All'ombra del giglio rosso di Lechatvert (/viewuser.php?uid=453208)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Primo - Firenze a volo d'uccello ***
Capitolo 2: *** Capitolo Secondo - Colori d'Artista ***
Capitolo 3: *** Capitolo Terzo - Conte Levi di Fontenera ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quarto - La Cantina di Marmo ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quinto - Ritratto d'Autore ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sesto - L'Appeso ***
Capitolo 7: *** Capitolo Settimo - Il Coraggio del Leone ***
Capitolo 8: *** Capitolo Ottavo - Musica a Corda ***
Capitolo 9: *** Capitolo Nono - La Biblioteca Nascosta ***
Capitolo 10: *** Capitolo Decimo - Promesse non Mantenute ***
Capitolo 11: *** Capitolo Undicesimo - Di lei era rimasto solo il ritratto ***
Capitolo 1 *** Capitolo Primo - Firenze a volo d'uccello ***
Lechatvert
L'avete
chiesta ed ebbene, ora l'avete! In una veste un poco diversa da
ciò che mi aspettavo, ma ora è qui!
Ringrazio infinitamente Chemical
Lady, che mi ha spinta in un progetto che non pensavo di
poter iniziare e che mi ha dato spunto per una storia decente. Grazie
<3
Detto questo, non mi resta che augurarvi buona lettura.
Un bacio!<3
Capitolo
Primo
Firenze a volo d'uccello
La brezza mattutina della campagna la destò dal
pacato sonno in cui era caduta la sera prima, insinuandosi con grazia
dalle finestre aperte di Palazzo Rangoni. Era una giornata mite di
metà primavera e il tempo si preannunciava ottimo per una
passeggiata nella corte dove, peraltro, le serve avevano cominciato ad
ammucchiare le sedie del salone per pulirlo a fondo in vista di
chissà quale ricorrenza.
Bianca Maria aprì pigramente un occhio, scalciando via le
lenzuola dalla sua schiena nuda, e con un soffio si liberò
la vista da un ciuffo di capelli rossi.
« Buongiorno, Madonna Ordelaffi », la
salutò la voce allegra della serva alle sue spalle.
« Avete dormito bene? »
Bianca le scoccò un’occhiata assonnata.
Era la serva che solitamente portava la biancheria pulita e si
preoccupava di rifare i letti e cambiare le lenzuola.
« Buongiorno a te, Angela », le disse, cordiale.
« Mio marito è già partito? »
La serva scosse il capo, prelevando dall’armadio una veste
color acquamarina.
« Ha detto di volervi aspettare, Madonna ».
« Meno male ».
Si vestì con calma, facendosi pettinare con minuzia i lunghi
riccioli rossi che negli anni avevano continuato a divenire sempre
più folti.
« È una magnifica giornata, non trovi?
», disse, guardando fuori dalla finestra la campagna
stagliarsi verso l’azzurro del cielo terso di nubi.
La serva annuì.
« Avete ragione ».
Spese ancora qualche minuto ad aggiustarsi il trucco leggero e poi
scese nel salone, certa di trovarvi suo marito intento a fare
ciò che amava di più: leggere. Lo sorprese
infatti immerso nella lettura di una copia del Decamerone, spaparanzato
su un divanetto della corte interna.
« Buongiorno, mio signore! », lo chiamò,
uscendo all’aperto.
Lui, concedendosi un momento di distrazione dalla lettura,
alzò il naso dalle pagine per rivolgerle un educato cenno
del capo.
« Buongiorno a voi, Bianca ».
Ezio Rangoni era la persona più buona che Bianca conoscesse.
Le loro erano state nozze organizzate dai genitori in fretta e furia,
talmente in fretta che non avevano avuto il tempo di cercare uno sposo
e avevano ripiegato sul figlio di alcuni cugini che aveva ereditato una
lingua di terra a nord di Firenze.
Malgrado non si conoscessero, avevano imparato subito ad apprezzare
l’uno la compagnia dell’altra, per mezzo di qualche
libro, qualche lirica. Ezio Rangoni suonava il clavicembalo per lei
ogni sera, aveva persino composto delle odi in cui cantava la bellezza
della sua sposa.
Era un uomo molto impegnato, eppure trovava sempre il tempo per farla
felice.
« Siete stato molto gentile ad aspettare il mio risveglio
», gli disse Bianca, accomodandosi accanto a lui sul
divanetto. « Non dovevate prendervi tanto disturbo
».
Ezio le sorrise, prendendole le mani.
« Parto per Bologna, mia signora, il che vuol dire che non ci
vedremo per qualche tempo. Non mi sarei mai perdonato di lasciarvi
senza salutarvi a dovere ».
Era sempre così gentile, così premuroso nei suoi
confronti.
Bianca ne era più che innamorata.
« Ho chiesto al Conte di Fontenera di accompagnarmi a
Firenze, quest’oggi ».
Ezio annuì.
« Sì, me ne aveva accennato »,
confermò. « Siete sicura di non voler aspettare il
mio ritorno? Potremo passare qualche giorno là, prima che
arrivi l’estate ».
Bianca scosse il capo.
« No, i Medici ci hanno invitati al banchetto di domani sera.
Tengo molto ad andarvi ».
I Medici erano una famiglia un tempo molto vicina ai signori di
Forlì, i suoi defunti genitori. Ora che la famiglia
Ordelaffi era passata nelle mani di suo fratello maggiore, Bianca
voleva continuare a mantenere quel rapporto d’amicizia che si
era creato negli anni.
Ezio parve capire.
Sul suo viso si dipinse un piccolo sorriso e, quando si alzò
per raggiungere i suoi bagagli ammassati davanti al portone,
non mancò di baciare la fronte della moglie.
« Ci rivedremo presto, mia signora », la
rassicurò. « Vi scriverò una lettera al
giorno ».
Bianca ricambiò il sorriso.
« Sarà mia premura rispondervi »,
rispose.
Lasciò che suo marito si allontanasse con il passo spedito e
sicuro di un vero signore, prima di balzare in piedi e raggiungerlo
frettolosamente.
« Marito! », lo chiamò, una volta
arrivata alle sue spalle.
Lui la guardò, sorpreso.
« Il Decamerone », spiegò lei.
« La copia che state leggendo, è mia! »
« Vorrà dire che mi ricorderà di voi
mentre sarò via! Ah, Conte! È arrivato giusto in
tempo! »
Bianca si sforzò di guardare oltre le spalle larghe del
marito, verso il portone spalancato, dove una figura minuta stava
arrancando tra l’erba per raggiungere i due.
Il Conte di Fontenera era un giovane dall’aspetto
eccentrico ma sveglio e spesso prestava alcuni servigi ad
Ezio come consigliere. Nonostante la sua età, era dotato di
una saggezza immensa.
« Buongiorno, Messer Rangoni », salutò,
cortese. « Madonna Ordelaffi, ogni giorno che passa vi rende
più bella ».
« Mi raccomando, Conte! Siete la persona di cui
più mi fido, vi consegno mia moglie ma la rivoglio indietro
così come l’ho lasciata! »
Bianca trovava affascinante come suo marito riuscisse sempre ad essere
di buonumore. Riusciva a tirarla su di morale anche nelle giornate
più tempestose, anche quando tutto sembrava andare male. Al
funerale dei suoi genitori, morti l’uno a pochi anni di
distanza dall’altro, era stato l’unico a stare
realmente vicino a lei e ai suoi fratelli.
Non ascoltò la conversazione dei due, concentrandosi sul
luminoso paesaggio che la circondava. Sebbene quelle terre le
piacessero molto più di Forlì, non stava
più nella pelle all’idea di recarsi a Firenze, tra
i suoi mercati, le sue botteghe, le sue feste. Vi era stata lontana
anche troppo a lungo, e la frenesia della vita di città
cominciava a mancarle.
Salutato suo marito, constatato con tristezza che sarebbero passate
almeno tre settimane prima del loro prossimo incontro, non le
restò che organizzarsi con il Conte per partire il prima
possibile.
« Madonna Ordelaffi, non affrettatevi », le disse,
quando la vide montare in carrozza in tutta fretta. « La
strada per Firenze non è di certo corta. Sono sicuro che
può aspettare ancora il tempo necessario che serve a una
signora per rinfrescarsi ».
Lei, invece, era di tutt’altro avviso.
« Mi rinfrescherò una volta arrivati, Conte!
», rispose, raggiante. « Ora andiamo, prima che
venga mezzogiorno! »
* * *
La campana di una chiesa vicina batté il mezzodì,
destando Girolamo Riario dal frenetico pensare che aveva avuto da
quando, all’alba, era partito da Roma a cavallo per
raggiungere la corte dei Medici e portare il nome del Santo Padre.
Sei ore di incessante cavalcare e pensare avevano finito per sfinirlo,
ma la strada per giungere a Firenze era ancora molta e Riario non era
certo tipo da assopirsi durante una missione tanto importante.
Si asciugò quindi una lacrima caduta nell’angolo
dell’occhio destro e, soffocando uno sbadiglio,
spronò il cavallo verso il sentiero che costeggiava la
strada.
« Muoviamoci! » gridò, diretto a un
seguito più sfiancato di lui. « Firenze non ci
aspetterà di certo tutto il giorno! »
Si era portato dietro poche guardie papali, per lo più
mercenari svizzeri, in modo da non dare nell’occhio e poter
agire indisturbato. Pochi ma buoni, come aveva detto lui stesso, anche
se sull’ultimo aggettivo usato, in quel momento, aveva
qualcosa da ridire.
Spossato, osservò il paesaggio in lontananza diventare
sinuoso sulle campagne toscane. Non dovevano mancare più di
un paio d’ore.
Involontariamente, si lasciò scappare un sorriso.
Il Santo Padre sarebbe stato fiero del suo operato, non aveva dubbi.
Dopotutto, c’era la mano del Signore a guidarlo. Non avrebbe
fallito.
« Andiamo! », gridò, ancora, stavolta
più forte e accelerando l’andatura del suo
destriero. « Roma non vi paga per rallentare i progetti di
Dio! »
E detto questo si lanciò al galoppo sul sentiero,
improvvisamente irrequieto circa il suo arrivo in città.
C’era una strana calma, su quelle colline.
Sperò con tutto il cuore che non si trattasse del tipo di
calma che di solito causa complicazioni.
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Capitolo 2 *** Capitolo Secondo - Colori d'Artista ***
Lechatvert
Secondo capitolo, babe!
°-°/
Tra l'altro, per chi se lo fosse perso, qui
c'è la oneshot da cui tutto questo ha origine.
Preparatevi, stavolta sono stata prolissa (passatemela una volta, d'ora
in poi mi riassumo, giuro!)
Un bacio!<3
Capitolo
Secondo
Colori d'Artista
Il Conte Levi di Fontenera impugnò l’affilata
spada di Toledo, rigirandola tra le mani per osservarla con occhi
estasiati. Era un’arma ben calibrata, leggera ed elegante,
con lo stemma del giglio rosso di Firenze in rilievo
sull’elsa.
« Allora », incalzò il fabbro.
« Vi interessa? »
Levi lo guardò con un sorriso gentile.
« Altroché, buonuomo! »,
esclamò, mettendo mano al borsello che portava legato alla
cintura. « Quanto volete per questa meraviglia? »
L’uomo parve pensarci un po’, muovendo gli angoli
della bocca a destra e a sinistra con fare indeciso.
« Ventisette fiorini, mio signore ».
Il Conte annuì, poi posò lo sguardo sul figlio
del fabbro, seduto in un angolo della bottega, intento a giocherellare
con il fodero riuscito male di una daga.
« Prendetene trenta e mandate vostro figlio a portare la
spada nelle mie stanze », concluse, allora. «
Alloggio alla pensione di Madonna Raffaella, chiedete del Conte di
Fontenera ».
L’uomo annuì, allungando la mano per ricevere le
monete.
« Come desiderate, mio signore. E grazie! »
Levi chinò il capo in cenno di saluto, lasciando la bottega
a piccoli balzi. Firenze era affollata, pervasa dagli acri odori del
mercato mattutino. Se, come lui, si era in grado di apprezzare la
frenesia del popolino, era sempre un piacere, trovarsi per quelle vie
all’ora di punta.
Sospirando, si guardò intorno con curiosità. Vi
erano bancarelle di profumatissima frutta, di trucco per signore, di
oli pregiati e di carne. Impossibile non trovare ciò che si
andava cercando, da quelle parti.
« Conte! »
Spintonata dalla folla, Madonna Ordelaffi lo raggiunse. Aveva in mano
un piccolo sacchetto di lino, probabilmente contenente della cipria
appena acquistata.
« Madonna, cominciavo a chiedermi se vi avessero rapita
», scherzò il Conte, offrendole il braccio per
invitarla a passeggiare. « In tal caso avrei sicuramente
dovuto trovare una scusa valida per vostro marito! »
La ragazza rise, accettando immediatamente il suo invito, e
incamminandosi verso Ponte Vecchio.
« C’è qualche posto in particolare che
vorreste visitare, Conte? », gli chiese.
« Vorrei fare visita a Santa Croce, se non vi dispiace
».
Lei parve sorpresa.
« Siete religioso, Conte? », chiese, con tono
meravigliato.
Lui annuì.
« Come tutti, Madonna. Ma sono cresciuto in un collegio di
Roma, sotto l’ordine dei benedettini. È
più un obbligo, che un piacere, per me, recarmi nella
basilica della città che visito ».
« Ezio non mi aveva mai detto niente riguardo a
ciò! », lo sgomento della ragazza continuava, man
mano che passavano Ponte Vecchio. « E, ditemi. Siete rimasto
laggiù a lungo? »
« Abbastanza. Fino alla proclamazione di Papa Sisto. Dopo di
che, sono stato costretto a fare ritorno a casa ».
« E come mai? »
Levi le fece l’occhiolino.
« State diventando un po’ troppo invadente, Madonna
», la riprese, con fare scherzoso. « Cosa direbbe
il vostro povero marito, se vi sentisse ora! »
La ragazza arrossì, chinando il capo con fare mortificato.
« Le mi scuse, Conte. Non intendevo impicciarmi nei vostri
affari … »
Levi rise di gusto, scrollando il capo. Lo divertiva, vedere come
Madonna Ordelaffi si imbarazzava facilmente.
Poi chinò improvvisamente gli angoli della bocca, ricordando
il suo ultimo giorno alla corte di Papa Sisto.
« Venite, Madonna. Voglio mostrarvi una cosa »,
disse, scacciando quei pensieri e sospingendo la ragazza verso un
angolo della strada. « È la bottega delle
meraviglie! »
Aprì le porte della bottega artigiana alla ragazza,
lasciando che fosse lei la prima ad entrare, poi la superò
con un balzo, guardandosi intorno con fare soddisfatto.
« Vecchio Verrocchio! », chiamò, alzando
la voce. « Verrocchio, siete in casa? »
Facendosi largo tra un piccolo gruppo di scultori all’opera
con i loro modelli, un uomo si avvicinò, accogliendoli
entrambi con un piccolo sorriso sulle labbra.
« Conte di Fontenera, quanto tempo! »,
esclamò. Poi guardò Madonna Ordelaffi.
« Non mi avevate mai scritto di esservi sposato! »
Levi rise, prendendo la mano della ragazza per porgerla a Verrocchio.
« Vecchio modo, per approcciare le fanciulle. Lasciate che vi
presenti Madonna Ordelaffi, la moglie di Messer Ezio Rangoni
».
Verrocchio le baciò la mano.
« Madonna ».
Lei gli sorrise, accennando un lieve inchino.
« Molto piacere ».
« Allora, Verrocchio », incalzò Levi.
« Quale gingillo avete da mostrarci, quest’oggi?
»
L’uomo alzò le spalle, desolato.
« Temo siate arrivati tardi. Giusto la settimana scorsa, uno
dei miei artisti ha dato prova della sua genialità con la
nuova colombina di Pasqua. È riuscito a venderla ai Medici.
Se foste stati qui domenica scorsa, avreste visto una vera e propria
meraviglia! »
Madonna Ordelaffi tirò la manica del Conte.
« Adoro lo spettacolo di Pasqua di Firenze! », gli
disse, illuminandosi con un sorriso.
Levi le sorrise di rimando.
« Che peccato », sospirò. «
Beh, aspetteremo la prossima opera d’arte per stupirci con le
vostre meraviglie. Andiamo, Madonna Ordelaffi. Dovreste riposarvi,
prima della festa ».
Lei annuì, offrendo al Maestro Verrocchio una leggera
riverenza.
Fecero per andarsene, ma una voce li bloccò.
« Madonna Ordelaffi, ferma! »
Lei sobbalzò, mentre Levi si voltò, allarmato.
Un giovane artista della bottega si avvicinava a passo spedito,
mordendo una mela.
« Madonna Ordelaffi », le disse, quando li
raggiunse. « Donatemi una ciocca dei vostri capelli!
»
« Leonardo! », lo richiamò Verrocchio.
Levi si voltò verso l’artista, tutto intendo ad
osservare la folta chioma rossa della ragazza.
« Quindi è lui, il tuo genio, Verrocchio!
», constatò.
Il Maestro alzò le spalle con fare rassegnato, confermando.
« I vostri capelli sono di un rosso che non ho mai visto, a
Firenze », disse l’artista. « Un rosso
singolare, quasi quello di un … »
Madonna Ordelaffi gli concesse un sorriso.
« Papavero? », suggerì. « Me
lo dicono in tanti ».
L’artista annuì.
« Vi prego, Madonna. Donatemene una ciocca. Voglio creare una
tinta quanto più simile a questa tonalità
».
Senza che Levi avesse il tempo per intromettersi, la ragazza
abbassò il capo in direzione di Leonardo.
« Prego, scegliete quella che più vi piace
».
Con delicatezza, l’artista le pettino una piccola treccia,
tagliandola infine per poi riporla tra le pagine del suo taccuino.
« Ho finito. Grazie, Madonna ».
La ragazza sorrise, poi si aggrappò di nuovo al braccio del
Conte, che per tutto il lavoro era rimasto in silenzio, osservando le
minuziose mani di Leonardo intente a intrecciare riccioli e ciuffi.
« Vi prego, Conte, portatemi a riposare, ora »,
disse, infine. « Non potremo permetterci di addormentarci in
piedi, dai Medici! »
« Come desiderate ».
Levi salutò con un cenno del capo i due artisti, girando sui
tacchi per immettersi nuovamente sulle strade affollate di Firenze.
Camminò in silenzio per qualche minuto, pensieroso.
« Non credo abbiate sia stato saggio, donare una ciocca dei
vostri capelli a quell’artista ».
Madonna Ordelaffi emise un gemito affranto.
« Oh, mi dispiace! Ma, ditemi. Cosa ve lo fa pensare?
»
Levi scosse il capo, tirando fuori un sorriso.
« Non ascoltate le mie paranoie, Madonna », le
disse. « Il viaggio deve avermi stancato più del
previsto ».
* * *
Con la pancia piena dall’abbondante cena che la pensione gli
aveva offerto, Girolamo Riario addentò l’unica
mela della fruttiera, appoggiando la schiena al muro gelido della sua
stanza.
Masticò quel frutto con gusto, assaporando l’aspro
sapere del succo, e incrociò le braccia sul petto con fare
pensieroso, mentre il suo sguardo assente vagava nel vuoto.
« Sono alquanto dispiaciuto circa gli avvenimenti degli
ultimi due giorni », mormorò, con gli occhi che
ancora non si staccavano dal pavimento.
Erano due giorni che si trovava a Firenze, erano due giorni che i
problemi non facevano altro che spuntare come funghi. Da quando Madonna
Donati aveva pronunciato il nome di da Vinci per la prima volta,
quell’individuo non più aveva abbandonato la sua
mente.
« Voi cosa ne pensate, Capitano Grunwald? »
L’uomo seduto di fronte a lui grugnì, ma non
osò proferire parola. Si limitò ad osservare le
mani del Conte; una stringeva ancora la mela, l’altra era
impegnata a disegnare un cerchio dopo l’altro su un pezzo di
cartastraccia.
Riario sospirò.
« Io penso
che non solo non abbiamo trovato ciò che stavamo cercando
», continuò. « Ma siamo stati anche in
grado di mettere in guardia sia i Medici che Firenze con
un’esplosione nella bottega più famosa della
città, il tutto in una sola giornata ».
Di nuovo, l’unica risposta che il suo capitano fu in grado di
dargli fu un soffuso brontolio.
Stavolta, il Conte alzò gli occhi sull’uomo.
« Tuttavia, non possiamo dire che sia stato un vero e proprio
buco nell’acqua. I Medici ci hanno aperto le porte
invitandoci al loro banchetto, una preziosa occasione per avvicinarci
ancora di più a questo famigerato artista ».
Fermò la sua mano, alzando di poco il mento.
« Mi aspetto che, entro domani a mezzogiorno, i vostri uomini
siano pronti a fare ritorno a Roma; con da Vinci, naturalmente
».
« Sì, mio Signore ».
Riario alzò gli angoli della bocca in un sorriso contorto.
« Molto bene, potete andare. Vi auguro una buona notte
». E addentò di nuovo la mela, posandola poi sul
tavolo.
Attese in silenzio che il suo rumoroso capitano lo lasciasse solo in
quella piccola stanza illuminata appena dalla fiamma di qualche
candela, poi abbandonò il suo disegno, infilando la mano
libera nella tasca interna del cappotto.
Qualcosa, prima dell’esplosione, era riuscito a portarlo via.
Qualcosa di insignificante, di cui probabilmente nessuno avrebbe notato
la scomparsa.
Dalla tasca estrasse un vecchio quaderno, dal quaderno un fazzoletto.
Aprì il piccolo quadrato di pezza, osservandone crucciato
ciò che da Vinci vi aveva riposto.
Con la punta delle dita, accarezzò la piccola treccia color
del sangue, percorrendone il taglio disordinato con insolita
delicatezza.
Aveva visto soltanto una volta, quella tonalità sulla testa
di una donna. L’aveva vista molto, molto tempo prima.
Inevitabilmente, si ritrovò a sussurrare il suo nome.
« Bianca … »
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Capitolo 3 *** Capitolo Terzo - Conte Levi di Fontenera ***
Lechatvert
Avvertenze:
per questo terzo capitolo la regia raccomanda la visione di due
documenti. Quando verrà descritta la faccia del bel Riario,
infatti, siete pregati di visualizzare
questo con un
sottofondo come questo.
Non
ho altro da dire. Buonanotte.
Un bacio!<3
Capitolo
Terzo
Conte Levi di Fontenera
« Madonna Ordelaffi, che piacere avervi qui a Firenze
».
Bianca osservò un piccolo sorriso aprirsi sul viso di
Madonna Orsini, mentre questa l’accoglieva con una piccola
riverenza.
« Vi ringrazio », rispose, facendo lo stesso.
« È un piacere anche per me. Firenze mi
è mancata molto, Madonna ».
« Siete invitata a farvi ritorno ogni qual volta lo
desideriate, anche con vostro marito, Messer Rangoni ».
« Riferirò l’invito. Ora, vi prego.
Vogliate scusarmi ».
La ragazza si congedò da Madonna Orsini, allontanandosi dal
piccolo palchetto della sala per dirigersi verso un tavolo a cui i
camerieri servivano il vino.
Il Conte di Fontenera se ne stava in disparte, stivale appoggiato al
muro, facendo roteare con fare nervoso il vino nel suo calice. Il fuoco
delle candele dipingeva strane forme sulla sua pelle diafana, mentre il
suo sguardo color della notte era perso in chissà quale
ricordo.
« Tutto bene, Conte? »
Bianca gli si avvicinò, cauta.
Lui la guardò scuotendo il capo.
« Vi dirò la verità, Madonna.
È da quando siamo arrivati in città che ho nelle
narici un odore sgradevole », confessò.
Lei rise.
« Forse non siete abituato all’aria fresca della
campagna, qui è diverso ».
« Acuta, ma non credo proprio. È un odore talmente
spiacevole che riesco ad attribuirlo a due sole persone. So di per
certo che una si trova a Roma ma … »
Improvvisamente, lo sguardo spento di Levi si accese.
« Mettetevi dietro di me, presto »,
mormorò.
Bianca obbedì, abbassando lo sguardo sulle mani del Conte.
Le sue mani erano scese ad accarezzare l’elsa della spada.
« Conte, che succede? »
« Guardate dritto davanti a voi, Madonna ».
In quel preciso istante, Bianca provò l’orribile
sensazione di stare venendo osservata da lontano, da uno sguardo
tutt’altro che amichevole.
Alzò il viso verso il palco. Là, poco distante
dai coniugi de’ Medici, qualcuno la scrutava da in fondo alla
sala. Due occhi scuri puntati su di lei, circondati da un volto pallido
ed emaciato, accanto a una bocca sottilissima, increspata da un leggero
broncio.
Bianca mosse un passo indietro, attaccandosi alla cappa verde del Conte
di Fontenera.
« Andatevene », le ordinò lui.
« E aspettatemi al portone, vicino alle guardie. Vi
raggiungerò immediatamente ».
La ragazza non disse una parola, voltandosi immediatamente verso
l’entrata della sala. Immediatamente, si ritrovò
sull’oscurità delle scale deserte. La brezza
gelida della notte saliva dai portoni aperti al piano terra, muovendole
leggermente i capelli mentre si precipitava giù per quei
gradini di marmo che sembravano non finire mai.
Non pensava, non ci riusciva, ma sentiva gli occhi umidi e sul punto di
scoppiare. Sentiva la gambe diventare pesanti, la gola farsi secca,
quasi avesse appena avuto un orribile incubo.
Alle sue spalle udì una voce chiamarla, fu solo un sussurro,
“Bianca”, ma fu sufficiente.
Perse l’equilibrio proprio mentre si affrettava a scendere
l’ultimo gradino e rotolò a terra, atterrando sui
gomiti lasciati scoperti dalla veste.
Dietro di lei, sulle scale, c’erano dei passi.
« Non avete mai avuto fortuna con le scale, questo
è poco ma sicuro ».
Un paio di stivali si fermarono davanti ai suoi occhi. Il rumore della
pelle stridette sul pavimento appena pulito e, inaspettatamente, una
mano si tese per aiutarla ad alzarsi.
« Vi siete fatta male? »
Riluttante, Bianca accettò l’aiuto.
« No, mio signore », mormorò, con un
inchino. « Vogliate scusarmi ».
Fece per andare, ma un braccio le bloccò la strada.
« Non così in fretta, Madonna Ordelaffi ».
Titubante, la ragazza fu costretta a ritrarsi.
Lentamente e completamente tremante, alzò gli occhi verso la
figura che la sovrastava, incrociando di nuovo quello sguardo fatto di
un misto tra sorpresa e severità.
« Co … Conte Riario, quanto tempo »,
balbettò, sistemandosi il vestito come meglio poteva nel
tentativo di apparire quantomeno presentabile.
Nel frattempo, implorava Levi di raggiungerla.
L’uomo alzò la mano inguantata, accarezzandole
delicatamente una guancia.
« Siete rimasta bambina, Bianca »,
sussurrò, quasi intendesse parlare a se stesso. «
È curioso come il vostro sguardo sia restato quello di un
animale impaurito. Vi prego, non abbiate timore. Mi fa sempre piacere
incontrare un vecchio amico, specialmente voi … »
Tolse la mano dalla guancia e le offrì il braccio, ma, prima
che Bianca potesse anche solo pensare di accettare
quell’invito, una lama la allontanò da lui,
permettendo al Conte di Fontenera di mettersi in mezzo.
« Lo dicevo io, che il tanfo qui era insopportabile
», commentò questi, con la spada sempre protesa
verso Riario. « Conte, è passato molto tempo
dall’ultima volta che abbiamo avuto modo di discorrere
».
« Certamente non ne è passato molto
dall’ultima volta che vi ho visto saltellare come una lepre
per la corte di Roma ».
Levi alzò le spalle.
« Sono dovuto tornare a sbrigare le faccende che avevo
lasciato in sospeso ».
« Credevo al collegio vi avessero insegnato la buona
educazione di concludere ogni impegno preso, prima di fuggire con la
coda tra le gambe ».
« Se l’educazione che ho ricevuto al collegio
è simile a quella che avete ricevuto voi, non mi stupirei
poi tanto della mia vigliaccheria ».
Vi fu un rapido scambio di sguardi, poi Riario alzò le mani.
« Portevela via, Conte Levi », disse,
infine. « Siete troppo giovane per impugnare una
spada. Non vorrei mai che Madonna Ordelaffi si facesse del male, o
peggio ».
Levi sorrise.
« Sono molto più abile di quanto pensate. Non
temete, Madonna Ordelaffi sarà al sicuro ».
Riario sollevò appena gli angoli della bocca.
« Peccate di superbia », osservò,
divertito. « Siete di certo un abile spadaccino, ma avete
quanti, diciannove, vent’anni? Mancate di esperienza
».
Bianca osservò il profilo di Levi. Giovane, sì,
ne era al corrente, ma non immaginava non raggiungesse i venticinque
anni.
« La mia superbia è l’ultimo dei miei
problemi, Conte ».
« Sono lieto la pensiate così ».
Levi sospirò, rivolgendosi a Bianca.
« Andiamo, Madonna? »
Lei gli porse la mano.
« Con piacere, mio signore ».
Si voltò appena per dirigersi verso l’uscita
assieme a Levi, ancora in guardia e con la spada sfoderata, ma si
fermò.
« Buonanotte, Conte Riario », disse, senza osare
guardarlo in faccia.
Di lui udì soltanto la voce, mentre si allontanavano da
Palazzo de’ Medici.
« Buonanotte, Bianca ».
* * *
« Cosa significa “Madonna Ordelaffi ha mandato a
prendere i bagagli ed è partita dopo cena”?!
»
Furioso, il Conte Riario batté un pugno sul tavolo di legno
della pensione, stringendo i denti di fronte alla proprietaria che, dal
canto suo, non sapeva se preoccuparsi per il suo evidente stato di
agitazione o, piuttosto, per il rischio che stava correndo nel
rimanergli accanto in un momento di rabbia.
« Un servitore dei de’ Medici è arrivato
qui poco prima delle nove, mio Signore », gli
spiegò, pacata. « Ha ritirato i bagagli di Madonna
Ordelaffi e quelli di Messer di Fontenera ».
Riario strinse in pugni.
Non c’erano più, probabilmente erano
già ripartiti alla volta della stupida terra dalla quale
provenivano.
Ma come avevano fatto, come? Erano rimasti a palazzo almeno fino alle
nove e dieci, visto il piacevole discorso che aveva avuto modo di
intrattenere con il Conte di Fontenera. Come avevano fatto i Medici,
dunque, ad inviare un servitore ancora prima di vederli andare via?
Strinse i denti, cercando di concentrarsi, ma tutto quello che sentiva
oltre la rabbia era un gran mal di testa.
Eppure, sforzandosi un po’, la soluzione gli apparve
improvvisamente lampante.
I Medici non erano stati minimamente coinvolti nella cosa.
Il Conte era stato saggio, oh, se lo era stato. E intelligente, anche.
Approfittare per quell’unico attimo in cui lui era impegnato
a seguire Bianca per pagare un servitore dei Medici e far spostare i
bagagli in qualche posto sicuro per far credere a lui e agli uomini di
Roma di aver abbandonato Firenze, quando invece si trovava in una
qualsiasi taverna a festeggiare la vittoria.
« Astuto, Conte », si ritrovò a
sibilare, appoggiando entrambe le mani sul tavolo. « Ma
ancora per poco ».
Lanciò una rapida occhiata alla donna della pensione,
portandosi una mano al mento con fare pensieroso. La guardò
dritta negli occhi per qualche istante, alla ricerca di qualche
particolare, qualche bugia che gli era sfuggita durante quel suo
interrogatorio.
No, probabilmente aveva evitato di coinvolgerla.
« Capitano Grunwald! », gridò, scattando
in piedi. « Date un compenso a questa donna per la sua
gentilezza e pagate ciò che i vostri uomini hanno bevuto
».
Con passo spedito, si diresse in strada, esaminando la strada deserta
davanti a sé. Portò le mani dietro alla schiena,
riempiendosi di aria fresca i polmoni.
Quando il capitano lo raggiunse all’esterno, si
calcò il cappello sul capo.
« Fate sorvegliare la pensione giorno e notte »,
impose. « Questa e anche le altre pensioni di Firenze. E fate
in modo di scoprire se Madonna Ordelaffi ha fatto ritorno a Palazzo
Rangoni ».
Si era informato, aveva appreso ciò che c’era da
apprendere circa il suo matrimonio fatto in fretta e furia con un
lontano cugino. Sapeva anche del suo più completo isolamento
da quella che era la vita mondana.
Nel suo nascondersi, Bianca aveva fatto un unico, piccolissimo errore.
Aveva cercato di mantenere l’unico rapporto di amicizia che
le era rimasto.
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Capitolo 4 *** Capitolo Quarto - La Cantina di Marmo ***
Lechatvert
Specifico che sono gli esami a rendermi così celere, non vi
ci abituate. Stavolta sono stata ancora più prolissa. Oooops.
Ma, ve lo prometto, è l'ultima volta <3
Nel testo vi è una citazione de "L'ultimo
Lupo", un libro che ho letto da bambina e che mi è
rimasto dentro. Per chi se lo stesse chiedendo, Fonterossa è
il paesino di montagna dove il libro è ambientato.
Non mi resta che augurarvi buona lettura :D
Un bacione!<3
Capitolo
Quarto
La Cantina di Marmo
Si svegliò di soprassalto, impugnando istintivamente il
fodero della sua spada. Si drizzò sulle gambe e
balzò in avanti, verso l’unica luce che illuminava
la cantina.
Una flebile fiamma avanzava cauta nel buio, probabilmente ignara della
sua presenza.
Trattenendo il respiro, Levi abbandonò momentaneamente la
guardia, muovendosi dalla sua postazione.
« Non un passo, Messere », sibilò,
quando fu abbastanza vicino da sentire il fiato dell’estraneo
muovere l’aria.
« Conte! », la voce briosa dell’artista
lo convinse ad abbandonare del tutto ogni idea di sfoderare la spada.
« Non si adiri, sono io! »
« Aspettate ».
Senza trovare particolari difficoltà, Levi
scivolò lungo la parete di sassi della cantina, tastando
attorno a sé alla ricerca della lampada ad olio che aveva
abbandonato quando si era coricato. La accese con l’ultimo
cerino che gli era rimasto in tasca, voltandosi poi verso
l’artista, che approfittò della lanterna per
spegnere la sua minuscola candela.
Levi lo scrutò, dubbioso.
Le fiamme si specchiavano sulla camicia bianca, chiusa appena sopra
l’ombelico con un laccio, in mano stringeva una bottiglia
già stappata e un paio di bicchieri di vetro.
« Immagino che Madonna Ordelaffi sarà stanca, ma
… »
Levi lo interruppe con freddezza.
« Madonna Ordelaffi si è già coricata,
gradirei non la svegliaste per un bicchiere di idromele. È
la prima notte che riesce a dormire, dopo l’incidente a
Palazzo de’ Medici ».
L’artista abbassò il capo, ridendo piano.
« Capisco, capisco », rispose. « Tuttavia
stiamo festeggiando, là fuori. Verrocchio ha soltanto
pensato che vi avrebbe fatto piacere ».
Erano mesi che Levi non toccava un buon bicchiere di idromele. Anche
togliendo quei tre giorni passati al buio in una cantina che puzzava di
olio, nella piccola terra di Fontenera non vi era più nulla
del genere. Di solito le acquistava direttamente da Palazzo Rangoni, ma
ora che anche Ezio si era messo a fare l’astemio, gli
capitava assai di rado di mettere le mani su quel tipo di bevanda.
« Date qui, artista », disse allora, posando
finalmente a terra la spada nel fodero.
Si accomodò su un blocco di marmo e cominciò a
servirsi, illuminato dalla calda luce della lampada a olio.
« Volete favorire? »
L’artista non se lo fece ripetere due volte.
« Volentieri, grazie », rispose, accomodandosi di
fronte a Levi. « Immagino Madonna Ordelaffi sia esausta
».
« Non è solita coricarsi in una cantina di artisti
come voi ».
« Quando farete ritorno a Fontenera? »
Levi alzò le spalle, bevendo un sorso di idromele. Il sapore
dell’alcol lo rinvigorì immediatamente.
« Io? Non ne ho idea. Sto progettando di portare Madonna
Ordelaffi a Bologna da suo marito, prima di fare ritorno nelle mie
terre. Ma è ancora troppo presto, gli uomini di Riario
gironzolano anonimi per Firenze, chissà quanti ce ne
saranno, sulla strada per Bologna ».
L’artista si mostrò d’accordo.
« Dimenticate che, tre giorni orsono, ho fatto saltare in
aria metà della scorta del Conte, mettendolo sulla strada
per Roma », fece notare.
« Sapete meglio di me che la scorta che avete visto
è soltanto quella ufficiale. Ci sono altri uomini. Roma ha
messo radici anche a
Firenze ».
Dopo l’ennesimo sorso, Levi alzò gli occhi
sull’artista, incontrando il suo sguardo pensieroso.
« Vi sto sconvolgendo, arista? », gli disse allora,
con un mezzo sorriso.
« Nient’affatto, Conte ».
« Forse dovreste tornare dal Maestro Verrocchio, non voglio
strapparvi ai vostri festeggiamenti ».
« Roma non vuole Madonna Ordelaffi »
Levi piegò il capo a destra, sgranchiendosi il collo.
« Mi fa piacere vedere che sapete usare la testa ».
« Ma, se non è Roma, a volerla …
perché dovrebbe volerla Riario? »
« Ogni famiglia ha i suoi scheletri nell’armadio,
artista. Parole mai dette, porte lasciate chiuse. Indagarvi
può essere pericoloso ».
L’artista appoggiò il bicchiere sul marmo.
« Non è mia intenzione indagare
alcunché ».
Levi sbuffò.
« Meglio così ».
« Vi lascio riposare, Conte. Sembrate esausto ».
Esausto. Levi aveva passato le ultime tre notti a balzare in piedi per
ogni sorcio che rosicchiava le assi del soffitto.
Era felice di non avere uno specchio, laggiù. Almeno non
sarebbe potuto inorridire di fronte alla sua stessa immagine, lasciando
invece quel compito ingrato a chi lo circondava.
« Buonanotte, artista », mormorò,
versandosi un altro bicchiere di idromele.
Il giovane seguace di Verrocchio se ne andò con un inchino e
un grande sorriso dipinto sul viso, quasi quella faccenda lo divertisse
parecchio. O incuriosisse, naturalmente.
Levi ridacchiò.
In fondo, non erano poi così diversi.
Finì il suo ultimo bicchiere di idromele e si mise a frugare
nella sua borsa, alla ricerca di un pezzo di carta e il suo pennino.
Accidentalmente, fece rotolare per terra anche qualcos’altro,
una moneta, forse, che tintinnò sul marmo.
Quando lo raccolse, si lasciò scappare un sorriso, portando
l’oggetto alla luce della lanterna.
Un anello d’oro brillava nella sua mano inguantata,
sfoggiando con arroganza un grosso rubino dal davanti e
l’insegna papale sul dorso.
Lo esaminò con attenzione, constatando che quella era la
prima volta che lo prendeva in mano da quando lo aveva rubato dalle
scrivanie papali.
« Mi aiuterai a ricostruire le mie terre bruciate
», mormorò, baciando la pietra preziosa.
« Pagheranno con il loro stesso fuoco la morte di Fonterossa
».
E, con una risata, lasciò che l’anello sparisse di
nuovo in fondo alla borsa.
Recuperata carta e pennino, invece, si mise a scrivere velocemente un
biglietto, annotando minuziosamente ogni particolare degli ultimi
giorni passati a Firenze, specificando l’ubicazione esatta
del luogo in cui si erano nascosti.
Sapeva di stare correndo un grosso rischio, ma, nonostante i tentacoli
di Roma avessero allentato la presa sulla città, per
riuscire a mettersi in salvo avevano entrambi bisogno di aiuto, sia lui
che Madonna Ordelaffi.
Avrebbe trovato un modo per mettere al corrente de’ Medici
della situazione, così come Ezio Rangoni, anche se per
quello avrebbe avuto bisogno di una considerevole dose di fortuna.
Spense la lanterna e, infilato il biglietto in una tasca della borsa,
si coricò.
* * *
La
giornata era iniziata decisamente bene.
Non
solo il Conte di Fontenera le aveva permesso di fare un rapido giro per
il mercato di Firenze, ma aveva anche proposto, di sua spontanea
volontà, una breve cavalcata nei prati circostanti la
città.
Bianca non era in grado di galoppare, così il Conte si era
offerto di farle da cavaliere, affittando una delle bestie di un
cocchiere.
Era un pomeriggio mite, con il sole che splendeva nel cielo azzurro e
una lieve brezza che soffiava da nord a rinfrescare la città.
« Non eravate mai stata a cavallo? », le chiese il
Conte, quando giunsero in un prato di erba secca.
Lei scosse il capo.
« Una volta, da bambina. Ma non è stata una bella
esperienza ».
Ricordava ancora il cavallo imbizzarrirsi e cercare in tutti modi di
fuggire al controllo di suo padre per fuggire verso il bosco. Se non ci
fosse stato lui a tenerla ferma sulla groppa dell’animale,
probabilmente sarebbe stata disarcionata nel giro di qualche secondo.
Levi scese a terra con un balzo, prendendola in braccio aiutarla a
raggiungerlo, e legò le redini del cavallo al tronco di uno
degli alberi del rado boschetto che si apriva sulla piana.
« Sono sicuro che un giorno sarete un’eccellente
cavallerizza », le disse, facendole l’occhiolino.
« Ora venite con me, devo mostrarvi una cosa ».
E si inoltrò nella boscaglia, sparendo dalla vista della
ragazza.
Bianca scrutò gli alberi, indecisa, ma si costrinse a
seguirlo più per costrizione che per coraggio.
« Conte? »
Lo chiamò, trovandolo indaffarato a esaminare la terra del
sottobosco.
« Cosa fate? »
« Vi procuro un bastone », rispose lui, alzandosi
con un ramo di nocciolo tra le mani. « Prendete, è
abbastanza robusto ».
Glielo lanciò, probabilmente confidando in una destrezza che
Bianca non possedeva, con il risultato di farla cadere a terra, bastone
al suo fianco e una modesta quantità di terra tra i capelli.
« Ezio vi ha trattata bene, eh? »,
scherzò.
Lei rise, rialzandosi a fatica.
« Un po’ », ammise.
Si lisciò il vestito, continuando a ridere, per poi passare
a una veloce pettinata ai capelli, passando le dita tra le ciocche
più grosse. Infine, prese in mano il bastone, lanciando
un’occhiata al Conte.
« Quindi? »
Il ragazzo mise le braccia dietro la schiena.
« Colpitemi ».
Bianca abbassò il bastone, improvvisamente diventato un arma.
« Oh, Conte. Non potrei mai! »,
piagnucolò, dispiaciuta.
Lui si fece serio.
« Madonna Ordelaffi, non sarò sempre al vostro
fianco a proteggervi. Verrà un giorno in cui sarete da sola
e starà a voi mettervi in salvo. Per quanto mi rincresca,
non sarò qui per sempre », spiegò.
« Quindi, coraggio, colpitemi ».
Bianca strinse la presa attorno al bastone. Non aveva mai alzato nulla
contro nessuno, non sapeva neanche da che parte cominciare.
Si avvicinò titubante al conte, puntandogli contro la sua
arma. Poi chiuse gli occhi, alzò le braccia e
provò a colpire.
« Madonna, guardatemi ».
Aprì gli occhi.
Il bastone giaceva ad almeno due piedi dal Conte, che, evidentemente,
non aveva avuto bisogno di muoversi di un solo passo.
Bianca sospirò, affranta.
« Non sono capace », constatò.
Il Conte sospirò a sua volta, ma con un po’ di
animo in più.
« Non dite così, Madonna. Imparerete ».
Le porse di nuovo il bastone, donandole un sorriso di incoraggiamento.
« Prima di tutto, c'è una cosa che dovete tenere a
mente »,
spiegò. « Le dita sono
la cosa più facile da rompere. Facilmente, vi troverete
davanti uomini di guerra, che con tutta probabilità si
saranno rotti le dita almeno tre volte. Questo li renderà
vulnerabili, le ossa non sono in grado di ripararsi completamente, non
se
non vengono sistemate in tempo, e durante le battaglie non
c’è tempo per una cura completa. Quindi, se vi
doveste trovare ad affrontare un nemico con un bastone come questo,
mirate alle mani e colpite più forte che potete ».
Bianca osservò il palmo aperto della sua piccola mano.
Rabbrividì.
« Non posso semplicemente scappare? »
« Saranno più veloci ».
« Potrei urlare aiuto ».
« Sarà loro cura imbavagliarvi prima che riusciate
ad emettere un solo gemito. Madonna, dovete imparare a difendervi
».
Riluttante, la ragazza si arrese.
« D’accordo », mormorò.
« C’è altro che devo sapere? »
Levi le sorrise.
« Siete molto coraggiosa », le disse. «
Dunque, se il piano delle mani non dovesse funzionare, avete due
strade. La prima è l’equilibrio. L’uomo
è l’essere che ne ha meno, tra le creature
viventi. Due gambe non ci conferiscono abbastanza stabilità,
specialmente se proviamo a correre. E poi, Madonna, il viso ».
Il Conte fece una pausa, passandosi la mano sulla punta del mento,
indicando una piccola cicatrice che ne seguiva la forma.
« Contiene quattro punti mortali e due che stenderebbero
chiunque e non gli permetterebbero di riprendersi completamente per
almeno venti minuti ».
Bianca ascoltò con attenzione, cercando di memorizzare
quanto più possibile.
« Mano, Viso, equilibrio », riassunse, infine.
Levi annuì.
« Non abbiate paura di ferire il vostro nemico »,
concluse. « Siete troppo debole per fare del male a un uomo,
ma potete guadagnare il tempo necessario alla fuga. E ricordate:
preferite un nascondiglio, alla corsa. Le persone raramente guardano
ciò che hanno sotto gli occhi ».
Bianca si fece pensierosa.
Dove mai si sarebbe potuta nascondere, con i capelli del colore del
fuoco. In una fornace, forse? Le tornarono alla mente i campi di
papavero che circondavano le campagne di Forlì. Forse,
facendosi piccola piccola in un posto del genere, gli uomini del Conte
Riario l’avrebbero scambiata per una pianta.
Si lasciò scappare una piccola risata all’idea,
poi guardò il Conte di Fontenera.
« Conte? »
« Sì? »
« Mi chiedevo … esattamente, dove si trova
Fontenera? »
Non ricevette risposta.
* * *
Girolamo Riario starnutì e il suo starnuto percorse con un
sonoro eco tutto il corridoio delle prigioni.
L’uomo dall’altra parte delle sbarre
alzò un sopracciglio.
« Dovreste avere più a cuore la vostra salute,
Conte Riario », lo schernì.
L’uomo rimase in un silenzio stizzito. Guardò con
collera la scacchiera, dove le pedine avversarie lo avevano appena
stracciato per l’ennesima volta.
Non riusciva a capacitarsi di tutte le sconfitte che aveva accumulato
in quei mesi.
« Sapete, il mese scorso il Conte di Fonterossa è
venuto a farmi visita », continuò il prigioniero,
facendosi pensieroso ed accarezzandosi la barba come per rammentare il
volto di quel giovane. « È senz’altro
cresciuto, dall’ultima volta che l’ho visto a Roma
».
Riario non perse di vista la scacchiera.
« Non … lo è più
… », mormorò, stretto tra i denti.
« Le sue terre non si chiamano più così
».
« Avete ragione. È Fontenera, ora, il suo nome
».
Il vecchio accennò una risata, nascosto sotto il suo
mantello.
« Che azione crudele, dare fuoco alle terre di un ragazzino
».
Con delicatezza, Riario tolse le pedine dalla scacchiera, cominciando a
dividerle per colore, e consegnando quelle nere al prigioniero.
« Levi di Fontenera è stato accolto alla corte di
Roma per ricevere la migliore educazione ma, non contento, prima di
fare ritorno alle sue terre ha pensato bene di oltraggiare il Santo
Padre con un furto », spiegò, posizionando la sua
prima pedina. « Gli ho dato esattamente ciò che si
meritava ».
« Avete dato alle fiamme ogni cosa in suo possesso
».
Riario corrugò la fronte.
« Vi sbagliate », rispose. « Gli ho
lasciato la vita. Dovrebbe essermi grato, in vero. Non è una
grazia simile cada sulla testa di ogni peccatore che incontro
».
Il prigioniero annuì.
« C’è più di questo, non
è vero? », incalzò, piazzando a sua
volta una pedina.
Riario annuì, assente.
« Ho incontrato una persona, a Firenze ».
« Una donna? »
Il Conte scosse il capo.
« Un’amica », rispose.
Non mosse nessuna pedina, rimase fermo a fissare nel vuoto.
« La prossima mossa, Conte? »
Riario ci pensò un istante.
« Riportarla a casa ».
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Capitolo 5 *** Capitolo Quinto - Ritratto d'Autore ***
Lechatvert
Senza parole, ho finito le prove scritte!
E che vi basti questo più un abbraccio colmo di amorevole
affetto ★
Capitolo
Quinto
Ritratto d'Autore
Levi lasciò Firenze a cavallo di un mulo, rubato dalle
stalle di Verrocchio, poco prima che la luna arrivasse a
metà del suo viaggio attraverso la volta celeste.
Era una notte fredda, nebbiosa, illuminata più dai lumi
della città che da quelli del cielo. Ad ogni passo, il mulo
provvedeva a sottolineare il suo sdegno nel venire condotto (per di
più a quell’ora) tra i boschi che circondavano
Firenze.
Un paio di volte, il Conte fu persino tentato di mollare
l’animale in mezzo al sentiero e procedere a piedi, certo che
la sua andatura sarebbe stata alquanto più celere, eppure
provava un certo senso di inferiorità a presentarsi a piedi,
così si convinse del detto “Chi va piano va sano e
va lontano” e attese che il mulo si mettesse
nell’ordine di idee di arrivare prima dell’alba.
Non fu difficile trovare gli uomini di Riario, anzi, Levi quasi si
stupì di quanto in vista fossero accampati, quasi pronti ad
essere avvistati, malamente ammassati contro i resti di
un’antica chiesa pagana.
Si chiese se il motivo di tanta trasparenza non fosse proprio
l’intenzione a farsi scoprire.
Scese dal suo destriero con un balzo, presentandosi a uno
degli uomini di ronda.
« Sono il Conte Levi di Fontenera »,
annunciò, impettito in una veste rossa fresca di sartoria.
« Gradirei parlare con il Capitano Generale della Santa
Romana Chiesa ».
L’uomo lo squadrò da testa a piedi, soffermandosi
sul suo viso da ragazzino e commentandolo con un sorriso di scherno e
una scrollata di capo.
« Venite con me, Conte. Il Capitano vi sta aspettando
».
Levi annuì, stringendo i pugni.
Avvertiva nell’aria una strana carica di
elettricità, quasi quel luogo fosse pronto a prendere fuoco
da un momento all’altro. Respirando a fondo l’aria
fresca della notte, si augurò che ciò non
accadesse.
Il Conte Riario lo aspettava all’esterno, seduto a un piccolo
tavolino sistemato accanto a un muro in pendenza. La fiamma di una
piccola candela gli illuminava il viso, rendendo i contorni del mento
più aguzzi di quanto già non fossero.
Levi deglutì, avvinandosi con fare incerto.
« Conte, vi stavo aspettando », gli disse Riario,
mostrandogli una sedia sulla quale accomodarsi. « Vi prego,
prendete posto. Abbiamo molto di cui parlare ».
Senza dire nulla, Levi obbedì.
« Sono venuto a sapere che state progettando di ridare vita a
Fontenera », continuò Riario, accompagnando
l’osservazione con un sorriso divertito. « Mi
chiedo con quali finanze tale opera verrà istituita
».
Levi scrollò le spalle.
« Che ci crediate o meno, ho ancora una modesta
quantità di denaro, messa da parte. La mia famiglia ha
guadagnato per generazioni, con la vendita del vino di Fonterossa
».
Riario annuì, solenne.
« Ah, certo, certo. Il vino delle viti che sono bruciate
».
« Non sono bruciate. Voi le avete gettate alle fiamme
personalmente ».
« Il che, se non erro, le ha portate a bruciare ».
Esasperato, Levi alzò gli occhi al cielo.
« Non sono venuto per parlare dei miei vigneti »,
tagliò, schietto.
Riario gli rivolse un sorriso divertito.
« Certo che no. Siete venuto per vendermi Madonna Ordelaffi
».
« Riario, non vi venderò mai Madonna Ordelaffi.
È troppo candita, per voi. Le sporchereste gli abiti anche
solo a guardarla ».
L'uomo sospirò, quindi, senza mostrarsi particolarmente
toccato dalla cosa.
« Sapete, vero, che non ho mai avuto problemi a prendere
ciò che è mio ».
Levi alzò le spalle.
« Fin troppo bene, ma ringrazio che, in questo caso, lei non
sia vostra », rispose.
« Forse, ma ogni cosa ha un prezzoo. Ditemi dove si trova
Bianca e apllicherò personalmente i miei uomini
affinché Fonterossa venga ricostruita ».
Il giovane conte, fatta una risata, scrollò il capo,
divertito.
« Non voglio la vostra carità, Riario! »
L’altro lo guardò, astioso.
« Fareste bene a desiderarla, invece »,
sibilò.
Levi lo guardò, cogliendo nel suo sguardo scuro il segno
della paura. Non lo concepiva, negli occhi di uno come Riario, ma seppe
giocarlo a suo vantaggio.
« Vendete meglio i vostri prodotti, Riario »,
sentenziò, abbandonando la sedia su cui era seduto.
« E, forse, troverete degli acquirenti interessati
».
Gli diede la schiena per muovere qualche passo verso il suo mulo, poi
si fermò.
Si voltò e gli lanciò un’ultima
occhiata dubbiosa.
« Non c’è altro, vero? »
Riario alzò appena il capo.
« Ci sarebbe la questione dell’anello del Santo
Padre », mormorò, atono. « Ma non vi
preoccupate, non lo dirò a nessuno, non finché
non lo userete per ricostruire casa vostra. Allora sarà mia
premura venire e ridare alle fiamme le vostre terre. Stavolta,
però, non avrò l’accortezza di tenervi
fuori dal fuoco ».
Il viso di Levi perse d’un tratto colore, mentre la mano
destra andava a stringere la stoffa ruvida della sua borsa.
« Non so di cose state parlando, Riario »,
buttò lì, facendo l’offeso. «
Ho pagato il mio debito con Roma molto tempo fa, ora non voglio
più averci a che fare ».
L’uomo di fronte a lui alzò gli angoli della
bocca, formando un piccolo sorriso carico di malvagità.
« Datemi Madonna Ordelaffi e cancellerò il vostro
debito », gli sussurrò, maligno.
Levi sbuffò.
Tornò sul tavolo da cui Riario non aveva accennato a
muoversi e ci poggiò sopra la borsa, seccato. Vi
rovistò un po’, pungendosi il dito con uno degli
aghi che portava infilati alla tasca interna, e ne estrasse il
biglietto che aveva scritto la sera prima.
« Questa è una lettera per Messer Rangoni
», spiegò, tenendolo piegato nella mano destra.
« C’è scritta l’ubicazione
esatta di dove, in questo preciso istante, Madonna Ordelaffi
sta riposando ».
Riario ammutolì, le labbra serrate, i lineamenti duri. I
suoi occhi brillavano alla luce della candela e fissavano con bramosia
quel biglietto.
Levi lo guardò, sfoggiando un mezzo sorriso di scherno.
« Ma è mia, e non ho intenzione di farvela leggere
».
Con sorprendente velocità,
l’accartocciò e la rifece sparire
all’interno della borsa.
Riario gli rivolse un’occhiata scomposta, lasciandosi
scappare un mugugno dalla bocca aperta per lo stupore.
« Bruciate pure ciò che resta da bruciare
», continuò Levi, seppur con amarezza. «
Distruggete ciò che è rimasto da distruggere. Poi
fermatevi a guardare la cenere sotto ai vostri piedi, e piangete.
Perché, dopo tutta quella fatica, non sarete comunque
riuscito a trovare Madonna Ordelaffi ».
Fece una pausa, concedendosi uno sbadiglio e una stiracchiata di
braccia.
« Buonanotte, Conte Riario », concluse, avviandosi,
stavolta seriamente, verso il suo mulo. « Mi raccomando, non
prendete freddo ».
Si allontanò ridendo a gran voce, prendendo le briglie del
suo amico il mulo, e facendo roteare con leggiadria il fodero della sua
spada.
Credeva, ma non lo sapeva per certo, che mai come in quel momento il
Conte Riario avesse desiderato affondargli il suo stiletto nel petto.
Immaginò la figura dell’uomo leccarsi nervosamente
le labbra, toccando con le punte delle dita la lama del suo piccolo
pugnale, mentre gli occhi, fermi sulla sua figura in lontananza,
fiammeggiavano di odio.
Presto avrebbe avuto gli uomini alle calcagna, dunque.
Con la mente, ridisegnò il percorso che aveva fatto
all’andata, cercando di focalizzare un buon nascondiglio.
Quella sarebbe stata una notte movimentata.
* * *
Leonardo
da Vinci le passò le mani tra i capelli, esaminandone con
sguardo crucciato la lunghezza, il colore, le varie tonalità
date dalla luce del sole che filtrava dalle finestre. Da quando le
aveva chiesto di permettergli di studiare la sua chioma per la seconda
volta – della ciocca, Dio solo sapeva cosa ne avesse fatto
– e lei aveva acconsentito, l’artista era caduto in
un pesante silenzio, interrotto di tanto in tanto da uno sbuffo o un
mugolio sommesso che egli emetteva ogni qual volta fallisse nel
mischiare i colori.
Bianca sospirò, accoccolata sul piedistallo di legno nello
studio di Leonardo.
Il Conte se n’era andato prima che lei si svegliasse,
lasciando nella cantina tutti i suoi averi. Si era preoccupato di
portare con sé solo il suo nuovissimo spadino con il giglio
sull’elsa e la borsa che si teneva stretto addosso anche
quando dormiva.
L’aveva lasciata da sola tutta la mattina, senza preoccuparsi
di recapitarle alcun messaggio. E poi erano già a
metà del pomeriggio, il sole non sarebbe stato capace di
illuminare il cielo ancora per lungo. Era preoccupata.
« Ditemi, Messer da Vinci », cominciò,
speranzosa. « Avete per caso visto il Conte, stamani?
»
L’artista scosse la testa, raccogliendo dal pavimento
l’ultimo papavero di quello che, un tempo, era stato un bel
mazzo.
« No, oggi no », rispose, assente, portando il
fiore sul capo della ragazza. « Dove sto sbagliando?
»
« E ieri sera? L’avete visto? »
Messer da Vinci sospirò rumorosamente, buttando indietro il
capo.
« Volete stare calma? », si lamentò,
seccato. « Non riesco a pensare, se continuate a fare
domande! »
Bianca s’imbronciò un poco. Detestava essere
zittita ma, d’altronde, non aveva il coraggio di ribellarsi,
quindi rimase in religioso silenzio sul suo piedistallo, cercando una
soluzione a quel rompicapo.
Dove poteva essere fuggito, un ragazzino come il Conte?
Pensò ad un bordello, ma lui non era tipo da frequentare
certi posti … una partita di dadi, forse? Non le sembrava
una cosa così improbabile. Magari aveva perso la sua amata
spada al gioco e stava cercando disperatamente di riconquistarla.
Affranta, si fece scappare un l’ennesimo sospiro.
« Messer da Vinci? », chiese, dopo un istante.
« Non ora ».
« Chiedo perdono ».
Di nuovo ammutolita, la ragazza riprese a pensare alle possibili
avventure affrontate dal Conte di Fontenera in quelle dieci ore di
assenza. Magari aveva combattuto sui tetti della città,
oppure aveva deciso di salvare una dama da un gruppo di aguzzini,
oppure …
La porta si aprì con un tonfo.
« Maestro, vi ho portato i papaveri che avevate chiesto!
»
Uno degli assistenti di Verrocchio entrò nella stanza con un
mazzo di fiori rossi tra le mani.
« Al mercato erano finiti », si
giustificò, avvinandosi all’artista. « E
sono dovuto andare … oh, ci siete anche voi, Madonna!
»
Bianca fece per salutare, ma si bloccò immediatamente.
Controllò che Messer da Vinci non la stesse guardando e solo
allora si fidò a far uscire un suono dalla sua bocca.
« Buongiorno, Nico », gli disse, sottovoce.
Lui la guardò, perplesso da quel tono.
« Il Maestro è arrabbiato? », si
informò.
« Non vuole che parli ».
L’artista si avvicinò nuovamente alla sua chioma,
stavolta con un pennello in mano e la manica della camicia arrotolata
sopra al gomito.
« Nico, lascia i fiori sul pavimento », disse,
concentrato più sul suo lavoro che sul ragazzo. «
Guardate, Madonna », aggiunse poi, passando delicatamente il
pennello sul suo stesso braccio posato sulla spalla della ragazza.
Bianca si voltò a guardare. Da dove finivano i suoi ricci
rossi a dove l’artista si era pitturato il braccio, non vi
era nessuna differenza. La tonalità era la stessa: intensa,
accesa, quasi innaturale per una chioma.
« Ce l’avete fatta! »,
esclamò, contenta.
Talmente contenta che ebbe un sobbalzo, passando accidentalmente la
guancia sul pennello ancora intriso del colore fresco di Leonardo.
A contatto con quella pasta umida, Bianca si portò
istintivamente la mano sul viso, nel tentativo di liberarsi di quella
sensazione, ottenendo come risultato quello di macchiarsi, oltre che il
viso, anche la mano destra.
« Lasciate che vi aiuti, Madonna ».
Nico si sporse, offrendole la manica della camicia come fazzoletto.
Bianca si sporse per lasciarsi pulire, ma, prima che il ragazzo
arrivasse a sfiorarla, il braccio dell’artista lo
bloccò.
« Aspetta, Nico », ordinò, mettendosi il
pennello tra i denti e recuperando il suo taccuino.
Con ciò che rimaneva di una matita, si mise a tracciare
qualche linea veloce sulla carta, guardando di tanto in tanto la figura
immobile di Bianca. Lasciò cadere la matita a terra,
riprendendo possesso del pennello, e finì la sua opera
staccando il foglio dal taccuino e sventolandolo un po’
all’aria per far asciugare il colore.
Quando Bianca ebbe tra le mani il frutto di quel breve lavoro, il viso
le si illuminò.
« È un ritratto! », esclamò,
felice.
Lo mostrò a Nico.
Era una semplice raffigurazione del suo viso, ben più
scialba del ritratto che Ezio aveva commissionato per lei
l’anno prima, eppure più delicata. I suoi capelli
non erano raccolti in una treccia ma bensì sciolti, lasciati
liberi di cadere sulle sue spalle e il viso, di solito ben truccato e
curato, era insolitamente colorato con una macchia disordinata, tinta
del medesimo colore della sua chioma.
Istintivamente, le venne da ridere.
« È davvero bello, grazie », disse,
rivolta all’artista. « Come posso ringraziarvi?
»
Messer da Vinci socchiuse gli occhi per un istante, mostrandosi
pensieroso. Poi la guardò, sfoggiando un piccolo sorriso.
« Donatemi un’altra ciocca dei vostri capelli,
Madonna ».
|
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Capitolo 6 *** Capitolo Sesto - L'Appeso ***
Lechatvert
Ho finalmente scoperto i simboli word e le stelline ★
Preparatevi,
perché non ve ne libererete più. Bwahahahah!
Nell'immagine di oggi ho voluto mettere anche Levi, nella sua ultima,
gloriosa apparizione. Bel ragazzo, nè?
Buona
lettura, ringrazio tutti quelli che leggono, leggeranno, hanno letto.
Sbaciucchio invece chi recensisce, ha recensito, recensirà.
Vi amo tutti ★
Capitolo
Sesto
L'appeso
« Partirete subito dopo mezzogiorno ».
In piedi di fronte alla facciata che cadeva a pezzi, Riario
osservò a lungo il Capitano Grunwald, accarezzando intanto
la superficie ruvida e fredda dei resti dell’edificio.
Un tempo doveva essere stata una costruzione imponente, quella, eppure
con gli anni era caduta in rovina, senza possibilità di
recupero. Segno evidente che dalla volontà di Dio nessuno
poteva scappare, che prima o poi il giorno della capitolazione sarebbe
arrivato anche per Firenze.
Soddisfatto della sua deduzione, sorrise al Capitano.
« Mi aspetterete fuori dai confini di Firenze »,
spiegò, atono. « Ci ricongiungeremo stanotte e
torneremo a Roma senza dare nell’occhio ».
L’uomo lo guardò, scettico, ma non osò
proferire parola.
D'altronde, Riario non si aspettava comprensione dal
suo seguito, ma soltanto rigida obbedienza. Aveva deciso di agire con
discrezione, senza dare troppo nell’occhio, soprattutto per
proteggersi contro i sempre più vigili Medici. Quasi
sicuramente non si sarebbero impicciati ma, a beneficio del dubbio,
rischiare non era certo conveniente.
Per questo, se davvero voleva avvicinarsi di più a Bianca
Ordelaffi, doveva farlo con riserbo, senza cadere nell’errore
di agire con troppa foga. Studiare ogni mossa per arrivare a vincere la
partita, ricordò. Era esattamente ciò che aveva
intenzione di fare.
Congedò quindi il Capitano Grunwald, concedendosi un istante
per pensare, ed estrasse il biglietto di Levi da una tasca del cappotto.
Lo guardò, rigirandoselo tra le mani inguantate quasi non
capisse quella scrittura così ben curata da apparire quasi
femminile.
Diceva semplicemente “Andrea del Verrocchio”, ma
era fin troppo semplice capire dove andare a cercare.
Istintivamente, gli tornarono alla mente le parole da lui pronunciate
la sera in cui aveva visto Bianca Ordelaffi al palazzo dei Medici in
compagnia di Levi.
« Peccate di
superbia, Conte », ripeté,
quasi parlando a se stesso, mentre provvedeva a far sparire il
biglietto.
Levi di Fontenera aveva certamente agito con presunzione, due sere
prima, quando si era spinto fino a fuori Firenze per lodarsi del suo
vantaggio.
Lui non avrebbe fatto lo stesso errore.
Si voltò.
La spada del Conte di Fontenera giaceva ancora abbandonata
lì dove l’aveva lasciata, accanto alla sua sudicia
borsa piena di ciarpame e di schizzi acquistati in chissà
quale bottega.
Rapito dalla sottile lama dell’arma, si avvicinò,
osservandone meglio le fattezze. Alla luce del sole era visibile un
piccolo giglio inciso sull’elsa, tinto del colore del sangue
di chi aveva infilzato.
Un giglio rosso,
come lo stemma di Firenze.
Riario non riuscì a trattenere le risate, raccogliendo quel
gingillo per buttarlo, assieme alla borsa, nel mucchio di rifiuti che i
soldati si erano impegnati a produrre in quel breve lasso di tempo che
si erano trovati là.
Davvero singolare, l’ironia della sorte.
* * *
«
Maestro! ».
Bianca inciampò nel bavero del suo stesso vestito e, nel
disperato tentativo di non cadere addosso a qualcuno, compì
qualche saltello in avanti, appoggiandosi infine al legno di una
bancarella per riprendere fiato.
Accidenti a lei e alla sua bizzarra idea di accompagnare Maestro
Verrocchio a comprare i pigmenti per creare i colori esauriti nella
bottega! Quell’uomo camminava spedito, abituato
com’era alla frenesia di Firenze, e non gli ci era voluto
molto per seminarla tra la folla. Lei aveva iniziato a rincorrerlo,
chiamandolo a gran voce, ma non era servito a niente.
Sospirò, rimettendosi in piedi per aggiustarsi le pieghe del
vestito.
Erano due giorni che il Conte Levi non dava sue notizie e stava
cominciando a preoccuparsi seriamente. Di certo, gli artisti di
Verrocchio non erano d’aiuto. Messer da Vinci aveva chiesto a
uno dei suoi compagni di cercare informazioni in città, ma
non ne era uscito nulla.
Esasperata, la ragazza prese a guardarsi intorno, sconsolata. Non aveva
la più pallida idea di dove si trovava.
L’uomo alla bancarella presso la quale si era fermata si
avvicinò, preoccupato.
« State bene, Madonna? », chiese.
Lei lo guardò, sforzandosi di sorridere.
« Sì, sì », rispose.
« Potreste dirmi da che parte si trova Santa Maria del Fiore?
»
Da lì, forse, sarebbe stata in grado di trovare la strada
per la bottega.
Il mercante le consigliò di andare dritta fino a che non
avesse incontrato il palazzo di giustizia. Allora avrebbe dovuto
svoltare a sinistra e, a quel punto, si sarebbe sicuramente trovata
dinanzi al cantiere della cattedrale.
Bianca ringraziò, dopodiché l’uomo
tornò ai suoi affari.
Rapita dalla lucentezza della sua merce, la ragazza si fermò
ad osservare i vari strumenti in vendita. Alcuni le erano famigliari:
delle tabacchiere lucide come oro, degli stiletti ben affilati, persino
un pennino a forma di indice teso.
In fondo alla bancarella, proprio accanto agli stiletti, vi era una
specie di spago argentato, finemente risposto in un sacchetto dal quale
fuoriusciva leggermente.
Bianca lo guardò, curiosa.
« Che cos’è? », si
ritrovò a chiedere al mercante.
L’uomo alzò le spalle.
« Filo d’argento, Madonna »,
spiegò. « Molto tagliente e resistente ».
Bianca corrugò lo sguardo. A cosa poteva mai servire, una
simile invenzione?
Alzò le spalle e si voltò, decisa a raggiungere
Santa Maria del Fiore.
Erano passati giorni da quando aveva visto il Conte Riario e ormai il
ricordo di quello spiacevole avvenimento si era fatto più
pallido, in lei, tanto da permetterle di dormire nella cantina di
Verrocchio senza il timore di un attacco a sorpresa. Quella mattina,
prima di uscire con il Maestro, aveva persino pensato che, tutto
sommato, forse avevano fatto un errore a giudicare come maligne le
azioni del Conte. Forse era cambiato, negli anni. Dopotutto, chi era
lei per negargli una seconda possibilità?
La cosa l’aveva resa serena e fiduciosa, tanto da scrivere
una lunga lettera a suo marito, Ezio Rangoni, in cui annunciava che
presto avrebbe fatto ritorno a casa. Tempo di ritrovare il Conte di
Fontenera, insomma.
Con quel pensiero fisso in testa e l’emozione di poter
finalmente riposare sulle poltrone di casa sua, Bianca si ricongiunse a
Verrocchio, sorprendendolo in una vivace trattativa per un pugno di
pennelli.
« Maestro! », esclamò, contenta,
accelerando il passo per raggiungerlo.
L’uomo si voltò appena, concentrato
com’era a parlare con il venditore.
« Hanno trovato un morto, poco fa », diceva il
mercante, tutto preso a mettere i pennelli nel sacco di cuoio di
Verrocchio. « È ancora appeso sulle impalcature
della cattedrale. Andatelo a vedere, prima che lo tirino giù
».
Bianca si avvicinò, curiosa.
« Chi era? », chiese.
L’uomo alzò le spalle.
« Nessuno pare conoscerlo. Un ragazzo sulla ventina, di buona
famiglia, credo. L’avevo visto gironzolare qui intorno
qualche giorno fa. Acquistò una spada dal fabbro,
laggiù ».
Improvvisamente, un brutto presentimento prese il sopravvento su Bianca.
« Maestro, andiamo a vedere », disse, tirando
Verrocchio per la manica. « Non ho mai visto un uomo morto
».
Ed era vero.
Bianca non aveva mai visto un uomo in fin di vita, così come
non aveva mai visto un cadavere, se non ai pochi funerali ai quali era
dovuta partecipare, ma era tutt’altra cosa, un morto in una
bara, rispetto a un morto appeso mangiato dai corvi.
Suo padre, quando era bambina, non le permetteva di assistere alle
esecuzioni ed Ezio, buono com’era, raramente puniva i crimini
delle poche persone che abitavano le sue terre con la morte.
Per questo, quando arrivò correndo davanti alla facciata in
costruzione di Santa Maria del Fiore, non poté evitare di
gridare quando, appeso a testa ingiù dalle impalcature del
cantiere, non trovò un uomo morto ma il Conte di Fontenera,
con gli occhi aperti e la bocca tagliata in un macabro sorriso. Era
appeso per la gamba sinistra, con la destra piegata e legata al
ginocchio dell’altra.
La gente lo indicava e mormorava, impaurita.
Verrocchio si avvicinò e le prese la spalla, atterrito.
« Chi … chi potrebbe aver mai fatto questo?
»
Nella mente di Bianca, la domanda suonò assai retorica.
Se prima si era illusa di poter dare al Conte una seconda
possibilità, ora non vedeva altro che la morte davanti ai
suoi occhi.
Si voltò, inorridita dalla vista di ciò che
rimaneva del suo benefattore.
Era stato appeso.
Appeso.
Quella parola fece scattare un ricordo.
“È
una carta dei tarocchi”, le aveva spiegato una
volta Ezio. “Ha
un significato molto profondo, dal mio punto di vista. Parla di un
sentimento platonico, che non lascia spazio a esperienze fisiche, e un
futuro di completa fedeltà a cui si arriverà dopo
una lunga attesa. Include inoltre un altro significato, un
po’ più inquietante”. Aveva
fatto una pausa, sospirando. Bianca pendeva letteralmente dalle sue
labbra. “Il
periodo di stallo che vi è tra due persone.
L’appeso pone fine ad esso. È come se vi fosse una
certa strada da percorrere che marito e moglie intraprendono uno da una
parte, una dall’altra. Il punto d’incontro
è rappresentato dall’appeso
».
Deglutì.
Riario sarebbe venuto a prenderla, ora che non aveva più
protezione. Se era stato in grado di fare quello al Conte Levi,
chissà cosa avrebbe fatto, a lei.
« Maestro Verrocchio, andiamocene da qui »,
mormorò, tremando lievemente. «
C’è una cosa che devo fare ».
E si allontanò in tutta fretta, stavolta quasi seminando
l’uomo dietro di lei.
« Madonna Ordelaffi », la chiamò questi,
poggiandole una mano sulla spalla con delicatezza. « Dove
state andando? »
Lei si voltò, tirando fuori un sorriso che
scacciò le lacrime che prepotentemente volevano scendere sul
suo viso.
« Ho visto una cosa, prima », spiegò.
« Volevo comprarla come ricordo di Firenze, visto che domani
tornerò a casa. Ora che sappiamo dov’è
il Conte, non ho più motivo di restare ».
Verrocchio la guardò, preoccupato. Non aveva ancora lasciato
andare la presa sulla sua spalla.
« Che cos’è, Madonna? »
Bianca si asciugò l’unica lacrima che
riuscì a scappare al suo controllo.
« Un filo d’argento ».
|
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Capitolo 7 *** Capitolo Settimo - Il Coraggio del Leone ***
Lechatvert
Avvertenze:
Il tutto ha portato alla scoperta
di questo filmato, lungo 8 secondi, che, nei giorni
particolarmente deprimenti, ha un effetto bomba assicurato. Ho riso
come una scema per almeno dieci minuti, guardandolo e riguardandolo.
Ciao
★
No,
non la finirò mai con le stelline, mi piacciono
troppo ★___★
<-- Ho imparato anche a farci le faccine ★-★/
Comunque
sia, cavolate stellari (★)
a parte, mi sto commuovendo, dico sul serio. Non mi era mai capitato di
arrivare alla quasi-fine (ma dove?) di una fanfiction, quindi mi sento
parecchio strana v_v
Come
sempre, buona
lettura a tutti, in particolare a chi ha recensito e
recensirà <3 Grazie, ragazza/e/i/o/u!
Vi amo tutti ★
Capitolo
Settimo
Il Coraggio del Leone
Bianca Ordelaffi uscì dal retrobottega di Andrea del
Verrocchio due ore dopo il tramonto, con l’inaspettata
intenzione di incamminarsi da sola. Il vecchio le baciò la
fronte e le mani in segno di saluto, lei fece una piccola riverenza,
dopodiché infilò nella borsa un plico di fogli
bianchi e un paio di quanti che egli stesso le consegnò.
Da dietro il muro che divideva la bottega dalla strada
all’angolo, il Conte Riario udì i loro discorsi.
« Siete sicura di non voler una scorta, fino a Bologna?
»
« Maestro, avete fatto più che abbastanza.
Starò bene. Stamane ho comprato il cavallo del fabbro. Mi ha
assicurato che è in buona salute; arriverò prima
di domani a mezzogiorno ».
« Mi raccomando, scrivete, una volta giunta da vostro marito
».
« Ma certo ».
« E tornate a farci visita, quando sarete a Firenze
».
« Non ne dubitate, Maestro ».
Dopodiché si lasciarono; la porta del retrobottega si
chiuse, Bianca Ordelaffi si mise il cappuccio sul capo e si
incamminò nella notte, sicura che nessuno la stesse
osservando.
Riario si mosse con scaltrezza. Non esitò a seguirla, ma
rimase sempre nell’ombra, combattuto se avvicinarla entro le
mura di Firenze piuttosto che fuori, dove la aspettava la bestia che
aveva acquistato al mercato.
Le sue mani bramavano di stringersi ancora attorno a quelle spalle, ora
che ne scorgeva il profilo così da vicino, ma si era
ripromesso discrezione e discrezione voleva dire aspettare almeno
finché il centro abitato non fosse stato lontano.
Sospirando, si rassegnò a seguire la cappa blu della
ragazza, prima fino alle porte di Firenze, poi sempre più
lontano, immersa nell’oscurità, dove, a un certo
punto, si decise a estrarre una piccola lanterna che accese per farsi
strada tra le sterpaglie dei campi.
Riario la seguiva, sempre più perplesso man mano che ella si
allontanava dalla strada ma non stentava ad andarle dietro, a tratti
curioso di dove lo stesse portando, a volte sospettoso di una trappola.
A volte, la ragazza si voltava e illuminava il sentiero, ma il Conte
era furbo, restava sempre in disparte e, vestito di nero
com’era, era praticamente impossibile distinguerlo dal buio.
Camminarono per quasi un’ora, in silenzio, sotto
l’occhio attento della Luna, con l’aria fredda e
pungente a tagliare la pelle, con i versi del bosco attorno che
cantavano alla notte chissà quale canzone.
Sebbene la ragazza non desse cenni di volersi fermare, Riario
cominciava invero a sentire freddo sulla schiena, quasi vi fosse una
brezza invernale appoggiata sulle sue spalle a sussurragli nomi a lui
sconosciuti.
Per un istante, si chiese se non fosse il fantasma del Conte di
Fontenera. Pensiero che venne scacciato subito dal bisogno di
concretezza che il contesto richiedeva. Farsi prendere da certi spiriti
non avrebbe certamente giovato alla situazione.
Proseguì, quindi, fino a che non si ritrovò in un
prato, completamente libero dai pergolati della campagna, alla fine del
quale gli parve di scorgere una costruzione, un casolare. Sicuramente
il luogo in cui Bianca Ordelaffi si stava recando.
Accelerò il passo, forse un po’ troppo di
fretta, finendo per essere udito, tanto che il lume si
spense, togliendo al prato anche quella piccola aureola di luce che
c’era a illuminarlo.
Allora si acquattò dietro le sterpaglie e aguzzò
la vista in direzione del casolare.
Il mantello di Bianca fluttuava nella notte mentre lei correva,
guardandosi alle spalle di tanto in tanto.
Ormai scoperto, il Conte si lanciò
all’inseguimento della ragazza, percorrendo, seppur con la
difficoltà dettata dall’erba alta, la breve
distanza che lo separava dal casolare.
Bianca vi entrò senza esitazioni, passando per
l’uscio ormai senza porta e sparendo
nell’oscurità dell’interno e
così fece Riario, senza temere di essere caduto in una
trappola, senza rallentare e fermarsi a pensare che, forse, non era il
caso di avventarsi.
L’idea di aver perso la tanta agognata discrezione non lo
sfiorò minimamente, trasformandosi invece in quello che era
il suo più grande difetto: la foga che lo prendeva quando il
suo obbiettivo era talmente vicino a poter sentire il suo respiro
contro la pelle. In quelle occasioni, tutto il castello di calcoli e
valutazioni che Riario aveva in testa, era sempre crollato.
Non badò a quella che di solito era la sua ferrea logica, si
buttò nel casolare con impeto, ormai certo di avere la
ragazza in pugno, pregustando il suo viso con il suo sguardo da animale
impaurito.
Vide troppo tardi il riflesso della Luna illuminare il sottile filo
d’argento teso da una parte all’altra
dell’uscio e, quando fu in grado di provare ad evitarlo, si
trovò già sbilanciato e destinato a una caduta di
faccia sul pavimento di pietra.
Non accadde.
Qualcos’altro lo colpì in volto producendo un
rumore metallico e spingendolo, stavolta, all’esterno.
Cadde di spalle sull’erba umida, intontito dal dolore del
colpo e con un vago gusto di terra tra i denti. Mentre osservava con
sguardo assente il cielo privo di stelle, sentì il sapore
del sangue entrargli in bocca, ma non riuscì subito a
collegarlo all’accaduto.
Per un istante, credette di giacere inerme su una nuvola.
Poi, d’un tratto, vide la chioma rossa di Bianca superarlo
con uno scatto, mentre lasciava cadere, proprio accanto al suo corpo,
la vanga da giardino con la quale lo aveva colpito.
* * *
Bianca
corse più forte che poté, trattenendo a stento le
lacrime e stringendo i palmi delle mani con cui aveva colpito il Conte.
Doveva averlo colpito più forte del previsto, tanto che,
quando si era sporta per controllare gli effetti degli insegnamenti di
Levi, aveva notato che la vanga da giardino aveva guadagnato una
piccola macchia di sangue sull’estremità in ferro.
Inorridita, l’aveva gettata a terra e si era data alla fuga
verso le stalle, dove la attendeva la seconda parte del suo piano: la
fuga.
Dubitava di riuscire a raggiungere Bologna, ma il Conte di Fontenera le
aveva insegnato a nascondersi. Arrivata in una città
abbastanza lontana, avrebbe trovato un posto sicuro dove far passare
del tempo, prima di rimettersi in cammino.
Sempre che sarebbe stata in grado di arrivarci, lontano.
L’idea di calcare non la entusiasmava affatto.
Facendosi coraggio, aprì le porte della stalla, dove la
bestia acquistata dal fabbro la aspettava già sellata e
imbrigliata dall’uomo che l’aveva portata
lì quel pomeriggio sotto suo ordine.
Non si fermò ad osservare l’animale, vi
montò – seppur con qualche difficoltà
data dalle sue scarse esperienze di cavallerizza – in groppa
e, impugnate le briglie, diede un colpo di tacco sul ventre, pronta a
partire.
Il cavallo non si mosse.
« Oh, no », pianse, allora, sporgendosi in avanti
verso la testa del suo destriero. « Per favore, vai!
»
Ma ancora, il cocciuto animale si limitò a nitrire con
disapprovazione.
« Andiamo! »
Presa dallo sconforto, Bianca prese a dargli qualche piccolo calcio sul
corpo, battendogli intanto la mano sul capo, nella vana speranza di
riuscire a farlo partire al galoppo. Non aveva idea di come si
invogliava un cavallo a correre. Sia suo padre che il Conte di
Fontenera lo facevano con un piccolo verso che però, nel suo
caso, non sembrava funzionare.
Provò, anche, nella disperazione, a tirare la criniera con
forza, ma non ne ricavò altro che l’ennesimo
nitrito di rabbia.
« Non farmi questo! », strillò infine e,
più per stizza che per volontà, diede
l’ultimo calcio sul ventre del cavallo. Ci mise tutta la
forza di cui era capace, convincendolo finalmente a correre verso le
campagne di Firenze.
Si lanciò al galoppo così rapidamente che Bianca
non ebbe nemmeno il tempo di infilare i piedi nelle staffe, perdendo
pericolosamente l’equilibrio. Si buttò allora in
avanti, aggrappandosi al collo del suo destriero anziché
alle briglie che lo controllavano, e chiuse gli occhi, impaurita,
pregando quella sua sconsideratezza di non costarle la vita.
Improvvisamente, vecchi ricordi le affiorarono alla mente. Frammenti di
quella tragica cavalcata sul destriero del padre, dell’ultima
volta che il Conte di Fontenera l’aveva portata al galoppo
proprio in quel prato, di quello che, una volta, Ezio le aveva fatto
notare, chiamandola la sua “moglie coraggiosa”.
“Siete audace,
Madonna!”, aveva scherzato quando, poco dopo le
loro nozze, l’aveva sorpresa ad arrampicarsi su uno scaffale
in cerca di un libro. “Non
mi sarei aspettato altro, da un’Ordelaffi!”
Alla sua richiesta di spiegazioni, Ezio le aveva sorriso. “Vedete, anche se dal fuori
apparite così inibita e insicura, lo stemma della vostra
famiglia rappresenta un leone, simbolo del coraggio”.
Ma Madonna Ordelaffi aveva sempre avuto paura di ogni cosa a lei
ignota, dal tuono all’incendio, dal cervo selvatico
all’ospite sconosciuto.
“La paura
è necessaria, Madonna. Ci mostra le nostre oscure
prigioni. Ma sta al coraggio portare la luce anche laddove sembra non
essercene”.
Di colpo, Bianca aprì gli occhi.
Stava gridando.
Il vento aveva liberato la sua chioma dal cappuccio e ora le soffiava
impetuosamente sul volto, mentre il cavallo correva verso il bosco che
delimitava le campagne.
Spaventata, cercò di pensare a che cosa avrebbe fatto il
Conte di Fontenera, ma non fu in grado di giungere a nessuna
conclusione se non quella di farci sopra una risata e giocherellare con
la sua spada.
Gridò di nuovo, pregando Dio affinché le
concedesse la possibilità di sfuggire a quella situazione e
riprendere – se mai l’aveva avuto – il
controllo sull’animale.
Ma non fu di Dio, la voce che rispose a quel disperato appello.
« Tirate le briglie, Madonna! »
Accadde tutto così in fretta che Bianca non
riuscì completamente a realizzare la successione degli
eventi.
Tirò le briglie del cavallo più forte che
poté, portando le mani al petto, e chiuse di nuovo gli
occhi. Udì il cavallo nitrire e prendere una spinta verso
l’alto, poi si sentì cadere nel vuoto, attratta
dall’abbraccio che la terra stava per darle.
Atterrò su un tappeto di morbido terriccio, attutita
dal’erba umida e fredda.
Quando si concesse di riaprire gli occhi, vide dinanzi a lei il cavallo
rimettersi sulle quattro zampe dopo essersi alzato. Ripartì
immediatamente verso la foresta, sparendo
nell’oscurità e ben presto di lui si
udì solo un nitrito lontano.
Affranta, Bianca rotolò sul fianco, affondando il volto
nell’erba.
Le veniva da piangere.
Per un istante, desiderò sparire, non essere mai venuta a
Firenze, non essersi mai messa in mente quella stupida idea di provare
a scappare con le sue sole forze.
Aveva ragione, il Conte di Fontenera, a dire che non era in grado di
combinare nulla, che aveva vissuto anche fin troppo a lungo in un mondo
di soli libri e racconti, illusioni e sogni.
Provò a rialzarsi, ma non dovette fare fatica a tirarsi
sulle ginocchia.
La mano inguantata del Conte la prese per i capelli e la
alzò quasi fosse una piuma, costringendola a muovere il
mento verso l'alto, mentre lo stiletto si avvicinava anche troppo
rapidamente alla sua gola.
Al contatto con il metallo gelido dell’afilatissima arma,
Bianca rabbrividì, ma non osò proferire parola,
non osò nemmeno guardare nella direzione del Conte, restando
immobile ad aspettare la sua fine con gli occhi chiusi e le labbra
tremanti.
« Sapete, avete fatto una cosa davvero sconsiderata, Bianca
».
Il tono della sua voce adirata non era cambiato, negli anni. La ragazza
poteva sentire il gelo uscire dalle labbra del Conte mentre esso le
parlava.
« Vi siete presa fin troppe libertà ».
Lo stiletto premette sulla gola tesa di Bianca, la quale
riuscì a superare il tremore, balbettando qualche supplica.
« V-vi prego », sussurrò, seppur
tremante. « Non vi ho fatto niente di male! »
« Questo è corretto ».
Di colpo, la lama si allontanò da lei.
Bianca udì il Conte riporre lo stiletto nella cintura,
muovendo qualche passo sull'erba.
Istintivamente, si portò le mani alla gola, spaventata.
« Ma è altrettanto corretto »,
continuò l’uomo, camminandole lentamente attorno.
« Che voi, Madonna, avete messo in mezzo alle nostre
questioni il Conte di Fontenera, costringendomi ad agire come ho agito
».
Fece una pausa, studiando con minuzia i lineamenti rigidi della ragazza.
« Non posso transigere su un simile comportamento ».
Bianca deglutì, immobile a terra, e, seppur
involontariamente, diede il permesso a Riario di proseguire con il suo
lento, studiato discorso.
« Quindi, vi darò due opzioni », le
disse il Conte, sfoggiando il piccolo sorriso tipico di chi ha ormai
vinto la partita. « Potete morire ora per mano mia e finire
appesa come il caro Conte, oppure potete decidere di seguirmi di vostra
spontanea volontà e venire a Roma in modo da garantire la
vostra incolumità ».
La ragazza chinò il capo, lasciando che i suoi riccioli
rossi le coprissero il viso.
Non voleva morire, ma di certo voleva nemmeno allontanarsi da Firenze e
da suo marito.
Mentre, mordendosi il labbro, considerava le due opzioni, la mano del
conte si tese verso di lei.
« Vi siete
fatta male, Madonna? »
Bianca scoppiò a piangere e, seppur con
riluttanza, prese la mano del Conte.
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Capitolo 8 *** Capitolo Ottavo - Musica a Corda ***
Lechatvert
Avvertenze:
Poi non le metto più, giuro! Volevo solo inserire il link
di questa canzone suonata interamente a chitarra da un mio
web-insegnante che non arriverò mai ad emulare. Nella mia
immaginazione, si tratta della melodia udita da Bianca.
Chiaramente,
ognuno è libero di immaginarsela come più gli
aggrada v.v
Siamo
andati di stelline, quest'oggi voglio andare di cuori
♥
Enniente, nelle note non ho praticamente più nulla da dire,
se non che mancano tre capitoli alla fine e siamo IN THE FINAL
COUNTDOWN, PARAPARA PARAPAPPAPPAAAAA!
E' un momento importante, non ho mai finito una long prima d'ora e se
dovessi riuscirci sarebbe una cosa degna di festa!
Oltre
a questo, auguro una buona
lettura a tutti, ringraziando con un biscotto chi ha recensito e
recensirà, senza dimenticare chi segue e chi preferisce.
Siete davvero tantissimi ♥
Vi amo tutti ♥
Capitolo
Ottavo
Musica a Corda
Arrivarono a Roma alle prime luci dell’alba, accolti dalla
solita foschia accompagnata, stavolta, da una lieve pioggia
primaverile. Gli alti profili della città eterna si
stagliavano quella mattina verso un cielo grigio, trafitto dai sottili
aghi d’acqua che scendevano a rinfrescare
l’ambiente.
Silenzioso, Riario congedò il suo seguito con un gesto del
capo al Capitano Grunwald e rimase solo ad osservare il cupo cumulo di
abitazioni che Roma era diventata, contemplandone i contorni, immerso
in chissà quale pensiero.
Aggrappata alle sue spalle, Bianca Ordelaffi dormiva, respirando piano
e soffiando aria calda sul suo collo. Aveva passato la notte tra i
singhiozzi, probabilmente sporcandogli il capotto con le sue lacrime,
per poi addormentarsi così, senza un lamento, cadendo
semplicemente vittima della stanchezza.
Per quanto ripudiasse l’idea di doversi preoccupare che la
ragazza non cadesse da cavallo, il Conte aveva deciso di lasciarla
riposare. In fondo, meglio addormentata che piagnucolante.
Così aveva cavalcato solo per almeno un’ora, in
preda ai suoi pensieri e alle sue preoccupazioni. Si chiedeva, ad
esempio, se il Santo Padre sarebbe mai venuto a conoscenza della
presenza di Madonna Ordelaffi nella sua terra. Certamente
nascondergliela sarebbe stata una mossa poco intelligente, oltre che di
breve successo. Papa Sisto avrebbe scoperto tutto ancor prima che
Bianca avesse potuto mettere piede a Palazzo Orsini, anzi,
probabilmente ne era già stato informato.
Riluttante, si decise a svegliare la ragazza, muovendo leggermente la
spalla per scrollarla.
« Svegliatevi, Bianca », le sussurrò.
« Siamo giunti ».
La ragazza aprì svogliatamente un occhio, strofinando il
naso sulla giacca del Conte come se avesse avuto a che fare con un
asciugamano, e si guardò intorno con aria smarrita.
Immediatamente, i suoi occhi verdi guizzarono lungo i profili della
Città Eterna, studiandola, guardandola con la sorpresa di
chi non l’ha mai vista.
« Devo dedurre che questa è prima volta che vedete
Roma all’alba? », le chiese, allora, sottovoce.
Il colpo che Bianca gli aveva inferto la notte prima gli impediva di
aprire completamente la bocca, bruciandogli un po’ quando si
sfregava la guancia che, sebbene al tocco si fosse lievemente gonfiata,
non sembrava rappresentare nulla di più delle ferite con cui
il Conte aveva avuto modo di trattare in precedenza.
« Non trovate questa città sia di rara bellezza?
»
Il viso di Bianca si strofinò – ancora
– sulla sua giacca.
« La trovo splendida ».
Il Conte annuì.
« Già. Anche io ».
Senza aggiungere altro, riprese in mano le briglie del suo cavallo,
spronandolo a tornare sulla strada per proseguire verso Palazzo Orsini.
Come l’animale mosse uno zoccolo, la stretta di Bianca si
fece più stretta addosso alle sue spalle, affondando nella
carne con una forza quasi dolorosa.
« Avete paura, Madonna? »
« No, Conte ».
L’uomo si accigliò.
« Dovreste, invece. Bestie come queste possono essere molto
pericolose, se cavalcate da una persona inesperta come voi ».
Fece una pausa, prendendo la strada nel cuore Roma dove, appena sotto
il colle Vaticano, si ergeva Palazzo Orsini.
« Vi insegnerò a cavalcare, se vorrete ».
Bianca non rispose, limitandosi ad affondare ulteriormente il viso
nella giacca.
« Lo prenderò per un no ».
Cavalcarono allora fino a Palazzo Orsini, mentre le strade venivano
illuminate da un sole sempre più luminoso. La pioggia non si
fermava, cadendo fine e discreta sul paesaggio. Era talmente silenziosa
che quasi non bagnava, scivolando sul viso senza impigliarsi tra i
capelli, senza impregnare gli abiti di quel fresco odore di umido.
Palazzo Orsini era silenzioso.
Gran parte della servitù era, probabilmente, ancora
assopita. In assenza del padrone, i ritmi rallentavano, non vi erano
merende, pasti sontuosi o incontri da preparare, si organizzava il
lavoro senza dargli una vera e propria priorità, svolgendolo
senza l’incombenza degli occhi del signore.
Riario non aveva dato nessun ordine circa il suo ritorno; non si
aspettava, perciò, di trovare desto più dello
stretto necessario della servitù.
E infatti, nel cortile non incontrò che lo stalliere,
intento a pulire le strigliatrici con ritmo assonnato. Gli venne
incontro, posando le spazzole a terra, e, mordendosi le labbra in segno
di concentrazione, prese le briglie del cavallo del Conte, accarezzando
immediatamente la bestia, per tenerla calma.
« Bentornato, Conte Riario », salutò,
dopo aver finito di salutare il cavallo con lo stesso riguardo che una
madre usa per salutare la figlia.
Riario gli lanciò un’occhiata stanca, prima di
scendere da cavallo.
« Portalo nella stalla e nutrilo », rispose,
passando oltre i convenevoli. « Voglio che riposi. Entro
domani deve essere pronto a cavalcare di nuovo ».
Lo stalliere annuì, abbozzando un sorriso.
Mentre aiutava Bianca a scendere, Riario si chiese cosa poteva rendere
così felice un ragazzino sporco di terra e bagnato fino al
midollo. Di certo non la sua presenza o il fatto che, alle prime luci
dell’alba, dovesse svolgere il lavoro di chi, il giorno
prima, non aveva eseguito il suo dovere.
Di suo, l’unica cosa in grado di renderlo soddisfatto a
quelle ore del mattino era vedere Bianca Ordelaffi finalmente a Roma e
sapere, naturalmente, che il vantaggio che aveva su Firenze e su
Leonardo da Vinci era ancora abbastanza da permettergli di agire con
tutta la calma di cui aveva bisogno.
Divertito dalle ultime vicende, guardò Bianca ammutolita
sotto la pioggia che cominciava a farsi insistente, coperta dal suo
solo mantello color del mare.
Si leccò le labbra, facendosi pensieroso.
Lei non osava alzare gli occhi dal terreno.
« Madonna, prego, vogliamo entrare anziché stare
qui a prendere la pioggia? », le disse, allora,
illuminandosi. « Vi faccio strada ».
Le offrì il braccio destro e lei accettò, seppur
con perplessità, avvolgendo con dolcezza le dita sottili
attorno al suo gomito.
In silenzio, salirono la piccola scalinata che conduceva
all’entrata, entrando nella calda anticamera del palazzo.
Bianca si guardava intorno con curiosità, nonostante il suo
sguardo era colmo di paura. Era del tutto simile a un animale
spaventato che poco a poco comincia a calmarsi, studiando
l’ambiente.
Arrivati allo scalone centrale, Riario vide la sua serva avvicinarsi,
discreta, con il capo chino in avanti.
« Bentornato, mio Signore », gli disse, facendo una
piccola riverenza.
Riario la salutò con un cenno del capo.
Gli occhi dell’abissina si spostarono sulla guancia del
Conte, il quale si affrettò a coprirla con il colletto della
giacca. Non era il momento di valutare la gravità o meno di
una ferita tanto piccola, tanto più visto che era statagli
inferta da una donna assolutamente incapace di nuocere a una qualunque
specie vivente.
« Portate Madonna Ordelaffi negli appartamenti che le ho
fatto predisporre prima di partire », tagliò corto.
Poi si rivolse a Bianca, ancora intenta a guardarsi intorno, sempre
più incuriosita da ciò che la circondava.
« Mia cara, mangiate e riposatevi », le disse,
pacato. « Avremo tempo per parlare questa sera a cena. Vi
prego soltanto di scrivere immediatamente a vostro marito, informandolo
del vostro trasferimento a Roma. Il convento delle Orsoline accoglie e
cura molte donne affette da patologie respiratorie. Credo fareste
meglio a tranquillizzare Ezio Rangoni circa la vostre condizioni di
salute, specificando che le sorelle si stanno prendendo cura di voi
».
Bianca gli rivolse allora un’occhiata carica di dolore.
Aprì la bocca come per protestare, poi si bloccò,
spegnendosi. Sconfitta, chinò il capo, lasciando che i
riccioli rossi le coprissero la fronte.
« Sì », mormorò, stretto tra
i denti in un evidente tentativo di trattenere le lacrime.
Si allontanò in fretta assieme l’abissina, senza
aggiungere altro e coprendosi il volto con le mani.
Riario la lasciò andare, togliendosi guanti e cappello con
un sospiro.
Voleva soltanto raggiungere i suoi appartamenti e concedersi qualche
ora di sonno senza essere disturbato da pianti, grida o convocazioni
per qualche scambio di informazioni del tutto superfluo.
Sfiancato dal viaggio, camminò fino alla sua stanza da
letto, buttando in malo modo giacca e camicia sul pavimento, poi si
avvicinò alla specchiera, pulendosi il viso nel catino
d’acqua che la servitù gli aveva preparato.
Rinfrescatosi, guardò il suo volto riflesso.
La porzione di guancia colpita dalla vanga da giardino si era gonfiata
più di quanto si aspettasse.
Sbuffò, buttandosi a peso morto sul letto e accarezzandosi
piano la pelle del viso. Una volta riposato, si sarebbe preso cura di
quell’ematoma.
* * *
Bianca
si svegliò di soprassalto con il viso affondato nel cuscino,
ben avvolta tra le coperte calde e profumate del suo letto. Non
ricordava quando o come si era assopita, ricordava soltanto una
lunghissima cavalcata, le sue gambe dolenti, le palpebre che si
sforzavano di restare aperte mentre scriveva la lettera a suo marito.
La lettera, già.
L’aveva consegnata all’abissina prima di mettersi a
letto, chissà se era già partita alla volta di
Bologna. Si era ripromessa di trovare il coraggio di chiedere al Conte
Riario il permesso di scrivere altre lettere, un giorno, e,
soprattutto, il permesso di leggere la risposta che Ezio si sarebbe
sicuramente precipitato a mandarle.
Le avrebbe chiesto delucidazioni su quella malattia che
l’aveva colta così all’improvviso,
probabilmente le avrebbe chiesto di raggiungerlo il prima possibile,
specificando che le avrebbe messo a disposizione i migliori guaritori
… cosa rispondergli, allora? Raccontargli la
verità? Non avrebbe sortito nessun effetto se non
l’ira del Conte.
Combattuta, Bianca si alzò.
Dormire in un vero letto le aveva giovato. Era passato anche troppo
tempo dall’ultima volta in cui aveva avuto
l’occasione di sdraiarsi su una superficie diversa dal marmo
delle cantine del Verrocchio.
Si stiracchiò, guardandosi attorno.
Si trovava in una stanza da letto relativamente spaziosa, arredata da
un semplice letto senza baldacchino, con un armadio in legno sulla
parete accanto e una specchiera accanto alla porta. Vi erano inoltre
due comodini e un’ampia finestra coperta da tende pesanti.
Bianca sorrise, fiondandosi a scostarle per spiare il paesaggio
all’esterno.
Con sua sorpresa, ad attenderla trovò la notte.
Doveva aver dormito molto, tanto da saltare, oltre al pranzo, anche la
cena. Si chiese come mai il Conte non l’avesse mandata a
chiamare.
Pensierosa, si affacciò alla finestra, aprendola per
apprezzare la brezza notturna sul volto.
Con sua sorpresa, però, l’aria non
entrò sola, ma accompagnata da una lieve melodia, quasi
impercettibile tanto era trasportata dal vento, proveniente con tutta
probabilità dal piano di sopra.
Bianca provò a sporsi, ma non ne ottenne che la vista di
un’ulteriore finestra lasciata aperta.
Si avvicinò quindi alla porta, sperando con tutto il cuore
di non trovarla chiusa a chiave, e la tirò verso di
sé, uscendo sul corridoio.
Doveva essere molto tardi, perché attorno a lei vi era
soltanto oscurità e silenzio. Non una serva intenta a tirare
le tende, non un rumore proveniente dalle cucine.
Bianca si domandò se fosse autorizzata a trovarsi
lì, lontana dagli appartamenti ai quali era stata designata.
Guidata da una buona dose di curiosità, arrivò
fino allo scalone centrale che aveva notato all’ingresso e,
di nuovo, la melodia del piano di sopra la colpì.
Abbandonò ogni timore e salì i gradini uno alla
volta, in silenzio e al buio. Si ritrovò così
negli appartamenti padronali, popolati da quadri e opere di ogni
autore, caldi e decisamente più accoglienti di quelli da
dove proveniva.
La melodia era ormai chiaramente percettibile, quasi a dividerla dal
corridoio di fosse una sola parete.
Bianca la seguì con indiscrezione, controllando ogni porta,
ogni scalinata che si apriva sul corridoio.
Alla fine, trovò ciò che cercava;
l’unica porta da sotto la quale passava la luce di un lume
acceso. E, ovviamente, una musica lenta e studiata, suonata da uno
strumento a corda.
Senza pensarci oltre bussò, appoggiando l’orecchio
al legno.
La melodia cessò.
« Avanti ».
Bianca aprì la porta con cautela, venendo immediatamente
investita da un delicato aroma di cannella.
Vide il Conte Riario seduto su una poltrona davanti alla finestra, una
chitarra in mano, il suo sguardo scuro spuntare da dietro lo schienale.
Trasalì.
« Io … io … io non avevo idea
», si giustificò, arretrando verso il corridoio.
« Scusatemi, io non avevo nessuna intenzione di disturbarvi,
credevo … ».
L’uomo le lanciò un’occhiata accigliata,
dopodiché sospirò.
« Bianca, entrate », le disse.
Restia, la ragazza fu costretta a tornare sui suoi passi,
chiudersi la porta alle spalle e, maledicendosi mentalmente,
raggiungere il Conte sulle tre poltrone disposte attorno al tavolo di
pietra su cui dava bella mostra di sé una colorata coppa di
frutta.
« Prego, accomodatevi », la invitò il
Conte, mettendo da parte lo strumento musicale. « E favorite
pure. Immagino sarete affamata; avete dormito tutto il giorno
».
Bianca non se lo fece ripetere due volte.
Annuì, poi si sedette di fronte al suo ospite e
allungò la mano verso un grappolo d’uva,
staccandone un acino e portandoselo alla bocca.
« Le mie scuse », rispose, dopo aver ingoiato il
boccone. « Non era mia intenzione dormire così a
lungo. Vi prometto che non succederà più
».
Il Conte accennò un sorriso, tirando gli angoli della bocca.
« Posso capire la vostra stanchezza, non ne sono affatto
adirato », la rassicurò, prendendo a sua volta una
mela dal cesto. « Tuttavia, mi chiedo cosa vi abbia spinta a
venire fino a qui ora ».
Bianca alzò leggermente le spalle.
« Non sapevo suonaste uno strumento », ammise.
« Non lo suono, infatti. Ma talvolta mi capita di dilettarmi
in questo genere di cose ».
« Mio padre era molto bravo. Purtroppo, non ha trasmesso il
suo talento a me ma a mio fratello … »
L’espressione di Riario si schiarì un poco.
« Ricordo con chiarezza che voi eravate
un’eccellente cantante », disse, restando serio.
« E che dare prova delle vostri dote sonore vi piaceva molto
».
Bianca arrossì appena, chinando il capo.
« Ero molto giovane », si giustificò.
« Mh », concordò il Conte.
Per un istante, calò il silenzio.
Non fu un silenzio imbarazzante, fu semplicemente una pausa in cui
Bianca poté realizzare che, dopotutto, la speranza non la
aveva ancora abbandonata. C’erano cose buone anche a Roma,
alla fine dei conti.
Si sporse quindi in avanti, afferrando un altro acino d’uva.
« Suonate per me », propose, sorridendo.
Il Conte la guardò, stranito.
« Prego? »
Lei alzò le spalle.
« Ezio suonava per me tutte le sere »,
spiegò. « Avanti, anche una sola canzone. Ve ne
sarei così grata! »
« Non ne sarei in grado. Suono assai di rado ».
Bianca non mollò.
« Neanche i gigli filano o tessono »,
incominciò, convinta. « Eppure io vi dico che
neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva bene come uno di
loro ».
A quelle parole, il Conte la guardò, stupito.
« Non sapevo aveste studiato il Vangelo ».
« Non l’ho fatto », rispose Bianca.
« Mi è capitato di leggerlo, ne ricordo ogni
parola. Specialmente di quello secondo Luca ».
Riario si accigliò.
« E ricordate altro? »
« Ogni cosa, Conte. Ogni cosa letta con sufficiente
attenzione ».
Lui la guardò, apparentemente stranito da
quell’affermazione.
Bianca s’imbronciò un poco, guardandolo dal basso
verso l’alto con uno sguardo di pura supplica.
« Avanti, suonatemi qualcosa! », lo
incitò, ancora.
L’uomo le concesse un’alzata di occhi, mentre la
mano andava a recuperare lo strumento abbandonato ai piedi della
poltrona.
E suonò per lei una canzone, poi un’altra, e
andò avanti per quasi tutta la notte, finché ella
non cadde addormentata, raggomitolandosi sulla poltrona.
Allora il conte staccò le dita dalle corde, si
alzò e chiamò la servitù per far
sì che Madonna Ordelaffi potesse tornare a dormire nei suoi
appartamenti senza svegliarsi.
|
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Capitolo 9 *** Capitolo Nono - La Biblioteca Nascosta ***
Lechatvert
Oggi
userò le picche. Ciao, picche
♠
Mancano
due capitoli, due! ♠
Sono
troppo contenta
Non ho molto da dire; aspettavo di scrivere questo capitolo da
tantissimo tempodnmidjwqodjw!
Come
sempre, buona
lettura a tutti, in particolare a chi ha recensito e
recensirà <3 Grazie, ragazza/e/i/o/u!
Vivogliobenissimissimo
♠
Capitolo
Nono
La Biblioteca Nascosta
Il giorno seguente, Bianca spese l’intera mattinata china
sullo scrittoio a scrivere un’ulteriore lettera a suo marito
nella quale, stavolta con maggiore premura, dava più
informazioni circa il suo fittizio stato di salute, circa la cortesia
delle sorelle, circa la bellezza del convento del quale era ospite. Si
sorprese inaspettatamente brava nel mentire, almeno per via epistolare,
cosa che la fece rimanere preda dei sensi di colpa e che, durante il
pranzo, la costrinse a giocherellare con il cibo in un tombale silenzio.
Il Conte, dal canto suo, non si era mimicamente interessato
dell’improvviso ammutolire della sua ospite, portando avanti
il pasto con moderato appetito, senza cercare in alcun modo di aprire
una discussione.
Le aveva semplicemente augurato il buongiorno e, raccomandandosi di
passare un pomeriggio all’insegna della
tranquillità e soprattutto senza farsi problemi a rivolgersi
alla servitù, si era ritirato nei suoi uffici, chiudendosi
la porta alle spalle e cessando di dare ogni segno di vita.
Bianca era quindi rimasta sola, persa in quel labirinto di stanze e
corridoi che era il suo appartamento, in compagnia di un pennino e
dell’ultimo foglio di carta rimastole.
Aveva addosso una gran tristezza, ma, per qualche strana ragione, le
era passata la voglia di piangere. Sapeva che una vera signora non si
mostrava debole in pubblico, e soprattutto non voleva in alcun modo
disturbare il Conte, fin troppo timorosa di quella che sarebbe stata la
sua reazione.
Così, si era costretta a restarsene chiusa nella sua stanza
da letto, pancia all’aria sul materasso, cercando di far
passare il tempo immaginando il suo ritorno da Ezio.
Sicuramente lui l’avrebbe accolta a braccia aperte,
stringendola a sé come era solito fare quando, per un motivo
o per l’altro, non potevano vedersi per più di un
giorno. Poi l’avrebbe condotta nella biblioteca di Palazzo
Rangoni, facendola accomodare su una delle poltrone della sala e,
sedendosi accanto a lei, le avrebbe letto una storia da uno dei suoi
libri. Lei si sarebbe addormentata lì, cullata dal suono
magico delle parole messe in fila a creare un racconto, seguendo il
flusso delle gesta di qualche lontano eroe in cerca d’amore.
Aprì gli occhi, fissando il soffitto decorato con lievi
tinte ocra.
Aveva una gran voglia di leggere.
Che a Palazzo Orsini vi fosse una biblioteca grande come quella di
Ezio? Sperò tanto di sì.
Si alzò, curiosa, aprendo la porta della sua stanza. Il
corridoio davanti a lei era deserto, le voci della servitù
lontane, concentrate al piano di sotto.
Per lei, quello fu più che un invito.
Si fiondò su per le scale che la sera prima aveva percorso
seguendo la musica, precipitandosi alla prima porta che
incontrò dinanzi a sé quando si trovò
al piano superiore.
Appoggiò la mano alla maniglia, traendo un profondo respiro.
Nonostante il Conte Riario si fosse raccomandato di non farsi mancare
nulla, sapeva che il suo curiosare per Palazzo Orsini non era
né consono né tantomeno giustificabile.
Si guardò ancora attorno, facendosi circospetta.
Nessuno in avvicinamento.
Stando attenta a non fare rumore, abbassò la maniglia e
sbirciò all’interno della stanza.
Vuota. Vi era soltanto un vecchio clavicembalo, addossato alla parete
opposta all’entrata.
Bianca sospirò.
Aveva appena commesso un’irrimediabile mancanza di rispetto.
Affranta, richiuse la porta alle sue spalle e tornò sul
corridoio, pensierosa. Doveva poteva essere nascosta, una biblioteca?
Adocchiò una seconda porta, e stavolta i sensi di colpa
furono immensamente minori, quando si scoprì ad aprirla.
Si ritrovò davanti ad un armadio a muro, riempito di vecchie
vesti e mantelli scoloriti dal tempo. Non appena l’odore di
chiuso la raggiunse, la ragazza chiuse anche quella porta, arricciando
il naso.
Quando aprì la terza, un altro mondo le si aprì
dinanzi. Vi era un ulteriore appartamento, completamente vuoto, della
cui esistenza non aveva minimamente idea. Un’intera serie di
stanze e sale vuote, librerie impolverate, letti e materassi sporchi.
Della biblioteca, però, neanche l’ombra.
Tornò sui suoi passi, scegliendo un ulteriore uscio al quale
affacciarsi.
Capitò così in un’ampia stanza, ben
illuminata dalla luce che entrava dalle finestre, circondata da
librerie su cui erano stati impilati decine e decine di volumi. Al
centro dello spazio vi erano due poltrone, entrambe rivolte verso il
caminetto spento e servite di un tavolino di marmo. Accanto a una delle
librerie, vi era persino un cesto colmo di carte geografiche finemente
arrotolate e catalogate con un cartellino.
Estasiata, Bianca si avvicinò a una serie di volumi,
osservandone i titoli. Erano quasi tutti trattati scientifici, alcuni
promettevano di narrare degli astri, altri della vita. Altri ancora
parlavano d’arte, alcuni di letteratura, ve ne erano persino
alcuni dedicati allo studio della botanica.
Non riuscì a trattenere la mano, che andò dritta
ad accarezzare il dorso di uno dei volumi.
Stava per prenderlo in mano, quando un colpo di tosse la fece
sobbalzare.
Spaventata, si voltò.
Proprio accanto a lei, sulla destra, vi era un particolare che doveva
esserle sfuggito. Una scrivania in legno, anche abbastanza ingombrante,
sulla quale erano sparse numerose lettere. Alla scrivania era seduto il
Conte Riario, intento a fissarla, stranito, con ancora un documento tra
le mani.
Per un istante, Bianca temette di sentire le gambe cedere.
« Co … Conte », balbettò,
affrettandosi a staccare le dita dai libri. « Io, io credevo
di aver trovato la biblioteca! »
L’uomo la osservò in silenzio per qualche secondo,
lasciandosi scappare un sospiro.
« È la seconda volta, da quando siete arrivata,
che fate irruzione nelle mie stanze », fece notare.
« Devo dedurne che l’educazione non vi sia stata
insegnata poi tanto bene, a Forlì ».
Detto questo, si chinò nuovamente sul suo lavoro,
scribacchiando qualcosa su un foglio.
Bianca sbatté le palpebre, sorpresa da tanta indifferenza.
« Le mie scuse », farfugliò,
stringendosi nelle spalle. « Cercavo soltanto qualcosa da
leggere ».
Riario non staccò gli occhi dalla scrivania.
« Troverete qualcosa di più consono alla vostra
persona nella biblioteca », rispose, muovendo la mano destra
verso l’uscita. « Ora, andate. Ho del lavoro da
fare ».
Seppur sorpresa, la ragazza si sforzò di fare un inchino e
lasciò l’ufficio in silenzio. Non si aspettava un
simile trattamento, non dopo la maniera in cui Riario l’aveva
trattata per portarla fino a Roma.
Sospirando, si ritrovò a percorrere di nuovo il corridoio,
ormai vicina alle scale. Ne osservò i gradini, bianchi e
lucidi, salire verso l’alto, e, quasi senza rendersene conto,
cominciò a percorrerli, sempre più in fretta,
fino a quando non si trovò alla fine, all’ultimo
piano di Palazzo Orsini.
Un lungo e buio corridoio le si apriva davanti, illuminato appena dalla
luce del pomeriggio.
Deglutendo, Bianca si decise a muovere un passo verso il vuoto.
Aveva trovato un armadio, degli appartamenti vuoti, un vecchio
strumento a corda. Ciò che l’attendeva
lì non poteva poi essere tanto diverso.
Ascoltando le assi del pavimento scricchiolare sotto i suoi passi
leggeri, si avvicinò rapidamente all’ultima porta,
quella in fondo al corridoio, appoggiando la mano sulla maniglia gelida.
Non ci pensò due volte.
Dall’altra parte di quel muro di legno, trovò una
sala enorme, decorata su ogni sua parete con motivi d’oro e
d’argento, resa elegante dalle ampie finestre che davano sul
giardino e da un maestoso caminetto di marmo.
Bianca ne rimase incantata.
Ne osservò ogni dettaglio, correndo dal caminetto alle
finestre, spostando le tende e spolverando i piccoli specchi che vi
erano sulle pareti accanto ai portalumi.
Si trovava in una sala da ballo.
Pensierosa, si chiese chi avrebbe fatto costruire una sala da ballo
come quella nei meandri di Palazzo Orsini.
Poi la notò.
Una piccola porta di legno, discretamente disposta sul lato opposto
delle finestre, rimasta socchiusa per chissà quanto tempo,
quasi aspettasse Bianca per invitarla al suo interno.
Per la ragazza non fu che l’ennesimo invito.
Vi si avvicinò piano, cauta, spingendone piano la superficie
ruvida per sbirciare all’interno della sala.
Quando fu abbastanza vicina da entrare con la testa, un intenso profumo
di carta l’avvolse.
Lei sorrise.
Si sentiva a casa.
* * *
Riario
entrò nella biblioteca che era ormai sera. Avvertiva su di
sé un lieve senso di stanchezza, sicuramente dato
dall’enorme carico di lavoro di quel pomeriggio, ma, allo
stesso tempo, anche una piacevole di sensazione di libertà.
Non vedeva l’ora di mettersi a letto, ma prima voleva
assicurarsi che Bianca Ordelaffi non stesse combinando qualcosa, non
stesse, insomma, escogitando un qualche piano di fuga.
Teneva alla sua libertà quasi quanto alla sua prigionia e il
solo fatto di non averla avuta sotto controllo per tutto il pomeriggio
gli aveva causato un senso di languore, di insoddisfazione, che non
aveva alcuna voglia di portarsi tra le lenzuola.
Raggiunse quindi la ragazza in biblioteca con poca o nulla voglia di
discorrere, accompagnato soltanto dalla fiamma di una candela.
La trovò intenta a leggere su una poltrona, schiena dritta,
sguardo immerso nelle pagine. Accanto a lei, vi era una pila di libri
quasi più alta delle librerie.
Lui la guardò, accigliandosi.
« Non trovate esagerato, rinchiudersi qui per tutto il
giorno? », chiese, avvicinandosi.
Bianca gli rivolse uno sguardo stupito. Stavolta, nei suoi occhi non vi
era paura, soltanto sorpresa.
« Le mie scuse, Conte Riario », rispose lei,
accennando a un sorriso. « Ma restare nei miei appartamenti
mi annoiava terribilmente. Inoltre, avete decine e decine di letture
interessanti, qui ».
Lui alzò appena le spalle.
« Non vi siete nemmeno presentata a cena ».
Bianca si imbronciò un poco.
« Le mie scuse », mormorò. «
Ero talmente assorta nella lettura … »
Riario non la lasciò finire, accomodandosi sulla poltrona al
suo fianco e posando la candela sul tavolino.
« Quanti libri avete letto? »
Bianca arrossì.
« Tredici ».
« Tredici? E non siete stanca? »
Lei scosse il capo, chiudendo il volume che aveva in grembo dopo aver
infilato un foglio piegato tra le pagine.
« Assai di rado mi capita di poter passare così
tanto tempo in una biblioteca. Quando posso permettermelo, cerco di
approfittarne ».
Riario annuì, sinceramente interessato. Un tempo aveva amato
passare le nottate sveglio a studiare, ma erano passati anni da quando
gli era permesso farlo, ora era talmente indaffarato che era obbligato
a cogliere quegli unici momenti di stacco come la notte come
un’occasione per riposare e rimettersi in forze.
« Condivido il vostro punto di vista », disse,
quindi, mentre il suo sguardo vagava veloce tra gli scaffali.
« Tuttavia, mia cara, ora vi suggerirei di andare a riposare.
Il Santo Padre ha chiesto di voi. Sarà mia premura portarvi
da lui, domani, così che possa conoscervi ».
Con uno sguardo, Bianca perse quel poco di colorito che aveva sulle
guance.
Guardò Riario in viso, schiudendo appena le labbra con fare
impensierito.
L’uomo si accigliò, spostando lo sguardo su di lei.
« Qualcosa non va? », chiese.
La ragazza respirò a fondo, sporgendosi appena in avanti.
« Conte », chiamò, scuotendo il capo.
« Io non credo di essere pronta a incontrare il Santo Padre
».
Riario assottigliò lo sguardo, scrutandola con minuzia. Le
si leggeva la paura negli occhi.
« Vi prego, lasciatemi qui, domani. Vi sarei soltanto
d’intralcio, a Roma ».
La fissò, ancora, mentre ella abbandonava il suo libro per
aggrapparsi con le dita sottili al bracciolo della poltrona.
In un istante le fu addosso.
Il volume cadde a terra con un tonfo sordo, mentre le dita del conte si
facevano attorno all’esile collo della ragazza, che lo
guardava atterrita, affondando nello schienale sotto la sua presa
ferrea.
« Fareste bene a tenere a mente quali sono i vostri doveri,
qui », sibilò lui, avvicinandosi
all’orecchio della fanciulla. « Madonna Ordelaffi,
non siete altro che un chicco di grano per il Santo Padre »,
le sussurrò, guardando nel vuoto. « Se fossi in
voi, non cercherei di sfidare oltre la sua pazienza ».
Le lasciò il collo, scostandosi appena per permetterle di
alzarsi.
« Andate », la esortò. «
Domani non possiamo fare tardi ».
Silenziosa, Bianca si drizzò in piedi, portandosi una mano
al collo e affrettandosi a lasciare la biblioteca.
Gli rivolse un’occhiata impaurita, prima di sparire
nell’oscurità del corridoio.
Pensieroso, Riario prese il posto della ragazza sulla poltrona.
Si guardò attorno per un istante, esaminando i titoli scelti
da Bianca. Si trattava per la maggior parte di romanzi, canti e lodi
cavalleresche.
Silenzioso, raccolse anche il libro caduto sul pavimento. Una copia
vecchia e logora del Decamerone, di cui avrebbe fatto bene a liberarsi.
La aprì, osservando il singolare segnalibro della ragazza.
Un ritratto del suo volto abbozzato di fretta su un pezzo di carta
stropicciata, a cui era però stato aggiunto del colore per
rendere i capelli di quella figura del tutto simili a quelli della sua
parte reale. Anche il volto del disegno, era macchiato di rosso.
Riario sorrise, passandosi la lingua sulle labbra secche.
Quella macchia dalla curiosa tonalità, assomigliava del
tutto e per tutto a quella che spiccava sul volto di Bianca il giorno
in cui era precipitata dalla collina.
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Capitolo 10 *** Capitolo Decimo - Promesse non Mantenute ***
Lechatvert
Il prossimo sarà l'ultimo capitolo, quindi direi di saltare
i convenevoli e rimandarli a tra qualche giorno, nell'occasione
dell'ultimo saluto. *sigh*
Intanto vorrei scusarmi del salto temporale che noterete. Mi ero
ripromessa di concludere in sette capitoli e siamo già fuori
tempo, capitemi!
Ringrazio poi tutti quelli che si sono fermati a leggere e a
commentare, siete davvero in tanti e sarà mia premura
salutarvi tutti in occasione dell'ultimo capitolo.
Grazie!
Vivogliobenissimissimo
♠
Capitolo
Decimo
Promesse non Mantenute
La luce di una calda giornata primaverile illuminò le pagine
di un libro lasciato all’aria aperta, mentre la brezza ne
sfogliava le pagine miste ai fili d’erba del prato.
Rapida, Bianca lasciò il tavolino all’ombra di
Palazzo Orsini per raggiungere la sua lettura nel bel mezzo del
giardino e, armata di un bicchiere di succo di limone, si risedette con
grazia sulla coperta per poi riprendere la sua lettura al sole.
Prese un sorso della bevanda appena tolta dalla ghiacciaia e si
preparò ad immergersi nuovamente in quel nuovo romanzo che
il Conte le aveva portato da Firenze. Venne però interrotta
proprio da quest’ultimo, di ritorno da un recente viaggio a
Imola, quando egli si affacciò al cortile con tutta
l’intenzione di spiarla leggere.
« Conte! », lo chiamo allora, felice, lasciando
ancora una volta il suo libro per correre incontro all’uomo.
« Siete tornato! »
Lui la scrutò a lungo da dietro ai suoi occhiali dalle lenti
scure, poi abbozzò un piccolo sorriso.
« Vedo con piacere che avete preso un po’ di
colore, Bianca », le disse, accennando alle sue guance di
solito pallide. « Leggere all’aperto vi fa bene
».
Lei sorrise.
« Siete stato via così a lungo che ormai mi stavo
cuocendo, là sotto », si lamentò,
seppur con tono dolce. « Ho finito il vostro libro
».
Riario le rivolse un sorriso storto.
« Leggete troppo in fretta, Madonna »,
commentò.
Bianca si imbronciò un poco. Lo sapeva, chiunque
l’avesse vista alle prese con una biblioteca non faceva che
ripeterglielo, ma non ci poteva fare nulla. Era come chiedere a un
coniglio di saltare più in basso, come chiedere a un falco
di volare più in basso.
Imbarazzata, portò le mani all’altezza del grembo,
sistemandosi le pieghe dell’abito. Quel giorno era vestita di
azzurro, con un vestito fresco di sartoria che il Conte le aveva fatto
confezionare su misura esattamente come lei l’aveva voluto.
Era pieno di pizzi e merletti, con la gonna a balze e il colletto
ricamato con delle perline. Da quando aveva avuto modo di indossarlo
per la prima volta, quello era diventato il suo abito preferito.
Aveva passato gli ultimi cinque mesi a Palazzo Orsini, continuando a
mentire a suo marito circa il suo stato di salute, continuando a vivere
con i sensi di colpa, oltre che con la consapevolezza di prendere in
giro l’uomo che più di tutti le era stato accanto.
Ma aveva imparato a sue spese a sopravvivere in una città
come Roma, costantemente in bilico tra le cortesie e la rabbia del
Conte Riario. Soddisfarlo non era difficile, in fondo bastava adeguarsi
a ogni sua piccola richiesta e accettare chinando il capo. Se si
comportava bene, poi, Bianca veniva letteralmente coperta di riguardi,
come il dono di un libro o di un abito, oppure una passeggiata sulle
vicine rive del Tevere.
Non era arduo, era soltanto questione di adeguarsi e, naturalmente, di
imparare a calibrare bene ogni parola e ogni gesto.
Di rado il Conte aveva alzato ancora le mani su di lei. Dopo la sera in
cui si era rifiutata di fare visita al Santo Padre, non era capitato
che in poche occasioni che Riario passasse alle mani per costringerla a
seguire il suo volere. Bianca aveva imparato ad eseguire gli ordini
mascherati da proposte senza ribadire e da allora non ne aveva tratto
che pace e serenità.
Sentiva ancora la mancanza di Ezio, ma si riservava il diritto di
piangere la lontananza la sera, una volta chiusa nella sua stanza da
letto.
Scacciò con un sorriso quei pensieri, scrollando il capo.
Dopotutto, il Conte non era un uomo cattivo e lei non voleva turbarlo
con le sue pene.
Lo guardò, senza soffermarsi troppo su quegli orribili
occhiali dalle lenti scure che lui sembrava tanto amare.
« Vogliamo accomodarci per un tè? »,
propose, quindi, allargando il braccio verso il cortile. «
Dovete essere esausto ».
L’uomo le rispose con un sospiro.
« Avete colto nel segno, Bianca »,
concordò, facendo strada e porgendo il braccio alla ragazza.
« Cavalcare da Imola a Roma è tutt’altro
che giovante ».
Si sedettero attorno a un tavolino di marmo all’ombra di un
grande cipresso, circondati dalla tranquillità del giardino.
« Avete trovato qualcosa di vostro diletto, durante la mia
assenza? », si informò il Conte, mentre con la
mano faceva segno ai suoi servitori di portare il tè.
Bianca alzò le spalle.
« Ho completato la lettura del libro che mi avete donato
… tre volte », ammise. « Ah, e ho
scritto un racconto, l’altra sera ».
Il Conte attese che la sua serva versasse l’acqua calda nelle
tazze, prima di chinare il capo con aria solenne.
« I miei complimenti », disse, poi. « Mi
piacerebbe leggerlo ».
« Ne sarei onorata ».
La guardò per un istante, poi si decise a mettere uno
spicchio di limone nella tazza e a girare la bevanda con il cucchiaino.
« Vi ho portato un dono da Imola »,
confessò, infine.
Il volto di Bianca si illuminò.
« Davvero? », chiese, sciogliendosi in un sorriso
pieno di gratitudine.
Riario annuì.
« Un libro. Non credo lo abbiate mai letto e, invero, confido
sia abbastanza spesso da tenervi occupata per un giorno o due
».
La ragazza abbassò lo sguardo sulla tazzina.
Avrebbe cercato di far durare di più quella lettura, ma a
Palazzo Orsini era difficile. Con Ezio c’era sempre qualcosa
da fare. Lui le raccontava delle storie, la lasciava in compagnia del
Conte di Fontenera quando andava a caccia, le suonava il clavicembalo,
si faceva letteralmente in quattro perché ella non restasse
un solo istante senza far niente. Aveva premura che sua moglie si
ambientasse, che si sentisse davvero a casa, cosa che Riario aveva dato
per scontato, scrollandosi quel peso di dosso con un semplice
“sentitevi libera di comportarvi come a casa
vostra”.
Dietro ai sorrisi che Bianca rivolgeva al Conte, quindi, vi era
soltanto una piccola parte di felicità posta a coprire la
mancanza di casa. Perché, per quanto egli si sforzasse di
definire Palazzo Orsini casa, e per quanto la ragazza avesse provato a
imporselo, il senso di appartenenza a Palazzo Rangoni non se ne era mai
andato.
Con aria affranta, sistemò uno spicchio di limone nella
tazzina, mescolando in silenzio.
Riario le lanciò un’occhiata disinteressata.
« Qualcosa non va, mia cara? »
Lei scosse il capo.
« Nulla, ricordavo soltanto Palazzo Rangoni ».
« È passato molto dalla vostra ultima lettera a
vostro marito. Fareste bene a scrivergli per rincuorarlo ».
Il viso di Bianca si illuminò, restando comunque un
po’ avvolto dalla paura.
« Dite davvero? », chiese, stupida.
Il Conte annuì.
« Messer Rangoni finirà per preoccuparsi
».
Bianca non se lo fece ripetere due volte.
Abbandonò immediatamente il tè e il servizio,
saltando tra l’erba e diretta verso i suoi appartamenti.
Aveva così tante cose da raccontare ad Ezio, così
tante frasi da scrivergli, così tante emozioni da
descrivere. Era passato poco, dall’ultima lettera, eppure non
vedeva l’ora di poter ricevere risposta. La carta di Palazzo
Rangoni aveva l’odore di casa sua.
« Vi ringrazio, Conte! », trillò,
rivolgendo all’uomo ancora seduto un ultimo sorriso.
Corse poi a perdifiato fino alle sue stanze, senza curarsi di Riario,
rimasto solo al tavolino del tè. Non si curò
proprio di nessuno fino a che l’ultima lettera non
schizzò fuori dal suo pennino.
In quei rari momenti non c’era nessuno, attorno a lei.
C’era solo Ezio, perso a fare chissà cosa
chissà dove, magari proprio intento a pensarla.
* * *
«
Vorrei tornare a Palazzo Rangoni ».
Basito, Riario alzò il capo dalla sua scrivania.
Fissò l’esile figura di Bianca, in piedi sulla
porta, le mani congiunte in grembo, lo sguardo color oliva fermo sulla
stanza.
« Per favore », continuò.
Lui tornò al suo lavoro.
« Credevo ne avessimo già parlato »,
rispose semplicemente.
Vi fu un istante di silenzio.
Bianca mosse un passo avanti, senza azzardarsi comunque a raggiungerlo
alla scrivania. Pareva sapere anche troppo bene cosa sarebbe successo
se avesse insistito troppo.
« Esaudite il mio desiderio, Conte », lo
implorò. « Una volta soltanto, poi non mi
allontanerò più da Roma, ve lo giuro. Per favore,
fatemi rivedere mio marito ».
Aveva assunto un tono crucciato, particolarmente triste.
Riario non si fece impietosire.
« Avvicinatevi, Madonna », la esortò
invece, indicandole una sedia accanto a quella su cui era seduto.
« Voglio mostrarvi una cosa ».
Bianca si fece riluttante, ma si costrinse a raggiungere
l’uomo al di là della scrivania.
Silenziosa, avanzò verso la fine dello studio, prendendo
infine posto accanto al Conte. Era ammutolita, letteralmente scolorita.
Riario allungò la mano su tutti i documenti sparsi sul
tavolo.
« Questo è ciò di cui mi occupo ogni
giorno », spiegò, pacato. « Quando mi
prendo cura dei miei averi più lontani. Li amministro, li
investo, li faccio crescere. Come vedete, i miei possedimenti a Roma
non richiedono uno sforzo così grande ».
Fece una pausa, leccandosi le labbra secche.
« Tuttavia, se si dovessero spostare da qui, tutto
ciò comporterebbe un enorme aumento del mio già
consistente carico di lavoro. Allo stesso modo, Bianca, se voi doveste
assentarvi da Roma per qualche tempo, sono certo mi costringereste a
stare alzato un’ora in più la notte per
amministrare con saggezza i vostri spostamenti ».
Si voltò verso la ragazza, cercando comprensione, ma a
trovarlo vi furono solo due occhi carichi di angoscia.
« Bianca, usate la testa », la esortò,
quindi, senza perdere la calma. « Sarebbe soltanto un inutile
dispendio di energie e di– »
Non terminò la frase che si ritrovò il viso
chiuso tra le mani gelide della ragazza. La vide avvicinarsi
velocemente e, prima che riuscisse a ribellarsi in qualche modo, le sue
labbra si trovarono incollate a quelle di lei, in un freddo quanto
sgradito bacio.
Non ebbe la forza di staccarla se non quando fu lei stessa ad allentare
la presa sul suo viso, guardandolo con sguardo vitreo, addolorato.
« Lasciatemi vedere mio marito per l’ultima volta
», supplicò, iniziando a singhiozzare. «
Poi sarò vostra, ve lo giuro ».
Riario non riuscì a trattenersi.
La sua mano volò veloce sulla guancia di Bianca nel
tentativo di zittirla, facendola cadere di lato con un gemito di sordo
dolore.
« Vi sbagliate se pensate che mi importi possedere una donna
che in dieci anni di matrimonio non è stata in grado di
partorire nemmeno un figlio », sibilò, cercando di
ricomporsi. « Francamente, non saprei che farmene di voi
».
La guardò ansimare a terra in preda alla paura, mentre lui
si alzava per recarsi nei suoi alloggi dove avrebbe trascorso la notte.
« Non siete più di un animale da compagnia, Bianca
», spiegò, allontanandosi. « Una gioia
da vedere quando è felice, ma niente di più.
Rassegnatevi, la sola compagnia che riceverete da vostro marito
sarà quella portata dalle lettere ».
E, detto questo, lasciò lo studio chiudendosi la porta alle
spalle.
Dal corridoio, udì i pianti della ragazza, ma non fu sua
intenzione quella di andare ad aiutarla nel rialzarsi dal pavimento.
Doveva capire che le cose, a Palazzo Orsini, non sarebbero cambiate
più di quanto lei non avesse già avuto modo di
sperimentare.
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Capitolo 11 *** Capitolo Undicesimo - Di lei era rimasto solo il ritratto ***
Lechatvert
...duuuuuuuuuunque.
Ci siamo. Ho finito. Sono arrivata all'ultimo capitolo, sfidando la
maturità, un fidanzato geloso e il sonno. Ho finito, la
fanfiction è conclusa. Wow, ancora non ci credo.
Come promesso, quindi, passo ai saluti più o meno ufficiali.
Voglio
farvi sapere innanzitutto che siete stati tantissimi a seguirmi, molti
più di quelli che mi aspettavo.
Siete stati tanti e tutti gentilissimi, sia con l'aggiunta ai
preferiti/seguiti che con le vostre splendide parole nelle recensioni.
Senza di voi, non saprei proprio come avrei fatto.
Oggi questa avvenuta in compagnia di Bianca finisce, ma è
inutile che vi dica quanto speri possa continuare, un giorno, nelle
vesti di un altro personaggio, nei profumi di una nuova storia. Spero
di avervi ancora con me, allora ♥
Per ora, mi limito a ringraziare ancora tutti quanti, da Jess alla frugola Eagle, che mi
sopportano assieme alle altre ragazze dello Smatto Rinascimentale.
Ringrazio anche Giulia,
che fidata è sempre corsa a recensire anche dalla sua
vacanza. Dove sarei, ora, senza di voi!
Bene, ho davvero finito.
Sono contenta, in un certo senso, di poter dare pace a Bianca dopo aver
salutato tutti. Vi auguro quindi una buona lettura e, possibilmente,
alla prossima!
Vi
mando un bacio grande quanto il mare ♥
Un'ultima
cosa, che ritengo importante: nel testo vi sono tre citazioni nascoste,
tanto per mettere alla prova chi legge. La prima è un
tributo alla magnifica Virginia Woolf, autrice ma soprattutto donna che
mi ha ispirata. E' stata citata sia in una particolare frase che in una
particolare azione. La seconda citazione è nascosta nel
testo di una canzone a mio parere molto azzeccata con la storia
e con questo capitolo. La terza e ultima citazione
è un po' più fine, dedicata al mio grande
maestro, Saba, che, mi dicono, andava pazzo per sua moglie.
Capitolo
Undicesimo
Di lei era rimasto solo il ritratto
Bianca Maria Ordelaffi lasciò Palazzo Orsini alle prime luci
dell’alba, portando con sé soltanto le vesti in
cui era avvolta. Nell’intenzione di non dare
nell’occhio, aveva abbandonato anche il mantello.
Quella notte non aveva dormito, passando le ore di buio raggomitolata
sotto le coperte a realizzare che, per come si erano messe le cose, non
vi era più via d’uscita per lei. Certo, avrebbe
potuto cercare l’appoggio di uno dei servitori del Conte e
affidargli una lettera in cui avrebbe raccontato tutta la
verità a suo marito, ma poi? Ammesso che fosse riuscita a
convincere qualcuno ad aiutarla, Ezio cos’avrebbe potuto mai
fare contro Roma?
Allo stesso modo, non si sentiva in grado di chiedere aiuto ai Medici.
Firenze aveva già i suoi problemi, a cui badare, senza che
vi si mettesse anche l’ormai caduto casato degli Ordelaffi a
complicare la situazione.
Il Conte era stato bravo, a legarle le mani.
Silenziosa e sormontata da tutti quei pensieri, la ragazza
scivolò lungo le mura del Palazzo, pregando di non essere
vista dagli uomini capaci di fermarla come, per esempio, il Capitano
Grunwald. Non le importava invece che la servitù la notasse
nel cortile a quell’ora. Voleva che il Conte sapesse
dov’era andata, voleva, in un certo senso, che fosse in grado
di seguirla fin dove ne sarebbe stato capace.
Arrivata fuori dalle mura del palazzo, si fermò,
osservandone le mura scrostate.
Con dita tremanti scavò sul gesso, ricavandone una prima
pietra. La guardò, mostrando un piccolo sorriso, e la ripose
nella tasca del suo vestito, accarezzandone con affetto la stoffa.
Era lo stesso abito che aveva indossato il giorno prima, quando il
Conte era tornato a casa. Era lo stesso che aveva indossato quando il
Conte l’aveva picchiata di nuovo. Adesso, sarebbe stato lo
stesso abito con il quale avrebbe conquistato la sua libertà.
Si allontanò in fretta da Palazzo Orsini, raccogliendo qua e
là sulla strada qualche pietra per arricchire la collezione
che si stava lentamente formando nelle sue tasche, e non si
fermò finché non le vide strabordare,
allorché iniziò a riempire le maniche a sbuffo.
Man mano che la sua prigione rimaneva alle sue spalle, un lieve senso
di leggerezza e libertà si infilava nel suo animo, prendendo
sempre più spazio, riempiendo sempre di più quel
vuoto che gli ultimi mesi erano stati per lei e per la sua
felicità.
Si sentiva spensierata come quando, ignara di tutto, aveva lasciato
Ezio per partire alla volta di Firenze assieme al Conte di Fontenera,
come quando, nella bottega del Verrocchio, artisti come Messer da Vinci
l’avevano presa come modello per il colore dei suoi capelli,
come quando il Conte l’aveva fatta felice regalandole un
libro, come quando aveva scoperto la biblioteca nascosta di Palazzo
Orsini.
Di quegli ultimi mesi, ricordava ogni risata, ogni piccolo, effimero
momento passato assieme alla felicità. Ricordava
l’odore del bosco e la risata di Levi, il freddo del marmo,
lo sgradevole odore dell’armadio guardaroba trovato durante
la sua prima esplorazione.
Mentre camminava, si perse in quel turbine di memorie, fatto di
emozioni, ma anche di odori, di sguardi, di sensazioni fredde che si
aggrovigliavano con quelle più calde e insieme formavano in
lei una ventata di speranza, di felicità.
Quasi ridendo come un tempo faceva durante le sue passeggiate con suo
marito, arrivò fino alle rive del Tevere, che scorreva
placido, quasi non dovesse seguire la precisione della corrente che lo
muoveva.
Bianca aveva amato i momenti trascorsi in quel luogo assieme al Conte.
Le rive del Tevere erano gli unici luoghi di Roma che conosceva,
escluso Palazzo Orsini e quel poco che le era stato concesso di vedere
del Vaticano. In un certo senso, li aveva fatti suoi, immortalandoli
nella sua mente come immagini di pura perfezione, attimi di gioia
impossibili da demolire, impossibili da cancellare.
Sorridendo a sé stessa, si immerse nel fiume, rabbrividendo
al contatto della sua pelle con le acque fredde che scorrevano verso il
mare.
Tremante, si augurò di aver riempito abbastanza le tasche
dei sassi che era stata in grado di trovare. Sarebbero dovuti bastare
per trascinarla lontano dalla riva se mai avesse deciso di lottare.
Congiunse le mani sul petto, dedicando ai suoi cari un ultima
preghiera, includendo anche il Conte Riario, uomo buono che
però sembrava aver perso la sua strada. Rivolse il suo
pensiero più profondo a suo marito Ezio, che invano la
aspettava a Palazzo Rangoni.
A lui, aveva lasciato una lettera, sulla cui busta pregava un qualche
servitore di recapitarla il prima possibile.
Verso soltanto una lacrima, ripensando al vortice di emozioni che
l’aveva trascinata sempre più in basso, quasi a
volerla ancorare per sempre a Palazzo Orsini, quasi ormai ella
appartenesse a quelle mura scrostate, a quei giardini perfetti.
Rivolse uno sguardo alla superficie sporca dell’acqua.
Tra i mulinelli, vide il volto di Ezio.
Allora si lasciò andare, abbandonandosi alla corrente,
lasciando che le sue pietre la portassero sempre più a
fondo. Scomparve senza un lamento, sorridendo, anzi, nel sentire il suo
corpo farsi pesante.
Finalmente sentiva le braccia di suo marito stringerla a sé,
le risate fresche del Conte di Fontenera intento a consigliare a Messer
Rangoni un nuovo piano economico, la voce di Ezio raccontarle una
storia nella grande biblioteca del loro palazzo.
Finalmente si sentiva a casa.
Carissimo,
la malattia mi ha stroncata di
nuovo, impedendomi stamane persino di uscire in giardino a prendere una
boccata d’aria fresca. Sento le forze abbandonarmi
lentamente, quasi vi fosse per loro un luogo più luminoso e
forte verso cui fluire. Non sono più sicura di riuscire a
superare questo malore che anziché bruciarmi il respiro
sembra volermi bruciare il cuore.
Non posso continuare a gravare
sulle vostre spalle come un fantasma, costantemente presente anche se
lontana, fonte di sole preoccupazioni. Una moglie dovrebbe essere la
forza di suo marito, non la sua debolezza, dovrebbe portare la
primavera nella sua anima, non l’inverno. Così
faccio la cosa migliore per me e per voi. Siete stato in ogni senso per
me tutto ciò che una persona può essere, e devo a
voi tutta la felicità che ho avuto nella mia vita. Avete
avuto con me un’infinita pazienza, siete stato
incredibilmente buono. Tutto se ne è andato via da
me, tranne la certezza della vostra bontà.
Restate fedele a quegli ideali
di arte e bellezza che mi avete trasmesso e che tanto vi hanno dato
negli anni, e non siate triste per la vostra sposa; sto andando in un
posto infinitamente più bello, infinitamente più
luminoso.
Mio caro marito, non piangete la
mia morte. Non credo che due persone avrebbero potuto essere
più felici di quanto lo siamo stati noi.
Bianca.
Il Conte Riario arrivò sulle rive del Tevere che Bianca era
già sparita.
Di lei, il fiume non aveva lasciato neanche un capello, neanche una
misera risata, appena accennata tra l’erba fresca e umida del
mattino.
Prima di andarsene, la ragazza aveva lasciato una lettera sulla
scrivania del suo ufficio. Non spiegava molto, in realtà,
lasciava giusto il tempo di precipitarsi sul fiume e osservare come il
lento fluire della corrente avesse cancellato ormai ogni cosa di lei.
Riario non fece molto, in verità.
Si limitò ad osservare la corrente del Tevere, raccogliere
l’unico papavero che cresceva su quelle rive erbose e donarlo
all’acqua, guardandolo andare via e sparire sotto la forza
dei mulinelli.
Immaginò, mentre si sedeva a terra con fare crucciato, che
l’esile corpo di Bianca fosse stato inghiottito con la stessa
facilità, senza lasciarle il tempo di emettere un solo
lamento, una sola richiesta d’aiuto.
“Vi avevo
chiesto di essere paziente, equilibrato, gentile”,
gli aveva scritto, con la calligrafia tremante di chi ha troppo poco
tempo per lasciare qualche riga. “E vi avevo promesso che al
mattino sarei stata con voi”.
Riario si fece pensieroso, congiungendo le mani sotto al mento.
Osservava ancora il fiume rapito, forse, dalla sinuosità dei
movimenti dell'acqua.
“Se me ne sono
andata, versate del sale sulle vostre ferite. Vi aiuterà a
dimenticare”.
Mise la mano inguantata nella tasca della giacca, estraendone il
ritratto stracciato che Bianca aveva usato come segnalibro mesi prima,
nella vana speranza di sentirsi ancora legata a qualche amico che
presto si sarebbe dimenticato di lei.
Improvvisamente, si ritrovò ad accarezzare quella figura
dipinta, pensando che, forse, non si era mai reso veramente conto di
quanto quel viso fosse armonioso, di quanto quel sorriso fosse luminoso
ed esattamente ingenuo come lo era in gioventù. Quella
smorfia felice che affiorava sulle sue labbra, scatenata anche da una sola
parola, aveva passato più guerre di un condottiero.
Ma era tardi, perché Bianca Ordelaffi se l’era
presa il fiume, inghiottendo, assieme al suo corpo, ciò che
era stata e ciò che sarebbe potuta diventare. Era sparita la
sua grazia, la sua bellezza, la sua risata colma di dolcezza e fiducia
in ciò che la circondava. Il Tevere si era preso ogni cosa.
Di lei, era rimasto solo il ritratto.
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