Mad.

di Mad_Blood
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** You promised me. ***
Capitolo 2: *** Edward live in me. ***
Capitolo 3: *** This place is the Hell. ***
Capitolo 4: *** You don't deserve this. ***
Capitolo 5: *** Bob. ***
Capitolo 6: *** I want to know. ***



Capitolo 1
*** You promised me. ***


«Mamma farà ritardo stasera, ma non ti preoccupare piccola, Kate rimarrà con te tutto il tempo»
«Ho sete, e mi brucia la gola»
«Ti prometto tesoro mio che stasera guariremo quella gola malata»
«Ne voglio tanto»
«È quello che avrai»
«Giuri?»
«Si, te lo giuro»
«Mignolino?»
«Mignolino. Kate è arrivata. Ti voglio bene. Ciao pulce»
«Ciao mammina»


‘Tic Toc.’
‘Tic Toc.’
‘Tic Toc.’
Trentacinque minuti, cinquantasette secondi.
Cinquantotto.
Cinquantanove.
La sete la stava uccidendo. Nessun tipo di distrazione riusciva a placare per almeno qualche secondo quell’ardente desiderio di bere, di sentire scorrere nelle vene quel liquido peccatore. Tentò varie volte di seguire il ticchettio di quell’antiquato orologio di legno, vecchio quanto prezioso, ma dopo solo pochi secondi quel dolce suono le risuonava in testa come un fastidioso rintocco, e la sete continuava a comandare sul corpo ormai sottomesso e stanco. Impaziente, ordinava di bere, distruggendo così le ultime risorse della bambina. Si, la bambina. La vita le apparteneva da quattro anni ormai, e da quattro anni viveva la stessa straziante sofferenza ogni volta che aveva sete, il che, via via crescendo, le capitava sempre più spesso. 
Da ore stava attaccata a quell’orologio, seduta sulla sua appariscente e piccola seggiola rosa, a tentare d’obbligare il tempo di scorrere più velocemente. Davanti a se, imponente e lucido, il mobiletto dei ricordi. Era alto poco più della minuta bambina, la quale poteva facilmente raggiungerlo con la sua sedia. Esso portava al suo interno le solite scartoffie del disordinato padre, e sopra di esso, coperto da un sottile strato di polvere, i ricordi del periodo del liceo dei genitori. Cornici dorate molto rovinate, caratterizzate da una semplice ma allo stesso elaborata forma rettangolare, raffiguranti varie scene di quella stravagante epoca. Le medaglie del nuoto di mamma Charlie, e le infinite coppe del baseball di papà. La mazza e la palla autografata; la foto del giornale, la quale rappresentava la vecchia squadra di baseball del lontano ’82, quando aveva vinto per la prima volta il torneo nazionale. La carriera da nuotatrice professionista di mamma, ad un soffio dalle olimpiadi, il sogno frantumato dalla gravidanza della prima figlia, morta in un incidente domestico avvolto nel mistero qualche anno dopo la sua nascita. Ora invece, inaspettatamente, il padre era uno degli uomini più ricchi del paese. 
La porta socchiusa si aprì, mostrando il volto inquisitorio di Kate, sorpresa di tutto quel silenzio. Si avvicinò alla creatura, che non la degnò di uno sguardo.
«Hai fame? Vuoi una bella macedonia?»
«No. Ho sete»
«Oggi allora faremo un pieno di vitamine C»
«Niente aranciata, grazie»
«Acqua?»
«No»
«Ah, ho capito. Un bicchierone di latte caldo prima di andare a letto»
«No, neanche»
«Non capisco. Avevi detto che avevi sete»
«Appunto»
«Sai che non puoi bere la Coca, Charlotte l’ha vietata»
«La tua voce è fastidiosa»
«Come?»
«Sangue»
Si voltò, i suoi occhi sui suoi, maledettamente desiderosi di placare la sete.
«Cosa?»
«Sangue. Voglio bere sangue. Ora» 
«No, non riesco a c-capire»
«Nessuno può capire»
D’un tratto la sua pupilla scomparì, e la retina degli occhi si colorò di un nero opaco. Capitò quel che temeva. La sete aveva preso in tutto per tutto il pieno controllo del suo debole corpo. In un secondo, stringeva già in un palmo la pesante palla da baseball del mobiletto dei ricordi.
Il pallido volto di Kate, dal pensiero del prossimo passo della bambina.
Stava vivendo un incubo.
Era solo un incubo.
Niente di più.
Ma non fu così.
«M-ma questo non può… non può succedere»
«Scusami»
La bambina si mise in posizione di lancio, prendendo la mira verso la pancia, in modo che cada a terra.
Kate cominciò a correre in cerca di una via di fuga in quella sala infinita. La mente confusa da quello che stava accadendo. Non poteva essere possibile. Non doveva essere possibile. Non credeva fosse vero, ma non fece in tempo a riordinare tutti questi pensieri, che la palla finì dritta contro il suo ventre, causando un dolore tremendo a lei… e al feto. Il suo corpo si accasciò a terra, il volto terrificato e preoccupato per il bambino in grembo.



«Kate? Kate?! Dove sei?»
Lo sguardo della madre roteava da una stanza all'altra, alla disperata ricerca d'incrociare gli occhi dell'amica. Allo stesso tempo temeva la reazione della sua piccola bambina, di quando si sarebbe accorta che il sangue il quale le aveva promesso non c'era. Pensò che probabilmente avrebbe pianto, oppure avrebbe fatto solo un po' di capricci. Insomma, come di solito fanno i bambini della sua età.
Certamente Charlotte non era pronta a quello che stava per vedere.
Scavalcò le porte di legno della cucina, arrivando così al salone principale. Rimase inorridita dalla cruda scena che si stava svolgendo in quel preciso istante. 
Il viso privo di espressione di Kate, il suo corpo inerme, posato a contatto del pavimento come se fosse uno straccio; un liquido rosso circondava la sua figura rigida e senza vita, liquido scuro, sporco. Nulla poteva più traumatizzare quanto la vista di una piccola bambina con le intenzioni di 'leccare' dal pavimento in ceramica tutto quel sangue. Il suo grazioso vestito bianco, ora si confondeva tra quel fiume, quell'osceno fiume di dolore e sofferenza. Almeno, era questo che Charlotte pensava avesse provato Kate. Pensava.
«Hai visto mamma? Ora ho tutto il sangue che voglio!»
La donna pietrificata dette inizio ad un pianto isterico, ancora incredula di quello che stava succedendo. Sapeva che la figlia aveva qualcosa di 'anormale' rispetto agli altri bambini, ma aveva pur sempre quattro anni; com'era stata in grado di causare questo? Charlotte aveva paura di avvicinarsi. Aveva paura di poter solo toccare per un istante il corpo di Kate, o peggio ancora, di sfiorare la sua anima, o quella della seconda vita all'interno della donna. Quel bambino che aveva sempre desiderato, il quale lo avrebbe viziato d'amore, nonostante li avessero diagnosticato la sindrome di Down. Quel bambino che sarebbe dovuto nascere tra due settimane. 
Rimase appoggiata alla parete, non poco distante dalla porta che qualche minuto fa aveva scavalcato, inconsapevole a cosa andava incontro. 
«Mamma? Mammina? Non sei felice per me?» il tono angelico della bambina faceva un enorme contrasto con la sua vera natura. 
«Mamma è f-f-felice per te piccola mia. Si, è felice»
«Perché piangi allora?»
«G-gioia» mentì la madre.
«Ne vuoi un po'?» si alzò lentamente, e camminando con i piedi scalzi verso la madre, tese quella sporca mano.
«No, no, è-è tuo bambina mia» le disse scuotendo la testa, ancora in preda allo scorrere delle lacrime. Lacrime che bruciavano sulla pelle stanca.
«Si, hai ragione» un sorriso si disegnò in quel suo volto perfetto. Qualcosa di divino le apparteneva.
«Adesso che ci penso mammina, ho ancora sete. Dov'è quello che mi hai promesso?
Quelle parole provocarono un tremito sulla schiena di Charlotte. È sua madre, l'avrebbe risparmiata, sicuramente. Si, l'avrebbe fatto. 
«Piccola, non, non...»
«Me l'avevi promesso»
«Non...»
«Avevi giurato. Abbiamo fatto il patto del mignolino. Avevi giurato!» i suoi occhi accusatori, occhi che uccidono. 
«Mi dispiace»
«Non importa. Rimedieremo al danno»
«Co-cosa intendi dire con questo?» il suo pianto si trasformò in terrore, un terrificante presentimento. Tutto quello che era logico, in quella stanza, in quel preciso momento, perdeva il suo significato, il suo senso.
«Non preoccuparti Charlie. Non farà male»

Il cuore della madre, prima pulsante, si raggelò metaforicamente, e cominciò a temere la sua sorte più che mai. La bambina si avviò nella direzione del mobiletto dei ricordi, e aiutandosi con la sua sedia, prese in mano la mazza da baseball.
Le intenzioni furono chiare dal principio, ma Charlotte faticava ancora a crederci.
«Che vita difficile, vero? Avreste dovuto lasciarmi in ospedale, il giorno della mia nascita. Avreste dovuto non riconoscermi come vostra figlia. Sarei stata affidata a ‘mani esperte’ che probabilmente mi avrebbero guarito. Ma voi due, stupidi allocchi, avete voluto provare, perché mi amavate, e nonostante il mio problema, mi avete portato a casa, trattandomi come una bambina normale. Poi arrivava l’ora della pappa e…»
«Noi volevamo solo che tu avessi una vita come tutti gli altri. Lo abbiamo fatto per il tuo bene. Crescerai, e guarirai»
«Sei stata egoista Charlotte. Molto egoista, e per questo devi pagare»


-People were born to live. She was born to kill.-





Piacere, Sara.
Spero che vi sia piaciuto questo primo inizio della mia storia.
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HANKS. -Mad. x
 

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Capitolo 2
*** Edward live in me. ***


«Ora calmati. 
Calmati assolutamente.
Tu non sei pazzo. No, non lo sei. 
Sei bello, alto, attraente, sensuale, e molto altro, ma non pazzo.
Gli unici pazzi in questa storia sono i tuoi genitori. Paranoici, ecco cosa sono.
E hanno intenzione di mandarti da uno psichiatra? Bene, io non glielo permetterò.
Non rovinerai così il tuo ultimo anno. Festa, sballo, giorno e notte. 
Che ci vadano loro da uno strizza cervelli. Ho una reputazione io, e loro non sanno di cosa stanno parlando.
Ammetti però, che certe volte, ti hanno visto parlare da solo.
Ma credo sia assolutamente normale che uno entri in uno stato di caos mentale quando è in punizione e non può partecipare alla festa più bella della settimana.
Anche se ci sei andato lo stesso.
E non è stato un granché.
Soprattutto quando stavi per fare a botte.
Con un genitore.
Se l'è cercata.
Oppure capitava che lui ti cercasse. Ma di questo non avevi colpa.

Ma sto parlando da solo.
In questo momento.
Ancora.
Davanti allo specchio.
E mi sto dando del tu.
Da solo.
Sono pazzo.
Merda»

Mi bagnai il viso con dell'acqua fredda, con l'intento e il desiderio di risvegliarmi da un brutto sogno. Ma non funzionò.
Alzai lo sguardo, di nuovo, verso lo specchio, guardandomi negli occhi. 

«Tu la faccia da pazzo non ce l'hai, intesi? Intesi»  dissi puntandomi il dito contro e convinto come non mai.
Sentii un rumore di passi provenire alla mia destra. Mi voltai verso quella direzione, e trovai Violet dinanzi a me.
Era scioccata, ma allo stesso tempo divertita. Notai il suo cellulare in mano, e non riuscì a trattenersi dal ridere fragorosamente.
 «Tu, non...»

«Oh, si. Dalla prima all'ultima parola. Tutto»
«Non...»
«Eh, si. Ho anche filmato tutto»
«Cancellalo» il mio tono risultò più duro di quello che mi aspettavo.
Non era la prima volta che Violet mi tirava colpi bassi come quelli, ma stavolta, se i miei genitori, o peggio ancora, i miei compagni, avessero visto quel video, la mia vita...

Non voglio nemmeno pensarci.
«Aspetta, lasciami pensare»
«Quanto vuoi?»
«Vedo che qualcosa c'è lì dentro, fratellone» indicò la mia testa. Non era divertente. No.
«Spara, quanto vuoi?»
«250 dollari»
Rimasi interdetto a quelle parole. 
Che cosa le passava per la testa a quella squilibrata? Era lei la pazza, non io.
«A cosa ti servono?» improvvisai un tono calmo. Non fu esattamente così.
«L'ho vista, e me ne sono innamorata» un'aria sognante apparì sul suo volto. Falsa.
«Muoviti a dirmi di cosa si tratta»
«Una collana. Nella vetrina di Tiffany»
Non avevo altra scelta. Tirai fuori dalla tasca posteriore il portafoglio.
Vidi la sua espressione colma di gioia ed eccitazione.
Stronza.



«E se avessi qualcosa di grave?» le rivolsi la domanda tutt'ad un fiato.
In un primo momento mi guardò confusa, e poi capì.
Smise di scrivere, e mi fece sedere nel divano rosso vicino al suo prezioso scrittoio. In un movimento dolce e lento, appoggiò graziosamente la sua mano su una mia guancia, accarazzandola come solo una madre sa fare.
Quel gesto valeva più di mille parole.

«Noi ti vorremo bene lo stesso. Non devi aver paura, il dottor Davis ha detto che non dovrebbe essere nulla di grave»
Il signor Davis non riuscirebbe a distinguere un atomo da una molecola.
Mi chiedo come mai abbia una laurea una medicina. Se la sarà comprata da quei venditori ambulanti che girano per New York vedendo di tutto.
Non fiatai una parola per rispondere a mia madre. Annuii solamente.
Lei si alzò, dirigendosi verso il telefono cordless appoggiato nel mobiletto.

'Harold Deklan Styles, ma che cazzo stai facendo? Hai fumato fratello? Tu non puoi. Tu non devi.'
«Lasciami in pace Edward»
«Hai detto qualcosa Harry?»
«Io? Niente» replicai nervosamente.
«Dai, hai l'appuntamento tra mezz'ora»
«A-a-adesso?»
«Si, Harry, adesso»
«E vieni anche tu?»
«Si, ti accompagno» 
«Resta dove sei,tu. Vado da solo»
«Ti perderai»
«Quanta fiducia, madre»
«E va bene, prendi questo, e queste» mi porse un biglietto da visita, e le chiavi della macchina. 
«La porsche?» sorrisi estasiato.
«Non me ne fare pentire»
«Fidati. E non mi perderò»
Destinazione: William Street.



«Mamma, mi sono perso

No, non sono...

L'ospedale? Perché non me l'hai detto prima?!

Si, ho capito. E smettila di urlare.

Sono arrivato e sono ancora vivo. Contenta?

No, nessun graffio alla macchina.

Sto entrando, ci vediamo a casa» riattacai, seccato.
Mi diressi verso l'ospedale psichiatrico, comunemente conosciuto come manicomio.
In realtà esso non era altro che un distretto adiacente all'ospedale.
Per le strade di New York girano voci che nel distretto si trovassero i malati più gravi e in un certo senso, pericolosi.
Non sapevo se fosse vero o solo una stupida diceria, ma non volevo di certo scopriprlo.

'Mi stai deludendo Harold. Non pensavo che tu potessi cadere così in basso.'
«È colpa tua se sono qui, stronzo»
'Calmati, calmati. È così che ti rivolgi a tuo fratello?'
«Mi hai rotto il cazzo Edward. Hai intenzione di lasciarmi in pace?»
'Tu hai bisogno di me. Non fare parola di me allo strizza cervelli'
«Sarà la prima cosa che glidirò»

'Non oseresti. Dopo tutto quello che ho fatto per te'
«Vedo infatti»
Edward non rispose più. Strano, voleva avere sempre lui l'ultima parola. 
Arrivai alla reception.
Vuoto.
In giro non c'era nessuno. Abbastanza raccapricciante. Mi diressi verso lo studio in fondo quel buio corridoio. Ancora più raccapriciante. 
Notai una porta blindata. 
I brividi percorsero la mia schiena.
Una porta blindata?! Stiamo scherzando?!
Aumentai la velocità dei passi, in modo da allontanarmi il più possibile da lì.


«Lui vive dentro di me. Quando sono solo, lui comincia a parlarmi. A volte è divertente conversare con lui. È un ottimo amico. Se solo fosse vivo»
«Quindi dovrei dedurre che lei stia parlando di un'amico immaginario?»
«Non sono uno schizofrenico» ruggii.
«Di chi sta parlando allora?»
«Lui è Edward Alexander Styles, ed è il mio gemello. O almeno, lo era, finché non è morto»
«Me ne può parlare meglio?»
«Lo sa che questo lettino è davvero comodo?» mi voltai verso il signor Gregory.
Volevo evitare l'argomento.
«Signor Styles, la prego»
Mi sdraiai di nuovo, rassegnato.
«È successo dieci anni fa. Avevamo entrambi otto anni, quasi. Eravamo usciti a giocare in cortile, come ogni giorno. Edward soffriva d'asma, ed era costretto a portarsi sempre con se un 'coso', di cui non ricordo il nome, che li permetteva di respirare. Per questo molti bambini, anche ragazzi molto più grandi, lo prendevano in giro. Mentre giocavamo a pallone, lui in porta ed io a tirare, dei ragazzi molto robusti si avvicinarono a noi. Penso avessero avuto 12 o 13 anni. Volevano giocare con noi, ma noi non li conoscevamo. Era degli sconosciuti. Si arrabbiarono molto e...» non riuscii a continuare. Nella mia testa stavo rivivendo quella scena.
«Continui signor Styles, e non si vergogni di esternare i suoi sentimenti. Anzi la sprono a farlo»
«Ha finito di darmi del lei?» dissi quasi urlando, arrabbiato.
«Come vuoi.
Stavi dicendo?» rimase impassibile, nonostante io li abbia urlato contro.

«Quei ragazzi rovistarono nella borsa di Edward, prendendo con se il 'coso', e ci rincorsero per quasi un miglio con l'intento di riempirci di botte. Ebbe un attacco asma, e morì asfissiato davanti ai miei occhi»
«Eri molto legato a lui?»
Non risposi. Rimasi ad osservare il soffitto, triste. Più triste che mai.
«Harry, eri molto legato a lui? Rispondi»
«Io e lui eravamo una cosa sola. Io e lui siamo una cosa sola.
Sa una cosa dottore?»
«Chiamami Finn»
«Lui parla al posto mio»
«Che cosa intendi con questo esattamente?»
Avevo uno sguardo perso nel vuoto.
«Quando sono a casa completamente solo, cado in uno stato di trance, e lui comincia a parlare.
Guarda il mondo attraverso i miei occhi. Si sfoga. Per qualche momento lui vive. E io sono contento»
«Non hai mai cercato di impedirglielo?»
«Come potrei? Edward fa parte di me.
A volte litigo con lui, perché non voglio più che s'intrometti nella mia vita. Ma poi mi pento, perché in fondo gli voglio bene. Un bene infinito. E lui ha ragione quando dice che non potrei vivere senza di lui»
«Che tipo è Edward?»
«Simpatico»
«E tu che tipo sei Harry? Con i tuoi amici come sei? A scuola?»
«Non sono un emarginato come sono sicuro che pensi Finn, anzi.
Sono uno dei ragazzi più popolari della scuola.
Ho una vita sociale costantemente attiva, vado alla feste, esco con gli amici e il resto»

«Deduco che sei pieno di amici»
«Deduci bene Finn, deduci bene» Annuii con la testa
«Ma nonostante questo ti senti solo»
«Non fraintedere. La gente fa a pugni per diventare mia amica, ma a volte preferisco di gran lunga la compagnia di Edward»
«Non lo sa nessuno, vero? Intendo, di lui»
«La mia vita diventerebbe un incubo se qualcuno lo venisse a sapere.
Sarai sommerso di giudizi negativi sul mio conto, ed Edward potrebbe sentirsi in colpa.
Potrebbe andarsene. E io non voglio. Nemmeno la mia famiglia lo sa»

«Sei fidanzato? Hai la ragazza?»
«Vuoi invintarmi ad uscire Finn?» dissi in tono divertito, voltandomi verso di lui.
Rise.
«Questo sabato sono occupato, magari il prossimo.

Comunque no. Sono in cerca di una relazione seria»
«T'immaginavo un donnaiolo»
«Uno psicologo che fa pregiudizi? Questa me la segno»
Rise di nuovo.
«Per oggi abbiamo finito Harry» disse raccogliendo tutti i suoi foglietti.
Per tutta la 'chiacchierata' aveva preso appunti. Su di me. Ero curioso di sapere cosa avesse scritto.
«Come, di già? Cominciavi ad essermi simpatico» 
«La seduta dura un'ora, e noi abbiamo parlato per un'ora»
«Come passa veloce il tempo. Allora, ci rivediamo?»
«Domani»
«Come domani? Non è una seduta alla settimana? Sono messo così male?»
«Hai bisog-»
«Non mi dispiace chiacchierare con lei, perciò nessun problema. Immagino che sia una seduta tutti i giorni tranne i weekend e le feste» lo interruppi senza esitazione.
«Esattamente»
Uscii da quell'ufficio, e mi fermai. Stavo aspettando Edward. Dovevo scusarmi con lui.



'Quel Finn non è male'
«Lo penso anch'io»
'Posso chiederti una cosa?'
«Dimmi»
'Sono un peso per te? Io non voglio esserlo. Ma non voglio allontanarmi da te. Sei l'unica famiglia che ho'
«Non ti libererai di me molto facilmente. Non voglio che tu te ne vada»
'Io sono morto'
«Il tuo corpo può essere morto, ma la tua anima rimarrà qua» con un dito indicai il mio cuore. Lui era lì, e non ne sarebbe uscito.
'Ti chiedo scusa. In questi giorni sono stato molto scontroso nei tuoi confronti. Dopotutto, tu sei il mio fratellone'
«Sono nato prima di te di cinque minuti» risi.
'Rimarrai lo stesso il mio fratellone. Ti voglio bene Harry'
«Ti voglio bene anch'io Edward»
'Stai piangendo? Harry, stai piangendo?'
«Si»
'Non piangere. Ci sono qua io con te. 
Io e te. Siamo una cosa sola, ricordi?'






Hei, finalmente sono riuscita ad aggiornare.
Per spiegare un po' meglio, il primo capitolo si trattava di un breve flash back.
Da qui, comincia la narrazione dell'intera storia.
Spero vi sia piaciuto, perché l'ho scritto col cuore in mano.
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Capitolo 3
*** This place is the Hell. ***


E nella mia testa tentavo invano di bruciare la verità, tormentandomi per trovare una via di fuga.
Non avevo fatto nulla di male per ritrovarmi qui.
Parlare con Finn è stato come liberarmi di un peso che mi opprimeva, di cui non potevo rivelare niente a nessuno. Ma ero qui, in questo maledetto manicomio, solo per sfogarmi, giusto? Niente di più, credo.
Non ne ero più certo. Cercavo mille scuse per negare l'evidenza.
Non c'era niente di male nel parlare con un fratello, anche se quest'ultimo era morto.
Perché quando si muore, non tutto di noi scompare; una traccia incisa col sangue rimane nel cuore delle persone che ti hanno amato.
Edward aveva firmato nel mio, mentre stava morendo.
E allora perché mi sentivo diverso?
Perché mi sentivo strano?
Erano quelle pareti a confondere la mia mente, a mettermi in soggezione. Ora ero nel loro territorio, e non ne sarei uscito facilmente. Lo sentivo.
Il mio sguardo vagava nel vuoto, in cerca di una disperata risposta, invano.
Decisi di alzarmi, ma sentii le mie gambe molli. Feci uno sforzo enorme prima di potermi reggere in piedi senza barcollare. Asciugai le mie lacrime con la manica della giacca di pelle nera.
Dovevo eliminare quel senso di frustrazione; avevo bisogno di bere in quantità industriale. Era l'unica soluzione che mi passava per la testa in quel momento.
M'inoltrai verso l'uscita da quel corridoio terrificante, quando vidi quella porta blindata.
Socchiusa.
Mi fermai di colpo prima di sorpassarla. Ero curioso di sapere chi vi "abitasse".
'Cazzo, guarda chi c'è dentro'
«Non voglio rischiare» sussurrai.
'Solo qualche secondo, e dopo ce ne andiamo'
«E se mi uccidesse? Siamo pur sempre in un manicomio»
'Non rompere Harry e muoviti'
Obbedii alle sue parole, e mi avvicinai alla porta, nascondendomi perfettamente.
Sporgendomi cautamente potevo scorgere...una ragazza?
Si, era una ragazza.
Era sdraiata su un lettino da spiaggia, con il capo chino e lo sguardo assorto su un libro.
Aveva i capelli di un rosso sangue scuro, sicuramente tinto. Questi facevano contrasto con la sua pelle che ai miei occhi sembrava di un colore misto tra il roseo e il bianco latte. Indossava solamente una camicia di un color azzurro cielo, che teneva aperto, mostrando il suo ventre piatto e il reggiseno nero.
Degli shorts di jeans terminavano il suo semplice abbigliamento. Nella sua pelle non notavo nessun segno di brivido ipoteticamente causato dal freddo di quel luogo. Non riuscii a levare i miei occhi da lei.
Era così bella.
Improvvisamente sentii dei passi avvicinarsi a me, e mi voltai di scatto verso la reception, vuota. Girai il capo a destra e sinistra, per poter capire da dove potesse provenire quel rumore di passi, di conseguenza ignorando la voce di due persone che parlavano  all'interno della stanza.
Sentii la mano di qualcuno appoggiarsi sulla mia spalla destra.
Sobbalzai terrorizzato, per poi accorgermi che la ragazza che prima stavo spudoratamente 'spiando' si trovava davanti a me.
«E tu che ci fai qui?» il suo tono era scocciato e piuttosto minaccioso.
Ora riuscivo a vedere i suoi occhi: erano grigi, di un grigio triste e spento.
«Perdonami, sono mortificato» le risposi imbarazzato.
«Non ti ho chiesto come ti senti. Ti ho chiesto esplicitamente ‘Che ci fai qui’» replicò dura.
«Sii gentile e fallo entrare» una voce maschile mi fece sobbalzare, di nuovo.
Un ragazzo le se avvicinò da dietro, spostandola dalla porta, e mi volse uno sguardo accogliente.
Lei ritornò alla sua sdraio e al suo libro
«Entra pure. E perdona per la sua accoglienza. Non sa come comportarsi con gli sconosciuti»
«Sputtanami in giro, mi raccomando Nate» sbuffò.
«Non vorrei recarvi disturbo in nessun modo» cercai di apparire il più gentile possibile.
«Non preoccuparti. È da un po’ che non riceviamo ospiti» sorrise.
Sembrava un tipo a posto. Almeno, era questa la mia prima impressione che avevo su di lui.
Alto, con un fisico decisamente migliore del mio, e gli occhi azzurri. Moro.
«Siediti pure qui. E tu -disse indicando la rossa- non farlo sentire a disagio. Porto qualcosa da bere»
Lei sbuffò di nuovo. Ero seduto su un lettino vicino alla sdraio. Nate, o almeno credevo che si chiamassi così, se ne andò, lasciandoci soli. Lei non alzò lo sguardo dal libro.
«Se pensi che ti farò qualche domanda per ‘conoscerci’ o cazzate varie, scordatelo»
Non risposi, abbassando la testa timidamente.
«Allora, come ti chiami?» disse dopo qualche istante, tenendo lo sguardo sul libro. Risi.
«Harry. Tu?»
«Samara» esitò per poi rispondermi.
«Si chiama Sarah, non Samara. Ed io sono Nathaniel, ma puoi chiamarmi Nate»
Samar… Sarah fulminò con lo sguardo Nate. Lui l’ignorò, e mi porse un bicchiere di quello che doveva essere Whisky.
«Non stare zitto. Non so niente di te» sbottò lei, irritata.
«Sono pazzo» risposi senza pensarci.
Ora mi stava guardando. E non riuscii a tradurre la sua espressione.
«Qui sono tutti pazzi. Dimmi qualcosa che non so»
«Ho diciassette anni»
«Non m’interessa»
«Ma…» Stava bene? La guardai accigliato.
«Hai la faccia di uno schizofrenico» appoggiò il libro su un mobiletto. Ancora non riuscivo a dare un nome alla sua espressione.  
«Non sono schizofrenico!» ruggii ferocemente. Odiavo quel nome comune di persona. E mi ero improvvisamente accorto che non sopportavo guardarla negli occhi. Quegli occhi grigi e malinconici, m’innervosivano parecchio.
«Calmati. Per quale motivo sei qui?» disse in una tranquillità quasi spaventosa.
Bevvi in un sorso l’intero bicchiere di Whisky. Per quale motivo ero lì?
«Lo psicologo» dissi, attendendo un po’ di tempo, prima che Nate mi rivolgesse un sorriso compassionevole. Non ne capii il motivo.
«Prima si comincia con Finn, per poi…» cominciò lei, ma Nate la interruppe.
«Non credo sia il suo caso, dai, Sarah»
«Hai finito di contraddirmi? Ti dico che anche lui finirà rinchiuso in una di quelle stanze»
Non riuscii a capire.
«Non…»
«Io ti uccido se non la smetti» i suoi occhi si fecero più cupi di quanto non lo siano già. Non lo aveva detto in tono scherzoso, come pensavo sarebbe andata. Non lo avrebbe fatto veramente. Anche se non la conoscevo,  ne ero sicuro. Notai anche una linea rossa in quei occhi, una linea molto sottile, ma così evidente. Rabbrividii.
Lui si zittì, e non proferì più parola.
«Qual è il tuo problema?» continuò lei, rivolgendosi a me.
«Continuo a parlare con un fratello morto»
«Oh» commentò Nate.
«Che ti avevo detto, Nate? Per quanto ti riguarda Harry, comincia a pregare che tu non sia mai nato. Questo posto è l’inferno dei vivi»




Ok, ammetto che non mi piace molto.
Consideratelo come un capitolo di 'passaggio', ma non so per quanto reggerò questa scusa.
Ma comunque, ho cercato di fare del mio meglio.
Ringrazio per l'introduzione la canzone 'Beautiful Monsters' di Ne-yo, che è riuscita a darmi l'ispirazione.
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Capitolo 4
*** You don't deserve this. ***


«Che cosa intendevi dire, prima, con l'inferno dei vivi?» 
La voce affievolì appena i miei occhi incontrarono i suoi. 
Colsi una superficiale vena di dispiacere in quel pozzo grigio quando si avvicinò a me. 
Non ne capii il motivo. E non capii nemmeno perché il palmo della sua mano sinistra stringeva saldamente un coltello a scatto. Mi ritrassi all'indietro quando mi accorsi che l'indice della sua mano destra stava accarezzando dolcemente i tratti del mio pallido viso. Era troppo vicina, così tanto da essere in grado di percepire il calore della sua pelle.
«Non mordo» disse in un sussurro con l'aria divertita. 
Dal mio punto di vista, quella situazione era tutt'altro che divertente.
Ero terrorizzato, nervoso, ed il mio respiro si faceva sempre più corto.
‘Fratello, ma che ti prende? È solo una ragazza. Torna a casa, va.’
Non era il momento, Edward. Non lo era. Rimandiamo.
«C'è qualcosa in te che non va» mi guardò confusa, roteando la testa di qualche grado a destra, avvicinandola alla spalla. Non compresi la sua affermazione.
Possibile che io non riesca a capire niente? 
Ero così stupido?
Lei continuò a sfiorare il mio volto con l'indice, rendendomi ancora più irrequieto. 
Questa volta glielo permisi, per pura concessione del mio corpo, anche se la mia testa non ne voleva assolutamente sapere.
Sentii il suo respiro su di me, ed un profumo inebriante di cocco, molto familiare, attraversò le mie narici. Prevedevo che le mie braccia avrebbero cominciato a tremare come foglie. Mi capitava tutte le volte che mi sentivo a disagio. E in quel momento lo ero tremendamente.
Come non detto, le mie braccia si misero all'opera per tentare in ogni modo di farmi apparire ridicolo. E sapevo di esserlo veramente.
Il mio cuore raggelò, ed ebbi la sensazione che abbia mancato qualche battito. E non era una di quelle constatazioni da polpettoni rosa romantici strappalacrime da ragazze che mia sorella mi costringeva a guardare con lei. Il mio cuore aveva sul serio perso qualche battito.
Non avrei sostenuto quello sguardo un secondo di più, perciò socchiusi gli occhi.
«Guardami» sussurrò morbida. 
Non la stetti ad ascoltare.
«Sarah, non riesco» mormorai, non sicuro del fatto che mi abbia sentito, anche se la nostra lontananza tra di noi si stava lentamente andando a fottere.
«Harry, guardami. Ti prego»
Obbedii senza contestare questa volta. Notai con la coda dell’occhio che aveva appoggiato quel coltello nel lettino in cui ero seduto, di fianco a me.
Nella mia mente non riuscii a formulare un motivo per cui lo aveva in mano. Come se ne esistesse uno, di motivo; speravo di crederlo.
Ora la mano sinistra stava sfiorando con premura il mio braccio nudo.
Improvvisamente le sue braccia circondarono le mie spalle, e quelle piccole mani si dischiusero dietro la schiena. Le mie gambe si era leggermente allargate, per poterle permettere di avvicinarsi a me. 
Lo volevo.
Appoggiò la sua fronte sulla mia, e, con mia grande stupore di scoprire che la mia forza di volontà non era andata in coma, le cinsi stretto i fianchi, per consentire ad entrambi di essere comodi. Un’incantevole sensazione di tranquillità si avventò su di me, ed io non feci altro che approvare.
Prima che lei potesse cominciare a parlare, con una mano le spostai lentamente una ciocca di capelli a lato. Volevo fare qualcosa di carino insomma, all'altezza della dolcezza con cui mi stava accarezzando lei. All'altezza della dolcezza con cui lei mi stringeva tra le sue braccia. Ora ero calmo, e al sicuro. Ero in dovere di farlo. 
Perché mentire a me stesso. Desideravo ardentemente sfiorarla in qualche modo. Solamente sfiorarla, non chiedevo di più.
Passò un tempo infinito prima che aprisse bocca. 
«Dimentica quello che ti ho detto prima. Non voglio che tu rimanga scosso per delle parole proferite inutilmente da una pazza. Non ti meriti questo» esclamò in un sussurro, percependo il suo respiro sempre più vicino al lobo del mio orecchio. Dopodiché si allontanò senza fretta da me, e tutto il calore che fino a qualche secondo fa mi faceva sentire incolume scomparve. La magia di quegli interminabili ed intensi istanti si sgretolò. Le sue erano parole di conforto. Niente di più. E per la prima volta, in tutta la mia vita, sentii come se i problemi che mi circondavano fossero stati spazzati via da un vento passeggero.
Si, passeggero. Perché Sarah non poteva abbracciarmi ogni volta che sentivo di avere bisogno di quella sensazione.
E ne stavo parlando come se fosse una grande amica di vecchia data, mentre l'avevo incontrata da un po' più di un'ora fa.
Mi accorsi che era giunta l'ora di rientrare a casa. Ma mi sarebbe piaciuto molto ritornare, per poter conoscerla meglio. Sapere che cosa aveva permesso di far entrare un angelo come lei in un mondo che non le apparteneva.
'L'hai appena chiamata angelo' mi fece notare Edward.
«Non farci caso»
«Hai detto qualcosa?» mi ero dimenticato del fatto che Nate fosse ancora lì.
«Devo tornare a casa. È stato un piacere conoscervi» farfugliai un saluto.
«Domani torni, vero?» chiese Sarah in un tono impassibile. Annuii solamente, indossando la giacca e dileguandomi in tutta fretta. Fui fermato sull'uscio da Nate, che mi fece cenno di parlare dalla reception. Socchiuse la porta, e raggiungendomi, cominciò a parlare.
«Ora sei confuso Harry, ma non ti conviene cercare delle risposte. Lo dico per il tuo bene. Mi sembri un tipo più che a posto. So che domani ritornerai qui, da lei, ma ti consiglierei di starle il più lontano possibile» disse serio.
«Oh, no, no. Nate, non volevo. Non sapevo che...» m'interruppi alzando le mani in mia discolpa.
«Ma che hai capito?» 
In realtà, niente. Mi sembrava la cosa più intelligente da fare in quel momento. Sparai una scusa plausibile per giustificare la mia reazione.
«Voi due non siete, non state insieme?»
Rise. Stava ridendo di me.
«No, no. Qui il pericoloso non sono io, ma lei»
E fu in quel momento che capii che volevo sapere. Volevo sapere tutto. Non solo per curiosità, ma per motivi che ora non avevo voglia di elencare. Okay, quei motivi non esistevano. Era solo curiosità. Potevo permettermelo. Avevo solo diciassette anni.
«Senti Nate, stasera io ed un mio amico andiamo in un locale a bere qualcosa. Vuoi unirti? Mi sembra il minimo per ringraziarti dell'ospitalità» abbozzai un falso sorriso. Quelle informazioni le avrei estorte da lui. 
«Beh, si, mi piacerebbe»
«Bene» 
Lì lasciai scritto un biglietto con la via del locale, e l'orario.

Decisi di non ritornare a casa. Non volevo affrontare la mia famiglia da sobrio. Inviai un messaggio a mia madre, frettolosamente.

A: Mamma Styles
Mà, non aspettarmi a casa. Vado da Niall. Torno domani, verso le undici. Harry x


Aspettai qualche minuto prima di avere una risposta.

Da: Mamma Styles
Non fare tardi. Comportati bene. Non graffiare la macchina.
Mommy x


Finalmente arrivai davanti a casa Horan.
Erano anni che non ci mettevo piede. Suonai il campanello, e dopo qualche istante di attesa, la madre di Niall mi aprii.
«Harry, è un piacere vederti»
Mi guardai intorno, ricordando i momenti in cui passavo ogni giorno della mie scorse estate in quella casa. Ma poi l'irlandese cominciò a frequentare 'compagnie' che io avevo sempre voluto evitare, trasformandolo in una persona differente dal mio ex migliore amico. Avevamo dodicenni. Da lì cominciammo a vederci solo nei locali, mantenendo buoni rapporti, anche se non stretti come prima.
«Come sei cresciuto Harry. Mi sembra quasi ieri quando tu e Niall giocavate in questo salotto»
Sorrisi solamente.
«Niall?» chiesi.
«È in camera sua. Te lo chiamo sub-»
«Non si preoccupi, vado io. La ringrazio»
Mi diressi verso la sua camera, e quando mi ci trovai davanti, bussai.
«Ivy, dammi qualche secondo» sentii dire.
«Risparmia la colonia Niall, sono Harry» dissi tra le risate. 
Spinsi la porta in avanti con un piede, e notai l'occhiata inferocita e delusa di lui. Mi posai normalmente nel suo confortante letto, come se fossi a casa mia. Si avvicinò alla porta, chiudendola.
«Non ti hanno insegnato a spingere la porta con le mani?» si appoggiò allo stipite della porta, con le braccia incrociate»
«Calmati Horan. Considerati fortunato che abbia bussato e che questa Ivy sia in ritardo» risi di nuovo.
«È solo un'amica Styles» bofonchiò.
«Ora non importa. Stasera da Bob?»
«Non so, Harry, sono stanco»
La mia espressione divenne stupita.
«Sto parlando con lo stesso ragazzo conosciuto per esser stato sveglio per tre giorni di fila senza smettere di ballare per le strade di New York urlando 'Sonny, non lo sai, ma io ti amo'?» dissi tutto d'un fiato, scorgendo il viso di Niall corrugato.
«Avevo bevuto una quantità colossale di caffè, e quello è stato solo un incidente. Però Sonny è rimasta colpita»
«Qui l'unico colpito sei stato tu Horan. A pugni dal suo ragazzo»
«Incidenti che capitano» gesticolò con le mani. Scoppiai a ridere, seguito a ruota da lui.
«La merce?»
«Una Porsche e 300$ nel portafoglio»
«La Porsche Carrera GT?»
Annuii divertito.
«Io l'ho sempre detto che caghi i soldi dal culo. E con la storia della Bugatty Veyron? Non pensavo che dopo quell’incidente ti avrebbero mai fatto toccare una delle ‘bellezze’ »
«Sono rimasto sorpreso anch’io»
«Me la fai guidare? Harry, ti scongiuro» disse in tono supplichevole.
«Allora, è andata?»
«Ma Ivy...»
«Rassegnati, ti ha dato buca. Sono cose che possono capitare anche a Niall Horan»
«E a Styles?»
«Styles è un altro discorso che ti spiegherò quando sarai più grande» lì diedi una pacca amichevole sulla spalla. 
«Fanculo»



Ho provato a fare del mio meglio, e ne sono contenta. Mi piace, ma lascerò giudicare a voi.
In ogni caso, per ogni domanda o se volete seguirmi, potete trovarmi su:

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VI RINGRAZIO DI CUORE PER LE RECENSIONI, E PER CHI HA MESSO LA STORIE TRA LE PREFERITE/SEGUITE/RICORDATE.
MA ANCHE CHI LEGGE SOLAMENTE.
THANKS -Mad. x

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Capitolo 5
*** Bob. ***


Odiavo ‘Bob’.
Non solo per il suo nome estremamente originale.
Quel locale era così triste, e trasandato; ma l’unico in cui avrei potuto parlare in pace con Nate.
Entrammo, notando che non era cambiato nulla dall’ultima volta in cui ci sono stato, risalente a circa cinque mesi fa. Difficile da dimenticare.
Bob se la doveva passare proprio bene.
Ma cos’altro potevo aspettarmi da uno che per disperazione vendeva superalcolici ai dodicenni?
Un buco di quaranta metri quadri.
Il solito bancone rosso, illuminato da una delle quattro luci al neon color blu elettrico.
Se non si era capito, le altre erano bruciate. Inutile dire che sia stata colpa mia.
Dettagli, dettagli.
E come sempre, il solito Bob vestito da sfattone appostato dietro di esso, col viso di uno che si era fatto qualche canna prima di iniziare a lavorare.
Se quello si poteva considerare lavoro. E sapevo di aver ragione.
Mini tavoli sparsi qua e là, decisamente a caso, ed infine una porta di legno rovinata che portava nella stanza del poker. Ma tutti noi sapevamo a che serviva veramente.
Avevo già detto che odiavo quel posto?
Non potei non essere sorpreso dalla quantità di persone che si dimenava nel locale. Ovunque; anche in posti di cui non ero a conoscenza.
Ma andiamo.
Proprio oggi? Di giovedì sera non si va da Bob. Se è per questo nemmeno gli altri giorni della settimana.
È una regola non scritta. Regola che avevo inventato in quell’istante.
Fatta eccezione per chi era venuto con l’intento di estorcere informazioni su una strana ragazza incontrata in un manicomio a qualcun’altro. Eccezione che avevo inventato in quell’istante.
Fanculo.

«Non ho intenzione di assistere ad un film porno tra cani in calore» dissi urlando in modo che mi sentissero, rivolto ad una “coppia” che si stava letteralmente mangiando.
Un minimo di pudore, insomma.
La ragazza mi sentii, e si fermò di colpo, causando lo stupore e l’irritamento di lui.
Giusto per informazione, ero irritato anch’io.
«Bella mossa Styles, si sta avvicinando» mi fece notare Niall prima di mischiarsi nella folla.
La ragazza si stava dirigendo verso di me, e feci finta di niente e lei deviò. Non ero in vena quella sera.
L’altro uscì dal locale, visibilmente incazzato.
Nemmeno un pugno?
Una pacca sulla spalla che sarebbe diventata una rissa?
Dov’erano andati a finire i giovani d’oggi? Chiedevo tanto?
Proprio oggi che ero in forma. Si prospettava una serata noiosa.
Mi avvicinai al bancone, ordinando la specialità della casa: acqua zuccherata.
No, scherzavo. Si trattava solo di un cocktail dal nome così strano ed originale il quale non riuscivo mai a ricordarmelo.
Oh, ricordo.
Si chiamava Bob’s.
«Harry Styles, ma che piacere»
Mi voltai verso la voce, chiedendomi di chi si tratti. La squadrai dall’alto al basso, soffermandomi specialmente in basso.
Niente male. Mora, alta, occhi marroni, belle gambe, faccia da vicina di casa, vestita per modo di dire.
No, mai vista.
«Ci conosciamo?» chiesi disinteressato.
«Sono io» rispose con ovvietà.
«Non è una risposta»
«Veramente non ti ricordi di me? Sei ubriaco Harry?»
«Sobrio, e non mi sto sforzando di ricordarti, perciò non ti conosco»
«Sforzati allora»
«Se mi conoscessi dovresti sapere che non mi sforzo mai per ricordarmi di qualcuno»
«Non sei cambiato di una virgola. A parte il fatto che sei diventato un gran bel pezzo di ragazzo. Dio, Styles» sorrise divertita.
«Chi sei?» dissi scandendo bene le parole. Forse era ritardata.
«Chloe, la tua ex vicina di casa»
Rimasi a pensarci seriamente.
E in quel momento ricordai.
Ricordai le mie continue lacrime isteriche a dodici anni, quando la mia migliore amica se ne era andata via da me, per vivere in California.
Mi ripromisi di non perdonarla mai.
Stronza.
«Come hai fatto a riconoscermi?»
«I ricci e quegli occhi verdi fanno saltare la tua copertura. Indimenticabili»
Rise, seguita a ruota dal sottoscritto.
«Nostalgia di New York?»
Si sedette nello sgabello di fianco al mio. Si era stancata di aspettare il mio “siediti pure”.
E anche il mio “ti offro un Cosmopolitan”. Pretendeva troppo per i miei gusti.
«Troppa. E avevo soprattutto nostalgia del mio piccolo Styles»
«Se pensi che ti perdoni, scordatelo»
«Sono passati cinque anni Harr-»
«Non una telefonata, non un messaggio, non  un’e-mail, non una lettera, non un piccione» la interruppi, duro.
«Lo so, lo so. Ma ora sono qui» fece per appoggiare una mano nella mia spalla, ma la fermai in tempo.
«Non ti perdono»
Rivolsi la mia attenzione verso il mio Bob’s cocktail, stranamente incuriosito da cosa ci fosse dentro.
Per quanto lo conoscessi, dentro potevano esserci le ceneri di sua madre. A quel pensiero allontanai bicchiere disgustato.
«Per quanto mi rivolgerai il muso ancora?» non se ne era ancora andata.
Stressante.
«Non sono un cane, mettiamo in chiaro questa cosa che non ti entra proprio in testa.
Vediamo, per quanto starai nei paraggi?»
«Penso che mi trasferirò definitivamente» disse in un sorriso.
«Io non ti conosco. Afferrato il concetto?»
«Harry, non sei divertente»
«Appunto. Io sono serio»
«Ok, ho capito» ignorai il suo tono dispiaciuto e sospirai.

«Siamo qui da solo un’ora, e ti sei fatto fuori venticinque drink. Complimenti Horan»
«Ero in astinenza da troppo tempo, non puoi capire»
«Non prendermi in giro»
«Ivy odia l’alcool»
«Ma che…» sgranai gli occhi, più che stupito, non riuscendo a terminare la frase.
Conoscevo Niall da troppo tempo. Una delle teste di cazzo più grandi che abbia mai avuto l’onore d’incontrare.
Ma non era questo il punto. Per farla breve, in ogni locale in cui entrava, a fine serata il proprietario se ne usciva miliardario.
Lo vidi ordinare altri due bicchieri di Brandy con troppa enfasi.
Non mi sorprenderei se fosse già ubriacato, anche se lo reggeva in modo esorbitante.
«Da quanto?» chiesi curioso.
«L’ho abbordata in un locale. Avevo bevuta una ventina di long drink, credo, ma ero ancora lucido. Abbiamo cominciato a parlare, ed è finita con un’enorme discuss-»
«Ti ho solo chiesto da quanto sei in astinenza» lo interruppi scocciato.
«Diciamo che da due settimane cerco di ubriacarmi con la Coca Cola» disse in tono triste.
Scoppiai in una fragorosa risata, rischiando di cadere dallo sgabello. Un’occhiataccia si fece spazio nel suo volto.
Era rivolta a me? Mi fermai di colpo, tossendo tra le risate.
Lo ignorai, vedendo la figura di Nathaniel entrare. Mi vide.
«Niall, la vedi quella là?» puntai il dito verso una persona a caso con il viso rivolto verso la nostra direzione.
«Chi? La nonna?» disse rivolgendomi una seconda occhiataccia. La voleva finire?
«Non fare così. Avrà al massimo una quarantina d’anni»
«Un fiore, insomma» replicò sarcastico.
«Esattamente»
«Vecchia»
Decisi di passare al piano B. Avevo un piano B?
«Se flirti con lei fino ad avere il suo numero ti offro un Bob’s» improvvisai.
«Sicuramente non avrà il cellulare»
«E quello che in tasca cos’è?»
«Ossa d’uomo. Fa parte di una setta»
«Te ne offro due»
«E se è un uomo?» alzai gli occhi al cielo, esasperato.
«Tre. Ultima offerta»
«Ci sto» e se ne andò trionfante, sistemandosi i capelli.
Finalmente.
«Harry»
«Nate, puntuale»lo salutai sarcastico.
«Perdonami, ma Sarah non la voleva finire di sottopormi ad un terzo grado»
«Non esci spesso» mormorai.
«No, anzi. È solo che di solito la porto con me.
Ma stasera, intuendo il motivo per cui mi hai invitato in questo -si guardò intorno, cercando di trovare l’aggettivo qualificato per descrivere il posto- locale, è rimasta a casa»
Intuendo cosa?
Mi aveva scoperto?
Come aveva fatto?
Leggeva nel pensiero, era l’unica scusante.
«Ehm, insomma, cioè…» farfugliai imbarazzato.
«Ne parliamo fuori, ok? Ti darò tutte le informazioni che vuoi. Solo perché mi stai simpatico»

«Dall’età di cinque anni vive in quel postaccio, che a forza di abitudine considera ormai come una casa. Sa più di chiunque altro cosa vuol dire veramente vivere lì. Ha imparato a leggere e a scrivere da autodidatta. Mente brillante, che fa gola a tutti. Ma nonostante questo non potrebbe mai allontanarsi da lì, perché non saprebbe dove andare. E non riuscirebbe ad allontanarsi da me. Lo dice spesso, ma non le credo. Secondo me c'è un altro motivo che non mi vuole dire.  Non che non mi fidi, anzi. Il mio mondo gira solo ed esclusivamente attorno a lei. Mi ha raccolto e salvato. So di essere stato l’unico, e per questo le sono grato. Nessuno la desidera quanto me, ne sono certo. Spesso litighiamo, ma finisce sempre con una risata. Io le faccio compagnia sostenendola in qualsiasi cosa, e viceversa. Mi ha cambiato, rendendomi una persona migliore. E quando la vedo triste, il suo sguardo afflitto mi uccide. Vorrei darle una vita migliore, quella che si merita realmente, e sarei disposto a mettere a rischio la mia. Per non parlare della sua bellezza maniacale. Folgorato. È un angelo.
Quando la conosci, lei diventa un’ossessione. Ti sto avvertendo Harry.
Cominci a sognarla, a vederla vagare per la tua casa, per strada, ovunque, chiamando il tuo nome in tono disperato. Costringi i tuoi familiari e tutti quelli che conosci a stringerti come solo lei sa fare. Per fino agli stranieri. E quando ti accorgi che non è lo stesso, cadi una depressione peggiore di quella di chi è affetto di bipolarismo. Ti sentirai costretto da te stesso a venderle la tua anima. Vivi i momenti peggiori della tua vita»
Rimasi appoggiato al muro del locale, nel parcheggio, davanti alla mia macchina. Ero serio e attento, e cercavo di comprendere le parole di Nate, portandomi alla bocca la bottiglia di quello schifo di vino rosso.
Tentai di apparire il più impassibile possibile.
«Ne parli come se fossi un esperto» riuscii a dire.
«Ci ho passato anch’io, anche se per me non è stato così terribile. Sarah non mi ha permesso di raggiungere lo stato terminale, anche se avrei voluto»
«Non ti seguo»
«La situazione si aggrava in base a quanto lei ricambi. Ti farò un esempio concreto. Qualche anno fa, un ragazzo, Zayn Malik se non sbaglio, aveva sorpassato per la seconda volta quella porta blindata, ormai fottuto. Sarah aveva cominciato a provare una sorta di piacere, minore di una cotta lampo, per quel ragazzo, dopo che avevano continuato a vedersi in quel manicomio per circa due mesi, ogni giorno. Lui cominciò a presentare i sintomi da subito. In una giornata piuttosto fredda, lei esclamò di rischiare di raffreddarsi…»
Si fermò, come se indeciso se raccontarmelo o no. Io volevo sapere.
«Continua, Nate»
«Ti racconterò solo questo però» accordò.
Annuii solamente.
Sospirò.
«Ok.
Dato che non avevamo legno da ardere nel camino, si tagliò un braccio e lo fece bruciare» disse tutto d’un fiato.
Impallidii. Aveva veramente detto quello che avevo sentito? No, non era possibile.
La Sarah che ho visto oggi non l'avrebbe mai permesso.
«Credo di aver sentito male» mi vergognai della mia voce flebile e tremante.
Ero sicuro di non aver sentito bene.
«Harry, hai sentito bene»
Era una farsa. Ero sicuro che mi stesse prendendo in giro.
«Nate, smettila. Devo dire che hai veramente una fervida immaginazione. Uno scherzo convincente, ma la storia del braccio nel camino potevi risparmiartela.
A quale film ti sei ispirato?»
«Non sto scherzando» rispose senza scomporsi.
«Che fine ha fatto questo Zayn?»
«3620 Tilden Avenue. Cerimonia semplice, molto intima»
Strabuzzai gli occhi. Suicidio?
«Il cimitero di Holy Cross»
Annuì.
«Sarah non lo avrebbe permesso» dissi deciso.
Si avvicinò a me, tirando su una manica.
Il chiarore della luna mi permisero di vedere dei tagli profondi sul suo braccio.
Cicatrici su cicatrici. Tagli superficiali, e ferite ancora sanguinanti. Ne era pieno.
«Opera sua. Ora mi credi?»
'Scappa finché sei in tempo'
Non ero in grado di proferire parola. Deglutii a vuoto.
«La sadica perfetta» disse.

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Capitolo 6
*** I want to know. ***


«Trovo che questa seduta sia inutile.
Ed anche le prossime lo saranno.
Chiudiamo qui»
«Harry, ma siamo solamente alla seconda» si lamentò il vecchio Finn.
Non avevo fatto altro che pensare al motivo per cui avrei dovuto continuare quelle insulse sedute. Per lo meno, mi ero imposto quel dubbio per permettergli di farsi spazio nella mia mente, fungendo da gomma per cancellare il mio pensiero precedente, o meglio, i pensieri: Sarah e Nate.
Intuivo che tutto quello che aveva detto Cosgrov, ovvero Nathaniel, era vero; il suo tono era sincero.
Ma una cosa non riuscivo proprio a comprendere, e questa volta non era dovuto alla mia naturale ignoranza nel campo della pazzia.
Come riusciva a vivere con la consapevolezza di amare la ragazza che gli aveva provocato un male fisico e psichico atroce?
Come poteva convivere con un mostro del genere? Sarah era questo, un mostro.
Ma io non potevo confermarlo; mi stavo solamente basando sulla versione di Nate.
La sadica perfetta.
Forse tutto quello che mi aveva detto era una menzogna, forse solo un banale scherzo.
C'era l'ipotesi che il pazzo della situazione fosse stato lui; l'autolesionista che viveva nell'illusione delle sue bugie.
Avevo letto a proposito: persone che non riescono a fare a meno di mentire, e cominciavano a vivere alle spalle delle loro finte verità.
C'era anche la possibilità che Sarah fosse una a posto, ricoverata a causa di un'insignificante e strana sindrome.
Non lo sapevo, e l'odiavo.
La curiosità mi stava disintegrando, come se stessi sciogliendo nell'acido di mia spontanea volontà.
Non avevo chiuso occhio a casa Horan, per impedire al mio inconscio di sognarla, d'immaginare desideroso la sua chioma rossa, il suo profumo al cocco, i suoi occhi grigi puntati sui miei.
Ok, l'avevo fatto, contro il mio volere.
Niall mi svegliò la mattina, dicendomi che per tutta la notte non avevo fatto altro che gridare a pieni polmoni in tono disperato un nome.
E indovinate qual era? Di certo non Bob.
Il tragitto per il ritorno a casa lo passai litigando con un Edward furioso, come se non fossi già frustrato di mio.
Giunto stanco a casa, avevo deliberatamente ignorato i miei genitori e le loro stressanti domande chiudendomi nella mia camera. E come se non bastasse, ora mi trovavo in un ricovero per pazzi.
Dovevo parlare con Finn di Sarah? Forse mi avrebbe chiarito le idee, in fondo era questo il suo lavoro.
Forse, forse, forse. Dovevo smetterla, al più presto.
«Non hai dedotto che sono un tipo che fa le cose alla svelta. Ma che razza di psicologo sei? Che delusione Finn. Comunque, ti ho già detto tutto ieri»
«Pensavo ti stessi simpatico» replicò come dispiaciuto.
Era vero. Gli avevo affermato che sarei ripassato con piacere perché sotto sotto mi andava a genio, per quel che lo conoscevo. Se dovevo passare per quello incoerente, volevo farlo con stile.
«La colpa non è tua, ma solo mia. Mi chiedo come mai sono stato così stupido a darti una chance anche se sapevo che questa relazione non sarebbe andata avanti. Noi siamo, diversi, ecco. Non è scattata la scintilla» schioccai le dita davanti al suo volto.
I suoi occhi azzurro mare mi guardarono confuso, e di rimando, nel mio volto si disegnò un sorriso alquanto compiaciuto per la motivazione che avevo appena fornito.
Aspetta, ma che cazzo avevo detto?
Mi strinsi nelle spalle, ignorando minimamente la sua serietà. Mi spostai dalla sua scrivania e con nonchalance ero intento ad uscire da quel triste ufficio.
«Deklan» mi richiamò appena fui giunto sull'uscio.
«Non mi chiamare con il mio secondo nome. È un colpo basso» gli puntai un dito contro, aggredendolo con lo sguardo.
«Sarò costretto a riferire tutto ai tuoi genitori» mi minacciò.
Come sempre, avevo un piano B. La mia testa era così, avevo uno scomparto apposito per i piani B, che mi erano molto 'utili' soprattutto quando combinavo qualcosa di grave. La maggior parte di essi peggioravano la situazione, ma almeno ci avevo provato.
Tirai fuori dalla tasca dei jeans dei soldi; senza nemmeno pensarci, mi riavvicinai alla sua postazione e glieli feci scivolare sul piano di legno.
«E questi cosa sono?» domandò senza scomporsi.
«Il migliore amico dell'uomo. Io le do questa banconota da cento dollari, e lei riferirà ai miei genitori che non sono pazzo» ammiccai una sottospecie di occhiolino.
«Mi stai comprando?»
«No, no. Così la fai sembrare una brutta cosa. -mi misi sulla difensiva- Chiamalo scambio tra amici»
La stessa solfa ogni volta. Fanculo ai miei piani B.  Rassegnato, mi sdraiai sgraziatamente nel comodo lettino, trascinando di peso i piedi pesanti. «Vedo che hai capito quanto sia inutile questo comportamento infantile»
«Ehi, tu. Non hai nessun diritto di trattarmi così.
Non ne parlare con i miei. Cominciamo?»
«Certo. I tuoi genitori-»
«Loro pensano -lo interruppi intuendo la sua domanda- che io parli da solo a causa dello stress dalle continue responsabilità che mi affibbiano, e io glielo lascio credere. Se dicessi loro che in realtà parlo con Edward, mi rinchiuderebbero qui per sempre»
«Che rapporto avevano loro con tuo fratello?»
«Vuoi la verità? Non lo sopportavano. Lui era solo il membro che rubava tempo e denaro prezioso alla famiglia. Il suo asma peggiorava mano a mano che cresceva, ed era dislessico. Lui non ne aveva colpa, lo consideravano un essere inutile, senza speranze e futuro. E per fino Violet, mia sorella, non lo sopportava. Per colpa del suo asma, non potevamo tenere animali in casa, dato che avrebbe rischiato una polmonite»
«Come hanno reagito alla sua morte?»
Un groppo si piazzò pesantemente in gola. Faceva ancora male, troppo male, ed io non riuscivo ad accettarlo.
«Lui non è morto» sussurrai con un filo di voce.
«Harry, non potrai convivere con questa certezza per il resto della tua vita»
«Nessuno può capire»
«Sono qui per questo»
«Menti. Stai cercando di allontanarmi da lui. Vuoi che io creda sia solo frutto della mia immaginazione, mentre non lo è. È il mio pensiero, giorno e notte. Non sono malato, ok? Non voglio perderlo, non voglio che se ne vada mai. E non permetterò a nessuno di farlo»
«Ti sta impedendo di vivere la tua vita»
«Non è vero»
«Ascoltami Harry. Quante volte ha condizionato le tue scelte? E perché pensi che sia ancora vivo?»
«Quindi pensi che mi dovrei liberare di mio fratello?» domandai retorico con tono disgustato, scandendo ogni singola parola.
«Una soluzione ci sarebbe» replicò con una calma snervante.  
Mi misi seduto a lato del lettino, e lo fissai in completa serietà. Stava giocando col fuoco, non doveva mettermi alla prova.
«Non ne ho bisogno, rifiuto e vado avanti. Io sto bene così, che male c’è in fondo?»
«Sei malato, e non vuoi il mio aiuto»
«Non ci arrivi proprio, eh?» li rivolsi la domanda con un sorriso beffardo.
«Dimmi»
«Mi stai mettendo davanti a delle scelte. Ho solo scelto la meno dolorosa»
Nulla.
«Hai tutto questo week end per pensarci, io tolgo il disturbo, la seduta è finita. A lunedì»

«Pensavo non saresti venuto»
Si, avevo sorpassato per la seconda volta quella porta, e sapevo che non sarebbe stata l’ultima. Se non l’avessi fatto, sarei annegato nella mia dannata curiosità che mi accompagnava dalla nascita, e ne sarei morto. Se fossi ritornato a casa, la mia mente avrebbe cominciato a rimuginato sulle parole di Finn, e volevo evitarlo assolutamente; perciò avevo optato per la seconda opzione: scoprire la verità. Oramai ero pazzo, che cos’altro avevo da perdere?
Mi aiutò a togliere la giacca e il cappello, che si mise in testa lei. Sorrisi beatamente notando il suo divertimento. Lei non era solo bella; lei era qualcosa che nessun aggettivo avrebbe mai potuto descriverla.
«Allora Harry, come stai?» chiese interessata.
«Una favola –risposi ironico- No, insomma, ho passato momenti migliori. Tu invece?»
«Come il solito, è tutto così monotono e triste qui. Siediti pure»
Mi accomodai nel divano verde bottiglia accanto la finestra. Nonostante fosse solo una stanza di un lurido manicomio, era ben arredata e fornita. Mi guardai intorno, studiando nei dettagli ogni minimo particolare.
La stanza sarà stata grande quasi come due stanze da letto; il pavimento era in ceramica, preziosa, ne ero certo, e le pareti dipinte di un bianco neve. Una finestra lunga quanto una parete dava un panorama fantastico di New York. Lampadari antiquati sparsi per la stanza ordinatamente, un pendolo molto antico, due letti poco distanti fra loro, un divano, e mobili compresi di vari cassetti. In tutte e due le pareti a lato c’erano una porta.
Mancava qualcuno però.
«Nate?» domandai incerto.
«È uscito. Non so dove, quando e perché. Odio non sapere» sbuffò animatamente.
«Posso farti delle domande?» domandai con flebile voce. Non ero del tutto sicuro, ma volevo almeno provare.
«Vai»
«Mi risponderai sinceramente?»
«Non capisco perché non dovrei»
«Non ti fidi di me»
«È un pregiudizio che impongo su tutti. Non riesco a fidarmi di nessuno, non ne sono capace. Nonostante questo, ti prometto di dire la verità e solo la verità»
Risi alle sue parole, seguita a ruota da lei. Una risata cristallina, limpida. No, lei non poteva essere un mostro, non lo era.
«Nate per te è come un-»
«Cane da compagnia» terminò la frase, interrompendomi.
«Come?»
«Considero Nathaniel come un cane da compagnia, una marionetta con cui passare la noia. Vivendo qui ne ho diritto e bisogno»
«Ma lui…»
«Mi muore dietro? Oh, si, lo so. Ma non m’importa. Un giocattolo fin troppo vecchio, ecco cos’è» scrollo le spalle, strafottente.
«È per questo che mi hai invitato nuovamente qui, per diventare il tuo nuovo giocattolo?»
Non ebbi nessuna risposta. Mi voltai a guardarla, con l’intento d’inchiodarla, di costringerla a darmi una risposta. Alzò gli occhi dal libro, e finalmente incontrarono i miei. Avrei potuto giurare di vedere ardere del fuoco dentro di essi. Si alzò di scatto, raggiungendo un mobile, su cui erano appoggiati pacchetti su pacchetti di quelle che dovevano essere pillole, pasticche, capsule. Seguii il movimento delle sue mani tremanti alla ricerca disperata di qualcosa. Riuscii a vedere solamente infilare in bocca, per poi ingoiare con fatica, una manciata di quelle pillole. Le sue braccia erano saldamente appoggiate sul mobile, e dava l’impressione che facesse fatica a reggersi. Il capo chino, ed il suo corpo così fragile non smetteva di tremare. Mi alzai, senza una causa precisa.
«Mi hai sognato stanotte?» sussurrò quel tanto per permettermi di sentirla.
«La colpa del tuo nervosismo sono io?»
«Rispondi alla mia domanda»
«Si, come tutti d’altronde»
«Nate non doveva dirtelo»
«Per quale motivo? Io sono qui, come volevi. Lui mi ha avvertito, ma io sono venuto lo stesso»
«Perché?»
L’aria era terribilmente tesa e pesante, ma mi feci forza per rispondere.
«Voglio solo sapere chi sei. Odio non sapere»
La sua mano, con movimenti rapidi e precisi, tirò fuori da una scarpa un oggetto. Prima che il mio cervello potesse riconoscerlo come un coltello a serramanico, lei lo lanciò con un colpo secco nella mia direzione, senza voltarsi. Millimetri avevano separato la mia testa dalla traiettoria dell’arma. M’irrigidii di botto, notando una ciocca di capelli posarsi a terra lentamente. Non riuscivo ancora prendere completamente consapevolezza di quello che era appena accaduto. La mia menta era un brulicare di pensieri confusi, e m’impedivano di muovermi.
«Questa sono io.
Quella è la porta, grazie»



Mi sono accorta che nello scorso capitolo non ho messo lo 'spazio autore', o chiamatelo come vi pare.
Beh, sono di poche parole, dato che non ho niente da commentare. Non voglio spoilerare nulla, ho la bocca cucita.
Spero sia stato di vostro gradimento questo capitolo.

VI RINGRAZIO DI CUORE PER LE RECENSIONI, E PER CHI HA MESSO LA STORIE TRA LE PREFERITE/SEGUITE/RICORDATE.
MA ANCHE CHI LEGGE SOLAMENTE.
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THANKS. -Mad. x

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