avessi appena ordinato loro di gettarsi tra le braci dell’inferno. Gilbert deglutisce e si sporge in avanti, alzando il naso verso di me.
“Ma… cosa stai…” Si porta due dita su una tempia, iniziando a martellarla. “Ti si è forse fottuto il cervello, Ludwig? Hai idea di quello che…”
“Sì, ce l’ho.” Sbotto io, fulminandolo con una sola occhiata. “E ora ti dico che dovete fidarvi di me.”
La porta continua a tremare, le pareti vicino all’architrave vibrano. L’eco metallico dei colpi rimbomba tra le pareti.
 
Gilbert stringe le dita attorno alla ruota metallica. La pelle sudata gli fa scivolare la mano verso il basso. Serra i denti, e aggrotta la fronte, immerso nel rimbombo che continua a colpire la superficie della porta. Gilbert mi lancia un’occhiata fulminea da sotto la fronte imperlata di sudore.
“Vado?” Mi domanda.
Kirkland arretra di qualche passo, lasciando Feliciano da solo nel mezzo della cella. Quando se ne accorge, sgattaiola anche lui vicino alla parete, accasciandosi ai miei piedi. Feliciano si raggomitola vicino a una mia gamba, nascondendo il viso dentro alla stoffa dei pantaloni.
“Ho paura, Ludwig.”
Io continuo a guardare Gilbert, che è sempre in attesa di un mio ordine. Kirkland mi si avvicina, ma senza incollarsi al muro.
“Ehi, credi che sia una buona idea?” Mi domanda, senza cercare il mio sguardo.    
Io lancio un’occhiata a Braginski. Lui si stringe le spalle, accoccolandosi sul fondo della parete. Le palpebre chiuse e il sorriso sulle labbra tremano, mille spasmi gli divorano l’intero corpo. Braginski scuote la testa.
“Io non credo affatto che sia una buona idea.” Dice.
Lo sguardo mi cade al suo fianco. Le sue braccia si stringono attorno alle gambe richiamate al petto. Questo suo atteggiamento mi fa ricordare un po’ Feliciano. Vicino ai suoi piedi, la pistola scintilla sotto la luce della lampada. È abbandonata sul pavimento come un giocattolo rotto.
Io inarco le sopracciglia.
“Assolutamente.” Rispondo a Kirkland, ignorando le parole di Braginski.
Volto il capo, tornando ad incrociare lo sguardo con quello di Gilbert.
“Aprila.” Gli ordino.
Lui annuisce e la ruota comincia a cigolare, cedendo sotto il suo tocco. Gli ingranaggi scattano e Gilbert strozza un gemito tra i denti. Nessuno osa muoversi.
Gilbert inarca le spalle e inizia a muovere i piedi sul pavimento, le sue mani sono ancora salde attorno alla ruota dentata. La porta striscia sul suolo, nascondendo mio fratello con la sua ombra. Un minuscolo spiraglio lascia entrare un raggio di luce dal corridoio esterno. 
L’ombra scura di una mano va subito a coprire il riflesso bianco. La sua ombra. La sagoma nera di Natalia Arlovskaya si sporge sulla cella numero sette. Lascia strisciare una mano sul pavimento bianco, la sua pelle lattea quasi si confonde con le piastrelle. Un braccio si alza e lei stringe le dita attorno alla porta. La mano scivola, facendole cadere le spalle verso il basso. Una cascata di capelli color platino si scuotono davanti al suo capo chino, le punte spettinate sfiorano il pavimento.
Nella stanza cala un silenzio tombale. Feliciano deglutisce e quell’unico suono mi fa tremare il timpano. La porta si avvicina di più al muro, lentamente, e Gilbert lascia che l’entrata metallica lo nasconda nell’angolo della parete.
Un debole mormorio giunge da sotto la chioma di Arlovskaya, ma è incomprensibile.
Con la coda dell’occhio vedo Braginski farsi sempre più piccolo sotto il muro. Le ginocchia della ragazza iniziano a strisciare sulle piastrelle, e il debole suono della stoffa della divisa che si sfrega si sovrappone ai nostri sospiri.
La sua mano si solleva dal pavimento, le dita sottili tendono verso Braginski. Una ciocca di capelli le scivola giù da un braccio.
“Fratello…” La sua bocca rigurgita un gorgoglio cavernoso, che striscia come una viscida serpe fino a Braginski.
Il corpo del ragazzo lancia un tremito, e la sua testa si nasconde ancora di più tra le braccia incrociate attorno alle gambe.
Arlovskaya solleva la fronte, i capelli le scoprono il viso, cadendole dalle spalle. I suoi profondi occhi blu emanano fulminei riflessi violacei che saettano verso il fondo della cella. Le sopracciglia si sollevano, e i bulbi s’infossano dentro alle palpebre. Un’ombra scura cala sul suo viso, che potrebbe davvero essere qualcosa di grazioso, facendolo diventare una pesante maschera di follia. Le labbra si piegano verso l’alto scoprendo i denti, bianchi e lisci come porcellana.
“Fratello mio, ti ho ritrovato!” Di nuovo quella voce che scivola dalle sue labbra.
Si raggomitola, spingendo tutto il peso sulle gambe piegate sul pavimento. La divisa del Welt le fascia la vita, sottile e minuta, ma i pantaloni sono decisamente troppo larghi per le sua gambe sottili.
Arlovskaya scatta, lanciandosi verso Braginski come un animale in caccia. Le dita si arricciano verso i palmi, come artigli. Le unghie, per precauzione, sono limate. Non avrei mai potuto lasciarla con quelle armi a portata di mano, letteralmente.
“Fratello!” Urla di nuovo, ma Braginski si sposta dalla parete, rotolando verso l’angolo accompagnato da un urlo.
Arlovskaya dilania lo sguardo, e il suo sorriso si allarga. Gli angoli delle labbra sfiorano i lobi delle orecchie. La sua testa ruota lentamente verso il fratello. Quando i loro sguardi s’incontrano di nuovo, lui geme, riparandosi con le braccia.
“S-stai… stai lontana.” Le dice con voce tremante.
Arlovskaya si torna a piegare sul pavimento e allunga il collo verso di lui. Una ciocca di capelli le cade davanti ad un occhio, finendole sulle labbra.
“Ti ho trovato, fratello. Vieni da me, vieni da me, vieni da me.”
Lui inizia a gattonare sul pavimento, costringendo Kirkland a spostarsi. Il giovane inglese scatta di lato, guardandola come uno scarafaggio appena uscito dal mobile della cucina. Feliciano si stringe attorno alla mia gamba, affondando il viso nella stoffa dei pantaloni.
“Ludwig…”
“Stai tranquillo.” Gli rispondo con voce ferma.
Aggrotto la fronte, ammirando i salti mortali dei due fratellastri.
Sembrano proprio due bambini che giocano. Se non fosse per quelli sguardi… Penso, quasi divertito.
Butto la coda dell’occhio alla mia sinistra. Gilbert sta ancora tremando come un coniglio, dietro alla porta. Non ci darà fastidio per un po’.
Braginski riesce a sfuggire agli agguati della ragazza, ma cade sul pavimento strisciando come un verme verso di me. I piedi nudi spingono sulle piastrelle, facendole singhiozzare. Una sua gamba sfiora i cavi del Transfert, ancora abbandonato a terra.
Quando Braginski si avvicina a Feliciano, lui emette un altro gemito, e si annoda attorno alla mia gamba come un cucciolo di koala.
“Ludwig, Ludwig, Ludwig, Ludwig, …”
“Dottore, potrebbe…” La voce morbida e calma di Braginski interrompe il suo pianto isterico.
Braginski solleva le spalle, alzando il naso verso di noi. Solleva le sopracciglia sopra le palpebre chiuse, e il suo sorriso vacilla un paio di volte.
“Dottore, potrebbe rimetterla dentro?” Mi domanda.
L’ombra della sorellastra si allunga su di lui. Braginski ruota il capo all’indietro, lasciandosi travolgere da quell’oscurità.
“Fratello…” Continua Arlovskaya, con la tenebra negli occhi.     
Lei allarga le braccia sui fianchi e si getta di peso sulla schiena del fratellastro, avvinghiandosi a lui. Braginski lancia un urlo acuto e si accascia al suolo, ma Arlovskaya non fa nient’altro. Il suo viso viene nascosto dalla massa di capelli platino, quasi bianchi sotto la luce del neon. Braginski si volta, scivolando attorno al suo abbraccio, e la ragazza affonda il viso dentro al suo petto.
Lui trema e prova a muovere le dita delle mani, bloccate sui suoi fianchi dalle braccia di Arlovskaya.
Feliciano solleva una palpebra, puntando l’occhio verso di loro, e smette di tremare. Anche Kirkland rilassa le spalle e riprende a respirare, sciogliendo il groppo che gli intasava la gola.
Io inarco le sopracciglia.
“È strano…” Dico, spaccando il silenzio glaciale che aleggia nella cella.
Braginski ruota il capo verso di me con un gesto arrugginito. È sbiancato in volto, e i capelli gli si sono incollati sulla fronte grondante di sudore.
“… perché non ci uccidete?” Concludo, e sento Feliciano buttare giù un boccone di saliva.
Arlovskaya non si muove, ma le sue braccia stringono attorno al busto del fratello, e le dita affondano nella stoffa della divisa.
“Anzi…” Proseguo. “Perché non vi state uccidendo tra di voi? Siete entrambi pericolosi assassini.”
Braginski forza il sorriso sulle labbra e alza le spalle vicino alla testa.
“Io non ho mai detto di volerla uccidere. Le ho solo chiesto di tenerla lontana da me.” Ruota il capo verso di lei. “E credo che nemmeno Natalia voglia uccidermi, ma non mi piace comunque l’idea di averla avvinghiata a me in questa maniera. È fastidiosa.”
Io sospiro, e un’altra fitta mi colpisce il fianco. Resisto.
“Ma allora perché vi siete macchiati di tutti quei crimini? Insomma, dovreste sapere cosa vi frulla in testa. Tu …” Riprendo aria, il dolore mi mozza il fiato. “Tu dovresti sapere perché lei agisce in questa maniera. Insomma, guardala…”
Apro il palmo della mano verso l’alto, ruotando il braccio verso Arlovskaya.
“Non è mai stata così docile in anni e anni di terapie.” Aggrotto la fronte, arricciando le labbra. “Che cosa sta succedendo, Braginski?”
Lui agita le dita, irrigidendole a mezz’aria. Poi, scuote la testa.
“Non lo so, dottore. È sempre stata così.” Socchiude un occhio, senza smettere di sorridere. “E anch’io.”
Lo sguardo mi cade sul Transfert, come se il mio cervello sapesse già che è arrivato quel momento. Kirkland mi precede, muovendo qualche passo verso di me.
“Ehi, hai intenzione di usare il connettore?” Mi domanda con tono acido.
Sento la porta cigolare, e la figura di Gilbert torna a comparire da dietro la superficie metallica. Resta in silenzio, per fortuna, limitandosi ad osservare quella scenetta da teatrino.
Io aggrotto le sopracciglia e arriccio le labbra. “Sì, è chiaro che ci siano parecchi punti da mettere in chiaro. Ma…”
Un’altra morsicata mi lacera il fianco. Strozzo un gemito tra i denti e strizzo una palpebra davanti agli occhi lucidi dalla sofferenza.
“Ma io non potrò farlo. Sono debole, e ho appena smesso di perdere sangue. Il Transfert è un processo che consuma parecchia energia, sia in me che lo utilizzo, sia nel paziente. Sarebbe troppo rischioso per me.”
Ruoto inconsciamente la pupilla di nuovo verso Gilbert. Lui scatta sul posto e incrocia le mani davanti al viso, dilaniandomi con una sola, gelida occhiata.
“Scordatelo, Herr Doktor. Non mi rimetterò mai più quell’affare.” Gracchia con una smorfia di disgusto.
Feliciano mi strattona delicatamente la stoffa dei pantaloni.
“Ludwig, sei vuoi…” Sibila.
Io abbasso lo sguardo su di lui.
“Se vuoi posso provarci io. L’ho già fatto con Kiku, non sarà difficile.”
Io scuoto la testa.
“No, purtroppo sia Braginski che Arlovskaya hanno due menti fin troppo forti. Niente a che vedere con quella di Kiku. Se tu…” Proseguo, indurendo lo sguardo. “Se tu provassi a connetterti con uno di loro, ho paura che le loro personalità potrebbero avere il pieno sopravvento sulla tua, fin troppo docile. Sarebbe rischioso anche per la tua incolumità, Feliciano.”
Lui s’intristisce, e torna ad abbassare gli occhi sui suoi piedi.
“Ah, ho capito.”
Io ruoto gli occhi verso Kirkland. Ha un sopracciglio inarcato, e le mani premute sui fianchi. Il naso rivolto verso il due fratelli abbracciati al suolo.
“Kirkland, se tu…”
“Non provarci, dottore.” Mi interrompe, secco.
Kirkland scuote la testa, senza distogliere lo sguardo dal basso.
“Non ho la benché minima intenzione di immischiarmi nei tuoi affari, dottore. La risposta è no.”
Io sospiro, sconsolato.
“Già, avrei dovuto immaginarlo.”
Braginski prova a muoversi sotto la presa della sorella, strisciando sul pavimento e agitando le braccia. Lei lo blocca, spingendo la testa sotto il suo mento e attanagliandogli il bacino con le dita arcuate.
“Sentite, e se…” Dico, aggrottando la fronte.
Kirkland alza finalmente gli occhi su di me.
“E se provassimo a connettere loro due? Braginski è stato il primo a dire che non comprende i sentimenti e i modi della sorella. Magari la risposta è proprio questa: fare in modo che si capiscano tra di loro. Certo…”
Abbasso le palpebre e riprendo fiato. La mano non smette di fare pressione sul fianco.
“Come ho detto prima, entrambi hanno delle mentalità forti. C’è quindi la possibilità che i ricordi saltino dalla testa di uno a quella dell’altra e viceversa. In pratica, ci sarà un contrasto, una lotta. Braginski si troverà a vivere i ricordi della sorella, e Arlovskaya quelli del fratello. È solo un’ipotesi, ma sono abbastanza sicuro di quello che dico.”
Kirkland arriccia il naso. I suoi occhi ruotano al cielo.
“Quindi, speri che tutto si risolvi così, prendendo due piccioni con una fava, dottore?”
Io annuisco deciso.
“Esatto. È un azzardo ma… abbiamo provato di tutto con quell’arnese. Tanto vale continuare gli esperimenti.”
Kirkland abbassa la fronte, e il suo sguardo si incrocia con il Transfert. Una scintilla gli trapassa gli occhi.
“E allora facciamolo.”

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***


CAPITOLO 14
 
Una settimana fa ha iniziato a nevicare, poi non ha più smesso. Fa davvero tanto freddo, ma il direttore dice che non vuole accendere il riscaldamento perché costa troppo. Tutti quanti provano a tenersi stretti negli angoli per farsi caldo a vicenda. Io sono solo.
Nella stanza aleggia una cupa luce grigia, le pareti di cemento sono umide e tappezzate di aloni neri da cui grondano pesanti gocce di acqua sporca. Forse si sono rotte delle tubature, capita spesso ma nessuno le ripara.
Mi stringo ancora di più dentro all’angolino, schiacciando la schiena sul muro freddo e bagnato. Un brivido mi si arrampica sulla schiena, anche se indosso il cappotto. Quando stringo le mani attorno alle ginocchia, per richiamarle al petto, lascio due piccole impronte grigie sulla stoffa. Il pavimento è ricoperto di un pesante strato di polvere.
Strofino i palmi tra di loro, per darmi una ripulita. Se qualcuno passasse lo straccio, penso, la pellicola d’acqua si congelerebbe all’istante. Avvolgo le braccia attorno alle gambe e affondo il mento tra le ginocchia.
I miei occhi ruotano, ispezionando la stanzina. È vuota, silenziosa. La neve che cade fuori ovatta qualsiasi tipo di rumore. Dalle finestre passa una luce opaca, spenta, il sole è nascosto dietro alle nuvole grigie e cariche di neve che continua lentamente a fioccare. Anche i cornicioni si stanno ricoprendo di neve, e tra poco le finestre saranno completamente otturate.
Qualcosa ruzzola sul pavimento, e il rumore mi fa girare il naso verso il centro della camera. Una bottiglia di vetro vuota tintinna e rotola di una manciata di centimetri sulle piastrelle. Poi un’ombra nera si ritira sotto il letto. La rete si sta rompendo, e un paio di molle arrugginite toccano le piastrelle. Il materasso è stato rosicchiato, e ora è ricoperto di buchi come una fetta di formaggio.
Sarà stato un topolino. Penso, sorridendo. Almeno c’è qualcuno a tenermi compagnia.
Mi porto i palmi delle mani vicino al viso, aprendoli a coppa, e ci alito dentro. Una spessa nuvola di condensa si gonfia tra le mie dita, e si dissolve solo dopo essere lievitata fino alla mia fronte. Che freddo.
Mi stringo le spalle, strofinandomi la stoffa del cappotto, e getto tutto il peso sulle caviglie. Con una spinta mi rizzo in piedi, strisciando sulla parete ruvida e fredda. L’umidità mi stritola le ossa.
Inizio a camminare verso la porta, facendomi spazio tra cocci di vetro rotti e qualche pezzo di intonaco che si è polverizzato sul pavimento. Un vetro di bottiglia si sbriciola sotto la suola della mia scarpa. Quando arrivo all’entrata, appoggio la mano rossa e infreddolita sul pomello in ottone sbiadito. Ho quasi perso la sensibilità dei polpastrelli, la pelle è secca e screpolata a causa del freddo.
Spingo la porta senza girare la serratura. È rotta da mesi, ma nessuno l’ha ancora riparata.
 
Il corridoio è quasi deserto. Passo vicino ad un termosifone spento, che arriva quasi fino alla cima della mia testa, ma i due bambini avvinghiati alle tubature non si accorgono di me. Credo stiano aspettando che si accenda.
L’eco dei miei passi felpati si perde tra le pareti, ogni tanto sento qualche vocina fuoriuscire dalle porte di legno mezze marcite. Sta diventando sempre più buio, le finestre sono quasi del tutto ricoperte dal muro di neve.
Quando cammino, il cappotto striscia per terra, imprimendo una sottile scia sullo strato di polvere che ricopre le piastrelle. Sollevo le braccia davanti al busto. Le punte delle dita non si vedono, sono completamente nascoste dalla stoffa delle maniche.
Mi fermo proprio davanti alla porta più grande, quella in fondo al corridoio, con i bordi dorati tutti arrugginiti. Da fuori si sente arrivare un suono metallico, uno padellare continuo. È l’entrata della sala da pranzo, e tra poco è ora di mangiare.
Mi poso una mano sul pancino, come per placare il brontolio. Abbasso la fronte, arricciando le labbra. Speriamo che non ci sia la solita minestra tiepida, l’ultima volta somigliava più ad una brodaglia d’acqua insaporita con qualche pezzo di verdura.
Sto ancora pensando a quanto vorrei mettere sotto i denti del cibo solido, quando qualcosa di morbido e caldo mi avvolge il collo. Io sgrano gli occhi, e affondo le dita nella stoffa che mi cade sulle spalle.
“Ehi, fratellino, cosa fai a zonzo tutto solo?”
La sua voce mi squittisce nell’orecchio.
Mi volto e Katyusha sta ancora stringendo tra le mani i lembi della sciarpa che mi ha avvolto attorno al collo. La mia sorellona sorride, e le guance arrossate dal freddo si gonfiano sopra le sue labbra. Io ricambio il sorriso e mollo la presa attorno alla sciarpa, lasciando scivolare le mani sui fianchi.
“Stavo solo gironzolando.”Le rispondo. “Avevo un po’ di fame e non ce l’ho fatta ad aspettare fino a ora di pranzo.”
Katyusha mi sistema la sciarpa sotto il mento, stando attenta a non stringerla troppo. La lana all’inizio mi pizzica la gola, poi però mi abituo subito e affondo tutto il viso fino alla punta del naso. Lei lascia andare i due estremi e i lembi cadono a terra, strofinando il pavimento vicino ai miei piedi. Spero che non si sporchi subito, visto che è bianca come il latte.
La mia sorellona sorride di nuovo, e si sistema una ciocca di capelli dietro all’orecchio, aggiustandosi le forcine che glieli tengono fermi.
“Perdonami, forse non ti terrà molto caldo.” Mi dice, abbassando le palpebre. “Ma è meglio di niente, non trovi?”
Io allargo il sorriso, sollevando la stoffa fino alla base del naso.
“Mi piace, ora almeno non avrò più mal di gola.”
Katyusha sorride e si stringe nel cappotto che la avvolge fino alle caviglie.
“Sono felice.” Mi dice.
Poi mi prende la manina e le nostre dita scompaiono dentro alle maniche troppo larghe dei nostri abiti.
“Vieni, andiamo a prendere qualcosa da mangiare.”
 
La neve che si è depositata sui bordi delle strade mi arriva fin sopra la testa. Provo ad alzarmi in punta di piedi, per guardare oltre il muro bianco,ma non c’arrivo.
Un signore imbacuccato tra i vestiti piumati che gli arrivano fino al naso mi passa vicino, portandosi dietro un bastone che picchia al suolo. Abbassa il mento e i suoi occhi piccoli e neri mi squadrano con una strana luce. Punta di nuovo lo sguardo davanti a sé e fila dritto.
Mi stringo la sciarpa attorno al viso, e le nuvolette di condensa vengono tutte assorbite dalla lana. Alzo gli occhi al cielo, e la neve mi pizzica le guance, sciogliendosi subito sulla mia pelle. Un cane randagio mi passa vicino ai piedi, annusando il terreno con la voracità di una bestia selvatica. Quando alza il muso, il suo naso è tutto spolverato di bianco. Anche lui scompare dietro l’angolo, lasciando una scia di impronte dietro di sé.
Volto il capo alla mia destra, sollevando la fronte verso il piccolo negozietto buio dov’è entrata Katyusha. Le vetrine sono chiazzate di aloni bianchi, e gli scaffali di legno che riesco a vedere da fuori sono quasi tutti vuoti. C’è solo qualche pagnotta indurita che giace sui cassettoni. Il mio stomaco torna a gorgogliare.
Sempre meglio della broda della mensa. Penso.
La porta si spalanca di colpo, e i vetri traballano, lanciando un tintinnio metallico che vibra tra le mura. Katyusha scatta fuori dal negozio con un balzo, stringendosi le mani sul grembo. Il viso le è diventato tutto rosso. Strizza le palpebre e inizia a correre verso di me.
Mi afferra la manica del cappotto e comincia a trascinarmi dietro di lei. Io barcollo, rischiando un tuffo tra la neve, poi la seguo.
“Corri, Ivan! Dobbiamo scappare.” Mi dice con voce affaticata.
La sua bocca e il suo naso continuano a sbuffare condensa come una locomotiva a vapore. Io ruoto il capo dietro di me. Il negozietto si sta allontanando, ma sulla soglia si è materializzato un omone grande e vecchio, con un grembiule sporco stretto sui fianchi. L’uomo alza il pugno al cielo e sbraita qualcosa che non capisco con la sua vociona grossa.
Per fortuna non ci insegue, e io e Katyusha scappiamo tra i vicoli bui e stretti che si annodano tra le case della città.
 
Katyusha sfila il tozzo di pane nero che aveva nascosto da sotto la manica del cappotto. Trae un profondo sospiro di sollievo e si siede sopra ad una cassetta di legno abbandonata vicino ai bidoni di latta.
“Phew, meno male che non ci ha inseguiti.” Mi dice con voce squillante.
Io sorrido e alzo gli occhi al cielo. Qui siamo protetti dalla neve, i tetti delle case sono un ottimo riparo.
Katyusha affonda le dita nel pane e fa una smorfia con la bocca, provando a spezzarlo.
“Sai, all’inizio ho pensato che la cosa migliore fosse ricattarlo mostrandogli le tette.” Mi dice, sollevando gli angoli delle labbra.
Il pane inizia a cedere e si sente un primo scrocchio.
“Ma non ha funzionato. Così ho dovuto prenderlo direttamente dal bancale.”
La pagnotta si frantuma tra le sue mani, dividendosi in due.
“Ce l’ho fatta!” Esclama Katyusha.
Guarda bene i due pezzi che stringe tra le dita, poi me ne porge uno – il più grosso – e il suo sorriso si allarga.
“Chissà, magari un giorno mi cresceranno di più e potrò rimediare anche della carne o del formaggio.”
Io rido sotto la sciarpa e allungo le mani verso il tozzo di pane che mi sta dando. È duro e freddo, spero di riuscire a masticarlo.
Abbasso lo sguardo, scoprendomi la bocca.
“Magari, quando arriverà quel giorno…” Le dico. “Sarò diventato abbastanza grande da essere io a rimediare il cibo.”
Katyusha affonda i denti nel suo tozzo di pane e strizza le palpebre. Il suo naso si arriccia e lei strappa un pezzetto solo dopo svariati tentativi. Inizia a masticarlo lentamente in una sola guancia.
“Quando saremo grandi ce la sapremo cavare benissimo da soli, vedrai.” Mi dice, continuando a sorridere.
Solleva le palpebre e i suoi occhi blu risplendono come gemme incastonate nella pelle lattea, impallidita dal freddo.
“Ora siamo piccoli.” Continua, ingollando la poltiglia masticata. “Ma stiamo crescendo tra mille avversità, in un ambiente duro e spietato. Anche se il cibo è scarso e i vestiti che abbiamo ci riparano poco dal freddo, siamo molto fortunati, Ivan.”
Io piego la testa di lato, e addento il mio pasto. Al primo tentativo, non riesco nemmeno a scalfire la crosta.
“Davvero?” Le chiedo, ancora con la bocca spalancata.
Stringo forte la mandibola e finalmente sento lo scrocchio tra i denti.
“Come mai, sorellona?”
Lei strappa un altro morso e si sistema le forcine sui capelli.
“Perché ci stiamo abituando fin da subito a sopravvivere al mondo. Ci stiamo facendo le ossa dure. Vedrai che quando saremo grandi nessuno avrà il coraggio di metterci i piedi in testa.”
Mi avvolge con un sorriso sereno. Il suo sguardo dolce vale più di mille fuochi accesi. Anche io le sorrido, e riprendo a mangiare.
“Beh, allora non vedo l’ora di diventare grande.” Le rispondo. “È davvero brutto essere sempre presi di mira dagli altri solo perché siamo ancora piccoli.”
Katyusha abbassa le palpebre e mi posa una mano sul capo. Le sue dita mi strofinano i capelli, ripulendoli dalla neve che era caduta prima.
“Vedrai che cresceremo presto.” Mi dice.
La sorellona posa gli occhi sul pane che continuo a stringere e lo indica con la punta dell’indice.
“Ah, a proposito, forse ti conviene conservarne un pezzo. È probabile che questa sera non ci servano la cena. Sai, dopo che hanno dovuto spendere gli ultimi risparmi per riparare le finestre esplose per il freddo…”
Io abbasso lo sguardo e il naso torna a nascondersi sotto la sciarpa.
“Ah, ho capito.” Annuisco.
Un alito di vento ci stritola nella sua morsa di ghiaccio. Mi stringo le spalle, scaricando un forte tremito che mi trapassa tutto il corpo.
Se riesco a sopravvivere al Generale Inverno… Penso, nascondendo il viso arrossato nella stoffa candida. Potrò sopravvivere davvero a tutto.
 
Katyusha mi stringe la mano e mi fa camminare in mezzo alla strada. Non ci sono automobili che passano, per cui non c’è il rischio di essere investiti.
La neve scrocchia sotto le nostre scarpe di cuoio. È dura come il marmo.
La sorellona alza il naso al cielo, e una sbuffata di vento le scuote la frangia. Qualche fiocco di neve si posa sulla sua fronte.
“Accidenti, se stiamo troppo fuori si accorgeranno che siamo usciti, prima o poi.”
Si guarda in giro, poi balza fuori dalla strada, trascinandomi dietro. Saltiamo oltre il muro di neve, e affondiamo nel mare bianco fino alla vita. Il ghiaccio mi stritola le gambe, mozzandomi il fiato. Il freddo mi divora le ossa, e sembra quasi che me le stia sbriciolando.
Anche Katyusha stropiccia il viso in una smorfia di dolore. Stringe i denti e inizia ad avanzare tra la neve, aprendo una via davanti a me.
“Dobbiamo prendere una scorciatoia.” Dice, e i denti le battono.
Io annuisco, affondando il viso nella sciarpa.
 
Non so quanti metri abbiamo percorso, navigando nella neve fresca che si sbriciola sotto le spinte dei nostri corpicini. Da qui, però, riesco già a vedere le torre più alta dell’orfanotrofio, quella con l’orologio tondo – rotto – sistemato sotto il comignolo.
“Evviva, siamo quasi arrivati!” Esclama Katyusha.
Io sorrido da sotto la sciarpa e inizio a velocizzare il passo, pensando già alla stanzina dove potrò far riposare le gambe. È buia e sporca, ma almeno è asciutta.
D’un tratto, però, Katyusha si blocca davanti a me, pietrificandosi come una statua di ghiaccio. Io non riesco a vedere davanti a lei, così inclino il capo, spostandomi vicino a un suo fianco.
“Guarda, Ivan.” Mi dice, postandosi le mani sul petto.
Io aguzzo la vista, sollevando il mento dalla sciarpa. Sgrano gli occhi e mi strofino le palpebre, incredulo.
Un grosso fagotto se ne sta rannicchiato, abbandonato in mezzo alla neve come un rifiuto gettato all’angolo della strada. Assottiglio lo sguardo, e vedo una massa di quelli che sembrano proprio capelli scivolare fuori dal mucchio scuro. Le ciocche biondo platino si sparpagliano sul terreno bianco e freddo, come un panno di seta.
Io e Katyusha restiamo imbambolati per una manciata di secondi, ed è lei la prima a farsi avanti. Muove il primo passo con timore,con un gesto arrugginito, poi prende velocità e scatta tra la neve, muovendosi come sommersa dall’acqua.
“Ehi, va tutto bene?” Esclama, avvicinandosi al fagotto. Però lui non si muove.
Katyusha si avvicina scollando le mani dal petto. Allunga le dita sulla figura prona con un gesto timoroso. Io resto a guardarla, allungando la punta del naso verso di lei. Katyusha scosta una ciocca di capelli, coprendo il fiocco blu – mezzo sciupato – stretto sul suo capo. Quando i sottili fili si riversano sulla neve, scivolando con un movimento aggraziato sopra il viso di quella figura misteriosa, la mia sorellona strabuzza lo sguardo. Un gemito le si strozza in gola.
Dentro a quel mucchio di vecchi e pesanti vestiti c’è una bimba. Il viso pallido è immerso nella neve, il naso le si è arrossato come una ciliegia. Le palpebre sono chiuse davanti agli occhi, sormontate da due sottili sopracciglia chiare come i suoi capelli.
Anche io mi avvicino, mentre Katyusha le avvolge le mani attorno alle spalle, scollandole il viso dal terreno ghiacciato.
“Stai tranquilla.” Le dice con tono apprensivo. “Ora ti aiutiamo noi.”
Io mi accovaccio lì vicino e piego la testa di lato, osservandola. Katyusha si inginocchia vicino a lei, e inizia a strofinarle il petto e le guance con movimenti profondi.
“Vedrai, ora starai bene.” Le dice, tirando un sorriso sulle labbra.
La bimba socchiude un occhio, finalmente, e la sua bocca sottile inizia a tremare. Le labbra le sono diventate quasi blu, ma mai quanto la luce che sprigiona il suo iride quando la palpebra si solleva.
Katyusha allarga il sorriso e inspira a fondo, sollevata.
“Ah, meno male sei viva!” Esclama, continuando a riscaldarla.
La bimba sbatte le ciglia un paio di volte, poi le sue labbra si schiudono.
“Dove… dove sono…”
“Non ti preoccupare.” Continua Katyusha. “Ora non ti sforzare, saresti potuta morire congelata.”
La bimba esita, poi le sue sopracciglia s’inarcano. Il volto si scurisce, un’ombra nera cala sui suoi occhi, così luminosi fino ad un attimo prima.
“Non mi avete portata via, vero? Io non devo muovermi da qui.” Dice con voce arrochita dal freddo.
Io piego la testa dall’altro lato. È strano vedere una bambina mettere il broncio in questa maniera. Io e Katyusha sorridiamo sempre.
La mia sorellona scuote la testa, e l’aiuta a sollevarsi di più. La fa mettere seduta sulla neve e le tiene una mano appoggiata sulla schiena. Le sue dita si intrecciano ai capelli che cadono fin sotto le spalle della bimba.
“No, ma ci siamo spaventati vedendoti immobile in mezzo alla neve.”
Katyusha abbassa lo sguardo e rilassa il sorriso. Ora non è più forzato.
“Io mi chiamo Katyusha, e lui invece è Ivan.” Dice, indicandomi con la punta del dito.
La bimba mi lancia un’occhiata fulminea. Le sorrido, ma lei è impassibile.
Katyusha abbassa le palpebre. “Tu come ti chiami?”
La bambina alza gli occhi su di lei, e arriccia le labbra.
“Natalia.” Risponde.
La sorellona le stringe il cappotto attorno alle spalle e continua a sorriderle.
“E cosa ci facevi in mezzo alla neve tutta sola, Natalia?”
Natalia inarca le sopracciglia. Un brivido le fa tremare la schiena.
“Aspettavo i miei genitori. Hanno detto che torneranno a prendermi presto e che io devo stare buona senza muovermi da qui.” Risponde.
Il sorriso di Katyusha si spegne subito, e lei socchiude le palpebre, guardando Natalia con due occhi intristiti.
“Ah, capisco.” Le dice con voce smorta.
Katyusha mi lancia un’occhiata impietosita e io sbatto le palpebre, guardandola con aria interrogativa. La mia sorellona spolvera il cappotto di Natalia con due veloci passate, poi torna a stendere un sorriso sulle labbra.
“Natalia, qui fuori fa freddo. Che ne dici se vieni insieme a noi ed aspetti i tuoi genitori al caldo, ti va?”
Natalia s’incupisce di nuovo in volto e scuote la testa. I capelli ondeggiano, emanando riflessi color platino.
“Hanno detto che devo aspettare qui. Che sono andati a cercare da mangiare. Se tornano e non mi trovano si arrabbieranno.”
Katyusha abbassa le palpebre e sospira a fondo.
Io lascio scivolare una mano in tasca e le dita si stringono attorno al pezzo di pane che mi era avanzato prima. La farina mi rimane incollata sotto i polpastrelli. Tiro fuori la mano, e mi avvicino a Natalia gattonando sul suolo innevato. Le dita diventano subito rosse e bagnate.
Lascio scivolare la mano libera verso il suo fianco, e le sollevo il braccio verso l’alto, stringendo delicatamente la presa attorno alla manica che le copre il polso.
Io allungo il braccio verso di lei, porgendole il pane invecchiato sul palmo della mano che le ho aperto verso l’alto. Quando ci tocchiamo io non sento quasi niente, perché ho la pelle intorpidita dal freddo, ma lei fa una smorfia strana.
“Tieni.” Le dico. “Se hai fame puoi mangiare questo.”
Natalia abbassa gli occhi sul tozzo di pane e le labbra le si schiudono. Poi, solleva lo sguardo su di me e i suoi iridi si illuminano. L’ombra grigia sparisce dal suo volto, le sue sopracciglia si alzano, distendendo i lineamenti del viso. Natalia si getta su di me, appigliando le dita sottili alla stoffa del mio cappotto come fossero artigli. Io esito, inarcando la schiena all’indietro, ma lei non si scolla.
Il suo sguardo si illumina ancora di più, i suoi occhi non si staccano dai miei.
“Sposami.” Dice ad un certo punto.
Io strabuzzo le palpebre, trattenendo un gemito tra i denti. Katyusha si porta una mano alla bocca, soffocando una risata.
Natalia stringe di più la stoffa sotto le sue dita e avvicina il viso al mio. Sento il suo alito tiepido e umido avvolgere la parte di collo che è rimasta scoperta nonostante la sciarpa.
“Stiamo insieme per sempre e sposami.” Continua a ripetermi.
Io arriccio le labbra in una smorfia e guardo il pane stretto ancora tra le mie dita.
“Solo… solo perché ti ho dato il pane?” Le chiedo.
Lei tuffa il viso sul mio petto e sfrega il capo tra la stoffa.
“Se ti vuoi prendere cura di me, diventa il mio fratellone. Poi, quando saremo grandi, mi sposerai e staremo sempre insieme.”
Io sposto lo sguardo su Katyusha, ruotando il collo con un movimento arrugginito. Lei smette di ridere e solleva una palpebra.
“Intanto portiamola all’orfanotrofio. Immagino che sarà stanca.”
Natalia rimane appigliata a me, le sue dita stringono attorno al suo busto. Mi sembra quasi di sentire le sue unghie affondarmi nella carne, anche se c’è la stoffa a proteggerla. Non sembra cattiva, ma mi mette già paura.             
 
 
Il freddo si sta placando, finalmente. Agito i piedi che ciondolano dal muretto e la punta dello scarpone sfiora il muro di neve che si sta sciogliendo ai bordi della strada. Una spolverata di bianco schizza per aria.
Tra poco arriverà la primavera, penso alzando il naso al cielo. Il sole opaco è ancora nascosto da un mucchio di nuvole grigie che tappezzano il cielo pallido, velato da una sottile foschia. Una sbuffata d’aria mi esce dalle narici, e la condensa svanisce poco dopo essere caduta sul bordo della mia sciarpa. Mi stringo il nastro di lana sotto il naso, coprendomi bene la bocca. Le guance sono ancora rosse per il gelo e le mani nude sono del tutto intorpidite. Non ho più sensibilità sulla punta delle dita.
Una raffica di vento gelato mi soffia fin dentro le orecchie. La pelle del viso mi brucia, quell’aria densa e pesante mi mozza il fiato.
Un foglio di giornale spiegazzato rotola sulla strada, passandomi davanti. Si incastra tra i bidoni di latta sistemati in malo modo sotto al muretto dove siedo, vicino alle mie gambe ciondolanti. Un forte rumore di passi si sovrappone a quello della carta stropicciata.
Sollevo gli occhi, ruotandoli alla mia sinistra. Il sole alto sulla mia testa, seppur nascosto, allunga l’ombra della mia frangia su tutto il viso, incupendolo. Da dietro l’angolo della piccola stradina malconcia sbucano tre piccole figure ricurve. Le loro scarpe premono sulla neve annerita dalla terra, facendola scricchiolare sotto le scarpe. Le loro sottili vocine farfugliano e stridono, mescolandosi e sovrapponendosi a vicenda. Tre sagome nere si allungano sulla neve.
Quando mi vedono, tutti e tre rizzano la schiena, sollevando il capo da terra. Io abbasso le palpebre, e lascio scivolare un sorriso da sotto la sciarpa.
“Siete tornati, finalmente.”
Toris si stringe le spalle, nascondendo la punta del mento nel colletto del cappotto. Una nuvoletta di condensa si gonfia, fuoriuscendo dalle sue labbra. Si china lentamente, ruotando il busto dietro di sé come a voler cercare qualcosa.
“Pe- perdoni se l’abbiamo fatta aspettare troppo.” Balbetta.
Mentre parla, i capelli castani − tutti inumiditi dalla neve e dal freddo − gli ricadono sul viso, e alcune ciocche scure gli finiscono tra le labbra.
Eduard abbassa gli occhi sui suoi piedi, proprio dove Toris sta rovistando. Il sole gli batte sulle lenti degli occhiali e non riesco a vedergli gli occhi. La sua bocca si scuote in un leggero tremito.
“Abbiamo fatto tutto quello che abbiamo potuto, Signor Braginski.” Mi dice Eduard, e una sbuffata bianca gli aleggia tra le labbra. “Ma a quanto pare sono tempi duri per tutti, ed è difficile rimediare qualcosa di buono.”
Eduard si sistema la montatura degli occhiali alla base del naso e finalmente il riverbero del sole si dissolve.
Toris, intanto, torna a rizzare le schiena e si avvicina a me stringendo il grosso sacco di pelle tra le dita. Deve alzarlo con entrambe le mani, perché pesa. Quando lo solleva, stringe i denti e trattiene il fiato in gola.
“Ecco qui, c’è tutto.” Dice, posandolo ai miei piedi, di fianco ai bidoni arrugginiti.
Il bordo della bocca del sacco mi sfiora i piedi. Io abbasso le palpebre e allargo un sorriso.
“Bene. L’importante è aver racimolato il più possibile.”
Eduard e Toris sospirano, rilasciando altra condensa che evapora sotto i loro nasi.
Ravis esce solo ora dalla schiena di Eduard e anche lui rilassa il viso, piegando lievemente le labbra verso l’alto.
“Meno male.” Sospira il piccoletto. “E pensare che è solo la metà di quello…”
Eduard gli preme una mano sulla bocca, richiamando la sua testolina vicino al petto. Ravis annaspa un paio di boccate soffocate, gorgogliando qualche sillaba, ma Eduard non fa cedere la presa.
Toris si allarma e scatta sul posto, guardandoli con occhi strabuzzati. Io non ci do troppa importanza e scendo giù dal muretto, sprofondando nella neve fino alle caviglie. Una manciata di polvere ghiacciata mi entra nelle scarpe, dandomi una scarica elettrica su tutta la gamba. Soffoco il dolore in un sorriso tirato e mi chino sul sacco. Quei tre continuano a ciondolare tra di loro, ma non ci bado. Sono tipi bizzarri ma molto utili.
Agguanto il cuoio che avvolge il bottino e snodo il laccio che lo tiene chiuso. Affondo il  braccio dentro al sacco senza guardare, e tasto il primo oggetto che mi capita tra le dita. È freddo e morbido, leggermente oliato sulla superficie.
I tre ragazzi ora sono fermi immobili in mezzo alla strada. I loro occhi sono fissi su di me, scintillanti come gemme. Ravis arriccia le mani vicino al petto. La sua bocca si schiude lievemente, lasciando cadere un rivolo di saliva dall’angolo della bocca.
“Allora, direi che…” Dico, facendo riemergere il braccio alla luce del sole.
Tra le dita scopro di stringere una fetta di formaggio bianco, ricoperto sul dorso con una carta bianca e rossa incollata sulla crosta.
“Direi che questo va a voi e tutto il resto a me.” Dichiaro con il sorriso sulle labbra.
Toris abbassa le palpebre e rilassa le spalle. Un altro sbuffo di condensa si arriccia sotto la sua bocca.
“Ehm, grazie, Signor Braginski.”
Io gli tendo la fetta e lui la prende dalla mia morsa con un gesto lento e timoroso. Le sue dita sottili tremano, e sono rosse e screpolate per il freddo.
Ravis s’intristisce e inarca le sopracciglia in un’espressione pietosa.
“Di nuovo così poco? Ma io ho ancor…”
Eduard gli lascia cadere un pugno chiuso sul capo, zittendolo in un attimo. I suoi occhi lo fulminano.
Richiudo il sacco e lo sollevo con una mano sola, portandolo fin sotto il muro. Volto il capo di nuovo verso i tre, e la sciarpa si alza fin sotto la punta del mio naso.
“Io sono il capo, ed è giusto che sia io ad avere la parte più grossa, non trovate?” Domando.
Toris sforza un sorriso, aggrottando la fronte.
“Non… non mettevamo in dubbio questo, Signor Braginski.” Mi dice con voce traballante.
Eduard si fa avanti, sistemandosi il colletto del cappotto. Deve avere freddo, la punta del naso si è tutta arrossata. Si sistema di nuovo gli occhiali, facendo poi passare le dita tra i capelli biondi.
“Quello che volevamo dire, Signor Braginski, è che è sempre più difficile trovare cibo o altri oggetti senza venire scoperti. I sistemi di sicurezza si stanno evolvendo, ed è davvero diventata un’impresa, farla franca.”
Io alzo le palpebre, guardando oltre le lenti che gli coprono gli occhi.
“Perché ci sarebbe da preoccuparsi?” Gli domando, appiattendo le labbra. “Noi non stiamo facendo nulla di male. Se siamo abbastanza forti da poterci permettere di appropriarci di quello che possiedono le altre persone, allora perché non dovremmo farlo?”
Piego la testa di lato e torno ad allargare il sorriso.
“Io non ho intenzione di farmi sopraffare dagli altri. Se questo ci permette di sopravvivere, allora non ho nulla di cui preoccuparmi. È quello che mi hanno sempre detto.”
Ravis sospira, e qualche ciocca fulva gli cade davanti alle palpebre chiuse.
“Anche sfruttandoci?” Chiede con aria malinconica.
Eduard e Toris si voltano di scatto, mozzando un gemito tra i denti.
“Ravis!” Esclamano all’unisono.
Il piccoletto balza sul posto, sgranando gli occhi. Io abbasso le palpebre e inizio a muovere qualche passo verso di lui. La neve continua a gemere sotto le mie suole.
Ravis si cinge le mani al petto e alza gli occhi azzurri verso di me, da sotto la frangia spettinata.
“Non è sfruttamento, Ravis.” Gli dico, sorridendo.
Gli poso una mano sopra il capo, avvolgendogli l’intero cranio. Lui s’irrigidisce come un palo, e il suo sguardo si pietrifica su di me. Faccio sfregare le dita tra i suoi capelli, scompigliandogli le ciocche fulve.
“Io vi tengo sotto la mia protezione, e il minimo che mi aspetto da voi è lealtà e collaborazione. Ma, siccome il capo sono io, voi dovete semplicemente attenervi alle mie regole.”
“Il problema è che…” Mi interrompe Eduard, portandosi più avanti rispetto a Toris.
Si sistema gli occhiali – continuano a cadere! – e abbassa leggermente le palpebre.
“Il problema è che temiamo che queste nostre azioni possano sfociare in crimini più seri, Signor Braginski. Insomma, un conto è rubacchiare da qualche emporio, ma…”
Abbassa lo sguardo, facendo ruotare gli occhi al suolo. Io lo osservo con aria interrogativa, senza staccare la mano da Ravis.
Toris fa un passo in avanti, lasciando due profonde impronte dietro di sé.
“Il nostro timore, Signor Braginski.” Dice, scostandosi i capelli dalla fronte. “È che possa succedere di nuovo un episodio come quello della settimana scorsa. Ce… ce la siamo vista brutta, ma ora che le autorità ci tengono d’occhio, lei in particolar modo,   noi …”
“Se l’è cercata.” Sbotto, incupendomi in volto.
Le mie dita stringono inconsciamente attorno alla testa di Ravis, che continua a tremare come una foglia. Eduard e Toris si sono irrigiditi, una veloce scossa scorre sulle loro schiene.
“Io ho fatto la cosa giusta.” Proseguo. “Se le persone ti fanno arrabbiare, o non fanno ciò che desideri, è giusto farglielo capire, no? Sono loro nel torto.”
Un gorgoglio mi romba nel petto. Una fredda morsa mi si avvinghia attorno allo stomaco, quasi stritolandolo. Le dita affondano ancora di più tra i capelli di Ravis.
Il piccoletto geme e strizza una palpebra, nascondendosi tra le spalle.
“Ahia, mi fa male.” Sibila.
Io allento la presa e ruoto il capo verso di lui. Ammorbidisco lo sguardo, ma Ravis è una maschera di panico.
“Tu credi che sia stata una buona idea?” Gli domando, socchiudendo gli occhi. “Se qualcuno ti porta via ciò che è tuo, è giusto comportarsi in quella maniera?”
Lui scioglie lo sguardo di terrore, ma i suoi occhi lucidi vacillano ancora.
“Ecco… per fortuna non è successo nulla di… di irreparabile.” Balbetta. La sua voce trema quasi quanto il suo corpo. “Poteva finire peggio, insomma, alla fine non è morto nessuno anche se quel tizio era ridotto abbastanza…”
“Ravis!” Eduard e Toris lo interrompono di nuovo, ma ora non possono tappargli la bocca.
Io sorrido al piccoletto, ignorando le sceneggiate dei due. Sembra quasi che ogni singola parola di Ravis li sotterri di un centimetro sotto la neve. Lascio scivolare la mano giù dalla sua testa, e i capelli anarchici tornano a scompigliarsi sul suo capo.
“Vedi, è stata comunque la cosa giusta da fare. Ma ora…”
Ruoto lo sguardo verso gli altri due che rizzano la schiena come marmotte, quando i loro occhi si incrociano con i miei.
“Ora l’importante è restare uniti. Se continuerete a fare quello che vi dirò senza lamentarvi allora andrà tutto bene.”
Mi sistemo la sciarpa sotto il mento, allargandola. Faccio prendere un po’ d’aria al collo, e la pelle calda e umidiccia viene scossa da un brivido. Me la stringo di nuovo, lasciando che un lembo cada su una spalla.
“Comunque…” Dico, ruotando lo sguardo al cielo. “Com’è quella storia che mi tengono d’occhio? Per caso qualcuno ha fatto la spia su qualcosa?”
Eduard e Toris si scambiano una veloce occhiata. I loro sguardi si stropicciano, ed entrambi aggrottano le sopracciglia.
“Beh, no… non esattamente.” Risponde subito Toris.
Scuote il capo con un colpo rapido, e le ciocche castane gli danzano davanti al viso.
“Credo che la voce sia partita direttamente dall’orfanotrofio. Probabilmente possiedono ancora qualche suo documento, anche se sono passati almeno un paio d’anni da quando se n’è andato.”
Eduard annuisce e si dà una strofinata alle mani, riscaldandosi i palmi.
“Forse ha avuto dei precedenti, Signor Braginski? Oppure qualcuno ha fatto spargere notizie da lì di certi suoi… atteggiamenti? Ma con questo non la sto contraddicendo!” Si affretta ad aggiungere, alzando il tono di voce.
“Ma sicuramente i sussurri provengono da là. Potrebbe essere stato il direttore, o una qualche governante, chi lo sa. In ogni caso…”
Si sistema gli occhiali sul naso e un debole raggio di sole si riflette sulle lenti.
“Dovremo agire con più cautela, d’ora in avanti. Basterebbe solo un suo minimo movimento sospetto e dovremmo davvero prepararci al peggio.”
“Soprattutto per quanto riguarda la sua situazione.” Aggiunge Toris, aprendo un palmo della mano verso l’alto.
Eduard getta lo sguardo al suolo, allontanandolo dal mio.
Probabilmente non si stanno davvero preoccupando per me. Penso, senza un briciolo di rammarico. Anzi, forse gli farebbe addirittura comodo sbarazzarsi di me.
Sollevo gli angoli della bocca, e il mio viso s’irradia.
Ma non mi lascerò portare via con tanta facilità.
“Dall’orfanotrofio?” Domando con voce calma.
Eduard torna a ruotare gli occhi verso di me.
“Sì, forse da lì può essere sfuggito qualcosa. Non sono mai stato trattato molto bene, e quando sono cresciuto ho cercato di far capire a tutti che ora sono diventato in grado di difendermi con le mie sole forze.”
Ruoto il capo dietro di me, ed inquadro Ravis con la coda dell’occhio. Gli sorrido, ma lui s’irrigidisce nuovamente.
“Quando si è piccoli è facile che tutti gli altri si approfittino di te, giusto?”
Lui stringe le spalle e borbotta qualcosa tra le labbra tremolanti.
“Eh, sì. Certo, Signor Braginski.”
Avvito tutto il busto verso di lui, dandomi poi una ripulita al cappotto, lisciandomelo sul petto.
“Infatti, ma ora che sono cresciuto abbastanza da cavarmela da solo ho capito l’importanza di avere molte persone vicino. E anche che è meglio badare a se stessi, tentando il tutto e per tutto per sopravvivere.”
Ravis tiene la fronte bassa, le mani giunte sul grembo, ma i suoi occhi si sollevano sui miei. Due profondi lampi blu.
“E bisogna pensare a sé anche a costo di far soffrire gli altri?” Mi domanda.
Sento un rantolio confuso giungere da dietro di me. Lancio la coda dell’occhio alle mie spalle, ma non riesco ad inquadrare Eduard e Toris. Sono strani, quei due, non capisco cosa li agiti tanto.
Torno a guardare Ravis e chiudo le palpebre sul viso.
“Basta non badarci.” Gli rispondo con voce pacata. “Io penso solo a compiere ciò che fa star bene me. Ma voi vi sentite al sicuro sotto la mia protezione, dunque non dovete lamentarvi. Basta solo che vi fidiate di me.”
Ravis si nasconde tra le spalle. Affonda il viso nel colletto della giacca, lasciando scoperti solo gli occhi e la fronte. Dietro di me, Eduard e Toris si ammutoliscono.
“Fo- forse, quello che Ravis intendeva…” Dice Eduard, schiarendosi la voce.
Io mi volto subito, abbastanza per vedere la nuvoletta di vapore dissolversi davanti al suo viso. Eduard alza un palmo al cielo, piegando la bocca in una smorfia.
“Forse, lui intendeva che certe persone potrebbero, ecco, allontanarsi. Magari perché intimorite.”
Lui e Toris hanno ripreso a tremare. I capelli di Toris gli oscillano sulle spalle.
Io ruoto lo sguardo al cielo – il sole si è nascosto dietro alle nuvole, grigie come una sbuffata di fumo – e rimango a fissarlo con aria pensosa.
“Mhm. Allontanarsi? Se vi riferite a…”
Fratellone!
Un urlo squarcia l’aria densa e pesante. La voce è ancora lontana, ma mi provoca un tuffo nel petto violento come una mazzata dritta sulle costole. Una vampata di caldo improvviso m’investe la faccia, e il naso inizia a prudere. Il sangue scorre più velocemente, ho recuperato la sensibilità.
Di nuovo un urlo confuso, mescolato al rumore dei passi che ruzzolano sulla neve.
Mi irrigidisco in mezzo alla stradina, con le mani stese sui fianchi e le dita contorte che non riescono a toccarsi tra di loro. Sgrano gli occhi e, quando aggrotto la fronte, sento già il sudore gelido che gronda sulla pelle.
“Oh, no. Di nuovo.” Gemo, guardandomi in torno con scatti nervosi.
Io mio sguardo schizza in ogni angolo, i capelli si agitano davanti alla fronte. Arretro di un passo, non badando agli sguardi confusi dei tre ragazzi che mi fissano. Tiro un sorrisetto traballante sulle labbra, ma lo nascondo subito dietro alla sciarpa.
I passi sono vicini, strisciano e sprofondano nella neve ghiacciata come a volerla divorare.
Mi porto le mani davanti al petto, continuando ad arretrare verso i bidoni di latta.
“Pensateci voi.” Dico ai tre ragazzi. “Fate finta che io non ci sia.”
Mi tuffo tra i contenitori arrugginiti, rannicchiando le ginocchia vicino al petto. Spero che i miei spasmi non facciano tremare anche i bidoni, il trambusto stanerebbe il mio nascondiglio. Appoggio la schiena sulla superficie metallica tenendo la testa china sulle gambe.
Il ruzzolare sulla neve si fa più vicino, sento il cuoio delle scarpe gemere mentre si avvicina. Un altro respiro si unisce a quello dei tre, ma è più pesante e accelerato.
I passi s’interrompono. Cala il silenzio, graffiato solo da quell’affanno roco e cavernoso.
Deglutisco un boccone di saliva senza fare troppo rumore e ruoto lentamente il collo dietro di me, oltre il bidone. Affondo il viso nella stoffa della sciarpa e quella mi arriva fino alla punta del naso. La condensa scompare tra la lana.
La schiena di Natalia si gonfia e si sgonfia, ingrossandole la stoffa del cappotto di pelle che le arriva fino alle caviglie. Le spalle si piegano in avanti, i capelli le scivolando davanti alla fronte , coprendole il viso come una sottile e morbida tenda. Il fiocco stretto sul capo le si è sciupato, il nastro blu si intreccia con le ciocche bionde che lo nascondono.
Ravis sgattaiola come un topolino impaurito dietro alla schiena di Eduard che si è ingobbito leggermente. Si sistema gli occhiali sul naso e le lenti nascondono due occhi tremanti di paura. Eduard fa un passo all’indietro, spingendo sul petto di Ravis. Allunga una mano al suo fianco, aggrappandosi al lembo della giacca di Toris. Tira il ragazzo vicino a sé, per poi dargli una spinta in avanti, facendolo quasi inciampare sui suoi stessi piedi.
Eduard sibila qualcosa tra le labbra e si scambia un’occhiata d’intesa con Toris. Lui sospira, e fa qualche passo in avanti tenendo le spalle inclinate all’indietro. Le mani ben ferme davanti al petto.
Natalia non si è mossa, si è limitata a stringere i pugni sui fianchi, restando a capo chino. Toris aggrotta le sopracciglia e la bocca gli si piega in una strana smorfia. Le sue spalle tremano, facendo traballare le punte dei capelli. Un grumo di nuvolette bianche si aggroviglia sotto il suo naso.
“N-Natalia… sei…”
“Dov’è?” Un gorgoglio cupo e profondo scivola giù dalle labbra di Natalia.
Trae un profondo sospiro dalle narici, e la schiena le si gonfia. Quando solleva la fronte, i sottili fili setosi le scivolano ai lati del viso, cadendole sopra un orecchio. Un lato della faccia è ancora nascosto dai capelli, mentre nell’altro brilla la luce del suo occhio. Un raggio di sole smuove una scintilla che le accerchia l’iride, emanando riflessi blu che schizzano dalla sua pelle lattea. La pupilla traballa, piccola come una capocchia di spillo.
“Dov’è?” Ripete, piegando un angolo della bocca verso l’alto.
Un’ombra nera le cala sulla fronte.
Toris si stringe le spalle e strizza le palpebre, lasciando cadere le mani sui fianchi.
“Non… non è qui. Se lo stai cercando, forse…”
“Bugiardo!”
Natalia rizza la schiena e aggrotta le sottili sopracciglia. Dilania la bocca in un ringhio selvaggio e allunga le mani davanti al petto. Toris si allarma, scattando sul posto come una molla ma, prima che abbia tempo di muovere anche solo i piedi, Natalia è già su di lui. Lo agguanta per la stoffa della giacca, affondando le dita nel colletto. Le sue dita si artigliano come ganci di ferro.
Natalia trascina il viso impallidito di Toris vicino al suo, e i due respiri congelati si mescolano.
“Non mi prendere in giro, so che è qui!” Gli urla, inasprendo il tono di voce.
Toris geme, tremando sotto la sua presa come una canna mossa dal vento. Eduard e Ravis si allontano ancora di più, e il piccoletto tuffa il viso nella schiena di Eduard.
Natalia continua a stringere la presa. “Dimmi dov’è!”
“Non è qui, Natalia.” Le risponde Toris, abbassando una palpebra.
Lei s’incupisce ancora di più in volto, lasciando calare le tenebre sui suoi occhi. Un ghigno sadico le fa brillare i denti sotto le labbra, ma un altro luccichio scintilla dentro alla manica del suo cappotto
Toris abbassa lo sguardo e socchiude la bocca, bianco come un lenzuolo. La punta della lama cresce lentamente da sotto la stoffa, fuoriuscendo come la testa di un serpente. Il coltello si avvicina alla gola di Toris, il manico è impugnato tra le sottili dita di Natalia. Le nocche le si sono sbiancate a forza di stringerlo.
“Se mi stai dicendo una bugia…”
“Eh?! No, no, è tutto vero.”
Toris scuote la testa e le punte dei capelli umidicci sfiorano la parte affilata della lama.
“Credimi.” Le dice, impietosendo lo sguardo.
Natalia raddrizza il collo, e la sua testa si allontana da quella del ragazzo. L’ombra scura continua ad aleggiare attorno al ghigno che le deforma il viso.
“Sarà meglio per te.” Gli dice con quel gorgoglio che sembra provenire dalle più buie profondità delle sue viscere.
Le sue dita si allentano attorno alla giacca di Toris e lui fa ricadere i talloni a terra, che scrocchiano sulla neve. Barcolla un paio di volte, prima di mettersi in equilibrio. È stato in punta di piedi fino ad adesso.
Natalia ruota il capo e io sento una morsa attanagliarsi attorno alle mie viscere, anche se i nostri sguardi non si sono incontrati. Con uno scatto fulmineo torno a nascondere la testa dietro al bidone, sollevando le spalle fino a toccarmi le guance.
Per qualche attimo il silenzio regna sovrano, io mi tengo lontano dalla superficie di latta per evitare di farla traballare. Trattengo addirittura il fiato, per paura che le nuvolette di condensa possano svolazzare in bella vista. Il cuore mi martella nel petto, la cassa toracica tuona sotto i suoi colpi.
Vattene, vattene, vattene, vattene, vattene, vattene…
Sento un paio di suole gemere sulla neve e due colpi ben assestati che frantumano il ghiaccio. Quel rumore mi scuote le orecchie, facendomi tremare le ciocche di capelli che le coprono. Il rumore dei passi che avanza si fa più forte, poi accelera, macinando il suolo sotto i colpi.
“Fratello, dove sei?! Dobbiamo…”
La voce di Natalia si allontana, divorata dall’aria gelida e pesante di fine inverno. Il rumore della sua corsa si affievolisce. Sembra quasi un eco, poco più di un brusio. Io rimango immobile, pietrificato dietro ai bidoni con la testa nascosta tra le ginocchia.
Di nuovo il silenzio, e il mio respiro che riprende a congelarsi sotto il naso.
“Se… se n’è andata.” La voce di Toris mi scioglie il ghiaccio nel petto.
Rilasso le spalle, e la sciarpa si abbassa fin sotto il mio mento. Mi lascio scivolare di lato, rotolando sulla neve che si appiattisce sotto il mio peso. Abbasso le palpebre, ma le mie labbra tremano ancora.
“Per un pelo…” Sospiro.
Toris ha ancora lo sguardo voltato nella direzione in cui Natalia si è dileguata. Sta riprendendo fiato, le sue guance e il suo naso si sono arrossati come se la pelle si fosse bruciata. Alcune ciocche di capelli gli sono rimaste incollate alla fronte.
“Già, per un pelo.” Mormora, passandosi una mano tremante sulla gola.
Le sue labbra si piegano in un leggero sorriso e gli occhi tornano a brillare come prima. Io piego la testa di lato, non capendo cosa ci sia da essere felici dopo che Natalia ti ha puntato una lama sotto il mento.
Ravis sbuca da dietro la schiena di Eduard, con le sopracciglia inarcate e gli occhi rivolti nella stessa direzione di quelli di Toris.
“Forse, lei è proprio una di quelli da tenere lontani. È così, Signor Braginski?” Mi domanda il piccoletto.
Eduard allarga le mani sui fianchi, lanciandogli un’occhiata allucinata, con le palpebre strabuzzate. Soffoca un gemito, sperando forse di trovare qualcosa da aggiungere, ma non riesce a far uscire neanche una sillaba.
Io sospiro, tirando un sorriso sotto le guance. La neve inizia a congelarmi le natiche.
“Se solo non fosse così possessiva, non sarebbe cattiva.” Rispondo, abbassando le palpebre sugli occhi.
Un brivido mi attraversa la spina dorsale, divorandola fino al midollo.
“Dovrebbe solo evitare di rincorrermi così assiduamente e di diventare così paurosa tutte le volte. Non ci tengo proprio a farmi prendere.”
Eduard si sistema il colletto della giacca sotto il mento, e gli occhiali tornano a scivolare sulla punta del naso.
“Avere una sorella deve essere un bell’impegno.” Dice con voce ferma e pacata. “Ma almeno può essere certo che lei non l’abbandonerà mai, Signor Braginski.”
Ravis annuisce, e la massa di capelli fulvi si scuote sulla sua fronte.
“Esatto. Anche se è già stato scaricato da quell’altra, ha presente…” Si porta le mani davanti al petto, contorcendole come le zampe di un ragno. “Quella con quelle tette gigantesche è sua sorella, giusto?”
“Ravis!” Di nuovo Eduard e Toris lo zittiscono all’unisono.
Io rilasso i lineamenti del viso, mentre quei due si irrigidiscono di nuovo, e i loro volti diventano maschere di terrore.
“È vero, Katyusha si è separata da me.” Dico.
Rigonfio le guance, allargando il sorriso. “Ma è stata una sua scelta, infatti io avrei preferito che fosse rimasta con me.”
Eduard sbuffa, sistemandosi la montatura.
“Già, è… è paradossale, non trova?” Dice, schiarendosi la voce.
Si fa di nuovo serio come prima. “La sorella che più teme non ha intenzione di scollarsi da lei, mentre quell’altra ha deciso di separarsi, anche se lei avrebbe preferito rimanere insieme. Forse… se capisse perché Katyusha se n’è andata…”
Si interrompe da solo, guardandomi con occhi vacillanti da dietro le lenti.
Toris volta il naso verso di lui, placando il tremolio continuo.
“Oppure…” Si intromette Toris. “Potrebbe domandarsi perché ha tanta paura di Natalia. In fondo, lei è così…”
Si morde un labbro, e il sorrisetto torna ad accarezzargli le labbra. Io sollevo una palpebra con un gesto lento.
“Ho paura perché è spaventosa, tutto qua.”
I tre si girano a guardarmi. Io alzo la fronte al cielo, il pallido sole scivola fuori dalle nubi grigie e dense che si accumulano nel cielo macchiato dalla foschia. La sua luce è debolissima, riesco a guardare quel disco bianco senza alcuna difficoltà.
“Forse dovrei chiedermi perché si comporta così…” Mormoro, senza abbassare gli occhi.
Un uccellino spicca un balzo dal tetto di una delle case ai bordi della strada. Le sue zampette sbriciolano un cumulo di neve, e una manciata si polvere cristallina cade dal cornicione.
L’inverno sta finendo, e non ne vedrò più un altro.
 
***
 
“Torneremo a prenderti. Tu stai buona e aspettaci qua, Natalia.”
La mamma mi sistema la giacca attorno al collo, abbottonandomi l’ultima fibbia sotto la gola. Mi scosta una ciocca di capelli dalla spalla che ricade sulla schiena, lasciandomi libera un’orecchia. Il vento soffia, penetrandomi fin dentro al timpano. La mamma si solleva, rizzandosi sulle ginocchia, e la sua mano gelida si scolla dal mio cappotto.
Papà mi posa una mano sul capo e lascia scivolare due dita sopra al fiocco, stringendomelo attorno ai capelli.
“Non ti muovere, mi raccomando.” Mi dice papà con la sua voce profonda.
Le sue dita ghiacciate scorrono sulla pelle del cranio come viscidi vermi umidi. Un’altra raffica d’aria mi stritola, facendomi battere i denti. I piedi si sono del tutto intorpiditi, affogati nella neve fino alle caviglie.
Papà ritira la mano sul fianco e io rimango in mezzo alla distesa bianca, irrigidita come un palo. Il cielo grigio continua a fioccare, ogni suono è ovattato.
Mamma e papà si girano, mi danno le spalle, e iniziano a camminare a grandi falcate tra la landa immacolata. Un vortice li accerchia, quella raffica bianca fa svolazzare i capelli di mamma che si stringe le spalle, chinando il capo verso il petto. Papà si avvolge tra le sue stesse braccia, strofinandosi le spalle.
Anche loro hanno freddo.
La neve mi travolge, mi punge la faccia come una pioggia di spilli. Un’altra alitata d’aria, più forte, mi stritola fino a mozzarmi il fiato in gola. Strizzo le palpebre, nascondendo il naso dentro al colletto della giacca. Ho talmente freddo che mi sembra di sentire caldo. Sto persino iniziando a sudare, la schiena è diventata fradicia e rovente.
Socchiudo lievemente un occhio e le ombre di mamma e papà svaniscono nel silenzio, ingoiate dalle neve che continua a cadere inesorabilmente. Barcollo in avanti, la testa inizia a diventare pesantissima. Sbatto le ciglia un’ultima volta e intorno a me c’è solo il bianco. Mamma e papà non ci sono più.
Non mi sento più le gambe e le braccia, il cuore ha iniziato a rallentare. I tonfi sono forti dentro al petto, e rimbombano come tamburi. È l’unico suono in questo silenzio. Abbasso le palpebre e il bianco diventa nero. L’ultima cosa che sento, è il suolo ghiacciato che mi preme su una guancia.
 
La bambina chinata vicino a me sorride sempre. È stata lei a svegliarmi, ma non ricordo quando mi sono addormentata. Sollevo il naso al cielo e la neve continua a pungere sulla mia faccia. Forse non ho dormito molto, visto che nevica ancora.
Torno a posare gli occhi sulla bambina che mi ha sistemato il cappotto e ripulita per bene. Sembra preoccupata, ma non mi interessa. Ha addirittura provato a convincermi a venire assieme a lei e a quell’altro bambino. Ma non ci penso minimamente ad andarmene da qui. Mamma e papà torneranno. Sì, torneranno.
Mi mordo un labbro, cercando di scacciare quella piccola vocina che continua a bisbigliare in un angolino della mia mente. Aggrotto la fronte, ignorando completamente le sue parole.
Katyusha – così ha detto di chiamarsi – continua a parlare e a sorridermi. Sembra quasi un raggio di sole in mezzo a tutto questo ghiaccio. Il mio cuore batte un’altra volta, ma sempre facendo rimbombare quel suono duro e pesante che sbatte sulla cassa toracica.
Non torneranno, vero? Anche se sanno che ho fame e che li sto aspettando.
Il bambino che si chiama Ivan striscia sulla distesa di neve e si avvicina a me. Una sua mano scivola su un mio fianco, prendendomi delicatamente la mano rossa e infreddolita. Schiudo il palmo verso l’alto e lui ci lascia cadere dentro un pezzo di pane nero, duro come un sasso.
“Tieni.” Mi dice, sorridendo. “Se hai fame puoi mangiare questo.”
Chiude le palpebre davanti agli occhi: due lampi viola, bui e profondi come un pozzo sul suo viso latteo. Una ciocca dei miei capelli è avvolta attorno al braccio teso verso di lui, e mi scivola sulla punta del naso. Nemmeno Ivan ha i guanti, e così le nostre mani si incontrano. È proprio quando ci tocchiamo che accade qualcosa.
Sento un tremito. Una breve e veloce scossa corrermi tra le dita, fin sopra la spalla. La sua pelle è fredda, ma la sua presa è calda come una fiamma che arde. È lui a sciogliere il ghiaccio che mi ricopre come una sottile pellicola. L’acqua gocciola, portandosi dietro tutto il dolore e l’amarezza dei miei miseri sei anni di vita. Quel tocco brucia fin dentro al petto e il cuore ricomincia a battere veramente, ma non fa più male.
Adesso sono io a stringere la mano attorno alla sua. L’altro braccio si appende direttamente sulla sua giacca e io mi ritrovo ad un palmo da lui, tanto da sentire il suo fiato agitarmi i capelli.
“Sposami.”
No, non è per il pane.
 
L’orfanotrofio è buio, sporco e freddo. I letti sono piccoli, e le lenzuola e i materassi sono bucati, rosicchiati dai topi e dagli anni che passano.
Mi porto la coperta fin sotto il naso, immersa nel buio della stanzina, e mi accoccolo vicino al fianco di Ivan. Lui sta già dormendo, con la coperta tirata fin sotto gli occhi. Aguzzo la vista e il raggio di luna che filtra dal vetro, mezzo otturato dal muro di neve, illumina il viso di Katyusha, raggomitolata sull’altro fianco di Ivan.
Ci siamo solo noi tre sul materasso. Io rischio quasi di cadere di lato, e mi domando come faremo a dormire ancora insieme quando cresceremo e il letto non basterà a contenere neanche due di noi.
Affondo il viso nell’incavo del collo di Ivan, e il mio stesso fiato tiepido mi riscalda la faccia, accumulandosi sulla sua pelle. Allungo una mano sul suo fianco, da sotto lo coperte, e gliela stringo attorno al bacino, aggrappandomi all’altro suo braccio. Lui non se ne accorge e continua a dormire.
Abbasso le palpebre e mi concentro solo sui battiti dei nostri cuori.
“Non ti lascerò mai.” Mormoro, ma nessuno mi sente. Il sussurro viene ingoiato dal silenzio della stanza.   
Di nuovo quel dolce tepore che mi avvolge il petto, di nuovo quella sensazione che non ho mai provato prima, nemmeno quando mamma e papà mi abbracciavano mi sentivo così. Sbatto le ciglia un paio di volte, una ciocca di capelli mi scivola davanti agli occhi. Rannicchio una gamba vicino alla pancia, strofinandola sul materasso ruvido. 
A qualunque costo. Ti starò sempre vicino a qualunque costo.
Distendo sulle labbra uno dei primi sorrisi della mia vita e mi stringo di più sul suo petto, affondando le dita tra la stoffa dei suoi vestiti.
Tu sei mio.
  
Katyusha sfrega le dita tra di loro, annodandole e contorcendole con gesti nervosi. Tiene la fronte bassa, alcune ciocche di capelli le sono scivolate davanti agli occhi, nonostante le forcine. Da un angolo della stanzina buia e umida, la finestra proietta un debole raggio di luce che passa attraverso i granelli di polvere che aleggiano nell’aria. L’ombra nera di Katyusha si allunga sul pavimento, fino a toccare i miei piedi.
“Mi dispiace.” Dice lei, sollevando il capo.
I suoi occhi, lucidi e tremanti, incontrano il mio sguardo perso nel vuoto.
“Te l’avrei detto prima, Natalia, ma l’ho saputo solo poche ore fa. È per questo che ti sono venuta a cercare con tanta fretta.”
Io strabuzzo le palpebre, continuando a far vacillare gli occhi nel nulla. Barcollo vicino al tavolo di legno bucherellato dai morsi di tarma, e ci poso sopra un palmo della mano. Le dita mi tremano.
“Qualcuno lo... lo ha incastrato?” Domando a Katyusha.
Non la guardo negli occhi, la vista mi si è appannata. Vedo solo la sua testa scuotersi e sento la sua voce rimbombare come un eco.
“No, è stata semplicemente un’altra aggressione. La polizia lo teneva d’occhio già da un pezzo, e i suoi precedenti comportamenti che erano stati segnalati dall’orfanotrofio non l’hanno aiutato.”
La stanza gira intorno a me, il pavimento inizia a cedere sotto i miei piedi, inghiottendomi proprio come la neve che divorava le mie gambe, tanti inverni fa.
Di nuovo il gelo. Di nuovo il gelo che mi si arrampica sulle caviglie, strisciando fino al petto.
Scuoto la testa, e torno a posare gli occhi su Katyusha. È più nitida, ora, e riesco a vedere bene i lineamenti stropicciati e sconvolti del suo viso.
“Quanto lo terranno dentro?” Le domando.
Katyusha scuote la testa. “Non lo so, mi dispiace.”
Una vampata di ghiaccio mi investe l’intero corpo. Le mie labbra iniziano a tremare, la voce si arrochisce, gorgogliando dallo stomaco.
“Dove l’hanno portato?”
Katyusha scuote di nuovo la testa. “Non lo so, mi dispiace.” Sempre la stessa risposta che mi ammazza dentro.
Inarco le sopracciglia, e il mio viso si deforma in una maschera di furia, nera come la pece. I capelli mi ricadono davanti al viso, le spalle si piegano verso il petto. Lascio scivolare il coltello fuori dalla giacca e stringo il manico fino a far diventare le nocche bianche. Una scintilla argentea scorre su tutta la lama, per poi svanire quando raggiunge la punta.
I sottili crini platinati si scostano da davanti un occhio, sprigionando un lampo di tenebra.
“Allora vado a cercarlo io.”
Katyusha scatta, scollandosi dalla parete. Piega le sopracciglia in un’espressione apprensiva e si porta le mani sul petto.
“Cosa stai dicendo? Potrebbero averlo portato dovunque, non sappiamo nemmeno chi ci sia dietro.”
“E allora cercherò anche loro.” Sbotto.
Raddrizzo il capo, e la schiena si gonfia sotto il mio sospiro appesantito.
“Lo cercherò dappertutto. Caverò fuori dalla bocca di chiunque possa sapere qualcosa anche la minima informazione utile.”
Il ghigno di rabbia si deforma, e gli angoli delle labbra salgono verso l’alto, infossandosi nelle guance.
“Nessuno me lo porterà via.”
Le dita scorrono sul dorso della lama, accarezzandola con la superficie dei polpastrelli.
“Nessuno.”
 
Le manette graffiano attorno ai polsi. Mi spolpano la carne, graffiano e strappano lembi di pelle che scivola sul dorso delle mani tra rivoli di sangue tiepido. Il metallo che continua a sfregarsi sulle ferite è come un ferro rovente.
L’uomo in divisa mi preme la mano sulla testa, schiacciandomi la guancia sulla distesa di neve. Il ghiaccio mi paralizza la faccia.
Sento il suo ginocchio premere sulla schiena. Provo a ruotare un occhio all’indietro, ma la vista è coperta dai capelli che mi cascano davanti alla fronte. Un paio di scarponi neri si piazzano davanti a me, tuffandosi nel riflesso delle luci blu e rosse che lampeggiano nel tappeto bianco. È buio, il cielo è più nero della pece, e non ci sono le stelle.
Sento una voce insabbiata che gracchia qualcosa sopra di me, poi svanisce, seguita da un sottile bip.
“Hai finito di fare quello che ti pare, puttana.”
La gente farfuglia intorno a me, ma il gelo inghiotte le loro parole. Un altro paio di scarponi marcia al mio fianco, facendo scricchiolare la neve.
“... sì, sì, l’abbiamo presa. Aveva un coltello ma l’abbiamo disarmata.”
Di nuovo la voce insabbiata, di nuovo il bip.
“...no, nessuno, per fortuna. Ma questa passerà guai seri. Giuro, la sbattiamo dentro e non ne uscirà nemmeno tra cent’anni.”
L’uomo sopra di me continua a premere il peso sulle mie spalle. Il suo corpo non emana calore. È più freddo delle neve su cui sono schiacciata.
Gli altri continuano a parlare.
“...no, nessun parente, mi hanno detto. Ma a chi vuoi che interessi? Là dentro nessuno verrà a cercarla, anche se sparisse dalla circolazione nessuno se ne accorgerebbe.”
Già, nessuno.
Il freddo è ritornato. Di nuovo sola in mezzo alla neve.
La gola mi brucia, dopo tutto quello che ho urlato. Mi manca il fiato, e quell’uomo è troppo pesante. Mi abbandono, continuando a fissare le scarpe del tizio di fronte a me.
Eppure, io volevo solo...
“Certo che è pericolosa, diamine! Ma è proprio perché non sappiamo cosa le frulli in zucca che dobbiamo chiuderla, e... no, non credo che centri qualcosa con quell’altro. È stato l’orfanotrofio a informarci di entrambi ma hanno detto che non hanno legami di sangue. In ogni caso, farà la sua stessa fine...”
... che Ivan mi abbracciasse.

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 ***


CAPITOLO 15
 
L’atmosfera si sta facendo irrespirabile, nonostante la porta blindata sia rimasta aperta dopo l’irruzione di Arlovskaya. Traggo un profondo sospiro, riempiendomi di quell’aria umida e tiepida che mi frigge i polmoni. Appoggio una mano dietro alla schiena, con il palmo aperto sulle piastrelle lisce e fredde. Sollevo la punta del naso verso la luce bianca, immobile, dei tubi al neon che irradiano l’intera stanza.
Mi cingo l’altra mano sul fianco, facendo scorrere le dita sul camice annerito dalla macchia lasciata dalla ferita. La stoffa si è quasi seccata, il sangue si è fermato da parecchi minuti. Faccio una leggera pressione sul bacino e aggrotto la fronte, deglutendo un boccone di saliva. Una scossa mi fulmina fin sotto la spalla.
Basta non toccarla. Basta solo non toccarla e non mi darà problemi.
Lascio ricadere il braccio sulla gamba distesa sul pavimento. Agito un piede per evitare che s’intorpidisca e la punta della scarpa sfiora la gamba di Feliciano, inginocchiato vicino ai corpi dei due fratelli, paralizzati al suolo come marionette inanimate.
I capelli di Braginski gli cadono sulla fronte, spettinati dalla fascia del Transfert ben stretta attorno alle tempie, e gli coprono completamente il viso incollato al pavimento. Le braccia distese vicino alle guance hanno i gomiti lievemente piegati verso l’esterno, le sue dita sono raggomitolate sui palmi. Un paio di cavi del connettore si annodano attorno alle punte, sopra le unghie, tra i pollici e gli indici. I fili colorati scorrono fin sopra le spalle, arrampicandosi sulla sua schiena come radici. Poi risalgono, penetrando nel tessuto della fascia di Arlovskaya.
La giovane ragazza è ancora avvinghiata attorno al fratello, le braccia si annodano attorno al suo bacino. Hanno tremato più volte durante la seduta, stringendo la morsa. I fini capelli platinati scivolano sulla schiena di Braginski, cadendogli di fianco. Le punte vanno a sfiorare il pavimento.
Una guancia di Arlovskaya preme sulla stoffa della divisa del fratello, proprio in mezzo alle scapole, così metà del viso rimane coperta. Una grossa ciocca argentea le cade davanti alla palpebra chiusa, coprendola come un nastro di velluto.
Arlovskaya è stata l’unica ad aver accennato un qualche movimento, o dei leggeri spasmi, durante il processo. Braginski è rimasto immobile come un cadavere. Ma non è ancora finita, entrambi dormono ancora, infatti.
Feliciano è rimasto quasi tutto il tempo con gli occhi incollati su di loro. Il suo sguardo, ogni tanto, ha ruotato verso di me. Ma, quando cadeva sulla mia ferita, le sue sopracciglia s’inarcavano e gli angoli della bocca si piegavano verso il basso. Feliciano distoglieva subito gli occhi, nascondendoli sotto la frangia.
I passi di Kirkland rimbombano tra le quattro mura spoglie, rimbalzando da una parete all’altra. Cammina con la fronte bassa, le mani incrociate dietro la schiena e gli occhi imbronciati, scossi da un tremolio di impazienza.
Gilbert si trascina di qualche centimetro più vicino a me. Sento la stoffa della sua divisa strofinarsi sulle piastrelle. Si muove ad intervalli regolari, ma non apre bocca. L’unico suono udibile sono quei maledetti piedi nudi di Kirkland che schiaffeggiano sul pavimento.
Si ferma un attimo, cala gli occhi sui due fratelli in trans e sbuffa una soffiata dalle narici. Torna ad abbassare il capo e disegna una piroetta sul suolo, riprendendo a camminare nella direzione opposta.
“Probabilmente...” La mia voce interrompe quell’esasperante ticchettio che va avanti da almeno un’ora.
Kirkland inclina la testa verso di me. Feliciano lo imita, ma guardandomi bene negli occhi, stando attento a non abbassarli.
“Probabilmente il processo finirà presto, ormai è quasi un’ora che va avanti.” Gli dico.
Mi porto una gamba vicino al petto, lasciando ciondolare un braccio sul ginocchio. Le palpebre si socchiudono davanti ai miei occhi puntati nel vuoto.
“Puoi anche smettere di agitarti, Kirkland. Tra poco sarà tutto finito.”
Kirkland ruota i piedi verso di me e stringe i pugni sui fianchi. Il suo sguardo s’incupisce, le sopracciglia si inarcano sopra gli occhi scuri.
“Me lo auguro. L’attesa è più esasperante di quel che pensassi.”
Gilbert, alle mie spalle, soffoca una risata tra le labbra, ma senza sforzarsi troppo per trattenerla.
“Ah, non dirlo a me!” Esclama.
Io non mi volto nemmeno.
Kirkland solleva il mento, ruotando lo sguardo al soffitto. La luce della lampada gli illumina la pelle lattea, il riflesso smeraldino dei suoi iridi si accende come una punta di diamante.
“Comunque, cosa intenderai fare, quando si saranno svegliati?” Mi domanda.
Una sua pupilla rotea nella mia direzione, attraendo i miei occhi come una calamita. Aggrotta la fronte, incrociando le braccia sul petto.
“Mi auguro che non ti sia nemmeno passata per la testa, l’idea di liberarli, dottore.” Scuote il capo. “Non ci sono scuse a loro favore, non dopo quello che hanno fatto entrambi, poi.”
La mia mano torna a posarsi inconsciamente sulla ferita. Mi ritrovo con le dita immerse nel sangue rappreso senza nemmeno essermene reso conto.
“Se il Transfert funzionasse, allora non vedo perché dovrebbero restare rinchiusi.”
“Non dire idiozie, dottore!” Sbotta Kirkland, inasprendo il tono. “Credi davvero che quel tuo affare possa cancellare questo?”
Getta il palmo aperto verso il mio fianco. La sua mano compie un ampio arco a mezz’aria, come se mi avesse spostato un lenzuolo di dosso, rivelando la ferita lasciata dallo sparo.
Io aggrotto la fronte, stringendo la presa.
“A tutti voi è stata data una possibilità. Perché con Braginski e Arlovskaya dovrebbe essere diverso?”
“Perché loro due sono realmente pericolosi!” Esclama Kirkland, aprendo l’altra mano sul fianco.
Trae un respiro dalle narici, e le sopracciglia s’inarcano fino a toccare la base del naso.
“Ora ti rivelerò una cosa, dottore.”
Anche Feliciano solleva il capo verso di lui, lasciando sciogliere le dita vicino alle cosce. Lo sguardo di Kirkland è irremovibile.
“Nessuno di noi è realmente guarito, spero che tu te ne sia reso conto.”
Affondo le dita nella stoffa, le unghie premono sulla carne viva, piagata dal passaggio del proiettile. Mi sembra quasi di sentire il piombo freddo che si sposta tra le mie fibre. Il dolore dovrebbe farmi torcere in due, ma la mia schiena rimane dritta come un palo.
Kirkland deglutisce. “Forse è perché alcuni di noi non sono mai stati davvero malati, fatto sta che il Transfert ti ha solo permesso di scoprire la causa della nostra reclusione.”
Scuote nuovamente la testa. La frangia gli trema sulla fronte.
“Non è una cura, dottore, è solo un tramite. Un fottuto connettore di pensieri!”
I suoi occhi continuano a schiacciarmi. “E tu lo sai. Lo hai sempre saputo.”
Le spalle di Feliciano si scuotono, e lui si porta le mani vicino al petto, ma senza voltarsi verso di me. L’aria della stanza diventa un blocco di ghiaccio che ci imprigiona nei suoi cristalli. Il tempo sembra fermarsi, in nostri respiri cessano.
Kirkland rilassa le spalle, i lineamenti del suo viso si distendono. Abbassa le palpebre, prendendo una profonda boccata d’aria dalle labbra.
“Prima ti ho fatto una domanda, dottore, e ora te la ripropongo.”
Socchiude gli occhi, ma questa volta vacillano. La luce bianca scorre sul suo iride come un’onda.
“Perché le celle devono essere vuote?”
Di nuovo una raffica di pensieri torna a vorticarmi nel cervello. Una tempesta neuronale che mi martella il cranio, come una serie di mille esplosioni. Mi pare quasi di sentire i nervi friggere.
Siamo al numero sette, ma anche la numero otto è qui. È quasi fatta, ma manca ancora... manca ancora...
Ruoto gli occhi verso Kirkland, guardandolo da sotto le palpebre socchiuse. Le mie labbra si piegano verso il mento.
“Non posso dirtelo, Kirkland.”
Lui impiega qualche secondo per realizzare la mia risposta. Poi, la sua fronte torna ad aggrottarsi, i suoi denti stridono, contenendo la rabbia. Un’ ombra cupa cala sul suo viso.
“Perché no?! Hai giocato con noi fino ad ora, ho il diritto di...”
“Non posso dirtelo, Kirkland!” Ho alzato la voce.
Il mio sguardo s’indurisce. “Ma posso fartelo vedere.”
Sì, forse lui potrebbe capire. Potrebbe quantomeno aiutare me a capire.
Lo sguardo di Kirkland torna ad ammorbidirsi. Inclina la testa di lato, una ciocca bionda gli cade davanti a un occhio.
“Che cosa vuoi dire?” Mi chiede.
Io abbasso il capo e torno a posare il braccio fasciato attorno al mio fianco sul ginocchio.
“Tu permettimi di fare il mio lavoro, Kirkland, e di compiere le scelte che io ritengo essere più giuste. Ti prometto che, se ti fiderai di me, poi comprenderai ogni cosa.”
Se lo portassi vicino alla numero nove, lui potrebbe essere in grado di capire cosa si nasconde dietro di essa. È un azzardo, ma con le sue... capacità potrebbe davvero svelare il mistero.
Kirkland ruota gli occhi al cielo, deformando la bocca in una smorfia. Solleva il naso, e le sue pupille ripiombano su di me, guardandomi come due mirini.
“È un ricatto, dottore?” Mi domanda con tono acido.
Io scuoto la testa, tentando addirittura di sorridere.
“Come sei cinico.” Gli rispondo. “Prendilo più come un patto. Fidati di me.”
Kirkland sembra ammorbidirsi, in un primo momento. I suoi occhi si addolciscono, e il suo viso si rilassa. Poi, scuote la testa, calando nuovamente quella cupa maschera d’odio.
“Fidarmi? Perché dovrei farlo?”  Sbotta, tenendo lo sguardo basso. “Ti sei preso gioco di noi per anni, e anche ora stai continuando a farlo.”
Io cerco di mantenere il sangue freddo, un mio minimo cedimento emotivo potrebbe essermi fatale. I miei occhi sono immobili, fermi su di lui.
“Tu non vuoi liberarci, dottore.” Continua Kirkland. “Non so cosa ti stia passando per la testa, ma non chiedermi di fidarmi di te. Non posso.”
Ora sì che vorrei urlare. Stringo le mani attorno alla stoffa dei pantaloni, trattenendo l’impulso di saltargli addosso e di scrollarlo, gridandogli in un orecchio che desidero davvero farli uscire tutti da questo fottuto ospedale del diavolo. Tutti.
La mia schiena si gonfia, ho iniziato a respirare più a fondo, riempiendomi i polmoni fino a scoppiare.
“Non... non dire queste cose!” Una vocina tremante parla al posto mio.
Sollevo la fronte, madida di sudore appena lacrimato. Aggrotto le sopracciglia, davanti alla visione di Feliciano impennato sulle ginocchia, con la schiena dritta e le spalle larghe. I pugni alzati davanti al petto si stringono, fino a che le nocche non diventano bianche.
Riesco a vedere il suo profilo. Lo sguardo vacilla, le labbra tremano, ma l’atmosfera che aleggia da quell’espressione mi scuote qualcosa in fondo al petto.
Kirkland scatta, strabuzzando lo sguardo, e il suo collo s’inarca all’indietro. Rimane ammutolito, con le labbra schiuse da cui non passa un filo d’aria.
“Ludwig... Ludwig ce la sta mettendo tutta.” Gli dice Feliciano, alzando la punta del naso su Kirkland. “Lui ha lottato fin dall’inizio per cercare di liberarvi. Ha messo in pericolo la sua vita in tante occasioni, e ha sofferto esattamente come voi per tutte le volte in cui ha indossato il Transfert.”
Feliciano scuote la testa, il ciuffo arricciato si sfrega sulla spalla. Alcune ciocche di capelli gli rimangono incollate al viso imperlato di sudore.
“Come puoi... come puoi dire una cosa del genere dopo che Ludwig ha liberato sia te che Alfred, Arthur? Se Ludwig dice che c’è un modo anche per liberare Ivan e Natalia...”
Piega la testa dietro di sé, abbassando lo sguardo sui due fratelli ancora stesi a terra, divorati dai cavi del Transfert.
“Io allora gli credo.”    
Di nuovo il silenzio che cala, di nuovo i nostri fiati che si mozzano nelle gole. Sento il pavimento cigolare alle mie spalle, e Gilbert sbuca al mio fianco strisciando a quattro zampe con le ginocchia che sfregano le piastrelle. Solleva la fronte verso Feliciano, i suoi occhi lo fulminano con una rapida ma dilaniante scossa scarlatta. Anche le sue labbra tremano, ma sono deformate in un ghigno che gli va a toccare il mento.
“Voi... voi siete tutti matti.” Dice con voce traballante, ma tagliente come una lama affilata.
Deglutisce e rannicchia le spalle vicino alla testa, alzata verso Feliciano.
“Io non intendo approvare la liberazione di questi due. Abbiamo... abbiamo già avuto la prova di quanto siano pericolosi. Liberarli sarebbe... sarebbe solo...”
Si morde un labbro, risucchiando l’aria direttamente dalle narici.
“Sarebbe solo la più grande cazzata della tua vita, Ludwig!” Urla, strizzando le palpebre.
Gilbert riprende fiato, e la sua testa torna a ciondolare. I capelli gli ricadono sul viso, nascondendo gli occhi storpiati dalla rabbia. Le sue dita si stringono sul pavimento, chiudendosi a pugno.
“Dammi solo un motivo...” Dice, abbassando il tono. “Dammi solo un unico motivo per il quale questi due dovrebbero uscire, e allora forse farò finta di crederti.”
Gilbert ruota il capo all’indietro, fulminandomi con il suo sguardo tagliente.
“Guarda come ti ha ridotto.” Continua, arrochendo la voce. “Pensi davvero di fargliela passare come se non fosse mai successo nulla? Ti ha sparato, cazzo! Potrebbe... potrebbe rifarlo in qualsiasi momento.”
Gilbert lascia scivolare le gambe sul pavimento e rizza la schiena sulle ginocchia come Feliciano, lasciando cadere le braccia sui fianchi.
“Dobbiamo andare via dal Welt, Ludwig. Scappiamo e basta.” Conclude.
Io chino il capo e i pugni si serrano. Sento un fremito scuotermi il petto, un leggero brivido mi corre su tutto il corpo.
È la prima volta in cui non so davvero dove sbattere la testa.
Torno a ruotare gli occhi verso Braginski e Arlovskaya. Se li lasciassimo qui da soli, in questo momento, non ci sarebbe pericolo, e potremmo andarcene senza essere scoperti.
Stringo i denti, soffocando un debole latrato. No, non posso. Non posso lasciarli. Ma non so cosa fare. Dio, non so cosa diavolo...
“Scappare dal Welt?” La vocina di Feliciano che squittisce mi soffia via quel tarlo che mi stava masticando il cervello.
Sollevo la fronte, rimanendo abbagliato per un secondo dalla luce. Ora Feliciano è più rilassato. Si porta il dorso di una mano vicino alla bocca e i suoi occhi si abbassano al suolo, fermi. Alza le sopracciglia, simulando uno sguardo concentrato.
“Forse, la soluzione non è scappare. Non lo è mai stata.”
Raddrizza le spalle, portando lo sguardo al soffitto, e un’onda color miele gli attraversa la chioma castana.
“Arthur prima ha detto che in realtà nessuno è guarito, ma questo significherebbe che nemmeno Lovino lo è, e neanche Kiku.” Scuote la testa. “Anche se fosse davvero così, noi abbiamo fatto fuggire tutti dopo aver fatto rivivere i loro ricordi. Abbiamo permesso a tutti di scappare e, forse, di dimenticarli di nuovo.”
Volta gli occhi verso di me. I nostri sguardi s’incrociano, e le sue labbra si piegano in un lieve e morbido sorriso.
“Forse Alfred continuerà a fare le stesse pazzie che lo hanno portato qui, ma ora c’è di nuovo Arthur a tenerlo d’occhio. E poi, noi abbiamo promesso a di prenderci cura di Kiku, una volta usciti dal Welt. E anche Francis...”
Feliciano si porta un indice sulle labbra, sollevando la punta del naso. “Beh, non ho ancora capito quale fosse la sua malattia, ma di lui potrebbe occuparsi Arthur, visto che ha solo l’incarico di sorvegliare Alfred.”
Kirkland strabuzza lo sguardo, e un angolo della bocca si piega verso il basso in un ghigno di ribrezzo. Fa un passo all’indietro, arricciando le braccia davanti al petto.
“Che?! Hai voglia di scherzare? Non ho intenzione di...”
“Aspetta, Kirkland.” Lo interrompo, alzando una mano davanti a me.
Kirkland torna subito serio, e ci scambiamo un’occhiata ferma e decisa. Io aggrotto la fronte.
“Lascia che finisca.”
Kirkland rilassa la schiena e getta una sbuffata d’aria fuori dalle narici. Torniamo tutti a guardare Feliciano e lui alza un pugno vicino al petto.
“Di Lovino, invece, si occuperà Antonio. Sono sicuro che saranno felici di stare di nuovo insieme e, infine...”
China la testa dietro di sé, scrutando i due fratelli riversi al suolo.
“Di Ivan e Natalia potremmo sempre pensarci io e Ludwig. Se continueranno ad essere pericolosi, Ludwig saprà sicuramente come trattarli: è un dottore!”
Annuisce deciso, stringendo il pugno. “La risposta è sempre stata questa. Restare uniti, tutti insieme! Noi...”
Apre una mano e tocca ogni singolo dito con la punta delle dita dell’altra mano, mormorando qualcosa tra le labbra.
“Noi dieci non dobbiamo separarci, ma restare insieme!” Batte il pugno sul palmo e il suo sorriso s’illumina. “È questa la cura, Ludwig!”
Io rimango ammutolito. Rilasso i muscoli del viso, e resto a fissare Feliciano con quell’aria serena, distesa. Mi poso una mano sul petto, e un forte battito mi pulsa sotto la pelle.
“I-insieme?” Mormoro.
Gilbert strabuzza gli occhi.
“Ehi, aspetta! E io che fino ho fatto, eh?” Gracchia, indicandosi il petto con la punta dell’indice.
Feliciano scatta, voltandosi verso di lui. Si porta una mano dietro alla nuca, sfregandosela con movimenti nervosi.
“Ehm, hai ragione. Allora siamo in...” Alza di nuovo gli occhi al cielo. “In undici. Ma ce la faremo!”
Feliciano si piega sul pavimento, e inizia a trascinarsi verso di me. Io non riesco ancora a muovere un muscolo. Le sue gambe sfiorano il mio polpaccio ancora disteso sulle piastrelle. Feliciano mi guarda negli occhi, e io non riesco a scollarmi da quello sguardo.
Si rizza sulle ginocchia, con entrambi i pugni stretti davanti a sé. Allunga il collo, distendendo un sorriso sulle labbra.
“Lasciamo il Welt, Ludwig.” Dice. “Niente più luci e corridoi bianchi, niente più porte blindate, niente più Transfert.”
Quando si ferma, nessuno osa battere ciglio.
Feliciano inspira una boccata d’aria. “Solo noi undici.”
I suoi occhi brillano, sotto il riverbero del neon. La luce gli avvolge l’iride castano, facendolo scintillare come la scheggia di un cristallo.
Ma come fa? Come riesce sempre a sorridere davanti ad ogni cosa?
Un gorgoglio mi stringe lo stomaco, ma non sento dolore. Mi poso una mano sulla pancia, sperando di placare quel formicolio che si sta espandendo in ogni cellula del mio corpo.
Quel suo sguardo che... che io ho...
Una scossa mi fulmina il cervello e la vista traballa, annebbiandosi come se mi avessero soffiato sugli occhi una polvere nera. Oh, no, di nuovo!
... io ho... devo averlo già... già...
Una macchia scura, come una chiazza di petrolio, si espande su tutta la stanza. La testa si appesantisce e la lascio ciondolare sulle spalle, abbassando la fronte al suolo. Di nuovo il buio, di nuovo quelle braccia che mi trascinano.
“Ah, Ludwig! Stanno...” La voce di Gilbert mi scuote.
La macchia si dissolve, risucchiata dal bianco. Sollevo il capo e mi accorgo solo ora di aver premuto una mano sulla tempia. Mi do una scrollata alla testa, inspirando profondamente con il naso, e riapro le palpebre verso mio fratello.
Gilbert stropiccia  lo sguardo e punta il dito tremolante verso il basso, indicando Braginski e Arlovskaya.
Deglutisce un boccone di saliva. “Si... si stanno svegliando, credo.”
Trattengo il fiato e il mio sguardo vola dritto sui due. Braginski muove un dito che si piega sul pavimento come attraversato da una scossetta. Il suo capo si volta verso di noi, i capelli si trascinano sulle piastrelle come a volerle spolverare. La sua schiena si gonfia leggermente.
Gilbert scatta all’indietro e finisce col sedere per terra. Si butta sulle piastrelle piegandosi come un gambero, rintanandosi dietro di me. Le nostre schiene rimangono incollate l’una all’altra, e sento i suoi tremiti scuotermi la spina dorsale. Gilbert agita la testa, e i suoi capelli mi solleticano il collo.
“Non dargli retta, Ludwig.” Mormora, ma la sua voce traballa ancora. “Non liberarli, non farti ingannare. È un’idiozia!”
Quando parla sento la sua schiena vibrare.
Braginski inarca il collo, e il suo viso si scolla dal pavimento. Due fili del Transfert gli cadono dentro alle orecchie, mentre uno si annoda attorno al suo naso. L’ultimo gli è scivolato sulle labbra.
Braginski fa pressione sulle mani, dandosi una spinta che lo aiuta a sollevare il capo. La sorella continua a trascinarlo verso il basso, e lui riesce ad avvitare solo il busto.
Kirkland arretra, lasciando strisciare i piedi sulle piastrelle. Il suo riflesso lo segue.
Braginski mi fissa con aria assonnata e sbatte le palpebre un paio di volte, prima di tornare lucido.
“Oh, è già finito?” Domanda con voce pacata.
Non ha per niente l’aria affaticata, il suo respiro è regolare come sempre. L’ossigeno entra ed esce dal suo naso senza un briciolo di fatica. Avevo intuito che la sua mente si sarebbe dimostrata abbastanza forte da resistere al Transfert, ma non fino a questo punto.
Io sospiro, e il mio sguardo s’indurisce.
“Sì, il processo è terminato.” Gli rispondo.
I suoi occhi si rilassano, e ruotano inconsciamente al suo fianco, inquadrando le  braccia della sorella che gli strozzano il busto. Braginski scatta, e prova a strisciare di qualche centimetro davanti a sé. Arlovskaya non cede, e sembra quasi stringere ancora di più la morsa.
Io aggrotto la fronte.
“Arlovskaya, alza gli occhi.” Le ordino con voce ferma.
Braginski s’immobilizza.
“So che sei sveglia.” Concludo, ammorbidendo il tono.
D’un tratto, un riflesso blu brilla da sotto la chioma della ragazza. I capelli le scivolano sulle braccia, ma il viso è ancora coperto dalla cascata di crini platinati. Due cavi del Transfert le si aggrovigliano attorno ai capelli.
“Ora aprite le orecchie, tutti e due.”
I loro sguardi si voltano, entrambi mi guardano rimanendo in silenzio. Io mi faccio coraggio e inspiro a fondo.
“Braginski, tu cosa faresti, se ti lasciassi andare libero fuori dal Welt?”
Braginski sgrana le palpebre. I suoi pacifici occhi viola sono attraversati da un veloce lampo. Inclina il capo, alzando il naso al cielo.
“Sono rimasto qua dentro per così tanti anni...” Risponde con tono morbido. “Ma, penso proprio che tornerei a casa, alla mia vecchia vita e...”
La voce si strozza in gola, soffocata dall’abbraccio della sorella. Arlovskaya gli stritola il bacino, affondando le dita nella stoffa bianca, e lui tira un sorrisetto traballante, abbassando le palpebre.
“O-ovviamente resterei con Natalia. A volte.”
Io abbasso la fronte e mi porto una mano sotto il mento.
“Forse avrei dovuto chiedertelo prima.” Gli dico. “Ma, cos’hai visto con il Transfert? Insomma, può in qualche modo averti cambiato?”
Braginski socchiude un occhio e solleva le spalle fino a toccarsi le guance. Arlovskaya non molla la presa.
“Io... io non credo di aver capito bene cosa sia successo.” Risponde con voce strozzata.
La sua pupilla si abbassa verso la ragazza. “Ma, credo che...”
“È ovvio che non può aver funzionato, Ludwig!”
La schiena mi vibra, scossa dal gracchiare di Gilbert ancora appiccicato a me come una sanguisuga. Getto la coda dell’occhio alle mie spalle, e lui apre il palmo della mano verso l’alto, sollevandolo vicino al mio fianco.
“Questa è un’altra prova a sfavore della tua idea balorda, Ludwig.” Dice, placando il tono. “Non puoi essere sicuro che l’operazione sia andata a buon fine, non hai sperimentato sulla tua pelle i ricordi le emozioni. Chissà cosa diavolo frulla nella testa di quei due?”
Il suo busto si avvita, sfregando sulla mia schiena.
“Non potrai mai saperlo, e farli uscire dal Welt sarebbe solo un inutile rischio.”
Persino Kirkland annuisce, e abbassa la fronte verso di me.
“Sì, anche io la penso così.” Dice. “Ammetto che la tua proposta di poco fa era allettante, e sono parecchio tentato a venirti dietro, dottore.”
Scuote la testa, abbassando le palpebre. “Ma come possiamo stare tranquilli dopo quello che è successo?”
Lascio che le dita risalgano fino a una tempia, e appoggio tutto il peso della testa solo su una mano. I miei occhi si scollano da quelli di Kirkland, ignorandolo, e tornano su Arlovskaya.        
“Tu cosa faresti, invece, Arlovskaya?”
La ragazza stringe le spalle, e sfrega il viso sul petto del fratello. I suoi occhi mi spiano, ma i capelli le scivolano sulla spalla, lasciandole il viso scoperto. Sulla pelle bianca non c’è traccia di sudore.
“Starei con il mio fratellone.” Risponde, inclinando le sopracciglia.
Io socchiudo una palpebra. “Tutto qua?”
Arlovskaya annuisce. “È tutto ciò che voglio, e ciò che ho sempre desiderato.”
Torna a strofinare il naso tra la stoffa della divisa di Braginski, e le sue dita s’appigliano attorno alle braccia del fratello.
“Non ho mai chiesto altro, tutto quello che volevo era ritrovarlo e stare insieme a lui. Sono anche disposta a farmi rinchiudere di nuovo, ma...”
Un lampo blu saetta verso di me. Il suo occhio mi lacera con un solo sguardo.
“Ma fatemi restare con lui. Anche a costo di essere incatenati insieme.”
Braginski viene scosso da un tremito. Le sue mani si agitano sui fianchi, ancora bloccate dalle presa di Arlovskaya.
“Ehm, non credo che sia il caso di ricorrere a questo. Non ci tengo proprio ad essere rinchiuso di nuovo.”
Sollevo un sopracciglio con uno scatto fulmineo. Mi incrocio le mani davanti alla bocca, sperando di trattenere il sorrisetto.
Questo volevo sentirti dire.
“Quindi vorresti uscire?” Gli domando.
Braginski ruota gli occhi verso di me. Il suo sguardo, però, è diverso. Non è spaventato, non è minaccioso o inquietante. Socchiude gli occhi, animati da una strana luce.
“Certo che lo voglio.” Dice, con voce ferma ma calda come al solito. “Chiunque vorrebbe uscire da qui.”
Kirkland abbassa le palpebre e il suo ghigno di rabbia si distende. Le sue labbra si arricciano, come stessero provando a trattenere dentro qualcosa.
“Kirkland.” Lo chiamo, ma lui si volta verso di me solo dopo qualche attimo.
“Capisco che tu non ti fidi di me, e non ti obbligherò certo a farlo. Tuttavia...” Faccio una pausa, concentrandomi sui suoi occhi severi che mi scrutano. “Fidati almeno di Feliciano.”
Sia lui che Feliciano hanno un momento di esitazione. Feliciano inclina il capo di lato, fino a sfiorarsi la spalla con l’orecchio.
Io mi schiarisco la voce. “Se lui pensa che uscire da qui e rimanere assieme sia la risposta a tutto, allora voglio credergli. Voglio davvero credere che la cura sia questa.”
Abbasso lo sguardo, posandolo sul piccolo italiano.
“Non sarebbe la prima volta in cui il suo intuito si dimostrerebbe veritiero.”
Feliciano sbatte le palpebre, poi il sorriso torna ad allargarsi sulle guance arrossate.
“Da-davvero lo pensi?” Mi domanda con voce squillante.
Io mi limito ad annuire. Dietro di me, Gilbert si dimena, rantolando gemiti confusi fuori dalla bocca.
Braginski ruota di nuovo gli occhi al soffitto. Un cavo del Transfert gli scivola di lato, lasciandogli il viso scoperto.
“Insieme?” Mormora, socchiudendo gli occhi.
Le palpebre si abbassano, e il sorriso torna ad accarezzargli le labbra un’altra volta. “Potrebbe essere bello.”
Di nuovo Arlovskaya si avvinghia al suo busto, mozzandogli il fiato in gola. Braginski ghigna, e il suo sorriso trema.
“Sì, sì, non ti lascio.” Le dice, con voce traballante.
Feliciano scatta in piedi, alzando le braccia al cielo. Allarga un sorriso più raggiante del sole e i suoi occhi brillano di una luce viva, niente a che vedere con il riverbero del neon.
“Evviva! Usciremo tutti insieme! Ce l’hai fatta, Ludwig!”
Io sospiro, rilassando le spalle.
Ce l’ho fatta davvero? È tutto finito?
Kirkland scuote la testa, e anche lui sbuffa.
“So già che mi pentirò di avertelo lasciato fare.” Dice con tono acido.
Socchiude un occhio, e un lampo verde mi trafigge. “A proposito...”
Io alzo lo sguardo su di lui. Torno serio, non posso permettermi ancora di rilassarmi.
“Me l’hai promesso, dottore. Ricordi?”
Io aggrotto le sopracciglia, affondando i denti nel labbro inferiore. Annuisco deciso, senza distogliere lo sguardi da Kirkland.  
“Sì, hai ragione.”
Mi do una spinta, scollandomi dalla schiena di Gilbert che rimane accasciato al suolo, rannicchiato tra le sue stesse spalle. Io mi strofino il camice, lisciando la stoffa, ma non ho bisogno di portare una mano sul fianco. La ferita ha smesso di pulsare.
“Te lo mostrerò.”
Kirkland annuisce.
Ruoto il capo vero Gilbert, ma lui continua a crucciarsi con la testa spremuta tra le mani.
“Gilbert, aiuta entrambi a togliersi il Transfert.” Gli ordino, e lui si limita a mugugnare un lamento confuso.
Ruoto i piedi sul pavimento, avviandomi verso la porta.
“Seguimi, Kirkland.”
No, non è ancora finita.
 
Eccomi, un’altra volta qui.
La cella numero nove sembra brillare di luce propria, nel fondo del corridoio. La vernice nera, densa e pesante, trascina il numero che mi osserva con quel suo occhio pallido. Sulla ruota dentata risplende una scintilla bianca, per qualche secondo. Poi scompare.
Di nuovo i miei occhi scorrono su tutta la sua superficie, quasi accarezzandola con un solo sguardo. Il cuore riprende a martellarmi nel petto, rivoli di sudore iniziano già a lacrimare dalle tempie.
La numero otto è rimasta semiaperta, non è necessario richiuderla. I rumori provenienti dalla cella numero sette si fanno ovattati. Le mie orecchie si tappano, i timpani fischiano silurandomi il cranio.
“È questa?” La voce di Kirkland fa scomparire lo stridulo acuto.
Mi porto una mano sulla tempia e strizzo le palpebre, poi annuisco.
“Sì.” Rispondo, socchiudendo un occhio. “Questa è... la causa di tutto il trambusto.”
Kirkland si porta i fianco a me, i suoi passi sono lenti e cauti. Solleva la punta del naso verso l’alto, come a voler annusare l’aria.
Io deglutisco. “Coraggio.”
Kirkland si gira a guardarmi, ma io non riesco a spostare gli occhi dalla porta.
“Prova a toccarla.”
Kirkland inarca un sopracciglio e piega un angolo della bocca verso il basso.
“Co-come?”
“Toccala, Kirkland.” Gli ripeto, aggrottando la fronte. “Ti ho detto che ti avrei mostrato il perché di tutto questo ed eccolo qui.”
Deglutisco un boccone amaro, con il cuore incastrato in gola. “Toccala.”
Kirkland sospira, abbassando le spalle. Torna a portare gli occhi sull’entrata e il suo sguardo si fa di nuovo serio. Una sua mano si solleva delicatamente dal fianco, le dita scivolano sulla stoffa dei pantaloni bianchi. Lentamente, come una gentile carezza, i suoi polpastrelli sfiorano la superficie metallica, scorrendo prima sulla parte bianca, poi sul numero nero.
Mi volto verso di lui, pronto a cogliere ogni sua minima variazione facciale. Il suo viso è impassibile. Kirkland appoggia tutto il palmo sulla porta, tastandola più volte in vari punti, ma con più sicurezza rispetto a prima. L’eco metallico rimbomba nel corridoio.
“Allora?” Gli domando, con voce tremante d’impazienza. “Senti nulla?”
Kirkland fa una smorfia sulle labbra, e arriccia il naso all’insù. I suoi occhi continuano ad esaminare l’entrata.
“Cosa... cosa dovrei sentire?” Mi domanda.
Io aggrotto la fronte, e il cuore mi si ferma in mezzo al petto.
“Non senti... niente?” Balbetto.
Kirkland si gira verso di me e scuote la testa. Il suo viso torna a rilassarsi.
“No, mi dispiace. Niente di niente.”
La sua mano scivola verso il basso, scavalcando la serratura a ruota e staccandosi dalla superficie. Io sospiro, buttando fuori una boccata d’aria dalle labbra. Il cuore riprende a battere normalmente, risistemandosi nel petto. Una goccia di sudore mi riga la fronte, poi la pelle smette di lacrimare.
Non importa.
“Lo immaginavo.” Dico, abbassando le palpebre. “Non fa niente. Deve essere... deve essere solo un mio problema, allora.”
Affondo le mani nelle tasche e inclino le spalle in avanti, ingobbendomi la schiena.
“Torna fuori, Kirkland. Io arrivo... arrivo subito.”
Kirkland aggrotta le sopracciglia. Inclina il capo verso la fine del corridoio e i suoi piedi nudi iniziano a schiaffeggiare il pavimento.
“Già, oggi...”
Si volta, dandomi le spalle, e la sua figura scompare dietro alla mia schiena. “Oggi sei davvero strano, dottore.”
I suoi passi si ammorbidiscono, e anche la loro ombra inizia a scomparire. D’un tratto, io sgrano le palpebre e rizzo il collo, sollevando la schiena con uno scatto fulmineo.
“Kirkland!” Lo chiamo un’ultima volta, con voce ferma.
I suoi passi si fermano. Aspetto una manciata di secondi, poi inspiro e distendo un leggero sorriso sulle labbra.
“Io volevo davvero liberarvi, te lo giuro.”
Lui resta zitto, non muove un muscolo. Punta l’uscita rimanendo rigido come un palo in mezzo al corridoio.
“È vero, io ho bisogno che le celle restino vuote per quello che sto per andare a fare ora. Ma...”
Un tiepido tepore mi scioglie il groppo annodato nello stomaco. Ora riesco a sorridere con più naturalezza.
“Ma ho sempre desiderato liberarvi. Dico sul serio, Kirkland.”
Il ragazzo resta immobile, come se le mie parole gli fossero passate attraverso. Kirkland sghignazza, e volta finalmente il capo nella mia direzione. Le palpebre abbassate e l’immancabile, cinico, sorriso disegnato sulle labbra.
“Allora ti aspetto, dottore.”
Quattro ombre investono la sua figura, i brusii della cella numero sette si fanno più intensi.
Feliciano saltella fuori dall’entrata, raggiante come un bimbo a Natale. Arlovskaya si lascia portare da Braginski, appesa ad un suo braccio e con il capo appoggiato su una spalla. Lei e il fratello si guardano in giro con fare spaesato, poi i loro nasi tornano ad abbassarsi e i loro sguardi si fanno più seri.
Gilbert esce per ultimo. Le due fasce del Transfert ciondolano da una sua spalla, e i cavi gli rimbalzano sul fianco ad ogni suo passo. Alza le braccia al cielo, stirando le vertebre della schiena.
“Oddio, finalmente è finita.” Esclama, inarcando la schiena all’indietro.
Anche io mi avvicino, lasciandomi indietro – per il momento – la cella numero nove.
Gilbert strizza le palpebre, deformando la bocca in un ghigno.
“Non ne potevo più di starmene chiuso qua dentro. Quanto diavolo di tempo sarà passato?”
Socchiude un occhio, puntandolo sulla cima della parete di fronte a lui. Sfortunatamente per Gilbert, questo è l’unico luogo del Welt che non ha alcun orologio appeso alle mura.
“Mi sembra trascorso un secolo da quando abbiamo iniziato a trafficare con questo affare nella cella dello yankee.” Sbuffa.
I cavi del Transfert ciondolano, sfiorandogli le ginocchia. Io guardo un’ultima volta quell’arnese infernale come sperando di dirgli, con la mia sola occhiata: Ho vinto io.
Abbasso la fronte, socchiudendo le palpebre.
“Potrebbe essere passata anche una giornata intera, per quel che mi riguarda.” Sospiro a fondo. “Ma non è questo che ci interessa ora, perché...”
“Ce l’hai fatta, Ludwig!”
Feliciano mi salta al collo e io dondolo all’indietro, reggendomi sulle gambe traballanti. Mi irrigidisco come uno stoccafisso, rimanendo con le braccia spalancate a mezz’aria e le dita rigide, contorte verso i palmi. Feliciano stringe la presa, avvolgendomi le spalle. Oddio, sento il suo cure battere, i nostri petti sono troppo vicini!
Credo che la mia faccia sia diventata viola.
Feliciano finalmente si scolla e mi guarda con un viso irradiato dalla gioia e dall’innocenza che solo lui sa trasmettere.
“Li hai liberati tutti, Ludwig. Ce l’hai fatta!” Esclama di nuovo.
Io sbatto le palpebre un paio di volte, guardandolo con occhi affogati nella confusione. Ora che ci penso, effettivamente, li ho liberati tutti per davvero.
Mi stringo la stoffa del camice all’altezza del petto, nel punto che sento farsi più caldo.
Li ho liberati.
Ruoto inconsciamente lo sguardo alle mie spalle. Di nuovo quella fottuta stanza che raggela le mie speranze.
Feliciano continua a sorridere, e piega la testa di lato come se si stesse aspettando qualcosa da me. Mi si spezza il cuore al pensiero di trascinarlo un’altra volta dentro alla numero nove.
“Feliciano...”
Abbasso la fronte, nascondendo lo sguardo sotto l’ombra dei capelli. “Feliciano... noi dobbiamo...”
“Wah, aspetta! Ma manca ancora la numero nove, giusto?!” Esclama Gilbert con il suo tempismo da oscar.
Strabuzza gli occhi fiammeggianti, piegando le labbra in un ghigno che si solleva fino ad infossarsi nelle guance.
“Giusto, giusto! Ora viene la parte divertente, vero? Ah, però...”
Gilbert volta il capo alle sue spalle, scavalcando con lo sguardo Kirkland, Braginski e Arlovskaya.
“Mhm. Immagino che là fuori sia diventato un bordello. Ci conviene sbrigarci a ribaltare quella stanza, prima che succedano altri incidenti con qualcuno di loro.”
Alza gli occhi su Braginski, che sorride pacifico con le palpebre abbassate e la mani giunte sul grembo.
“Sì, di te continuo a non fidarmi.” Gli dice Gilbert, gracchiando.
Braginski piega la testa di lato. “Oh, ma non ti devi preoccupare per me. Non ho intenzione di fare nulla di male, a me piace incontrare altre persone.”
Gilbert esita, e inarca il collo all’indietro con una smorfia.
“Di’ quel che vuoi, ma secondo me è meglio non abbassare la guardia. Giusto, Lud?” Mi domanda, lanciandomi una veloce occhiata d’intesa.
Io abbasso le palpebre, ruotando il capo di lato con un gesto lento.
“Sì, penso anch’io che sia rischioso lasciare incustoditi tutti quanti, fuori nel corridoio.” Dico.
Gilbert annuisce deciso. “Ecco, ho ragione io, dunque. Vediamo di fare in fretta e...”
“È per questo, Gilbert...” Lo interrompo, alzando il tono.
Lui aggrotta le sopracciglia, ma io sono irremovibile.
“È per questo che tu andrai con loro.”
Gilbert sgrana lo sguardo, i lineamenti del viso si stropicciano come un foglio di carta straccia. La bocca si contorce in mille forme diverse e le pupille quasi scompaiono dentro agli iridi.
Arretra di un passo, allargando le braccia sui fianchi. Le fasce del Transfert gli cadono dalla spalla fino al gomito.
“Co... come? Vuoi sbattermi fuori? Ma... ma io non...”
“Va’ con loro, Gilbert.” Gli ripeto.
Sospiro, cercando di apparire più sereno possibile. “ Io e Feliciano torniamo subito, promesso.”
Anche Feliciano esita, ma si limita a portarsi un pugno vicino al petto e a inarcare le sopracciglia. Gilbert trattiene il fiato ancora per qualche secondo, rantolando qualcosa tra i denti serrati. Poi, anche le sue spalle si rilassano e butta fuori tutta la tensione dalla bocca con un profondo sospiro.
“Agli ordini, Herr Doktor.”
Io annuisco, e volto già i tacchi verso la fine del corridoio.
Kirkland è il primo a muovere un passo verso l’uscita, precedendo gli altri.
“Andiamo, allora.” Dice, e Gilbert si volta verso di lui tuffando le mani nelle tasche.
La sua schiena s’ingobbisce e lui inizia la sua malinconica marcia verso la conclusione del suo viaggio. Arlovskaya si avvinghia al braccio di Braginski ancora di più, e solleva il naso verso il suo viso.
“Andiamo, fratellone.”
Braginski viene di nuovo scosso da un veloce tremito, poi però il suo sguardo passa dalla sorella su di me. Incrocio i suoi occhi socchiusi e resto a guardarlo in silenzio.
“È sempre stato uno di poche parole, dottore, e non ha ancora risposto alla mia domanda di prima.” Mi dice lui, distendendo un sorriso.
Io inarco un sopracciglio, non capendo.
Braginski inclina la testa di lato, piegando ancora di più gli angoli della bocca verso l’alto. “Quello era un sì, immagino.”
La mia mano torna inconsciamente sul lacero lasciato dallo sparo. Le dita scorrono sulla stoffa bruciata e umidiccia di sangue raffermo, ma la pelle non pulsa più.
Non so come, ma riesco anch’io a farmi scappare un sorriso.
“A quanto pare è così.” Gli rispondo.
Feliciano ci guarda entrambi, facendo schizzare gli occhi attraversati da un lampo di confusione.
“Eh? Cosa? Quale sì?” Domanda.
Io scuoto la testa.
“Non importa, Feliciano.” Sollevo lo sguardo, incrociandolo con il suo. “Non importa.”
Braginski raddrizza il collo e solleva le spalle.
“Bene. È davvero un sollievo sentirglielo dire.”
Si volta insieme alla sorella e mi lancia un’ultima occhiata. Ma questa volta è più seria, vera, e dannatamente profonda.
“Allora ci vediamo tra poco. Ricordi che l’ha promesso.”
Io annuisco con sguardo deciso e i miei occhi restano a guardare i due fratelli che vengono inghiottiti dalla luce del corridoio. Se ne vanno lentamente, scivolando via da questo inferno esattamente come ci sono entrati.
 
***
 
Cella # 9
Paziente: ?
 
Tutti se ne vanno. Il corridoio si svuota in silenzio, Ivan e Natalia sono gli ultimi ad uscire.
Mi metto vicino a Ludwig ed entrambi restiamo ad osservarli mentre la luce bianca li avvolge, inglobandoli nel suo candore. Le loro ombre sono ancora allungate sul pavimento come sagome nere.
Io sorrido, senza staccare gli occhi da loro.
“Però, Gilbert ha ragione, in fondo.” Dico.
Ludwig china il capo verso di me, ma io resto con lo sguardo dritto.
“Sembra passato tanto di quel tempo dalla liberazione di Alfred, che è stato il primo. E se ripenso a tutte le cose che sono successe oggi...”
Mi porto una mano sulla testa, strofinandomi i capelli.
“Mhm, ce ne sono davvero troppe, speriamo di riuscire a ricordarle tutte.” Rido, ma Ludwig rimane muto.
Mi nascondo il viso con il braccio, continuando a strofinarmi la nuca. “Spero davvero di non dimenticarle.”
Le ombre svaniscono, dissolvendosi nel bianco. La porta scatta, e anche il rumore dei passi si soffoca, divorato dal silenzio ovattato. Io e Ludwig non apriamo bocca. Persino il ronzio delle lampade al neon sembra tacere.
Chino il capo verso il pavimento e mi porto le mani sul grembo, iniziando a giocherellare con le dita. Sento il cuore martellarmi nel petto, e le vene pulsano, scorrendo in ogni fibra del mio corpo. Getto la coda dell’occhio su Ludwig, ma lui è fermo con la schiena dritta e le spalle larghe. Chissà se ha paura anche lui?
“Usciremo davvero?” Gli domando, quasi sussurrando.
Finalmente sento il suo sguardo abbassarsi e le mie spalle si raggomitolano, quasi inconsciamente.
“Tu vuoi uscire?” Mi domanda Ludwig con voce ferma.
Io esito. Mi limito a continuare ad annodare tra di loro le dita, che iniziano ad impiastricciarsi di sudore.
“S-sì. Sì, io voglio uscire.” Rispondo.
Ludwig annuisce e volta i tacchi sul pavimento che geme sotto i suoi piedi. Si gonfia il petto, inspirando una profonda boccata d’aria.
“Allora non avere paura.”
Io ruoto gli occhi su di lui. Ludwig aggrotta la fronte, stringendo i pugni sui fianchi.
“Usciremo, Feliciano. Ce ne andremo dal Welt, ma...” Il suo sguardo s’incupisce, le sue sopracciglia s’inarcano, arricciando il naso. “Ma non abbiamo ancora finito.”
Pochi passi. Solo una manciata di passi ci separa da quella porta. Con soli tre salti potrei raggiungerla. La sua aura elettrica frigge nell’aria, volteggiando verso di noi.
Non fa ombra sul pavimento, ma riesco comunque a sentire la tenebra che si allunga sulle piastrelle, arrampicandosi su di noi come un grande fascio di braccia artigliate.
Il numero nove mi guarda, risucchiandomi nel suo oblio.
La testa mi gira.
 
La mano di Ludwig è stretta attorno alla chiave, risucchiata dalla serratura. L’altro braccio è teso davanti al suo petto, le dita attanagliate sui denti della ruota che funge da serratura.
Ora anche Ludwig inizia a tremare. Abbassa le palpebre e socchiude le labbra, respirando un fioco alito d’aria solo con la bocca. Piega le spalle in avanti, sorreggendosi sulla porta con i gomiti che traballano.
“Feliciano, se... se dovesse succedermi...” Trattiene una boccata d’ossigeno, inumidendosi le labbra. “Se dovesse succedermi qualcosa, allora tu scappa, hai capito?”
Le sue pupille roteano su di me, la luce degli iridi balena sul mio viso come un lampo azzurro.
“Promettimelo.”  
Io inarco le sopracciglia, guardandolo con aria pietosa. Poi, sento un improvviso formicolio agitarsi sul petto, che scorre fin dentro allo stomaco. Alzo una mano, sollevandola dal fianco, e anche io mi appiglio alla ruota dentata. È freddissima, e un brivido mi corre fin sulla spalla.
“D’accordo, prometto che...” Sollevo gli occhi su Ludwig, sorridendogli. “Prometto che, se ti dovesse succedere qualcosa, io scapperò. Ma ti porterò con me.”
Ludwig rilassa il viso, sbattendo un paio di volte le palpebre davanti agli occhi. Scuote la testa, scostando lo sguardo dal mio, ma mi sembra che stia sorridendo.
“Avrei dovuto immaginarlo che sarebbe stata un’impresa, disfarsi di te. L’ho capito...”
L’ombra dei capelli gli nasconde il viso. Io inclino il capo, restando in silenzio.
“L’ho capito fin dal primo momento in cui sei entrato nel mio ufficio.”
Io allargo il sorriso, dopo un momento di esitazione, e stringo la presa attorno alla serratura. Il cuore mi si alleggerisce, un tiepido tepore mi scorre fino alla punta dei capelli.
Sì, voglio uscire. Voglio uscire e vivere mille momenti felici come questo.
Cerco di trattenere le lacrime, ho pianto fin troppo, oggi. Le nostre mani sulla superficie della ruota metallica quasi si sfiorano, legate da una piccola scossa che vibra tra noi due.
La serratura inizia a cedere, le nostre braccia scivolano verso sinistra, accompagnando i movimenti della ruota.
Un piccolo, minuscolo, spiraglio tra la porta e il muro irradia una luce strana, molto più bianca rispetto a quella del corridoio o delle altre stanze. Ludwig appoggia una spalla sull’anta, spingendola sul pavimento. I cardini cigolano, un debole fruscio si spalma sulle piastrelle.
La luce. La luce di nuovo mi acceca. Un vortice di sfolgorii ruota attorno alla mia fronte, spappolandomi le tempie. Ludwig entra, ma io mi accascio sull’architrave.
 
Riesco a vedere la sagoma di Ludwig che entra nella cella numero nove, ma io non posso muovere un singolo passo dall’entrata. Lui è cauto, si guarda in giro avanzando lentamente.
Le mie palpebre si abbassano, schiacciate dal sudore che mi annebbia il viso. Ogni volta che Ludwig avanza di un passo nella cella, è come se si portasse via un pezzo delle mie viscere, srotolandole fuori dalla mia pancia. Mi poso una mano sulla bocca per trattenere i conati di vomito, e fascio l’altro braccio attorno allo stomaco, fino a che le dita non toccano la schiena. Le ginocchia traballano come gelatina. Allargo le gambe per cercare di tenermi in equilibrio, ma il peso sulle spalle è troppo.
Scivolo sul pavimento con la schiena inarcata verso il soffitto. Le piastrelle sono fredde, ma non sento nulla. Credo anche di aver sbattuto i gomiti a terra, ma il dolore che sento pulsa solo dentro alla testa.
Sgrano gli occhi e una raffica di flash bianchi mi stordisce, schiaffeggiandomi la vista. Poi, un vortice. Un vortice di immagini somiglianti a diapositive inizia a frullare intorno a me. Il cerchio si stringe e, man mano che si fa più piccolo, la sua velocità aumenta e le immagini si confondono tra loro in un’unica striscia. Diventano un unico fascio di mille colori che si mescolano.
Credo di aver sentito la voce di Ludwig, ma è lontanissima, poco più di un eco confuso. Rimbomba nella mia testa, ma un coro di mille altre voci prende a strillarmi nei timpani, emanando un forte fischio acuto.
Infine, il silenzio. Il mio respiro che si blocca, il mio cuore che si ferma in mezzo al petto. Solo un freddo e disarmante silenzio.
Ora ricordo. Ricordo ogni cosa.
La testa non gira più.
 
***
 
Avevo giurato a me stesso che non avrei mai più rimesso piede qua dentro. A quanto pare, sono un bugiardo cronico.
 
La porta è completamente spalancata, ora. Il numero nove si ritira, invitandoci ad entrare.
Ingoio un grumo di saliva, quasi strozzandomi. Sgrano gli occhi sotto le sopracciglia inarcate, e le palpebre rimangono ferme. Non batto ciglio, come per paura che quel buio mi porti via. Inspiro una sorsata d’aria dal naso e la trattengo nel petto, che si gonfia sotto il camice. Sento una vena del collo pulsare, battendo come un tamburo. Quel suono martellante vibra fino alla tempia.
Riesco finalmente a scollare un piede dal suolo, e lo porto davanti a me con un gesto lento, timido. Poso la gamba sulle piastrelle quasi accarezzandole, come se avessi il timore di calpestarle. Ad ogni mio passo stringo i denti, trattenendo il fiato in gola.
Senza rendermene conto, sono già vicino alla barriera divisoria, e riesco quasi a vedere il mio pallido riflesso sul vetro forato.
Ma non succede nulla. Non una scossa, nemmeno uno svenimento o un minimo giramento di capo. È tutto normale, sto benissimo.
Sospiro a fondo, rilassando la schiena, e le spalle si abbassano facendo frusciare il camice. Mi poso una mano sul petto, tentando di placare il cuore impazzito. Sembra quasi che voglia far scoppiare la cassa toracica che vibra sotto il mio palmo.
“È... tutto normale.” Mormoro.
Mi passo una mano tra i capelli, poi la lascio scivolare sul viso, stropicciandolo in varie direzioni. Quando la ritiro, la pelle gronda di sudore.
“Forse, quel giorno in cui siamo entrati la prima volta ero davvero solo stanco. In questa stanza non ci sono fantasmi, né altre strane presenze.”
Sollevo il naso al soffitto, abbassando le palpebre sugli occhi.
“Possiamo andarcene.”
Resto in silenzio, in attesa di un’esclamazione, di una risposta, o di un semplice sospiro. Ma tutto tace.
Inarco le sopracciglia, e una leggera scossa mi pizzica il cervello.
Dov’è Feliciano?
Prima che io abbia tempo di finire di chiedermelo, sento un forte ruzzolare giungere al mio orecchio. Prima il suono delle scarpe che cigolano sul pavimento, poi i palmi che schiaffeggiano le piastrelle. E il tonfo, secco e pesante.
Mi volto di scatto, e solo ora mi rendo conto che Feliciano non ha oltrepassato l’entrata. La sua figura china, accovacciata sotto l’architrave, è rimasta nella penombra del corridoio. Feliciano abbassa il capo, coprendosi il viso con la frangia che gli cade fin sulla punta del naso. La sua schiena è uno spasmo continuo. A volte viene scossa da tremiti più forti, come brividi di freddo. Una mano tremolante è stretta sul suo stomaco, mentre l’altra è sollevata sul muro, ma sta lentamente scivolando verso il basso. 
Io sgrano gli occhi e scatto sul posto, allarmandomi. Senza pensarci due volte gli corro incontro, lasciandomi alle spalle la barriera e la mia ombra che si allunga nella cella.
“Ehi, Feliciano, stai bene?”
Mi getto vicino a lui, ma Feliciano resta con la fronte bassa, e continua a tremare come un gattino bagnato. Gli poso una mano spalla, dandogli una leggera scossa. La stoffa della sua divisa è pregna di sudore ghiacciato.
“Cosa ti succede? Ti senti male?”
Feliciano deglutisce e scuote la testa. I suoi occhi restano nascosti sotto la frangia traballante. Io aggrotto la fronte e stringo la presa attorno alla sua spalla. Sento le sua ossa strofinarsi sotto la mia morsa, sottili e fragili, tanto che potrei sbriciolarle con un solo colpo.
“Sì, invece.” Gli rispondo, ingrossando la voce.
Gli afferro anche l’altra spalla e provo a sollevarlo.
“Andiamo, ti porto fuori di qui.”
“No, Ludwig.” La sua voce traballa, proprio come quando è sull’orlo del pianto.
Io non lascio andare la presa, ma mi inginocchio davanti a lui. Chino la fronte verso il basso, cercando il suo sguardo che non si fa trovare.
“Perché, Feliciano?” Gli domando con tono rigido.
“La stanza è vuota, non abbiamo più nulla da temere, non corriamo alcun pericolo. Possiamo...” Inspiro. “Possiamo andarcene e lasciarcela alle spalle per sempre.”
Di nuovo Feliciano scuote la testa e la sua mano si stacca definitivamente dalla parete, ricadendo su un suo fianco. Feliciano si arriccia su se stesso, inarcando la schiena verso l’alto.
“No, non possiamo.” Mi risponde con un filo di voce.
Quel suono mi raggela il cuore. Il sangue smette di fluire, fermandosi nelle vene. Io sgrano gli occhi, e un strano brivido corre sulla schiena, penetrandomi fino al midollo.
“Perché no, Feliciano?” Insisto, ma la mia voce inizia a vacillare proprio come la sua.
Feliciano strozza un lamento tra i denti, come se si stesse soffocando. Si porta il palmo della mano sul viso, e le ciocche di capelli sudaticci si intrecciano con le sue dita tremolanti, bianche e sottili come quelle di uno scheletro.
“Perché io so di chi è questa cella.” Risponde tra i singhiozzi.
Il cuore mi sfonda le costole con un solo battito. Una vampata di ghiaccio mi investe la faccia, mentre un’ondata di vapore rovente mi stritola il petto. Resto a guardare Feliciano con le palpebre sgranate. Raddrizzo la schiena, staccandogli le mani dalle spalle.
“Ma... cosa... cosa stai dicendo?” Gli domando. La mia voce è quasi un sibilo.
Quando lui non mi risponde, io mi faccio forza e stringo i pugni sui fianchi, serrando i denti. Le ginocchia appoggiate sul pavimento iniziano a farmi male.
“E allora di chi è la numero nove? Parla!” Ho alzato il tono.
Tutto il mio corpo freme come attraversato da mille scariche elettriche. Feliciano singhiozza ancora, e si arriccia ancora di più tra le sue stesse spalle. Poi, il collo inizia a sollevarsi, e i capelli si scostano dal viso ancora coperto dalla mano gracile e pallida. Solo un occhio spunta dalle sue dita, lucido e gonfio come una grossa biglia. La sua bocca si contorce in un lamento straziante, che ti spezza il cuore.
“Ludwig... questa cella...”
I miei occhi si sgranano ancora di più. Trattengo il fiato, non riesco a respirare, parlare, ragionare. Resto solo a guardare Feliciano che sta di nuovo per scoppiare in lacrime. Tutti i suoni della stanza sono ovattati, solo la voce di Feliciano è nitida, rimbombante nel mio cranio.
Lui inspira, risucchiando una boccata d’aria dal naso, tenendo i denti ben stretti tra le labbra.
“... è la tua!”
 
No.
Non è vero.
 
Feliciano si scioglie in un mare di lacrime, sfregandosi il viso annaffiato dal pianto con il palmo delle mani. Sembra proprio un bambino.
Lascia scivolare le gambe davanti a sé e le richiama al petto. Si cinge le ginocchia con le braccia, annegando nei suoi stessi singhiozzi.
“Ludwig... de... devi... devi...”
Io mi sento morire. Il mio viso diventa una maschera di panico, scura e grigia come la morte. Appoggio i palmi delle mani dietro alla schiena, buttando tutto il peso sui polsi che premono sul pavimento. Inizio a strisciare, arretrando come un gambero.
“No... non è vero...” Sibilo, scuotendo la testa.
Quando tocco la barriera con la schiena, strozzo un urlo tra i denti, incollando i palmi alla base del vetro. Sbarro le palpebre, e ogni singolo respiro d’aria che ingollo diventa cemento che si solidifica dentro ai polmoni.
Aggrotto la fronte, spalancando la bocca. “È una bugia, è tutta una...!”
Una ragnatela di crepe inizia ad arrampicarsi sul muro. Seguo con lo sguardo lo scorrere di quelle venature che iniziano a dividere la parete in blocchi deformi e irregolari. Della polvere comincia a piovere dagli spacchi, portandosi dietro dei granelli di cemento più grossi. Il pianto di Feliciano viene coperto dal suono secco del muro che si crepa, come se qualcuno stesse calpestando dei cocci d’argilla rotti.
La lampada al neon ronza, e la luce traballa come se l’energia si stesse esaurendo. Un grosso pezzo di intonaco crolla vicino a Feliciano frammentandosi in mille schegge che schizzano sul pavimento.
Tutta la cella numero nove trema, e le mura cedono definitivamente, sbriciolandosi come pane secco. Le piastrelle si ricoprono di grosse scaglie di parete bianca, che si accumula intorno ai miei piedi seppellendoli fino alle caviglie.
Feliciano fa scattare il capo con un gesto fulmineo, e il viso arrossato e distrutto si scopre. Allunga la stessa mano che lo sorreggeva verso di me. Le sue dita sottili si stendono fino a che i polpastrelli si sbiancano.
“Ludwig... devi venire con me!” Esclama Feliciano, spalancando le palpebre.
Io non riesco a muovere un muscolo. Resto incollato alla parete divisoria, sommerso dalla pioggia di cemento che continua a scrostarsi dai muri e dal soffitto. La lampada sfarfalla di nuovo, oscurando per qualche secondo la figura di Feliciano.
“Afferra la mia mano, Ludwig! Devi seguirmi!” Continua ad urlare.
Una forte scarica elettrica mi penetra nella nuca. È proprio quella scossa a farmi staccare dalla parete forata.
Scatto in avanti, scivolando sul pavimento e finendo con la faccia premuta tra i cocci ruvidi e appuntiti. Non bado al dolore, stringo i denti e continuo a trascinarmi verso Feliciano.
La lampada ronza, la luce si spegne e si riaccende.
Getto il braccio davanti a me. Un pezzo di soffitto mi sfiora la mano, e io allungo le dita verso quelle di Feliciano. Ci sfioriamo. Un veloce e fugace tocco, debole e delicato come un sospiro.
Poi, la luce si spegne definitivamente e il muro smette di cadere. È il pavimento a sprofondare, questa volta. Non so quanto io sia caduto, ma le piastrelle si sono sciolte sotto i miei piedi come cera liquefatta.
C’è solo il buio, ora. Un nero che non finisce più.
 
***
***
 
Sbatto le palpebre, ma la vista è ancora annebbiata. Ci sono solo macchie indistinte di colori che si mescolano tra loro senza alcun ordine.
Provo a muovere la mano, e le dita si sfregano sulla coscia, scivolando fino al ginocchio. I piedi ciondolano, e un tallone va a sbattere contro la gamba della sedia. La testa è pesante, la fronte fradicia di sudore brucia come fosse spalmata di urticante.
Socchiudo di nuovo gli occhi, e una luce tremolante mi accarezza la vista, aiutandomi a distinguere le ombre davanti a me. Una voce ovattata mi scuote la testa, facendomi tendere l’orecchio. Sgrano le palpebre, stropicciandole con il dorso della mano che riesco finalmente a sollevare dalla gamba.
I contorni della stanzina bianca si definiscono, riesco addirittura a vedere il corridoio dal vetro della finestra incastonata sul muro di fianco a me.
“Tutto bene, Herr Vargas?” La sua voce è più vicina.
Ruoto lentamente il capo e qualcosa striscia dietro al mio orecchio, cadendomi sulla spalla. Il dottor Roderich si china, appoggiando una mano sullo schienale della seggiola dove sono accasciato. Inarca le sopracciglia da dietro le lenti degli occhiali, e il suo sguardo si ferma sui miei occhi ancora intorpiditi.
“Allora, com’è andata?” Mi domanda con voce calma.
Io sbatto di nuovo le palpebre, e mi porto le dita vicino a una tempia, sperando di far cessare le pulsazioni. I polpastrelli si sfregano sulla stoffa ruvida della fascia che mi soffoca la fronte, stringendola fin dietro alla nuca.
“Io... io non...”
Lascio scorrere il tocco sul mio collo, intrecciando le dita con i cavi del Transfert che ciondolano dal mio cranio, posandosi sulle gambe. I fili colorati continuano a correre, cadendo sul pavimento. Poi risalgono, arrampicandosi come radici selvatiche sul bordo della brandina bianca.
Scorrono sul materasso, fermandosi nel lato che si incastra nell’angolo della parete. Il fascio di cavi risale sul suo corpo, strisciando prima sulle sue gambe e poi sul suo petto. Affondano nella fascia nera che gli cinge la testa, e il filo blu gli cade davanti all’occhio ancora chiuso.
Ludwig è immobile, acciambellato nell’angolo con le braccia e le gambe ciondolanti sul letto. Respira piano, e la divisa bianca si solleva di poco sotto il suo petto che si gonfia e si sgonfia. Socchiude lievemente le labbra, come per far passare un filo d’aria, ma le palpebre rimangono serrate.
Sento il cuore stritolarsi in una morsa rovente. Soffoco un singhiozzo, e affondo il viso nella mano gelida e tremante. Le unghie penetrano nella stoffa del Transfert, facendo gocciolare il sudore sopra i polpastrelli.
Stringo i denti, trattenendo il fiato in gola.
“Io non... non ce l’ho fatta.”
 
Cella #9
Paziente: Ludwig Beilschmidt
Affetto da una grave forma di amnesia a lungo termine di tipo retrograda. Il paziente riscontra la perdita quasi totale di ogni ricordo precedente alla data del trauma fisico riscontrato nel sistema limbico.
Inoperabile.

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Capitolo 17
*** Capitolo 16 ***


CAPITOLO 16
 
C’è un dolce e delicato profumo di fiori freschi nell’aria. Il vento soffia, facendo turbinare intorno a me quella mistura di aromi che non avevo mai odorato prima. La brezza è ancora fredda, la primavera è solo alle porte, e io stringo le spalle per placare i brividi che mi corrono sulla schiena.
Alzo il naso al cielo e il venticello mi scuote la frangia, scostando le ciocche dei capelli dagli occhi. Nella distesa azzurra – quasi grigia, a dire il vero – le nuvole fluttuano, danzando, gonfie e spumose come grossi ciuffi di panna.
Sento i passi di Gilbert avvicinarsi al mio fianco, strisciando tra l’erba tenera e bagnata di rugiada. Io ruoto la coda dell’occhio verso di lui, senza staccare il viso dal cielo.
Gilbert inarca le sopracciglia, e i deboli raggi di questo sole, ancora così pallido, gli fanno brillare la chioma di un abbagliante riflesso argenteo, quasi metallico.
“Che schifo di posto.” Borbotta lui, inasprendo il tono.
I suoi occhi si accendono. Puntano all’orizzonte, sulle distese dei campi verdi macchiati dai tappeti di boccioli colorati che devono ancora nascere. Lo sguardo di Gilbert sembra quasi volerli incenerire.
“Io non ci voglio stare, qua.” Continua a protestare, stringendo i pungi sui fianchi. “Giuro che me ne ritorno in Germania. Anche a costo di andarci a piedi!”
Io torno a ruotare gli occhi al cielo e socchiudo le palpebre. Un altro alito di vento mi avvolge, ma con più delicatezza. Sembra anche più tiepido, rispetto alla soffiata di prima.
“Se solo non ti lamentassi sempre, Gilbert, forse non ti dispiacerebbe.”
“E invece sì!” Risponde lui, sbattendo un piede a terra. Il tonfo è ovattato, la terra umida lo assorbe tutto.
Gilbert solleva il naso al cielo, imitandomi, e incrocia le braccia sul petto.
“Poi dobbiamo anche imparare questa lingua di schifo e mangiare le cose schifose di questo paese schifoso. È... è...” Trae un profondo respiro dalle narici, serrando i denti. “È tutta una situazione di schifo!”
Io scuoto la testa.
Meno male che non ha ancora imparato quelle parolacce che dicono i grandi. Penso.
Gilbert soffoca un ultimo grugnito che gli fa vibrare la schiena. I suoi piedi tornano a picchiare sul manto erboso, quasi volessero sprofondare nella terra. Si volta di scatto, piroettando su se stesso, e si allontana dietro di me con le spalle basse e i pugni ancora serrati sui fianchi.
Si tuffa nell’ombra della piccola casetta ancora spoglia, con l’intonaco scrostato, tutto da riverniciare, e più di una finestra da riparare. Sui vetri si estendono grosse crepe, come delle ragnatele, che si diramano dagli angoli fino ai bordi. L’edera selvatica si arrampica sui muri, e arriva fino al tetto mezzo sfasciato: le tegole ammuffite sono quasi tutte ridotte a un mucchio di cocci. Le altre sono cadute.
Gilbert alza le braccia e si appiglia al pomello d’ottone. Si getta di peso sulla porta di legno e stringe forte la maniglia, provando a piegarla. Anche io mi volto, ma senza spostarmi da dove sono. Il vento soffia di nuovo, agitandomi i capelli e il colletto mezzo sbottonato della maglia.
“Ehi, Gilbert, aspetta. Non vieni con me ad esplorare?” Gli domando, riparandomi dall’aria con un braccio.
Lui continua a far pressione sul pomello, soffocando mille rantolii in gola.
“Non ci penso... nemmeno.” Sbotta, scollando le dita dalla maniglia.
La serratura scatta e un piccolo spiraglio si fa spazio tra la porta e il muro. Gilbert appoggia una mano sulla superficie lignea, respirando a fatica per riprendere fiato. Volta il capo verso di me e le sue sopracciglia s’inarcano sopra a due occhi imbronciati. Le sue guance si gonfiano, arrossandosi più dei suoi iridi.
“Lascio il divertimento tutto per te. Non ho intenzione di perdere tempo nei campi come uno stupido pastorello.”
Gilbert scivola dietro all’entrata come un gatto, lasciandosi divorare dalla bocca della casa. La porta sbatte, e un pezzo di muro si scrosta, sbriciolandosi al suolo.
Io sospiro, tornando a voltare il capo sui prati che circondano la casa. Una farfallina gialla svolazza davanti alla mia fronte, poi il vento sbuffa di nuovo e la fa sbandare di lato, portandosela via. L’aria fresca e frizzante scuote i rami secchi e spogli di un gruppetto di alberi piantati vicino al recinto che circonda la casetta. S’innalzano al cielo come scheletri ululanti. Le loro ombre si allungano sull’erba, e quelle sagome nere mi mettono davvero paura.
Mi stringo il colletto della maglia intorno al viso, tuffandoci dentro il naso.
Dopotutto... Penso. Non è cambiato nulla.
Di nuovo l’aria fredda che mi avvolge, seminando brividi in ogni fibra del mio corpo. Sento i raggi del sole accarezzarmi la schiena, ma nemmeno loro riescono a placarli.
Anche se qua ci sono i fiori, fa freddo lo stesso.
 
Mi porto una mano aperta davanti alla fronte, appoggiando il dorso tra le ciocche della frangia. Il sole si sta abbassando all’orizzonte, e il venticello fa oscillare i prati fioriti che scuotono mille sfumatura colorate in mezzo all’erba. I raggi dorati schizzano sui campi, come grosse pennellate tracciate di getto, tinte da una tavolozza in cui si sono mescolati solo toni caldi. Le colline si stanno divorando il sole, che ormai non è altro che un semicerchio scarlatto, avvolto da un cielo roseo che si fa più azzurro man mano che sale.
Io arriccio il naso, assaporando ancora una volta il dolce profumo di boccioli appena germogliati. Socchiudo le palpebre, lasciando che la brezza mi fischi dietro alle orecchie.
“Questo potrebbe anche piacermi.” Dico ad alta voce. Tanto non c’è nessuno in giro.
Affondo i passi tra l’erbetta bagnata dalla rugiada, e scendo dalla collinetta reggendomi bene sulle caviglie per non cadere. Sbilancio le spalle all’indietro, e inizio a correre senza rendermene conto. Pianto i piedi al suolo – non voglio rischiare di ruzzolare giù per tutto il prato – e mi lascio scivolare sul prato, distendendo le gambe tra i ciuffi d’erba. Appoggio le mani dietro le schiena, e la rugiada mi bagna tutte le dita. Un brivido mi corre fino ai polsi, ma si dissolve subito.
Sollevo di nuovo il naso verso il cielo che si sta scurendo, man mano che il sole si abbassa. Anche il vento si sta placando, ma l’aria tiepida riscaldata dai raggi si sta raffreddando.
“In fondo non è poi così male, questo posto.” Continuo a dire a me stesso. “Gilbert è proprio scemo. Se solo – argh!”
Un forte colpo dritto sulle costole mi soffoca le parole in gola. Butto fuori tutta l’aria dalle labbra, restando a bocca spalancata. Il peso continua a premere sulla schiena e mi fa gettare le spalle in avanti, verso le punte dei piedi. Mi piego su me stesso come un pezzo di carta stropicciata, e finisco con la faccia premuta in mezzo all’erba ancora prima di riuscire a parare la caduta con le mani. Le braccia mi ricadono sui fianchi, distese vicino alla pancia schiacciata sul prato.
Strizzo i denti e le palpebre, mugugnando qualche gemito di dolore. Il naso mi fa malissimo, e mi è anche entrato qualche granello di terra tra le narici. Il profumo dell’erba mi inebria il cervello, ma la testa mi fa male sul serio. Credo di aver sbattuto una tempia.
Riesco a far scorrere le dita sul cranio, affondandole nei capelli tutti scompigliati. Mi gratto la nuca, e il naso mi si arriccia verso l’alto. Che male.
“Ah, quanto mi dispiace! Ti sei fatto male?”
Una sottile e dolce vocina mi soffia via il dolore dalla testa. Socchiudo un occhio, continuando a premere il palmo della mano sul cranio. Da dietro le ciocche arruffate della frangia vedo rimbalzare davanti a me un paio di piedini nudi dalla pelle lattea e delicata.
“È tutto a posto? Ti sei fatto male?” Continua a chiedermi quella vocina.
Io sento subito il mio volto andare a fuoco. Abbasso gli occhi al suolo, nascondendomi il viso con le braccia avvolte attorno alla testa.
È una bambina! Penso. È sicuramente una bambina!
Affondo il naso tra la stoffa delle maniche, e le dita delle mani iniziano a tremarmi tra i capelli. Tra un po’ mi uscirà il fumo dalle orecchie, ne sono certo. E scommetto che la faccia mi è diventata tutta viola dall’imbarazzo.
“Ehm... n-no... è tutto a posto... io stavo...”
Io mi vergogno davanti alle bambine. Oh, ti prego, vai via! Non so come devo comportarmi!
Sbircio con la coda dell’occhio da dietro le dita intrecciate davanti al viso, e le sue gambe si piegano, mostrandomi le ginocchia.
“Sei sicuro?” Continua a domandarmi lei.
Ha una voce davvero carina. Forse è questa che mi fa battere il cuore così.
Mi rannicchio ancora di più su me stesso, come sperando che lei non senta il martellare continuo sulle mie costole.
Io provo ad annuire, e un borbottare confuso esce dalle mie labbra.
“S-sì... sicurissimo.”
“Ah, davvero? Meno male!” Esclama lei, tutta contenta.
Una mano scende dal suo fianco, distendendosi davanti a me. Io smetto di tremare, e lascio sgusciare il naso fuori dalle braccia annodate. Il suo palmo rivolto verso l’alto si apre ancora di più, e la luce rossa della sera le illumina la pelle. Sembra proprio che mi stia porgendo un raggio di sole. Le dita della sua mano sono sottilissime, bianche come la pelle dei suoi piedi.
Sollevo lentamente il capo, inarcando il collo all’indietro con un movimento lento, timido. Socchiudo le palpebre, riparandomi dalla luce rossa che mi abbaglia dall’orizzonte. La piccola sagoma nera della bambina accovacciata davanti a me inizia a schiarirsi, e i suoi contorni si fanno più nitidi.
“Di solito mi rotolo sempre giù da questa collina, ma non c’è mai nessuno.” Dice lei.
Riesco a vedere un dolce sorriso distendersi sulle sue labbra. Ha le palpebre chiuse, i suoi occhi non emanano alcuna luce. I raggi del sole le coronano la testa come un’aureola. Una bava di vento le agita i capelli – fin troppo corti per una bambina – e un’onda dorata le attraversa le ciocche castane. Un ciuffo sottile e arricciato verso l’alto le danza sopra una spalla, sfiorandola.
Gli angoli della sua bocca si sollevano, distendendo ancora di più il suo sorriso. Le sue dita si allungano verso di me.
“Vieni, ti aiuto ad alzarti.”
Il viso della bambina si schiarisce. La luce del sole cala per qualche secondo, scoprendo ogni suo singolo lineamento.
Socchiudo le labbra, rimanendo senza fiato in gola e con gli occhi sbarrati, affogati nel riverbero solare. Il cuore mi si ferma in mezzo al petto, e il rossore sul mio viso sbiadisce. Una sottile spolverata di rosa mi tinge le guance.
Le sue labbra tornano a muoversi. “Io mi chiamo Feliciano. Il tuo nome qual è?”
 
Mi strofino i pantaloni, ripulendomi da ogni filo d’erba e dai granelli di terriccio rimasti incollati sulla stoffa. Tengo ancora gli occhi bassi, e l’ombra della frangia mi scurisce il viso.
“Scusami ancora se ti sono venuto addosso.” Mi dice Feliciano, intrecciando le mani dietro alla schiena.
Anche lui abbassa la fronte, e un suo piede inizia a strofinarsi sulla caviglia.
“Ma da lassù in cima non sono riuscito a vederti. Poi, una volta che inizi a rotolarti non riesci più a fermarti.” Aggiunge con una sottile risata.
Quella vocina mi fa di nuovo sobbalzare il cuore nel petto. Io volto il capo dietro di me, sperando di nascondere il rossore, e concentro la vista solo sui fili d’erba che si scuotono sotto l’alito di vento.
“Ti... ti ho detto che non importa. È... è tutto a posto.”
“Ah, bene!” Esclama Feliciano.
Piega le spalle in avanti, cercando il mio sguardo che non si fa trovare.
“Non mi hai ancora detto come ti chiami.”
Io mi stringo le spalle, e inizio a giocherellare con le dita annodate sul grembo.
Deglutisco un boccone di saliva che quasi mi strozza. “Ehm... Ludwig. Ludwig Beilschmidt.”
Feliciano solleva le palpebre e sento tutta la luce dei suoi occhi brillare su di me.
“Ah, ma sei straniero. Ecco perché hai quell’accento così buffo!” Esclama ridendo.
Si porta le manine davanti alla bocca, per trattenere il risolino, e i suoi occhi tornano a chiudersi. Peccato.
“Ora provo a dirlo. Vediamo... Ludwig Beil... Biel...”
Le sue guance si gonfiano, diventando paonazze.
“Mhm, è davvero difficile. Pazienza, in ogni caso...”
Il suo busto si sbilancia in avanti, e le sue braccia si allungano verso di me. Le dita delle sue mani si intrecciano con le mie, sollevandomele dal grembo. Quando il suo tocco mi sfiora, il cuore mi rimbalza fino in gola, restando incastrato lì.
“In ogni caso ti chiamerò solo Ludwig.” Mi dice.
Poi, allarga il sorriso. “Diventiamo amici?”
Io scatto sul posto, e sfilo le mani dalla sua presa nascondendole dietro alla schiena. Abbasso la fronte, affondando il mento nel colletto della maglia.
“Ma... ma cosa dici? Ci siamo appena conosciuti.” Borbotto.
Il sorriso di Feliciano svanisce e lui alza gli occhi al cielo, portandosi un indice tra le labbra.
“Mhm, funziona così nel tuo pese? D’accordo, allora...”
Si giunge le mani davanti al petto, riprendendo a sorridere più dei raggi di sole che gli illuminano il viso.
“Allora dimmi tutto di te. Da dove vieni? E da quanto sei qui in Italia? Io abito qua vicino, puoi venirmi a trovare quando vuoi! Ah, però c’è mio fratello che è un po’ scorbutico con gli estranei, ma non è cattivo. Tu hai fratelli? E come mai sei venuto...”
“Ehi, ehi, aspetta. Fermati un attimo.” Gli dico, arricciando la bocca in una smorfia.
La sua parlantina si placa, e Feliciano piega la testa di lato, guardandomi con un’espressione confusa.
Io ruoto gli occhi al cielo. “Non... non posso rispondere a tutte queste domande. Devi farmene una alla volta, altrimenti non so da dove iniziare.”
“Ah, ho capito.” Risponde.
Si porta le mani dietro alla schiena, inclinando il capo verso di me.
“Allora parlerò piano, così staremo più tempo insieme. Ah, però...” Esclama ad un tratto, alzando il naso all’orizzonte.
Il suo volto torna ad intristirsi e una sbuffata di vento freddo gli fa ondeggiare la frangia.
“Il nonno si arrabbierà se tardo troppo, e tra poco sarà buio. Non c’è abbastanza tempo.” Dice con aria sconsolata.
Feliciano raddrizza le spalle, e stringe un pugno davanti al petto. La sua espressione torna a ravvivarsi.
“Facciamo così: rispondi soltanto ad una domanda, va bene?”
Io piego la testa di lato, guardandolo con aria confusa. Abbasso di nuovo lo sguardo.
“Ehm... va bene.” Mugugno sempre con il solito tono di voce.
Feliciano annuisce. “D’accordo. Resterai qua per sempre o sei solo in vacanza?”
Quella domanda mi provoca un tuffo nel petto.
Abbasso le palpebre, e volto il capo lontano dal viso sorridente di Feliciano. Inizio a far sfregare la suola della scarpa sull’erba, scavando un solco sulla terra. Arriccio le labbra, mordendole di tanto in tanto, e inarco le sopracciglia. Gli occhi iniziano a pizzicare.
“Ecco... per sempre.”
Voglio tornare a casa.
“Ah, perfetto!”
Feliciano sembra non essersi accorto del mio cambiamento. Vedo la sua ombra sparire dalla mia vista e correre dietro ai suoi piedi nudi che si sfregano sul prato umido. Ruoto lo sguardo su di lui, scacciando via quei pensieri tristi dalla testa.
Feliciano è già quasi arrivato in cima alla collina, e la sua figura si fa ancora più piccola di quello che è. La luce dorata dei raggi solari lo avvolge e lui alza una mano al cielo, scuotendola in aria come a voler mescolare quei colori che si sfumano intorno a lui.
“Allora ci vediamo domani, mi raccomando!” Esclama.
Si gira di spalle e rimbalza via come un animaletto, di quelli che sono dipinti nei miei libri. Di nuovo il vento che mi accarezza i capelli, di nuovo quel calore che mi colora le guance.
Già... Penso, stringendomi una mano sul petto. Forse non sarà così male, stare in questo posto.    
  
Il cielo è più azzurro del solito, oggi, e ci sono davvero poche nuvole a tappezzarlo. Mi riparo gli occhi con un braccio, il sole splende alto: un disco bianco proprio sopra le nostre teste. L’erba del prato è asciutta, tiepida e soffice, trapuntata da una distesa di fiorellini azzurri che sbocciano come grumi di spilli. La leggera brezza mi rinfresca il viso accaldato, asciugandolo dalla leggera pellicola di sudore che ha già iniziato a sgorgare.
Feliciano salta dietro di me e mi afferra le spalle di colpo, facendomi sobbalzare sul posto. Il suo tocco mi fa irrigidire la schiena, dandomi una scossa che mi penetra fino al midollo.
“Allora, hai capito come devi fare?” Mi domanda con voce squillante. Sembra davvero il tono morbido e gentile di una bimba.
Io deglutisco, guardando la distesa d’erba che scende sotto i miei piedi, scalzi proprio come quelli di Feliciano. Sfrego gli alluci tra di loro, affondandoli nei ciuffi verdi.
“Sì che ho capito. Non ci vuole mica tanto.” Gli rispondo.
Feliciano molla la presa e rimbalza al mio fianco.
“Bene!” Esclama, alzando le braccia al cielo. “Allora vai, tuffati prima tu!”
Il riflesso color miele che ondeggia sui suoi capelli quasi mi acceca.
Guardo un’altra volta sotto di me, facendo scorrere gli occhi fino alla base della collinetta fiorita. Deglutisco e stringo i pugni sui fianchi.
“D’accordo.”
Mi accascio per terra, parando la morbida caduta con i palmi aperti sul suolo. Mi distendo subito su un fianco, abbandonandomi completamente sul manto d’erba. Inizio a rotolare giù per la collina, con gli occhi strizzati e la bocca arricciata. Mi prendo un paio di botte che mi colpiscono sui fianchi e sulle gambe, ma non fanno tanto male. L’erba fruscia sotto il mio passaggio, e le punte dei fili d’erba mi solleticano il viso.
Finalmente la mia corsa rallenta, e apro pian piano le palpebre, riabituando gli occhi alla luce del sole. Mi fermo proprio con la pancia all’aria e la nuca immersa nel prato tiepido. I capelli si devono essere tutti arruffati e sporcati di terra, infatti tutta la testa è un prurito continuo.
Un grillo canta vicino ad un mio orecchio, ma salta subito via. Stringo le dita su un mucchietto di fiori che sbocciano proprio di fianco a me, e i petali azzurri iniziano a spargersi sui miei polpastrelli. Le nuvole si muovono lentamente nel cielo, il vento si è placato, e i raggi del sole mi sfiorano delicatamente la pelle, riscaldandola.
Sento il rumore del ruzzolare di Feliciano farsi sempre più forte. Io prima sono rimasto in silenzio, mentre mi rotolavo giù dalla collina, invece lui sta gridando di gioia.
Scuoto inconsciamente la testa. Si accontenta davvero di poc...
Feliciano mi piomba addosso, e la mia pancia finisce spremuta dalla sua schiena. Io sbuffo, ricacciando un gemito nello stomaco. Feliciano continua a ridere e si lascia scivolare sopra di me, con le gambe distese verso la cima della collinetta e la testa incollata alla mia. Anche lui mi imita, allargando le braccia sui fianchi e mettendosi a pancia insù.
“Te l’ho detto che era divertente!” Esclama, tra un risolino e l’altro.
I suoi capelli mi fanno il solletico alle orecchie.
Restiamo a guardare il cielo in silenzio, cullati dal coro di uccellini che canticchiano mentre ci svolazzano intorno. Feliciano inspira una boccata d’aria e alza un dito al cielo. L’erba fruscia.
“Guarda, Ludwig! Ci sono anche le rondini, ormai la primavera è arrivata del tutto. Anzi, siamo quasi in estate!”
Torna ad abbassare la mano e sospira.
“Anche in Germania ci sono le rondini? E le estati sono così calde?” Mi domanda.
Anche io inspiro, continuando a fissare l’azzurro.
“Sì, le rondini ci sono. Ma le estati non sono così umide. Il clima è un po’ più fresco.”
“Sul serio? Accidenti, speriamo che tu non soffra troppo. Sai, può essere davvero molto, molto caldo, qui.”
Io sospiro, scuotendo la testa tra i fili d’erba.
“Ah, non importa. Resisterò.”
“Bravo!”
Rimaniamo ancora in silenzio, poi Feliciano alza le spalle e le sue braccia si allargano, avvicinandosi alle mie.
“Sono proprio felice che tu stia bene, ora. Quando sei arrivato eri così triste.”
Io sbatto le palpebre, socchiudendo le labbra.
“Ah, sì... è vero.” Rispondo.
“Ora...” Rilasso i lineamenti del viso, e la mia bocca si piega in un leggero ma sereno sorriso. “Ora sto bene.”
Feliciano allarga di più le braccia e anche le sue gambe strusciano sul prato.
“Anche io! Sai, prima mi annoiavo, tutto solo, anche perché Lovino non vuole mai giocare con me. Ma ora che ci sei tu mi diverto un sacco.”
Inclina il collo all’indietro, e la sua testa preme sulla mia.
“Sono davvero contento di averti incontrato.”
Io esito, e roteo gli occhi senza rendermene conto. Provo a muovere le labbra per mettere insieme le prime parole che mi vengono in mente.
“Sì... anche... anche io...” Balbetto con tono basso.
Una ventata di caldo mi annaffia il viso.
Feliciano fa correre le dita sull’erba. Si stanno avvicinando paurosamente alla mia mano.
“Sarebbe proprio bello vivere per sempre così, vero?” Mi domanda con voce calda. “Solo a giocare, guardare il cielo e stare insieme. A me piacerebbe tantissimo.”
Le sue dita s’intrecciano con i fili d’erba, ma io non le perdo di vista.
“Sì, ma... dobbiamo anche crescere, e diventare grandi.” Gli rispondo, con tono traballante. “Insomma, non possiamo trascorrere tutta la vita a rotolarci sull’erba, no?”
“Mhm, forse no.” Risponde lui. “Però possiamo sempre stare assieme, anche solo per guardare il cielo.”
La sua mano scorre, rotola sull’erba come se stesse premendo i tasti di un pianoforte.
“Io sarei davvero triste-triste, se dovessi essere costretto a separarmi da te, ora che siamo amici.”
Il suo tocco mi sfiora, scaricando una scossa che si arrampica fino alla mia spalla. Ritiro la mano con uno scatto fulmineo, avvicinandola al mio fianco. Mi raddrizzo, mettendomi a sedere sull’erba.
“Ah, ho... ho capito.” Borbotto, chiudendomi tra le spalle con le mani intrecciate sul grembo.
Sento Feliciano che si alza, ma io non mi giro verso di lui. Gattona al mio fianco, inclinando il capo in cerca dei miei occhi. Io volto la testa, nascondendo nuovamente il rossore che mi maschera il viso.
“Ora... ora però andiamo a metterci nell’ombra.” Gli dico, tenendo la fronte bassa.
Mi scompiglio i capelli, lasciando arieggiare la testa. Quando ritiro le mani, ho i polpastrelli tutti insudiciati di sudore appiccicoso.
“Sta iniziando a fare davvero caldo, meglio ripararci.”
“Eh? Ma io non sento tanto caldo. Guarda: il sole dietro di noi, i raggi non ci colpiscono direttamente.”
Io scuoto la testa.
“No... non centra. Ho... ho caldo lo stesso.”
Mi alzo da terra, arricciando le spalle e abbassando il mento sul petto. Mi porto una mano sul petto, stringendo la stoffa della maglia fino a stropicciarla.
 
È da ieri che piove, e non ha smesso nemmeno durante la notte. Il cielo è diventato nero, e grossi nuvoloni plumbei vorticano e si divorano tra di loro, ruggendo come belve inferocite.
Affondo i piedi nelle pozzanghere di fango che s’infossano tra le radici degli alberi, facendo schizzare gocce sporche e marroni fin sopra le mie caviglie. Chiudo le palpebre per riparare gli occhi dalla pioggia che mi batte sulla testa, ma l’acqua gronda sul viso, andando ad incastrasi fin dentro le ciglia.
Pessima idea. Penso, portandomi le mani davanti alla fronte, come sperando di placare il diluvio.
Pessima idea, andare nel bosco con la pioggia solamente per le idiozie di Gilbert.
Socchiudo un occhio, strofinandomi la faccia. Il braccio si bagna di tutta l’acqua che grondava dal viso prima che la ripulissi via.
“Rane giganti che nascono dalle pozzanghere, come no!” Urlo ad alta voce.
La pioggia mi bagna tutte le labbra, entrandomi in bocca.
“Quando tornerò a casa mi sentirà!”
Per fortuna manca poco, devo solo passare la collinetta.
L’acquazzone continua a martellarmi sulla schiena. Ormai i vestiti sono fradici, incollati su tutto i busto, fin dietro le spalle. I piedi sono faticosi da trascinare, come blocchi di cemento. Le scarpe si sono appesantite per tutta l’acqua che hanno bevuto.  
Il terreno inizia a risalire, e l’erba scivola sotto le suole in gomma, rischiando di farmi inciampare più di una volta. Raccolgo tutte le energie che mi sono avanzate, risalgo la collina con i polmoni che minacciano di scoppiare e i piedi che sembrano incastrati nella terra.
Mi appiglio con le mani ai ciuffi d’erba che crescono sulla cima, e raddrizzo la schiena, riprendendo fiato. Sollevo il naso verso il cielo plumbeo, lasciando che il diluvio mi annaffi per bene. Tanto, più bagnato di così...
I rivoli d’acqua scorrono in ogni centimetro della mia pelle, infilandosi sotto i vestiti e tra i capelli come un abbraccio di mille tentacoli. Mette i brividi.
Torno ad aprire lo sguardo e abbasso la fronte, sperando di riuscire già ad intravedere la mia casetta.
Il cuore mi sobbalza nel petto, le palpebre si sgranano, rivelando due occhi allucinati, traballanti di confusione. Lo scrosciare della pioggia è l’unico suono che riesco a sentire.
Faccio un passo in avanti, lento e timoroso, e sollevo una mano dal fianco allungando le dita verso la sagoma nera di Feliciano, immobile davanti al cielo tempestoso. È in piedi, di profilo, con il naso alzato e gli occhi coperti dalla frangia incollata sulla fronte.
“Fe... Feliciano...” Provo a chiamarlo con un filo di voce.
Lui volta il capo, e le ciocche scure, inzuppate d’acqua, si scostano dal suo viso. Un occhio gonfio e lucido, arrossato dalle lacrime che si confondono con i rivoli di pioggia, si posa su di me.
Io mi sento schiacciare, quasi mi stesse seppellendo vivo, quello sguardo.
Feliciano socchiude le labbra bianche.
“Ludwig.” Mormora. Quel suono sembra quasi un sospiro.
Si volta verso di me, sbilanciandosi in avanti con le spalle. Feliciano inizia a correre, affondando le scarpe nelle zolle di prato annegate nell’acqua piovana. Sembra quasi che i suoi piedi stiano prendendo a schiaffi la terra.
“Ludwig!” Esclama, e i capelli gli si scostano del tutto dalla frangia.
Le guance sono arrossate, e anche la punta del naso lo è, ma quel che avanza della pelle è bianco come un lenzuolo. La sua bocca si deforma in un lamento straziante, quando mi chiama.
Io sento una morsa stringermi il cuore. Non l’ho mai visto piangere, fino ad ora. È davvero terribile.
Feliciano allunga le braccia verso di me, e io ho solo il tempo di fare un minuscolo saltino sul posto, prima di ritrovarmi completamente avvolto dal suo abbraccio. Lui stringe le dita attorno alla stoffa dei vestiti incollati sulla mia schiena, spremendo fuori qualche goccia di pioggia. Tuffa il viso sul mio petto, e il mio mento finisce immerso tra i sui capelli bagnati.
Feliciano inizia a strofinarsi, avvolgendosi ancora di più attorno a me. Sta tremando come una foglia.
“Ludwig... è suc... è successa...” I singhiozzi gli soffocano la voce.
Le sue spalle saltellano ogni volta in cui prova a pronunciare una sillaba.
“Ai... aiuta... mi. È successa... una cosa...”
“Ca-calmati, Feliciano.” Gli dico, posandogli le mani sulle spalle.
Io mi scollo lentamente dal suo corpo, arretrando di un passo. Piego il capo verso di lui, continuando a stringere sulle sue spalle.
“Devi calmarti, Feliciano. Altrimenti non riesco a capirti.”
Feliciano si strofina il naso, poi passa il braccio su tutto il viso. L’acquazzone torna subito ad innaffiarlo. Feliciano si lascia scappare un altro rantolio confuso tra i singhiozzi, poi trae un respiro profondo buttando fuori l’aria dalla bocca.
“Ieri è... è successa una cosa bruttissima. Sono venuto qua perché... perché volevo vederti e... e...”
Affonda la faccia tra le mani tremolanti, rituffandosi in quel pianto straziante. Senza rendermene conto, inizio a tremare anch’io, facendo traballare le sue spalle ancora strette sotto le mie mani.
“Dimmi... dimmi cos’è successo.” Balbetto, provando ad indurire il tono.
Feliciano riemerge dalle sue dita, e le fa passare sulle palpebre un paio di volte, prima di riprendersi.
“Ieri, delle persone hanno portati via Antonio. Sono venuti a prenderlo con delle auto strane, e non è ancora tornato a casa. Io non so se...”
“Aspetta.” Lo interrompo. “Vuoi dire il ragazzo che abita nel boschetto? Quello da cui va sempre tuo fratello?”
Feliciano annuisce, singhiozzando un paio di volte.
“Sì. Io... io non so cosa sia successo, ma credo che sia stato il nonno a dire a quelle persone di andarlo a prendere. Era arrabbiato, e anche adesso continua ad essere agitato. Ma... ma Lovino è...”
Abbassa la fronte, irrigidendosi come un blocco di marmo tra le mie mani. Una raffica di vento gelido ci travolge, flagellandoci con le gocce dell’acquazzone.
“Lovino è distrutto.” Continua Feliciano, ma la sua voce riprende a traballare, strozzandosi in gola.
“È da ieri che non mangia. Ho provato a chiedergli cosa sia successo, ma non mi vuole dire niente. Ha iniziato ad aggredirmi e si rifiuta di parlare. Il nonno ha detto... ha detto che...” Un altro singhiozzo che lo soffoca. “Ha detto che potrebbe aver bisogno di un dottore, ma io non so perché. È successo tutto dopo che hanno portato via Antonio e lui... lui è...”
Feliciano torna a tuffarsi tra le mie braccia, stringendomi con una forza che non credevo potesse venire fuori da un corpicino così esile e fragile.
“Ludwig, io non voglio che portino via anche te.”
La sua bocca è immersa nel mio petto, e la sua voce è soffocata. Il cuore inizia a martellarmi, e credo che anche lui lo stia sentendo. Tutto il calore di Feliciano si espande a macchia d’olio sulla mia pelle, fino alla punta dei capelli.
Io abbasso le mani, rimaste rigide a mezz’aria fino ad adesso. Gli sfioro i fianchi, freddi e bagnati, ma le dita non si appoggiano.
“Feliciano...” Gli dico, ammorbidendo il tono. “Perché dovrebbero portarmi via? Non c’è nessuno motivo.”
“Lo so. Ma non c’era alcun motivo nemmeno per portare via Antonio.” Mi risponde lui, premendo la fronte su di me.
“È per questo...” Continua, facendo scorrere le dita sulla mia schiena. Di nuovo quel tocco che mi stringe in una scossa.
“È per questo che io non ho mai detto a nessuno di te. Sapevo che il nonno si arrabbiava quando Lovino si incontrava con Antonio, e non volevo che si arrabbiasse anche con me. Io ho...” Tira su col naso, riprendendo fiato. “Io ho fatto promettere a Lovino di non dire mai nulla. Lui era l’unico a saperlo, perché glielo avevo detto la prima volta in cui ti ho incontrato. Lovino non ha mai detto nulla al nonno, ne sono sicuro, lui non infrange le promesse. Ma ora... ora che è ridotto così...”
Il suo petto preme contro il mio, la sua testa spinge sotto il mio mento, costringendomi ad alzare il capo. Feliciano arriva addirittura a schiacciarmi i piedi, per sentirsi più vicino a me.
Questo suo abbraccio mi mozza il fiato. Resto imbambolato, con gli occhi sgranati e le labbra aperte, mentre lui continua ad infradiciarmi col suo pianto.
Il mio cuore riprende a battere, martellandomi il petto al ritmo dei singhiozzi di Feliciano. Poso le mani sulla sua schiena, e anche io stringo le dita, richiamandolo più vicino a me. Le mie mani strisciano sulla stoffa bagnata dei suoi vestiti, e le braccia s’intrecciano correndo fino sulle sue spalle.
“Stai tranquillo.” Gli dico.
Premo una guancia sul suo capo, facendogli appoggiare il mento su una mia spalla.
“Non ti lascio. Non vado da nessuna parte.”
La pioggia continua a cadere, e la lacrime di Feliciano continuano a sgorgare.
 
 
Il sole ha quasi smesso di tramontare. I raggi dorati si specchiano sul tappeto erboso che avvolge la collina. L’aria tiepida della sera mi accarezza il viso, rilassandone i lineamenti.
Getto lo sguardo al mio fianco, sulla giacca di pelle verde ammucchiata sul prato. Sollevo le spalle.
Probabilmente non servirà, non fa ancora così freddo. Penso.
Inarco il collo all’indietro, lasciandomi travolgere dalla luce del sole morente.
“Ludwig, Ludwig!”
Socchiudo un occhio, ma vedo solo il cielo roseo sfumato di rosso.
Feliciano si appoggia sulla mia schiena, stringendo le mani attorno alle mie spalle. Si sporge in avanti e la mia nuca finisce affondata nella sua pancia.
“Dai, andiamo a fare una corsa! Solo una volta, giù per la collina!”
Io apro tutti e due gli occhi, e inarco le sopracciglia storcendo il naso.
“Non è il caso, Feliciano. Mettiti seduto e stattene tranquillo.”
“Uff, come sei rigido.” Sbuffa, dandomi una spinta sulla schiena.
Io sono irremovibile, incollato al suolo. Feliciano non smette di far pressione, facendo strisciare i piedi sul suolo ma senza spostarmi di un millimetro.
“Dai, alzati, Ludwig!” Insiste, iniziando a piagnucolare.
Io ruoto gli occhi al cielo, e sbilancio leggermente la schiena di lato, inclinandomi al mio fianco. La mani di Feliciano scivolano dalle mie spalle e lui perde l’equilibrio, andando a sbattere con il naso per terra.
Riamane spiaccicato al suolo con la pancia riversa sull’erba e la faccia tuffata tra i fili mezzi ingialliti. Rantola qualche lamento, poi volta il capo all’indietro, verso di me. Il suo viso si è arrossato.
“Mi hai fatto cadere.” Frigna.
Io sospiro, abbassando le palpebre.
“Così impari a startene buono.” Gli dico con voce ferma. “Dovresti iniziare a tenere degli atteggiamenti un po’ più seri e modesti.”
Feliciano emette un altro lamento e si trascina carponi di fianco a me. Si mette seduto, con il viso rivolto all’orizzonte e le gambe piegate, richiamate al petto.
Io alzo una palpebra. “Non siamo più bambini.”
So di parlare solo per me, ma non importa.
Feliciano sbuffa, appoggiando il mento sulle ginocchia. Il ciuffo arricciato gi cade sulla spalla.
“È che... pensavo di trascorrere ancora un po’ di tempo insieme, prima... prima che tu...”
Il suo tono si affievolisce, e lui non riesce a terminare la frase. La sua bocca scompare tra le braccia fasciate attorno alle gambe.
Io inarco un sopracciglio e sposto gli occhi dalla sua figura china, immersa tra i raggi rossastri proiettati dall’orizzonte. Lo sguardo mi torna a cadere sulla giacca. La croce di ferro emette una pallida scintilla che risplende dal groviglio di stoffa.
“Non... non starò via molto. Sono solo pochi mesi, lo sai. E poi...”
Sollevo il naso al cielo, rilassando i lineamenti del viso. I caldi raggi solari mi accarezzano le guance.
“È un mio dovere, non posso rinunciarci. Ma tornerò presto, te l’ho già detto.”
“Sì, lo so.” Borbotta Feliciano.
Le sue spalle si arricciano, ingobbendogli la schiena. Feliciano stringe le braccia ancora di più attorno alle ginocchia, e l’ombra della frangia gli nasconde gli occhi.
“È solo che... che dopo che hanno portato via Lovino, io...”
Aggrotto la fronte, voltando il capo verso di lui. Feliciano rimane in silenzio, con il viso nell’ombra.
“È ancora tanto grave?” Gli chiedo.
Lui alza le spalle, senza muovere la testa.
“I dottori hanno detto che è un caso difficile, che gli studi fatti su quel tipo di malattia sono ancora troppo approssimativi. E non sanno...” Sospira, e la sua schiena si gonfia. “E non sanno come trattarlo.”
Il suo respiro è l’ultimo suono che esce dalle sue labbra, ancora più debole del fruscio del vento che passa tra i fasci d’erba. Feliciano sospira di nuovo, e i suoi occhi si schiudono da sotto la frangia. Puntano il sole.
“Ludwig, mi rimani solo tu, capisci? E se... se ti dovesse succedere qualcosa...”
Io inarco le sopracciglia, arricciando un angolo della bocca.
“Ma dai, cosa... cosa vuoi che mi succeda? Non parteciperò nemmeno alle missioni d’assalto. Sono in una botte di ferro.” Gli dico, ammorbidendo il tono.
Feliciano torna a stringersi le spalle, e i piedi frusciano sul manto d’erba.
“Sì, ma... ma ho paura lo stesso.”
Io abbasso le palpebre, scuotendo la testa.
“Sciocchezze.” Gli dico.
Getto tutto il peso sulle mani appoggiate dietro di me. Inarco la schiena all’indietro, lasciando che il cielo rosso mi divori la vista.
“Tu aspettami, e io tornerò.”
“Eh? Ma io te lo prometto, Ludwig!” Esclama Feliciano.
Io ruoto la coda dell’occhio verso di lui. Ha alzato la testa dalle ginocchia e la sua fronte è aggrottata. Non riesco a decifrare il suo sguardo, però.
“Io ti prometto fin da subito che ti aspetterò, dovessero passare centinaia di anni. Te lo giuro! Però, tu...” Si china sul prato, tendendo il collo verso di me. “Però tu mi devi promettere che tornerai. Non importa quando, ma devi prometterlo.”
Le sue sopracciglia s’inarcano, e i suoi occhi iniziano a vacillare, lucidi come biglie.
“Non importa quando, Ludwig, perché io ti aspetterò per sempre, ma tu torna!”
Io esito e sbatto un paio di volte le palpebre. Abbasso lo sguardo, sospirando.
“Feliciano...”
“Promesso?”
Alzo gli occhi, e Feliciano mi tende il mignolo, allungandolo verso il mio petto. Lo muove come per invitarmi a stringerlo.
“È una promessa?” Mi ripete lui, chinandosi di più.
Arriccio le labbra, guardando il suo piccolo dito con la fronte aggrottata.
“Dai, Feliciano, non...”
“È una promessa?” Insiste. Ha anche alzato il tono, ma lo ha reso solo più stridulo.
Io ruoto gli occhi al cielo, e sollevo una mano dal fianco piegando il gomito vicino al petto. Alzo anche io il mignolo, ma con un gesto restio, tenendolo accanto a me.
“Ehm... d’accordo.” Borbotto, tenendo lo sguardo in disparte.
Sento subito il dito di Feliciano avvolgersi attorno al mio. Il tocco delicato stringe, e non molla la presa, come se avesse paura di lasciarmi andare.
“Promettimi che tornerai.” Dice, ma la sua voce s’intristisce.
Mi giro verso di lui, e Feliciano ha chinato il capo verso terra, nascondendo di nuovo gli occhi dietro alla frangia. Il mignolo non molla.
“E io ti prometto che ti aspetterò.”
Rimaniamo in silenzio. Una vena pulsa attraverso il dito, e sento il battito scorrere come una scossa sulla mia pelle.
“Promesso.” Gli rispondo, sospirando.
Ora sono io a stringere la presa, sollevando le nostre mani fin davanti al viso.
“Tornerò, te lo prometto.”
 
Sì, sono proprio...
Le nostre dita si separano, le mani tornano a posarsi delicatamente sul prato, vicino ai nostri fianchi.
... un bugiardo cronico.
 
***
 
Il cielo è lo stesso del giorno in cui se n’è andato. Stesso sole morente, stesse nuvole arancioni sfocate all’orizzonte.
Appoggio le braccia sulle ginocchia, lasciandole ciondolare verso il basso. Strappo un fiorellino blu dal prato e inizio a rigirarmi il gambo tra le dita. Sfioro delicatamente i petali, ormai sono quasi chiusi perché è sera, stando attento a non sciuparli. Uno stormo di rondini cinguetta sopra la mia testa, svolazzando via verso il tramonto inoltrato. Le sagome nere degli uccellini si sovrappongono al disco arancione che sta svanendo dietro alle colline.
Sospiro, alzando gli occhi al cielo.
Ancora qualche minuto. Penso. Resto ancora qualche minuto e poi dovrò tornare a casa, altrimenti il nonno si arrabbierà.
In ogni caso, domani sarò qui di nuovo.
Inarco il collo all’indietro, di getto, quasi sperando di trovarmelo di spalle. E magari lui è stato tutto il tempo lì, e io guardavo nella direzione sbagliata.
Nulla. Solo un’altra distesa d’erba che si alza fino in cima alla collinetta.
Sospiro di nuovo, abbassando le spalle, e il fiore mi cade dalle dita che si schiudono lentamente. Il mio sguardo torna a posarsi sul tramonto rosso come il fuoco. Appoggio una guancia su un ginocchio, piegando la testa di lato.
Il cielo non scapperà via. Quando Ludwig tornerà, potremo guardarlo insieme tutte le volte che vorremo.
Abbasso le palpebre, e il mio respiro rallenta. Mi sono quasi lasciato cullare da quella luce così forte, ma anche così calda, che mi avvolge come un abbraccio. Affondo il viso tra le braccia, nascondendolo fino alla punta del naso, e rimango in silenzio ad ascoltare solo il volo delle rondini e il canto di qualche grillo.
Un debole fruscio sull’erba, in lontananza, mi fa aguzzare l’udito. Socchiudo una palpebra, restando in ascolto di quello sfrigolio che si trascina sull’erba spruzzata di rugiada. Il suono si avvicina, diventando più forte, e anche il terreno intorno a me sembra vibrare. Smetto di respirare. Sembrano proprio dei passi.
Ancora più vicino, e il ritmo dei tonfi accelera.
Il cuore mi si ferma in mezzo al petto. Sgrano entrambi gli occhi, rimanendo paralizzato, seduto sull’erba, fino a che una scossetta al cervello non mi riattiva. Raccolgo tutto il fiato che posso e, senza nemmeno pensarci, mi volto di scatto con il cuore gonfio di speranza. Ha ripreso a battere.
“Lud...!”
Avvito il busto, ma le parole mi muoiono in bocca. Le  ringoio subito, ricacciandole in fondo allo stomaco. I battiti cessano, sento come se il cuore affondasse in fondo alla pancia.
Sollevo gli occhi al cielo, percorrendo con lo sguardo i due uomini impalati davanti a me che mi guardano dall’alto. Le loro pupille ruotano su di me, coperte dall’ombra dei cappelli verdi abbassati sulle loro fronti.
Io socchiudo le labbra, rimanendo senza fiato. Hanno gli stessi vestiti di Ludwig, verdi, con tutte quelle targhette appiccicate sopra. I reggi del sole le fanno scintillare, quando i loro petti si ingrossano.
Non riesco ancora a muovere un muscolo.
Uno di loro si toglie il cappello, e l’ombra scompare sul suo viso. In compenso, solo ora noto le ombre nere che si allungano su per la collina, dietro di loro, come paurose sagome nere. L’uomo che si è tolto il cappello trae un sospiro da naso e si inumidisce le labbra.
Herr Vargas, suppongo? Herr Feliciano Vargas?”
Io sbatto le palpebre un paio di volte, ma dalla mia bocca escono solo dei rantolii confusi. Poi deglutisco, cercando di inumidirmi la bocca completamente secca, e annuisco.
Scatto in piedi, rotolando di fianco sull’erba. “S-sì.”
Mi do una spazzolata ai pantaloni, e qualche ciuffo d’erba vola via, ricadendo sul prato.
“Sì. Sono... sono io.”
L’uomo annuisce e raddrizza le spalle.
“Bene. A casa sua non la trovavamo e ci hanno detto che l’avremmo potuta incontrare qui. Herr Vargas, io sono il generale Zimmerman.” Indica il suo collega, quello che è rimasto tutto il tempo in silenzio. “Lui invece è il colonnello Schuster.”
Il colonnello accenna solo un gesto del capo, forse non sa l’italiano. Il generale ha un accento tedesco marcatissimo, ma riesco a capire tutto quello che dice.
Però mi sono già dimenticato i loro cognomi.
Io inizio a giocherellare con le dita sul grembo. La pelle inizia a sudare e i polpastrelli sono tutti scivolosi.
“Ehm, posso... posso fare qualcosa per voi?” Domando con un filo di voce. Mi sento già soffocare.
Il generale inspira un’altra boccata d’aria, gonfiandosi il petto.
“Siamo qui per conto del maggiore Ludwig Beilschmidt, Herr Vargas.”
Il mondo inizia a girare. Piego leggermente le spalle in avanti e allargo le dita sui fianchi, come per tenermi in equilibrio. Sono costretto ad appoggiare più volte i piedi sul prato, per evitare di cadere.
La voce del generale si ovatta, la sua figura inizia ad offuscarsi insieme a quella del colonnello. Ma lui continua a parlare.
“Ci era stato riferito dallo stesso Herr Beilschmidt che, se gli fosse capitato qualcosa, lei sarebbe stato informato per primo, Herr Vargas.”
Mi porto una mano sul petto, e stringo la stoffa della maglia quasi a volerla lacerare. Ma le dita tremano troppo. Chino la fronte, tentando di nascondere il mio sguardo vacillante.
Avrei voglia di urlare. Avrei voglia di accasciarmi a terra e di liberare il grido che sto cercando di trattenere in gola. Inarco la schiena, e deglutisco un altro boccone di saliva amara.
“Una settimana fa, il maggiore ha subito un grave infortunio, ed ha riportato un forte trauma cranico...”
Ormai non li vedo più. Sono solo macchie malamente stese davanti al cielo carico di fiamme ardenti come l’inferno.
“... è per questo che è stato trasferito all’ospedale civile di Berlino ovest, dove è tutt’ora ricoverato , ma... sta bene, Herr Vargas? È pallido.”
Il mondo si ferma. Riprendo a respirare, ossigenando ogni fibra del mio corpo. Il sangue riprende a scorrere, sento le vene del collo pulsare e battere fino alle orecchie. Alzo lo sguardo, guardando i due uomini con gli occhi lucidi e la bocca aperta. Il labbro inferiore mi trema.
“Ricoverato?” Anche la voce continua a traballarmi. “Vuol dire che... che è ancora vivo?!”         
Il generale si inumidisce di nuovo le labbra, e bilancia il peso sui piedi, ricomponendosi.
“Sì, Herr Vargas.” Risponde, traendo un sospiro. “Herr Beilschmidt è vivo ma, come le ho detto prima, ha subito un forte trauma e...”
“Voglio vederlo!” Esclamo, chiudendo i pugni sul petto.
Mi avvicino ai due uomini di qualche passo, tendendo i collo verso il generale.
“La prego, mi dica...” Deglutisco. “Mi dica come posso andare da lui. Devo vederlo, capisce?”
Il generale e il colonnello si scambiano una veloce occhiata. Il generale ruota gli occhi verso di me e pronuncia qualche parola in tedesco che io non capisco. Mastica velocemente quella frase, come se avesse paura che io possa capirla. Il colonnello annuisce, e anche lui dice qualcosa in tedesco.
Ludwig mi ha insegnato un po’ la sua lingua, ma questi due parlano in maniera incomprensibile.
Il generale raddrizza di nuovo la schiena, e si gonfia il petto.
“Possiamo scortarla a Berlino, Herr Vargas. Possiamo anche portarla all’ospedale dove alloggia il maggiore.”
Io scatto, poi annuisco deciso facendo scrollare i capelli davanti alla fronte.
“Sì, sì, la prego.”
Anche lui annuisce e torna ad inumidirsi le labbra. “Molto bene. Devo avvisarla, però...”
I suoi occhi mi scrutano con una luce strana. Quelli del colonnello sono ancora completamente nascosti sotto l’ombra del cappello.
“Devo avvisarla che presto Herr Beilschmidt potrebbe essere trasferito in un’altra struttura.”
Io inclino la testa di lato, ancora tremante d’impazienza. Il generale è calmo e composto, invece. Freddo come un blocco di ghiaccio.
“Ci impegneremo per metterla in contatto con i medici che attualmente seguono il suo caso, Herr Vargas.”
Inarco le sopracciglia. Credo di aver assunto un’espressione a dir poco pietosa.
“In un’altra struttura?” Ripeto.
Arretro di un passo, stringendomi le braccia sul petto.
“Perché? Cos’è successo a Ludwig?”
  
 
La poca luce che filtra dalla piccola finestra, oscurata dalla tapparella, si schianta contro i granelli di polvere che volteggiano per aria, densi e fitti come nebbia. I raggi del debole riverbero si allungano sulla superficie della scrivania, ma tutto il resto del piccolo ufficio è quasi completamente in ombra.
Il generale appoggia le spalle sullo schienale della poltrona imbottita e incrocia le mani davanti alla bocca, con i gomiti premuti sulla superficie della scrivania. La fronte è bassa, e le palpebre socchiuse davanti agli occhi. Il colonnello non c’è, è rimasto fuori a sorvegliare la porta.
Io me ne sto vicino alla parete, con le spalle piegate in avanti e l’ombra della frangia che mi copre gli occhi. Gilbert continua a camminare davanti a me, di fronte alla scrivania del generale. È da mezz’ora che va avanti così, pestando i piedi per terra, passandosi le mani tra i capelli, e sbuffando qualche imprecazione confusa tra le labbra. Ogni tanto, la luce che entra dalla finestra gli colpisce i capelli, e il riflesso argenteo brilla come il metallo.
“Amnesia? Cosa diavolo vuol dire amnesia?!” Sbraita, senza smettere di andare su e giù.
Continua a passarsi le mani dai capelli sul viso imperlato di sudore, e le dita gli tremano.
Il generale si schiarisce la voce. “È un disturbo della memoria. Significa che Herr Beilschmidt ha...”
“Sì, lo so cosa significa!” Urla Gilbert con un tono graffiante come la carta vetrata.
Si ferma davanti alla scrivania, e si piega in avanti sbattendo i palmi delle mani sulla superficie del tavolo. Le gambe ricoperte in ottone vibrano su pavimento.
“Quello che voglio sapere è come ha fatto la sua testa a svuotarsi come una noce di cocco in un millesimo di secondo!”
Il generale è irremovibile. Non si scompone nemmeno con il fiato rovente di Gilbert che sbuffa sul suo collo. Si schiarisce di nuovo la voce, abbassando di più la fronte. L’ombra nera cala sui suoi occhi.
“Io non sono un medico, Herr Beilschmidt, tutto ciò che posso dirle è che il maggiore ha subito un forte trauma alla testa e subito dopo...”
“Stronzate!” Sbraita Gilbert, avvicinando il viso a quello del generale.
I suoi occhi sono fuoco che arde dentro alle orbite infossate.
“Ci deve essere sicuramente un rimedio.” Continua Gilbert. “Per cui piantatela di blaterare e...”
“Ora si calmi, Herr Beilschmidt.
Una voce calma e vellutata interrompe la sfuriata di Gilbert. Tutti voltiamo lo sguardo verso l’angolo in ombra della stanzina, e il dottor Roderich si scolla dalla parete, emergendo da quell’oscurità come un fantasma. Il suo camice svolazza intorno alle ginocchia, poi si ferma subito.
Il dottore si sistema gli occhiali sul naso, spingendoli indietro con la punta delle dita.
“Si calmi, Herr Beilschmidt, e mi ascolti molto, molto attentamente.” Ripete.
Gilbert trattiene un grugnito tra i denti e stringe i pugni, ancora chiusi sulla superficie della scrivania. Un raggio di luce abbaglia le lenti rettangolari che coprono gli occhi del dottor Roderich.
Herr Ludwig Beilschmidt ha subito un forte trauma cranico che gli ha provocato una totale perdita di memoria che comprende ogni evento riguardante la sua vita precedente al suddetto trauma.”
Una forte morsa mi stringe il cuore e sono costretto a portare una mano sul petto, stringendola attorno alla stoffa della maglia.
“Io mi sto occupando personalmente del caso di suo fratello, Herr Beilschmidt.” Continua il dottor Roderich. “E posso garantirle che sto facendo il possibile per garantire una totale guarigione del suo stato mentale. Tuttavia...”
Fa una pausa e incrocia le braccia sul petto.
“Tuttavia, sarà necessario trasferirlo in un’altra struttura, immagino che il generale Zimmerman vi abbia già informato di questo.”
Ci squadra entrambi, ma sia io che Gilbert rimaniamo immobili. Il generale annuisce.
“Il trasferimento...” Riprende il dottore, abbassando le palpebre. “Avverrà nel giro di qualche giorno. Herr Beilschmidt sarà sistemato in una struttura specializzata, sempre qui a Berlino. La clinica risponde al nome di Welt e io stesso faccio parte del personale che si occupa di seguire i casi clinici.”
Gilbert stacca le mani dalla scrivania e le allunga vicino ai fianchi. Il suo petto si gonfia.
“Pe- perché è necessario trasferirlo?” Domanda al dottore, inacidendo il tono.
Il dottor Roderich si passa una mano tra i capelli, annodandosi le dita attorno ad una ciocca castana.
“Perché, come le ho già detto, il caso di Herr Beilschmidt è estremamente delicato, e saranno necessarie cure e terapie che solo una struttura come il Welt ha da offrire.”
Gilbert esita. Poi raddrizza le spalle e risucchia una boccata d’aria dai denti serrati.
“Volete dire...” Gracchia. “Volete dire che dovrà rimanere chiuso in quella gabbia di matti per sempre?!”
Gli occhi del dottor Roderich si accendono per qualche secondo. Le pupille roteano, quasi saettando, in cerca dello sguardo del generale. L’uomo in uniforme sgrana le palpebre, e scambia una strana occhiata con il dottore. Solo io me ne accorgo, però. Gilbert non batte ciglio.
Il dottor Roderich torna ad abbassare le palpebre e si schiarisce la voce.
“Ovviamente no, Herr Beilschmidt. Io per primo mi impegnerò affinché suo fratello possa guarire ed essere dimesso quanto prima.”
“S-sì, ma...” Confabula Gilbert.
Abbassa la fronte, e i capelli gli ricadono davanti agli occhi furenti. Le sue spalle tremano, e sento lo stridere dello smalto dei suoi denti fino a qui.
“Merda.” Sibila, stringendo i pugni sui fianchi.
Io sollevo il capo con un gesto timido, quasi intimorito. Faccio scorrere le mani dal grembo fino al mio petto, continuando a giocherellare con le dita impiastricciate di sudore.
“Ehm, dottor Roderich...” Mormoro.
Lui si gira, anche se non l’ho chiamato per cognome. Mi guarda da dietro le lenti, e io raccolgo il coraggio per parlare solo dopo qualche secondo.
“Potrò... io potrò venire a trovare Ludwig, qualche volta?”
Il dottor Roderich esita, e le sue palpebre si allargano rivelando due occhi confusi. Si sistema di nuovo gli occhiali, sospirando.
Herr Vargas, dico bene?” Mi domanda lui.
Io annuisco, tenendo lo sguardo basso.
“Il generale mi ha già parlato di lei. Herr Vargas, lei sa che Herr Beilschmidt non sarà in grado di riconoscerla, vero?”
Di nuovo quella fitta in mezzo al petto. Il colpo si sposta verso il basso, come un pugno che mi centra in pieno lo stomaco.
Deglutisco un boccone amaro, riprendendo fiato. “Sì. Lo... lo so, dottore. Ma volevo... volevo comunque vederlo.”
Sollevo la fronte, e i miei occhi lucidi lo squadrano da sotto le ciocche della fronte.
“Per favore.” Lo supplico con voce straziata.
Lui sospira, come se il mio sguardo gli avesse toccato qualcosa dentro. Alza le spalle, e lancia una veloce occhiata al generale immobile sulla poltrona. Lui non batte ciglio.
“Ovviamente, il Welt non è una struttura all’antica.” Mi risponde il dottor Roderich.
Volta gli occhi verso Gilbert, ancora pietrificato in mezzo alla stanza.
“Non bisogna pensare alla nostra struttura come a una di quelle vecchie cliniche che ora esistono solo nella fantasia di qualche macabro sceneggiatore cinematografico, no.” Scuote la testa. “Lei potrà far visita a Herr Beilschmidt quando vorrà, ma ovviamente sarà sotto la mia supervisione, capisce?”
“Ehm, sì. Sì, capisco.” Gli rispondo, sentendomi già più sollevato.
Poi un pensiero mi trafigge il cervello come un dardo scoccato all’improvviso. Scatto sul posto, stringendo di nuovo la maglia all’altezza del petto.
“Ah, un momento, io...”
Tutti voltano lo sguardo verso di me. Io deglutisco a fatica, riprendendo a tremare come una foglia.
“Anche mio fratello è ricoverato in una clinica, in Italia. Io... io dovrei stare anche insieme a lui, non posso abbandonarlo. Ma ora... ora che Ludwig è qui a Berlino e dovrà stare...”
Non riesco a terminare la frase, la voce si spegne in gola come se si stessero scaricando le batterie.
Gilbert inarca un sopracciglio, e piega la bocca in una smorfia.
Io mi mordo un labbro, gettando lo sguardo di lato. “Io mi chiedevo se... se Ludwig potesse tornare in Italia, magari nello stesso ospedale dove alloggia mio fratello, io potrei...”
“Non ci provare!” Urla Gilbert, quasi divorando le mie parole.
Si avvicina a passo pesante, con la schiena piegata verso il pavimento. Mi afferra le spalle, schiacciandomi sul muro. Io strozzo un gemito in gola, ma lui continua a far pressione, squadrandomi con quegli occhi di fuoco che sembra vogliano ingoiarmi.
“Ludwig rimane a Berlino, hai capito? Non lo farò riportare in Italia solo per...”
“Si calmi, Herr Beilschmidt.” Gli ripete per l’ennesima volta il dottor Roderich.
Gilbert stringe le dita ancora di più, quasi affondandole nella mia carne. Io tremo come un gattino bagnato. Lui abbassa le spalle e la presa si scioglie lentamente, le mani scivolano giù dal mio petto.
Gilbert si sposta e il dottor Roderich torna di nuovo a guardarmi da dietro le lenti degli occhiali.
Herr Vargas, purtroppo Herr Beilschmidt non potrà essere trasferito dal Welt.” Mi dice lui.
“Le ho già detto che solo in questa clinica potrò dedicargli tutte le cure necessarie. È...” Fa una pausa, scostando lo sguardo. “Unica in Europa, Herr Vargas. Ma è molto conosciuta anche nel resto del mondo.”
Io abbasso gli occhi sul pavimento. Mi guardo i piedi traballanti, che tentano di sorreggere il mio peso morto. Deglutisco per l’ennesima volta, e cerco di farmi venire in mente un’idea che mi permetta di stare vicino sia a Ludwig che a Lovino.
“E... e se...”
Mi stringo le spalle, chiudendomi a riccio.
Perdonami, Lovino.
“E se facessi trasferire mio fratello qui a Berlino, nella stessa clinica di Ludwig?”
Il dottor Roderich rimane in silenzio e inarca un sopracciglio. Il suo collo si piega leggermente all’indietro.
Io ricomincio a torturare le dita. Le unghie graffiano sui polpastrelli, scorrendo fino ai palmi.
“Ecco, anche mio fratello è ricoverato in una clinica psi... psichiatrica, e se lui potesse venire qui ed essere curato insieme a Ludwig, io potrei stare insieme a tutti e due. Io non...” Scuoto la testa. “Io non voglio rinunciare a nessuno di loro.”
Il dottor Roderich esita e il suo sguardo si fa ancora più confuso. Si volta verso il generale, ma l’uomo si limita ad alzare le spalle, volgendo i palmi al soffitto.
Il dottore abbassa le palpebre, e sospira a fondo. Estrae un foglietto ripiegato un paio di volte dalla tasca interna del camice, e si sfila una penna dal taschino che ha sul petto. Il tappo scatta sotto la pressione del suo pollice.
“Come si chiama suo fratello, Herr Vargas?” Mi domanda, appoggiando la punta della penna sulla carta bianca.
Io balzo sul posto, poi cerco di alzare il tono di voce. Devo farmi coraggio.
“Ah, Lovino. Lovino Vargas.”
La penna del dottor Roderich scorre, immagino che stia appuntando il suo nome.
“E da cosa è affetto?” Mi chiede, senza staccare gli occhi dal foglio.
Io sospiro. “Ehm, non lo so di preciso. Ma, i dottori hanno detto che è is.. isteria, se non sbaglio.”
“Mhm, capisco.” Risponde lui, continuando a scarabocchiare.
La penna torna a scattare sotto il suo dito e lui la ripone nel taschino. Si avvicina al generale, lasciando il foglietto sul bordo della scrivania. Il generale gli lancia una veloce occhiata, ma non lo tocca.
Il dottor Roderich incrocia le braccia sul petto e abbassa lo sguardo.
Herr Vargas, sarò sincero con lei, sarà davvero molto difficile riuscire a fare entrare suo fratello nella clinica Welt.” Alza il palmo della mano al cielo. “Vede, i requisiti per accedervi sono... a loro modo esclusivi.”
Il generale socchiude una palpebra, e uno strano brillio gli luccica nella pupilla.
“Per farle capire quanto il Welt sia inaccessibile...” Continua il dottor Roderich, sistemandosi gli occhiali. “Le basti sapere che i pazienti che seguo tutt’ora si possono contare sulle dita delle mani.”
Io esito, e anche Gilbert trattiene il fiato, come se si stesse strozzando. Un’altra mazzata mi centra il cuore, spappolandolo tra le costole.
“È forse perché... perché mio fratello è italiano?” Gli domando con voce strozzata.
Il dottore solleva un sopracciglio, e il suo sguardo sembra quasi ammorbidirsi.
“Come? Ah, ma no...” Risponde, accennando una sottilissima risata.
Scuote la testa. “Non abbiamo questo tipo di preconcetti, Herr Vargas. Le basti pensare che Herr Beilschmidt sarà l’unico paziente tedesco, gli altri sono tutti stranieri. E poi...”
Si posa una mano sul petto, socchiudendo le palpebre.
“Io stesso, che sono un medico impiegato della struttura, sono austriaco. No, no, vede... i requisiti di cui parlo sono puramente clinici. Ma...”
Si ricompone, e il suo sguardo torna serio. Il debole raggio di luce che filtra dalla finestra gli abbaglia le lenti.
“Ma le prometto che mi informerò personalmente delle condizioni di suo fratello. Parlerò con i medici che lo tengono attualmente in cura e, se si dimostrerà idoneo, allora potremo provvedere al trasferimento. Le consiglio solo...”
Solleva gli occhi. Uno sguardo che mi sotterra, eppure non ha l’aria così minacciosa.
“Le consiglio solo di non illudersi troppo e di non nutrire molte speranze.”
Io abbandono le spalle e annuisco con un debole gesto del capo.
“Va... va bene.”
Gilbert si volta lentamente, tira un calcio alla base della parete, facendo vibrare il muro, e rantola qualche altra imprecazione tra le labbra. Si appoggia al muro, nascondendo il viso dietro ai capelli. Il pugno si stringe sopra l’intonaco, facendo gemere la pelle.
La polvere continua a fluttuare, le luce fioca filtra dalla tapparelle.
Ma i nostri cuori sono affogati nel buio.

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Capitolo 18
*** Capitolo 17 ***


CAPITOLO 17
 
Il dottor Roderich mi guarda da dietro le lenti rettangolari, abbagliate dall’unico raggio di luce che filtra dalla tapparella abbassata. L’aggeggio che lui ha chiamato Transfert ciondola dalla sue dita, salde attorno alle fasce nere. I cavi penzolano sulle sue gambe, arrivando fin sotto le ginocchia.
Io deglutisco, stringendomi le mani sul petto. Quell’affare mette davvero paura. Chissà se farà male a me o a Ludwig?
Il dottore si sistema la montatura degli occhiali, premendola sulla base del naso. Il Transfert si incastra nel suo gomito.
“È sicuro di voler provare, Herr Vargas?” La sua voce morbida sembra quasi ovattata dall’aria pesante che aleggia nel piccolo ufficio buio e polveroso.
Io annuisco, buttando giù un’altra boccata di saliva.
“S-sì. Io...”
Cerco di fermare i tremiti che mi corrono sulla schiena, e raddrizzo le spalle, inarcando le sopracciglia.
“Lo so che è una soluzione disperata .Ma...ma voglio provarci. Se questo servirà a riportarlo indietro, allora sono disposto anche a rimetterci io stesso.”
Il dottore annuisce, e io lo imito.
Manterrò la promessa, Ludwig. Te lo giuro.
 
***
 
Mi sfilo il Transfert facendo scorrere le dita sulla stoffa ruvida, pregna del mio sudore sgorgato su tutto il capo. Trovo finalmente la chiusura in velcro e la strappo, pizzicandomi i polpastrelli.
Appoggio la fascia sulle ginocchia, i cavi colorati si raggomitolano sul mio grembo. Mi passo una mano tra i capelli, scuotendomi la frangia. Un leggero brivido mi corre dietro la nuca.
Il dottor Roderich si avvicina lentamente a Ludwig e allunga le mani verso la sua testa, ancora china sulle spalle appoggiate alla parete. Ludwig ha le palpebre abbassate, ma ogni tanto vibrano, come se stesse cercando di svegliarsi.
“Non ce l’ho fatta.” Mormoro di nuovo, distogliendo lo sguardo da quello di Ludwig, distrutto e stropicciato dalla stanchezza.
Il dottor Roderich inizia a far passare le dita sui cavi e sulla fascia.
Scuote la testa. “Non si disperi, Herr Vargas. Non ce n’è motivo.”
Anche la chiusura del Transfert di Ludwig geme, e la fascia nera gli scivola via dalla fronte, portandosi dietro i cavi che gli serpeggiavano sulle spalle e sul petto.
“Parlando sinceramente, Herr Vargas.” Continua il dottore, iniziando a raccogliere i fili di rame plastificati attorno al suo braccio. “Non mi aspettavo che ci sarebbe riuscito. Non al primo tentativo, per lo meno.”
Raccoglie anche l’anello di stoffa e se lo infila sulla spalla, facendolo passare sopra il braccio. Il tessuto del camice è tutto spiegazzato, sotto la stretta dei cavi.
Io mi alzo lentamente dalla sedia, barcollando un paio di volte. Getto un’occhiata fuori dalla finestra, ma il corridoio è deserto, non passa nessuno. Impugno con mani tremanti la mia fascia, e allungo il braccio leggermente piegato verso il dottore.
“Quindi... quindi, dottor Roderich, io potrei...” Deglutisco, e lui posa lo sguardo su di me, da sotto le palpebre semichiuse. “Io potrei riprovarci? Sono sicuro che ce l’avrei fatta per un soffio, e se lei mi desse il permesso, ecco, io...”
“Non oggi di sicuro, Herr Vargas.” Mi risponde lui.
Il dottor Roderich agguanta il Transfert dalle mie mani. La pelle delle sue dita mi sfiora, ed è calda, vellutata. Quasi una spalmata di balsamo sopra le mie dita fredde, ossute, e pallide come il latte.
“Siete entrambi molto stanchi.” Continua lui.
Ruota lo sguardo verso Ludwig, scrutandolo da dietro le lenti rettangolari.
“Sarebbe solo un inutile rischio, sia per lei che per Herr Beilschmidt. Ma ci saranno altre occasioni, non si preoccupi. Ora pensi solamente a riposare.”
Si sistema per bene i due strumenti intorno alle spalle e abbassa gli occhi, aggiustandosi il colletto del camice.
“Tuttavia, le chiedo di dedicarmi ancora un po’ del suo tempo e delle sue energie, Herr Vargas. Questo nostro esperimento è stato qualcosa di esclusivo, capisce? Vorrei...” Le sue pupille ruotano su di me. “Vorrei scambiare quattro parole con lei per esaminare insieme quello che ha visto dentro la mente di Herr Beilschmidt.”
Io esito, e mi stringo una mano sul petto. La stoffa della maglia è umida e fredda. Sento il cuore martellare ancora sotto il mio tocco. La cassa toracica vibra. Sento ogni singola vena che corre pulsare sotto i polpastrelli. Ho la testa ancora sudata, e mi salgono i brividi fino alla punta dei capelli.
Traggo un profondo sospiro. “Va... va bene. Credo di poterlo fare.”
Il dottor Roderich annuisce. “Molto bene, allora.”
Attraversa la stanzina, un semplice cubo bianco con le pareti spoglie e solo quella piccola finestrella rigata che dà sul corridoio. Il dottor Roderich si appoggia alla maniglia e volta il capo verso di me.
“Andiamo, Herr Vargas.”
Io scatto sul posto. I piedi sono ancora incollati al pavimento, incapaci di muoversi. Ruoto lo sguardo verso Ludwig, abbandonato nel letto bianco, smagrito e sciupato in viso.
Il labbro inferiore mi trema un paio di volte e il cuore mi si spezza in mezzo al petto, sciogliendosi tra le costole.
Perché è andata a finire così? Perché è andato tutto così male?
Muovo i passi felpati sulle piastrelle, lenti e timidi. Chino le spalle avvicinandomi a Ludwig, ma lui ha ancora gli occhi chiusi. Riesco a percepire a malapena il suo debole sospiro che passa tra le labbra socchiuse. Io piego la testa di lato, provando a disegnare un fragile sorriso sulla mia bocca vacillante.
“Lu... Ludwig, mi senti?” Sussurro.
Le sue palpebre si strizzano, le spalle vibrano, ma lui rimane addormentato.
Piego le sopracciglia, e il sorriso cede per qualche secondo. Poi allungo un braccio davanti a me, tendendo il mignolo leggermente piegato. Lo faccio scivolare con delicatezza tra le sue dita e lo avvolgo attorno al suo, accarezzandone la punta.
“Ti ricordi, Ludwig? Ti ricordi la nostra promessa?”
Una vena del mio mignolo pulsa sotto la pelle, ma la sua mano rimane immobile, abbandonata sul suo grembo. Il dito mi trema, ma provo comunque a stringere la presa.
“Svegliati, Ludwig. Anche se non ti ricordi di me, ti sto aspettando.”
Inarco le spalle, piegando il capo verso il basso. La frangia mi copre gli occhi. Strizzo le palpebre, arricciando il naso verso l’alto, e i denti si serrano.
Raccolgo tutti gli ultimi grammi di energia che mi sono avanzati e soffoco nel petto un lamento strozzato, che gorgoglia nel mio stomaco come una brace accesa. Il dolore mi stringe in una morsa lacerante, facendomi accartocciare su me stesso con il dito ancora legato a quello di Ludwig.
Herr Vargas.
La voce del dottor Roderich mi fa sobbalzare. Traggo un profondo sospiro e mi giro verso di lui, ancora appoggiato alla porta della stanzina. I suoi occhi mi scrutano da dietro gli occhiali.
“Ora dobbiamo andare.”
Io inarco le sopracciglia e annuisco con un debole gesto del capo. Quando lascio andare il dito di Ludwig, sfilandolo dalla mia presa, sento come se una corda del mio cuore si sia spezzata. I due estremi si separano, arricciandosi l’uno lontano dall’altro.
Mi avvicino al dottore, strisciando i piedi sul pavimento, con il capo chino come ad una marcia funebre.
“Non si preoccupi.” Mi dice lui. “Si sveglierà tra qualche minuto. Potrà tornare a vedere come sta quando avremo finito.”
Il dottor Roderich fa scivolare la porta sul pavimento, e l’aria fresca del corridoio mi solletica il viso ancora sudato. Mi passo la manica della maglia sulle guance e scuoto la frangia, arieggiando la fronte.
Con la coda dell’occhio lancio un ultimo sguardo a Ludwig. E accade qualcosa.
La sua palpebra si solleva, piano, e la luce spenta del suo iride mi inquadra da sotto le ciocche dorate tutte spettinate davanti al viso. Rimaniamo a fissarci, scambiandoci l’ennesima occhiata assente, vuota come la sua mente. Io non la rompo, quell’occhiata, con il cuore gonfio di speranza.
Le labbra di Ludwig si socchiudono, sottili e pallide, lasciando uscire solo un sibilo.
“È...  è strano...”
Anche il dottor Roderich si volta, e un luccichio brilla da dietro le sue lenti.
Io inarco le sopracciglia, sporgendomi verso Ludwig, ma il dottore mi trattiene la spalla.
“Ho come.. l’impressione di... di averti già visto.” Mormora Ludwig, con voce roca e spenta.
Di nuovo la speranza che si rompe. Di nuovo l’ennesima mazzata che mi uccide dentro.
Ludwig abbassa le palpebre e si stringe tra le spalle. I lineamenti del suo viso si distendono.
“Sarà stato un... un sogno.”
Io sospiro, abbandonando il capo ciondolante sul petto. La mano del dottor Roderich si stringe attorno alla ma spalla.
“Andiamo, Herr Vargas.” Mi ripete con voce piatta.
Io annuisco, obbedendo.
 
La porta si richiude. Il piccolo adesivo che raffigura il numero nove, incollato sulla cima dell’anta, viene attraversato da un riflesso bianco che lo fa risplendere per qualche istante.
Il dottor Roderich inizia a percorrere il corridoio, passando vicino alle finestre che danno sulle stanze degli altri pazienti. I cavi del Transfert ciondolano dalla sua spalla, rimbalzando sulle sue ginocchia.
Muovo passi lenti e pesanti. La testa è china verso il basso, il mento quasi appoggiato sul petto. Ruoto la pupilla alla mia destra, all’ombra dalla schiena del dottore che cammina davanti a me, e spio gli altri pazienti da dietro le ciocche della frangia.
Cella numero otto. Natalia è rannicchiata sulla brandina, con le ginocchia richiamate al petto e i capelli che le scivolano davanti alle gambe come un drappo, fino a toccarle i piedi. Un braccio stringe attorno al polpaccio, mentre l’altro è appoggiato sul muro. La mano batte colpi ripetuti, che picchiano sulla parete con cadenza regolare. È un rumore sfiancante, ma lei passa anche tutta la giornata così.
Dall’altra parte del muro c’è la cella di Ivan – numero sette – e gli passiamo velocemente di fianco. Il dottore lancia un’occhiata fulminea al suo interno, per precauzione. Ma Ivan è tranquillo, raggomitolato sul materasso come la sorella, ben lontano dalla parete che lo separa da lei. Si stringe le mani attorno alle gambe, tremando come una foglia, sotto i colpi che rimbombano sul muro.
Numero sei. Lovino. Quando ci passo di fianco spalanco le palpebre, strabuzzando lo sguardo.
“Dottore...” Sussurro, accelerando il passo.
Il dottor Roderich si limita a voltare il capo, senza interrompere la marcia.
“Dov’è Lovino?”
Lui solleva le sopracciglia, puntando di nuovo gli occhi davanti a sé.
“In terapia.” Risponde secco, con un tono distaccato.
Io abbasso lo sguardo, rattristandomi in volto.
“Ah, ho capito.” Mormoro.
È già il terzo elettroshock, questa settimana.
Poi c’è la numero cinque, quella di Antonio. Ci dà le spalle, abbandonato sulla parete con le braccia ciondolanti sui fianchi. I piedi scalzi sporgono dal bordo del letto, e le dita sono immobili. La chioma castana è sciupata, sbiadita. Gli cade sulle spalle come le foglie appassite di una pianta morente. Non riesco a incrociare lo sguardo con il suo, perché è rivolto verso il muro.
Già da qui si sentono i piagnucolii provenire dalla numero quattro. Francis si starà sicuramente lamentando per i fatti suoi. Il dottor Roderich raddrizza la schiena, allargando le spalle. Sa già che farà parecchia fatica ad ignorarlo. Quando passiamo di fianco alla finestrella della sua stanza, lui è già con i palmi incollati sul vetro. Lo sguardo è imbronciato, incorniciato dalla cascata di capelli dorati che gli ondeggiano sulle spalle. Non sento nulla di quello che borbottano le sue labbra sotto le guance gonfie dal nervosismo, ma faccio davvero fatica a non incrociare lo sguardo con il suo. Il dottor Roderich abbassa le palpebre davanti agli occhi, superando la stanza con la fierezza di un soldato in marcia. Francis ci segue con lo sguardo anche quando spariamo dalla sua vista, poi le sue lamentele ovattate svaniscono.
La numero tre. Kiku, avvolto tra il mucchio di coperte come al solito. Rallento il passo, non badando alla camminata del dottore che si fa sempre più spedita. Chino lo sguardo verso il fagotto bianco ammassato sulla brandina. Un occhio di Kiku emana un debole riflesso color nocciola verso di me, come se mi stesse spiando dalla sua oscurità. Le mie gambe si fermano,i piedi pestano il suolo. Si bloccano come trattenuti da una distesa di cemento ancora fresco e appiccicoso. Io e Kiku ci osserviamo a vicenda, quasi spiandoci, come se una scossa corresse tra i nostri sguardi. Poi, il mucchio di lenzuola si scosta leggermente, e la mano di Kiku emerge dalla stoffa infagottata attorno a lui.
Il mio cuore si ferma, il cervello si blocca, pietrificando ogni cellula del mio corpo. Il mignolo di Kiku volge la punta verso l’alto e si piega lievemente, abbassandosi verso le altre dita chiuse sul palmo.
La promessa.
Le mie labbra si schiudono, ma dalla bocca non esce una singola sillaba.
C’è qualcosa che non quadra. Io...
“Ciao, Feliciano.”
Una dolce vocina mi trapassa il cranio come un dardo rovente, riportandomi alla realtà. Ruoto gli occhi sul corridoio che serpeggia tra i muri, e incrocio lo sguardo di Matthew, chino davanti  a me.
Il ragazzo si appoggia lo spazzolone sopra una spalla, scostando con un leggero tocco del piede il secchio straripante di acqua grigia. Della schiuma galleggia sopra la superficie, incollandosi ai bordi del recipiente di plastica.
Matthew distende un lieve sorriso sulle labbra e una ciocca bionda gli ricade davanti agli occhi, finendo sopra una lente degli occhiali posati sul suo naso.
“Ah, c-ciao, Matthew.” Lo saluto, ricambiando il sorriso.
Lui si passa un dito sul ciuffo fulvo, scostandoselo dietro all’orecchio. La sottile ciocca gli ricade sulla spalla, sfiorando la divisa bianca.
“Sei stato a trovare Ludwig, oggi?” Mi domanda, sussurrando come un alito di vento.
Io inarco le sopracciglia, stringendo le spalle. I bordi delle mie labbra sono sempre lievemente piegati verso l’alto.
“Ehm, sì. Oggi... oggi abbiamo provato un nuovo tipo di terapia, ma...”
Abbasso gli occhi, celando tutta la sofferenza dietro ai capelli che mi ricadono sul viso.
“Ma non è andata molto bene. Sembra che ci vorrà ancora del tempo.”
“Ah, mi dispiace.” Sibila Matthew, abbassando le palpebre. “Vedrai che andrà meglio la prossima volta, ne sono sicuro.”  
Io annuisco, tornando a sollevare il capo.
“Sì, speriamo.” Sorrido, tentando di apparire più sereno possibile.
“E Lovino sta meglio?” Mi chiede lui, addolcendo lo sguardo. Per quanto possa risultare più dolce di così.
Al suono del nome di mio fratello, socchiudo le palpebre e mi mordo un labbro. Un sopracciglio si piega sopra l’occhio che torna lucido.
“N-no. Lui... lui è ancora...” Getto lo sguardo di lato, e le labbra iniziano a tremare. “È ancora grave, credo.”
Matthew si intristisce e china anche lui la fronte verso il basso, stringendo le dita attorno al manico in legno dello spazzolone. Di nuovo due ciocche di capelli si annodano attorno alla montatura degli occhiali.
“Mi dispiace. Non ti abbattere, dai.”
Abbassa le palpebre e mi sorride. Un sorriso sottile e debole che gli vela delicatamente le labbra.
“Andrà tutto meglio, vedrai:”
Io annuisco. “S-sì. Grazie, Matthew.”
Matthew sparisce alle mie spalle, portandosi dietro il suono trascinato delle rotelle del secchio che cigolano.
Faccio scorrere le dita sul muro, posando il palmo della mano sul vetro che mi separa da Kiku. Lui è tornato a ritirarsi sotto le lenzuola, e anche la luce del suo occhio si è spenta.
Kiku... cos’è successo veramente?
Il dottor Roderich è già sparito dalla mia vista e io mi affretto a seguirlo. Scollo la mano dalla finestra, lasciando un leggero alone dei miei polpastrelli.
Ecco la numero due che scorre al mio fianco. Arthur è seduto a gambe incrociate sul letto, una mano gesticola in aria, e le sue dita si agitano componendo cerchi e linee. Le sue labbra si muovono, borbottando qualcosa di confuso. Inarca le sopracciglia con fare imbronciato e le palpebre si strizzano davanti agli occhi. Gli passo vicino quasi correndo, e lui sparisce subito dalla mia vista. Ma, sono sicuro di aver visto, per un istante, un’ombra tozza ricoperta di peluria svolazzare attorno alla sua testa. Un luccichio smeraldino, poi, mi ha seguito proprio quando gli ho dato le spalle.
Il letto di Arthur è appoggiato alla parete che combacia con la numero uno, quella di Alfred. Infatti, lui se ne sta in piedi sulla sua brandina, con l’orecchio appoggiato sul muro una risata continua che gli scuote la schiena. Riesce sempre a trovare qualcosa per cui ridere, Alfred. Credo che ora stia cercando di chiamare Arthur, infatti ogni tanto batte il palmo della mano sulla parete. Ma lui non lo sente.
Nessuno è in grado di sentirli.
 
Il dottor Roderich chiude la porta dietro di me. La serratura scatta, e quel suono mi fa scorrere un brivido lungo tutta la schiena.
“Prego.” Mi dice lui, passandomi davanti.
Scosta la sedia davanti alla scrivania, spostando di lato lo schienale.
“Si accomodi.”
Il dottore lascia scivolare il Transfert dalla sua spalla e lo appende al bracciolo della sedia, dall’altra parte del tavolo. I cavi ciondolano, ma ora faccio fatica a distinguerne i colori. La luce che penetra dalla finestra è davvero pallida, e irradia solo poche strisce bianche che passano attraverso le tapparelle.
Il dottor Roderich si siede, appoggiando le spalle sullo schienale, e un debole raggio di luce gli sfiora gli occhiali, riflettendosi sulle lenti. Io obbedisco e mi lascio scivolare sulla seggiola che ha spostato. Richiamo le mani sul ventre e rannicchio le spalle, tendendo lo sguardo basso.
Un cassetto della scrivani scorre, e il dottor Roderich appoggia sulla superficie di legno scuro un blocco di fogli rigati da spesse linee nere. Sfila una penna scelta a caso da quelle riposte nella tasca cucita sul petto del camice – quella a sfera blu, con la serratura a scatto – e la impugna tra le dita ferme.
“Allora...” Comincia, premendo il pollice sul tappo retrattile.
Appoggia la punta della penna sulla carta e si aggiusta gli occhiali sul naso.
“Prima di tutto, com’era organizzata, la sua mente?”
Io aggrotto le sopracciglia e faccio scattare il capo, drizzandolo sulle spalle.
“P-prego?”
Lui sospira. “Voglio dire, dove vi trovavate? Avete rivissuto ricordi passati, magari riguardanti la sua infanzia? Oppure il momento dell’incidente? Insomma...”
Mi squadra da dietro le lenti, nascosto dall’ombra della stanza.
“Com’era fatta, la sua mente?”
Io esito, in un primo momento, poi traggo un profondo sospiro e mi preparo a rivivere tutto. Un’altra volta.
“Ecco... eravamo qui al Welt. Sì, e non erano dei ricordi, ma degli avvenimenti del tutto nuovi. Come una vita parallela nella sua testa.”
Il dottor Roderich abbassa lo sguardo sul foglio. La penna scorre, scarabocchiando segni a me incomprensibili tra le righe. Le sue pupille seguono attentamente ogni inchiostrata tracciata sul bianco.
Io proseguo. “Ma era un po’ diverso dal Welt. Era... era molto più pauroso, del tutto deserto. Le stanze e i corridoi, poi, erano del tutto bianchi e senza finestre. Le entrate, invece, avevano delle serrature molto più pesanti, come quelle che si vedono nelle casseforti. Ah, e sulle porte, poi, i numeri erano giganteschi, grandi quasi fino al soffitto.”
Il dottore annuisce, ma continua a scribacchiare.
“Mhm, certo.”
Solleva gli occhi al cielo e la penna si ferma.
“Ha ricreato dentro di sé la situazione attuale, ed è segno che sta vivendo molto intensamente il suo soggiorno al Welt. Poi, il bianco e le stanze vuote...” Si inumidisce le labbra. “Potrebbero rappresentare il suo stato mentale. Vuoto e senza ricordi che gli donino colori. Le finestre e le porte chiuse in quella maniera potrebbero rappresentare, invece, la sua condizione di prigionia che deve vivere qui al Welt.”
Torna ad abbassare gli occhi, e la sua penna va di nuovo a premere sulla carta.
“Bene. E lui che ruolo aveva in questa ambientazione? C’era qualcun altro con voi o eravate da soli?”
Io scuoto la testa, stropicciando con più forza le dita tra di loro.
“No. Ludwig era... era un medico, responsabile del Welt e dei pazienti.”
“Un medico?” Mi interrompe il dottore, sollevando un sopracciglio.
Io annuisco. “Sì. Lui era un dottore e si occupava dei pazienti rinchiusi nelle celle. C’erano davvero tutti, dottor Roderich! Anche Lovino, e Kiku, e...”
“Un momento. Vuole dire che lui ha ricreato perfettamente l’ambiente del Welt, anche con i pazienti reali ospitati qui?”
Le sue dita si stringono attorno alla penna, immobile sul foglio.
Io mi mordo un labbro.
“Sì, dottore. Ludwig si prendeva cura di tutti e noi abbiamo... abbiamo addirittura usato il Transfert su ognuno di loro. Li abbiamo esaminati uno per uno e, infine, Ludwig...” Mi stringo le spalle, accennando un sorriso. “Ludwig li ha tutti liberati dalle celle.”
Il dottor Roderich sospira, e abbandona il peso sullo schienale. Si mette una mano sotto il mento – quella che impugna la penna – e alza il naso al soffitto.
“Vediamo. Il fatto che lui si sia calato nel ruolo di un medico può significare che ha bisogno di imporsi come figura di riferimento, e in particolare per le persone che si trovano nella sua stessa condizione. Durante le sedute di gruppo...” Sospira a fondo. “Durante le sedute di gruppo è emerso più volte, questo lato del suo carattere. Evidentemente, nel suo subconscio nutre un profondo desiderio di evasione non solo per se stesso, ma anche per gli altri. Ecco perché li ha liberati, Herr Vargas. In più, il Transfert... beh... avrà capito che è uno strumento impiegato proprio per questo scopo e lo ha semplicemente proiettato dentro di sé per utilizzarlo sugli altri. Bene, molto interessante.”
Torna a chinarsi sulla scrivania, piazzando di nuovo la punta della penna sul foglio già mezzo scarabocchiato.
“Poi, lei che ruolo aveva, Herr Vargas?” Solleva gli occhi su di me, freddi. “L’ha riconosciuta, quando siete entrati in contatto?”
Io esito. Le mani giunte sul grembo si strofinano tra di loro, sciupando la stoffa della maglia.
“Ecco... io, all’inizio, ero lì solo per far visita a Lovino.” Dico, distogliendo lo sguardo dal suo.
Sento la penna che riprende a scrivere.
“Poi, quando ci siamo incontrati, Ludwig ha fatto una faccia strana, sconvolta, proprio come se mi avesse riconosciuto all’improvviso. Lui ha detto...” Mi porto una mano vicino alla bocca, trattenendo un risolino. “Lui ha detto che si era spaventato perché ero identico a Lovino, rinchiuso nella cella. Ma sono sicuro che, per qualche secondo, mi abbia riconosciuto. E succedeva davvero tante volte, dottore.”
Riprendo fiato, tornando a guardare davanti a me.
“E succedeva spesso anche che piccoli gesti o frasi facessero star male lui o me. Come dei giramenti di testa, o svenimenti.”
“Vuole dire gesti e frasi riguardanti i vostri ricordi passati?” Mi domanda lui, senza staccare gli occhi dal foglio.
Io annuisco. “Sì, proprio così.”
“È normale. Lei stava, appunto, provando a riportarlo indietro, anche se inconsciamente. Staccare un individuo dallo stato mentale in cui si trova non è sempre facile. Risulta sgradevole, il più delle volte, perché è come risvegliare improvvisamente una persona che dorme.”
Ruota le pupille verso di me. “Può essere anche doloroso, ed è per questo che i tentativi falliscono il più delle volte.”
Io sbatto le palpebre un paio di volte. Non credo di aver capito molto, ma non importa.
“Poi...” Continua il dottore, tornando con lo sguardo basso. “Lei cos’ha fatto, per trascorrere tutto il tempo con Herr Beilschmidt?”
Deglutisco, traendo una profondo respiro dal naso.          
“Io... io sono diventato un inserviente del Welt. Ho... ho sostituito...”
Strabuzzo gli occhi, trattenendo il fiato in gola. Punto l’indice sul dottore, e alzo il tono di voce.
“Matthew! Ecco, c’era anche Matthew, dottore!”
“M-Matthew?” Mi domanda lui, aggrottando le sopracciglia.
Si sistema gli occhiali, ricomponendosi. “Vuole dire Herr Williams?”
“Sì, esatto!” Rispondo io, annuendo. “Ma Ludwig non lo vedeva. Sapeva che esisteva un inserviente ma nessuno si accorgeva di lui. Io sì, però! Io sono stato l’unico ad incontrarlo, infatti.”
Il dottor Roderich traccia qualche segno sul foglio e si schiarisce la voce.
“I pazienti non incontrano mai il personale, è per questo che Herr Beilschmidt non ha potuto delineare un profilo corretto di Herr Williams, e quindi proiettarlo di conseguenza in questa sua, diciamo, realtà parallela. Tuttavia, Herr Beilschmidt sa che nel Welt reale esiste un inserviente, e svolge il suo lavoro saltuariamente, così ha solo riprodotto la sua funzione, ma senza una figura concreta.”
Il dottore continua a scrivere.
“Bene. Qualcun altro?”
“Mhm, sì: Gilbert! Si ricorda, è il fratello di Ludwig.”
Lui mi guarda con un sopracciglio inarcato e la bocca piegata in una smorfia.
Io provo a gesticolare, agitando le dita a mezz’aria.
“Ha presente il ragazzo che viene qui una volta al mese? Quello che fa un sacco di... di confusione.”
Il viso del dottor Roderich si deforma in una smorfia di disgusto. Abbassa le palpebre, arricciando il naso verso l’alto.
“Ah, Herr Beilschmidt.Ora ricordo.” Dice, con la fronte aggrottata.
Non credo che Gilbert gli sia molto simpatico.
“Probabilmente...” Sospira. “La proiezione del fratello simboleggia il profondo contatto con la vita precedente. È il legame che ha perso con ciò che gli era familiare. Le sue radici, ecco. I primi ricordi di un individuo sono relativi all’infanzia, ma Herr Beilschmidt ha perduto anche quelli, così ha provato a ricrearli incarnandoli nel fratello.”
La penna continua a scorrere, il rumore della punta che preme sulla carta sembra tagliare l’aria.
“Qualcun altro?”
Io alzo gli occhi al cielo, arricciando le labbra.
“Mhm, sì. Lei, dottor Roderich.”
Il dottore strabuzza gli occhi, facendo scattare il capo sulle spalle.
“I-io?” Mi domanda, inarcando le sopracciglia scure.
Annuisco. “Sì. Lei era il direttore generale, da quello che ho capito. È così che la vedeva Ludwig, da quel che mi ricordo.”
Il dottore ci pensa un attimo. Ruota le pupille al cielo, tamburellando la cima della penna sulle labbra.
“Direi che, visto che io ho assunto il ruolo della figura di riferimento, lui mi abbia proiettato sulla sommità della scala gerarchica anche nella sua realtà fittizia. Dato che è, in tutto e per tutto, una raffigurazione della sua mentalità.”
Di nuovo i suoi occhi che mi scrutano.
“Tutto qua? Nessun altro? Ci pensi bene.”
Io obbedisco e strizzo le palpebre, come sperando di concentrarmi di più. Poi spalanco gli occhi, e di nuovo il mio sguardo si incrocia con il suo.
“Ecco, forse non è importante, ma c’erano... c’erano delle infermiere. Erano le uniche, tranne noi, a girare per i corridoi ogni tanto. Erano...” Mi strofino la nuca, accennando un sorriso. “Erano molto carine.”
Il dottore aggrotta la fronte. “Infermiere?” Mi domanda.
Lascia vagare gli occhi nel vuoto per qualche istante, poi le sue guance si tingono di rosso e il suo viso diventa paonazzo.
Si schiarisce la voce, e si posa una mano sulla fronte, come per nascondersi. Il suo gomito è appoggiato di fianco al blocco di fogli.
“Ehm. È solo un’ipostesi, ma credo... credo che potrebbero rappresentare la sua... sessualità repressa.”
Io piego la testa di lato, poi mi porto una mano davanti alla bocca, quasi pentendomi di averglielo detto.
“Oh!”
“Un’ultima cosa.” Si affretta a dire lui, ricomponendosi.
Anche il suo tono torna serio, e il dottore mi guarda con occhi attenti.
“Ha detto che c’erano tutti i pazienti del Welt chiusi nelle rispettive celle. Ma, questo vuol dire che la cella numero nove, quella di Herr Beilschmidt, era vuota?”
Io esito per qualche secondo. Mi sembra ancora di sentire i brividi e i capogiri assalirmi di nuovo.
“Era una stanza strana.” Gli dico, stringendo le mani sul grembo. “Ogni volta in cui io e Ludwig entravamo, stavamo male. Proprio come se quella cella ci stesse risucchiando da un’altra parte. Ma faceva malissimo, la testa sembrava esplodere.”
“Capisco, capisco. È normale, Herr Vargas.” Risponde, riprendendo ad appuntare le informazioni.
“Vede, la cella numero nove era il vostro unico punto di contatto con l’esterno, con quella realtà in cui lei stava cercando di riportare Herr Beilschmidt. È lo stesso discorso che le ho fatto prima. Questo collegamento è fragile, e la sua rottura può risultare molto dolorosa.”
“Ah, già.”
Mi appoggio sullo schienale della sedia, e lascio ciondolare le braccia sui fianchi, allungando le dita verso il pavimento. La penombra della stanza è quasi soporifera.
“Ma non ce l’ho fatta a riportarlo indietro. Lui...” Deglutisco, sciogliendo il groppo alla gola. “Lui è rimasto lì, ed io l’ho lasciato.”
Il dottor Roderich smette di scarabocchiare e getta la penna di fianco alla pila di appunti. Anche lui mi imita, abbandonandosi sullo schienale. Incrocia le dita davanti alla bocca, con aria pensosa.
“Le ripeto che non deve preoccuparsi per questo.” Mi dice. “Il Transfert è una cura sperimentale del tutto nuova, e le informazioni che lei mi ha dato sono già risultate preziosissime. Avremo modo di riprovarci, Herr Vargas. Sa di non avere limitazioni, qui.”
“S-sì.” Rispondo, non del tutto convinto.
C’è ancora qualcosa. Il gesto di Kiku, lo sguardo fulmineo di Arthur, e anche le ultime parole di Ludwig.
No. È successo qualcos’altro, durante il processo.
“Ehm, dottor Roderich.”
Lui socchiude gli occhi, restando in silenzio.
Io mi inumidisco le labbra.
“Può essere che, durante il processo, tutte le menti dei pazienti si siano riuscite a collegare con quella di Ludwig, e ad entrare tutte in contatto fra di loro?”
Il dottore inarca un sopracciglio, e si sporge sulla scrivania.
“Non credo di capire.” Mi dice, squadrandomi con aria fredda.
Io mi schiarisco la voce. “Ecco, nel tempo in cui sono stato nella mente di Ludwig sono successe molte cose, ed è come... come se tutti gli altri pazienti avessero provato a contattarmi, e avessero fatto vedere sia a me che a Ludwig quelle cose per dimostrarci che in realtà...”
Traggo un profondo sospiro, provando ad organizzare i pensieri.
“È come se loro avessero voluto dirci qualcosa. Inviarmi un messaggio, una richiesta d’aiuto. E hanno usato la mente di Ludwig come... come...”
Mi porto due dita su una tempia, tamburellando sul cranio. Le mie sopracciglia si inarcano.
“Com’è quella parola?” Piagnucolo.
Il dottore aggrotta la fronte, alzando le spalle. “Ehm, connettore?”
“S-sì! Sì, ecco. Lo hanno usato come connettore, e grazie a lui sono entrati tutti in reciproco contatto.”
Mi sporgo in avanti e appoggio le mani sulla scrivania. Tendo il collo verso il dottor Roderich, assumendo un’aria pietosa.
“Mi hanno chiamato, dottore! Io sono sicuro che mi abbiano inviato un messaggio tramite Ludwig per chiedermi aiuto. Dobbiamo...”
Mi alzo dalla sedia, che trascino sul pavimento. Volto il viso sulla finestra oscurata dalla tapparella, e mi accorgo solo ora che sto tramando. I pugni stretti sui fianchi iniziano a sudare.
“Dobbiamo utilizzare il Transfert non solo su Ludwig, ma su ognuno di loro. E provarci fino a che non dimostreremo ciò che loro tutti hanno già fatto vedere a me, o a Ludwig. Possiamo liberarli. Sì, io posso...”
Herr Vargas.” Mi chiama il dottore.
La sua voce ferma, quasi serena, mi uccide le parole in bocca. Mi torno a voltare verso di lui, e il dottore mi squadra con due occhi di ghiaccio.
La sua sedia si strofina sul pavimento, spalmando sulle piastrelle un suono agghiacciante. Il dottor Roderich si alza, sistemandosi di nuovo gli occhiali sul naso, spingendoli con una nocca.
“Quelle che lei dice sono solo supposizioni. Non c’è nulla di certo, lo capisce?”
“Sì, ma... ma se ci fosse una probabilità, allora tutti potrebbero... e noi dobbiamo...”
“Non ci sono possibilità, Herr Vargas!”
Ha alzato il tono. Fa quasi paura.
Io scatto, riparandomi il petto con le mani chiuse a pugno. Il dottore trae un profondo sospiro, e le sue spalle si abbassano. L’aria serena scompare, quasi sciogliendosi, e lui si copre il viso con una mano, appoggiando le dita sulle tempie.
“Non volevo farlo, Herr Vargas, ma lei mi costringe a dirglielo.”
Sgrano gli occhi, sentendo il sangue ghiacciarsi nelle vene.
Deglutisco, sbattendo le palpebre.
“Dirmi... dirmi che cosa?”
Lui sospira, lasciando scivolare le dita dal viso. I suoi occhi sono chiusi, e hanno un’aria avvilita.
Herr Vargas, lei... lei sa perché ci sono così poche persone qui al Welt, e perché è una clinica così esclusiva?”
Io esito, poi annuisco.
“Beh, perché... perché è la migliore clinica psi... psichiatrica in Europa.”
Il dottore scuote la testa. Un gesto che mi fa sprofondare nel pavimento.
“Purtroppo no, Herr Vargas. Glielo abbiamo detto solo per... per farla aggrappare ad un qualche tipo di speranza. Vede, il Welt...” Inspira, sollevando la fronte verso il soffitto. “Il Welt si prende carico di tutti quei casi di cui nessuno può occuparsi perché totalmente incurabili. Le altre cliniche ci affidano questi pazienti perché noi abbiamo le strutture idonee per renderli inoffensivi, non perché utilizziamo sistemi all’avanguardia in campo medico. Nessuno può guarire qui dentro, Herr Vargas.”
I suoi occhi mi squadrano dall’alto. Uno sguardo gelido, quasi estraneo.
“Nessuno.”
 
Nessuno può lasciare il Welt...
 
Il cuore mi esplode in mezzo al petto. Rimango pietrificato, con gli occhi vuoti, sgranati nell’oblio.
“Co... cosa?”
Le mie labbra rimangono socchiuse, e non smettono di tremare insieme al resto del mio corpo.
Il dottor Roderich abbassa il capo.
“Mi dispiace, Herr Vargas. Le ho permesso di usare il Transfert solo sperando di darle un qualche conforto. Devo confessarle che, in parte, speravo che questo processo la convincesse a gettare la spugna, perché sapevo che non sarebbe andato a buon fine. Ma, la verità è che il Transfert è solamente un giocattolo. Un connettore di pensieri messo insieme dalla mente di qualche scienziato balordo.” Scuote la testa. “Nulla a che vedere con la medicina vera.”
Riprende fiato, portandosi le mani dietro la schiena.
“Ludwig Beilschmidt non riacquisterà mai più la memoria, e non c’è alcuna possibilità che Lovino Vargas guarisca dall’isteria. È per questo che i medici hanno acconsentito al suo trasferimento. È vero anche che nessun altro paziente tornerà alla normalità.”
Mi porto tutte e due le mani sul petto. Stringo la presa, piegandomi su me stesso come un riccio. Trattengo a fatica le lacrime che ribollono nello stomaco in fiamme, ma gli occhi iniziano già a pizzicare.
Credo sia questo che si prova quando si muore. Perché queste parole mi hanno appena ucciso. Non c’è altra spiegazione per questo dolore.
Il dottor Roderich mi dà le spalle, si volta lentamente verso il muro, appoggiando una mano sullo schienale della sedia. È lui ad interrompere questo silenzio tombale che ci avvolge.
“Torni a casa, Herr Vargas.”
Io strabuzzo gli occhi, ma senza sollevarli da terra.
“Lasci il Welt, lasci Berlino, e torni in Italia. Almeno lei...” Sospira a fondo. “Almeno lei riprenda a vivere la sua vita e cerchi di essere felice.”
Come può chiedermi questo?
Inarco le sopracciglia, chiudendo le palpebre davanti agli occhi. Le spalle si rilassano, e anche i muscoli del viso si distendono. Scuoto la testa, e i capelli ondeggiano davanti alla fronte.
 
... nemmeno tu potrai.
 
“No... io...”
Tento di sorridere, ricacciando il pianto in gola, soffocandolo nel petto.
“Io non posso abbandonarlo. Non posso abbandonare nessuno di loro. Non dopo quello che ho fatto, capisce? Non dopo aver dato a tutti un briciolo di speranza a cui aggrapparsi.”
Sollevo il capo, e il dottore mi sta guardando dalla penombra. Tiro su col naso, provando anche ad indurire il tono. I pugni stringono sui fianchi.
“Voglio riprovarci. Userò di nuovo il Transfert su ognuno di loro. E, se non funzionerà, lo farò ancora, e ancora, e ancora. Fino a che non li porterò tutti fuori.”
Scuoto di nuovo la testa, e seguo la luce che filtra dalla finestra. Mi avvicino al vetro con passi vacillanti.
“Non li abbandonerò, e non abbandonerò nemmeno Ludwig.”
Mi appoggio alla finestra, premendo una palmo della mano sul vetro.
“Ci siamo fatti una promessa. Io lo avrei aspettato fino a che lui non sarebbe tornato. E... e Ludwig non è ancora tornato. È perso in qualche angolino della sua mente, ma io lo troverò. Lo troverò e lo riporterò a casa.”
Piego un sorriso sulle labbra, lasciandomi abbracciare dalle strisce di luce che filtrano dalla tapparella.
“Io lo aspetterò. Lo aspetterò...”
Una lacrima rotola giù dalla palpebra, rigandomi la guancia. Solca una traccia di speranza nel mio dolore.
“... per sempre.”
 
 
FiNE
 
N.d.A. Innanzitutto, ti ringrazio per essere arrivato fino in fondo. ^_^
Questa storia per me è stato un vero e proprio salto nel buio. Quando  ho iniziato a scriverla, non avevo la più pallida idea di come sarebbe finita, nè tantomeno di cosa sarebbe successo nel corso dei capitoli.
È stata particolarmente divertente e stimolante da scrivere in certi punti, ma altrettanto faticosa in altri.
Dunque, se sono arrivata fino a qui è tutto merito vostro! E non è un modo di dire, lo giuro.
Desidero ringraziarvi tutti per il sostegno, e per le belle parole di incoraggiamento che mi hanno spinta ad andare avanti anche nei momenti di difficoltà.
Ringrazio tutti coloro che hanno recensito, quelli che hanno inserito la storia tra le preferite o tra quelle da ricordare. ^_^
Questa storia non sarebbe mai esistita senza di voi!
Vi ringrazio un'ultima volta (anche se servirebbero migliaia di pagine per esprimere la mia gratitudine XD), e desidero scusarmi con quelli a cui non è piaciuta (ho fatto del mio meglio, perdonatemi ^^").
       Grazie di cuore, caro lettore. *inchino*
 
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