Just A Little Woman. di RobiSmolderhalder (/viewuser.php?uid=169071)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Alone Against The World. ***
Capitolo 3: *** The Right Time. ***
Capitolo 4: *** You Are Mine. ***
Capitolo 5: *** Colorful Souls. ***
Capitolo 6: *** The Same Thrill. ***
Capitolo 7: *** Impasse. ***
Capitolo 8: *** With Every Single Beat Of My Heart. ***
Capitolo 9: *** The Sky Of Berlin. ***
Capitolo 10: *** First Snow Of The Year. ***
Capitolo 11: *** He's father. ***
Capitolo 12: *** Mom Is Always Mom. ***
Capitolo 13: *** The future destroyed. ***
Capitolo 14: *** The same pain. ***
Capitolo 15: *** Don't cry. ***
Capitolo 16: *** Us, together. ***
Capitolo 17: *** And if you go, I wanna go with You. ***
Capitolo 18: *** And if You die, I wanna die with You. ***
Capitolo 19: *** Take Your Hand and walk away, ***
Capitolo 1 *** Prologo. ***
Just A Little
Woman.
Prologo.
Mi guardo allo
specchio, pronta per il mio primo giorno
all’università. Mi sento così
elettrizzata, per quanto tempo avevo sognato
questo giorno? Sono sempre stata quel tipo di ragazza a cui piace
studiare,
quel tipo di ragazza mai stata attratta da brutte strade o droghe. Sono
sempre
stata per conto mio, a pensare al mio futuro, fantasticando sul domani
che
verrà. Ravvivo i miei capelli ed esco dal bagno dirigendomi
in cucina, dove si
sente l’aroma di caffè appena fatto.
«Buongiorno Tesoro.» Mormora mia madre sulla mia
guancia,
posandole un bacio tre secondi dopo.
«Ciao mamma. Come sto?» Le chiedo lisciando la mia
gonna di
seta che arriva fino al ginocchio e la camicetta bianca a maniche
corte, ai
piedi indosso un paio di sandali neri, con le perline argentate sulla
stoffa,
avrei certamente preferito le mie converse nere, ma non credo sarebbero
state
adatte. Reneé
piega la testa di lato, pronta per
il suo sincero giudizio, non è mai stata una mamma che ti
riempie di balle per
farti felice, la sua sincerità ha sempre avuto furore tra di
noi, ed io sono
cresciuta come lei, con il motto di chi è sincero
farà sempre una buona vita.
Ma non credo sia così, sinceri o meno, se la vita decide di
far schifo lo fa lo
stesso, indipendentemente dalla sincerità.
«Sei bellissima amore mio.» Sussurra emozionata,
con uno
slancio mi butto sulle sue braccia e lei mi accoglie abbracciandomi.
Non mi è
mai mancato affetto da parte di mia madre, nonostante la sua vita non
è mai
stata rose e fiori, nonostante io sia stata quel motivo per cui mio
padre l’ha
abbandonata quando io ero ancora un embrione. Eppure lei mi ripete
tutti i
giorni, quanto sia stato necessario avermi, che sono
stata la cosa migliore che potesse
capitarle. Mia madre mi ha chiesto mille volte se volessi sapere dove
trovare
mio padre, ma no, ho sempre rifiutato, dicendole che come lui non ha
voluto me,
io non voglio lui nella mia vita. Che uomo è? Quale uomo
lascerebbe la propria
donna per sua figlia? Magari adesso
è
cambiato, forse è maturato in questi ultimi diciannove anni,
ma non importa, ho
mia madre, ho il mio ragazzo e ho i miei nonni che di certo non mi
fanno
mancare l’affetto che lui non ha saputo darmi.
Sorseggio il mio caffè, aspettando Jacob che mi
accompagnerà. Infatti, non appena la mia mente lo focalizza
il campanello
suona.
«Ciao Jake.» Mormoro baciandolo a fior di labbra.
«Ciao Bells. Reneé.» Mia madre alza la
testa a mo’ di
saluto, ed io, come ogni giorno abbasso lo sguardo imbarazzata, sono
due anni
che sto con Jacob, ma a lei la nostra relazione non le è
andata mai a genio, lo
vede come un cafone immaturo. La sincerità di mia madre. Ma
la vita è la mia, e
di certo non lo avrei lasciato per il disappunto di mia madre. Prendo
la mano
del mio ragazzo ed usciamo da casa.
«Tua madre non mi accetta.» Ammette con disprezzo
non appena
mette in moto la sua golf del millenovecento…ah, non ricordo.
«Non è una novità.» Dico come
se nulla fosse, beccandomi una
brutta occhiata da parte sua. Arriviamo nel parcheggio e con un flebile
bacio saluto
il mio fidanzato. Il sole di Berlino picchia sulla mia testa e mi
maledico per
non aver indossato il cappellino, la mia pelle è bianca,
è la cosa più simile
alla mozzarella che possa esistere. Ricordo che una volta dopo essere
stata al
mare, mi addormentai svegliandomi all’ospedale, sono stata
lì per due
settimane: ustione di terzo grado. Da quell’episodio sono
sempre stata attenta
e premurosa con la mia pelle. Afferro il pacchetto delle mie sigarette
e sicura
che non ci siano gli occhi di mia madre a scrutarmi, ne tiro fuori una
e
l’accendo. Inizio a camminare, dirigendomi
all’entrata della Freie Universität,
un fastidio sotto la pianta del mio piede mi fa intuire che
è entrato qualche
sassolino, alzo il piede e lo scuoto, cercando di non farmi notare dai
ragazzi
che circondano il giardino, tentativo vano dato che adesso mi guardano
tutti,
un sorriso di circostanza si impossessa del mio volto e le mie guance
si
tingono di rosso peperone. Giro il mio volto, guardandomi il tallone e,
cosa
molto intelligente da parte mia, continuo a camminare, schiantandomi
contro
qualcosa…mi giro, o qualcuno. Rimango pietrificata a
guardare il ragazzo che ho
appena investito. Il suo sorriso è la prima cosa che noto,
circondato da rosee
labbra carnose, i suoi denti sono bianchi scintillanti, i suoi capelli
sono un
po’ strani, sono ramati, la sua è una chioma
ribelle.
«Scusami.» Mormora guardandomi da capo a fondo. I
suoi occhi
sono verdi, un verde che non passa inosservato tanto è
acceso e scintillante.
«No…ecco io…» Inizio a
balbettare e di nuovo le mie guance
assumono miliardi di colori tranne uno normale.
«Sono Edward Cullen.» Mormora porgendomi la mano,
io
avvicino la mia tremante e stringo la sua, così calda e
forte.
«Bella Swan.» Mormoro imbarazzata. In
realtà il mio nome è
Isabella, ma mi sa tanto di antico, odio il mio nome per intero.
«Ci vediamo in giro.» Mi dice salutandomi, mentre
io
continuo a guardarlo rimanendo imbambolata, mai visto un ragazzo
così. Scuoto
la testa, ricordandomi che al mio fianco ho una persona che amo e che
mi ama e
continuo la mia lotta contro il destino: oltrepassare indenne questa
giornata.
La mattina passa tra le presentazioni dell’istituto e il mio
incontro con le mie due migliori amiche: Melanie e Hayley. Melanie
è bionda con
gli occhi verdi, è alta e magrissima, tante volte le hanno
offerto lavoro come
modella, ma lei ha rifiutato essendo innamorata del cibo e degli sport
maschili. Hayley ha i capelli rossi, è alta i suoi occhi
sono azzurri, il suo
corpo è minuto ma ha le forme al punto giusto. Sono state in
vacanza alle
Bahamas questa estate, mi hanno chiesto se volevo andare ma ho
rifiutato, non
ho mai lasciato mia madre da sola, ho sempre avuto un senso di
protezione
assoluta verso di lei, e poi Jacob non mi avrebbe lasciata andare.
Tante volte
mi chiedo se il nostro amore è come quello delle Sit-com,
tante volte mi chiedo
se sto vivendo la mia vita per davvero, ci sono quelle volte invece in
cui lo
guardo negli occhi e dico: sono felice, nonostante succede poche volte.
Mi
accontento, la mia vita è sempre stata monotona, calma,
senza “divertimenti da
adolescente”, chi si accontenta gode no?
Un gemito di
disperazione lascia la gola di Hayley non
appena la golf del mio ragazzo entra dentro il parcheggio. Mi giro
verso di lei
con sguardo confuso e lei scuote la testa. Allora da lì
capisco tutto, si
chiede come mai io stia ancora con lui, l’unica persona che
accetta il mio
fidanzamento è Billy, nonché il padre del mio
ragazzo. Sembra una cosa triste,
ma sono sempre stata quel tipo di persona che se ne frega del giudizio
altrui,
anche se, lo ammetto, molte volte mi sono chiesta il motivo del
disappunto di
tutti quanti.
«Come è andata?» Mi chiede con dolcezza
non appena entro in
auto. Annuisco come per dirgli: “tutto bene”, sono
troppo stanca per parlare.
Mette in moto e il tragitto è silenzioso, anche
perché tra di noi non c’è mai
stato nessun tipo di dialogo. Entro in casa e mi butto sul divano, mia
madre è
a lavorare, tante volte ci rimane anche la notte, è un
medico, al momento si
sta occupando di una ricerca per il cancro. Guardo le foto che
circondano la
casa, troppo grande per solo due persone, solo diciannove sono le mie
dei
compleanni, poi ci sono quelle della nascita, di mia madre da piccola,
di me e
mia madre. Ricordo che mia madre c’è stata sempre,
quando stavo male, quando ho
eseguito gli esami della scuola media e del diploma, quando ho dato
l’esame per
la patente. Ad ogni occasione, che fosse importante o meno lei
c’è stata.
Sorrido, pensando che sono stata fortunata dopotutto, mia madre mi ama,
più di
qualsiasi altra persona. La mia vita è sempre stata questa,
un immenso
accontentamento, il mare a bassa marea. Ci sono stati anche per me quei
periodi
di ribellione, ma il massimo che ho fatto è stato piangere
in un angolo buio
per ore, senza far capire niente a nessuno. Spesso in quel periodo, mi
chiedevo
cosa ci fosse in me che non andava, perché se mio padre mi
aveva abbandonata, l’uomo
che mi aveva creata, quanto ci avrebbe messo un’amica, un
fidanzato a farlo?
Avevo perso la fiducia nelle persone, credendo che fossero tutte
uguali, che le
gente a cui ti affezioni prima o poi ti abbandona, perché
trova di meglio,
perché non hanno più bisogno di te,
perché in un modo o in un altro trovano il
modo per sbarazzarsi delle persone. Adesso ho imparato che non me ne
importa un
fico secco, che se voglio bene non lo faccio al cento per cento, in
modo che
non appena vanno via sono preparata e soffro meno. Per questo, forse mi
sono
accontentata di Jacob, perché nei suoi occhi ho visto lo
stesso senso di
bisogno del mio, di non essere abbandonato.
«Pronto
mamma?»
«Tesoro, potresti dirmi cosa c’è scritto
nella lista della spesa?
L’ho dimenticata a casa!» Sbuffa disperata, scoppio
a ridere e stacco il
post-it dal frigo.
«Melanzane, mele, limoni, pasta, sugo, tonno, bagnoschiuma,
crema per il corpo, assorbenti…» Rimango in
silenzio, mentre mia madre mi
chiama pensando che si fosse staccata la chiamata.
«Mamma, puoi richiamarmi tra due minuti?» Sussurro
in preda
al panico, senza nemmeno aspettare la sua risposta stacco la chiamata,
correndo
verso lo sgabuzzino per prendere la mia borsa, afferro
l’agenda dove appunto il
giorno del ciclo, siamo al 15 Settembre, prendo il mese di Agosto,
vuoto,
Luglio, vuoto, Giugno: 29 Giugno, ultima mestruazione. In automatico le
mie
gambe diventano della stessa consistenza del budino e mi siedo per
terra, giro
le pagine dell’agenda tra le mani, pensando che si,
c’è un errore, invece no,
le pagine sono vuote. Un peso all’altezza del mio stomaco mi
fa faticare a
respirare, e spero solo che sia tutta colpa dello stress. Trovo un
minimo di
lucidità per chiamare mia madre, prima che possa mandarmi
una volante della
polizia per assicurarsi che io sia ancora viva.
«Pronto Bella? Non permetterti mai più di chiudere
il tel…»
«Scusa mamma, c’era Jake alla porta!»
Improvviso
interrompendola.
«Ho già fatto la spesa, se manca qualcosa torno
domani. Ci
vediamo tra poco.» Sospiro, sorprendendomi dalle mie doti da
attrice, non mi
capita di mentire spesso. Afferro la testa con entrambe le mani,
imprecando in
aramaico contro me stessa! Come ho potuto dimenticare una cosa del
genere? È da
matti! Inizio a camminare per tutta la casa cercando una qualche
spiegazione ai
miei ritardi che non sia una gravidanza.
«Cosa?!» Urlano all’unisono le mie
amiche, costringendomi a
tapparmi le orecchie. Chiudo gli occhi, pensando che ci manca solo la
loro
reazione per farmi scoppiare a piangere seduta stante, cosa che,
stranamente
non è ancora successa. Ho passato la notte insonne, andando
in bagno ogni ora
per controllare se fossero arrivate, invece niente, ho pensato fosse lo
stress,
ma sono quasi tre mesi, e ad oggi mi chiedo come ho fatto a dimenticare
una cosa
del genere, il che è strano perché sono sempre
stata puntualissima e meticolosa
per questo genere di cose…forse il diploma,
l’università, l’estate calda e
noiosa, ho pensato potessero essere tutte queste cose, ma è
impossibile, per
una volta ho sperato di essere una donna sterile, pensiero che
può sembrare
orribile per molta gente. Una lacrima sfugge al mio occhio pensando
all’ultima
volta che ho fatto sesso con Jake, non che ci sia sempre
l’occasione, e quando
c’è cerco sempre di divincolarmi. Non so cosa ci
si trova di bello nel sesso,
fatto sta che io non provo niente, se non il suo membro che scivola
dentro di
me con forza e basta, niente piacere, al massimo dolore. Non capisco
come
faccia la gente ad esserne dipendente.
«Bella devi fare qualcosa!» Urla Melanie
scuotendomi dalle
spalle. La guardo negli occhi e annuisco, si, devo fare qualcosa, non
posso
starmene con le mani in mano ad aspettare il ciclo che a quanto pare
non
arriverà mai. In un attimo mi ritrovo gli occhi di mia madre
delusi che mi guardano,
ho paura di deluderla, e in casi come questi la mente, il subconscio ci
fa
questo genere di scherzi.
«Facciamo così! Tu rimani qui a casa, noi andremo
in centro
a prendere un test di gravidanza. » Mormora Hayley cercando
di confortarmi,
annuisco asciugandomi le lacrime e le ringrazio. Non appena la porta si
chiude
guardo l’orologio, sono le quattro, massimo
mezz’ora e dovrebbero essere di
ritorno. Mi giro i pollici guardandoli, sperando che questo fermi i
miei pensieri
e, ovviamente non ci riesco. E se fossi davvero incinta? Come farei con
lo
studio? Come farei a portare avanti una gravidanza? Mia madre come la
prenderebbe? E Jacob? Dio che confusione. Spero di non essere gravida,
perché
non è il momento giusto, perché sono senza un
lavoro. E se lo sono, non c’è una
soluzione, perché uccidere un bambino per il semplice motivo
di non essere
pronta non va bene, perché la vita è sacra e non
posso ucciderla, perché lui,
se è davvero qui dentro, non ha alcuna colpa, non deve
essere lui quello che
deve pagare. Mi porto le ginocchia al petto e inizio a singhiozzare,
maledicendomi per tutte le volte che Jacob dimenticava il preservativo
dicendomi: “Fidati di me”. So benissimo quanto
immaturo lui sia, non avrei
dovuto lasciarglielo fare. Il campanello suona facendomi sobbalzare,
apro la
porta senza chiedere nemmeno chi è e le mie amiche spuntano
dall’ascensore.
«Dai in bagno!» Urla Hayley cercando di
sdrammatizzare, dopo
avermi vista nello stato pietoso in cui mi ritrovo. Leggo le
istruzioni, okay,
posso farcela. Due linee incinta, una no. Sospiro, prendo un
bicchierino di
quelli sterilizzati e faccio la pipì, immergo il bastoncino
e lo metto sopra il
piano della lavatrice, leggo ancora una volta le istruzioni, solo tre
minuti.
Guardo le mie amiche, che hanno smesso di respirare e cerco di non
pensare alla
tensione palpabile che c’è qui dentro. Guardo
l’orologio, manca un minuto, alzo
gli occhi al cielo, unisco le mani a mo’ di preghiera pur
sapendo quanto sia
inutile pregare in questo momento.
«È ora.» Sussurra flebilmente Melanie,
annuisco cacciando
fuori tutta l’aria che i miei polmoni possiedono e afferro il
bastoncino, in
questi casi si potrebbe credere che lo avrebbero fatto loro, ma
guardando le
loro facce quasi mi viene dal ridere, hanno più paura di me.
Guardo il test che
segna due linee nitide, ben definite, che brillano al contatto con la
luce
artificiale, come se quest’aggeggio volesse darmi un
messaggio ben chiaro: sei
incinta, i-n-c-i-n-t-a vuoi capirlo? Mi lascio cadere per terra con il
test tra
le mani e annuisco alle mie amiche, provocando un pianto isterico ad
Hayley,
sotto lo sguardo omicida di Melanie. Guardo le piastrelle color salmone
del
bagno di casa mia cercando di concentrarmi su quelle, pian piano che
passa il
tempo il mio respiro si regolarizza e Hayley smette di piangere,
Melanie si
avvicina e me e si siede per terra.
«Calmati tesoro. C’è sempre una
soluzione.» Sussurra con
tono amorevole. Scuoto la testa, facendole capire che no, per me, per
questa situazione
non ci sono alternative, non sempre c’è una
soluzione a tutto.
«Ehi.» Mormora Hayley imitando Melanie, prende il
mio viso
tra le mani e mi costringe a guardarla negli occhi. «Noi
siamo qui, qualsiasi
cosa accada.» Sussurra prima di abbracciarmi forte.
Guardo entrambe le mani, intrecciate a quelle
delle mie
amiche, in attesa che la ginecologa chiama il mio nome, per essere
sicuri se
davvero un piccolo esserino è dentro di me. Sono passati due
giorni, mia madre
ha capito che c’è qualcosa che non va, ma non ha
voluto infierire più del
dovuto, Jacob come prevedibile non si è accorto di nulla,
non gli ho detto
niente, forse sto sbagliando a non dirgli niente tutto e subito, ma
sono sicura
che in questo momento non sarebbe d’aiuto, per fortuna ho le
due migliori
amiche del mondo, che non hanno voluto saperne di lasciarmi da sola in
questi
due giorni.
«Miss Swan?» Chiede una donna con un camice bianco,
minuta e
bassa. Mi alzo, facendole capire che sono io e mi fa segno di seguirla,
nemmeno
per un secondo lascio le mani delle mie due amiche.
«Da sola.» Mi dice la dottoressa fulminandomi con
lo
sguardo, provocando uno strano tremore alle gambe.
«Non possiamo lasciarla da sola!» Urla Melanie con
tono per
niente amichevole, Hayley annuisce lanciando sguardi torvi alla
dottoressa,
prego mentalmente che quest’ultima non se la prenda con me.
La dottoressa mi
guarda e con un sospiro sonoro, degno di un cavallo, annuisce. Mi fa
delle
domande di rito: ultima gravidanza, ultimo rapporto sessuale, problemi
patologici,
dipendenza dalla nicotina e via dicendo…
«Si stenda qui. » Mormora sorridendomi, dopo aver
sicuramente notato il mio tremore. Mi stendo sul lettino e lentamente
la
dottoressa mi sfila le mutandine, e, se anche è una donna le
mie guance
rischiano di prendere a fuoco. Mi guardo attorno, mentre la dottoressa
si
munisce dei guanti, e sono davvero spaventata questa volta,
c’è un aggeggio un
po’ strano, sembra un vibratore, ed è grosso.
Guardo le mie amiche con gli
occhi sgranati, ma la loro espressione, posso giurarci è
identica alla mia. La
dottoressa spalma il gel sopra la punta di quella specie di vibratore e
mi
guarda.
«Non farà male.» Mormora un attimo prima
di avvicinarlo alla
mia intimità, chiudo gli occhi e funziona non penso a nulla,
sento quel coso
con il gel che entra dentro di me, ma non è poi doloroso,
solo un pochino
fastidioso.
«Si. C’è un bimbo qui dentro.»
Apro gli occhi
immediatamente, mentre il dito della dottoressa indica lo schermo, e
per la
prima volta lo vedo, e c’è davvero. Scoppio a
ridere mentre alcune lacrime
scendono sulle mie guance, è una pallina bianca, fisso lo
schermo sperando che
si muova ma ovviamente non lo
fa. È la
pallina più bella che io abbia mai visto. Un senso di
commozione si insinua nel
mio cuore e non dico di essere felice, ma sono sollevata. La dottoressa
preme
qualcosa nella tastiera e un suono forte parte dalle casse di quella
specie di
computer. E quello lo riconosco subito, è il battito del suo
cuore. È forte,
veloce, si intuisce che è pieno di vita, esistenza che non intendo per nessun
motivo uccidere. Guardo
le mie amiche, entrambe con gli occhi lucidi che mi sorridono, Hayley
accarezza
la mia fronte e annuisce. Prendo l’appuntamento con la
dottoressa per il
prossimo mese e vado via, tra le mani stringo forte
l’ecografia.
«Noi siamo qui, in macchina con te. Per qualsiasi cosa urla,
fa qualcosa! » Dice Hayley, mentre spegne la macchina davanti
l’officina di
Jake. Annuisco più a me stessa che a loro ed esco dalla
macchina.
«Ciao Bells. Che fai qui?» Mi chiede Jake, uscendo
dall’officina,
sorpreso dati che qui non ci metto mai piede.
«Volevo parlarti.» Mormoro decisa, sono sicura che
se il
panico prende il sopravvento finirei per non dirgli nulla. Lui alza le
braccia
ed io rimango dove sono, meglio qui fuori. Annuisco a me stessa e
prendo un
respiro profondo.
«Sono incinta, Jacob.» Dico tutto di un fiato con
la voce
isterica. Lui sgrana gli occhi e come prevedevo rimane in silenzio. Mi
torturo
le dita con le mani, tenendo stretta la mia borsa, lui abbassa lo
sguardo senza
guardarmi e rimaniamo così per minuti interminabili.
«Com’è possibile?» Mi chiede
rabbioso, reazione che accende
l’istinto di prenderlo a pugni adesso, fino a farlo
sanguinare.
«È…ecco…» Inizio a
balbettare e lui mi interrompe
avvicinandosi bruscamente.
«Zitta, zitta, zitta!» Urla fuori di sé
avvicinandosi.
Rimango impietrita, iniziando silenziosamente a piangere, e se anche
è
sbagliato il senso di colpa mi invade. Lui inizia a camminare a destra
e a
sinistra tenendosi tra le mani la zucca vuota che si ritrova.
«Andiamo dai!» Urla di punto in bianco prendendomi
malamente
per il braccio. Mi divincolo dalla sua presa e riesco a guardarlo con
rabbia.
«Non toccarmi!» Sibilo furiosa.
«Dobbiamo andare in ospedale Bells, dobbiamo mettere fine a
questa cosa prima che cominci.» Mi dice disperato, lo guardo
con ribrezzo, non
credendo alle sue parole, lo spingo con tutta la forza che ho e sento i
passi
di Hayley e Melanie dietro di noi. Sono vicine ma rimangono in silenzio.
«Tu…vuoi tenerlo?» Mi chiede sorpreso.
Io annuisco e lo
guardo piangendo.
«Vattene Bella. Sei solo una ragazzina! Lo capisci quello a
cui stai andando incontro? NON SAREMO IN GRADO DI CRESCERE UN
FIGLIO!» Urla
facendomi spaventare. Mi avvicino a lui e lo guardo negli occhi.
«Forse tu no, Jacob Black, ma io si!» Urlo
piangendo prima
di correre via, corsa che dura poco, perché tutta la rabbia,
la tensione, lo
stress e la malinconia prendono il sopravvento facendomi perdere i
sensi.
Salve! Eccomi ancora! So che
chi mi conosce penserà: ma lei
non è quelle che due storie contemporaneamente no? Ebbene,
non riuscivo a non
pubblicare questa storia, la sento troppo parte di me per lasciarla
nascosta
ancora quindi spero vivamente di farcela, non ho nessun intenzione di
abbandonare Embrace Me With Your Mind :3 ps: avete tutto il diritto di
odiare
Jacob e.e
Ehm…non so
se vi piacerà, decidete. Un bacio
A presto
Roby <3
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Alone Against The World. ***
Just A Little
Woman.
Alone Against
The World.
Cercavo di
aprire gli occhi, ma le palpebre non rispondevano
ai comandi del mio cervello. Non sentivo nulla, se non il respiro di
qualcuno
sulla mia pelle. Non so esattamente quanto tempo sia passato
dall’ultima volta.
Ricordo tutto, dicono che, in questi casi, molto spesso non si ricorda
nulla.
Io ho solo perso i sensi, non la memoria per quanto mi riguarda.
Ricordo la
rabbia negli occhi di Jacob, lo spavento nelle voci delle mie migliori
amiche e
poi il buio, ma tutto quello che è avvenuto prima lo
ricordo, e se il mio corpo
facesse ciò che indica il cervello inizierei a piangere per
poi non smettere
più. Come ho potuto anche solo pensare che Jacob
l’avrebbe presa bene? Forse
mia madre e le mie amiche avevano previsto una cosa del genere. Non
abbiamo mai
litigato pesantemente io e Jacob, poiché non
c’è mai stato un valido motivo per
farlo, adesso non sono sicura di volerlo nella mia vita per uccidere un
‘anima
che non ha fatto nulla di sbagliato, innocente. Cerco di muovere le
mani ma
nulla, il vuoto. Vorrei tanto portarmi una mano sul ventre, sperando
che, per
quanto prematura sia la mia gravidanza, io non abbia perso quella
piccola
pallina bianca. Non so perché, non so nemmeno se sia una
cosa normale, ma è
possibile amare qualcosa, qualcuno già dal primo momento che
scopri della sua
esistenza? Forse no, non è normale, ma chi dice che io lo
sia? Il desiderio di
alzarmi, svegliarmi da questo stato qualsiasi esso sia, è
prepotente, mi sento
repressa, costretta in questo letto senza alcun bisogno. Spengo la mia
mente e
aspetto pazientemente che arrivi la luce per
svegliarmi.
Strabuzzo gli
occhi e finalmente posso muovermi. Apro gli
occhi lentamente, mi guardo attorno, cercando di focalizzare le sagome,
ci
metto qualche secondo prima che la mia vista torni limpida e vedo la
testa di
mia madre appoggiata sul mio letto. Accarezzo i suoi capelli, sperando
di non
averla delusa così tanto da pentirmene amaramente. Non
appena sente il mio
tocco, alza la testa con uno scatto repentino guardandomi e scoppiando
a
piangere.
«Tesoro mio.» Sussurra tra le lacrime
abbracciandomi forte,
alzo il braccio sinistro, notando che il destro è ingessato,
lo guardo
stralunata cercando di ricordare il dolore che dovrebbe avermi causato
il
braccio rotto, ma nulla, non sapevo di avere avuto danni fisici, o
meglio,
forse lo sapevo ma non ricordo. Le lacrime di mia mamma bagnano le mie
guance e
non so bene se è per la gioia di rivederla, per la paura di
quello che mi
aspetta nei prossimi mesi, per la rabbia di Jacob ancora presente
dentro di me
come una coltellata sul cuore, ma scoppio a piangere insieme a lei
abbracciandola forte a me, intimandole di non abbandonarmi, che ho solo
lei,
che sarei sola se lei mi volterebbe le spalle. Mia madre scioglie
l’abbraccio e
accarezza la mia fronte, scostando qualche ciocca di capelli, la sua
mano è
fredda a contatto con la mia pelle calda. Mi guarda negli occhi e mi
immergo in
quell’azzurro cielo che mi ha sempre trasmesso sicurezza,
affetto, sincerità e
senso di purezza, mi
sorride e sospiro
di sollievo, ma sono sicura che la ramanzina arriverà, deve
arrivare.
«Amore mio. Stai tranquilla sistemeremo tutto.»
Mormora
prima di darmi un bacio sonoro sulla guancia. Mia madre propone di
chiamare il
medico in modo da avere maggiori chiarimenti sulla mia salute, dato che
adesso
sono finalmente cosciente. Il medico, un uomo sulla cinquantina, con
capelli e
folta barba bianca e un paio di occhiali che scivolano malamente sul
naso neri,
si avvicina sorridendomi. Tiene in mano una cartellina bianca ed
è munito di
una biro, alzo gli occhi al cielo, sperando di non dover rispondere ad
un
questionario mastodontico.
«Buongiorno Isabella.» Mormora sorridendomi, mentre
io con
quel buongiorno mi chiedo che ore sono e di quale giorno. Mi guardo
attorno, ma
non c’è nessun orologio o indizio utile.
«Dovrai rispondere a qualche domanda mia cara. Ma stai
tranquilla la tua psiche è ancora debole,
cercherò di fare presto.» Mormora con
voce calda e rassicurante, annuisco come un automa, ripetendo come un
mantra
un: “lo sapevo”. Rimane in piedi davanti al mio
letto e mi studia con lo
sguardo, dopo qualche minuto annuisce e sospira, io roteo gli occhi e
aspetto.
«Bella, cosa ricordi di quello che è successo
prima di
perdere i sensi?» Mormora, pigiando il bottoncino della biro
pronto a scrivere,
per poi analizzare le mie parole, strano, credevo lo facessero solo gli
strizzacervelli.
«Ero andata a casa del mio ragazzo. Per comunicargli che
aspettiamo un bambino…a proposito come sta?»
Chiedo allarmata, ricordandomi che
dentro di me c’è una vita che si sta creando,
sentendomi un verme per averlo
per qualche secondo dimenticato, cancellato dalla mente.
«Sta bene. Fortunatamente è rimasto
illeso.» Mormora
accigliandosi e guardandomi incitandomi a parlare.
«Dicevo…ho detto a Jacob che ero incinta, ma lui
non ha
voluto saperne, anzi, voleva ucciderlo, voleva che io abortissi,
voleva...voleva…» Scoppio a piangere, ricordando
come se fosse adesso la rabbia
di Jacob, palpabile tramite i suoi occhi, la sua bocca, si sentiva
nell’aria,
mi aveva respirato addosso tutto il calore di quella rabbia non
ingiustificata
ma eccessiva. I singhiozzi mi riempiono il petto, facendo tremare la
mia anima,
che ormai non sa che fare se non piangere. Il medico mi guarda
impassibile,
mentre mia madre gli lancia sguardi di fuoco che potrebbero ucciderlo.
Cerco di
calmarmi, ripetendomi che non è il momento di piangere e
fortunatamente ci
riesco.
«Isabella, mi dispiace…vorrei solo dirti che hai
il braccio
fratturato, abbiamo bisogno di sapere come è
successo.» Mormora con voce calda
e rassicurante.
«Questo non lo ricordo. Forse quando sono caduta perdendo i
sensi. Non lo so. Sono certa che, però, non ho sentito alcun
tipo di dolore
mentre ero vigile.» Mormoro sicura di me, non voglio dire
balle solo per farla
pagare a Jacob, anche se lo meriterebbe, non sono famosa per essere
vendicativa.
«A volte, la rabbia e la disperazione non ci fanno accorgere
del dolore fisico che stiamo provando, perché quello
psichico è più forte.»
«Tesoro dobbiamo parlare.» Mormora mia madre mentre
mi aiuta
ad entrare in macchina, non mi ero mai fratturata nulla, il gesso
è una tortura,
alzo gli occhi al cielo per lo sforzo e mi siedo sul sedile della
Volkswagen
nera di mia madre. Annuisco alla sua affermazione. Mette in moto e
rimane in
silenzio, facendomi capire che sta metabolizzando e analizzando ogni
frase che
deve dedicarmi, sempre con la sua massima e assoluta
sincerità. Non appena mia
mamma spegne la macchina scoppia a ridere, indicandomi il portone di
ingresso
di casa nostra. Ci sono Hayley e Melanie che hanno in mano degli
striscioni che
citano: “bentornati a
casa.” Una
lacrima di commozione riga la mia guancia, dovrei essere felice di
tutto
questo, e invece…invece mi sento sola
contro il mondo, sola a combattere
contro un esercito intero, mi sento da sola, ma non lo sono, e se anche
fosse avrei
la forza di batterti contro tutto e tutti, per lui, per questa
bellissima
pallina bianca che mi ha fatto innamorare con un colpo di fulmine.
Scendo
dall’auto, tenendo sempre fermo il mio braccio e mi avvicino
alle mie amiche,
pronte ad abbracciarmi forte, strozzandomi e dandomi la loro forza.
Entriamo in
casa e mi chiedono come sto. Le dico che sto bene, che il mio piccolo o
piccola
che sia è sano, che la mia gravidanza va avanti da sei
settimane, nonostante i
ritardi facevano credere di più. E poi, cala un silenzio
tombale non appena
nominano Jacob. Non voglio parlare di lui, non ne vedo la ragione.
Hayley e
Melanie se ne vanno ed io mi stendo sul divano chiudendo gli occhi,
cercando un
qualche argomento che mi faccia venir sonno, in modo da non pensare e
immergermi in quel luogo che tutti chiamano sogno, vivere in quella
realtà
reale solo dentro di noi, dove c’è pace e
tranquillità.
«Bella? Svegliati amore. Dobbiamo cenare.» Mi sento
strattonare dolcemente da mia mamma e apro gli occhi lentamente. Gli
occhi
azzurri di mia madre si specchiano nei miei e ci vedo paura
lì dentro. Mi alzo
con uno scatto repentino e inizio a camminare per dirigermi in cucina,
una
fitta al braccio mi fa fermare e strizzo gli occhi tra loro, come se
questo
gesto potesse cancellare il dolore. Mia madre corre verso di me e mi
aiuta a
sedermi sulla sedia di legno della cucina. Inizia a massaggiare la mia
spalla e
un sospiro di sollievo lascia le mie labbra.
«Meglio?» Mi chiede sorridendomi dolce. Io annuisco
e
ricambio il sorriso. L’odore di patate al forno e carne
arrosto entra nelle mie
narici facendomi rendere conto che sono molto affamata. Non appena ho
il piatto
con il cibo davanti afferro le posate e mangio tutto in dieci minuti,
il tutto
seguito da un mal di pancia terribile ovviamente.
«Bella devi mangiare più lentamente!» Mi
rimprovera mia
madre, facendomi sentire una bambina di cinque anni, non posso darle
torto
ovviamente. Sorseggia il suo tè al limone e
mi guarda, mi studia, cerca in qualche modo di comunicarmi
qualcosa.
«Che c’è mamma?» Chiedo sicura
che tra un po’ la sua
tranquillità verrà smascherata dalla rabbia,
perché in fondo so che è
amareggiata e delusa. Lei scuote la testa e sorride.
«Non sono arrabbiata con te Bella.» Mi dice
schiarendosi la
voce, per poi continuare. «Sono solo molto sorpresa. Non mi
sarei aspettata una
cosa del genere adesso, di certo, sapevo che quando eravate da soli, tu
e
Jacob, non vi
guardavate negli occhi,
poiché vedevo il modo in cui ti guardava, vedevo che
c’era già una certa
intimità tra di voi. Sono delusa dal suo comportamento,
perché nonostante tutti
sappiamo il suo carattere, sappiamo che è un immaturo che
resterà tale per
sempre, non credevo che ti lasciasse da sola in un momento come
questo…» Dice
facendomi tirare un sospiro di sollievo, ammettendo a me stessa che io
al posto
suo sarei stata furiosa.
«Lui ci sarebbe stato mamma. Solo se io avessi accettato la
sua condizione.» Mormoro deglutendo, lei mi guarda accigliata
e realizzo che
Hayley e Melanie non le hanno detto propriamente tutto.
«Quale condizione?»
«Se io avessi ucciso il bambino, a quest’ora
sarebbe qui con
me. Ma non voglio uccidere un’anima innocente per colpa sua.
Mi sono resa
conto, in quel poco tempo che ho potuto pensare, che lui non mi ama, lui non ama, perché se lo
facesse non
avrebbe pensato nemmeno per un momento quello che ha detto,
ciò che voleva che
io facessi.» Dico cercando di reprimere le lacrime,
consapevole che, comunque,
avrei dovuto affrontare questa cosa con mia madre e che è
semplicemente solo
l’inizio, l’incomincio di una strada asfaltata,
l’abbozzo di una nuova me,
l’inizio di una lotta di cui sono sicura di voler combattere,
anche a costo di
perdere qualsiasi cosa, anche sola contro
tutto il mondo.
«Questo ti rende onore piccola mia. Ho capito che vuoi
tenere questo piccolo esserino. Ti comprendo se mi dicessi che lo ami
più di te
stessa nonostante sia solo l’inizio. Io sono qui amore mio,
al tuo fianco, qualsiasi
decisione tu intraprenda.» Mormora con le lacrime agli occhi,
mi avvicino a lei
e per quanto il braccio mi permette la stringo forte a me,
ringraziandola
un’infinità di volte e bagnando più del
dovuto la sua camicetta.
Mi stendo sul mio letto, sfinita sia fisicamente e
moralmente, accendo il pc e decido di guardare un film, purtroppo
però i miei
film sono tutti malinconici e strappa lacrime, come Forrest Gump, John
Q,
Moulin Rouge, Man Of Fire, alzo gli occhi al cielo e chiudo il computer
con uno
sbuffo. Un senso di angoscia mi pervade facendomi scendere le lacrime
senza che
io me ne sia resa conto, gli uomini sono tutti uguali, avevo sentito
una volta,
smentivo sempre, difendevo gli uomini dicendo che ogni persona ha un
carattere
diverso da un’altra che ognuno di noi è unico,
diverso da un altro. Invece
adesso lo penso anch’io, mio padre ha fatto la stessa
identica cosa di Jacob,
ha abbandonato mia madre quando io ero solo un feto minuscolo, non ha
voluto
prendersi le sue responsabilità. Aveva giurato amore eterno,
mio padre, come
Jacob aveva fatto con me, ripentendomi tutti i giorni quanto le stesse
a cuore
la mia felicità, dicendomi che nulla era più
importante del mio sorriso, eppure
eccolo qui, pronto ad abbandonarmi, abbandonarci, al nostro destino,
pronto a
fregarsene di un figlio che tra meno di un anno nascerà,
pronto ad ucciderlo
pensando solo a se stesso, alla sua vita senza interruzioni da parte di
nessuno. Ho letto il suo fastidio negli occhi quando ho rivelato il mio
stato
interessante, come se quel bambino fosse una barriera tra le due
personalità di
se stesso, come se quella fosse una tragedia quando in
verità è un dono, un
piccolo miracolo arrivato in un momento sbagliato, ma pur sempre
qualcosa che
sa riempire il cuore di gioia più di qualsiasi altra cosa la
vita ci offre. Calde
lacrime bagnano il mio cuscino, cerco di autoconvincermi che le lacrime
porteranno via questo immenso senso di tristezza, con una mano le
spazzo via
cercando in vano di reprimere quell’ansia ormai presente
dentro di me da
giorni. Chiudo gli occhi cercando di immaginare la mia vita, ma Jacob
non c’è,
dicono che l’amore non va via in un battito di ciglia, dicono
che non si ama se
si odia, dicono che per innamorarsi di una persona può
volerci un attimo come
un secolo, dicono che per odiare una persona può volerci un
nanosecondo e un’eternità.
L’amore non va via presto, è vero, ma era vero
amore? Che amore è se dopo
qualche attimo puoi ritrovarti ad odiare la stessa persona?
L’unica cosa che mi
consola è avere la consapevolezza di amare questo bambino di
più di quanto
credevo di amare Jacob. Una parte di me spera che lui torni indietro, a
chiedermi scusa, a dirmi che era stato l’istinto a prevalere,
l’altra non lo
vuole più vedere né sentire. Scuoto la testa e le
lacrime scendono fino al
collo, che stupida sono stata a credere anche solo per un attimo che
lui
sarebbe rimasto al mio fianco. Avevo anche creduto che questa fosse
stata l’opportunità
per farlo crescere. Lui ha buttato via la felicità,
perché io ne sono
consapevole, sarò felice, non ora né tra un mese,
ma quando questa gioia verrà
al mondo, onorandomi con la sua presenza sarò felice, e
nessuno potrà mai farmi
cambiare idea su questo.
«Bella! Va a casa se
non te la senti! Forza!» Mi incita Hayley
non appena mi vede. Siamo davanti l’edificio universitario ad
aspettare
Melanie, che stranamente non è ancora arrivata. Il mio
aspetto di certo non è
tra i migliori, ma sono presentabile, e poi, se voglio davvero dare un
futuro
degno di essere chiamato tale al mio piccolo devo continuare ma
studiare, ho
pensato di passare in segreteria e chiedere se tra qualche mese posso
studiare
da casa, in modo che quando la mia pancia sarà una
mongolfiera potrò starmene a
casa senza perdere l’istruzione o comunque rimanere indietro
con gli esami. Gli
occhi di Hayley si mescolano con i miei rivelandomi la sua tristezza
nel
vedermi in questo stato, con un braccio fasciato, gli occhi spiritati,
l’espressione
di chi è stato appena travolto da un camion, e poi la
consapevolezza di avere
un’amica incinta e sola. La guardo cercando di confortarla,
cercando di farle
capire che io sono forte, che posso farcela, contro ogni
probabilità riuscirò a
rendere la mia vita migliore di quel che credo.
«Hai
denunciato il fatto?» Mi chiede indicando il mio
braccio con il mento. Io la guardo confusa e scuoto la testa. Lei
sgrana gli
occhi e mi guarda, si avvicina a me velocemente e mi prende per il
braccio.
«Perché
no Bella? Se farai passare questa cosa, la rifarà
altre volte!» Mi dice arrabbiata ma con quel senso di
dolcezza tra la voce.
«Ma cosa? Di
che parli?»
«È
stato Jacob a romperti il braccio, non è possibile che
non lo ricordi!» Cerco di trovare qualcosa che colleghi
questo, nei ricordi della
mia mente e sì, ricordo che lui mi ha afferrato il braccio,
ma non ricordo se
ho provato dolore, e non è possibile che sia stato lui,
perché con lo stesso
braccio dopo qualche secondo gli ho mollato un ceffone. Scuoto la testa
rivolgendomi ad Hayley, mentre l’abbraccio di Melanie mi
impedisce quasi di
respirare.
«Buongiorno.
Come va?» Chiede con aria frizzantina. Noi
scuotiamo la testa e lei rimane impassibile, non facendosi rovinare il
buonumore, è una cosa che ammiro di lei, una delle sue
migliori qualità. Hayley
chiede a Melanie se ricorda bene quel pomeriggio non molto lontano,
dicendole
che non ricordo se è stato lui a rompermi il braccio oppure
è stata la caduta.
«È
stato lui! Ovvio che è stato lui!» Urla Melanie.
Io
annuisco, sicura che posso fidarmi di loro e la mattina passa
così, tra le
lezioni e il mio frugare tra i ricordi per cercare di rendere quel
pomeriggio
più vivido, rendendo la mia vita ancora più
difficile, dato che quel ricordo è
come una stilettata al petto. Non appena il professore di letteratura
Inglese
ci informa che possiamo andare, la classe si svuota immediatamente. Con
la mia
goffaggine degna da far invidia ad un bradipo, mi alzo acchiappando la
mia
borsa, esco dall’aula cercando con lo sguardo Melanie, dato
che Hayley oggi
tornava a casa prima. Mentre cammino in cerca della mia amica, la porta
con una
voluminosa scritta “segreteria” attira la mia
attenzione, meglio prima che dopo,
mi dico. Varco la porta e un signore sulla cinquantina d’anni
mi sorride
facendomi cenno di avvicinarmi al bancone.
«Buongiorno.
Vorrei sapere se ci sono delle possibilità di
studiare da casa, nei prossimi mesi.» Mormoro, incurante del
mormorio dei
ragazzi che ci sono dall’altro lato della segreteria,
sicuramente a prendere la
serie dei libri di testo. Lui annuisce e mi porge un modulo.
«Deve
compilare il modulo, e poi potrà farlo. Il modulo va
consegnato trenta giorni prima dalla data in cui non riesce a venire
qui.»
Mormora sempre sorridendomi. Lo ringrazio ed esco fuori, seguita da un
ragazzo.
«Ehi ciao!
Come va?» Mormora imbarazzato, si riesce a
sentire dalla voce. Mi giro e mi imbatto ancora una volta in quel
ragazzo che
avevo creduto reale solo nella mia mente. Non ricordo bene il suo nome,
quello
che ricordo, cosa che non si può dimenticare, è
la sua bellezza. Non è di una
bellezza di quelle che vedi in tv in uno spot di profumi, no,
è molto di più.
Direi più una bellezza che ti colpisce al primo sguardo, una
bellezza che
quando la vedi non puoi dimenticarla. La sua mascella è
rigida ma dall’aspetto
sembra morbida da mordicchiare, le sue spalle sono larghe, ma non
troppi, è
minuto ma i muscoli sono okay. E poi ci sono i suoi occhi che pur non
conoscendolo mi fanno capire la bontà che
c’è il lui, la bellezza interiore che
esprimono i suoi occhi è eclatante.
«Ehm...Ciao.
Tutto bene grazie.» Mormoro con le guance in fiamme,
com’era quel proverbio? Ah sì, meglio dire che
stai bene invece che spiegare
perché stai male. E poi di certo, non voglio la
pietà di nessuno, tanto meno
non voglio annoiare questo dio greco sceso in terra, sono sicura che
osservarlo
così è meglio che parlarci.
«Organizzo
una festa, questo Sabato. Vuoi venire? Puoi portare
anche le tue amiche con te.» Mi dice con le pupille che si
allargano di speranza.
Sorrido intimidita e prendo l’invito che ha tra le mani e
annuisco. Lui si
passa una mano tra i capelli e mi saluta, lo guardo mentre mi da le
spalle
andando via. Guardo il foglio e la ragione non permette
all’istinto di
accartocciarlo e buttarlo via. Mi dirigo fuori, sperando che Melanie
sia lì,
mentre la malinconia che per pochi attimi se ne era andata torna a
farmi
compagnia, rendendosi più presente della mia ombra stessa.
Mi guardo attorno,
ma questa volta non per cercare Melanie, ma per vedere se trovo quel
ragazzo di
cui non ricordo il nome. Un moto di delusione mi invade quando Melanie
arriva e
di lui non c’è nemmeno l’ombra.
È possibile credere di stare bene in presenza
di una persona che ancora non conosci?
Eccoci, non ho ritardato,
anche se, lo ammetto è stato
difficile. Voglio ringraziarvi tutte, per aver accolto la storia in
questo
modo, non me lo aspettavo. Grazie infinite!
Spero di non deludervi
e spero che quest’avventura sia
gradevole per voi quanto lo è per me.
Un bacione.
A domenica.
Roby <3
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** The Right Time. ***
Just A Little
Woman.
The Right Time.
Accarezzo il
velluto soffice del mio vestitino, tremando con
il cuore in gola. Sono in macchina con Hayley, stiamo per andare alla
festa di
Edward, quel ragazzo tanto bello quanto gentile. Eppure non mi sento a
mio
agio, nonostante la sua dolcezza è stata la prima cosa che
ho notato di lui. È
giusto che una ragazza incinta esca a divertirsi? È da
responsabili farlo?
Forse non è Edward la causa del mio tremore, è
semplicemente il senso di colpa
che sento verso il mio piccolino, è sano per lui? Che io
esca mentre lui è
dentro di me? Non c’è nulla di male, disse Hayley
nel momento in cui avevo
pronunciato un no secco, non appena quel piccolo volantino è
scappato dalla mia
borsa, come per farsi vedere, come per rendersi utile a qualcosa.
Scuoto la
testa, cercando di sospirare, ma il nodo che ho in gola non me lo
permette.
Melanie è uscita con un ragazzo questa sera, lasciandomi con
Hayley,
lasciandomi senza scelta. Hayley mi ha truccata, ripentendomi che sono
pur
sempre una ragazza di diciannove anni, che sono bella, che ho tutta la
vita
davanti e che mio figlio quando sarà grande potrà
batterle il cinque, sono
scoppiata a ridere, avevo acconsentito ad uscire con entusiasmo, ma
adesso
sento di star sbagliando. Mi sento come quando sono uscita a prendere
una
boccata d’aria alle tre del mattino, dopo aver litigato con
Jacob, sapevo che
lui non voleva che uscissi alla
sera tardi, da sola, eppure lo avevo fatto sentendomi in colpa,
tremendamente
fuori posto.
«Forza Bella. Ci divertiremo. Pensi troppo.»
Sussurra
sbuffando, io deglutisco e annuisco flebilmente. Arriviamo a
destinazione e il
mio cuore batte furioso, facendomi credere ardentemente che possa
uscire dalla
cassa toracica da un momento all’altro, per
l’ansia. La mia amica mi manda uno
sguardo omicida e penso che questa serata non possa andare peggio di
così. Mi passo
una mano tra i capelli nervosamente e scendo dall’auto. La
casa che ospita la
festa è una villetta a schiera, c’è un
giardino attorno pieno di azalee rosse e
arancioni, c’è odore di terriccio bagnato. La
villetta è bianca con i tetti
grigi, le finestre, troppe per i miei gusti, sono con la griglia
antifurto,
nere, è una di quelle villette che trovi ad ogni lato di
Berlino, che sia un
quartiere che sia il centro della città,
c’è ne sono tantissime uguali. Con mia
madre, ogni tanto, ci soffermiamo a guardarle invidiose verso quelle
persone
che hanno il privilegio di abitarci. Sorpassiamo il cancelletto aperto
e ci
dirigiamo verso la porta di ingresso, anch’essa aperta.
C’è un odore intenso di
incenso, mi guardo attorno per vederlo, ma di lui non
c’è traccia, la casa è
vuota, spero che questo non sia stato uno scherzo di cattivo gusto.
«Sei arrivata allora!» Esclama proprio lui dietro
le mie
spalle, mi giro reprimendo un sorriso da idiota e lo guardo, rimanendo
incantata per qualche attimo. Indossa una camicia azzurrina leggera, le
maniche
sono alzate sui gomiti e lasciano intravedere un orologio Rolex
d’oro, ha dei
pantaloni neri che avvolgono le sue gambe in modo perfetto, i suoi
capelli sono
sempre quella chioma ribelle che non ho mai visto al loro posto e poi,
indossa
la cosa migliore che un uomo potesse avere, un sorriso dolce, genuino,
sincero,
uno di quei sorrisi che si leggono nell’anima, negli occhi.
Abbasso gli occhi,
rendendomi conto che mi sono soffermata troppo su di lui con lo
sguardo. La sua
mano sfiora la mia spalla e voltandomi di lato noto che Hayley
è sparita. Le
gambe iniziano a tremarmi ma rimango comunque immobile, sentendo un
fastidio
assiduo alle mani che stanno iniziando a tremare.
«Che ti succede?» Mi chiede preoccupato tastandomi
la fronte
con la mano. Io scuoto la teste e mi divincolo dalla sua presa. Mi
porge la
mano, che io afferro prontamente sorprendendo anche me stessa, ci
dirigiamo
verso una porta finestra che da al terrazzo immenso, stupendo e
soprattutto pieno
di gente, ragazzi che ho intravisto per i corridoi
dell’università e altri che
magari non ho mai visto o che, comunque non frequentano lo stesso
istituto. Una
ragazza, con i capelli biondi tinti quasi bianchi mi guarda con una
smorfia
sconcertata in viso. Edward continua a camminare, non mollando la mia
mano,
nemmeno mentre si scontra con un ragazzo. Ci avviciniamo in un angolo
del terrazzo
vacante dove c’è una sdraio libera, mi fa segno di
sedermi e lo faccio,
sospiro. Lui rimane in piedi, mentre il mio sguardo si fonde con le mie
unghia
dei piedi, mi sento osservata da lui, sento i suoi occhi addosso, sento
la mia
pelle ricoprirsi di brividi sotto il suo sguardo. Un sensazione invade
il mio
corpo, una percezione a me sconosciuta, ma piacevole, quasi
lusinghiera. Non mi
era mai capitato di essere intimidita da qualcuno, men che meno da un
uomo,
nemmeno i primi giorni che mi innamorai di Jacob provavo certe cose, al
massimo
arrossivo. Adesso mi sento destabilizzata, lusingata, serena, come se
il suo
sguardo su di me fosse necessario. Batto flebilmente la mano sulla
sdraio,
facendogli segno di sedersi al mio fianco, un sorriso si fa strada nel
suo viso
ed io ricambio. Accarezzo il mio ventre, perché nonostante
sembra strano, per
pochi attimi ho avuto paura di dimenticarmene. Mi piace accarezzare il
mio
ventre, fare capire a quel piccolo embrione, che, nonostante io sia la
sola a
volerlo davvero, già lo amo. Sto cercando di riprendermi
dalla questione ‘Jacob’
ma sono sicura che il motivo per cui io non sono ancora impazzita sia
proprio
questa piccola pallina bianca. Ho pensato che morire di dolore non
servirebbe a
niente, se non a trasmettere la mia malinconia a mio figlio, adesso
vivo per
lui, per farlo sentire sempre importante, perché ormai lo so
lui è la mia vita,
quel motivo per cui mi alzo al mattino per andare a lezione, quel
motivo per
cui vale la pena lottare. Vale la pena lottare per tenere
ciò che si ama e,
nonostante lui sia solo un puntino non ancora ben definito è
amato, voluto,
desiderato. Guardo gli occhi di Edward, sono verdi come il colore della
speranza, forse è per questo che sento una certa
affinità verso questo ragazzo
che potrebbe sembrare irreale, gli sorrido arrossendo, mentre la sua
mano
sistema una ciocca ribelle dei miei capelli dietro
l’orecchio, la sua mano
sfiora il mio viso e cerco di non tremare, mi sorride dolce e inizia a
parlare.
La serata passa tra chiacchere e risate, abbiamo bevuto del
succo di frutta e mangiato fragole, ad ogni morso che dava ad una
fragola il
mio corpo fremeva regalandomi sensazioni a me assolutamente estranee.
Mi ha
parlato della sua famiglia, momentaneamente in vacanza, del suo voler
diventare
scrittore, della sua passione per il pianoforte, cosa che mi ha
sorpresa e che
mi ha fatto pensare tanto a lui con gli occhi chiusi mentre muove le
mani dando
vita ad una melodia straordinaria, come lui, come i suoi occhi e come
il suo
viso. Parlammo di me, di mia madre e delle mie amiche, non gli ho
parlato di
Jacob o del mio piccolino, sarebbe stata una cosa troppo intima e, devo
ammettere, che la paura che il suo interesse svanisse era palpabile. La
festa c’era,
ma noi eravamo in una specie di limbo, dove l’accesso era
consentito solo alle
nostre parole seguite dai sospiri e mai mi sono sentita così
bene in vita mia,
dando finalmente risposte alle mie domande, sì, si
può stare bene con una
persona non appena la guardi negli occhi per la prima volta. Non
c’è un motivo,
non c’è un perché, accade e basta. Ci
sono persone che per qualche assurdo
motivo decidono di volere entrare prepotentemente nella tua vita e ci
sono
quelle che, invece, entrano nel tuo cuore senza che tu dia il consenso,
senza
avere nemmeno il tempo di rendertene conto e quando accade molte volte
è
piacevole, come adesso, in questo istante.
Saluto Hayley che
non
appena è scattata la mezzanotte è venuta a
cercarmi come se io fossi uscita
dalla favola di cenerentola, per accompagnarmi a casa.
«Bella?» Mi chiama la mia amica, non appena apro lo
sportello della sua auto. Io la guardo e lei mi sorride con gli occhi.
«Ti ho vista allegra, stasera.» Mormora con tono
dolce ma
allo stesso tempo attento ad una mia reazione. Io annuisco, ammettendo
che la
presenza di Edward ha migliorato il mio umore, facendomi per qualche
ora dimenticare
la mia vita, dando spazio alla spensieratezza.
«Stai attenta.» Mormora prima di salutarmi e
sfrecciare a
tutta velocità tra le strade di Berlino.
Mi guardo allo
specchio, indecisa su quale maglia indossare,
ho deciso di uscire a prendere un gelato con mia mamma, in questa
domenica
afosa di settembre. Mia madre ha accettato entusiasta, contenta che
qualcosa mi
avesse dato la forza di uscire per altro che solo per le lezioni.
Stanotte non
ho chiuso occhio e le borse enormi sotto gli occhi lo confermano,
sospiro
infischiandomene optando per la camicetta azzurra anziché
quella color
mandarino. Tolgo la canotta del pigiama, indugiando sul mio ventre,
ancora
piatto e duro, se non avrei la prova lampante di aspettare un bambino
non ci
crederei neanche. Sembra strano, eppure non vedo l’ora che la
mia pancia
cresca, in modo da credere completamente che lui è mio, che tutto questo
è reale, che la sua esistenza
lo è. Mi dirigo in cucina ed esco con mia madre. Ci
dirigiamo in gelateria,
scoprendomi vogliosa di gelato al cioccolato mischiato a quello della
fragola,
se ci avessi pensato qualche mese fa avrei escluso assolutamente
l’unione di
questi due gusti, eppure adesso che l’ho assaggiato sotto lo
sguardo scettico
misto al divertito di mia madre. Non appena inizio a mangiarlo con
vigore mia
madre scoppia a ridere.
«Che c’è? Mi piace! » Le dico
sorridendo confusa.
«Finisci di mangiarlo, che poi ti dico.» Dice tra
le risa,
facendomi corrugare le sopracciglia. Finisco il mio gelato di fretta,
un po’
per la curiosità, un po’ per la fame e sorrido a
mia madre incitandola a
raccontarmi.
«Una volta, ho sognato la pasta con le cozze dentro un mega
panino con le patatine. Ricordo che la mattina dopo vomitai. Eppure,
quando ero
incinta di te, tua nonna mi portò al ristorante, ricordai
quel sogno strano e
vomitevole, eppure sentivo il bisogno di assaggiarlo, l’ho
fatto, scoprendomi
soddisfatta e ripetendo ai tuoi nonni che lo avrei ripreso, amavo quel
panino
con la pasta dentro.» Scoppia a ridere, sicuramente vedendo
il mio sguardo
scioccato, ma non appena sto per formulare la frase una voce
profondamente
familiare mi fa gelare sul posto.
«Non lo sai Reneé? Che non si parla di cibo
davanti ad una
donna incinta?» Mormora Jacob, con astio puro nella voce
rivolto verso mia
madre, che odia con tutto se stesso consapevole che l’affetto
è ricambiato. Mia
madre, per la prima volta davanti ai miei occhi, rimane di stucco
specchiando i
suoi occhi sui miei. Deglutisco a vuoto, cercando la saliva
all’interno della
mia bocca prima che soffochi. Lu mi guarda senza battere ciglio con un
sorriso
strafottente sul volto. Mi alzo dalla sedia, intenta ad andare via,
lanciando
uno sguardo complice a mia mamma, ma non appena il mio piede si alza
per fare
un passo le sue mani afferrano con forza i miei fianchi e fa male!
«Lasciami!» Urlo mentre un ragazzo, che stava
mangiando il
gelato con la propria famiglia, si avvicina per capire il motivo delle
mie
urla.
«Ha chiesto di essere lasciata!» urla il ragazzo,
mentre mia
madre colpisce Jacob con la borsa, i miei fianchi indolenziti dal
dolore sono
ancora intrappolati nelle sue mani, e adesso ricordo lo stesso fastidio
nel
braccio, quel giorno quando scoprì di essere gravida, è stato lui, sono
sicura adesso. Jacob finalmente
molla la presa e mi implora con gli occhi, io distolgo lo sguardo e
prendo la
mano di mia mamma portandola via, compito difficile dato che urla e
cerca di
prenderlo a schiaffi.
«Andiamo mamma!» Urlo trascinandola via.
«Scusa, scusa. Bella aspetta!» Urla Jacob
seguendoci.
«Vaffanculo Jacob!» Urlo con tutto il fiato che ho
in corpo
senza fermarmi.
«Perdonami Bella. Torna con me, ti prego. Fermati un attimo
a pensare, non possiamo buttare via il nostro amore così. Ti
prego, ascoltami.»
Le sue parole mi fanno arrestare un attimo, mentre mia madre mi afferra
la mano
che avevo lasciato cadere qualche attimo prima dalla sua. Mi sta
chiedendo
scusa, eppure non sento nulla di positivo dentro di me, lancio
un’occhiata a
mia mamma che cerca in tutti i modi di
portarmi via da lui. Mio figlio sarebbe felice di crescere con entrambi
i
genitori. Lui è il padre e se mi sta chiedendo
un’altra chance non posso
negargliela, non voglio rifiutare una qualche probabilità
che mio figlio possa
avere suo padre, pensiero che avevo escluso dolorosamente non appena
Jacob ha
saputo. Mi avvicino a lui, sussurrando un “stai
tranquilla” a mia madre e lui
mi porge la mano che categoricamente rifiuto.
«Ti amo Bella.»
«Non basta amare solo me, adesso.»
«Stai sbagliando! Non puoi crescere un figlio! Non vuoi
ucciderlo? Bene, sono d’accordo, ma potrai darlo
all’ospedale, c’è tanta gente
che cerca bambini appena nati per adottarli. Rifletti Bella, hai tutta
la vita
davanti. Goditi la gioventù, più avanti ti
darò tutti i bambini che vuoi, ma adesso
non è il momento giusto!» Urla disperato,
bloccandosi non appena inizio a
vomitare sull’asfalto, per il dolore, per il disgusto delle
sue parole.
«Posso crescere mio
figlio. È il momento giusto. Vattene Jacob, non ti chiedo
nulla, sparisci dalla
mia vita e farò finta che tu non sia mai esistito,
mio figlio non avrà un padre, è vero,
ma ci sarò io ad amarlo per entrambi.
Vai al diavolo!» urlo, pulendomi con il braccio il vomito,
non pensando allo
schifo del mio gesto, lasciando che le lacrime righino il mio viso, mi
lascio
trascinare dentro l’auto da mia madre, che mi accarezza e mi
sussurra “ ci sono
io con te, con voi”, “ piccola mia, non sarete mai
da soli”.
Un mese
dopo.
Accarezzo il mio
ventre, per l’ennesima
volta mentre cammino tra i corridoi
dell’università. Hayley e Melanie non sono
venute oggi, c’è la fiera dei cosmetici in
città e non hanno esitato un
secondo. Cerco Edward nel nostro
posto, quello in cui ci incontriamo giornalmente da un mese a questa
parte, il
distributore delle bevande fredde. Non gli ho detto nulla del mio stato
interessante, né lui è mai stato indiscreto tutte
le volte che correvo in bagno
a vomitare dalla nausea. Da quando ho avuto la discussione con Jacob,
ho
iniziato a vomitare giornalmente, forse avevo bisogno di uno sfogo per
liberarmi, o forse sono solo i tempi. Fatto sta che non l’ho
più visto, cosa assai
positiva per la mia salute fisica e mentale. Infilo una monetina dentro
il
distributore, premendo il tasto del succo alla mela, ne avrò
bevuti miliardi
nell’ultimo periodo.
«Buongiorno.» Sussurra Edward
baciandomi sulla guancia, accarezzo il suo petto amichevolmente e
ricambio il
gesto. Sembra davvero strano, ma, ultimamente, mi sono affezionata a
lui in un
modo eclatante. Non riesco a sorridere fin quando non lo vedo,
è un ragazzo
dolce e semplice e mi fa stare bene. Qualche brivido spunta ancora
nella mia
pelle non appena lo vedo, non appena mi sorride e quando mi sfiora per
sbaglio.
Quando invece so che mi sta toccando o comunque prevedo che potrebbe
sorridermi
da un momento all’altro sono tranquilla. Ho sognato tante
volte di poter
avvicinare le mie labbra alle sue, molte volte quando ci vediamo lo
sfioramento
c’è e si sente l’elettricità.
Basterebbe un minimo avvicinamento, adesso per
poter toccare le sue labbra dall’aspetto morbide e vellutate.
Eppure qualcosa
mi blocca, forse è il troppo poco tempo da cui mi sono
separata da Jacob, forse
avvicinarmi in un certo modo da un uomo che non sa
dell’esistenza di mio
figlio, o che, comunque non ha nessun legame con lui. Il fatto
è che mio figlio
è il centro del mio
universo, vivo,
dico, agisco pensando sempre e costantemente a lui. Come quando inizi
ad amare,
Edward, per esempio, mi fa pensare sempre a questo piccolo esserino che
sta
prendendo vita dentro di me. Li trovo simili in un certo senso, o
semplicemente
il modo in cui mi sono affezionata ad entrambi è simile.
Penso sempre anche
Edward, al mattino quando leggo il suo messaggio del buongiorno la
giornata
prende colore, Edward è come il cielo di Berlino,
speranzoso, è quella persona
che mi da la speranza di sorridere, la forza di potermi sentire
realizzata e
dire: “ce la posso fare, devo farcela”. Forse
sarebbe il momento giusto per
informarlo della mia gravidanza, ma ho paura che anche lui, come Jacob,
come
mio padre, possa scappare via, non che lui sia come loro, o almeno non
è all’interno
della cosa come gli altri due. Eppure ho paura che lui stia con me per
dei secondi
fini, anche se a volte credo che lui sia unico, formidabile, adorabile,
la fifa
c’è e forse il momento giusto sarà
quando usciranno le parole da sole dalla mia
bocca spontaneamente. Edward mi prende per mano, come sempre, e mi
accompagna a
lezione di letteratura Giapponese.
Afferro il
cellulare e guardo l’orologio,
sono le quattro Edward sta per arrivare. Mi ha chiesto se mi andava di
vederci
al bar per un caffè, ho detto di sì, in fondo
stare con lui è sempre un
piacere.
«Ciao Bella.» Sussurra
sedendosi. Io ricambio il saluto con un cenno del capo e gli sorrido.
Un
ragazzo arriva prendendo le ordinazioni, io prendo un tè e
Edward un caffè all’Italiana.
Non ho mai assaggiato il caffè italiano, molti dicono che
è il migliore, non
sono mai stata attratta dalla caffeina, l’odore del
caffè è buono ma non ho mai
pensato di volerlo assaggiare. Inizio a sorseggiare il mio
tè e non posso fare
a meno di guardarlo negli occhi. Scoppio a ridere non appena la parte
superiore
della bocca gli si ricopre di caffè. Lui mi guarda e
sorride, come se fosse
felice di vedermi ridere. Con il tovagliolo gli pulisco la parte sporca
e lui
mi sorride intenerito.
«Dovresti farlo più spesso.»
Afferma confondendomi con i suoi occhi ipnotici.
«Cosa?» Chiedo sussurrando dopo
aver ripreso fiato dalle risa.
«Ridere così a crepapelle, ti
si accendono le gote di rosa chiaro, i tuoi occhi brillano e sei
bellissima.»
Deglutisco a vuoto, credendo che sia un sogno, un ragazzo come Edward
non può
dirmi certe cose. Afferro il cucchiaino distogliendo lo sguardo dal suo
e giro
il tè nonostante non ce ne sia bisogno. Le sue dita
afferrano il mio mento
costringendomi a guardarlo negli occhi.
«Io…non volevo imbarazzarti…ecco.
» Balbetta cercando di chiedermi scusa.
«No Edward. Grazie. Sei sempre
così gentile e dolce con me. Io davvero, sono lusingata.
È solo che non sono
abituata a certi complimenti.» Mormoro cercando di dargli
coraggio, di fargli
capire che come sempre è stato impeccabile con me, si prende
cura di me senza
nemmeno accorgersene ed io inconsapevolmente mi sono affidata a lui,
non
completamente, ma gran parte della mia mente e della mia anima gli
appartiene.
«È strano. Bella dal primo
momento che ti ho visto mi hai catturato, io non credo di aver mai
visto una
ragazza più bella di te. E poi…bè poi
sei gentile, tenera, è come se qualcosa
mi attira verso di te, come se tu fossi il polo ed io la
calamita.» Sussurra
gesticolando animatamente.
«Vedi Edward…io credo che le
tua parole siano affrettate, ci conosciamo da
poco…»
«Da un mese Bella. Io mi sento
come se ti conoscessi da una vita. Ti voglio bene.» Sussurra
flebilmente. Una lacrima
di commozione riga il mio viso, mi alzo e mi avvicino a lui
abbracciandolo.
«Anch’io ti voglio bene Edward.»
Sussurro dandogli un bacio sulla guancia. Lui mi sorride e mi stringe a
sé
tuffando il suo viso tra i miei capelli. Il suo odore di menta e rose
si
insinua nelle mie narici, marcandole, in modo che non appena
arriverò a casa
sospirando io mi ricordi ancora del suo odore. Il suo calore mi
riscalda all’interno,
sciogliendo in parte la lastra di ghiaccio che il dolore e la delusione
ha
creato attorno alla mia anima. Eppure, nonostante mi sento abbastanza
serena
date le circostanza, ho un peso sul cuore, e so bene cosa è.
Alzo la testa
incontrando gli occhi di Edward, sospiro e alzo gli occhi mentalmente, è il momento giusto.
«Sono incinta Edward.»
Okay! Tecnicamente
è ancora domenica quindi non sono in
ritardo lol!
Allora? Che mi dite?
Carino? Bello? Schifoso? Agghiacciante?
Fatemi sapere bella gente che mi riempite di gioia.
Mi sa che vado che
è tardissimo!
Un bacione.
A domenica.
Roby <3
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** You Are Mine. ***
Just
A Little Woman.
You
Are Mine.
Edward mi guarda
impassibile, come se gli avessi detto
qualcosa di poca importanza, come se il mio stato interessante fosse
prevedibile e sembra che questo non cambi il pensiero che ha di me.
Rimane in silenzio
a guardarmi, mi sorride dolce,
facendomi credere che la mia prima impressione sulla sua reazione fosse
sbagliata. Sta di fatto che è rimasto con quel sorrisetto
dolce stampato in
faccia immobile, come se si fosse congelato. Lo guardo negli occhi,
cercando di
capire qualcosa attraverso quello, ma sorride anche con quello.
«Non mi dici nulla?»
Chiedo sorpresa dal suo comportamento, o meglio, dal suo
non fare nulla
assolutamente.
«Cosa dovrei dirti? Non posso dirti che sono felice per te,
perché non so se tu lo sei. Non posso giudicarti, anche
perché non ne vedo il
motivo né avrei
il coraggio. Dal primo
giorno che ti ho vista, ho creduto che in te ci fosse qualcosa di
diverso.
Vedevo nei tuoi occhi la delusione, vedevo quanto eri e sei ferita. Non
so come
mai, non mi era mai successo, ma sento che devo stare con te, per
proteggerti,
per non permettere a niente e nessuno di farti del male.»
Sussurra scrollando
il sorriso, dando voce alla sincerità, una
sincerità più pura di quanto si
possa credere. Scoppio a piangere, per le sue parole, per la fortuna di
avere
avuto la possibilità di non essere stata giudicata da lui,
da questo ragazzo
che in un mese è diventato essenziale per la mia vita. Lo
abbraccio stretto a
me, le sue mani caldi e morbide accarezzano i miei fianchi, sento che
in questo
momento potrebbero pure spararmi dritta nel cuore che ne uscirei
indenne e lo
sento, percepisco quel senso di protezione di cui parlava, siamo chiusi
in una
bolla anti tristezza. Accarezzo i suoi capelli, un gesto
così intimo e dolce
che mi fa pensare a come possano essere le sue labbra sulle mie, e
senza
pensarci troppo, come sono solita a fare, avvicino le mie labbra alle
sue.
Accarezzo con la lingua il suo labbro inferiore, il suo alito che sa di
gelato
alla menta accarezza la mia bocca, facendomi volere di più,
facendo accendere
qualcosa di mai sentito dentro di me. Le mie mani frugano alla ricerca
di
qualcosa che non c’è nei suoi capelli,
così soffici e delicati, le sua mani si
arpionano sui miei fianchi, facendomi gemere incurante delle persone
che
abbiamo attorno, che sembrano comunque non
accorgersi di noi. La sua lingua esplora la mia bocca con
colpetti
delicati, dolci, come se io fossi un fiore delicato, raro. Il mio cuore
batte
furioso sul mio petto, sta per scoppiare, ma non sono mai stata
più serena di
oggi in tutta la mia vita. Edward è questo. Edward
è il sorriso, è la dolcezza,
è qualcosa di cui nessuno al mondo potrebbe fare a meno. Le
nostre labbra si
allontanano ma i nostri occhi si incastrano come due tessere di un
puzzle
perfetto, sono sicura che i miei sono lucidi per l’emozione.
Alzo gli occhi al
cielo, pensando che forse la vita non ha voluto darmi solo sfide e
dolori, ha
voluto darmi Edward, ed è un tutto dire. Prendo la sua mano
tra le mie,
cercando di dimostrargli qualche gesto per ringraziarlo. La sua mano
alza il
mio mento e mi sorride.
«Ho solo paura di divenire rivale per qualcuno, al
massimo.»
Sussurra sprofondando con i suoi occhi dentro di me,
all’interno dove nessuno è
mai riuscito a entrare; la mia anima.
«Non ci sarà nessun rivale, Edward. Sono incinta e
sola, il
caso è chiuso.» Faccio, alzando di poco la voce,
alzandomi dalle sua gambe per
tornarmene nel mio posto, non so perché ma il mio umore
è cambiato in un
attimo. Forse il fatto che io sia sola mi innervosisce a prescindere,
forse ammetterlo
fa male.
«Scusa Bella…io…»
«No Edward. Perdonami tu, è solo
che…è complicato, doloroso.»
Mormoro lasciando scorrere una lacrima sul mio viso, una stilla che se
potesse
avere un colore sarebbe il rosso, della disperazione, della rabbia.
«Che ti hanno fatto Bella?» Mormora preoccupato con
gli
occhi fuori dalle orbite. Deglutisco, chiedendomi se sono pronta a
dirgli di
me, del mio dolore, chiedendomi più volte se è la
cosa giusta, se questo
ragazzo prometterà miliardi di cose per poi abbandonarmi,
come fanno tutti,
sempre. Scuoto interiormente la testa, no, Edward è diverso,
Edward è unico.
«Il mio ragazzo, o meglio ex, non accetta la gravidanza. Ci
siamo lasciati, non ho intenzione di uccidere un bambino per
lui.» Mormoro
guardandomi le stringhe delle scarpe. Il mio campo visivo incrocia la
mano di
Edward che si avvicina alla mia, la raggiunge e la stringe, restando in
silenzio, un silenzio che dice tanto, che fa intendere quanto realmente
diverso
lui sia da Jacob. Guardo il mio ventre ancora piatto e sorrido,
immaginando un
maschietto, uguale a me senza similitudini del padre, senza le
imperfezioni di
una persona qualunque, lui è speciale, lui è il
mio essere, lui sarà quell’uomo
che mai potrà abbandonarmi. Mi cullo sulla sedia, come se
potessi fare capire a
quel piccolo esserino che cresce dentro di me che lo sto cullando, che
posso
dargli tutto ciò di cui avrà bisogno. Edward mi
guarda e mi sorride, avvicina
titubante una mano al mio ventre e mi guarda chiedendomi il permesso,
annuisco
con il cuore che minaccia di poter scoppiare di gioia da un momento
all’altro.
La sua mano calda accarezza la mia pancia, con gesti delicati, se non
lo
vedessi con i miei occhi non sentirei la sua mano su di me. Mi guarda
negli
occhi e mi sorride, e capisco ciò che non dice ma che
vorrebbe tanto fare: a
lui non importa, lui ci sarà, almeno fin quando
potrà. Mi prende per mano e
insieme torniamo a casa mia, chiacchieriamo del più e del
meno, e un senso di
tristezza mi pervade quando mi comunica che la prossima settimana
andrà in
montagna con la sua famiglia. Già mi sento sola ed
è sbagliato, perché lo
conosco da poco
tempo, perché forse ne
sono già dipendente senza che io l’abbia deciso.
«Allora ci vediamo domani?» Sussurra al mio
orecchio, dopo
che mi sono buttata su di lui per abbracciarlo.
«Entra. Solo due minuti.» Mormoro malinconica
all’idea di
doverlo lasciare andare, ogni volta è così, il
tempo quando sono con lui vola
alla velocità della luce. Lui scoppia a ridere sui miei
capelli e bacia la mia
cute, facendomi sentire importante, desiderata, voluta bene. Annuisce e
insieme
entriamo a casa mia, alzo gli occhi al cielo quando sento
l’odore di salmone
arrostito, mia madre è a casa, il che è tutto
dire.
«Amore!» Esclama dalla cucina. Mi raggiunge vicino
alla
porta e le sua sopracciglia si inarcano non appena nota Edward. Strizzo
gli
occhi facendo attenzione che Edward non si accorga, e mia madre
sospira, ha
capito che non voglio fare brutta figura.
«Buonasera. Io sono Edward.» Sussurra lui
imbarazzato,
facendomi un’infinita tenerezza. Mia madre sorride
intenerita, e alzo il pugno
della vittoria interiormente, le piace!
«Ciao mio caro. Io sono Reneé.» Si
stringono la mano e mia
madre non smette di sorridere. Invita Edward a sedersi sul divano del
nostro
ampio salone, troppo grande per sole due persone e corre a prendere del
tè freddo.
Mi avvicino ad Edward e lo abbraccio, lui rimane rigido, ed io inarco
le
sopracciglia. Mia madre ci interrompe arrivando dalla cucina e per
tutto il
tempo che mia madre e Edward parlano io lancio occhiate interrogativa a
quest’ultimo, lui le svia e questo
non fa che innervosirmi. Mia madre non tocca il tasto
“gravidanza” ed io evito
pure. Accompagniamo Edward alla porta e lui mi saluta freddamente.
«Bella?» Mormora mia madre con tono di rimprovero.
Sbuffo
sonoramente e afferro una ciocca di capelli tra le dita.
«Lo so mamma.» Rispondo senza lei abbia aperto
bocca,
risparmiandomi la ramanzina del sono appena uscita da una relazione
durata due
anni, sono incinta, devo solo pensare al mio piccolo. Non lo metto in
dubbio,
ma Edward è quella persona di cui non puoi non provare
affetto, è stata una
cosa istantanea, necessaria. È come se lui potesse darmi
quella forza di cui ho
bisogno. È presto, è vero, potrei passare per
quella che non sono, ma alla fine
quanto è importante il giudizio degli altri? Io sto bene con
lui, questo è
quello che importa per davvero.
«No Bella, non hai capito.» Sussurra. Io la guardo
alzando
un sopraccigli e lei scoppia a ridere.
«È bellissimo! Dio quel ragazzo è
perfetto!» Dice facendomi
sorridere, mi prende sottobraccio e mi porta in cucina, sposta la sedia
permettendomi di sedermi come farebbe un vero galantuomo e si avvicina
al mio
viso.
«Devi dirmi tutto!» Esclama euforica. La cena passa
tra
salmone e Edward, ma ancora mi chiedo cosa abbia fatto cambiare il suo
atteggiamento
nei miei confronti.
«Glielo
hai detto!» Urla Hayley facendomi tappare le
orecchie per l’ennesima volta. Annuisco come un automa e
Melanie ci guarda
scoppiando a ridere. Il trillo del mio cellulare mi fa sobbalzare e nel
display
noto un numero che non conosco.
«Pronto?»
«Signorina
Swan? »
«Si
sono io, mi dica.» Sussurro spaventata riconoscendo la
voce della ginecologa.
«Dobbiamo
fissare l’appuntamento per la prima ecografia, per domani
alle tre va bene?» Mi
chiede distrattamente.
«Sì, va benissimo. »
«D’accordo.
A domani. » Stacca la
chiamata e il cuore fa un piccolo
salto, sfioro il mio ventre pensando che domani potrò
rivedere il mio piccolo.
Annuncio alle mie amiche che domani farò
l’ecografia e loro esultano peggio di
me. Scuoto la testa, pensando a quante persone siamo che amiamo questo
piccolo
ancor prima di essersi formato del tutto, credo che
diventerà il bambino più
viziato della Germania. Entriamo dentro le nostre rispettive aule e la
giornata
scolastica inizia. A metà mattinata incrocio per poco
Edward, ma non appena
cerco di avvicinarmi a lui questo sparisce dalla mia visuale, ho paura
che mi
stia evitando. Un nodo si forma all’altezza del mio stomaco e
penso a tutto
quello che ho fatto ieri, in modo da ricordare se ho sbagliato
qualcosa. Sono
sempre stata quel tipo di persona che si fa mille paranoie, molte volte
anche
inutili, sono troppo apprensiva e a volte troppo esagerata. Mi gratto
la testa
in modo osceno, tant’è che sicuramente in molti
pensano che io stia scacciando
via qualche pidocchio, incontro con la coda dell’occhio
Hayley e le corro
dietro.
«Bella! Che succede?» Mi chiede spaventata non
appena si
accorge della mia corsa. Scuoto la testa e le sorrido.
«Hai visto Edward?»
«Sì, è lì. Con quella
ragazza guarda.» Mormora Hayley,
mentre guardo Edward, al suo fianco c’è una
ragazza alta la metà di lui, ha i
capelli corti fino all’orecchio e si muove come se fosse una
molleggiata, la
sua risata arriva fin qui suonando fastidiosa alle mie orecchie.
Afferro Hayley
per il braccio e insieme usciamo dall’istituto.
Spengo il cellulare, pensando che comunque lui non mi
chiamerà, ignorandomi per come ha fatto per il resto della
giornata e afferro
la coperta del mio letto, buttandola per terra e saltandoci sopra.
Inizio a
mordermi i pugni e mi vedo riflessa nello specchio, scoppio a ridere
senza
averlo deciso, forse reazione causata dal mio stato patetico e penso
che tutto
questo nervosismo al mio piccolo non fa bene, assolutamente. Alzo gli
occhi al
cielo, pensando che comunque non è la fine del mondo, siamo
solo amici. Un
senso di tristezza mi pervade, adesso, a distanza di pochissimo tempo,
mi sento
abbandonata ancora, per l’ennesima volta. Inizio a piangere
cercando di
fermarmi, ma ad ogni tentativo il pianto aumenta.
«Buongiorno
Bella.» Sento la voce di Edward alle mie spalle,
ma non ho alcuna intenzione di girarmi. La sua mano afferra la mia
spalla con
dolcezza e il mio corpo si ricopre di brividi, facendomi arrabbiare con
me
stessa per l’effetto che lui ha su di me, sempre in qualsiasi
momento o
situazione. Le sue labbra sfiorano l’incavo del mio collo e
questa volta potrei
davvero perdere il respiro.
«Che succede?» Mi chiede dolcemente, afferrando i
miei
fianchi costringendomi a girarmi verso di lui. Le figure di Hayley e
Melanie si
fanno più nitide mano a mano che si avvicinano, e tiro un
sospiro di sollievo.
Di certo mostrarmi possessiva e gelosa con lui non sarebbe una buona
cosa all’inizio
di una “relazione” se la definizione è
corretta. Eppure ieri, non appena l’ho
visto con una ragazza, avrei voluto afferrarla peri capelli e gridarle
“è mio,
lascialo in pace”, il motivo per cui non l’ho fatto
è stato semplicemente perché
in quel caso avrei fatto scappare Edward da me, ricordandomi sempre che
ieri mi
ha evitata tutto il giorno.
«Ciao ragazzi.» Salutano a sincrono le mie amiche,
faccio un
cenno con la testa e Edward mormora un flebile
“ciao”. La sua mano afferra la
mia, ed io lo lascio fare anche perché il suo contatto
è piacevole, è come un
bagno caldo una volta che ci entri non usciresti più, se non
quando iniziano a
battere i denti per la temperature dell’acqua che si
è abbassata. Io terrei la
mano di Edward sempre, fin quando loro stesse non si sciolgono per il
sudore.
Mi trascina dolcemente insieme a lui, dentro l’istituto e
insieme raggiungiamo
una piccola stanza vuota.
«Che c’è?» Mi chiede
preoccupato scostandomi una ciocca di
capelli dal viso.
«Niente.» Sussurro diventando rossa e con le
orecchie
bollenti. Le sue dita sfiorano delicatamente il mio mento, alzandolo e
costringendomi a guardarlo negli occhi.
«Dimmelo.»
«Perché ieri mi hai evitata tutto il
tempo?» Dico tutto di
un fiato, aspettando la sua smentita per poi pensare che sono sempre la
solita
paranoica.
«Non ti ho evitata Bella! Io non lo farei mai.»
«Si certo. E quella ragazza con cui parlavi ieri? Hai trovato
un nuovo giocattolo Edward?» Dico alzando di parecchie ottave
la voce.
Schiaffeggio la sua mano dal mio mento e mi allontano guardandomi la
punta
delle scarpe, mentre lui pensa a qualcosa da dirmi, magari qualcosa che
non
assomigli ad una gran cazzata.
«Ieri sono stato tutto il giorno
con mia sorella. È appena tornata dalle
vacanze e l’ho aiutata con le aule. Mi dispiace che tu abbia
pensato altro, ma
quella ragazza bassa, con i capelli da folletto impertinente e la
risata argentina
è mia sorella, Alice.» Lo guardo negli occhi e li
vedo sinceri. Anche perché
non potrebbe inventarsi una cosa del genere. Annuisco ed esco
dall’aula, ma non
appena il mio piede tocca l’uscio la sua mano mi afferra il
braccio.
«Dove vai adesso?» Mi chiede con una punta di
divertimento
nella voce.
«Sei gelosa. Sembri una bambina che è stata colta
in fallo con
le mani dentro un sacco di caramelle.»
«In realtà mi sento così.»
«Non devi, solo…la prossima volta parlane con me,
non farti
tirare la voce con le pinze come questa volta.» Annuisco e
lui mi sorride. Ma
rimango lì, tra le sue braccia senza muovermi.
«Edward. Io ti sento mio, ti sento parte di me. So che
è
sbagliato, o comunque prematuro, ma che ci posso fare?»
Mormoro sconfitta non
smettendo nemmeno per un attimo di guardare i suoi occhi, lui si
avvicina e
accarezza la mia guancia con la sua.
«È la stessa cosa anche per me.»
Stiro la mia
gonna floreale con la mano tremante. Sono
seduta di fianco a Edward nell’atrio dello studio della
ginecologa. Gli ho
chiesto se voleva venire con me, e lui mi ha risposto che vuole passare
ogni
momento importante della mia vita con me. Hayley e Melanie non sono
riuscite a
venire, a malincuore me lo hanno comunicato dopo pranzo. Io credo che
invece il
loro intento sia farmi vedere il mio piccolo con Edward, solo io e lui.
E per
quanto questo sembri strano da una parte le sono grata,
dall’altra sono
indifferente, perché questo figlio non è di
Edward è gran parte di e avrebbe
voluto che fosse il suo, avrei voluto che tra lui e mio figlio ci fosse
un
legame di sangue. Però mi accontento, va bene
così. Amo mio figlio, sempre,
penso a lui, alla sua nascita tutti i giorni, e se anche so che devo
aspettare
ancora sette mesi per conoscerlo fremo dalla voglia di incontrare i
suoi occhi,
sentire il suo pianto, accarezzare le sue
manine che sensibilmente si stringerebbero al mio pollice,
come segno di
fiducia, di protezione.
«Stai tranquilla.» Sussurra Edward appoggiando una
mano
sulla mia coscia tremante.
«Ho sempre paura. Paura che possa star male.»
Mormoro
esponendo una delle mie più grandi angosce.
«Ci sono io con te.» Mormora baciandomi i capelli.
La ginecologa ci chiama e mano nella mano entriamo. Ci
sediamo e la dottoressa inizia a scrivere sul computer. Mi giro verso
il
lettino a fianco al monitor e divento paonazza. Come farò a
spogliarmi con
Edward qui dentro? Santo cielo, mi passo una mano tra i capelli e sto
in
silenzio. Certe volte in tv ho visto che alle donne gravide, in questi
momenti
fanno indossare un telo verde per coprire il pube, chissà se
qui lo fanno. Mi
mordo il labbro inferiore con forza e alzo gli occhi al cielo. Edward
accarezza
la mia mano dolcemente facendomi capire che c’è
lui qui con me, che non sono
sola contro il mondo come credevo di essere, che andrà tutto
bene.
«Si tolga la maglia e si stenda sul lettino.» Dice
la
dottoressa guardandomi sotto gli occhiali. La guardo interdetta e lei
mi
sorride.
«Dobbiamo solo fare l’ecografia normale,
l’utero è stato già
controllato.» Annuisco sospirando e mi avvicino al lettino
sfilandomi la
maglia, che sarà mai? Vedrà solo il reggiseno.
Guardo il mio seno, né troppo
grande, né troppo piccolo e mi congratulo con me stessa per
aver indossato il
mio reggiseno migliore, quello nero con le coppe contornato di pizzo e
seta. Mi
stendo sul lettino e mi guardo attorno. La dottoressa e Edward sono
rimasti dov’erano.
Sento i loro passi avvicinarsi e prendono posto a fianco a me. Edward
rimane al
mio fianco seduto malamente su un piccolo sgabello e la dottoressa
è davanti a
quella specie di computer stranissimo. Edward accarezza con due dita il
mio
ventre e lo guarda ammaliato, facendomi comprendere che questo piccolo
ha stregato
già anche lui. La dottoressa afferra un tubetto e lo
avvicina alla parte bassa
del mio ventre, avvolge un pezzetto di carta attorno
all’elastico superiore dei
miei slip e afferra un marchingegno che somiglia ad un mouse ovale. Lo
schermo
s accende e la dottoressa inizia a spalmare il gel con
quell’affare. Lo schermo
diventa tutto nero con qualche chiazza grigia e premendo più
volte sul mio
ventre affacciano figure che si confondono, lo preme sulla parte bassa
del mio
ventre a destra e un suono alquanto strano rompe il silenzio, sorrido
con
qualche lacrima che scivola sul mio viso e mi giro verso Edward.
«È il suo cuore.» Sussurro mentre lui
bacia il palmo della
mia mano. La dottoressa ci fa cenno di guardare lo schermo e lo vedo,
è sempre
una meravigliosa
pallina bianca, eppure
ne posso riconoscere i piedini, la testa e il corpo. Inizio
silenziosamente a
piangere, emozionandomi per una cosa così piccola ma allo
stesso tempo grande,
spaziale. Edward accarezza lo schermo e ora più che mai
vorrei che lui fosse il
padre, per poter provare le mie stesse emozioni.
«È…è…è
bellissimo.» Sussurra guardandomi negli occhi, io
annuisco e gli sorrido ampiamente. Usciamo dallo studio della
ginecologa e ci
sediamo in una panchina. Tiro fuori le foto dalla borsa e le guardo
rapita.
Edward ne prende una e mi abbraccia forte.
«Ti somiglia.» Mormora. La mia mano colpisce la sua
spalle
giocosamente e scoppiamo a ridere.
«Dico davvero. Siete entrambi bellissimi, tenerissimi e mi
date un motivo valido per essere felice.» Mi dice diventando
serio. Io lo
guardo deglutendo e mi avvicino a lui, tuffandomi sulle sue labbra, che
bramo
dal primo giorno. Le sua mani sfiorano i miei fianchi avvicinandomi
maggiormente a lui ed io mi lascio andare, lo bacio come se fosse
l’acqua per
un assetato, accarezzo più volte con la lingua se sue labbra
di marmo e seta
allo stesso momento, lo voglio, lo sento, faccio mie le sua labbra.
Perché lui
ormai è mio, come io sono perdutamente sua.
Taaadaaan!
Perdonate il ritardo! Sapevo che prima o poi
avrei ritardato! Spero che non succeda più e io stessa
cercherò di non farlo
succedere.
Scappo! Spero che il capitolo sia di vostro gradimento, e mi
farebbe piacere leggere qualche recensione al riguardo!
Un bacione
Roby <3
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Colorful Souls. ***
Just
A Little Woman.
Colorful
Souls.
Mi guardo allo specchio,
aggiustando la mia camicetta viola all’altezza de seno.
Ravvivo i capelli e una sensazione strana mi pervade. Guardo il mio
ventre ancora piatto, nonostante questo piccolo sia dentro di me da tre
mesi e un colpo dolce e delicato mi colpisce lo stomaco
dall’intero. Alzo un sopracciglio e con una mano sposto il
tessuto della camicetta per guardare il mio ventre, poi di nuovo, un
altro colpo.
«Mamma!»
Urlo spaventata. Dio, sembra che ci sia una guerra lì
dentro. Mia madre corre nella mia camera e mi guarda con gli occhi
sgranati.
«Sento dei
colpi! Qui Mamma, guarda.» Afferro la mano di mia madre e la
porto nel punto dove fino a qualche attimo fa c’era la mia.
Un altro colpo, ma meno profondo. Mia madre scoppia a ridere e mi da
una pacca sulla spalla.
«Ha iniziato
a muoversi mia cara. Ora sì che viene il bello.»
«Qu…quindi
è lui? Ma non è troppo presto? Non dovremmo
chiamare la dottoressa?» Chiedo spaventata, in un sito
internet l’altro giorno ho letto che quando si è
in stato interessante, il bambino inizia a farsi sentire non prima del
quarto mese.
«Ma no
Tesoro! Non spaventarti, è naturale.»
«Ma mamma!
Ho letto…»
«Smettila di
leggere quelle baggianate su internet o sui giornali. Fidati di
me.» Mi abbraccia e torna in cucina. Sospiro e appoggio
delicatamente la mano sul mio ventre. Un altro colpo, una lacrima riga
il mio viso, alzo la testa e sorrido, il mio piccolo ha iniziato a
farsi sentire. Sfioro ancora il mio ventre con un dito, non credendo
ancora ai miei occhi, la mia pelle si ricopre di brividi e non posso
ancora credere ai miei occhi, ai miei sensi, come se tutto questo fosse
un sogno, uno dei più belli che un essere umano potesse
sognare, scuoto la testa, pensando che forse sì, forse
è solo un sogno, perché la mia vita non
è mai stata così piena di emozioni,
così soddisfacente. Un altro colpo mi scuote e scoppio a
ridere iniziando a volteggiare, no, non è un sogno, questo
piccolino è qui con me per un motivo ben preciso, rendermi
felice. Il campanello suona e mi ridesto immediatamente, rendendomi
conto che è già passata un’ora e Hayley
e Melanie saranno già qui. Infatti, non appena apro la porta
della mia camera me le ritrovo a braccia conserte che mi guardano.
Prendo le mani delle mie amiche e le appoggio al mio ventre, ma questa
volta nessun colpo, aspetto qualche minuto ma niente. Loro mi guardano
con le sopracciglia inarcate ed io le abbraccio forte.
«Oggi
l’ho sentito, per la prima volta.» Sussurro ancora
emozionata, le mie amiche sgranano gli occhi ed entrambe appoggiano le
mani sul mio ventre, premendo o comunque cercando di comunicare a quel
piccolo esserino che anche loro lo amano e vogliono sentirlo. Una
lacrima di commozione –l’ennesima- riga il mio viso
e le mie amiche mi guardano annuendo, dicendomi con i loro occhi che
sì, la decisione di tenerlo con me è stata la
più giusta, la migliore. Ci sono ragazze della mie
età e, molte volte, anche più piccole che non
accetterebbero mai una cosa del genere che, in questo caso senza
pensarci sopra più di una volta si dirigono in
ospedale ad abortire, ad uccidere quella che tra qualche mese
diverrebbe una persona, un bambino, un innocente. Ci sono coppie di
persone sposate che non possono avere figli, che farebbero di tutto per
evitare di adottarli e farli nascere biologicamente, facendo portare
loro lo stesso sangue nelle vene, persone che morirebbero tanto
è il desiderio di diventare genitori. Dicono che
c’è chi disprezza e chi apprezza, ma chi disprezza
compra. Prendo per mano le mie amiche ed entriamo nel primo negozio di
abbigliamento che vediamo, Hayley ha un appuntamento con un ragazzo
questa sera, un tale che si “vocifera” sia uno dei
ragazzi più miliardari di Berlino, e, ovviamente lei non
vuole fare brutta figura. Passiamo il pomeriggio tra capi costosi di
lusso, lingerie sofisticata, fermandoci ogni ora al bar per bere un
po’ d’acqua. Alla fine io ho comprato alcuni
completini intimi dato che il mio seno sta crescendo a dismisura,
Melanie un paio di Jimmy Choo dorate e Hayley ha trovato tutto, un
abito blu notte con una scollatura generosa sulla schiena e lungo fino
allo stinco, un paio di sandali con il tacco dorati e una pochette
dorata. Ci infiliamo in macchina stremate accorgendoci che sono
già le otto di sera e che Hayley deve incontrare quel
ragazzo tra venti minuti, dal centro commerciale a casa mia
c’è una mezz’ora buona di macchina e
scuoto la testa.
«Prendo
l’autobus, tranquilla. » Sussurro tranquillamente
mentre apro la portiera. Hayley scende dalla macchina e mi guarda
mortificata. Mi avvicino a lei e l’abbraccio.
«Dai, vai,
altrimenti si fa tardi.» Hayley mi ringrazio con gli occhi,
Melanie mi soffia un bacio e partono. Entrambe abitano nello stesso
residence. Inizio a camminare lentamente dirigendomi alla prima fermata
più vicina. Dopo qualche minuto un autobus si ferma ed io
salgo. Non appena mi siedo sul sedile e percorriamo una decina di
chilometri mi accorgo che stiamo andando dalla parte opposta a casa
mia. Mi alzo e con passo velocissimo raggiungo il conducente, mi guardo
attorno, sperando di attirare la sua attenzione ma lui mi ignora.
«Scusi?»
Sussurro spaventata che possa arrabbiarsi o comunque confondersi e
andare a sbattere contro qualche altro mezzo di trasporto. Dopo qualche
secondo si gira e mi squadra dalla testa ai piedi.
«Ho
sbagliato autobus. Devo tornare a casa e…» inizio
a balbettare come un’idiota e lui mi guarda con disprezzo.
Continua a guidare e non appena incontra la prima fermata si ferma
premendo il bottoncino che apre tutte le bussole. Io lo guardo con gli
occhi sgranati e lui sbuffa.
«Scenda
qui.» Mormora infastidito, guardo la strada non conoscendo
proprio il posto, mentre la paura prende il sopravvento.
«Ma…ma…ma…io…»
«Santo cielo
ragazzina! Non è colpa mia se ha preso il bus sbagliato, non
posso certo tornare indietro per una maldestra come lei. Scenda,
altrimenti continuerò la mia linea.» Tuona
arrabbiato, guardo le persone che ho attorno cercando la soluzione in
loro, sperando che mi indichino la strada giusta o possano darmi
qualche consiglio, invece c’è solo un vecchietto
che dorme, dei ragazzini che ridono prendendomi in giro e delle signore
che si fanno gli affari loro. Con le gambe tramanti scendo
dall’autobus e mi stringo al petto la borsa con i miei
acquisti. Mi guardo attorno cercando una qualche indicazione che possa
portarmi a Treptow, inizio a camminare mentre il freddo serale di
Ottobre mi avvolge e mi avvicino ad un famiglia che passeggia, cercando
spiegazioni.
«Buonasera,
scusate. Ecco…io, mi sono persa, dove siamo qui?»
Sussurro come una stupida mentre sento le lacrime che montano per
arrivare a destinazione per poi fuoriuscire.
«Oh, siamo a
Pankow qui. Dove dovresti andare? »
«A casa mia,
a Treptow. È lontano da qui?» Sussurro, mentre le
loro labbra si piegano, come se questa fosse una cosa davvero grave e
in parte lo è.
«È
dall’altra parte della città.» Mormora
pensieroso il marito, che finora non aveva aperto bocca. Sbuffo alzando
gli occhi al cielo in modo che le lacrime non possano uscire da un
momento all’altro. Scuoto la testa e cerco di trovare un
soluzione anziché piagnucolare come sto già
facendo. Ringrazio la coppia, accarezzo i capelli dei due piccoli e
continuo a camminare. Afferro il cellulare, pregando che non sia
scarico e fortunatamente ho ancora il venti percento a mia
disposizione, compongo il numero di mia mamma e al terzo squillo
risponde.
«Tesoro, non
preoccuparti, non sono ancora arrivata perché qui
c’è stato un incidente mortale, ne avrò
ancora per qualche ora, sono bloccata già da un
po’ per strada.» Risponde immediatamente, facendo
sgorgare le lacrime dai miei occhi.
«Ecco mamma
io ho preso il bus sbagliato…e… »
«Oddio! Dove
sei finita?» Urla facendomi allontanare
l’apparecchio dall’orecchio.
«Bella! Sta
calma, sai almeno dove sei?»
«Sono a
Pankow.»
«Sei
dall’altro lato della città porca
troia!» Alzo gli occhi al cielo sbuffando e mi passo
nervosamente una mano tra i capelli. Mia madre inizia a urlare,
confondendosi e facendomi anche scoppiare a ridere.
«Chiama la
polizia tesoro. Loro ti accompagneranno a casa.» Mormora
tranquillizzandosi, una mano afferra il mio polso e d’istinto
mi giro, incontrando due occhi verdi luccicanti, nonostante siano le
nove e mezza di sera.
«Mamma, ti
chiamo dopo.» Mormoro a mia madre, non capendo più
nulla, non dal momento che i suoi occhi sono venuti a contatto con i
miei.
«Bella…»
chiudo la telefonata e mi butto tra le braccia di Edward iniziando a
piangere.
«Ssh, che
succede?» Sussurra accarezzandomi dolcemente il viso con il
pollice, asciugando allo stesso tempo le lacrime. Inizio a
singhiozzare, non capendone esattamente il motivo, dovrei essere
sollevata e felice che lui sia qui, invece continuo a piangere e
più voglio smettere più i singhiozzi non vogliono
placarsi. Lo stringo a me più forte e il suo odore si
insinua prepotentemente dentro di me, facendomi calmare
all’istante.
«Scusa.
» Sussurro, non appena il mio respiro torna regolare.
«Mi sono
persa. Ho preso l’autobus sbagliato, ed eccomi
qui.» Mormoro alzando le spalle. Lui mi abbraccia e mi
stringe forte a sé.
«Dovevi
chiamarmi. Poteva accaderti qualsiasi cosa.» Sussurra
spaventato facendomi sciogliere il cuore.
«Tu invece
che fai qui?»
«Io ci
abito.» Dice alzando le spalle. Mi avvicino a lui e appoggio
il mio viso alla sua spalla, sentendomi –come sempre-
protetta e serena. Mi allontano e lui mi guarda negli occhi.
«Devi
tornare a casa?» Annuisco con vigore, sperando che si offra
di accompagnarmi.
«C’è
un problema però. Ho dovuto prestare la mia macchina a mia
sorella, perché non resti qui? Domani è domenica,
mia sorella porterà la mia macchina e potrò
accompagnarti a casa.» Offre speranzoso, così
tanto che potrei scoppiare a piangere da un momento all’altro.
«Non vorrei
disturbarti…e…» Mi prende per mano e
con passo veloce attraversiamo la strada, raggiungendo una piccola
villetta a schiera, vista a quest’ora, al buio, sembra
bianca, ha un balconcino marrone pieno di fiori viola di cui adesso non
ricordo il nome, la porta è di vetro con la cornice in legno
scuro. Infila la chiave nella serratura e l’odore di pesca
invade l’atmosfera. C’è un piccolo
corridoio stretto, con un appendi abiti e una porta. Camminiamo
incontrando la sala, piccola, con un camino spento, un divano a tre
posti, un tavolino e una tivù, continuiamo a camminare e
incontriamo la cucina, piccola anch’essa color rovere con
alcuni intagli negli sportelli, un tavolo di vetro chiaro al centro e
delle sedie di pelle chiara.
«Che
bello.» Sussurro, ammirando la stanza.
«Ci abito
solo io, ma l’ha arredata mia mamma, lei fa questo
lavoro.» Mormora alzando le spalle.
«Come mai
vivi da solo, Edward? » Gli chiedo, rendendomi
conto che di lui non so nulla se non il suo nome, ah sì, ha
pure una sorella di cui mi ero ingelosita immediatamente senza chiedere
né come né quando. Vorrei sapere tutto di lui, ma
allo stesso tempo cucio la bocca per paura di risultare invadente e
poco nobile. Lui mi guarda e una scia malinconica attraversa i suoi
occhi. Rimango in piedi e in silenzio, stringendo tra le mani i manici
della borsetta, torturando la pelle che li ricopre per poi mordermi il
labbro inferiore di continuo.
«Per colpa
di un amore sbagliato. Vivo da solo per questo.» Sussurra con
voce mesta, mille brividi percorrono le mie braccia, immaginando un
Edward triste, che piange, solo contro tutto il mondo, come me fino a
qualche tempo prima, prima del suo arrivo che ha cambiato la mia vita,
il mio umore in modo spettacolare.
«Scusa
Edward…io…»
«No, voglio
dirtelo, in fondo io so quasi tutto di te, mi sembra giusto portarmi
alla pari.» Mormora tenendomi stretta a sé,
indossiamo ancora la giacca, tra le mani tengo stretta ancora la borsa
e il sacchetto con i miei acquisti, ma non ho voglia di muovermi, non
voglio spezzare questa intima armonia, non adesso, forse mai.
«Ho ventisei
anni Bella, forse non sapevi nemmeno questo. Sei anni fa una
ragazza, Michelle, rubò il mio cuore. Mi ero
innamorato per la prima volta, in modo assoluto, dandole tutto me
stesso, cercando sempre di farla felice nonostante molte volte
implicava la perdita del mio buonumore, le mie abitudini. Dopo due anni
di fidanzamento volevamo sposarci, mia madre era felicissima, Alice lo
era ancor di più. Mia madre si occupò della casa,
volevo restarmene a Treptow, ma a lei non stava bene, qualsiasi cosa io
decidessi a lei non stava mai bene, ma ero troppo fragile e innamorato
e solamente adesso mi sono accorto di tutto il male che giornalmente mi
faceva. Il giorno prima del matrimonio, avevo deciso di creare
un’atmosfera intima, avevo deciso di dichiararle amore per
l’ennesima volta. Venni qui, con l’intenzione di
riempire il letto di petali di fiori di ciliegio, di accendere alcune
candele con le finestre chiuse per poi rinchiudere l’odore
qui, in quella che doveva essere casa nostra. La trovai sul letto nuda,
con un uomo al suo fianco che dormivano beatamente. Me ne andai, come
un codardo, con la coda tra le gambe, e non mi presentai al matrimonio.
Non l’ho più rivista da quel giorno, non che lei
mi abbia mai chiesto come mai io non mi sono presentato il giorno delle
nozze. Forse immaginava che io avessi saputo, forse anche lei,
dopotutto aveva deciso che recitare non sarebbe stata la cosa
più facile da fare. Sto per vendere questa casa, sono solo
due mesi che ci abito, perché tenerla qui, chiusa, aveva
fermato il tempo, venendo qui ad abitare volevo vivere cancellando il
suo ricordo, ma vedi Bella? Non c’ero riuscito. Non fin
quando ho visto te, i tuoi occhi, la tua anima. Tu hai visto la mia
Bella, inconsapevolmente lo hai fatto, hai colorato la mia anima, ma
non di un solo colore.» Una lacrima solca il mio viso, mentre
una valle di lacrime si impossessa di esso, Edward si sposta,
mettendosi di fronte a me e prende la mia mano con la sua, la porta sul
suo petto e mi sorride.
«Tu ci hai
messo l’arcobaleno qui dentro.» Mormora prima che
le mie labbra si tuffano nelle sue. Afferro i suoi capelli con
disperazione, perché quella parte di dolore che ha vissuto
nell’arco della sua vita mi ha presa all’interno,
facendomi arrabbiare. Immagino un Edward seduto in una stanza buia, che
piange, i suoi occhi così belli e sinceri contornati di
rosso, le sue gote arrossate per la rabbia. Un Edward solo, ferito,
distrutto. E se all’inizio non capivo il
perché, perché le sue parole fossero
così importanti per me, a come lui lo fosse,
perché mi sono innamorata di questo ragazzo,
perché vivo ricordando il suo viso mentre mi accarezzo il
ventre, perché lui è ormai essenziale,
perché la mia anima aveva bisogno di lui, come il mio cuore,
come ogni cellula di me stessa. Sfioro il suo viso dolcemente, mentre
le sue mani accarezzano il mio ventre come se ci fosse suofiglio all’interno e
la consapevolezza che anche lui lo ama è la cosa
più bella che il mio cuore e la mia mente potessero
realizzare. Perché amo entrambi, nonostante sia presto,
nonostante con tutte le probabilità sia sbagliato per molti,
amo queste due persone che prepotentemente sono entrate nella mia vita,
attraversando la porta del mio cuore senza avere la chiave,
due persone che sono arrivate nello stesso tempo, migliorando la mia
vita.
«Perdonami
Bella. Se ho cambiato atteggiamento qualche volta, se il mio carattere
molte volte è strano. Farò di tutto per te Bella,
perché…non lo so perché ma sei
importante. E lo sei tu, e lo è lui.» Mormora
indicando il mio ventre con dolcezza. «E magari forse
può darti fastidio o comunque sembrarti strano, ma lo sento
parte di me. Non so perché è
all’interno del tuo corpo, o perché è
tuo e quindi quando ho visto i tuoi occhi ho visto pure i suoi. Non lo
so, so solamente che mi avete aiutato ad uscire da qualcosa che forse
poteva sembrare più grande di quello che effettivamente
è. Ma lo avete fatto ed io vi voglio nella mia
vita.»
«Anche io ti
voglio nella mia vita.» Sussurro, dicendo la cosa di cui sono
più sicura al mondo in questo preciso instante. Le sue
braccia mi circondano in un abbraccio pieno d’affetto e
dolcezza, e non c’è posto dove vorrei trovarmi
adesso se non qui: tra le sue calde e delicate braccia.
«Edward.
Anche tu hai colorato la mia anima. Lo avete fatto entrambi.
» Dico mentre una lacrima scivola dal mio occhio, per poi
finire sulla mia mano adagiata sul mio ventre.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** The Same Thrill. ***
Eccomi
qui, finalmente!
Perdonate
il mio ritardo, sono andata in vacanza e ho avuto bisogno di tornare
alla “vita
normale”. Spero di non aver deluso nessuno.
Prima
della lettura vi lascio un piccolo riepilogo della storia.
Bella,
dopo aver scoperto di essere gravida, lo comunica al suo fidanzato
Jacob, che
come era prevedibile lascia Bella da sola, non prendendosi alcuna
responsabilità. Bella, decide di tenere quel piccolo
esserino che ama sin dal
primo giorno che ha saputo della sua esistenza. Le sua amiche e la
madre le
stanno vicino, fino a quando nel suo cammino non incontra Edward. Che
accetta
di buongrado la gravidanza. Bella prende l’autobus sbagliato
e si trova a
Pankow, dove vive Edward, passano insieme la serata ed Edward le rivela
del suo
amore perduto. Del suo matrimonio mai celebrato per colpa di un
tradimento.
Spero
di essere stata chiara.
Buona
lettura.
Roby
<3
Just
a Little Woman.
The same Thrill.
Accarezzo la
seta azzurra del letto di Edward, beandomi
della loro freschezza. Mi sono sempre piaciute le lenzuola di seta,
lasciano
quella morbidezza nella pelle che è impossibile non
rimanerne estasiati, e la
freschezza che emanano d’estate è la cosa che
più preferisco. Premo il
bottoncino del mio cellulare scoprendo che sono già le dieci
del mattino. Mi
alzo in fretta e furia, afferrando i miei vestiti per sostituirli con
quelli
che mi ha prestato Edward ieri sera, per dormire. Mi infilo dentro il
bagno,
che si trova direttamente dentro la camera da letto di Edward. In pochi
attimi
mi ritrovo sotto il getto caldo dell’acqua della doccia,
inizio a lavarmi ed
insaponarmi, maledicendomi per star cancellando in qualche modo
l’odore che
Edward ha lasciato su di me, i suoi abbracci caldi e profumati non mi
hanno
lasciata nemmeno per un attimo ieri sera, eppure ha voluto dormire nel
divano,
insistendo che non è il momento adatto per dormire assieme,
avevo chiesto il
motivo ieri sera, la sua risposta fu un sorriso sornione che
insinuò miliardi
di dubbi nella mia testa. Scuoto la testa riflettendo a come possa
essere
possibile fare del male ad Edward, immagino la sua ex ragazza, bella
come il
sole e poi penso a me stessa, goffa e piena di imperfezioni. Accarezzo
il mio
ventre cospargendolo di bagnoschiuma e noto che sta iniziando a
gonfiare,
sorrido, come se lo stessi facendo a mio figlio, a quella vita che
velocemente
ma al tempo stesso troppo lentamente sta crescendo dentro di me. Il mio
viso
davanti allo specchio, in questo momento assume un espressione diversa,
ho le
gote rosse e le labbra lucide, i miei occhi sono sempre dello stesso
colore e
della stessa forma, ma qualcosa, mi dice che sono diversi. Il respiro
di
Edward, direttamente sul mio collo, mi blocca sul posto. Un brivido mi
fa
piegare la testa di scatto e lui sorride, compiaciuto. Mi giro lentamente, guardando i
suoi occhi
direttamente, immergendomi dentro quegli smeraldi che dal primo giorno
mi hanno
dato speranza, forza. Edward. Inconsapevolmente mi ha permesso di
entrare
dentro di lui e viceversa, inconsapevolmente ci siamo rivisti in
ciò che
crediamo entrambi, inconsapevolmente ci siamo innamorati e
inconsapevolmente ce
lo siamo dimostrati.
«Buongiorno.» Mormora avvicinandosi
pericolosamente, tant’è
che non faccio in tempo ad aprire la bocca che le sue labbra si
impadroniscono
delle mie, possedendole e insegnando loro una danza mista ad un tango e
un
valzer, dolcemente, delicatamente, è appassionato, rude,
è tutto ciò di cui ho
bisogno in questo momento…forse anche per il resto della mia
esistenza, perché
qui, nel bagno di casa sua, lontana da occhi indiscreti, chiusa dentro
questa
bolla che è il suo mondo di cui adesso voglio e ne faccio
parte, mi sento me
stessa, completa, come se non avessi bisogno di nulla se non di lui,
della sua
essenza e del suo sapore. Questo è Edward, quello che ogni
persona vorrebbe al
suo fianco. Accarezzo i suoi capelli, così morbidi e
profumati. Le sue mani
vagano sul mio corpo senza una meta precisa, sono fameliche alla
ricerca della
scoperta. Senza rendercene realmente conto il mio sedere si adagia
sulla base
dura e fredda del lavandino, le mie gambe si intrecciano sul suo corpo
e la sua
testa si appoggia delicatamente al mio petto. Un colpetto lo fa
sussultare ed
io scoppio a ridere, c’è anche lui qui con noi
oggi. Non importa se è dentro
una sacca, se è dentro di me, è qui, con noi. Una
lacrima riga il mio viso, non
riesco ancora a capacitarmi di come Edward si sia mostrato
così disponibile con
me, con mio figlio, non riesco a
credere alle mie orecchie quando mi parla di lui, come se lui fosse il
padre,
come se dentro di me ci fosse il sangue del suo sangue, come se io gli
stessi
donando un figlio, quando invece potrebbe lavarsene le mani e buttarmi
nel
primo contenitore dei rifiuti, non c’è nulla che
ci lega, se non questo affetto
sconsiderato che entrambi, forse, stentiamo a credere che esista. I
suoi occhi
lampeggiano nei miei, rivelandomi tante cose e allo stesso tempo
guardandomi
solamente, c’è devozione, c’è
tenerezza, è quello sguardo per cui molti,
compresa io, pagherebbero per vederlo.
«Si è mosso!» Esclama come un bambino il
giorno di Natale.
Inizia ad accarezzare il mio ventre, lo sfiora con leggere carezze, le
sue dita
solleticano la pelle attorno al mio ombelico e non
c’è gesto più dolce e intimo
di questo, non c’è cosa migliore al mondo.
«Ieri l’ho sentito per la prima volta
e…»
«Shh. Fammi sentire ancora, se parli non si muove.»
Mormora
serio con la voce talmente bassa che mi chiedo come mai io
l’abbia sentito.
Scoppio a ridere prendendolo in giro amabilmente, difatti non appena
inizio a
muovere lo stomaco per le risa lui mi guarda serio ancora una volta.
Chiudo la
bocca e la cucio teatralmente.
«Ridere puoi farlo. È la prima volta che ridi
davvero.» Dice
sorridendo in quel modo che riuscirebbe a farmi perdere la ragione una
volta
per tutte. Accarezzo la sua fronte, cercando di fargli capire la sua
importanza
per me, cercando di dirgli con gli occhi quanto immenso sia il mio
bisogno di
lui.
«Solo tu Edward. Solo tu ci sei riuscito.» Abbasso
il capo e
una lacrima scende cadendo sul suo indice posato sulla mia coscia,
stesso arto
che alza il mio mento permettendogli di guardarmi in viso.
«Non piangere, non voglio.»
«No. Non lo farò.» Mormoro
abbracciandolo forte a me,
respirando il suo profumo, beandomi della sua presenza. Abbracciati
dentro il suo
bagno, mi sento come se potessi vedere questa scena da spettatrice.
Vedendo due
ragazzi che si vogliono bene, cercando di capire se davvero questa
è la mia
vita, se davvero sono stata fortunata o Edward è solamente
un sogno, chiudo gli
occhi, sorrido, non so bene a cosa, ma lo faccio sentendomi viva,
sentendomi
per la prima volta in vita mia Isabella Swan. Il suo abbraccio mi rende
così
lontana del mondo che dimentico che è tardi e che a
quest’ora dovrei essere
seduta in aula per seguire la lezione di letteratura inglese. Tocco i
capelli
di Edward con un gesto delicato, facendogli capire che dobbiamo
muoverci in
qualche modo. I suoi occhi mi colpiscono per l’ennesima
volta, illuminando il
mio campo visivo, è come se guardandomi accendesse mille
luci attorno a me.
«Non andare.»
«Dobbiamo andare, Edward. Siamo già in
ritardo.»
«Non fa nulla se non andiamo un giorno.» Mormora
accarezzando i miei fianchi, cercando di persuadermi. Guardo i suoi
occhi,
perdendo completamente la parte responsabile di me. Annuisco con
vigore,
convincendo più me stessa che lui e con un gesto repentino
mi afferra per i
fianchi, delicatamente, facendomi volteggiare, il silenzio che fino a
qualche
attimo fa ci avvolgeva si riempie dalle nostre risate, vive e
spensierate.
«Lei
è mia sorella, Alice.» Mormora Edward, al mio
fianco.
Di fronte a noi, c’è quella famosa ragazza che per
un giorno intero mi ha fatta
crogiolare nel mondo della gelosia. Le sorrido e lei non ricambia, i
miei occhi
si muovono veloci tra lei ed Edward e un piccolo colpo
all’altezza della bocca
del mio stomaco mi fa intendere, prima che me ne possa rendere conto da
sola,
che non sono a mio agio. Mi sento fuori posto. Alzo la testa non avendo
la
minima intenzione di allungarle la mano e lei fa lo stesso. Edward si
gratta la
nuca e vorrei uccidere anche lui! Ci spostiamo in salotto e il mio
cellulare
trilla, lo afferro velocemente mentre le mie guance si tingono di rosso.
«Pronto mamma?»
«Tesoro! Dove sei? Mi hai detto che era tutto apposto,
ma…»
«Mamma ieri sera ho incontrato Edward e, dato che non aveva
la macchina sono rimasta qui a casa sua. Scusa dovevo chiamarti
è solo che…»
«Tranquilla Tesoro, l’importante è che
è tutto apposto. Come
ti senti?» Mi chiede premurosa, sorrido e le racconto tutto
quello che è
successo da ieri a oggi. Non ci sono segreti tra di noi, la
sincerità è sempre
stata la prima cosa importante nel rapporto tra me e mia madre.
«Allora ci vediamo stasera. Lo sai, Edward mi piace, ma stai
attenta, sempre tesoro mio. E ricordati che oggi devi andare a togliere
il
gesso!» Saluto mia madre e chiudo la chiamata. Guardo il mio
braccio, appunto,
ancora ingessato e mi prendo per stupida mentalmente per aver
dimenticato che
oggi è il giorno di fine tortura. È diventato
grigio ed è pieno di scritte
colorate, Hayley e Melanie non hanno potuto fare a meno di marcare il
loro
territorio anche qui. Sorrido, pensando che la sorella di Edward non
deve farmi
questo effetto, non mi importa di lei, non è con lei che
voglio passare le
giornate, non è con lei che voglio sorridere, ma suo
fratello. Torno in
salotto, e mi accorgo che entrambi stanno parlando a bassa voce
gesticolando
pericolosamente. Mi siedo sul sofà accanto ad Edward, avendo
di fronte ancora
una volta la sorella. Lei non mi guarda, ma non io non posso fare a
meno di non
fissarla. Edward si schiarisce la gola e mi guarda scusandosi con una
smorfia.
«Volete del caffè?»
«Io no, grazie.» Mormoro guardandolo, e
incazzandomi con lo
sguardo rivolto verso di lui, sa benissimo che non posso prendere il
caffè! Sua
sorella annuisce ed entrambe rimaniamo sole.
«Cosa fai tu nella vita?» Mormora infastidita nel
rivolgermi
la parola.
«Non sei costretta a parlare con me. Tranquilla.»
Sussurro
sorridendole in modo affettuoso quando invece vorrei strozzarla con un
cuscino
seduta stante. La difesa migliore è l’attacco.
Accarezzo i miei capelli,
tirando alcune ciocche e mi alzo dirigendomi in cucina. Edward mi
guarda
spaventato, forse, notando la mia espressione che non promette nulla di
buono.
«Tua sorella mi odia!»
«Non ti odia. È solo che…lo sai, dopo
tutto quello che è
successo ha un po’ paura. »
«Ho capito, cristo santo! Ma conoscere un minimo la gente
prima di giudicarla no? Non si usa?» Dico a bassa voce,
quando invece vorrei
urlare per farlo sentire a quell’oca di sua sorella.
«Dio, Bella. Non arrabbiarti con me, ti prego. Non voglio
che per colpa sua tu te la prenda con me. Non è colpa mia se
lei è così,
l’importante è che io ti tratti nel migliore dei
modi.» Mormora avvicinandosi
per baciarmi la fronte, mi scosto dal suo gesto e annuisco tornando in
salotto
e lasciandolo interdetto. Edward ci raggiunge in salotto con un vassoio
d’argento tra le mani. Mi porge una tazza di tè
fumante e gli sorrido. Lei mi
uccide con lo sguardo ed io non posso fare a meno di ricambiare.
«Potevi darmi del tè, Edward.» Dice con
la voce tesa, più di
una corda di violino.
«Hai voluto il caffè Alice. Smettila adesso!
» Esclama
aumentando di parecchie ottave la voce, non appena lei nota la voce
infuriata del
fratello si rimette al suo posto e inizia a sorseggiare il
caffè. Non appena
finisce il caffè, adagia le chiavi della macchina del
fratello sul piccolo
tavolino di vetro e si alza congedandosi. Io e Edward rimaniamo
immobili, guardando
il posto che prima era occupato dalla sorella.
«Tua sorella è strana.»
«Lo è.» Mormora scoppiando a ridere,
reprimo le risa ma
tentativo vano, la mia bocca si allarga e scoppio a ridere. Edward si
tuffa
sulle mie labbra, accetto il suo gesto accogliendolo con vigore, le sue
mani
per la prima volta mi toccano e mi
palpano
più del solito, facendomi arrivare a credere che potrei
essere vittima
d’infarto da un momento all’altro. Le sue mani
accarezzano le mie cosce e le
sue braccia dure e possenti fanno da sedile al mio posteriore. La sua
testa si
adagia sui miei seni, i capezzoli, nonostante ci fosse il cotone della
maglia,
si induriscono a contatto con la sua pelle, con il suo respiro. Le sue
mani non
smettono un attimo di dedicarsi alla mia pelle, che freme ad ogni
contatto. Lo
desidero dal profondo, lo desidero come se fosse l’aria che
respiro, lo
desidero perché è il mio cuore a volerlo.
Capovolgo le posizioni ritrovandomi a
cavalcioni su di lui che mi guarda con gli occhi sgranati. Possiedo la
sua bocca
con la mia, facendo sfociare un semplice bacio ad un ballo fatto di
passione, è
come se stessimo facendo l’amore solo con le labbra. La sua
lingua impertinente
scivola dentro la mia bocca, facendomi perdere la ragione, le nostre
lingue si
intrecciano, si abbracciano. Le mie mani non lasciano i suoi capelli
nemmeno
per un istante, un brivido percorre i nostri corpi, lo stesso brivido.
Mi sento
rinata, mi sento bene, completa, per la prima volta in vita mia felice.
Non
credo di aver mai provato qualcosa del genere come sentirmi
sconquassare
l’anima dall’eccitazione, sentirmi desiderata in
questo determinato modo,
sentire quel brivido che, ne sono consapevole, è lo stesso
che lui sta
provando. È come se lo conoscessi da una vita, è
come se fosse parte di me sa
sempre, è come se lo stessi aspettando dal giorno della mia
nascita e fosse
arrivato il momento giusto per entrare nella mia vita. Sorrido, mentre
le sua
labbra sfiorano l’incavo del mio collo e penso che sono
pronta ad accettarlo
nella mia vita, come ragazzo, come fratello, come padre, come mio
protettore.
Sono disposta a tutto per lui, prenderei a pugni il mondo se fosse
necessario
pur di provare ancora e ancora e ancora lo stesso brivido.
Accarezzo
il mio ventre, per l’ennesima volta, stupendomi di
volerlo fare ogni qualvolta se ne presenta l’occasione.
Mancano ancora sette
mesi, già me lo immagino, con gli occhi grandi e scuri come
i miei, che mi
sorride, che piange che morde dolcemente il mio seno, ho deciso di
allattarlo
fin da subito, voglio dargli vita anche quando verrà al
mondo. Costruirò per
lui un mondo fatto di fiabe, ma senza maghi, lupi o streghe cattive.
Avrò
Edward al mio fianco e posso farcela, contro ogni cosa negativa,
superando
anche gli ostacoli che si presenteranno nel mio cammino come genitore,
posso
farlo. Perché quando provi amore per qualcosa, che sia una
persona o un
oggetto, faresti di tutto per proteggerlo, quell’amore
assoluto che ti riesce a
dare la forza necessaria per affrontare anche la cosa più
difficile del mondo.
C’è ne sono molte cose difficili in questo mondo,
ma non impossibili, è
impossibile solo quando siamo noi a deciderlo. Spazzolo i miei capelli
e li
lascio cadere morbidi sulle mie spalle, tra qualche minuto dovrebbe
arrivare
Hayley. Devo togliere il gesso finalmente, Edward voleva accompagnarmi,
ma ho
preferito chiamare Hayley, passare un po’ di tempo con
lei…e, a dire il vero,
ho bisogno che lei mi rassicuri, che mi dia consigli, che sappia
rasserenare e
migliore il mio umore.
«Ciao! Come andiamo?» Mi chiede entusiasta Hayley,
non
appena entro dentro la macchina.
«Stiamo bene! Muoviamoci che non voglio prendere ancora
l’autobus
come ieri!» Mormoro scoppiando a ridere, lei mi accarezza la
mano e mette in
moto. Le racconto di Alice e mi sento sollevata, approfitto del fatto
che
Hayley non sia Edward per dedicarle qualche insulto, mentre la mia
interlocutrice continua a scuotere la testa. Forse non è
stato quello che ha
detto e quello che non ha detto che mi ha dato fastidio, ma il suo
sguardo
rivolto nei miei confronti, al suo sminuirmi con un semplice gesto,
facendomi
sentire con niente una nullità.
«Dovresti metterti nei suoi panni…»
«Hayley!» La interrompo bruscamente.
«Fammi finire! Voglio dire, il fatto che Edward abbia
sofferto così tanto avrà sicuramente segnato
anche lei. Prova a darle tempo,
vedrai che si renderà conto che persona speciale sei. Vedrai
Bella, devi solo
darle tempo. Certo, questo non toglie che devi difenderti e cercare di
non
sentirti così, non sei inferiore a nessuno, tantomeno a lei,
quindi smettila.»
Finisce la sua frase ad effetto ed io rimango in silenzio cercando di
far
entrare nella mia mente il suo consiglio, sicura che comunque fare come
dice
non servirà a nulla. Scendiamo dall’auto e insieme
ci dirigiamo al reparto
ortopedia. Troviamo due sedioline libere e ci accomodiamo aspettando
che mi
chiamino. Sento una risata molto più che familiare dietro di
me e l’istino mi
fa voltare il capo girandomi in quella direzione.
C’è Jacob, accanto ad una
ragazza bionda, è bellissima. Si tengono per mano, si
guardando negli occhi e
si sorridono. Dovrei provare rabbia, odio e repulsione, invece non ci
trova
nulla di sbagliato, non provo nulla, se non che mi sento sollevata che
abbia
trovato qualcuno in modo che non rompa più le scatole a me.
I suoi occhi
incontrano il mio viso e mi guarda diventando serio.
«Bella.» Mormora infastidito, io faccio un cenno
col capo a
mo’ di saluto e continuo a guardarlo.
«Hai fatto presto.» mormoro per niente arrabbiata,
anzi,
come pensavo fino a qualche attimo prima, sollevata.
«Anche tu. Ti ho vista all’università
con quel ragazzo.»
Dice arrabbiato, cercando di fari spaventare.
«Non scaldarti Jake. È meglio per
entrambi.» Sussurro
girandomi per evitare di mettermi a urlare ricordandogli le sue
priorità, come
suo figlio dentro di me. Hayley prende la mia mano e mima con le labbra
“ignoralo” annuisco e mi ritrovo ad ascoltarlo
insieme alla ragazza
inconsapevolmente. Parlano di una casa, del lavoro di lei, pare che sia
un’avvocatessa, mi ridesto non appena sento chiamare il mio
nome. In pochi
minuti il mio braccio, finalmente, torna ad essere quello di prima,
sospiro
sollevata e mi pulisco con una salvietta. Il medico mi sorride
lasciandomi un
foglio ed esco dalla stanza.
«Prediamo un tè?» Mi chiede Hayley ed io
mi ritrovo ad
annuire. Inserisco delle monete sul distributore e aspetto che il
tè sia
pronto.
«A te ti sposo però. Stai tranquillo. Sta vendendo
la nostra
casa di Pankow quel codardo di un Cullen. » La ragazza che
sta con Jake
sussurra questa frase che permette alla mia mente di formulare
immagini,
avvenimenti, a me totalmente sconosciuti.
Edward seduto su una sedia che piange, al buio.
Edward che sogna il suo matrimonio un attimo prima di
scoprire la sua futura sposa con un uomo nel suo letto.
Edward che si sente inutile e completamente solo.
Edward che sta vendendo la casa a Pankow ma che ci sta
abitando per rimuovere quell’amore perduto dalla sua mente.
Edward, Edward, Edward. Inizio
a correre, sotto lo guardo
preoccupato di Hayley. Corro facendo soffiare il vento tra i miei
capelli. Mi
sento disperata. Devo andare da Edward.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Impasse. ***
Just A Little
Woman.
Impasse.
Mille pensieri
vorticano la mia mente, mentre per la seconda volta prendo lo stesso
autobus che mi ha portata inconsapevolmente a casa di Edward. Non
è possibile, devo assolutamente sapere se era Jacob
l’uomo – che non è esattamente termine
adatto per definirlo – che ha mandato in fumo il matrimonio
di Edward, anche se, dal mio canto, se così fosse lo
ringrazierei a vita. È un pensiero egoistico da parte mia,
ma se Jacob non mi avesse lasciata e se Michelle non avesse cornificato
Edward, noi adesso non saremmo qui. Edward avrebbe continuato la sua
vita da zerbino fin quando non si sarebbe reso conto che non viveva
come doveva. Ed io…io credo che prima o poi avrei aperto gli
occhi su di lui, rendendomi conto di ciò che in
realtà è. Avremmo comunque sprecato ancora tempo
e il destino ci ha fatti ritrovare, distrutti, malandati ma ancora
speranzosi, donandoci forza a vicenda, pronti per ricominciare. Tengo
bene a mente il numero 12 che sarebbe il numero della fermata dove
dovrei scendere, cerco di ricordare bene la strada che ho percorso con
Edward, la stessa che ci ha portati a casa sua e fortunatamente la mia
memoria oggi non mi ha fatto alcuno scherzo. Arrivo a destinazione,
scendo in fretta e furia e inizio a correre. Poi mi fermo, pensando che
sì, voglio assolutamente sapere che non è come
credo, ma che la salute di mio figlio è molto più
importante di qualsiasi altra cosa. Inizio a camminare lentamente e
dopo pochi isolati arrivo a casa di Edward. Sembra passato un tempo
lunghissimo dall’ultima volta che ci sono stata, quando
invece ho lasciato la dimora solo stamane.
«Ciao.» Mormora confuso, dato che sono entrata in
casa sua senza preavviso. Si sposta lasciandomi entrare e gli do un
piccolo bacio sulle labbra. Mi siedo sul divano e appoggio la mia
borsetta sul piccolo tavolino in vetro.
«Come mai sei qui?» Mi chiede dolcemente. Io lo
guardo e sfilo dalla tasca posteriore della mia tuta una foto, la
fotografia di Jacob, siamo io e lui nei primi anni che eravamo
fidanzati, è l’unica foto che mi è
rimasta, l’ho lasciata solo per far vedere il volto del padre
a mio figlio, un giorno. Mia madre ha buttato via tutte le foto di mio
padre, ed io una avrei voluto vederla, non per nostalgia, ma solo per
vedere che faccia ha il bastardo, magari lo avrò incontrato
milioni di volte senza saperlo.
«Conosci questo ragazzo?» Chiedo a Edward sperando
che mi dica di no. Prende la foto con curiosità e non appena
scuote la testa sospiro rumorosamente.
«No, non lo conosco. Lui è Jacob?» Mi
chiede serrando la mascella.
«Sì è lui. L’ho incontrato
oggi quando mi hanno tolto il gesso…che cosa strana prima mi
rompe il braccio poi lo incontro quando me lo aggiustano. Ma non
è questo il problema. Era in compagnia di una ragazza
bellissima e li sentivo parlare, ma avrò sicuramente capito
male perché se tu non lo conosci…»
«Bella! È stato lui a romperti il
braccio?» Domanda alzando di qualche ottava la voce. Io
annuisco spaventata, non per il suo tono, ma per la stupida che sono!
Dio. Mi prendo a schiaffi mentalmente per aver lasciato che le parole
mi sfuggissero di bocca.
«Perché non me lo hai detto prima! Mi avevi detto
che eri caduta, non che era stato lui!» Urla camminando
avanti e indietro per tutta la stanza, con le mani tra i capelli.
Chiudo gli occhi, chiedendomi perché questa discussione
è venuta fuori in questo modo assolutamente sbagliato. Mi
alzo avvicinandomi cautamente e prendo la sua mano tra le mie.
«Edward. È passato quello…scusa, non
volevo mentirti è solo che…»
«Evidentemente lo ami ancora, dato che hai continuato a
difenderlo.» Sussurra sciogliendo le nostre mani. Rimango
paralizzata, stupita da una frase come quella che mi ha appena rivolto.
«Non lo hai detto davvero.» Sussurro a voce
bassissima. Lui mi guarda con un lampo di rabbia negli occhi ed io
scoppio a piangere senza accorgermene. No, non è possibile,
non lo pensa davvero, è solo arrabbiato. Continuo a ripetere
questa frase come un mantra e rimango a fissarlo, lui non abbassa lo
sguardo né lo cambia, c’è sempre rabbia
all’interno. Non riesco nemmeno io a capire perché
non ho voluto denunciare Jacob, o forse, l’ho fatto solo per
evitare una qualsiasi guerra che sarebbe potuta scoppiare.
Sì, decisamente, l’ho fatto perché ero
troppo delusa anche per poter solo affrontare un argomento del genere,
volevo cancellarlo dalla mia vita in modo assoluto, e denunciandolo,
per quanto ridicolo possa essere, lo avrei avuto tra i piedi e davanti
ai miei occhi ancora per un po’.
«Bella.» Sussurra. Guardo i suoi occhi e sospiro.
«Edward. Non voglio litigare con te.» Mormoro
sentendo le mie orecchie bollenti.
«Devi essere sincera con me, Bella. Sempre, qualsiasi cosa
accada, dalla più futile alla più grave. Non mi
piacciono le bugie.»
«Ci eravamo appena conosciuti! Quando ti ho detto del braccio
non sapevi nemmeno che ero gravida, Edward! Ho sbagliato,
d’accordo, ti chiedo scusa, ma non c’è
bisogno di fare così.»
«Io odio le bugie.»
«Ed io non te le dirò più.»
Sussurro arrendendomi. Lascia il contatto visivo per primo e si siede
sul divano. Afferro la mia borsa e faccio per andarmene via, ma non
appena muovo i piedi lui mi afferra il braccio.
«Adesso dove vai? Sono le nove di sera.»
«Vado a casa.»
«Ti accompagno.» Dire che l’atmosfera
è tesa è un eufemismo bello e buono, annuisco
seguendolo in macchina e il tragitto, che dura all’incirca
quaranta minuti, passa con quel solito silenzio imbarazzante. Mi sento
a disagio e non vedo l’ora di stare sotto le coperte per
scoppiare a piangere e liberarmi di questo peso che in automatico si
è formato nel mio stomaco. Nemmeno a me piacciono le bugie
ma, di certo, non volevo che lui sapesse che Jacob, il mio ex fidanzato
e padre del figlio che ho in grembo, mi aveva anche rotto il braccio,
che poi, sono sicura al cento per cento non l’ha fatto di
proposito, questo non lo giustifica, ma non toglie che comunque non mi
ha malmenata o comunque fatto del male intenzionale. Spegne il motore
della macchina e nel silenzio tombale si riesce a sentire il mio cuore
che batte forsennato minacciando di uscire dalla propria cassa toracica.
«Perché mi hai chiesto se conoscevo
Jacob?» Mi chiede con una punta di rassegnazione nella voce,
quando invece non lo immagina neppure. Mi sono chiesta mille volte in
questi brevi minuti cosa stesse pensando, e sapevo che non appena
saremmo arrivati avrebbe preso in ballo il motivo per cui mi sono
recata da lui.
«Perché credo di averlo visto con Michelle, la tua
ex fidanzata.» Sussurro.
«E anche se fosse?»
«Volevo solo capire se l’avevi trovata a letto con
lui.»
«A te cosa cambia?» Mormora arrabbiandosi
più di poco prima, lo riconosco dalla sua mascella tesa che
potrebbe strapparsi da un momento all’altro, dalle sue nocche
che rischiano di venire fuori e dal tono, cupo e freddo, della sua voce.
«Mi cambia sapere se mi ha tradita o meno in tutti questi
anni Edward! Dio, perché devi fare così?
» Urlo fuori di me. Apro la portiera ed esco velocemente
dall’auto.
«Ne parliamo domani…» Dico mentre entro
dentro casa, rimango immobile all’entrata con la porta aperta
e non appena sento le gomme dell’auto stridere
sull’asfalto sussurro un “vaffanculo” che
mi parte dal profondo. Lancio la mia borsetta sul divano e noto un
bigliettino sul tavolino.
Stasera
torno tardi piccola, dentro il forno c’è la carne
arrosto con le patate, ti basta riscaldarla. A stanotte. Riguardati
Mamma.
Abolisco dalla mia mente l’idea di mangiare, ma non appena
sento un piccolo calcetto da parte del mio piccolo capisco che non
posso non mangiare, devo pensare a lui…non sono sola qui.
Riscaldo l’arrosto con le patate e mentre rigiro venti volte
il cibo prima di mangiarlo una lacrima scivola dal mio occhio. Mi sento
come se avessi portato a termine un compito totalmente sbagliato, mi
sento inutile, mi sento assolutamente sbagliata. Ed è strano
sentirsi così per una situazione risolvibile in un battito
di ciglia. Allora penso che è vero, sono sbagliata e
inutile. Mio padre non mi ha voluta, il mio ragazzo non ha voluto
restare con me proprio nel momento in cui più avrei avuto
bisogno di lui, poi è arrivato Edward…credevo che
tutto si fosse risolto, che averlo al mio fianco non mi avrebbe mai
più fatta sentire così…invece sono
ancora al punto di partenza, credevo di aver fatto tanti passi avanti
ed era sembrato reale qualche volta, adesso quei passi che credevo aver
compiuto in avanti sono tornati indietro. E ancora una volta sono qui,
sola, a casa mia a piangermi addosso. Niente potrà mai
cambiare tutto questo, non fini a quando mio figlio non
verrà al mondo e quella l’unica cosa che
potrà cambiare il mio perenne stato di impasse.
**
Tornare alla
vita normale, dopo due giorni che a me personalmente sono sembrati
secoli è strano. È come quando torni da una
vacanza e non sai cosa ti aspetta al ritorno. Afferro il succo al
mirtillo dalla macchinetta automatica e mentre lo apro, noto come
tremano visibilmente le mie mani. Tra qualche minuto dovrebbero
arrivare le mie amiche e, di certo, non voglio che mi vedano in questo
stato. Prendo l’orario scolastico dalla mia borsa e controllo
in che aula mi devo dirigere. Letteratura Giapponese- Aula 24/B. Manca
un quarto d’ora alle nove, mi dirigo in giardino e mi siedo
sulla panca. Mi stringo nel mio cardigan, l’aria di Novembre
è più calda del solito, ma oggi è
terribilmente più fredda e mi maledico per non aver portato
con me un cappottino. Abbasso la maglia più che posso, in
modo che il freddo non possa colpire il mio ventre e con la coda
dell’occhio vedo Edward avvicinarsi a me. Mi rimetto
composta, cercando di non far la figura della stupida
ma…troppo tardi, i suoi occhi mi stanno prendendo in giro.
Sospiro, pensando che forse, il peggio è passato e lo guardo.
«Buongiorno?» Chiede gentilmente.
«Ciao.» Sussurro, combattendo con tutte le mie
forze a non buttarmi su di lui e riempirlo di baci.
«Posso?» Mi chiede indicando il posto vuoto sulla
panca di fianco a me, sposto la mia borsa e annuisco. Rimaniamo in
silenzio, fin quando non arrivano le mie amiche e non appena ci
accorgiamo che sono le nove ognuno di noi si dirige nella propria aula.
«Che succede Bella?» Mi chiede Melanie, che ha la
stessa mia lezione.
«Niente perché?»
«Oh ma dai! Si vede da lontano un miglio che siete entrambi
nervosi!» Esclama scoppiando a ridere. Io scuoto la testa e
la guardo, torturando con i denti il mio labbro inferiore.
«Può capitare no?» Mormoro prendendo
posto e lasciando la mia amica con mille punti interrogativi sulla
mente. La mattina passa freneticamente, tra un’aula e
un’altra, ogni tanto mi scuote un piccolo capogiro ma penso
che sia per colpa della situazione movimentata. Ho cercato Edward tra i
corridoi ma di lui nemmeno l’ombra, ho intravisto sua sorella
per mia sfortuna, e mi ha incenerita con lo sguardo, io l’ho
ignorata, non me ne frega nulla ora come ora. Non appena sto per
entrare nell’ultima aula della giornata la porta mi arriva
dritta in faccia, facendomi cadere per terra seguita da i miei libri.
«Oddio! Perdonami…ecco io. » Un ragazzo
biondo e con gli occhi in preda al panico inizia a urlare frasi
incomprensibili, gli faccio un cenno con la mano e mi rialzo. Tasto il
mio sedere, quello più colpito di tutti, fortunatamente e
scoppio a ridere, vedendo qual ragazzo pallido.
«Sta tranquillo! Sto bene.» Dico cercando di farlo
tranquillizzare. Prende i miei libri e me li porge sorridendomi
dolcemente…è davvero un bel ragazzo, nonostante
da qualche mese i miei gusti si sono limitati alla bellezza
irraggiungibile di Edward.
«Piacere. Io sono Mike.» Sussurra porgendomi la
mano. Io l’afferro e gli sorrido.
«Io sono Isabella.» Mormoro per poi entrare
finalmente in aula. Dietro di me, siede quel ragazzo di poco prima, e
non per essere eretica ma sta sfondando la mia schiena con il suo
sguardo, roteo gli occhi e comincio a contare i minuti che mi separano
dal pranzo.
«Pronto?»
Rispondo con un sospiro, notando il numero di Edward.
«Chi era quello?» Mormora sbuffando arrabbiato.
Roteo gli occhi, sapendo
esattamente di chi parla.
«Chi?»
«Lo sai, Bella. Apri la porta.» Stacca la chiamata,
facendomi scoppiare a ridere, rendendomi conto che non so assolutamente
il motivo che mi fa sorridere. Mia madre mi guarda con gli occhi
sgranati ed io le faccio un gesto con la mano facendole intendere che
è tutto okay. Apro il portoncino e poi la porta, mi
posiziono davanti ad essa e aspetto il campanellino che segna che
l’ascensore è arrivato.
«Ciao eh!» Esclamo non potendo nascondere un
sorriso furbo. Lui mi ignora ed entra in casa, sicuramente convinto che
io sia da sola, dato il comportamento strano che ha avuto il primo
giorno e l’ultimo, che ha incontrato mia madre. Mi prende
delicatamente per un braccio e mi stringe a sé. Io mi
arrampico su di lui e lo bacio con tutta la forza che possiedo,
facendogli capire che è stato uno stronzo con me, nonostante
anche io abbia sbagliato, facendogli capire quanto mi è
mancato tutto questo, nonostante non sia passato poi molto tempo. Le
sue mani accarezzano i miei fianchi e un gemito scappa dalle mie
labbra. Mia madre si schiarisce la voce ed Edward si stacca velocemente
dalle mie labbra, lo guardo arrabbiata e mia madre scappa in cucina.
«Potevi dirmi che c’era tua mamma! »
Esclama a bassa voce, per paura di farsi sentire.
«Scusa? Non mi hai chiesto se ero da sola.» Dico
incrociando le braccia al petto, gli lancio uno sguardo di sfida e lui
mi sorride ammiccando. Mi prende per mano e mi porta in cucina.
«Buonasera Reneé.
Scusa…io…»
«Non preoccuparti Edward. Come stai?» Gli chiede
mia madre sorridendogli e facendo in modo di metterlo a suo agio. Lui
scioglie l’intreccio che avevano creato le nostre mani e si
gratta il mento.
«Tutto bene grazie…e…tu?»
Balbetta combattendo con tutte le forze per dare del tu a mia madre. Lo
guardo in cagnesco e mi dirigo in sala. Non lo sopporto quando fa
così. Li sento parlare e noto che da quando sono uscita da
quella stanza parlano con più facilità, questa
consapevolezza mi rende nervosa e devi spiegarmi il motivo. Mi alzo dal
divano sbuffando e afferro la sua mano.
«Andiamo a fare un giro?» Gli chiedo cercando di
apparire dolce, tentativo vano si sente nell’aria il mio
nervosismo. Lui annuisce e saluta mia madre.
«Perché
ti comporti così? L’ho capito sai? Sono io che non
vado bene! Come sono uscita dalla cucina sei diventato subito
normale!» Urlo non appena entriamo in macchina.
«Bella…» Sussurra lasciando una
qualsiasi frase in sospeso.
«Niente Bella! Bella di qua, Bella di la! Basta Edward. La
prima volta non ho detto nulla, ma adesso ho sentito il bisogno di
estraniare questo pensiero con te. E devi dirmelo.»
«È complicato…»
«Cosa è complicato? Non c’è
nulla di complicato! » Urlo fuori di me.
«Raccontami meglio dell’incontro con
Jacob?» Mi chiede sviando l’argomento.
«Non cambiare argomento Edward! Dimmi il perché
del tuo comportamento, ed io ti dirò di Jacob. »
Mormoro guardandolo in cagnesco.
«Prima tu. » Mormora nella penombra
dell’abitacolo e…Dio…vorrei solo
saltargli addosso. Ora.
«No, tu. »
«Tu. »
«NO! Tu! »
«Dai Bella, prima tu! » Lo guardo amareggiata e
abbandono le braccia sulle mie gambe, arrendendomi facendomi capire
quanto testardo sia questo ragazzo.
«Perché l’ho visto parlare con una
ragazza, sicuramente la sua nuova fiamma, ma non importa. Ecco, lei ha
detto una cosa…ed io ho pensato che fosse Michelle.
» Mormoro guardandolo.
«Cosa ha detto? »
«Sta vendendo la nostra casa a Pankow, quel codardo di un
Cullen. » Dico, cercando di imitare la voce da oca di quella
ragazza.
«Descrivimela.»
«È più alta di me. Non molto magra, ha
il culo quanto una porta aerea! I capelli lunghi e biondo
platino…ah sì! Ha un neo vicino al labbro sulla
destra. » Mormoro pensando se c’è altro
da aggiungere.
«Quella è Rosalie. Non è Michelle e
sono amiche. Ho scoperto, da mio fratello – ex fidanzato di
Rosalie- che entrambe avevano intenzione di andare a vivere
lì. Una volta avermi sposato, Michelle, avrebbe avuto
metà dei miei beni. Avevano un obbiettivo, andare a vivere
da sole in quella casa. Una volta che Michelle mi avrebbe lasciato io
le avrei dato tutto…e Rosalie avrebbe preso il mio posto in
quella casa…»Mormora con lo sguardo cupo.
«Ah! Ma quindi Michelle e bisex? »
«No, sono amiche dall’asilo lei e
Rosalie…»
«Grande coppia, davvero…» Dico
sovrappensiero.
«Ma a te che importa scusa?» Mi chiede alzando di
qualche ottava la voce.
«Bè…così…sai,
credevo che Jacob mi tradiva quando stava con me…volevo solo
averne la conferma.» Un sorriso amaro, alle mie parole, si
forma nel suo viso e io mi do della stupida ancora una volta.
«Bella…»
«No Edward, ascoltami! È solo curiosità
la mia…non capisco perché tu debba fare
così. Dicono che quando amiamo, ma amiamo per davvero
faremmo di tutto per la persona in questione. Se io avessi davvero
amato Jacob…credo che avrei abortito per farlo felice,
certo, questo non toglie che mi sarei sentita in colpa tutta la
vita…ma mi sarei sacrificata per un amore vero. Quindi no,
Edward. Togliti dalla testa quello che stai pensando, perché
io so cosa. » Dico risoluta, sicura che questa è
la realtà dei fatti.
«Bella…dal primo giorno ho sempre avuto paura di
perderti. Paura che tu potessi sfuggirmi dalle braccia. »
Mormora triste. Io mi avvicino a lui e gli depongo un piccolo bacio
sulle labbra.
«Non puoi perdermi Edward. Sono qui. » Mormoro
puntando il dito sul suo cuore. «Come tu sei qui. »
Dico prendendo la sua mano tra le mie e deponendola sul mio di cuore.
Lui mi sorride e afferra la mia nuca avvicinandomi a lui, per poi
finalmente baciarmi per come si deve.
L’elettricità, che dal primo giorno,
c’è tra di noi si fa più presente,
attaccandoci come due calamite, chiudendo quella bolla che ora come ora
non potrebbe mai scoppiare, è forte, come noi, come quello
che proviamo verso l’altro.
Mi stacco dalle sue labbra e sorrido.
«Adesso tocca a te. » Dico sedendomi sul sedile del
passeggero.
«Bella…»
«Dai Edward! » Urlo scocciata.
«Okay. Ma non giudicarmi per questo, avevo solo quindici
anni. » Sussurra, io annuisco e inarco le sopracciglia.
«Il mio primo amore fu tua madre. La prima volta che la vidi
fu per una visita di controllo che fece mia
madre. C’era il sospetto che fosse vittima di un tumore al
seno…ma poi per fortuna erano solo dubbi. Per un mese
intero, ogni settimana mia madre si recava nel suo studio ed io volevo
sempre andare con lei. Per la prima volta mi ero
innamorato…la sognavo tutte le notte…anzi no, era
solo una cotta perché dopo qualche mese non ci pensai
più…» Rimango sbigottita, non riuscendo
ad immaginarmi Edward al fianco di mia madre. Lo guardo in modo strano,
in un modo che forse nemmeno io comprendo. La mia reazione ancora
più strana è quella di scoppiargli a ridere in
faccia.
«Quindi tu…volevi…con mia
madre…ahahahahaha, oddio! » Urlo tra le risa.
«No! Non ho mai pensato a tua madre…ed
io…ecco…no! Ma che ti salta in mente! »
Urla anche lui spaventato. Io lo guardo negli occhi e torno seria.
«Ma ti è passata sì? »
«Certo! Altrimenti non ti avrei mai più cercata.
Insomma, è una cosa assurda. »
«Oh, capita sai? Promettimi che però smetterai di
comportarti in modo freddo con me quando c’è lei.
» Sussurro.
«Scusa…io non volevo darti l’impressione
sbagliata…»
«Prometti! » urlo ridendo ancora.
«Prometto. E poi credo che lei non mi abbia riconosciuto.
»
«Credo anch’io. » Concludo scoppiando
ancora a ridere. La serata passa così, nella sua macchina, e
non importa se ha iniziato a piovere e fa freddo, siamo noi, nel nostro
stato perenne di impasse.
Eccomi!
Perdonate il ritardo…ma come dicevo l’altra volta
sto riprendendo il ritmo ;)
Grazie mille a tutte quante, per seguire, preferire e ricordare questa
storia!
Un bacione
A presto… I promise :D
Roby
<3
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** With Every Single Beat Of My Heart. ***
Just
A Little Woman.
With Every Single Beat Of My Heart.
Un mese
dopo.
Mi specchio per
l’ennesima volta, eseguendo sempre lo stesso
movimento con la mano destra; accarezzo in modo lieve il mio ventre,
adesso
gonfio e liscio, mancano solo quattro mesi. Ed io non vedo
l’ora che passino in
fretta. Oggi faremo l’ecografia morfologica,
scoprirò il sesso di mio figlio,
Edward verrà con me. Il nostro rapporto si è
solidificato in quest’ultimo
periodo, la sua gelosia, molte volte mi ha reso nervosa e scorbutica,
ma cosa
devo farci? Se penso alla totale indifferenza di Jacob, che aveva nei
miei
confronti, allora penso che sì, è molto bello
vedere Edward che si arrabbia se
Mike mi da attenzioni, è altrettanto fastidioso quando poi,
mentre siamo soli,
urla fino a quando io non scoppio a piangere. È ormai
così, lui s'ingelosisce,
litighiamo, io scoppio a piangere e poi lui mi chiede scusa. Non posso farne a meno,
ormai il mio cuore lo
ha intrappolato dentro di sé, rendendomi indipendente, da
una persona che
nonostante la gelosia sta imparando ad amarmi per quella che sono, sta
amando
mio figlio con me, i suoi calci, il suo farsi presente sempre, in ogni
momento
della giornata. Certamente mi sono chiesta più volte, nei
miei momenti di
rabbia, se è giusto innervosirmi così per Edward, essendo
consapevole di avere un
essere umano all’interno di me stessa. A volte, mi dico che,
invece, vale la
pena incazzarsi, perché Edward è così,
ti fa pentire di esserti affezionata a
lui, mentre un secondo dopo ti fa credere di essere la ragazza
più fortunata
del pianeta. Ho capito di amarlo, con i suoi pregi e difetti, ho
compreso che
la mia vita, la nostra, senza di
lui
sarebbe terribilmente vuota e spoglia. E adesso, mentre pettino i miei
capelli
in modo delicato, sorrido tra me, non vedendo l’ora che lui
suoni alla mia
porta, che mi dia un bacio e mi sussurra che sono bellissima. Mi sento
dentro
una favola, mi sento dentro qualcosa che non riesco a spiegare nemmeno
a me
stessa, immagino la mia vita, un domani, vedendola serena, con Edward e
mio
figlio al mio fianco, vedendo Edward come abile scrittore, vendendo
noi, nella
nostra splendida e sincera bolla d’amore. I miei pensieri,
come in ogni
situazione che ogni qualvolta mi si presenta davanti, sono troppo
affrettati.
In fin dei conti non so qual è il piatto preferito di
Edward, né se preferisce
il tè al caffè, il cioccolato al latte a quello
fondente, la coca cola o
l’aranciata, non ho nemmeno idea di quale sia il suo colore
preferito. Eppure,
dentro di me, sento che qualcosa ci sarà per noi, un futuro,
qualcosa di forte
e sincero. Qualcosa che ci rende indipendenti adesso per poi essere un
unico
essere domani. Qualcosa che se non va nel verso giusto potrebbe
annientare
entrambi. Mi hanno sempre insegnato che con i se, i ma e forse, non
andremo mai
avanti. Voglio prendermi quello che mi si para davanti, voglio sentire
il
sapore della libertà sulla mia lingua, voglio solo vivere
serenamente, senza
pensare mai al domani, senza chiedermi più di una volta se
quello che compio,
dico e penso sia sbagliato o giusto. Il campanello del citofono trilla
e dando
una rapida sbirciata all’orologio – che segna le
tre e quaranta – mi dirigo
nell’ascensore, senza rispondere, sicura al cento per cento
che è Edward.
«Ciao piccola.» Sussurra dandomi un bacio a fior di
labbra.
«Ciao.»
«Sei bellissima.» A quell’affermazione
roteo gli occhi
all’indietro, gesto che compio ogni volta, ogni giorno, a
quelle due semplici
parole. Sa benissimo che io non mi vedo bellissima, anzi, adesso,
contro ogni
previsione, mi sento carina. Perché ho il grembo che
evidenzia la mia
gravidanza, perché già la consapevolezza del mio
star diventando neo mamma mi
rende più sicura di me, ai miei occhi mi vedo diversa, con
le gote rosse il
viso più giovane di quello che magari realmente
è. L’Audi…qualcosa di Edward
parte a tutta velocità e in pochi minuti ci ritroviamo nella
strada principale
per l’ospedale. Sorrido tra me, non sono mai stata quel tipo
di persona che si
interessa alle auto, tant’è che, per quanto utile
sia, non ho ancora preso la
patente, ma quello che più mi fa rendere stupida
è che la gente può ripetermi
il modello della propria auto cento volte al secondo che io non
ricorderò mai
esattamente che tipo di macchina è. Afferro la mia piccola
borsa e Edward mi
guarda stupito.
«Come mai quella borsa così piccola?» Io
alzo le spalle e
gli sorrido.
«Non mi va di portarmi addosso anche il peso di una
borsa-valigia,
quindi…ho pescato questa dalli sgabuzzino e l’ho
presa.» Mormoro confusa.
«Oh, com’era?...Ah sì, “le
donne ci mettono la vita intera
dentro una borsa, Edward, non puoi capire”.» Dice
cercando di imitare la mia
voce, tentativo vano, poiché invece di sembrare me sembrava
una presentatrice
di Talk-Show. Scoppio a ridere insieme con lui, ricordando quel
pomeriggio,
quando per l’ennesima volta avevo acquistato una borsa
gigante, lui mi aveva
guardato dicendomi con gli occhi che era ridicolo comprare borse
così grandi,
ed io gli avevo risposto a tono. Smetto di ridere e lo guardo, mentre
lui lo fa
ancora. Gioisco, con ogni singolo battito del mio cuore nel vederlo
così sereno
e spensierato. Questo è l’amore no? Gioire quando
vedi la persona che ami sorridere.
Quando piangi se la vedi disperata. Quando urli perché ti fa
disperare, per poi
pentirti delle parole dette in quel momento. Sì, credo che
sia questo, ed io
sono follemente innamorata di questo pazzo geloso e pazzo di me. Non
appena
varchiamo la soglia del reparto, le mie gambe iniziano a tremare.
«Tesoro, calmati, andrà tutto bene…cosa
ti preoccupa?»
Sussurra aiutandomi ad accomodarmi nelle seggiole della sala reparto.
«Nulla…è solo
che…controlleranno se ha problemi di salute…e
ho paura.» Mormoro cercando di trattenere le lacrime, che
solo dopo qualche
attimo scorrono sul mio viso.
«Vedrai che andrà tutto bene. Stai tranquilla,
agitarti non
serve a nulla.» Mi dice deponendo un flebile bacio sulla mia
fronte. E
nonostante io sia pienamente consapevole del fatto che lui non
può di certo
evitare una qualsiasi complicazione nella salute di mio figlio, mi
sento più
tranquilla, non so se è a causa della sua vicinanza o
semplicemente dalla sua
voce, o forse è solo il mio bisogno di lui che minuto per
minuto si diffonde
sempre di più dentro di me. La dottoressa esce dallo studio
e ci fa cenno di
entrare. Mi chiede le solite domande di rito, legge i risultati delle
analisi
che faccio ogni mese e mi comanda dolcemente di stendermi sul lettino.
Lo
faccio e mentre alzo la mia maglia fino al seno, mi impongo di smettere
di
tremare, ma ovviamente lo faccio ugualmente. Fisso lo schermo,
momentaneamente
spento e inizio a disciplinare il respiro, la stretta di Edward nella
mia mano
aumenta di intensità e mi volto a guardarlo negli occhi. I
suoi occhi
splendenti e meravigliosi che promettono pace e tranquillità
emanano tenerezza,
specchio i miei occhi nei suoi e confondo i miei pensieri tra sogno e
realtà.
Mi sorride e stringo in automatico la sua mano. La dottoressa ci
sorride e
accende lo schermo.
«Miss Swan, dovrebbe mangiare di più…il
suo peso è rimasto
lo stesso dall’ultima volta.» Mi rimprovera con
sguardo dolce.
«Ma…mangio normalmente…non che io abbia
fame eccessiva,
anzi, quando non ho fame mangio lo stesso…per
lui.» Mormoro in difficoltà.
«Deve cercare di prendere peso…il piccolo
crescerà e lei
avrà bisogno di un corpo pronto e forte per le sue
esigenze.»
«Mangerà di
più…vedrà che la prossima volta
aumenterà di
peso.» Si intromette Edward facendomi sospirare di sollievo.
Il gel ghiacciato
a contatto con il mio ventre caldo fa ricoprire la mia pelle di
brividi. Lo
schermo si riempie di chiazze confuse ed io sospiro aspettando il
verdetto.
«Volete sapere il sesso?»
«Sì!» Esclamiamo all’unisono
Edward ed io, anche lui come
me, sta trattenendo il respiro. Come ogni volta, nel silenzio del
piccolo
studio, si sente il ritmo del suo cuore che scalpita. Edward rimane
imbambolato
e mi chiedo come faccia a essere così internato dentro
qualcosa che non è suo.
Come faccia, nonostante sia così geloso, a non provare
fastidio di un figlio
che non è suo. È come se fosse lui il padre,
anzi…forse fa molto più di quello
che fanno i padri solitamente.
La dottoressa clicca più volte su alcuni punti e ogni volta
cambia la posizione di quell’aggeggio, di qui ogni volta
scordo il nome, che è posto
sul mio ventre.
«Che cosa vorreste? Maschio o femmina?» Chiede
sorridendo.
«Maschio!» Esclama Edward, io lo guardo e scoppio a
ridere,
mentre intanto una lacrima di commozione lascia il mio occhio.
«Per me è uguale. Basta che sia sano.»
Mormoro spaventata.
«È un bel maschietto.» Sussurra dando il
colpo di grazia
alla mia agitazione facendomi scoppiare letteralmente a piangere. Torno
a
guardare lo schermo e lo vedo, tuto interno. Muove i piedini o almeno
così
sembra…e vicino alla testa credo che ci sia il braccio.
Allungo l’indice sullo
schermo e guardo la dottoressa.
«Quello cos’è?» Dico
riferendomi a quello che spunta all’altezza
della bocca.
«Sta ciucciando il pollice.» Mormora.
«Oh mio dio.» Mormoro piangendo a quella visione
così dolce
e commovente.
«È meraviglioso.» Sussurro mentre Edward
accarezza i miei
capelli.
«Ragazzi.
Ho controllato tutte le ossa. Quello principale
della colonna vertebrale è apposto, quello del setto nasale
pure…ragazzi, il
vostro piccolo è sano, manca solo qualche mese per
completare la crescita degli
organi. Dopodiché aspettiamo che nasca.» Annuncia
la dottoressa sorridendoci,
io scoppio a ridere, sono felice. Dopo settimane di attesa per
quest’ecografia,
dopo tutta l’ansia e la disperazione per il mio piccolo che
potrebbe aver avuto
qualche problema, adesso finalmente mi sento libera. Non appena
varchiamo la
porta d’uscita dell’istituto ospedaliero. Attiro
Edward a me, baciandolo in
modo rude e sconsiderato, riferendogli parole mai dette, mettendoci
amore e
passione. Lo desidero, come mai mi era successo prima d’ora
e, se anche so
benissimo che in un nostro qualsiasi rapporto sessuale io non ci ricavi
nulla
se non il suo compiacimento, voglio farlo, sento come se ne avessi
bisogno, quasi
quanto ho bisogno di lui. Lo desidero, da morire, con ogni singolo
battito del
mio cuore. Afferro il colletto della sua polo tra le dita e lo avvicino
più a
me, la mia pancia tonda sfiora la sua e i miei capelli con il vento
accarezzano
il suo viso. Le nostre labbra non si staccano un attimo, la mia lingua
cerca la
sua e sento che potrei morire da un momento all’altro.
Esploro la sua bocca, il
suo alito fresco arriva dentro di me scaldando il mio cuore e sorrido
sulle sue
labbra. Ci stacchiamo insieme e i nostri occhi si mescolano giocando
tra di
loro, un gioco fatto di parole sussurrate al vento, di sorrisi
promettenti, di
sguardi ingenui che piano diventano maliziosi. Afferro la sua mano e
con passo
felpato ci dirigiamo nella sua macchina.
«Hai visto piccola? È andato tutto
bene…» mormora con gli
occhi scintillanti.
«Sì…sono contenta.» Sussurro
guardando il suo profilo degno
di una scultura greca.
«Buongiorno
piccola.» Mormora Edward baciando le mie labbra.
Siamo sul cortile dell’università e oggi,
stranamente sembra essersi svuotata.
Lo stringo forte a me accoccolo il mio viso sul suo petto, le sue mani
accarezzano il mio ventre e mi sento meravigliosamente amata.
«Come stai oggi?» Sussurra battendo dolcemente dei
colpi sul
mio quasi-pancione e parlando direttamente con lui. Il piccolino che
scalpita
all’interno di me, inizia a farlo con più
frequenza in questi pochi attimi, l’effetto
Edward ha fatto colpo pure su di lui. Ho letto sul web che quando noi,
donne
gravide, ascoltiamo musica, litighiamo con la gente o semplicemente
piangiamo,
i piccoli al nostro interno riescono a percepire questo tipo di
emozioni, influenzandoli
in modo sottile, quindi anche lui, come me, si è accorto
della sconsiderata
tenerezza di Edward, del suo affetto che nutre per entrambi dal primo
giorno.
So bene che Edward si sente il padre di mio figlio, e anche se non
è il suo
papà biologico, sento che sarà il padre migliore
al mondo, i figli non sono di
chi li fa, ma di chi li ama con tutto se stesso e li cresce.
«Sono già le nove, è possibile che sono
tutti dentro?» Mi
chiede Edward confuso, io scuoto la testa perché questo
è l’ultimo dei miei
pensieri e ci dirigiamo velocemente dentro.
“L’istituto
oggi rimarrà chiuso a causa disinfestazione. Pertanto
vi invitiamo di tornare Lunedì prossimo.”
Scoppio
a ridere dopo aver letto attentamente l’avviso e
guardo Edward negli occhi.
«Perché ridi?»
«Perché non ci siamo nemmeno resi conto che la
scuola oggi è
chiusa! Eppure dovrebbero averlo detto più volte!»
Esclamo divertita. Lui mi
guarda interdetto mentre afferra con i denti la sua lingua, lo fa
sempre quando
deve arrivare alla conclusione di qualcosa.
«Edward! Siamo così occupati a interessarci a noi
che
magari, abbiamo dimenticato anche che l’università
è chiusa!» Rido ancora e
solo dopo che lui se ne rende conto mi segue a ruota. Guardo il suo
sorriso,
quello che prima di tutti mi ha fatto innamorare di lui e di slancio mi
butto
tra le sue braccia. Afferro il suo viso e lo bacio, mordo le sue labbra
che
sanno di zucchero, lui sorride sulle mie labbra e un calore mai provato
si
irradia all’interno di me. Lo guardo negli occhi e penso che
oggi sia tutto un
segno del destino. Afferro la sua mano e senza dire una parola ci
dirigiamo
nella sua auto.
«Dove la porto Madame?»
«Voglio andare a casa tua.» Sussurro, mentre la sua
aria
divertita si fa violentemente imbarazzata. Lui annuisce come un automa
e fa
partire l’auto.
Entriamo dentro casa sua quasi in silenzio, quasi perché se
non fosse per la ghiaia che ad ogni nostro passo urla. Nello stesso
esatto
momento togliamo le nostre giacche e le appoggiamo sul piccolo divano
dell’ingresso.
Rimaniamo immobili a guardarci a lungo e dopo qualche secondo Edward si
avvicina a me.
«Che facciamo?» Mi chiede dolcemente, protendendo
le braccia
verso di me, un invito ad un abbraccio che io colgo immediatamente
tuffandomi
su di lui. Annusa i miei capelli e non so che diavolo mi prende oggi,
ma ho una
voglia irrazionale di spogliarlo, di guardarlo nudo, di perdermi dentro
i suoi
sospiri, di guardarlo negli occhi e vedere ancora una volta che mi ama.
Mi alzo
in punta di piedi e raggiungo il suo orecchio mordendolo dolcemente.
«Edward…» Sussurro non trovando le
parole da dire.
«Mi farai morire.»
«Facciamolo insieme, allora.» A quella mia frase
sembra che
nel cervello di Edward si accende un campanello di allarme, mi afferra
da sotto
le gambe e mi porta in braccio sul suo letto, in modo urgente,
delicato. Mi
deposita sul letto ed io mi sento a disagio con i suoi occhi che mi
guardando
intensamente. Chiudo gli occhi per non provare questo certo senso di
imbarazzo
ma, non appena le sue dita sfiorano le mie caviglie da sotto il tessuto
dei
Jeans, sgrano gli occhi deglutendo. Lui mi guarda dolcemente e si
avvicina col
viso al mio ventre per poi depositarci un piccolo bacio pieno
d’amore.
«Bella…» Mormora a disagio.
«Oh, non chiedermelo Edward!» Urlo sembrando quasi
disperata. Lui scoppia a ridere e scuote la testa. Lentamente mi toglie
le
scarpe e subito dopo i pantaloni, nei suoi gesti
c’è devozione, cura ed è dolce
e competente. Guarda le mie gambe e un certo tremore si impossessa del
mio
corpo. Accarezza le mie gambe in modo delicato e composto, facendomi
desiderare
tutto ciò che potrebbe succedere da un momento
all’altro, ed è strano per me.
Ogni qualvolta si presentava l’occasione di fare sesso con
Jacob, io lo facevo
per accontentarlo, anche perché, più volte mi ero
tirata indietro per paura che
lui potesse cercare quello che io non gli davo in un’altra. I
primi periodi in
cui avevo scoperto delle gioie del sesso, che gioie non è
propriamente esatto,
non volevo saperne di averlo dentro di me, mi dava fastidio e mi
sentivo usata,
non ci ricavavo nulla se non il suo compiacimento. Adesso
invece…oh adesso è
tutto diverso. Lo voglio. Voglio Edward dentro di me. Voglio il suo
respiro
caldo sul mio corpo, sulla mia anima. Mi metto seduta e con il suo
aiuto lo
libero della maglia.
«Bella…sei sicura? Il piccolo potrebbe risentirne
ed io ho
così paura.» Sussurra tremendo anche lui come me.
«Ho parlato con la ginecologa e anzi, mi ha detto che gli fa
bene. Edward…io non ho mai saputo come dirtelo, ma io ti
amo. Non so se è
prematuro o magari può sembrarti stupido ma è
così. Ti voglio Edward e questo
non mi era mai successo. Voglio tutto di te, la tua mente, il tuo cuore
e la
tua anima.» Mormoro sicura delle mie parole, forse, per la
prima volta in vita
mia.
«Ti amo anch’io piccola mia.» Mormora
baciando le mie labbra,
promettendomi a modo suo che mi amerà fin quando
potrà. Stacco le nostre labbra
e ci guardiamo negli occhi per momenti interminabili.
Senza neanche rendermene conto siamo entrambi nudi sul suo
letto, e nonostante lui non mi abbia ancora fatto nulla sto ansimando
come un’ossessa.
I miei seni sono catturati dalle sue labbra e il suo membro preme con
forza
sulla mia gamba. Roteo gli occhi credendo che se non esco fuori di
testa oggi
non lo farò mai più. Accarezzo i suoi capelli e
le sue mani non smettono un
attimo di venerarmi con il loro tocco flebile e candido. Riesco a
percepire il
suo cuore che, furioso, batte come il mio. Riesco a sentire ogni
singolo
battito del nostro cuore. Delicatamente afferra i miei fianchi e sposta
le mie
gambe in modo che circondino il suo corpo, adesso seduto di fronte a
me.
Avvolgo le mie gambe sul suo bacino e in un attimo entra dentro di me,
portandomi con le sua braccia sopra di lui, portandomi con lui in
paradiso.
Rimane immobile dentro di me e mi guarda negli occhi, accarezzando il
mio viso
e mai nella mia vita mi sono sentita così felice, completa.
Afferro il suo viso
per l’ennesima volta e la mia lingua lambisce la sua
scatenando tutto quest’amore
in irrefrenabile passione. Mi muovo su di lui veloce, vogliosa e non so
cosa mi
sta succedendo perché questa volta, invece di sperare che
tutto questo finisca
al più presto, adesso desidero continuare
all’infinito. I nostri gemiti
riempiono il silenzio di questa stanza spettatrice del nostro amore, le
sue
parole sussurrate riscaldano il mio cuore e il suo respiro accarezza il
mio
corpo cullandolo. Inarco la schiena e lo sento ancor di più
dentro di me, i
miei seni balzano davanti al suo viso e scoppio a ridere notando il suo
sguardo
famelico. Lui mi sorride arrossendo e le nostre fronti si attaccano, i
nostri
occhi si incrociano come i nostri corpi, dando la
possibilità di fare lo stesso
con i nostri cuori. Due corpi e un’anima. Noi. Ad ogni
movimento sento come se
avessi una bomba programmata sul ventre che sta per esplodere. Lui mi
guarda
muovendosi forsennatamente, pompando dentro di me furioso e
terribilmente
eccitato. Esplodo in quello che è il mio primo orgasmo,
chiudo gli occhi
ansimando furiosamente, le sue mani spalmano i miei seni e mi sento
stordita,
ma follemente appagata. Edward spinge ancora dentro di me e non appena
sento il
suo seme caldo, dentro di me lo guardo. I suoi capelli sono
scompigliati, la
sua bocca è semi chiusa che lascia andare dei gemiti
appagati, i suoi occhi,
oggi più verdi del solito, non smettono un attimo di
scrutarmi, ed è
bellissimo, oggi più di ieri.
«Non so cosa mi stai facendo piccola mia.» Mormora
con il
respiro ancora affannato.
«Non chiedermelo.
Non lo so nemmeno io.»
Salve,
perdonate il ritardo! Ma non è un periodo facile, e, come
potete vedere non è un capitolo soddisfacente.
Perdonatemi,
per il ritardo e per tutto.
A
presto.
E
grazie, per continuare a seguirmi.
Un
bacione
Roby
<3
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** The Sky Of Berlin. ***
Just A Little
Woman.
The
Sky Of Berlin.
Guardo con aria
sognante il viso di quello che, da qualche
mese è diventato il ragazzo della mia vita, cercando di
trovare la forza di
volontà per staccarmi da lui e andare a preparargli la
colazione. Edward è
disteso supino al mio fianco, con le mani nascoste sotto il cuscino,
sembra un
bambino, un piccolo, dolce innocente. Mi alzo sbuffando, non pensando
alla
voglia irrefrenabile di restare qui e svegliarlo con i miei baci
delicati che
ama tanto. Un brivido di freddo mi pervade e velocemente infilo la
vestaglia. A
piedi nudi e incinta, mi dirigo nella sua cucina. Guardo fuori dalla
finestra e
mi rendo conto che il nuovo anno, questa volta, per me è
entrato alla
perfezione, facendomi permettere di pensare che questo 2013
avrà in serbo per
me un po’ di tranquillità. Il cielo di Berlino, lo
stesso che giornalmente mi
da speranza e voglia di andare avanti, voglia di diventare madre,
voglia di
essere sempre pronta ad accettare qualsiasi sfida mi proponga la vita,
il cielo
di Berlino oggi è cupo, ed è bianco, ed
è estremamente bellissimo. Inizio a
preparare l’impasto per i pancake e intanto metto sul
fornello la caffettiera.
Da quando sono gravida, odio il caffè, mi fa venire voglia
di rimettere, eppure
il suo odore, ancora oggi, mi tranquillizza, mi fa stare bene. Un
po’ come
Edward. Accendo il cellulare, spento da ieri pomeriggio sotto richiesta
di
Edward che famelico si era buttato sulle mie labbra. Non appena
appoggio il
cellulare sul tavolo, comincia a squillare e senza guardare il nome
rispondo.
«Pronto?»
«Bella! Ho mille cose da raccontarti!
Dov’eri?» Mi chiede una
Hayley euforica e allo stesso tempo arrabbiata per la mia breve
latitanza. Io,
Melanie e Hayley ci conosciamo dai tempi dell’asilo e mai,
sottolineo, mai, è
capitato di non vederci o semplicemente sentirci al telefono per
più di un
giorno.
«Ehm…sono a casa di Edward… si
è scaricato il cellulare e
non mi son accorta…» Sussurro balbettando, sicura
che non crede un minimo della
mia frase.
«Oddio! A quanto pare devi dirmi qualcosa.»
«Sì, ma quando ci vediamo, io, te e Mel. Adesso
spara!» Dico
facendola scoppiare a ridere.
«Sai quel ragazzo che ti dicevo…si chiama Gordon.
È
bellissimo. Siamo usciti ieri sera
e…oddio…» La mia amica continua a
parlare al
telefono con me, mentre io sorrido ad ogni suo gemito di apprezzamento
verso
questo ragazzo che, già, non vedo l’ora di
conoscere, Hayley è felice ed
euforica, ed io voglio capire se lui è all’altezza
della mia amica. Hayley
continua a strillare al telefono, di quando sexy ed elegante sia questa
nuova
fiamma, cerco di prestarle attenzione fino a quando non vedo Edward, a
petto
nudo con solo i pantaloni neri di una tuta che lascia intravedere
l’elastico
dei Boxer, i suoi capelli scompigliati e i suoi occhi ancora nel mondo
dei
sogni, ma mi squadrano e ci vedo eccitazione all’interno.
Rimango a fissarlo
immobile, il caffè fumante nelle tazzine, i pancake sul
forno, la voce
squillante di Hayley non esistono più,
c’è solo lui con il suo sguardo famelico
su di me, il cellulare mi cade dalla mano e, se solo avrei ancora un
piccolo
barlume di lucidità dentro di me lo raccoglierei dal
pavimento, invece, mi
avvicino lentamente al corpo caldo di Edward. La mia reazione lo fa
scattare
come un predatore che sta per acchiappare la sua preda, i suoi piedi
nudi
scattano nella mia direzione mentre gli vado incontro e, in un attimo,
mi
ritrovo stretta a lui. Ritrovo le sue mani su di me, sul mio corpo,
nudo dopo
qualche attimo, coì come il suo. La sua voce dolce e
delicata che mi ricorda
quanto mi ama, che parla al mio bambino che scalcia dentro al mio
corpo. Poi
sento lui, la sua anima, il suo amore e la sua passione, mentre entra
dentro di
me facendo uscire tutta la devozione che prova nei miei confronti. Ci
guardiamo
negli occhi, mentre spinge dentro di me come se non ci fosse un domani,
le
nostre labbra si sfiorano e sento che non potremmo essere
più completi e giusti
di adesso. Io e lui. In questo momento. Per sempre.
«Dovrei
tornare a casa…» Sussurro con la schiena
appoggiata
alla sedia, dopo una colazione più che abbondante.
Dopo…ehm…l’amplesso, abbiamo
fatto colazione e si sono fatte già le undici.
«Perché?» Chiede lui sconsolato.
«Sono tre giorni che non torno a casa, Edward.» Lui
annuisce
e mi aiuta a sparecchiare. Non appena sono pronta, usciamo di casa,
Edward mi
prende il braccio dolcemente e mi costringe a girarmi.
«Questa maglia non copre bene il tuo ventre.» mi
dice
contrariato.
«Sì, la pancia sta crescendo, ho bisogno di
vestiti nuovi.
Mi accompagni domani?» Lui mi sorride e mi da un bacio sulla
tempia.
«Ma certo.»
Non appena
arrivo a casa, l’odore di pollo fritto mi entra
dritto nelle narici, tolgo il cappotto e lo appendo
nell’attaccapanni insieme
alla borsa. Sento la voce di mia madre che arriva ovattata dalla
cucina, forse
sta parlando al telefono. Mi dirigo in cucina, trovandomi con sorpresa
abbastanza affamata, nonostante sia solo passata un’ora dalla
mia colazione.
Forse è l’attività fisica cui mi
sottopone Edward che mi fa venire voglia di
nutrirmi ogni qualvolta sento il profumo del cibo. Non appena varco la
soglia
della cucina mi si gela il sangue nelle vene.
«Che fai tu qui?» Chiedo arrabbiata.
«Tranquilla Bella.» Dice Jacob alzandosi dalla
sedia e
venendomi incontro, si ferma solamente quando nota che ad ogni suo
passo avanti
io indietreggio.
«Vattene via!» Esclamo facendo sobbalzare mia
madre, che
intanto asciuga le stoviglie. Mia madre lo guarda infuriata e sospiro
quando
comprendo che lei è dalla mia parte…per un attimo
ho creduto il contrario.
«Bella, ascoltami. Ho sbagliato con te, con voi…so
che non
c’è nessuna spiegazione al riguardo, ti chiedo
solo di ascoltarmi.» Sussurra
cercando di guardare i miei occhi, ma non ci riesce, scanso il mio
guardo dai
suoi di continuo. Mi avvicino al piatto con le crocchette di pollo e ne
afferro
una infilandola tutta in bocca…muoio di fame, non
m’importa che lui voglia
parlarmi, io ho fame. Mia madre scoppia a ridere non appena afferro la
seconda.
Mi pulisco le mani con un panno e incrocio le braccia al petto.
«Questa è l’ultima volta che ti concedo
di parlarmi Jacob.
Muoviti e falla finita con questa storia, stiamo bene anche senza di
te.»
Mormoro guardandolo sottecchi. Lui deglutisce e abbassa lo sguardo, non
riuscendo a sostenere il mio, stanco e incazzato.
«Bella. So di aver sbagliato con te e con nostro figlio. Ho
capito che ho fatto un errore, ma sono umano
anch’io…voglio riparare al mio
errore.» Il mio cuore smette per qualche attimo di battere a
causa dell’ansia
che questo suo discorso mi sta provocando.
«Come? Come intendi riparare quello che tu chiami errore,
quando invece la parola errore è un terribile
eufemismo?»
«Permettimi di ricominciare daccapo.»
«No, Jacob.» Mormoro non riuscendo a credere alle
mie
orecchie.
«Ti prego.»
«No, ho detto di no, basta. Vattene.»
«Fallo almeno per nostro figlio, Bella.» Sussurra
pregandomi
con lo sguardo. Io lo afferro per il braccio e lo sbatto fuori da casa
mia non
volendo ascoltare ancora la sua voce lagnosa da stupido e incosciente.
Sbatto la
nuca sulla porta e chiudo gli occhi chiedendomi quando
arriverà per me la pace
assoluta. MI siedo sul divano, cercando di guardare un punto fermo
della stanza
e ci riesco vedendoci il vuoto, il totale e assoluto buio che mi
circonda da
questo momento.
Per
l’ennesima volta sento quel bip fastidioso rimbombarmi
nelle orecchie. Apro gli occhi e proprio come immaginavo, sono
all’ospedale.
Ma, al contrario dell’ultima volta, ho solo una flebo
attaccata al braccio
destro.
«Bella.» Sussurra Edward iniziando a baciare le mie
guance
in modo delicato. «Cristo…» Continua a
sussurrare tra le labbra facendo morire
il suo respiro sulle mie guance e infine sulla mia bocca che bisognosa
cerca la
sua.
«Non devi farci questo.» Mormora appoggiando la mia
fronte
alla sua. Rimaniamo immobili, occhi negli occhi, nei suoi un vuoto che
lentamente si sta riempiendo, la paura che piano diviene gioia e il suo
amore,
il suo potente e sincero affetto che prova nei miei confronti, ogni
giorno
sempre più forte del precedente. I nostri sguardi si
interrompono grazie al
medico che con poca delicatezza apre la porta facendola sbattere
più volte nel
muro.
«Si allontani. La signora è debole.»
Dice con sguardo
infastidito. Arrossisco al “signora” dato che
comunque ho solo diciannove anni.
«Isabella. Non ha ancora capito che una gravidanza va
vissuta al massimo della tranquillità?» Mormora il
medico contrariato. Io
contraggo la bocca in una smorfia imbarazzata.
«La sto vivendo con tranquillità la
gravidanza.»
«Studiare le pare il caso?»
«Studiare non mi stressa. E mi serve, per dare un futuro a
mio figlio.»
«Non è questo il punto. Le analisi dicono
chiaramente che il
suo è stato uno svenimento in piena regola. La sua pressione
si era abbassata
pericolosamente e questo, molte volte, può provocare danni
al bambino.
Fortunatamente il piccolo è rimasto illeso…ma
deve evitare di provare emozioni
forti, stressarsi e, soprattutto, arrabbiarsi, la rabbia è
la cosa peggiore che
una donna in gravidanza può permettersi di
provare.»
«Se qualcuno mi fa arrabbiare non è colpa
mia.» Sbuffo
incrociando le braccia al petto come una bambina e cui sono state
appena negate
le caramelle…mi viene in mente immediatamente Jacob, non
comprendendo il motivo
principale e sospiro…è sempre stato lui la mia
croce, quel motivo per odiare me
stessa molte volte e lo stesso per il quale adesso mi trovo qui.
Vederlo mi ha
fatto arrabbiare, perché mi ricorda troppo mio padre, un
uomo senza
responsabilità, un uomo che non conosce amore, non conosce
affetto, non
immagina l’onore che potrebbe darti un figlio. Sbuffo
sonoramente incollata in quest’
odioso letto.
«Isabella…quello che voglio dirle è che
è troppo pericoloso
per lei avere certe reazioni. Eviti emozioni forti, sia negative sia
positive.
Lo vedo, mi accorgo dai suoi occhi quanto amore ha per suo figlio. Se
ne
ricordi, sempre.» Sussurra porgendomi la lettera di
dimissione e congedandosi.
Edward mi guarda preoccupato e si avvicina lentamente, aiutandomi a
rivestirmi.
Mentre usciamo dall’ospedale, ricordo bene i primi giorni
quando seppi di
essere gravida. La notte pregavo che Jacob venisse a lanciare un sasso
nella
finestra di camera mia, speravo cambiasse idea, speravo che
l’amore che credevo,
provasse per me fosse così forte che gli sarebbe bastato
riflettere un po’ di
più per poi capire che tenere questo piccolo esserino sia
l’unica soluzione, la
cosa più necessaria da fare, una priorità. Invece
i giorni passavano e di lui
nemmeno l’ombra, fino a quando non arrivò Edward a
salvarmi da quel mare dove
stavo annegando. L’amicizia di Edward non mi faceva pensare a
quello che stata
al di fuori di entrambi. Poi scoprii il mio amore per Edward e dal
giorno in
cui ebbi quella consapevolezza che non avevo bisogno di Jacob, non
avevo
bisogno di lui per mettere al mondo mio figlio. Avevo Edward e tutto
quello che
stava al di fuori dal nostro amore e da mio figlio, erano solo
sciocchezze,
cose che passavano per ultime nella scala dei miei interessi. Quando
Jacob mi
ha parlato l’ultima volta, citando “nostro
figlio” parlando di lui come se
fosse una cosa che gli appartenesse dall’inizio alla fine,
come se mio figlio
fosse anche il suo, quando invece ho sempre pensato di tenere mio
figlio
lontano dal padre biologico, proteggendolo da quella persona che prima
di tutti
lo aveva rifiutato. Ma adesso, nella mia mente si sviluppa una matassa
inconcepibile, facendomi chiedere più di una volta se il
ragionamento che ho
sempre fatto sia quello più giusto per mio figlio. Tante
volte ho evitato di
chiedermi come sarebbe stata la mia vita al fianco di mio padre, di
certo,
stare sotto lo stesso tetto di una persona che dal giorno in cui ha
saputo
della mia esistenza voleva già uccidermi, non rende la vita
facile. Ma è
possibile che mio padre, vedendomi tra le braccia di mia madre appena
nata,
guardando i miei occhi per la prima volta, che si sarebbe potuto
innamorare di
me mettendo da parte tutti i ragionamenti malsani che lo avevano
portato a quel
punto, facendo di noi una famiglia felice, potendomi dare affetto,
anche se non
avrebbe mai potuto immaginarlo. Non nascondo che per i miei compleanni
mi sono
sempre aspettata una telefonata da parte sua o, anche solo una lettera
di
auguri. Tante volte mi sono nascosta sotto le coperte piangendo per la
delusione, per la frustrazione del non essere accettata nemmeno dalla
persona
che ha contribuito a mettermi al mondo. Scuoto la testa, mentre alcune
gocce d’acqua
colpiscono la mia guancia, alzo gli occhi al cielo ed è come
se il cielo di
Berlino avesse un collegamento diretto con la mia mente, è
grigio, è vuoto…quasi
invisibile, ed è confuso, perché le nuvole sono a
sprazzo, come se volesse
spuntare il sole, ma qualcosa di più potente come la pioggia
non permette al
cielo di comandare in assoluto su se stesso. Stringo forte la mano di
Edward
che mi accompagna dentro casa. Mia madre non c’è,
e i tuoni rimbombano nella
casa facendomi confondere ancora di più.
«Tua madre…mi ha raccontato della visita di
Jacob.» Sussurra
finendo lì la frase, ma, facendomi
intendere che vorrebbe dire almeno un altro miliardo di
parole. Io
guardo i suoi occhi che sono indecifrabili. Una morsa inedita si fa
strada nel
mio stomaco e cerco di dire qualcosa, invece riesco solo a guardarlo e
aspettare che parli, scaturendo in me una paura mai provata.
«Che intendi fare Bella?»
«L’ho cacciato da casa Edward. Credo che tutto sia
chiaro.»
Mormoro diventando un pezzo di ghiaccio.
«Io ti conosco. Ci hai pensato, ci stai pensando e non
smetterai di farlo fin quando non prenderai per davvero una
decisione.»
«Questa cosa non ti riguarda Edward…»
Sussurro pentendomi
all’istante della frase che ho appena pronunciato. Lui
annuisce con forza,
facendomi sentire immediatamente in colpa e mi siedo sul piccolo divano
dandogli le spalle, comportandomi come una delle migliori codarde
esistenti al
mondo.
«Ho capito. Sì, certo. Io non sono nessuno,
qui.» Mormora
facendomi piegare la testa sulle braccia. Sento la porta di casa mia
sbattere
con forza e quel suono da il comando alle mie lacrime che escono dai
miei occhi
con forza, quasi rabbia. Mi accascio su me stessa e chiudo gli occhi,
aspettando che il mio respiro si regolarizza.
Sì.
Eccomi. Sono assolutamente imperdonabile. Il capitolo è
corto e fa schifo.
Purtroppo
( che poi non è neanche purtroppo) il mio tempo si
è ristretto ancora di più di
prima. Il mio piccolino ha iniziato con l’asilo ed io ho
cominciato la scuola
serale. Avevo pensato di sospendere la storia qualche volta, ma, il
problema è
che se anche il mio tempo è ridotto non riesco a smettere e,
soprattutto non
voglio lasciarvi per mesi e mesi senza un aggiornamento. Quindi
sì, la storia
continuerà fino alla fine, non intendo abbandonarla, solo
che non avrà
aggiornamenti impostati o ben precisi. Posso mettere un nuovo capitolo
una
volta a settimana, ogni due settimane o, magari che so anche due volte
a
settimana…tutto dipende dalla stanchezza e dai
tempi…è chiaro che se in una
giornata ho solo due ore libere non posso sprecarle a
scrivere…ma abbiamo i
sabati e le domeniche per questo no?
Spero
solo di non aver deluso nessuno…e scusatemi davvero, non
avevo intenzione di
abbandonarvi.
Un
bacione, spero di sentirvi ugualmente.
Con
affetto,
Roby
<3
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** First Snow Of The Year. ***
Just a Little
Woman.
First Snow of The Year.
Sono sempre
stata quel tipo di persona che crede che non
appena la vita intraprende una strada diversa da quella prevista, il
tempo si
congela. Rimanendo stabile, immutato, fermandosi in modo da dare il
tempo di
riprendere quel sentiero che per qualche ora avevi abbandonato. E
forse, tutte
le volte che la mia vita presentava un avvenimento triste o, comunque,
di quelli
che ti fanno desiderare che il tempo si fermi, il tempo si fermava. Il
cielo
rimaneva grigio, le lancette dell’orologio di fermavano di
scatto, non c’erano
sogni, la notte priva di stelle…c’era solo il
cervello che continuava a correre
sviando gli ostacoli di miliardi di pensieri. Adesso invece, in questo
preciso
instante il tempo sta accelerando, ed è proprio quando
desideri ardentemente
qualcosa che il tempo corre veloce non dandoti nemmeno il tempo di
soffermarti
a pensare. E così, seduta su una piccola Panchina a Pankow,
da ormai due ore,
aspetto che Edward spunti da qualche cespuglio, dato che, casa sua
è deserta da
ormai sette giorni. Da quella sera stessa mi sono resa conto
dell’errore
madornale che ho fatto, ferendolo nel profondo con due semplici parole,
tutte
le mattine –non vedendolo arrivare
all’università – mi sono recata qui,
ormai
la strada da qui a casa mia la posso percorrere anche ad occhi chiusi,
buffo
pensare che qualche mese fa ero qui disperata…quella volta,
come è capitato spesso
Edward era qui, venuto a salvarmi. Tante volte mi son chiesta se lui
fosse una
divinità scesa in terra per
aiutarmi…perché non appena sono in pericolo mi
basta il suo viso per tranquillizzarmi. Lui c’è
sempre stato, dal primo giorno.
Mi ha sempre tranquillizzata e sostenuta, aiutata nei miei momenti di
piena
ansia…ed io, io l’ho ringraziato come ogni persona
priva di umanità avrebbe
fatto. Mi odio per questo, ma non posso permettermi di pensare
all’odio che
provo per me stessa, devo salvare il mio rapporto con Edward,
nonostante questo
sembra impossibile. Rimango sorpresa da un fiocco di neve che
dolcemente si
adagia alla punta del mio stivale. Una lacrima riga il mio viso e mi
riporta
alla prima notte che io e Edward passammo insieme dopo aver fatto
l’amore.
I
nostri corpi nudi e avvinghiati, quella notte, si accarezzavano con
movimenti
necessari quasi automatici. Le sue mani calde accarezzavano dolcemente
le mie
braccia sparse nel suo petto…i brividi quella notte non mi
avevano lasciata
nemmeno per un attimo.
«Hai
freddo? » Mi chiese in un sussurro, forse per paura di
spezzare quell’atmosfera
unica e calda con il suono della voce.
«No…non
potrei mai avere freddo…non qui con te. » Mormorai
con le gote rosse pomodoro.
«Ti
piace la neve? » Mi aveva chiesto, io ero scoppiata a ridere
e avevo annuito
annusando con vigore il suo petto che sapeva di noi, di Edward, di uomo.
«La
prima neve voglio vederla con te…dicono che vedere la prima
neve dell’anno con
una persona importante porti fortuna nel loro rapporto. » Fu
in quel momento
che alzai il capo –stranamente ci riuscii- e guardai i suoi
occhi con un
trasporto che mai avevo sentito. Strabuzzai un attimo gli occhi e
sorrisi.
«Vedremo
la prima neve dell’anno insieme.»
Invece la prima
neve dell’anno è qui, adesso, ed io sono
qui, ma sono sola, completamente sola. Ricordo bene quando
nevicava…se magari
capitava che quel giorno il mio umore era pessimo, l’unica e
inimitabile cosa
che poteva tirarmi su era la neve. Ho sempre amato la neve, passavo le
notti a
guardarla dalla finestra, fin quando non mi addormentavo e mia madre mi
svegliava. Guardo il cielo, adesso bianco e omogeneo e per
l’ennesima volta
penso a come sia collegato con la mia mente, il mio umore, in questo
preciso
istante.
«La prima neve dell’anno.» Mormora un
voce troppo familiare,
troppo agognata. Mi volto, credendo di essere diventata pazza e che
sento la
voce di Edward ovunque. Mi alzo di scatto rendendomi conto che è lui, ed
è qui, ed è diverso dall’ultima
volta…troppo diverso. Edward non ha mai tenuto la barba per
più di due giorni
da quando lo conosco, adesso il suo viso è completamente
ricoperto da essa, è
strano da dire, ma sembra molto dimagrito, sotto i suoi occhi ci sono
dei
solchi e i suoi occhi sono proprio come il cielo di Berlino, omogenei,
immutabili, illeggibili. Rimango a guardarlo come se fosse una delle
opere pittoresche
più belle e rare che io abbia mai visto, una lacrima lascia
il mio occhio e per
l’ennesima volta non riesco a trattenere i singhiozzi che
prepotentemente
lasciano la mia gola. Non riesco a guardarlo in faccia, è un
pugno nello
stomaco. La consapevolezza di averlo ridotto in questo stato
è peggiore di
qualsiasi cosa mi sia successa fino ad oggi. Le sue braccia, nonostante
tutto,
sono sempre lì, aperte per me, invitandomi in un caloroso
abbraccio che non
merito completamente, non questa volta. Allargo le braccia, come a
volermi
scusare in qualche modo, ma, sono sicura che non basteranno due frasi
fatte e
un gesto pieno d’amore. L’amore è tutto
dicono, ma non in tutti i casi.
«È inutile piangere Bella. Anche se non
mi riguarda, devi pensare che le lacrime non fanno bene al
tuo
piccolo. » Mormora
con voce dolce, dopo
la punta – del tutto giustificata – di
acidità. Torturo le mie mani tra di loro
e rimango in silenzio, aspettando la fine di questi maledetti
singhiozzi.
«Che ci fai qui?»
«Non ti sembra ovvio?» Mormoro asciugandomi le
lacrime con i
polpastrelli delle dita.
«No, non dopo quello che mi hai detto. Non dopo quello che
ho saputo dalle tue labbra. Credevo che mi volessi nella tua vita anche
dopo la
nascita del bambino e invece…a quanto pare non è
propriamente così. Mi sono
sentito usato Bella. Vuoi sapere cosa mi è passato per la
mente in quel piccolo
istante?» Annuisco impaurita dal tono quasi minaccioso della
sua voce e evito
di incontrare il suo sguardo che insistentemente cerca il mio.
«Vuoi saperlo?» Urla avvicinandosi in modo rabbioso.
«VUOI DAVVERO SAPERLO BELLA?» Urla ad un centimetro
dal mio
viso. In automatico le mie mani vanno a proteggere il mio ventre e la
mia testa
si abbassa, facendo appoggiare il mio mento alla base del collo.
«Non picchiarmi, ti prego.» Mormoro spaventata. Il
suo
respiro che fino a qualche attimo fa mi stava sul collo, in un istante
sparisce. Sento le sue mani afferrarmi le braccia costringendomi ad
alzare il
viso. È arrabbiato, è diverso, è un
Edward che io non ho mai visto.
«Mi sono sentito tradito, per la seconda volta nella mia
vita. Solo come mai prima di allora, impotente come un malato costretto
a
letto. Hai confermato quelli che per giorni erano solo delle mie
supposizioni;
tu ami il padre di tuo figlio, hai solo cercato conforto nelle mie
braccia.»
Dice, sputandomi la sua versione di verità in faccia. Libero
un braccio dalla
sua stretta non tanto forte, non almeno quanto sembra essere e, con un
colpo
deciso la mia mano schiaffeggia il suo viso. Lui sgrana gli occhi ed io
invece
mi sento per l’ennesima volta terribilmente in colpa. Mi
lascia andare, come
una delle peggiori persone che siano capitate nel cammino della sua
vita e si
volta per andarsene.
«Non doveva andare così! Torna qui!»
urlo a squarciagola fregandomene
dei passanti che mi guardano in malo modo.
«Edward! Torna qui!» urlo ancora, ma niente, non si
volta
né, tantomeno, torna indietro. Inizio a correre ma lui
sembra essere sempre più
lontano.
«Edward! Ti prego! Torna qui!» Urlo disperata, con
le
lacrime che mi appannano la vista. Colpisco con il gomito alcune
persone
accorgendomene solo dai loro sguardi omicida. Arrivo
vicinissima fino ad afferrare il suo
giubbino con le dita. Sbatto furiosamente la faccia sulla sua schiena e
lui,
finalmente, si ferma. Le mie mani cingono la sua vita e le mie labbra
baciano
quello che riescono a baciare. Lo tengo stretto a me per paura che
potesse
continuare a camminare, per paura che potesse riuscire a dimenticarmi.
«Non andare via Edward, ti prego.»
«Mi hai fatto male Bella, tanto.» Sussurra con la
voce roca.
Rimaniamo in quella stessa posizione per minuti, forse ore…i
passanti ci
guardano, alcuni fanno finta di niente altri ci passano a fianco
ridendo,
eppure noi rimaniamo così per un tempo lunghissimo.
«Perché
non sei tornato più a casa tua da…bè
da quel giorno…»
Mormoro guardando il liquido caldo all’interno della mia
tazza.
«Non mi andava, rimanere chiuso in un luogo, tante volte
è
la cosa peggiore da fare…tu come fai a saperlo scusa?
» Chiede inarcando le
sopracciglia. Io lo guardo e un sorriso amaro prende vita tra le mie
labbra.
Lui mi guarda e scuote la testa.
«Non è stata la cosa migliore, rimanere
lì davanti per
giornate intere, Bella.»
«Invece sì, perché solo in questo modo
sono riuscita a
vederti. » Sussurro sicura che aspettare tutte quelle ore,
con il gelo
attaccato alle gambe e al cuore, siano state efficaci,
perché se fossi rimasta
a casa mia a crogiolarmi nel mio senso di colpa adesso sarei ancora
lì, stesa
nel mio letto a contare tutte le imprecazioni d’odio verso me
stessa.
«Non fa bene a tuo figlio.» Mormora.
«A mio figlio fa bene la felicità. La mia sei tu.
Io so di
aver sbagliato Edward, non c’è nessun motivo per
giustificarmi di quello che ti
ho detto. Non sapevo che fare, non venivi
all’università, non rispondevi alle
mie chiamate, mi sembrava l’unico modo. Oggi ci stavo anche
perdendo le speranze,
credevo che fossi partito…credevo che ti avrei visto mai
più. Invece,
nonostante questa sia stata una delle settimane più
infernali della mia vita,
mi ritrovo qui con te. Anche se non siamo quelli di sempre, ma siamo
qui,
insieme, noi.» Lui mi guarda negli occhi e inizia a bere il
suo cappuccino. Io soffio
ancora sul mio tè che sembra non volersi mai raffreddare,
forse scottarmi
sarebbe la giusta punizione. Finiamo, finalmente, la nostra colazione
ma
rimaniamo in silenzio, facendoci intendere che non abbiamo ancora
risolto
nulla, eppure io sto bene, perché lui è qui,
nonostante il suo stato, il suo
sguardo che potrebbe uccidermi in un millesimo di secondo.
«Quindi?» Gli chiedo guardandolo negli occhi.
«Quindi non lo so Bella.»
«Vuoi lasciarmi?» Gli chiedo con una punta di
disperazione
nella voce. Lui non parla, si alza dal tavolo e mi lascia
lì, con mille
preoccupazioni. Scoppio a piangere guardando il tavolo di legno della
tavola
cada dove fino a qualche attimo fa ci abbiamo consumato la colazione
insieme e
mi rendo conto che adesso è troppo, il dolore in questo
preciso istante
minaccia di ridurre in piccoli frammenti il mio cuore. Mi alzo dal
tavolo e mi
dirigo fuori, ma, con grande sorpresa da parte mia Edward è
fuori che mi
aspetta, appoggiato alla sua macchina. Ha un sacchettino nero tra le
mani e
cerca in qualche modo di sorridermi, corro verso di lui e mi fermo non
appena
un metro ci divide. Mi porge il piccolo sacchettino ed io lo afferro ma
non lo
apro.
«Te lo avevo comprato quel giorno stesso. Di certo quella
sera non mi è sembrata l’occasione adatta per
dartelo. Quindi ecco qua. Aprilo,
se non ti piace siamo ancora in tempo per cambiarlo.» Mi
sorride ed io mi sento
ancora più terribilmente in colpa, l’ho trattato
da schifo, eppure, lui,
adesso, qui, pronto
a darmi un’altra
possibilità, pronto a capirmi…apro il sacchettino
e dentro ci trovo un
braccialetto d’oro bianco. C’è una
targhetta dove ci sono incisi dei nomi: Isabella,
……, Edward. Fisso quei puntini
tra i nostri nomi e immediatamente capisco che devono essere sostituiti
con un
nome.
«Non hai ancora scelto il nome…quindi ho preferito
farlo
così. Non appena nascerà potremmo metterci il suo
nome, sempre se sei d’accordo.»
scoppio a piangere e mi getto sulle sue braccia, le nostre labbra si
avvicinano
assaporandosi tra di loro in un contatto che ad entrambi era
terribilmente
mancato. Accarezzo i suoi capelli e i nostri occhi non si lasciano
nemmeno per
un attimo.
«Dimmi che mi ami.» Mormora appoggiando la sua
fronte alla
mia.
«Ti amo. Ti amo. Ti amo. Ti amo. Ti amo.» Sussurro
strofinando la mia guancia con la sua. Mi abbraccia forte facendomi
sentire
amata, nonostante il mio terribile comportamento lui è qui,
come sempre, da
sempre.
Nella penombra
della sua camera, i suoi occhi mi danno la
via giusta per proseguire. Il mio corpo nudo e inesorabilmente eccitato
è
incollato al suo. Il suo membro preme in modo prepotente sul mio basso
ventre
mentre i suoi baci e le sue carezze riempiono il mio viso. Accarezza il
mio
pancione con trasporto, facendomi intendere che è una delle
cose che più gli è
mancata in questi giorni bui. Afferro le sue spalle possenti tra le
mani e mi
tiro su, sedendomi sul suo stomaco. Come se lei sue mani fossero due
calamite,
si attaccano in modo rude ai miei seni, li palpeggia e li accarezza con
dolcezza, ma nei suoi gesti c’è passione, voglia
di perdersi dentro di me di
amarmi. Mi alzo e con un piccolo movimento mi risiedo facendolo entrare
completamente
dentro di me. Un gemito strozzato lascia le nostre bocche
all’unisono.
Inizio a muovermi
su di lui in modo
lento, assaporando tutto quello che mi sono persa in questi ultimi
giorni. La
neve sta ancora cadendo, attecchendosi al suolo, creando
l’atmosfera giusta per
questo momento nostro. Le sue mani sfiorano dolcemente i miei fianchi e
mentre
mi muovo in modo circolare, guardo il suo viso, contratto dal piacere,
i suoi
occhi che si chiudono ad ogni spinta, la sua bocca che ansima, non
appena noto
la sua lingua che sbuca dalle sua labbra un vortice di estremo piacere
mi porta
mentalmente via da quel momento magico. Continuo a muovermi su di lui
mentre
ansimo in modo, davvero, poco nobile. Sento la sua presa farsi
più pressante sui
miei fianchi, il suo sperma che a schizzi mi riempie. Sento il mio nome
sussurrato
innumerevoli volte, piango in modo lieve e silenzioso, ringraziando la
vita che
mi ha ridato Edward, quando credevo di averlo perso per sempre. Mi
accascio su
di lui, non desiderando nient’altro se non questo contatto
intimo e nostro,
indissolubilmente nostro.
«Era destino.» Mormora sui miei capelli.
«La prima neve dell’anno, insieme.»
Sorrido teneramente a
quella sua affermazione e lo abbraccio talmente forte che mi meraviglio
della
forza che posso metterci in un nostro abbraccio.
«Quindi
non hai ancora scelto il nome?» Mormora Hayley
mentre digita il testo di un messaggio.
«No.» Sussurro distrattamente allacciandomi le
scarpe, cosa
che da qualche giorno a venire sta diventando un’impresa.
«Quando dovrebbe nascere?»
«Tra circa tre mesi esatti. Il termine è fissato
per il 13
Maggio.»
«Siamo ancora a Febbraio. Non vedi l’ora che
nasca?» Mi chiede
sorridendo, né lei né Melanie sono state messe al
corrente della mia litigata
con Edward. Non volevo dare loro anche questo piccolo problema e poi,
ne sono
sicura, mi avrebbero rimproverata e si sarebbero arrabbiate troppo con
me. Sono
venute a conoscenza della proposta di Jacob. Progetto che avevo
eliminato fin
da subito ma che adesso mi da qualche dubbio. Ho bisogno di parlarne
con
Edward.
«Non è ovvio?» Dico scoppiando a ridere.
«Speriamo che assomigli solo ed esclusivamente a
te.» Dice
ridendo mentre io annuisco. Non appena il campanello di casa mia suona,
guardo
l’orologio e sorrido, la mia amica capisce dalla mie reazione
che è Edward e mi
saluta. Non appena apro la porta mi tuffo sulle sue labbra, tra le mani
ha un
mazzo di fiori colorati, me lo porge ed io scuoto la testa.
«Mi stai viziando troppo.» Mormoro alla ricerca di
un vaso
adatto.
«È solo una sciocchezza. Hai pensato al
nome?» Mi chiede
accarezzando il mio viso con l’indice.
«No, voglio sceglierlo con te. E voglio parlarti di una
cosa.» Sussurro dandogli un rapido bacio sulle labbra
vellutate.
«Dimmi tutto.» Si siede sulla seggiola della cucina
e io lo
imito.
«Ho riflettuto alla proposta di Jacob. Per prima cosa
però
voglio che sia chiaro un concetto; io amo te Edward, solo te, dal primo
giorno,
in modo forte e sincero. Credevo di amare Jacob quando ci stavo
assieme, invece
fino a quando non sei arrivato tu io dell’amore tra due
persone non sapevo
niente. Tu mi hai insegnato ad amare, mi ha fatto capire il vero valore
del
termine amore. Quindi ti prego di scrivertelo a mente, io ti amo e non
cambierò
idea…amo solo te, esisti solo tu, per me e per mio figlio.
» Lui mi sorride
emozionato ed io vorrei baciarlo fino a consumargli le labbra, vorrei
spogliarlo in modo veloce e passionale, vorrei perdermi dentro di lui
per l’ennesima
volta come se ogni volta non fosse mai abbastanza. Mi alzo dalla sedia
e mi
siedo sulle sue gambe.
«Vedi Edward, io sono cresciuta con mia madre. Ho avuto lo
stesso destino che h avuto mio figlio, fino a quando non sei arrivato
tu. Hai
accettato questo piccolo come se fosse tuo, e lo è.
Perché tu lo ami, i padri
amano i figli, e tu stai diventando anche padre, perché
è come se lo avessi
fatto tu. L’amore che ci metti quando mi parli di lui
è come quello di un padre
vero, amorevole. Io non ti considero solo come l’uomo della
mia vita, ma anche
come il padre di mio figlio. Ovviamente, lui ti vedrà sempre
come suo papà, ma
prima o poi verrà a conoscenza della verità. Ho
paura Edward. Perché se fino a
qualche periodo fa era Jacob a non volerlo, adesso sono io che non
voglio lui
nella vita di mio figlio. Da grande potrebbe non perdonarmelo mai.
Questa cosa,
sempre se sarà effettiva, non intaccherà in
nessun modo il mio amore per te, la
mia considerazione nei tuoi confronti. Solo che non voglio avere
problemi in un
futuro con mio figlio. Voglio solo qualche consiglio da te, voglio fare
assieme
a te anche questa cosa. Ho bisogno di te, come ieri, oggi e anche
domani.»
Mormoro un po’ spaventata per quella che potrebbe essere la
sua reazione.
Invece lui mi guarda in modo riflessivo, senza far trapelare emozioni,
che
siano positive o negative. Mi afferra per la nuca regalandomi un bacio
magico,
colmo d’amore.
«Faremo come meglio credi. Sono d’accordo con te.
Chiamalo,
digli che sei d’accordo.»
«No, se vorrà davvero far parte della vita di suo
figlio
sarà lui a farsi avanti. E poi non voglio restare da sola
con lui Edward.
Voglio anche te, perché tu sei la mia sicurezza, il mio
porto sicuro, ho la
certezza che con te al mio fianco non potrebbe mai succedermi
nulla.» Lui
annuisce e mi abbraccia.
«Non posso pensare alla mia vita senza di te.»
Sussurra
regalandomi una lacrima di commozione.
«Non possiamo vivere senza l’altro, è
impossibile.» Quello
era il nostro destino. Noi, insieme, per sempre, nonostante tutto. In
questi
ultimi mesi la mia vita aveva preso una svolta che stento quasi a
ricordare la
mia vita prima di Edward. Lui è la mia vita, e senza la vita
nessuno può
vivere.
Grazie di tutto,
per ogni singola cosa.
Roby <3
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** He's father. ***
Just A Little
Woman.
He’s
Father.
Oggi
c’è il sole a Berlino, uno di quelli che scalda il
cuore delle persone. Afferro i vestiti, puliti, di Edward
dall’asciugatrice e
li piego accuratamente prima di infilarli nel cesto della roba da
stirare. Lui
è appena uscito a prendere la pizza, non ho mai mangiato la
pizza a pranzo,
forse è per questo che mi sono ritrovata sorpresa alla sua
richiesta di
pranzare con la pizza. Per abitudine ho sempre mangiato la pizza per
cena,
dicono che quando ti innamori, quando conosci persone nuove, le
abitudini cambiano,
la vita si sconvolge sia in modo positivo sia in modo negativo, anche
le
piccole cose, quelle che prima non facevi nemmeno caso di compiere
cambiano.
Cerco di dare una rapida sistemata in cucina e apparecchio. Ho chiesto
a Edward
di smettere di chiamare Karol per le pulizie, volevo occuparmene
personalmente,
ma lui mi ha sinceramente detto di no, anzi, si è persino
arrabbiato, devo
stare a riposo, il problema è che non ci riesco. Non sono
mai stata abituata a
stare sul letto tutto il giorno. Sbuffo sonoramente agli occhi di
Edward,
facendogli capire quanto tutte queste attenzione, per quanto mi
lusingano, mi
rendono nervosa e instabile.
«Non
ti piace la pizza?» Mormora, dopo avermi osservata a
lungo mentre con la forchetta rigiro la mozzarella.
«Sì…è
buona.»
«Cosa
c’è che non va?»
«Niente.
Non mi piace il fatto di dover stare ferma tutto il
giorno. Siete tutti quanti ansiosi, tu, mia madre, Hayley, Melanie,
persino mia
nonna! Che non lo era mai stata prima
d’ora…» Alzo di poco la voce e abbandono
la
forchetta nel cartone della pizza.
«Tesoro,
è normale. Sei già stata troppe volte in
ospedale.
Lo facciamo per te e per il tuo piccolino. Adesso mangia. Vedrai che
questi
ultimi mesi passeranno in fretta.» E come sempre, regalandomi
il suo sorriso,
mi fa dimenticare quelle poche ragioni che avevo per essere arrabbiata,
annulla
i miei pensieri, mi aggiusta l’umore, mi rende felice come
nessuno riesce mai.
Non abbiamo scelto il nome e non so nemmeno se ho voglia di sceglierlo
adesso…forse sarà il suo viso che
potrà darmi l’illuminazione, forse è
solo
conoscendolo che posso etichettargli il suo nome, quello più
adatto, quello più
bello, come sarà lui. Finiamo la pizza e usciamo da casa
quasi subito. Prima
della litigata Edward mi aveva promesso un giro per negozi per i
vestiti
pre-maman giacché oramai metto solo maglioni lunghi e
leggins, morirò congelata
di questo passo.
«Questo?»
Sussurra roteando gli occhi al cielo, mentre mi
mostra un paio di Jeans con il cinto morbido e alto. Scuoto la testa e
scoppio
a ridere. Siamo qui da ormai un’ora ed entro al mio piccolo
carrello ci sono
solo un paio di pantofole a forma di cane, volevo prenderne un paio
anche a lui
ma a giudicare dalla faccia che ha fatto vedendo le mie ho preferito
evitare.
«Ho
fame.» Dico ad un certo punto mentre dentro al camerino
provo un paio di pantaloni. Edward apre la tendina e sorride.
«Sciò!»
Urlo imbarazzata e allo stesso tempo divertita. Lui
chiude la tendina e scoppia a ridere. Afferro i pantaloni ed esco dal
camerino.
«Questi
li prendi?»
«Sì.»
Sussurro sfiorando le sue labbra con le mie. Ci
precipitiamo alla cassa, ma proprio mentre afferro il mio bancomat noto
un
sacchettino tra le mani di Edward. Lo guardo con fare negativo ma lui
scuote la
testa. Pago le pantofole e i pantaloni ed usciamo.
«Cos’hai
lì?»
«Hai
fame no? Dolce o salato?» Mi chiede cambiando
discorso, ma purtroppo non ribatto, dato che la mia fame è
talmente che potrei
svenire su una ciambella ricoperta di cioccolato e nocciole frullate.
«Dolce.»
«Dolce
sia.» Prende la mia mano con dolcezza ed entriamo in
una pasticceria a pochi metri dal negozio di poco prima. Fortunatamente
trovo
quello che cercavo e lo ordino accompagnato da due cupcake e un succo
al
mirtillo. Edward non prende niente e rimane a guardarmi per tutto il
tempo.
«Mi
imbarazzi se mi guardi mentre mangio!»
«Nah,
smettila. Sei bella, soprattutto quando mangi.» Chino
la testa sul piattino ormai vuoto anche delle più piccole
briciole, e mie
guance rischiano di esplodere da un momento all’altro.
«Non
puoi ancora imbarazzarti Bella.» Mormora tenero.
«Anzi,
dovrai abituarti.»
«Non
posso abituarmi a te Edward. Devo solo viverti giorno
per giorno.» Mormoro guardando i suoi occhi un attimo prima
di affondarci
definitivamente, dimenticando il mio nome, persino me stessa.
I baci con
Edward non erano mai uguali. C’era sempre
qualcosa di diverso, il sapore, il calore, il ritmo, i brividi. Come
potevo
abituarmi a lui se ogni cosa che facevamo, anche se non era la prima
volta, era
sempre diversa, più intensa, più vera. Accarezzo
i suoi capelli, morbidi e
assolutamente bellissimi e mi perdo un attimo nei suoi occhi. Ho sempre
avuto
un debole per i suoi occhi fin dal primo giorno. Sono sempre stati come
il
cielo di Berlino; speranzosi, sono sempre stati quella specie di
medicina che
guariva ogni tipo di mio malessere. Tante volte mi sono persa dentro
quella
miriade di emozioni e ancora oggi non c’è modo per
il quale io possa fuggire
dal suo sguardo magnetico, forse non è che non trovo io
modo, forse sono solo
io che voglio che lui catturi la mia anima dentro di sé. Il
mio cellulare
squilla e di soprassalto mi alzo dal letto. È mezzanotte e,
come prevedibile,
mia madre è a lavoro sono parecchio ansiosa quando si tratta
di lei.
«Pronto?»
Rispondo senza guardare il numero.
«Bella…»
La sua voce mi gela sul posto ancora una volta,
facendo salire la mia rabbia a chilometri di altezza, facendomi
imbestialire
senza che abbia detto qualsiasi cosa…senza pensarci mezza
volta premo sul
display la voce “vivavoce” Edward mi guarda alzando
un sopracciglio ed io non
posso fare a meno di perdermi per un attimo nella peluria leggera del
suo
petto.
«Bella
ci sei?» Sussurra ancora la voce. L’espressione di
Edward è tranquilla e qualcosa nel suo viso mi incita a
rispondere.
«Dimmi
Jake.» Gracchio dopo qualche minuto di silenzio.
«Come
stai?» Sussurra sospirando.
«Questo
ti importa perché?»
«Il
bambino come sta?»
«Smettila
Jacob. In tutti questi mesi non te n’è fregato un
bel niente! Non puoi spuntare dal nulla e dire: “ sono pronto
per diventare
padre.” Tu non puoi esserlo, non è nel tuo DNA,
forse in questo periodo ne
senti il bisogno, ma sarà come un videogioco nuovo, dopo
averlo usato ti
stancherai, ed io non posso permetterti di fare così con
lui…non con mio
figlio.»
«Senti,
Bella, ne abbiamo già parlato. O mi dai questa
fottuta possibilità, oppure sparirò per sempre
dalla tua vita.»
«Per
me sei già sparito da un pezzo Jacob Black.»
«Non
farmi sparire dalla vita di mio figlio però.» Non
appena pronuncia la parola “figlio” sento il
desiderio di averlo qui per
prenderlo a calci nel sedere, eppure rimango in silenzio. Ho pensato
molto alla
prospettiva di un ravvicinamento di Jacob nella vita di mio figlio e,
per
qualche piccolo secondo, avevo accettato la cosa, solo per amore di mio
figlio,
solo di dargli la possibilità di conoscere il suo vero
padre, ma adesso, in
questo momento sono confusa più che mai. Guardo gli occhi di
Edward, lui mi
guarda in modo tenero e annuisce.
«D’accordo.
Quando nasce ti farò sapere!»
«No,
no, no, no! Bella. Io voglio esserci già da
adesso.»
«Adesso?!»
Quasi urlo.
«Anche
da domani.» Scoppia a ridere e questo non fa che
aumentare il mio desiderio di ucciderlo. Edward mi intima di calmarmi
ed io
respiro forte. Gli passo il telefono ma lui rimane in silenzio, lo
imploro con
lo sguardo e dopo un po’ sbuffa.
«Pronto?»
«E tu
chi sei?»
«Il
mio futuro marito!» Urlo sotto lo sguardo confuso di
Edward.
«Ehm…sì.
Ciao Jacob io sono Edward.»
«Ciao.»
Risponde con astio. Mordo un attimo le mie dita ma
lo sguardo suicida di Edward mi colpisce immediatamente facendo
staccare la mia
mano dalla bocca. Edward comincia a parlare, la sua voce è
piuttosto calma ma
io non riesco a sentire ciò che si dicono…e so
che magari è molto egoistico da
parte mia –dato che stanno comunque parlando di mio figlio!-
ma non posso fare
a meno di guardare le mani di Edward, il suo modo di gesticolare mentre
parla,
la sua fronte che si corruga quando deve realizzare qualcosa, la sua
bocca così
fine e altrettanto sexy che si muove a ritmo. Tutto a un tratto mi
sento
terribilmente accaldata nelle mie parti più nascoste. Cerco
di darmi una
controllata e mi dirigo in bagno sciacquandomi la faccia con
l’acqua fredda,
con la coda dell’occhio vedo quel famoso sacchettino che oggi
aveva catturato
la mia attenzione, quello che avevo dimenticato per colpa della
ciambella. La
curiosità è donna dicono. Lo apro senza fare
rumore e ci sono delle piccole
sacche di stoffa, due rosa, una blu e tre bianche. Afferro la prima,
una delle
due blu e c’è un body piccolissimo con un
disegnino stampato –una macchinina- e
una frase “la macchinina del mio papà”,
la seconda blu rivela un baby-doll molto
sofisticato e poco, davvero poco, casto. Un sorriso tenero sfiora le
mie labbra
al ricordo del suo imbarazzo improvviso quando gli ho chiesto cosa
conteneva
quel sacchetto. Mi dirigo in camera non guardando il resto, sperando
che lui li
tiri fuori il più presto possibile. Il mio cellulare
è nel comodino Edward mi
guarda senza proferire parola, comincio a guardare tutto ciò
che mi circonda
meno i suoi occhi, che potrebbero farmi paura in momenti come questo.
Mi siedo
al suo fianco e fisso le lenzuola azzurre contornate di merletti a
forma di
rose blu.
«Non
mi chiedi cosa mi ha chiesto?» Mi dice con la voce
tranquilla, o, forse, sono solo io che la sento in questo determinato
modo.
Trovo il coraggio di guardare i suoi occhi, come sempre limpidi e
speranzosi,
con una punta di allegria mista a nervosismo. Questo è
Edward. A volte credo di
conoscerlo meglio di quanto io conosca me stessa, altre volte, invece,
credo di
averlo appena conosciuto. Non riesco mai a leggere in modo perfetto le
sue
espressioni. L’unica cosa che conosco di lui come le mie
tasche, in ogni
momento, è l’amore profondo e semplice che riesce
a darmi anche solo con la sua
voce. Continuo a guardarlo e lui mi sorride.
«Domani
vuole vederti.» Sussurra.
«Vederci.» Lo
correggo, ricordandogli che io senza di lui non ho intenzione di avere
a che
fare con Jacob.
«Ha
detto che non occorre la mia presenza.»
«Non
per lui. Ma per me occorre, eccome se occorre Edward.
Ne abbiamo già parlato.»
«Lo
so. Sei sicura Bella? Sicura di volere che tuo figlio cresca
con due genitori separati? Sei sicura di sapergli rispondere non appena
crescerà
e ti chiederà il perché?... >>
«Basta
Edward! Sono sicura di ricordarmi per sempre la
pugnalata che Jacob mi ha dato non appena ho scoperto di avere mio
figlio qui
dentro! Sono sicura che lui oggi è qua e domani non si sa!
Sono sicura di amare
profondamente qualcuno che non è suo padre biologico, ma che
lo sarà nel
momento della sua nascita, della sua parola, del suo primo dente, dei
suoi
primi passi. Sono sicura adesso, in questo preciso istante, sono sicura
di te,
e questo mi basta per andare avanti, crescere,
decidere…» Dico pronunciando
ogni singola parola che tutta la forza che il mio corpo riesce a
produrre.
«Io…io…»
Mormora diventando rosso come un peperone, il mio
piccolo e tenero Edward. Mi fiondo sulle sue labbra e inizio a baciarlo
in modo
profondo, intimo, nostro. Le sue
mani, come sempre, delicate, sfiorano il mio corpo a piccoli passi, lo
adulano
con i gesti, come se io fossi l’oggetto più
prezioso del mondo, quando invece è
lui a esserlo. Sono consapevole del fatto che se perdo Edward, perdo
l’universo.
«Se
dovesse andare male…»
«Ssh…»
Lo interrompo premendo l’indice nelle sue labbra.
Scuoto la testa e guardo i suoi occhi, più lucidi,
più allegri e più verdi.
«Se
dovesse andare male tra noi due, Bella, io ci sarò lo
stesso per sempre. Per te e per lui.» Mormora prima di
depositare un bacio
sulla mia pancia ormai gonfia e liscia.
«Dovrebbe
arrivare a momenti.» Mormora Edward stringendo la
mia mano. Sembra tranquillo. Siamo seduti sulla panchina che si trova
davanti
alla nostra università, questo è
l’unico posto dove voglio incontrare Jacob.
«Hai
portato le ecografie?» Mi chiede guardando la mia
borsa. Io annuisco e lo guardo.
«Sei
nervosa, Bella.» Scuoto la testa e continuo a
guardarlo. Non sono nervosa porca miseria! Di certo non è
normale che il padre
di mio figlio, dopo mesi di gravidanza si presenta tutto ad un tratto
con la
sicurezza di chi non si è mai comportato come lui ha
realmente fatto. Mi gratto
la mano sinistra, e allora sì, do ad Edward la certezza del
mio nervosismo.
«Basta!»
urla infatti, dopo pochi secondi. Annuisco e tiro
su col naso.
«Ehi.
Devi stare tranquilla. Non c’è niente di cui
preoccuparsi.»
«Lo
so. Mi sto solo chiedendo se è la cosa giusta. Se
è
giusto dargli una possibilità quando sono sicura che non
rispetterà mai il suo
impegno, come non ha mai fatto in tutti questi anni su ogni cosa. Ho
paura di
mettere mio figlio nelle sue mani, in mani sbagliate.»
Sussurro mentre una
lacrima solca il mio viso.
«Amore
mio, ascoltami. Non stai mettendo tuo figlio nelle
mani di nessuno se non in quelle tue, quelle di sua madre, quelle della
persona
che dal primo momento l’ha amato, l’unica che lo
farà sempre. Tu sei la sua
unica consapevolezza, la sua ancora di salvezza. Conoscerà
suo padre, magari
andranno anche d’accordo, in caso contrario ci sarai tu a
dargli la sicurezza
di cui tutti noi figli abbiamo bisogno. Hai diciannove anni Bella, lo
so, ma guardati!
Sei la ragazza più brillante del pianeta, tu sei grande, sei
responsabile e sei
buona, sai amare Bella. Non importa se non hai esperienza, non
c’è un’età per
amare un figlio. Tu non hai età Bella. Hai tanto amore da
dare è questo che
importa, il resto viene in automatico.» Le sue mani afferrano
il mio viso,
riempiendomi di baci, di sicurezza, di forza. Mi alzo dalla panchina e
mi tuffo
sulle sue braccia e non c’è niente di
più bello, niente se non questo nostro
modo di capirci, questo nostro momento eternamente unico. Le mie mani
si attaccano
irrimediabilmente ai suoi capelli, come ogni volta, e non appena li
stringo un
po’ più del solito sentiamo la voce di Jacob alle
mie spalle.
«Ciao…»
Sussurra Jacob imbarazzato toccandosi i capelli con
le dita. Edward ricambia il suo “ciao” mentre io
alzo il mento senza proferire
parola. Vederlo, dopotutto non è così strano come
mi aspettavo. È come se di
fronte a me c’è un amico di infanzia, un
conoscente niente di più. Dicono che
ci vogliono anni per creare un’amicizia o una relazione
d’amore e un secondo
per distruggerla, e forse è davvero così. Non ho
nulla da condividere con Jake,
nessun ricordo felice, nessuna cena a lume di candela, niente, solo mio
figlio.
Sospiro alzando le spalle lentamente e continuo a guardarlo.
«Che
si fa?» Chiede Edward spezzando il silenzio.
«Tu
potresti andare al bar, mentre noi parliamo di nostro
figlio…credo…» Con movimenti che non
sono miei soliti, fulminei, mi avvicino a
Jacob interrompendolo di scatto.
«Brutto
pezzo di….Edward, che ti piaccia o no, è anche il
genitore di MIO figlio, quindi Jacob o accetti la sua presenza, oppure
puoi
tornartene a casa!» Urlo ad un centimetro dal suo viso. Lui
mi guarda con un
sorriso amaro, mentre Edward mi porta più lontano da lui,
forse credendo che
potrei seriamente picchiarlo in questo momento.
«Bella…»
Sussurra quest’ultimo.
«Silenzio
Edward!» Urlo ancora arrabbiata, lui, però, mi
guarda e sorride. Passiamo il pomeriggio seduti tutti e tre in una
panchina, Edward
ed io distanti da Jacob. Al mio posto ho fatto parlare Edward, forse
sto
sbagliando a comportarmi, forse Edward si è pentito, ma non
ce la faccio senza
di lui, non posso non comportarmi esattamente in questo modo. Edward
parla del
piccolo come se fosse parte di lui, i suoi occhi brillano non appena
nomina il
mio piccolo bambino che lentamente prende vita dentro di me. Edward
è suo
padre, non c’è niente di
più vero di
questo.
Eccomi. Sono
sinceramente desolata, questo è stato davvero
uno dei periodi più impegnati della mia vita. Non so come
scusarmi, sia per il
ritardo che per il capitolo, che ovviamente, non sarà come
vi aspettavate.
Non vi
farò gli auguri di Natale perché voglio
aggiornare
prima.
Grazie in
anticipo. Per tutto quanto. Vi sento vicine, lo
giuro.
Un bacione
Roby <3
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** Mom Is Always Mom. ***
Just
A Little Woman.
Mom is Always Mom.
Fregai
forsennatamente le mani tra di loro, seppur mi
trovassi nell’abitacolo caldo della macchina di Edward, non
riuscivo a non
sentire il gelo tra le mani, nelle gambe. Ci stavamo avvicinando sempre
più a
villa Cullen, forse non era il freddo di città a ridurmi in
quello stato, ma,
bensì quello che stava per accadere da lì a pochi
minuti. Edward mi guardava
preoccupato, era passata una settimana dal nostro primo incontro con
Jacob. Mi
aspettavo un Edward scontroso o, perlomeno nervoso, invece il nostro
rapporto
negli ultimi giorni si era fortificato se possibile ancor di
più. Jacob
continuava a telefonare tutti i giorni, il suo tono era premuroso, per
niente
scontroso, nonostante le circostanze. Avevo parecchio paura del suo
comportamento,
era evidente che era cambiato, ma sentivo dentro di che qualcosa sotto
doveva
pur esserci, che stentavo a credere che Jacob fosse cresciuto. Ne
parlai con
Edward non appena la mia mente formulò certi pensieri al
riguardo…e anche lui,
proprio come mi aspettavo – poiché non
è mai stato difronte al vecchio Jake-,
disse che era solo impressione mia, che averlo visto cambiato
così di punto in
bianco poteva sfiorare idee nella mia mente, appunto come il fatto che
io
consideravo il suo mutamento impossibile. Eppure Jacob lo aveva fatto,
era
cambiato…dicono che per i figli si cambia, forse anche lui
è stato preso dal
senso paterno…nonostante mi facesse male ammetterlo persino
a me stessa, Jacob
era il padre di mio figlio, e pensare a questa piccola creatura
riusciva a far
tuffare il cuore in un mare di mille emozioni, pensare a lui era come
sorridere
dopo una tragedia. Sbuffai
sonoramente,
rendendomi conto che ancora una volta stavo pensando a Jacob, e,
soprattutto in
questo momento non mi era mai d’aiuto. Non avevo potuto
dimenticare i suoi
occhi pieni d’astio il giorno in cui scoprì che
aspettavo un bambino, non
potevo dimenticare le sue minacce e soprattutto, non potevo
assolutamente
cancellare dalla mia mente il giorno in cui mi supplicò di
uccidere mio figlio,
l’unica cosa positiva nella mia vita, l’unico
motivo per il quale potevo essere
felice al mille per mille. Questo prima di conoscere Edward ovviamente.
Edward
nella mia vita mi ha fatto capire che con lui avrei avuto sempre di
più di
quello che credevo, in tutto. Edward ha superato tutti i limiti che mi
ero
imposta, in modo positivo, ovviamente. Non appena la macchina si
fermò mi
sentii mancare per un attimo. Eravamo arrivati.
«Dammi la mano.» Disse arrivati
all’entrata. Eravamo
circondati di aiuole piene di rose rosa, erano sistemate in modo
perfetto.
Chiusi gli occhi per un’instante e la porta davanti a noi si
aprì. I miei occhi
comandati dal piccolo rumore si aprirono di scatto. Venne ad aprire la
porta
quello che doveva essere il padre di Edward…non
c’erano altri uomini in casa,
da quello che Edward mi aveva detto, c’erano solo suo padre
ed Emmet il
fratello, momentaneamente in Alaska con la squadra di basket nella
quale era
capitano.
«Prego. Entrate ragazzi.» Entrammo ed il calore ci
avvolse
quasi immediatamente. Edward lasciò la mia mano solo per
aiutarmi a togliermi
il cappotto, era qui che entrava in scena il mio pancione, che,
incurante degli
occhi curiosi che giravano per strada se ne stava lì in
bella mostra
fregandosene della gente che sputava cattiveria da tutte le parti,
accorgendosi
che una bambina portava in grembo un altro bambino. Ero sicura che la
gente
pensasse che fosse una cosa da immaturi mettere al mondo un figlio
quando si è
ancora giovani, ma io ho capito, anche grazie a Edward, che per amare
davvero
qualcuno non importa l’età. Importa avere dentro
la voglia di avercelo questo
figlio. Importa essere sicuri che lui sarà tutto quello di
cui una madre ha
bisogno. Importa esserci sempre per lui, quando cade, quando sorride,
quando è
arrabbiato, quando è felice e anche quando fa i dispetti.
Importa fargli capire
che per come lui ha bisogno della mamma, la mamma in questione ne ha di
lui.
Importa essere consapevoli che una volta messi al mondo, la madre e il
figlio
saranno legati per sempre. Il padre di Edward mi sorrise, invece, forse
già
sapevano di me, di mio figlio. Edward non mi aveva mai detto di aver
parlato di
me con qualcuno, eppure, il suo sguardo e quello del padre mi facevano
intendere che lo avevano fatto.
«Ehm…Papà. Lei è
Isabella.» Mormorò Edward imbarazzato.
«È un vero piacere Isabella. Io sono il Dottor
Cullen, ma
puoi chiamarmi Carlisle.» Disse sorridendo mentre stringeva
con calore la mia
mano. Per un attimo mi sentii a mio agio, ma furono solo pochi secondi.
Incontrai gli occhi azzurri e grandi di Alice e, a essere sincera, mi
fecero
parecchia paura. L’ultima volta che ci eravamo viste non
avevamo proprio fatto
conoscenza, come invece Edward desiderava. Lui adorava in modo assoluto
la
sorella, erano molto legati, eppure il fatto che lei si era comportata
in un
certo modo con me aveva reso lui nervoso ogni volta che si
incontravano, questo
Edward me lo aveva raccontato.
«Ciao Bella.» Sussurrò non smettendo di
guardarmi. Io
deglutii e guardai Edward che stava trattenendo il respiro.
«Quando dovrebbe
nascere il piccoletto? » Disse ancora sorridendomi. Io
strizzai gli occhi e
vidi Edward riprendere a respirare.
«A…a Maggio.» Mormorai balbettando come
un’idiota. Mi odiavo
ogni volta. Le persone che mi trattavano male mi facevano sempre paura
e,
quando capitava, che uno di loro mi rivolgesse la parola o restavo in
silenzio,
o facevo finta di non aver sentito, oppure cominciavo a balbettare come
una
bambina che deve ancora imparare a parlare. Alice si
avvicinò e prese le mani
di Bella tra le sue.
«Io…ti chiedo scusa
Bella…ecco…»
«Ehi! Ci sono anch’io qui!» Urlo una
donna da quella che
doveva essere la cucina. Esme Platt fece la sua entrata in soggiorno
con un
grembiule attaccato alla vita, i capelli impeccabilmente acconciati in
uno
chignon biondo dorato, il suo sorriso, però, era la cosa
più rassicurante che
avessi mai visto.
«Ciao Bella! Io sono Esme, la mamma di questo furbetto
qui!»
Disse allegramente dando una pacca sulla schiena ad Edward. Alice si
avvicinò
al mio orecchio e mormorò: «Parleremo
dopo.» io annuii sorridendole. Alice mi
piaceva, nonostante la sua prima rabbia nei miei confronti fosse del
tutto
ingiustificata. Non riuscivo a portarle rancore, era raro che lo
facessi. La
mamma di Edward mi accarezzò la guancia e mi venne voglia di
piangere. Erano
tre giorni che non vedevo mia madre, non erano poi molti, eppure mi
mancava
terribilmente. Mi mancavano le sue parole di conforto anche quando ero
tranquilla, mi mancava il suo tè, al mattino, mi mancavano i
suoi post-it con
sopra quello che aveva preparato per cena. Ricordai perfettamente il
giorno del
mio diciottesimo compleanno. Eravamo a casa di nonna Marie, dopo aver
scartato
tutti i regali, mia madre scese le scale con una candela, accesa, a
forma di
rosa argentata e sorrideva. Dopo avermi dato la candela e il regalo
sussurrò:
“Adesso non hai più bisogno di me”
ricordai che le scoppiai a ridere in faccia
dicendo quella che resterà per sempre una delle
più grandi verità "la
mamma è sempre la mamma." Una lacrima solcò il
mio viso in quel piccolo
instante, mi sentivo in colpa, per non aver sentito la sua mancanza non
prima
di tre giorni. Passò la serata in uno dei modi
più tranquilli, parlando tra di
noi come se tutti quanti ci conoscessimo da una vita, effettivamente,
oltre a me,
dentro quella stanza tutti si conoscevano da una vita, eppure io mi
sentivo
parte integrante, mi sentivo a mio agio, me stessa, profondamente
accettata,
sinceramente onorata di aver partecipato. Alle undici di notte tornammo
a casa
di Edward, gli dissi quanto mi mancava mia madre, - lo ammetto, in quel
momento
mi vergognai, anche senza motivo ma lo feci - e, senza pensarci mezza
volta, mi
abbraccio promettendomi con un bacio a fior di labbra che il giorno
dopo mi
avrebbe portato a casa mia. Quel bacio a fior di labbra
accarezzò il mio cuore,
la mia anima, accese la mia passione e, com'era prevedibile, finimmo
nudi e
ansanti nel pavimento, per l’ennesima volta appagati ci
addormentammo davanti
al fuoco che profumava di frutteto.
«Mamma!»
Esclamai saltandole con le braccia al collo.
Annusai la sua guancia e mi sentii nuovamente
a casa. Le labbra di mia madre si appoggiarono alla mia fronte e
passarono ore
interminabili così, strette e rincuorate nel nostro piccolo
abbraccio che
poteva rappresentare la grandezza del mondo intero.
«Allora? Non mi hai ancora raccontato nulla!» Disse
versando
il tè nelle tazze. Arricciai il naso, sentendone
l’odore forte e scossi il capo.
«Non ho molto da raccontare a dire il
vero…» Dissi, un
attimo prima di raccontarle la cena a casa dei genitori di Edward,
essendo
interrotta da mamma ad ogni frase, la sua curiosità mi era
mancata quanto la
sua sincerità nel dirmi le cose. Passammo un’ora
così a ridere, e mai come in
quel momento mi resi conto di cosa significava passare del tempo con la
propria
mamma, mi chiesi più di una volta in quel piccolo arco di
tempo se mio figlio
avrebbe provato le stesse cose, se io per lui sarei stata quello che
mia madre
è per me. Era una delle mie più grandi paure,
quella di non piacergli, di non
essere all’altezza…a volte le zie ci dicono:
“Voi giovani volete sempre fare
passi più grossi delle vostre gambe”,
sarà forse questo? Insomma, il settanta
percento dei giovani ama sfidare la propria sorte…a volte mi
chiedo se anch’io
sto facendo la stessa cosa, smentendomi nell’esatto momento
in cui penso a
quello che mio figlio sarà per me, che un figlio non
è come la ruota della
fortuna, un caso, non è una novità che poi
sarà accantonata quando troppo
vecchia. Un figlio è quel motivo che ci permette di
sorridere fino a quando non
chiuderemo gli occhi per l’ultima volta. Avrà una
cameretta tutta sua, il suo giocattolino
preferito, un orsacchiotto di peluche che gli farà
compagnia, e avrà una madre
che lo amerà fino a quando la morte non si
separerà.
«Uh, quindi Jacob ha superato le nostre aspettative? Oh ma
dai! Non riesco a crederci.» Mormorò mia madre
sbalordita, dopo aver sentito il
comportamento di Jacob negli ultimi giorni. Annuì cercando
di non far trapelare
le mie preoccupazioni ma, appunto, di fronte a me non c’era
una qualunque
persona alla quale potevo nascondere il mio evidente nervosismo.
«Questa situazione ti puzza?» Sussurrò
avvicinando le sue
mani alle mie.
«Sì. C’è qualcosa di
strano…» Dissi lasciando che le mie
parole riempissero la stanza, lasciando mia madre in silenzio per la
prima volta
in vita mia. Abbassai il capo e continuai a scrivere la lista degli
argomenti
che avrei dovuto studiare a casa.
Arrabbiata come
poche volte in vita mia, salii le scale
della metropolitana con riluttanza. Da lì a pochi minuti
avrei incontrato Jacob
e Edward doveva raggiungermi prima possibile, ma non
c’è l’ha fatta. Sapeva
benissimo quanto io odi stare da sola con Jacob, non sapevo per quale
assurdo
motivo non era potuto venire, ma questo era davvero un dettaglio
irrilevante.
Non appena arrivai in cima, vidi Jacob squadrarmi dalla testa ai piedi.
«Mr stronzo non è venuto?» Chiese con
l’arroganza di sempre.
«Si chiama Edward, testa di cazzo. Muoviti.» Dissi
ad alta
voce, accorgendomi solo in secondo tempo di una vecchietta che mi
guardava
disgustata. La mandai a quel paese con un gesto della mano e mi avviai
in
strada cercando disperatamente un bar. Non avevo fame, né
sete, non dovevo
nemmeno andare in bagno, semplicemente non volevo stare da sola con
lui. I miei
dubbi su di lui erano ancora accesi come una lampadina nella mia mente,
e come
mai prima di allora, si accesero fino a bruciare provocandomi un mal di
testa
da record dei primati. Ci sedemmo sul primo tavolino, ordinai il mio
solito tè
mentre lui mi guardava curioso.
«Qualcosa non va?»
«Perché dovrebbe importarti Jacob?»
«Senti, potevi disdire quest'appuntamento, non
so…sei di
cattivo umore per qualche motivo, motivo per il quale io non
c’entro nulla…quindi
prenditela con la causa del tuo malumore…» Disse
alzandosi frettolosamente.
«Scusa…non volevo.» Mormorai sconfitta,
consapevole che le
sue parole erano giuste. Avevo i miei dubbi, ma non per questo dovevo
darlo a
vedere in quel modo e, per l’appunto, erano solo dubbi.
Proprio nel momento in
cui la cameriera portò le bevande, il mio cellulare prese a
squillare. Mi
allontanai un attimo e vidi che era Edward, risposi, ma con
l’intento di
parlarci solo per pochissimi secondi.
«Mi hai lasciata da sola! Puoi continuare a farlo! »
Tornai nel tavolo e iniziai a sorseggiare il mio tè. Aveva
un sapore piuttosto strano, quasi acre. Afferrai una bustina di
zucchero e ne
versai il contenuto sulla bevanda, mescolai e sorseggiai di
nuovo…notevolmente
cattivo. Poi un giramento di testa, il ghigno malefico sulle labbra di
Jacob e
la preoccupazione nella mia testa mi fecero capire tutto.
«Chiamate la polizia! Adesso!» Cominciai ad urlare
come un’ossessa.
La paura aveva preso il sopravvento, mi sentii mancare. Jacob stava
cercando di
scappare, ma due ragazzi gli sbarrarono la strada.
«Perché l’hai fatto??» Gli
chiesi con la testa che non
smetteva di girare, mi sentivo in una giostra…la giostra
degli orrori.
«Tu. Sei. Pazza.» Urlò avvicinandosi ad
un centimetro dal
mio viso. Non so dove trovai la forza, che in quel momento credevo
stava per
abbandonarmi, afferrai la sua camicia con forza e lo strattonai
facendolo
cadere sul pavimento.
«Cosa cazzo hai messo lì dentro?» Urlai
venendo bloccata dai
carabinieri. Con la poca forza che mi rimase, cercai di spiegare loro
l’accaduto,
mentre due agenti interrogavano il troglodita. Mi chiesi quanto tempo
sarei
potuta rimanere vigile, o addirittura viva. Mi sentii tremendamente in
colpa e
chiamai Edward.
«Edward!» urlai scoppiando a piangere.
«Bella! Amore! Che succede?» Rispose lui con la
voce piena
di ansia.
«Edward!» Urlavo il suo nome continuamente
singhiozzando,
fin quando l’agente mi tolse il cellulare dalle mani e
spiegò la situazione a
Edward. Non riuscivo a sentire cosa gli diceva. Leggevo solamente il
labiale
ma, solo fino ad un certo punto perché poi un dolore acuto
prese la mia mente e
il mio corpo. Mi sentii strappare la parte intima, le lacrime calde che
ricoprivano il mio viso potevano bollire a contatto con il mio corpo
che pareva
voler andare in escandescenza. Chiusi gli occhi e vidi quello che mi
aspettava.
PRIMA
DI TUTTO PERDONO! Forse “perdono” non rende bene
l’idea.
Vi auguro buon anno e spero che abbiate passato le feste
felicemente. Io sono sempre qui, in ritardo, ma ci sono. Ho avuto
parecchie
cose con il quale fare i conti e forse…FORSE sono riuscita
ad uscire dall’oblio.
Spero che capirete.
Forse la storia non vi interessa più, ho visto il numero
minore di visite e recensioni…mi dispiace…spero
che tornerete tutte :3
Vi ringrazio comunque per essere qui.
Il capitolo è più corto, i know…maaa
doveva venire così ;)
Ps: http://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2330245&i=1 qui c’è
un piccolo prologo che ho pubblicato qualche tempo (xD) fa, spero di
trovarvi
anche lì ;3
Un bacione.
Roby <3
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** The future destroyed. ***
Just
A Little Woman.
The future destroyed.
Questo
è un capitolo unicamente scritto in terza persona.
Non
odiatemi. Ci leggiamo sotto.
***
Il cielo plumbeo
di Berlino, quel giorno, minacciava di
esplodere in un temporale senza precedenti. Era come se la reazione
atmosferica
che stava per inveire contro quel cielo speranzoso e meraviglioso,
potesse
essere specchio dell’anima di un povero e dolce ragazzo
chiamato Edward.
Edward che amava i libri.
Edward che ascoltava il lento rumore della pioggia in
infiniti attimi di tristezza.
Edward che aveva imparato ad amare.
Edward che nonostante non fosse biologicamente il padre di
quel piccolo che stava per nascere, si sentiva emozionato per ogni
colpetto che
emetteva ogni volta che la sua mano posava sul dolcissimo pancione
della sua amata
Bella. Bella aveva solo diciannove anni, eppure, lui la vedeva come una
donna,
solo la sua piccola donna.
Non appena il poliziotto annunciò al ragazzo che Bella era
in grave pericolo, lasciò il professore di letteratura
inglese in asso, montò
sulla sua lussuosa auto e partì a gran velocità
verso l’ospedale. Aveva le mani
talmente sudate che scivolavano continuamente dal volante, era come se
anche le
sue mani volessero impedirgli di vedere Bella quel giorno. Era
infuriato, con
se stesso, con il caso…era arrabbiato perché
quello che per mesi aveva sentito
essere suo figlio adesso stava per nascere, ed era in pericolo, insieme
alla
madre. Se fosse stato un personaggio dei fumetti, ne era sicuro, in
quel
momento il fumo avrebbe invaso il suo campo visivo, oppure, molto
più
semplicemente, tutto ciò che lo circondava, sarebbe
diventato rosso. Edward non
amava essere pessimista, Edward odiava la tristezza, Edward quella
volta
dovette ammettere silenziosamente a se stesso che si sentiva con un
pesante
macigno sullo stomaco. Arrivò all’ospedale in
pochi minuti e, non appena varcò
la soglia del reparto, vide Reneé col viso ricoperto di
lacrime.
«Reneé!» Urlò allora
disperandosi in quello che parve un
attimo e allo stesso tempo un anno intero.
«Edward! Oh mio dio!» Urlò
inginocchiandosi al pavimento.
Edward si guardò attorno stralunato, da ciò che
Bella diceva la madre era
difficile a perdere il controllo o, a fasciarsi la testa prima di
rompersela…in
quel piccolo instante nella mente di Edward passarono immagini delle
cose
peggiori che sarebbero potute accadere in quel piccolo intervallo dove
lui era
in macchina per raggiungere l’ospedale.
«P-posso vederla?» Chiese alla madre di Bella. Lei
con il
volto disperato annuì e Edward si recò vicino
alla sala parto. Non appena
intraprese il corridoio, si ricordò vagamente di un libro
che aveva
letto…ricordava che nel libro la donna protagonista
partoriva, nonostante i
medici le avevano dato poche probabilità che lei potesse
rimanere in vita, lei
ce la fece. Chiuse per un piccolo istante gli occhi e non appena li
aprì una
donna con gli occhi verdi sbucò nel suo campo visivo.
«Dove crede di andare?» Chiese lei con le braccia
conserte.
«La…la…la mia ragazza sta per
partorire.»
«Nome?»
«Edward Cullen.» Disse confuso, lei lo
guardò spazientita e
sbuffò sonoramente.
«Non il suo! Quello della donna che sta per
partorire.»
«Ah sì, Bel...Isabella Swan.» Lei
sgranò gli occhi e
prendendogli la mano, sorprendendolo, iniziò a trascinarlo
fin quando non lo
lasciò davanti ad una porta semi aperta. Il suo animo era
spettrale. Non sapeva
bene quello che era successo nell’arco dell’ultima
ora, non sapeva in che modo
affrontare la situazione. Sospirò ed entrò,
avrebbe preferito mille volte non
farlo.
C’era un letto, c’erano ferri d’ospedale
dappertutto, c’era
freddo lì dentro. Bella era distesa, o meglio, abbandonata
sul letto. Il suo
maglione lungo color panna era in parte macchiato di sangue, le sue
gambe
sembravano fatte di burro, i capelli erano appiccicati sulla sua fronte
e poi
c’era il suo viso…il suo viso era scarno,
addormentato eppure triste. Edward
non riconobbe nulla in quel viso che apparteneva alla sua piccola
donna. Una
lacrima solcò il suo viso e forse aveva capito
ciò che stava per attenderlo.
«Perché dorme?»
«Dobbiamo fare un cesareo…» Edward
piegò le sopracciglia,
confuso.
«Non lo avete già fatto? Insomma! È
tutta sporca di sangue.»
«Signor?»
«Cullen.»
«Signor Cullen, forse lei non sa bene quello che è
successo
e, soprattutto, quello che sta per accadere…»
«No! Nessuno qui ha detto nulla. Cosa sta succedendo? Cosa
è
successo? Sono talmente confuso…»
Sussurrò iniziando a piangere. Edward sapeva
quello che era successo e, soprattutto quello che stava per accadere,
ma non
voleva ammetterlo neanche a se stesso.
«Signor Cullen, mi dispiace, ma deve uscire.»
Mormorò la
giovane donna in preda al panico.
«No! Non posso uscire! DEVE SPIEGARMI COSA DIAVOLO STA
SUCCEDENDO QUI!» Urlò facendo tremare il cuore di
quell’ostetrica.
«La prego, si calmi.»
«Mi dica quello che devo sapere!»
Borbottò non smettendo
nemmeno per un secondo di sfregare la mano nei suoi capelli.
«Vede…Isabella è stata avvelenata,
fortunatamente la
quantità non era molta però, si è
staccata la placenta, dobbiamo intervenire
subito altrimenti potrebbe rischiare
un’infezione…»
«Cosa significa dovete intervenire?»
«Dobbiamo tirare fuori il feto.»
Sentenziò. Edward mai come
quel giorno odiò un medico, in genere i medici parlavano in
codice e si
mangiavano la maggior parte delle informazioni che la gente voleva.
«Non è troppo presto?»
«Ormai non importa.» Sussurrò
spingendolo fuori e chiudendo
la chiave con un tonfo. In quel preciso instante Edward non
poté fare a meno
della verità che si celava anche
all’interno della sua anima. In quel preciso instante vide il
mondo, il suo
mondo crollargli addosso. Appoggiò le mani sul vetro e ci
poggiò anche la
fronte…da uno spiraglio riuscì a vedere tutto
mentre con le lacrime in bocca
sussurrava: “Sono qui amore mio. Sentimi. Sono
qui.”
Un’ora dopo.
Dall’altro
lato della città, in una stazione di polizia,
Jacob continuava a difendersi dalle accuse degli agenti.
«Ci sono testimoni oculari Signor Black! La
smetta!» E Jacob
rimase in silenzio, consapevole che nulla poteva fare o dire, se non
starsene
buono ed accettare ciò che credeva fosse una sciocchezza.
Era sempre stato
così. Prendeva qualunque cosa alla leggera. Era un
ragazzino. Era uno stupido e
incosciente. E lui lo sapeva. Due agenti dall’aria piuttosto
arrabbiata lo scortarono
in un ascensore, salirono al settimo piano ed entrarono dentro uno
stanzino,
senza sbarre, senza finestre.
«Deve avvisare la famiglia.» Gli disse porgendogli
un
cordless. Prese il telefono e compose il numero del padre.
«Papà…» Non fece in tempo a
dire ciao che suo padre lo
interruppe bruscamente.
«Tuo figlio è morto. Resta dove sei o giuro di
ucciderti non
appena ti registrerò nel mio campo visivo.» Il
padre staccò la chiamata e lui,
per la prima volta nella sua vita restò immobile a
riflettere e a sentire
l’amaro sapore del senso di colpa. Si era fatto il programma
di ucciderla per
non dover convivere con la consapevolezza che da qualche parte
c’era un figlio.
Aveva programmato il veleno sul caffè in modo che lui ne
sarebbe uscito
indenne. Aveva programmato tutto, ma quel tutto per tutti era andato
storto.
Quel giorno Jacob di accorse di avere un cuore, perché ebbe
la strana
sensazione che potesse far male. Non aveva sentimenti. Era solo il
senso di
colpa che era diventato pesante…ingestibile. Uscì
da quella stanza, dicendo di
recarsi in bagno, i due agenti lo scortarono fino al bagno, ma,
ovviamente, non
appena lui entrò nella toilette loro erano fuori che
attendevano.
«LO UCCIDO!» Sentì urlare, riconoscendo
immediatamente la
voce…Edward.
«Si calmi! » Urlavano di rimando gli agenti.
Sentì quelli
che sembravano cazzotti nella porta e alzo la testa. Una piccola
finestra
faceva bella mostra di sé. Con movimenti fulminei, non
potendo smettere di
sentire la voce di Edward che prometteva di ucciderlo, si
arrampicò alla
cassettina. Aprì la finestra e uscì su quello che
era un tetto a regola d’arte.
Si guardò attorno e, ovviamente non c’era nulla,
se non il cielo e il rumore
delle auto e dei passanti di quello che c’era sotto.
Sospirò non riuscendo a
pensare a niente e senza rendersene conto camminò a occhi
chiusi. L’ultima cosa
che vide fu una macchina blu sbattergli in faccia.
Edward se ne
stava immobile davanti al corpo addormentato di
Bella. Edward aveva paura. Edward si sentiva in colpa. Edward non aveva
più un
modo per affrontare la situazione. Quel piccolo spiraglio gli permise
di vedere
tutto quello che era accaduto. Vide il corpo di quel piccolo innocente
tanto
amato senza vita. Si sentiva padre Edward. Un padre dannato. Non
riusciva
davvero a capire ciò che provava. Non vedeva nulla. Non
sentiva nulla. C’erano
Hayley e Melanie. C’era Reneé. Nessuna di loro
aveva avuto il coraggio di
restare al fianco di Bella. “È solo una piccola
donna” penso Edward,
chiedendosi mille volte il
perché…perché proprio a
lei…a noi, perché quest'orribile
caso, perché adesso Bella non sarebbe riuscita ad
oltrepassare indenne anche
questa. Passarono giorni ed era come se il tempo si fosse fermato.
Bella non si
svegliava e i medici dicevano che era normale. Lei non sapeva di aver
partorito, non sapeva che adesso quel piccolo tesoro che lei aveva
tanto amato
adesso era rimasto solo un piccolo ricordo dentro il suo ventre, un
ricordo che
non andrà mai via ma che allo stesso tempo non
era stato ben definito. Bella era quasi in coma per colpa
del veleno ma,
era viva, fuori pericolo…aspettavano solo che si svegliasse
e quel giorno parve
non venire mai.
«E-Edward.»
Un sussurro. Un battito in meno. Gli occhi di
Edward si spalancarono…era stanco e, ogni volta che apriva
gli occhi, si
sentiva la testa pesante. Vide gli occhi di Bella spalancati e
anziché correre
ad abbracciarla, - come aveva immaginato di fare mentre lei dormiva
beatamente
all’oscuro di tutto quello che era accaduto –
restò immobile a guardarla. Non
riusciva a fare nulla, perché era pienamente consapevole di
star scrivendo la
parola “fine” nel libro dei sorrisi di Bella, era
consapevole che nulla avrebbe
potuto evitare una sua qualsiasi reazione, del tutto giustificata.
Edward si
sentiva spoglio, aveva perso un figlio. Edward non aveva mai avuto
paura come
allora. Restò in silenzio, abbassando lo sguardo.
Sentì la mano di Bella
sfiorargli il braccio, un tocco delicato…debole.
Tirò su col naso e cercò di
dire qualcosa. Non era solo lui che si sarebbe sentito così
per molto altro
tempo, non era lui che aveva tenuto in grembo un piccolo esserino che
aveva
amato dal primo momento…non era solo ed esclusivamente lui
che si sarebbe
sentito solo, non era il solo che aveva immaginato un futuro ricco di
pannolini
e notti insonni, c’era Bella…e, ne era sicuro, non
sarebbe riuscita ad andare
avanti accantonando anche questa.
«Amore mio…» Sussurrò con
voce spenta, quasi inudibile, tant’è
che Bella si avvicinò di più a lui, per quello
che le era permesso.
«Edward…perdonami…» Disse lei
scoppiando a piangere, Edward
si avvicinò a lei e la abbracciò più
stretta che poté. I suoi capelli erano
sempre profumati, una lacrima lasciò il viso di Edward,
mentre i singhiozzi di
Bella si placavano.
«Non è colpa tua, capito?» Le disse lui
prendendo il suo
piccolo volto tra le mani, baciò le sue labbra umide e lei
ricambiò con
passione. Edward era consapevole che ancora il peggio doveva arrivare,
ma
perché doveva fermare quell’attimo intimo?
Qualcosa gli diceva che quella
poteva essere anche l’ultima volta che gli era permesso di
baciare Bella. La
ragazza si mise seduta e scrutò la stanza aprendo poco di
più gli occhi, si
massaggiò il ventre e a Edward parve che un pugnale
perfettamente affilato gli
avesse trafitto lo stomaco con un colpo secco.
«Edward dov’è il mio bambino?»
Mio, il
mio bambino…
«Edward!»
Adesso
la voce di Bella era arrabbiata, Edward si sentì come se
stesse guardando la
scena da spettatore e, forse, era meglio che fosse stato realmente
così.
«Edward, ti prego…dì
qualcosa…»
Ma
Edward non ce la fece, scoppio a piangere inginocchiandosi sul letto
della sua
piccola donna e urlava. Il dolore della perdita, l’ansia, la
paura, il terrore
che adesso aleggiava sulle iridi color cioccolato di Bella vennero
fuori dalla
bocca e dall’anima di Edward.
«Edward…»
La voce di Bella si affievolì piano piano
diventando un silenzio quasi ingombrante da sopportare.
Salve
ç___ç Dispiace anche a me, credetemi, ma questo
è il
pezzo che è nato prima della storia stessa. È
stato difficile scrivere questo
capitolo, lo ammetto e mi dispiace per il ritardo con il quale
è stato postato…
Spero di non avere deluso nessuno…ma questa è la
trama della
storia…quindi non so, spero di non perdervi tutte e,
soprattutto, spero di non
avere recensioni negative per la scelta della
trama…perché è una mia scelta,
credetemi.
A presto, SPERO!
Un bacione,
Roby <3
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** The same pain. ***
Just a little
Woman.
The
same pain.
Avrei preferito
morire, piuttosto che subire tutto quello
che subivo in quell’istante e per il resto degli altri giorni
che sarebbero
venuti.
Non so come feci, ma mi vestii, pronta per quell’ultimo
saluto, per quell’ultima volta. Una lacrima solcò
il mio viso al ricordo di
quel giorno maledetto, dove tutto mi è stato tolto. Non
riuscivo a immaginare il
mio futuro, non vedevo nulla della Bella che ero, vedevo solo una donna
priva
di senso, che non aveva più il coraggio di guardarsi
riflessa allo specchio.
Tirai su col naso, mentre Edward apriva la porta della mia camera.
Edward era irriconoscibile. Quando l’avevo visto non appena
svegliata, avevo sinceramente creduto che fosse morto, che quello che
c’era
davanti a me fosse solo il fantasma di Edward. Erano passati solamente
tre
giorni dall’accaduto, eppure era dimagrito tantissimo, i suoi
occhi erano
violacei e non dormiva da tanto…troppo tempo. Sapevo il
legame che Edward aveva
con quel piccolo esserino che avevo tanto amato e continuavo a farlo,
ma mai e
poi mai avrei potuto immaginare quello che realmente era. Edward era un
padre.
Edward per lui lo era per davvero. E se anche non lo avrei mai creduto
possibile, Edward amava quel bambino tanto quanto me. Avevamo vissuto
la
gravidanza insieme, ogni cosa nuova si presentasse
all’orizzonte che lo
riguardava, Edward c’era, dal primo all’ultimo
giorno. Siamo insieme, ma è come
se a tenerci fosse il dolore, lo stesso identico che oggi ci ha portati
qui, al
suo funerale. Non avevo avuto la possibilità di vederlo, era
troppo tardi,
fortunatamente Edward aveva voluto che mi svegliassi, almeno per poter
realizzare il tutto, per poterlo salutare come si deve almeno per
l’ultima
volta. Scendemmo le scale e mia madre ci guardò
aldilà di quello che eravamo, c’era
pena nei suoi occhi. Edward quella volta non mi prese la mano, ed io
non
protestai, la ragione non dominava più la nostra mente da un
po’.
Con i piedi
schiacciati sull’erba, la voce del parroco
risultava lontana, inudibile. Vedevo solo la bara, piccola, bianca,
innocente…proprio
come il mio piccolo pandorino che aveva preso vita dentro di me, troppo
debole
per restare in questa vita…la vita è uno schifo,
ma io avrei fatto in modo che
lui si sentisse amato aldilà di quello che ognuno di noi
potrebbe immaginare,
avrei fatto in modo che la sua infanzia fosse stata costruita sopra un
castello
fatto di fiabe, avrei fatto in modo di esserci sempre per lui.
Mancavano solo
tre mesi e poi avrei potuto cullarlo nelle mie braccia, avrei potuto
sfamarlo
con il mio latte. Ci avevo pensato parecchio, sarebbe stata una delle
cose più
belle, averlo. Non chiedevo tanto, volevo solo che tutto quello fosse
solo un
brutto incubo, volevo che Edward mi svegliasse e mi dicesse
“è tutto apposto”,
ma non lo era…non lo era per niente. Mi immaginai, ancora
una volta, con lui
tra le mie braccia, e Edward che ci guardava affascinati, come quando
mi
accarezzava la pancia e comunicavano come solo padre e figlio avrebbero
potuto
fare. Ma non poteva più esserci quello sguardo in Edward, io
ero morta con mio
figlio e lui ci aveva seguiti a ruota. Vivere, per noi due, non aveva
più alcun
senso. Le urla di Edward mi fecero chiudere gli occhi, mi costrinsero a
farlo e
non appena li aprii avrei voluto scappare a gambe levate. Era
rannicchiato
sopra la piccola bara e urlava, non capivo le sue parole, ero troppo
occupata
ad ascoltare il suo dolore che trapelava da ogni lato del suo corpo, da
ogni
nota della sua voce. Scoppiai a piangere, nonostante odiassi farlo
davanti alle
persone. C’erano mia madre, Hayley, Melanie e tutta la
famiglia di Edward. Dei
Black non c’era neanche l’ombra, e se pure fosse
stato li avrei mandati a casa
calci nel sedere. Dovevo vendicarmi, ma quando realizzai questo
pensiero venni
a sapere del suicidio di Jacob. Troppo codardo per affrontare la
realtà, troppo
bastardo per ammettere a sé e agli altri che lui stesso era
l’errore dell’esistenza,
che era una persona inutile. Aveva solo capito che togliersi di mezzo
sarebbe
stata la cosa più facile. Guardai Edward, che non si era
mosso dalla bara e non
appena la depositarono sotto terra Edward svanì con lui. Non
seppi cosa
successe dopo, quando lo tirarono fuori da lì, né
se fosse uscito di sua
spontanea volontà, quello che ricordo è solo che
prima di chiudere gli occhi
vidi lo sguardo di Alice terrorizzato.
Una
settimana dopo.
Le ore
passarono, portandosi via i giorni. Non avevo voglia
di fare nulla, se non starmene seduta sul letto a gambe incrociate
aspettando
un messaggio di Edward, ma non arrivò mai. Tutto quello
stava distruggendo
anche il legame che avevamo noi due. Non ero più tornata al
cimitero, dove Ted
giaceva sotto terra, non avevo il coraggio di guardare il suo nome
sulla
lapide. Avevamo deciso che assegnargli un nome sarebbe stato il minimo
e
decidemmo che Ted era quello adatto. Il piccolo Ted non aveva mai
respirato
nella vita terrena, non aveva mai parlato né fatto qualche
versetto che fanno i
neonati…ma era adorabile, nonostante non l’avessi
mai visto, sentivo che lo
era, proprio come un piccolo orsacchiotto di peluche. Ognuno di noi,
nella
propria vita ha regalato amore ad un orsacchiotto di peluche, ed io
l’ho dato a
lui, con tutta me stessa, nonostante tutto, al mio piccolo e innocente
Ted
Cullen. Il mi viso si bagnò ancora, ero troppo abituata a
sentire le mie guance
umide. Vivevo in uno stato immutabile, sempre con gli stessi pensieri,
sempre
con lo stesso stato d’animo, sempre priva di coraggio, forse,
priva di ogni
sensazione positiva. Ovunque cercavi di guardare sentivo il nulla.
Avrei voluto
almeno il coraggio di farmi fuori, in fretta e indolore, ma non ce la
feci mai,
per quanto ardente fosse il bisogno di farlo non ci riuscii.
«Bella…ti ho portato la colazione.»
Sussurrò mia madre con
la voce impaurita.
«Non la voglio.»
«Bella…»
«Non la voglio cazzo! NON LA VOGLIO! Non voglio mangiare!
Lasciami in pace cazzo!» Urlai fuori di me. Era la prima
volta che parlavo da
una settimana. Mia madre sorrise e la rabbia si concentrò
sulla mia mente come
una furia.
«Cosa c’è?»
«Stai facendo qualcosa.»
Farfugliò…mi guardai attorno
disorientata e confusa, non capivo più nulla.
«Hai urlato. Hai imprecato. Hai reagito, in qualche
modo…»
«Mamma…» La voce mi uscì
lagnosa e capii ciò che voleva
dire. Erano giorni che non parlavo, non mi muovevo, erano giorni che
agivo come
un fantasma vergognato di sé. Ero consapevole del male che
stavo facendo a mia
madre, ma non potevo fare nulla per rimediare, solo dispiacermi, quello
era il
massimo.
«Tesoro…io…ti…»
«Mamma non voglio parlarne.» Sussurrai con la voce
rotta dal
pianto.
«Devi mangiare, Bella. Se non hai il coraggio di ucciderti
mangia.» Era furiosa, lasciò il vassoio sulla
scrivania e sbattendo la porta
scese le scale. Guardai il display del mio cellulare ed era vuoto, non
c’erano
avvisi, né chiamate perse. Avvicinai a me il vassoio e
assaggiai la brioche,
non ne sentivo il sapore, ma la mangiai come un automa non rendendomi
conto dei
gesti che il mio corpo compiva. Avvicinai una sigaretta sulle mie
labbra e l’accesi.
Mi fermai un attimo a pensare a quello che ero diventata e mi resi
conto di
quanto Edward mi mancava. Odiavo non sentirlo, odiavo non vederlo. La
sua
assenza non mi aiutava per niente. Ero arrabbiata con lui, avevo
bisogno di lui
più di chiunque altro, ma lui non c’era.
Edward
odiava non sentirla, odiava non vederla. La sua assenza non aiutava per
niente.
Era arrabbiato con lei, aveva bisogno di lei più di chiunque
altro, ma lei non
c’era.
Un mese
dopo.
La primavera
aveva fatto capolino a Berlino. La mancanza di
Edward mi aveva lacerato il cuore trasformandolo in tanti piccoli
pezzi. Avevo provato
a ricucirlo da sola, ma non c’ero riuscita. I ricordi,
l’unica cosa che mi
rimaneva di tutto quello che insieme avevamo vissuto, mi avevano dato
un
pochino di forza per scendere le scale e farmi una doccia. Puzzavo come
un
maiale. Potevo restarmene in camera mia, ma avrebbe riportato il mio
piccolo
Ted indietro? No. L’anima di mio figlio aleggiava nel mio
cuore, ormai ridotto
in malo modo, ma c’era. Lui era dentro di me, ancora una
volta e ci sarebbe
rimasto. Avevo preso un po’ forza al pensiero di mio figlio,
ed era ora che la
donassi un po’ anche a Edward. Hayley e Melanie venivano
spesso a casa mia, ma
non era di loro che avrei voluto la compagnia. Volevo Edward, volevo
qualcuno
che mi capisse, che avesse avuto lo stesso mio dolore.
Perciò andai avanti con
la mia decisione e uscii di casa. C’era odore di fiori appena
sbocciati, c’era
l’aria frizzantina che avvolgeva le mie gambe fasciate dalla
tuta. Presi l’autobus
e mi avviai a casa di Edward.
Suonai parecchie volte, ma, come era prevedibile, lui non
rispose. Mi ricordai di avere una copia delle chiavi nella borsa e le
afferrai
con un sospiro di sollievo. Le tapparelle erano abbassate,
c’era buio e puzza d’alcol.
Nel salottino non c’era aria di Edward, c’erano
solo parecchie bottiglie di
birra sul pavimento, una era rotta dal collo in su. Rabbrividii al
pensiero di
quello che avrebbe voluto farci, e per un momento pensai che
l’avesse fatto per
davvero.
«Edward!» Urlai spaventata. I suoi passi mi vennero
incontro
e la persona che mi stava davanti non aveva nulla del mio Edward. Jeans
strappati, i capelli si erano allisciati sicuramente dopo essere stati
trascurati, la maglietta era imbrattata di vomito, i suoi occhi erano
rossi e
il suo viso era nascosto sotto la barba rossiccia. Era un barbone. Solo
quello
era rimasto del mio Edward.
«Bella…» Sussurrò guardandosi
attorno. Lo guardai e mi
pentii all’instante di non essere rimasta a casa. Vederlo in
quel modo andava oltre
a tutto quello che mi sarei mai aspettata nel rivederlo. Edward era
irriconoscibile. Ed io mi sentivo uno schifo perché era
colpa mia.
«Mi dispiace…» Dissi un secondo prima di
scoppiare a
piangere.
«Bella…» Mi prese la mano e mi
portò in cucina, l’unica
stanza pulita della casa. Mi fece sedere e si inginocchiò
davanti a me.
«Non piangere amore mio…»
Mormorò con la voce roca. Avevo
paura. Non eravamo più noi stessi. Non eravamo
più gli Edward e Bella che si
erano innamorati perdutamente dell’altro. L’unica
cosa che alimentò in me un
filo di speranza era che nonostante tutto eravamo qui, insieme, non
importava
come e dove, lo eravamo.
Facemmo la
doccia insieme, senza malizia, solo con l’amore
che, nonostante era stato ricoperto per tanto tempo in noi una piccola
parte di
esso viveva ancora. Edward si rasò ed io cercai di sistemare
casa sua. Mi si
spezzò il cuore in due, quando vidi l’ultima
ecografia che avevamo fatto
imbrattata dalle sue lacrime. Accarezzai la fotografia e scoppiai a
piangere.
Scossi la testa, come a voler cacciare via quel dolore insopportabile
ma
ovviamente non ci riuscii, sentii le mani di Edward circondarmi la vita
e il
suo mento appoggiarsi sulla mia spalla. Si udivano solo i nostri
singhiozzi
davanti a quella fotografia, davanti a quel ricordo che avevamo tanto
amato,
davanti a quello che ci aveva portati alla rovina. Eravamo alla deriva
e non
sapere se prima o poi saremmo usciti da quel limbo logorava la mia
anima in modo
spaventoso. Guardai i suoi occhi e mi resi conto che quello che avevo
pensato
per tutto il tempo era vero; Edward era il mio specchio.
«Dovresti tornare
all’università.» Mormoro mentre gli
passo
il piatto con la carne.
«Dovresti farlo anche tu.»
«Lo faremo insieme. Insieme passeremo tutto questo. Devi
aiutarmi, Edward. Ed io aiuterò te.» Affermai
mentre quelle parole bruciavano
sul mio cuore. Che dovevamo andare avanti era un dato di fatto. Ma non
potevamo
dimenticare, non l’avremmo mai fatto. Eravamo costretti a
vivere nel suo
ricordo. Avvisai mia madre che restavo con Edward per la notte e che
l’indomani
saremmo andati all’università per informarci di
quello che dovevamo fare per
proseguire. Mi addormentai al suo fianco, sentendo il suo calore e
sentendomi
intera dopo tanto tempo. Quando mi svegliai, nel cuore della notte, lui
però
non era al mio fianco. Mi alzai e mi diressi in bagno, la porta era
semichiusa,
uno spiraglio di luce dava la vista all’interno del bagno.
Restai paralizzata.
Pensai che non c'era alcuna via d’uscita.
Vidi Edward, infilzarsi un ago in vena e il mio cuore si
spense del tutto.
Perdonate il
ritardo.
Non ho nulla da
dire su questo capitolo se non “devastante”.
Non criticate la mia scelta. Posso solo dirvi di stare tranquilli,
insieme ce
la faranno. Vi ringrazio dal profondo per le recensioni che mi avete
lasciato,
siete tutte dolcissime ed io vi adoro!
A presto.
Roby <3
|
Ritorna all'indice
Capitolo 15 *** Don't cry. ***
Just
a little woman.
Don’t cry.
Rimasi
paralizzata non riuscendo a credere ai miei occhi. La
luce soffusa rendeva la figura di Edward poco definita, riuscivo a
vedere una
macchiolina di sangue attorno al buco che l’ago aveva
procurato. Non so dove trovai
la forza ma, mi avvicinai facendo scorrere la porta, lui era troppo
stordito
per sentirmi o vedermi, al suo fianco giacevano una bustina di
plastica, un
cucchiaio e un accendino, la siringa stava tesa sul suo braccio
sinistro come
se fosse la cosa più naturale del mondo. Non riuscivo a
pensare a nulla…nulla
che non fosse il suo viso stremato di dolore…il
mio piccolo Edward. Feci pochi passi e lo raggiunsi, le mie
lacrime bagnarono la sua maglietta, afferrai la siringa con tutta la
forza di
volontà che il mio corpo poteva possedere in
quell’attimo e la tirai fuori dal
suo braccio, lui sussultò ma mantenne le palpebre abbassate.
Chiusi gli occhi,
con la speranza che una volta riaperti tutto quello sarebbe rimasto
solo un
incubo…scossi la testa e iniziai a singhiozzare, rimasi
stupita quando notai
che le mie guance erano asciutte…senza lacrime, i miei occhi
chiedevano pietà, mi
ero abituata a quel fastidioso bruciore, a quel gemito di dolore che
lasciava
le mie labbra ogni qualvolta li chiudevo. Capii il perché, non avevo più lacrime, le avevo versate
tutte. Presi la mano di
Edward e provai a farlo alzare, non ci riuscii. Intrecciai le sue dita
tra le
mie, appoggiai la testa sul suo petto e mi addormentai, stremata,
confusa e
infuriata. Non avevo più un valido motivo per restare al
mondo, tutto quello
che avevo costruito attorno a me si era distrutto come cristallo fine,
tutto
quello che amavo era morto, annientato, dalla morte stessa. Vagavo in
uno stato
a me sconosciuto, c’erano momenti che cercavo di farmi forza,
dicendomi che
qualcosa per il quale valeva restare e combattere c’era,
c’erano, invece, quei
momenti che avrei voluto avere il coraggio di farla finita, quei
momenti dove,
confusa, mi guardavo attorno non ricordandomi il perché di
tutto quel dolore.
Non era solo dolore mentale. La sua
mancanza
aveva scavato a fondo nel centro del mio cuore con una pala affilata, a
ogni
respiro sentivo le ferite sanguinare, sussultare, implorare
pietà. Odiavo
quella situazione. Odiavo la mia vita. Odiavo, sopra ogni cosa, me
stessa.
Quando
non hai più te stessa alla quale affidarti ti rendi conto
che quel momento è
arrivato; la fine, di ogni cosa, soprattutto.
Avevo
deciso di smettere di lottare, avevo deciso che avrei
guardato il corso della mia vita inerme, sarei stata una perfetta
spettatrice
della mia vita, quella di cui una volta ne ero la protagonista. Durante
la
notte sentii Edward prendermi tra le sue braccia e trascinarmi nel
letto. Il
mattino seguente lui non c’era. Concentrai la mente nella
visione di quella
casa. Dicono che il luogo dove viviamo è un minimo riflesso
della nostra anima,
non ci fu frase più perfetta che rispecchiava quella casa.
Le corde delle
tapparelle erano state fissate al muro con lo scotch in modo che non si
potessero alzare, chiuse erano e chiuse dovevano rimanere. I cassetti
erano
aperti, le posate e le tovagliette all’interno se ne stavano
alla rinfusa. Il
bagno, che una volta era azzurro, era grigio, di sporco, con qualche
macchiolina
di sangue spruzzata qua e la. Il salotto era rimasto invaso di
bottiglie rotte
di birra, i quadri erano strappati…non era quella la casa di
Edward, era una
caverna, come la sua anima. Marchiata dal senso di colpa, mi accasciai
nel
tappetto di vetri rotti, scoppiai a piangere consapevole delle mie
colpe, di
aver dato a Edward l’accesso nella mia vita, dandogli modo di
amare quella
creaturina che giorno dopo giorno stava prendendo vita dentro di me,
dandogli
modo di immaginare un futuro fatto di passeggiate primaverili con lui
che
spingeva amorevolmente la carrozzina. Edward, forse prima di me, aveva
accettato tutto questo a cuore aperto, consapevole delle notti insonni,
dei
mali odori, dei pianti incessanti, della pazienza che avrebbe dovuto
avere con
lui fino a quando da solo avrebbe imparato a vivere…aveva
costruito la sua
quotidianità sulla base di quello che doveva essere nostro figlio. Era spaventoso vedere il
legame che effettivamente c’era
tra lui e Ted…era una cosa che non avrei creduto possibile.
Ricordai quando litigammo
e una fitta al petto mi mozzò il fiato…
“Questa
cosa non ti riguarda Edward”,
il suo viso marcato
dal dolore per
quella frase ingiusta e crudele… “Ho capito.
Sì, certo. Io non sono
nessuno,
qui.” Invece
lui era tutto, lo è adesso e lo sarà per sempre.
«Dov’eri?»
Mormorai, non
riuscendo a guardarlo negli occhi.
«Colazione?» Disse sorridendomi
appena, tra le mani un sacchettino e un cartone con i bicchieri del
caffè
dentro. Da quando non ero più gravida, il mio corpo
richiedeva
inconfondibilmente caffeina. Annuii distratta e scostai la sedia dal
tavolo
sedendomi, nell’attesa del suo arrivo avevo sistemato un
po’ quella topaia,
infatti, si guardò attorno sorpreso.
«Hai sistemato…» disse
lasciando la frase in sospeso.
«Mi dispiace…io…»
balbettò. Io
alzai gli occhi al cielo e scossi la testa. Mi guardò per
qualche istante ma
non seppi riconoscere se il suo era uno sguardo di scuse…non
riuscivo a
guardarlo, era più forte di me. Cominciammo a mangiare i
muffin, io riuscii a
mangiarne solo metà…essere rimasta digiuna per
molto tempo o, comunque, aver
mangiato un minimo di quanto il mio corpo era abituato, aveva lasciato
il segno…ogni
volta che provavo a mangiare mi si chiudeva lo stomaco. Avevo
realizzato che
non mangiare non mi avrebbe portato indietro mio
figlio…dovevo accettare quella
cosa…e tutto il resto.
«Non mangi più?» Mi chiese
colpevole. Scossi la testa e bevvi il mio caffè scottandomi
la lingua, qualcosa
dovevo pur farla, non mi sentivo a mio agio ferma e con i suoi occhi
addosso.
«Non è non mangiando che…»
«Che? Cosa Edward?» Gli chiesi
alzando la voce di qualche ottava.
«Niente…» mormorò abbassando
gli occhi sul pavimento della cucina.
«Da quanto lo fai?» Gli chiesi,
conoscevo già la risposta, più o meno, ma avevo
bisogno che lui me ne parlasse.
Mi guardò confuso ed io con un gesto della mano indicai le
sue braccia.
«Oh…da un po’.»
«Quantifica Edward.»
«Dal giorno del funerale.» Immaginavo,
ma la conferma fu come uno schiaffo per niente meritato.
«E tu? Da quando lo sai?»
«Da stanotte. Cos’è? Eri così
fatto che non ricordi nemmeno di avermi portata a letto senza degnarti
di
stenderti al mio fianco?» Urlai facendo cadere il bicchiere
con la bevanda
bollente.
«Bella…»
«Niente Bella! Devi renderti
conto che questo non ti porterà nulla indietro, che stai
solo contribuendo a
distruggere la tua vita.»
«Non ce la faccio…è l’unico
modo per dimenticare anche solo per un minuto. Non ce la
faccio.» Vidi una
lacrima adagiarsi sul suo muffin. Sentii il magone farsi strada per
venir fuori
carico di lacrime, ma riuscii a ingoiarlo, non potevo cedere.
«Vai a casa, Bella. I tuoi
occhi non si posano su di me, i tuoi occhi implorano pietà.
Vai a casa e torna,
quando potrai mai perdonarmi.» Cominciò a
singhiozzare con la testa bassa, i
suoi capelli toccavano il muffin che aveva davanti. Il mio cuore, ormai
in
pezzi da un po’, si spezzò rendendo quei famosi
pezzi in coriandoli neri.
Afferrai la mia borsa e uscii da quella casa. Capivo Edward e il suo
dolore, ma
non ero abbastanza forte per tirarlo fuori da tutto
quello…non lo ero per
niente, entrambi avevamo bisogno di una persona forte al nostro fianco,
insieme
sapevamo solo distruggerci di più. Nella strada del ritorno
incontrai Melanie
che non appena mi vide mi sigillò tra le sue braccia,
respiravo a fatica eppure
quel gesto affettuoso mi fece sentire in pace per qualche attimo.
Passeggiamo com’eravamo
solite a fare, Hayley non si faceva sentire, piombava a casa mia quasi
tutti i
giorni, non riusciva a sentirmi per telefono, forse per paura che
potesse
peggiorare la situazione e non potesse vedermi. Hayley con me usava la
vista,
ogni mio gesto dava lei l’accesso alle mie parole non dette.
Melanie invece era
apprensiva, mi chiamava tre volte al giorno, veniva a trovarmi tutti i
giorni
e, spesso, mi guardava dormire tutta la notte. Loro c’erano
sempre state e lo
avrebbero fatto nonostante tutto, quando le guardavo negli occhi il
senso di
colpa mi pungeva come un ago nel viso. Ero consapevole che non era
colpa mia,
ma se solo nel corso della mia vita fossi stata sempre da sola, in quel
frangente nessuno avrebbe sofferto nel vedermi in quello stato. Volevo
stare
più tranquilla per loro, per mia madre e, soprattutto, per
Edward, ma non ci
riuscivo. Non raccontai a Melanie di Edward, anche solo nominarlo mi
faceva
male.
«Hayley ci chiede di andare a
casa sua.» Mormorò sovrappensiero Mel col
cellulare tra le mani. Mi alzai dalla
panchina, gettai il bicchierino col caffè e insieme andammo
a casa della nostra
amica. L’abbraccio di Hayley mi diede lo stesso calore di
quello di Melanie.
Molti dicono che le amiche possono aiutare fino ad un certo punto,
eppure senza
di loro sarei stata completamente persa. Loro non mi capivano, ma
giravano
attorno al mio dolore facendo sì che riuscivano anche solo
intuirlo. Non
usavano le solite frasi fatte da “andrà tutto
bene” o “passerà”. Cercavano
solo
di farmi pensare ad altro e a volte ci riuscivano.
«Edward?» Mi chiese Hayley,
versando un po’ di succo all’arancia sui bicchieri.
«Come sempre.»
«Non sei brava a nascondere le
cose, tesoro.» Mi torturai le dita dal nervoso…non
volevo dire loro quello che
avevo scoperto di Edward eppure, una parte di me aveva bisogno di
rivelarlo a
qualcuno…come se si alleggerisse il peso della scoperta.
Raccontai loro l’accaduto
e aspettai la loro opinione che per circa dieci minuti non
arrivò.
«Povero Edward» mormorò Melanie.
«Io non lo capisco!» Sbottò
l’altra.
Guardai le mie mani, non sapendo che fare o dire e iniziai a piangere
silenziosamente, le lacrime di colpo erano tornate. Spesso mi dicevo:
“non
piangere, non piangere, non piangere” invece quelle famose
gocce salate
scivolavano sul mio viso lente e calde. Più mi ripetevo di
non piangere più la
voglia di farlo diventava insistente.
«Così non va bene. Dovrebbe
essere lui ad aiutarti!» Hayley si alzò dal divano
e cominciò a camminare per tutta
la stanza, in risposta uno sbuffo di Melanie che intimava a farla stare
zitta.
Ovviamente, la schiettezza di Hayley vinse anche quella volta.
«Non dico che dovete
dimenticare, ma che cazzo! Cercate almeno di venirvi incontro tra di
voi,
prendere altre strade per sopravvivere non servirà a
niente!» Si passò una mano
sul viso e mi guardò aspettandosi che facessi qualcosa. Dal
mio canto ero
tramortita, non sapevo cosa dire, sapevo solo che aveva ragione.
«Non puoi sapere cosa passa per
la loro mente, Hayley.» Disse Mel.
«Alzati Bella, vai da lui. A
quanto pare quella più forte qui sei tu. Aiutalo a farlo
andare avanti, menalo
se sarà necessario! Non è colpa vostra,
né tu né lui potete fare qualcosa! Solo
la macchina del tempo potrebbe e, poiché ancora non
è stata inventata, dovrete
trovare un modo per uscire da questo burrone.»
«Ci ho provato…Dio, ci ho
provato.» Sussurrai piangendo.
«Non abbastanza.» Mi disse con
voce dura. Melanie mi abbracciò forte.
«Hai mollato alla prima
difficoltà, non darti per vinta e, soprattutto insegna lui a
ricominciare. Se
ricomincia lui, lo farai anche tu.» Annuii cercando di
afferrare la forza che
le parole della mia amica hanno cercato di trasmettermi. Mi alzai,
annuendo
ancora tra me e uscii da quella casa.
Ripercorrendo
per la centesima
volta quella strada, mi resi conto che non erano state solo le parole
di Hayley
a farmi scattare. Dall’inizio, nonostante non riuscissi ad
ammetterlo a me
stessa, ero consapevole che quella più forte tra me e lui
ero io. Trovavo
difficile da credere. Nonostante il dolore, mentre le mie gambe
camminavano dove
la mente li aveva indirizzate, ricordai la forza che mi aveva dato lui,
quando
sola mi ritrovai con un bambino in grembo. In quel tempo credevo che
sarei
rimasta sola e con un bambino da crescere, non era quello che mi faceva
paura,
anzi, mio figlio mi avrebbe dato la forza di sorridere ancora, per
sempre. Nei
miei nove mesi, quando ero ancora all’inizio, mi vedevo sola
e piangente,
abbandonata come se meritassi quel futuro…ed è
arrivato lui a dare luce nella mia
anima, a ricordarmi che se anche ero rimasta da sola, la colpa non era
solo
mia, mi ha fatto credere nell’amore quello
vero…quello tra me e lui, quello tra
lui e il nostro piccolo bambino.
Sapevo che Ted sarebbe stato come un figlio suo per Edward, sapevo che
l’affetto
era sconsiderato tanto quanto il mio, quello che non sapevo era che ci
fosse
così dentro. Aveva creato un legame intenso, indissolubile e
ne stava pagando
le conseguenze. La mia mente se lo immaginò, in lacrime, con
le sue bottiglie
di birra sparse attorno, con un cucchiaio, una bustina, un accendino e
una siringa…cominciai
a piangere silenziosamente e mi dissi che quella era l’ultima
volta, l’ultima
lacrima. Piangendo non avrei concluso niente, mi ero già
sfogata, era arrivato
il momento di farlo fare a lui.
Entrai e stranamente la casa
era come l’avevo lasciata, Edward dormiva sul divano.
Furtivamente alzai la sua
manica a tre quarti e notai che nel buco di ieri notte si era formata
una
crosticina, alzai quindi l’altra manica e notai che
l’altro era pulito.
Sospirai di sollievo e cominciai a baciargli il viso. Lui
strabuzzò gli occhi e
mi guardò confuso.
«Bella…» Mormorò, non era una
domanda né una risposta…era solo il mio nome,
sussurrato, era quasi come se
avesse bisogno di dirlo.
«Sono qui.»
«Devi andartene.»
«Sono qui.» Ripetei con più
enfasi.
«Non ti fa bene stare qui,
Bella.»
«Edward.» Tuonai con tono
autoritario.
«Perdonami. Se sono
irresponsabile, se anch’io ti ho fatto piangere quando
già l’hai fatto troppo.
Dovrei aiutarti e invece?» I suoi occhi si fusero con i miei
regalandomi un
minuscolo attimo di gioia.
«E invece ci aiuteremo insieme.»
Mormorai sicura di quello che stavi dicendo.
«Guardami!» Urlò alzandosi da
divano. E lo guardai. Era quell’Edward, il fantasma
dell’Edward che avevo
conosciuto. Ci sarebbe voluto più tempo del previsto per
farlo tornare come
prima…ma mi chiesi; lo faremo mai?
«Calmati, Edward. Insieme,
dobbiamo stare insieme e ripartiremo.»
«È doloroso.»
«Ce
la faremo.»
«È
impossibile.»
«Niente
è impossibile.» Una lacrima cercò di
uscire da uno dei miei occhi. La trattenni.
«Non
piangere.»
«Non
farlo neanche tu.»
No,
okay, IMPERDONABILE, non rende chiaro il
concetto.
Sia per il ritardo sia per il capitolo.
Sono stati giorni pesanti per me…quando
c’è la
salute di mezzo, non hai mai voglia di fare nulla se non poltrire nel
divano a
sperare che tutto andrà bene.
Cercherò di esserci di più, chi mi conosce sa che
non mi piace fare aspettare.
Ce la metterò tutta! Voi intanto non
abbandonatemi.
Un abbraccio grandissimo, per il supporto e per
le parole che mi riservate.
Ps: Questa è la mia altra storia, è parecchio
forever alone, mi piacerebbe che ci deste un’occhiata;
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2330245
Roby
<3
|
Ritorna all'indice
Capitolo 16 *** Us, together. ***
Just
a little woman.
Us,
together.
Rimasi
abbracciata a Edward per
quello che parve un anno intero. Non volevo allentare la presa, era
come se
dopo tutto quel tempo eravamo noi, quel
noi che avevo agognato nonostante tutto. E per lui, era lo stesso. Era
come se
sciogliere quell’abbraccio potesse portare a galla la
realtà ancora una
volta…era da stupidi, eppure, il calore del suo abbraccio,
il suo respiro sui
miei capelli, il suo braccio sotto la mia guancia…tutto
questo mi portava in un
mondo, dove noi eravamo felici,
dove
c’era tutto e allo stesso tempo niente. Mi resi conto che noi, sia nella realtà sia in
quel nostro limbo, eravamo ancora lì,
pronti a sorreggere l’altro, a essere ancora una volta forti,
a uscire
dall’oblio, a essere noi.
Una
settimana dopo.
«Tocca
a te» mormorai, dopo
aver avuto il colloquio con il direttore
dell’università. Era il primo passo
per ricominciare, per poter riprendere a camminare sulle strade della
nostra
vita. Pensavo al mio piccolo ogni attimo, in qualsiasi momento. Faceva
ancora male
ma non volevo arrendermi…la vita mi aveva portata a quello e
stavo imparando ad
accettarlo. È tutto più facile quando nel corso
della vita hai qualcosa per la
quale lottare, ed io ce l’avevo, finalmente, dovevo aiutare
Edward che, tra i
due, era quello più debole, dovevo riportare a galla la sua
anima sepolta dal
dolore, volevo far tornare il suo sorriso, il più bello,
vivo e sincero. Con
una nuova luce sul cuore fissai le sue spalle mentre si avviava nello
studio. Eravamo
già ad Aprile, ma potevamo riprendere con studi. Il
direttore mi aveva proposto
di ricominciare a Settembre…ed io ci stavo pensando. Ero
quasi pronta per
ricominciare, mancava solo l’ultimo pezzo del puzzle, ed era
lì dentro, avrei
aspettato il suo giudizio, la sua scelta per portare avanti la mia.
Edward ed
io agivamo in sincrono, io avevo bisogno di lui per muovermi e lui
aveva
bisogno della mia spinta per farlo. Dovevamo solo trovare il modo
giusto per
unirci ancora una volta. Voltai la testa verso la grande finestra, in
lontananza si vedeva il traffico, la gente di fretta, donne con le
borse della
spesa che si alteravano con il cellulare all’orecchio, un
albero di ciliegio
che stava presentando per l’ennesima volta dei fiori nuovi.
Eravamo in
primavera e mi sembrava una coincidenza perfetta per tornare in marcia.
Pensai
a mia madre…erano giorni che non la sentivo né
vedevo, aveva preferito
lasciarmi i miei spazi, poiché la sua dannata
sincerità le imponeva a starmi
lontana. Mi mancava la mia mamma. Me la immaginai nel suo grande studio
mentre
prendeva il cellulare componendo il mio numero per poi lanciarlo sulla
borsa,
me la immaginai che si torturava le mani, me la immaginai parlare con
sé: “devo
trovare un modo”, “devo fare qualcosa”,
“non può cavarsela da sola”. Per mia
madre e, per quasi tutte le mamme del mondo, i figli non crescevano
mai,
restavano piccoli per sempre. Sorrisi tra me, dopo un tempo
lunghissimo, e
pensai: “ce la sto facendo mamma”, “un
passo alla volta e ce la farò, ce
la faremo”.
«Fatto»
mormorò Edward con la
voce spenta. Mi alzai e insieme ci dirigemmo all’uscita. Non
parlai, non gli
chiesi niente, aspettavo che fosse lui a dirmi qualcosa. Entrammo nella
sua
auto ancora in silenzio religioso. Mi torturai le mani, non facendo
caso alla
strada che stavamo percorrendo. A tirarmi fuori dalla mia piccola
trance fu un
suo singhiozzo. Guardai prima lui, con le mani sopra al cappellino da
baseball
rosso e verde, i gomiti sul volante, e la sua testa china…il
manubrio gocciolato
dalle sue lacrime. Mi si strinse lo stomaco e con tutte le mie forze
m’imposi
di non piangere. Carezzai le sue braccia e avvicinai la mia guancia
alla sua.
Restammo così per quelle che parvero ore, la sua mano
stringeva la mia. Eravamo
in silenzio, un silenzio troppo rumoroso. Alzai la testa indolenzita e
quando
vidi il cancello del cimitero restai spiazzata.
«Ci
vengo spesso.»
«L’avevo
immaginato» mormorai
con una lacrima sull’uscio dell’occhio.
«Bella…»
rimasi a fissare il
cancello di ferro, ricoperto da piante rampicanti, non riuscendo a
distogliere
lo sguardo.
«Io…non
dovevo portarti qui»
sussurrò colpevole. Non riuscivo a parlare…volevo
entrare? Non lo volevo? La
mia mente era troppo confusa, troppo ferita. Non ero più
riuscita a entrare lì
dentro dal giorno del funerale…Edward invece lo aveva fatto,
fu in quel momento
che mi chiesi fin dove arrivasse la sua debolezza.
«Tranquillo»
mormorai non
riuscendo a muovere gli occhi. Dopo minuti interminabili scesi dalla
macchina e
lui mi seguì seduta stante. Nonostante fossi entrata in quel
posto solo una
volta, anche a occhi chiusi sarei riuscita ad arrivare dove giaceva mio
figlio.
Mi sedetti sull’erba umida e accarezzai il marmo freddo,
tutto questo con
Edward al mio fianco. Le forze mi abbandonarono e le lacrime che avevo
tenuto
fino allora sfociarono come un fiume in piena. Con premura, mentre i
singhiozzi
scalfivano il mio petto, cambiai i fiori e pulii il
marmo…non era messo tanto
male…immaginai che quello che avrei dovuto fare io in quegli
ultimi mesi
l’avesse fatto Edward. Me lo immaginai, qui, solo, in
silenzio, mentre puliva
la lapide di nostro figlio…mentre, seduto a gambe
incrociate, aspettava che la
mia sagoma sbucasse in lontananza per poi avvicinarsi a lui. Lo
abbracciai così
forte che mi mancò il respiro. Quella fu la prima volta che
piangemmo insieme,
stretti nel nostro abbraccio, con gli occhi su quel pezzo di marmo che
poco
poteva darci se non un altro ricordo.
«Non
riesco a pensare che…»
balbettai con le lacrime che inondavano il mio viso.
«Non
ce la faccio, Edward»
sussurrai esausta, mentre con lentezza mi abbandonavo alle sue braccia.
Lui mi
afferrò con delicatezza dalle spalle e mi guardò
negli occhi.
«Stiamo
andando bene» mi disse
con sincerità.
«Dobbiamo
farcela, per lui»
Continuò stringendo gli occhi per evitare che altre lacrime
profanassero il suo
splendido viso.
«Dobbiamo
lottare. Per nostro
figlio» baciai le sue labbra non riuscendo più a
trattenermi e, mentre dal
cielo la pioggia aveva cominciato a scendere e le sue labbra si erano
fuse con
le mie, io annuivo a tutto quello che lui mi aveva sussurrato davanti a
nostro
figlio. Nessuno ce lo avrebbe mai più riportato
indietro…dovevamo rassegnarci.
Quel
pomeriggio Edward mi
accompagnò a casa, aveva un appuntamento con Alice ed io ne
approfittai per
poter stare con mia madre. Non appena varcai la soglia di casa corse ad
abbracciarmi. Nonostante i miei diciannove anni avevo ancora bisogno di
lei, ne
avrei avuto per sempre. Ci sedemmo sul piccolo tavolo della cucina e ci
guardammo negli occhi. Nei suoi c’era rassegnazione,
tristezza ma, tanta,
immensa voglia di andare avanti. Non conoscevo mio padre, eppure sapevo
benissimo, quando pensavo di voler mollare tutto, che avevo preso da
lui quel
tipo di comportamento. Era amaro da pensare, ma il mio carattere era
l’inverso
di quello di mia madre. Lei era andata avanti, lei non mostrava mai un
attimo
di debolezza, lei sorrideva anche quando il suo cuore voleva piangere.
Io non
ero così, non appena mi si presentava davanti una situazione
negativa mi
piangevo addosso, non avevo mai voglia di sorridere se non quando le
cose
andavano bene…avrei voluto tanto essere come lei.
«Come
stai?»
«Meglio.»
mormorai, rendendomi
conto che per la prima volta dopo parecchio tempo non stavo mentendo.
Ero
consapevole che non sarei mai riuscita a dimenticare mio
figlio…eppure, lì, in
qualche piccolo angolo della mia mente sapevo che dovevo farcela, anche
quella
volta. Passai il pomeriggio a casa mia come non facevo da troppo tempo.
Parlare
con mia madre, per l’ennesima volta, si era rivelato utile e
divertente…mi
sentivo libera, più leggera. I giorni passarono e giorno
dopo giorno mi rendevo
conto di star guarendo, ci avevo anche perso le speranze. Alla sera,
però,
chiudevo gli occhi e mi rivedevo in quel passato che non era poi tanto
lontano
dal presente; la mia pancia rotonda, liscia e perfetta, le mani di
Edward su di
essa, i calcetti del mio piccolo, l’emozione di sentirlo vivo
dentro di me.
Erano cose che mai avrei dimenticato, erano ricordi che lasciavano il
mio cuore
permanentemente spezzato.
«Che
dici?» chiesi a Edward,
per l’ennesima volta davanti allo specchio di una piccola
boutique. Stavo
comprando dei vestiti per me, il non essere più incinta e il
non aver mangiato
decentemente negli ultimi tempi mi aveva costretta a ricambiare il mio
guardaroba. Mi ero presa parecchi rimproveri…ma dopo poche
parole mi guardavano
negli occhi e vedevano tutto il motivo per il quale ero in quello
stato. Odiavo
piangermi addosso, eppure c’erano delle sere che non riuscivo
a farne a meno.
Quando Edward ed io eravamo lontani, passavo il mio tempo da perfetta
automa,
avevo paura ogni qualvolta mi lasciava sul vialetto di casa. Avevamo
stabilito
un certo equilibrio dalla morte del piccolo, stabilità che
io gestivo bene solo
quando lui era al mio fianco. In quegli ultimi giorni capii finalmente
il
perché della mia forza, più grande di quella del
ragazzo che amavo. Io avevo
lui che mia amava come se fossi l’unica donna del mondo, nel
mio subconscio
sapevo di non esser sola, che nonostante tutto lui sarebbe rimasto
lì ad
aspettarmi, che nel suo cuore c’era sempre un posto per me.
Edward, invece,
credeva di aver perso anche me e, forse, per un piccolo periodo era
successo.
In quel momento, cercai di vedere la scena dall’alto, da
spettatrice…in quel
momento c’era una coppia che viveva nella
quotidianità normalmente, dei ragazzi
che con gli occhi si sorridevano, nel silenzio dei loro cuori sapevano
dirsi la
cosa più importante da dire in certi momenti. Io che,
ovviamente, ero di parte
sentivo quella sensazione che credevo non essere più capace
di riuscire a percepire;
la speranza.
Le
sue mani calde lasciavano
scie su qualsiasi parte del mio corpo, le mie afferravano i suoi
capelli con
forza e determinazione. Non riuscivo a staccarmi da lui e
lì, sul suo letto con
le sue labbra nelle mie non avevo motivo per interrompere quel momento
tanto
desiderato. Carezzai le sue braccia e mi fermai quando sentii una
crosticina.
«Non
farlo più ti prego»
mormorai con la voce tremante.
«Non
lo faccio da quando sei
tornata» mi disse con gli occhi nei miei. Le nostre fronti
s’incollarono e
sentii la stoffa dei miei slip sfaldarsi per mano delle sue dita, andai
in
paradiso per poi riscendere in picchiata verso l’inferno dal
momento in cui le
sue dita si fecero strada all’interno della mia
intimità. Credevo che niente
sarebbe mai stato uguale a prima, la vita, le abitudini e le emozioni
stesse.
Eppure, quella volta, in quel letto con l’uomo che amavo,
dovetti ricredermi.
Il tocco di Edward mi dava le stesse emozioni, mi riempivano il petto
di gioia
e passione. Nell’amplesso avevo sempre avuto quella strana
voglia di piangere,
avevo sempre creduto che l’amore che mi dava Edward era
troppo per il mio
povero cuore. Questa notte scoprii che potevo ancora amare. Noi,
nonostante
tutto, avremmo potuto camminare mano nella mano, poiché
insieme c'eravamo già
alzati.
«Vieni
a vivere con me.»
«Edward…»
_______________________________________
Lo
so, sono più che imperdonabile.
Sono
in un ritardo mostruoso,
nonostante la sospensione di ITM…però ho avuto un
sacco di cose da fare…dico
davvero, ogni volta mi veniva di mandare tutto a fanculo e di aprire il
pc per
scrivere. Ammetto di averlo fatto qualche volta xD sicuramente noterete
i
piccoli capitoli (?) che ho scritto mano a mano per farne uno.
Da
oggi cercherò di essere più
puntuale…anche perché io odio essere in ritardo
e.e da quando scrivo è la prima
volta che succede u.u
Adesso
me ne vado…la prossima
settimana ci sarà il prossimo capitolo…o al
massimo ci metterò tutta me stessa
per farlo accadere!
Vi
adoro.
Roby <3
|
Ritorna all'indice
Capitolo 17 *** And if you go, I wanna go with You. ***
Just
a little woman.
And if you go, I wanna go with you.
Non
sapevo se avevo compreso
bene le parole di Edward…eppure il suo sguardo mi faceva
intendere che avevo
capito bene…forse non volevo accettare che lo avesse fatto
davvero o, forse,
era troppo bello per essere vero. Lo guardai ancora non riuscendo ad
aprir
bocca, un sorriso spontaneo nacque sulle mie labbra e capii; non
c’erano parole
d’aggiungere, non c’erano dubbi, nessun motivo per
il quale avrei dovuto
rifiutare.
«Volevo
chiedertelo prima in
realtà…quando…»
«Quando?»
Domandai, riuscendo a
parlare.
«Quando
dovevo venire all’incontro
con Jacob stavo aspettando che la gioielleria qua vicino aprisse.
C’era su un
cartello con scritto: torno subito, ma dopo pochi minuti avevano
chiamato e…»
con l’indice chiusi le sue labbra, non volendo più
sentire quello che aveva da
dirmi, non volendo rovinare quel momento che irrimediabilmente era
stato nostro
e, volevo che continuasse ad esserlo.
«Basta. Ho capito.» Restammo in
silenzio e capii dai suoi occhi che la malinconia per
l’ennesima volta aveva
preso il sopravvento…non riuscivo a stare ancora una volta
ferma e zitta,
perciò avvicinai le mie labbra alle sue, promettendogli che
insieme avremmo
costruito quello che da quel giorno avremmo chiamato futuro. Non appena
le sue
mani ripresero la corsa sul mio corpo, la mia mente si
svuotò completamente. C’eravamo
solo io, lui e il nostro amore. Afferrai i suoi capelli tra le mie dita
e, quando
la sua guancia coperta da un filo di barba, sfiorò il mio
seno, persi del tutto
la concezione delle cose. Si sentivano solo i miei gemiti e se solo
fosse stato
qualche mese prima sarei arrossita fino a morire, in quel momento
invece non
avevo paura dei limiti, anzi, volevo violarli fino al confine che era
infinito.
Penetrò la mia intimità con l’indice,
aggiungendo dopo un po’ il medio, ruotai
la testa per il troppo piacere e quasi scoppiai a piangere. La mia mano
si
intrufolò dentro i suoi boxer e toccai il suo membro liscio
e caldo, strinsi
forte le dita attorno e Edward non poté fare a meno di
stringere forte un mio
seno con la mano libera. Chiusi gli occhi e assaporai quel momento con
ogni
cellula del mio organismo, quando li riaprii vidi le sue labbra che mi
sorridevano.
«Sei
bellissima. »
«Tu
sei bellissimo. »
«Ti
amo…»
«Fino
a quando i miei occhi non
si chiuderanno per sempre.» Finii la frase, la più
vera che in quel momento ci
rappresentava. Una lacrima di commozione rigò il suo viso ed
io l’asciugai
prontamente con un bacio.
«Basta
piangere.» Ripetemmo all’unisono
un attimo prima di unirci anima e corpo per l’ennesima volta,
nonostante ogni
volta fosse più profonda.
«È
una cosa molto bella.» Mormorò
mia madre, mentre sistemavo la mia roba su una valigia. Non
c’era stato bisogno
di un “sì” per far capire a Edward
quello che volevo. Con gli occhi ci dicevamo
tante verità, era inutile ribattere o negare quello che
potevamo dirci con un
solo sguardo.
«Sì.
Per me lo è davvero.»
Mormorai senza nemmeno rendermene conto…non avevo fatto
conto di come mia madre
avrebbe potuto pensarla al mio trasferimento, eravamo state sempre noi
due,
insieme, eppure adesso io stavo abbandonando la nostra barca e, mi
sentivo in
colpa ad ammetterlo; ero contenta.
«Mangerai
anche senza di me?»
Mi disse malinconica. Voltai la testa e la guardai, era in piedi sulla
soglia
di camera mia con la testa china e le dita che si torturavano tra loro.
«Ti
prometto che mangerò e che
verrò a trovarti tutti i giorni.»
«Sei
sicura? È davvero quello
che vuoi?»
«Sì
mamma, è ciò che voglio,
non desidero nient’altro.» Strabuzzò gli
occhi e scosse la testa.
«Non
puoi sul serio esserne sicura.
Fino a un mese fa non vi vedevate neanche!»
«Questo
non vuol dire niente…non
puoi capire.» Afferrai la valigia mezza piena e mi avvicinai
a lei, dovevo
andarmene, il giorno dopo avremmo parlato con più calma.
«Bella!
Ti ho sempre lasciata
libera di fare ciò che hai sempre creduto fosse meglio per
te, non ti ho mai
messo dei paletti, ma non posso lasciare che mia figlia vada via
distruggendosi
più di come ha già fatto.» La sua voce
si alzò di parecchie ottave ma non era
arrabbiata, non almeno in quell’esatto momento.
«Hai
ragione. Lui però me l’ha
chiesto ed io non ho potuto e, non ho voluto, rifiutare. Io lo amo
mamma,
quello che conta è questo. Non sono sicura che
sarà per sempre, non sono sicura
che non verrò mai qui in piena notte in lacrime, e non so
nemmeno se sarò
felice tutti i giorni, ma devo andare, voglio farlo. Lui ha bisogno di
me ed io
ho bisogno di aiutarlo.»
«Lui
è troppo debole per te,
Bella. Tu hai bisogno di qualcuno più solido per
riprenderti! Non è una sciocchezza
quello che ti è successo!» Era arrabbiata.
«Che
cazzo! Lo so che non è una
sciocchezza! Vuoi dirlo proprio a me? Mi leggi la mente per caso? Pensi
che io
l’abbia presa alla leggera? Bè se la tua risposta
a queste domande è sì ti dico
una cosa; non hai capito un cazzo di tua figlia. » Ero
arrabbiata anch’io.
Scesi frettolosamente le scale e uscii di casa avviandomi alla fermata
dell’autobus.
Edward aveva insistito di accompagnarmi a recuperare le mie cose, ma io
non
avevo voluto, mi aspettavo una sfuriata di mia madre e a lui non
avrebbe fatto
bene sentire quelle parole. Nessuno poteva capire quello che mi legava
a Edward.
Lui era più debole e aveva bisogno di qualcuno
sì, più forte, ma che lo capisse
perfettamente. Io avevo bisogno di prendermi cura di lui, volevo lui e
nessun’altro.
Una macchina si fermò sotto ai miei occhi e non potei fare a
meno di guardare
chi c’era dentro. Alice.
«Bella.
Che fai qui?»
«Aspetto
il bus per andare da
Edward.»
«Sali
dai.» Sola e nervosa com’ero
non ci pensai due volte e salii in macchina. Se fossi ancora rimasta
seduta su
quella panca sarei irrimediabilmente scoppiata a piangere. Era
l’una del
pomeriggio e, stranamente il mio stomaco brontolò. Avevo
fame, ed era una
novità per me dopotutto.
«Passiamo
vicino al parco centrale,
c’è un ristorante che fa cibo italiano
squisito.» Disse Alice sorridendomi. Non
mi ero ancora abituata all’Alice-simpatica ma sorrisi
anch’io mostrandole la
mia gratitudine. Arrivammo al ristorante nel giro di dieci minuti.
Amavo il
cibo italiano ma lo avevo mangiato circa tre volte. Mia madre non aveva
mai
tempo e a Jacob non piaceva…scossi la testa scacciando certi
pensieri ed entrai
lasciando la valigia in macchina. Ci sedemmo e immediatamente una
cameriera
venne a prendere le ordinazioni, io presi una bistecca fiorentina con
contorno
di patate al forno, Alice, invece, una scaloppina al limone con funghi.
Ci
portarono una “Moretti”, una birra nuova per me. A
Berlino la birra era un’usanza,
ma io non ne avevo mai fatto abuso e, nonostante la mia
città fosse la madre
della birra, non mi dispiacque per niente quella italiana altrettanto
amara e
dissetante.
«Cosa
c’è che non va?» Mi
chiese la sorella del mio ragazzo prendendo la mia mano tra le sue.
Scossi la
testa e senza rendermene conto i miei occhi si riempirono di lacrime.
«Ascolta
Bella, io non so nulla
di te, ti conosco appena. Parto col dirti che mi scuso del mio
comportamento
all’inizio, ma come sai Edward ha sofferto molto ed io avevo
paura. Ho
sbagliato e spero che tu possa dimenticare quel brutto periodo.
Però adesso ho
capito che Edward ha bisogno di te come nessuno mai. Ho visto mio
fratello
felice, ma una felicità di quelle che vedi raramente negli
occhi delle persone.
Mio fratello si sentiva padre di quel figlio e tu glielo hai permesso.
Il
vostro amore, Bella, è una cosa bellissima che si sente
nell’aria. Io lo sento,
qui, adesso, tu lo ami ed io mi odio se penso a come ti ho trattata
all’inizio.
Stai andando a vivere da lui e questo vi farà capire tante
cose. Non pentirti
mai di quello che hai fatto o che farai, non rinunciare mai a quello in
cui credi.
Sei una donna forte ed io ti ammiro con tutta me stessa.»
Scoppiai a piangere a
metà del discorso di Alice, non ce la facevo a trattenermi.
Annuii con la testa
e la ringraziai per mille volte. Ero consapevole di tutto quello che
Alice mi
aveva appena detto, eppure, sentirlo dire dalle labbra di qualcun altro
era una
cosa meravigliosa. Mangiammo e parlammo come amiche da una vita. Mi
sentivo in
sintonia con questa nuova Alice e qualcosa mi diceva che quella non era
l’ultima
volta. Mi lasciò davanti casa di Edward e le chiesi di
entrare ma lei mi disse
che aveva una cosa da fare, una cosa che mi avrebbe fatto conoscere tra
qualche
settimana. Entrai, avendo ormai le chiavi e quello che vidi mi fece
pentire di
essere arrivata proprio in quel momento.
Edward singhiozzava tra le braccia
di sua madre. Non si erano accorti di me. Richiusi la porta in
silenzio, mi allontanai
un po’ avviandomi verso il piccolo giardino, posai la valigia
per terra e mi ci
sedetti sopra. Mi coprii gli occhi con le mani e scoppiai a piangere
senza
pensare a nulla, dovevo solo piangere, piangere e piangere. Tutto
quello prima
o poi doveva finire.
Non
appena sentii la voce di
Esme fuori dalla porta d’ingresso mi alzai asciugandomi gli
occhi con la manica
del cardigan ed entrai.
«Eri
qui fuori.»
«Sì.»
Non gli dissi che ero
entrata vedendolo in quello stato, avrebbe solo peggiorato la
situazione. Non
glielo dissi, ma lui lo capì ugualmente. Prese la mia
valigia e la portò in
camera sua, nostra. Lo seguii e lo guardai tirare fuori ogni indumento,
piegarlo accuratamente e sistemarlo nel lato vacante
dell’armadio. Prese le
creme, trucchi, balsami e quant’altro e li sistemò
sopra uno scaffale della
stanza, anch’esso svuotato da poco. Quando ebbe finito,
afferrò la valigia
vuota e la depose sopra l’armadio, insieme alle altre, le sue.
«Sarà
bello averti qui. Sempre.»
«Già,
sempre.» Si
avvicinò a grandi falcate e mi abbracciò
forte.
«Saprai
davvero sopportarmi per
tutto il tempo?» Gli chiesi per spazzare via ancora una volta
la sua
malinconia.
«Dovrei
chiedertelo io.»
Scoppiammo a ridere e ci baciammo con tenerezza.
«Bella.
Se dovrei essere troppo
pesante, troppo difficile da sopportare voglio che tu me lo
dica.»
«Va
bene.»
«Se
non vuoi stare qui devi
dirmelo.»
«Va
bene.»
«Andrò
via, se tutto questo dovesse
essere troppo per te, andrò via.»
«Se
tu andrai via io verrò con
te.»
«Ovunque?»
«Sì.
Per sempre.»
Salveeeeeee!
Ho fatto presto!
Uhm, che strano xD
Lo
so che è corto e.e però
davvero non ho altro da aggiungere!
Molte
mi hanno chiesto se Billy
Black si farà vivo, la risposta è sì,
e sarà nel prossimo capitolo!
Ps:
il titolo è preso da una
canzone (chi ha letto Love save the pain la conosce) lonely day, i
prossimi due
capitoli continueranno con la frase della canzone. Perché?
Io credo che sia
troppo adatta! O forse sono io che mi sono fissata talmente da
inserirla
ovunque.
Vado
u.u
Vi
adoro, Grazie di TUTTO!
<3
Roby <3
|
Ritorna all'indice
Capitolo 18 *** And if You die, I wanna die with You. ***
Just a little woman.
And
if You die, I wanna die with you.
Non
sentivo né vedevo mia madre da una settimana.
Troppo orgogliosa per farsi sentire ed io troppo ferita
per
farlo. Dicono che, in qualsiasi tipo di rapporto, l’orgoglio
dev’essere buttato
via, lei non lo aveva fatto. Ero arrabbiata con lei, perché
per quando potesse
essere spaventata quella era la mia vita ed io avevo scelto
di viverla in quel modo. Amavo Edward e avrei fatto qualsiasi cosa per
lui. Ero
seduta sul piccolo tavolo della cucina, e, solo dopo le mie piccole
riflessioni
mi resi conto che il mio caffè era diventato uno schifo. Lo
gettai sul
lavandino e mi passai una mano sul viso. Edward era andato a fare la
spesa
mentre dormivo, era il suo modo per “scappare” a
certi tipi di pensieri.
Un passo alla volta e ce l’avremmo fatta, quella volta ero
fiduciosa. Cominciai a pulire casa e cercai di pensare a tutto meno che
a quello. Quando aprii
l’armadio di
Edward, per sistemare i panni stirati, intravidi un sacchettino
familiare. La
curiosità è donna; perciò lo afferrai
e lo aprii.
Certo che era familiare.
Era quel
sacchettino, quello che avevo visto qualche mese fa quando andammo a
fare
compere prenatali. Una cosa che non mi era familiare però,
era una busta
azzurra, l’aprii e vidi che c’erano parecchi fogli
piegati, li aprii e
cominciai a leggere:
Ciao
Ted,
Quando
ero piccolino, osservavo spesso mio padre perdendomi a pensare a lui
molto
spesso nell’arco delle giornate. All’età
di undici anni mi dissi: “Anch’io
voglio diventare padre” tu…stavi per rendere quel
sogno realtà. Forse, in
qualche altra vita precedente ho fatto qualcosa di sbagliato per
meritare la
tua perdita.
Le
piccole lettere, in tutto, erano tre.
Caro
piccolino,
Forse,
scriverti è un’assurdità ma, se ti
dicessi che farlo mi fa stare bene mi
crederesti? Non vedo la mamma da un mese ormai e mi sento morire giorno
dopo
giorno. A quest’ora avresti dovuto essere tra le nostre
braccia, piccolo e
indifeso. Oggi ero andato a fare una passeggiata, c’era un
papà con una bimba sulla
bicicletta…nella mia mente ci avevo visti insieme in quel
modo tante…infinite
volte.
Sul
terzo foglio c’era una sola riga.
Soffro
la tua assenza più di qualsiasi altra cosa al mondo.
Scoppiai
a piangere, nonostante fossi del tutto consapevole
dell’amore che Edward provava nei confronti del nostro
piccolo Ted. La sua mano
- non c’era bisogno di pensarci su
per riconoscere il suo tocco anche con un
solo sfioramento – si adagiò delicatamente sulla
mia spalla e sentii il sapore
amaro delle sue lacrime fondersi con le mie.
Distruzione; quella era la parola giusta. Passammo il resto
del pomeriggio
abbracciati sul divano a guardare la tv, era triste e, per
più di una volta
pensai di chiedergli se gli andasse di andare a fare un giro, ma non
appena lo
guardavo in faccia, mentre lui distratto cercava invano di pensare al
programma
televisivo che stavano dando in quel momento, mi tiravo indietro. Era
troppo
chiederglielo…chiedercelo. Suonò
il
campanello e, con le gambe addormentate andai ad aprire.
«Ciao!» Urlò Alice entrando come un
ciclone. Edward mi
guardava esattamente come io guardavo Alice; interrogativa. Dietro di
lei,
timido e impacciato, c’era un ragazzo biondino, alto e magro.
«Lui è Jasper» ci disse lei, dando la
spinta ad entrare a
quel povero ragazzo. Facemmo le presentazioni e, solo dopo che Edward e
Jasper
cominciarono a parlare, Alice mi disse che stavano insieme da circa due
mesi.
«Come ti sembra?» Mi chiese imbarazzata, cosa che
mi stupì
molto…lei e l’imbarazzo non andavano completamente
di pari passo.
«Spaventato?» Azzardai per sdrammatizzare,
scoppiò a ridere
e mi abbracciò forte.
«Ti voglio bene, Bella». Una lacrima
lasciò il mio occhio e,
non seppi mai dire se fu per la rivelazione di Alice oppure per la
tensione che
aleggiava costantemente sulla mia testa.
«Te ne voglio anch’io» non ero stata io a
parlare, era stato
il mio cuore che d’istinto provò un affetto
inspiegabile per quel folletto che
inizialmente era una perfetta nana malefica. Sentendo il calore
dell’abbraccio
di Alice e quell’odore indefinibile da
“amica”, pensai ad Hayley e Melanie, mi
mancavano tantissimo, nonostante ci sentissimo telefonicamente
più volte al
dì…feci un respiro profondo e mi promisi di dare
ad entrambe appuntamento per
un caffè l’indomani.
«Edward
non vuole venire» affermò avvilita Alice.
«Cosa?
Dove?» Chiesi totalmente in confusione.
«Gli avevo
chiesto di andare fuori a mangiare, ha detto di
no». Ero consapevole che, per sua sorella, non fosse facile
vedere il proprio
fratello in quelle condizioni, non biasimavo Alice per quella
richiesta, anzi
sentii dentro di me che incoraggiarla sarebbe stata la cosa migliore.
«Vado a
chiederglielo io».
«Bella,
senti mi dispiace…sono stata una stupida a
chiedere…è solo che-»
«Alice. Non
sei una stupida, anzi, sono sicura che tu
l’abbia fatto per farci stare meglio. Andrò a
parlarci…se dirà di no pensi che
Jasper potrebbe offendersi?» Chiesi pensando al ragazzo di
Alice.
«No, lui sa
tutto». Annuii e, non trovando Edward dove
l’avevo lasciato – sul divano - andai in camera da
letto. Era seduto sul letto
con le gambe incrociate e con le dita che si torturavano tra loro.
«Amore».
«Ehi»
sussurrò sorridendomi teneramente.
«Alice…mi
ha detto che lei hai detto di no».
«Tu vuoi
andarci?»
Volevo andarci? Non lo
sapevo. Volevo solo vederlo felice e,
volevo fare contenta Alice, per farle vedere quanto in
realtà il fratello era
migliorato.
«Perché
le hai detto di no?»
«Non
me la sento. Non ce la faccio, è come se
uscire…» non
finì la frase, abbassò solo la testa per non
farmi vedere una piccola lacrima
che lentamente solcava il suo viso.
«È
come se uscendo facessimo un torto a lui…non devi pensare
questo, devi solo cercare di pensare a lui in
modo felice. Non c'è più Edward, non
può sgridarti perché anziché pensare a
lui
tutto il tempo sei andato a mangiare una pizza con tua sorella, non
può essere
deluso da te! Era solo un bambino…» ormai le
lacrime scendevano a dirotto sulle
mie labbra, volevo fare un discorso rincuorante, il problema era che io
non ero
tranquilla e, di rimando non potevo tranquillizzare lui.
«Non puoi
dire queste cose, non ci credi nemmeno tu» mormorò
abbracciandomi.
«Ci
credo, non per adesso…per il nostro futuro».
«Ogni giorno
mi sento morire».
«Non puoi
morire. Non puoi abbandonarmi».
«Cosa
farei senza di te?» Mi chiese increspando le labbra.
«Io non
potrei mai farcela senza di te. Non esiste il mondo
senza di te. E se tu muori io morirò con te»
affermai rendendomi immediatamente
conto che quella era una grande verità. Erano mesi che mi
sentivo il fantasma
di me stessa, eppure, ero ancora lì a combattere per noi, ma
senza di lui non
avrei mai potuto sopportare tutto quello. Senza i suoi occhi ero persa,
con
avrei superato ogni tipo di limite possibile.
Alla
fine, restammo a casa e ordinammo quattro pizze, era
già un grandissimo passo avanti. Quella sera ritrovai un
pezzetto del mio
Edward…lui aveva riso ed io avevo ricordato come far battere
il mio cuore.
«Mamma…»
sussurrai entrando in cucina. Avevo bisogno di
vederla e, soprattutto di vedere se avesse cambiato idea.
«Bella!»
esclamò, scoppiando a piangere. Mi corse incontro e
mi abbracciò come se non ci vedessimo da mesi. Annaspai e
sorrisi sentendo quel
dolce e familiare profumo di mamma. Non c’era modo per
descriverlo, era quell’odore che ti rassicurava in
silenzio, quello che non appena lo sentivi nell’aria eri
consapevole di essere
al sicuro. Ci sedemmo sul tavolo della cucina e mi passò il
cartone del succo
di frutta, al mirtillo, il mio preferito.
«Mamma…»
non feci in tempo a formulare una qualsiasi frase
che mi interruppe.
«Fai parlare
me, ti prego. Devo chiederti scusa…ho sbagliato
e…sono stata una stupida. In questi giorni non ti ho
chiamata perché avevo
paura che fossi talmente arrabbiata da non
rispondermi…perdonami tesoro, ti
prego» disse prendendomi le mani tra le sue.
«Se non ti
avessi perdonata adesso non sarei qui. È solo
che…io
lo amo, non posso fare a meno di lui…»
«E lui non
può fare a meno di te. Lo so adesso e lo sapevo
anche prima. Sono stata davvero troppo stupida». Mi
guardò negli occhi e vidi
tutto quello che desideravo vedere dallo sguardo di mia madre. Lei e la
sua
totale sincerità mi appoggiavano, non mi sentivo di
rimproverarle qualcosa, era
una mamma e, soprattutto, anche lei era umana.
«E ti trovo
migliorata…dico davvero» sussurrò
sorridendomi
dolce. Annuii e l’abbracciai così forte che il
respiro mancò ad entrambe.
Verso metà
pomeriggio, mentre io e mia mamma eravamo uscite
a fare compere sentii il suono del mio cellulare.
«Pronto?»
«Io
e
Sarah avremo bisogno di parlarti…non pensare male di
noi…» non
capivo niente, Billy Black parlava in continuazione ma io guardavo solo
il viso
di mia madre, stavo avvertendo i sensi che stavano vendendo a mancare,
chiusi
gli occhi e mi imposi di calmarmi. Mia madre mi guardava terrorizzata e
le feci
cenno di star tranquilla.
«Domani
alle sei di pomeriggio può andarti bene?»
«Sì»
riuscii a rispondere, «a casa mia, ci vediamo al parco
centrale di Pankow» chiusi la chiamata senza proferire altre
parole e feci un
respiro profondo.
«Era Billy» sussurrò mia madre. Io la
guardai per dar
conferma alla sua affermazione e mi soffermai a pensare a quello che
sarebbe
potuto accadere il giorno dopo. Volevo incontrarli dopotutto, avevo una
gran
voglia di sfogare la mia rabbia repressa con loro…quelli che
avevano messo al
mondo una bestia senza anima, una persona inutile, l’artefice
della mia
distruzione. Forse, altri, avrebbero detto di no, io invece volevo
affrontarli,
ero curiosa di vedere cosa avevano da dirmi. Diventai rossa di rabbia e
se solo
avessi potuto averli davanti in quel momento li avrei menati fino a
fargli
perdere i sensi…invece ero in centro, con mia madre e dovevo
darmi
assolutamente un contegno.
«Hai fatto bene e non negargli l’incontro. Adesso
andiamo
tesoro» sussurrò prendendomi per mano.
Non
appena stavo per infilare la chiave nella toppa la porta
di casa si aprii. C’era Edward che mi sorrideva, ricambiai e
rimasi sorpresa –
tant’è che gettai un urlo – quando mi
prese in braccio e mi buttò sul divano.
Non mi dette nemmeno il tempo di parlare che si avventò
sulle mie labbra,
voglioso e famelico…come non lo era da tempo.
Sbottonò la mia camicetta in un
colpo solo, facendo saltare tutti i bottoni, scoppiai a ridere e lui si
soffermò a guardarmi negli occhi.
«Sei bellissima…ed io ti amo tantissimo».
«Anch’io ti amo» mormorai baciandogli la
punta del naso.
«Fa’ l’amore con me». Sentivo
il suo membro eccitato sulla
coscia, i suoi occhi mi scrutavano con immensa passione, avvicinai le
nostre
labbra e lo baciai sperando che durasse per sempre.
Lo amavo e lo desideravo con tutta me stessa. Saremmo tornati
ad essere felici…era una promessa.
Sì
lo so cwc sono una merda fatta e finita.
HO
UNA NOVITA’ PERO’!
Il mio tempo è stato rubato da un’iniziativa che
ho preso;
sto aprendo un negozietto tutto mio e, credetemi, ci sono un sacco di
cose da
fare, soprattutto farlo di sana pianta…Sabato ci
sarà l’inaugurazione e,
immaginate quanto sia io in alto mare xD
Stamattina
la bolla di ispirazione che mi aleggiava in testa
da settimane è scoppiata…quindi ho spento gli
impegni e ho scritto a manetta.
Anzi, perdonate gli errori ma davvero, sto scappando.
Spero
davvero di non avervi deluse.
Un
bacione,
Roby
<3
|
Ritorna all'indice
Capitolo 19 *** Take Your Hand and walk away, ***
Just
a little woman.
Take
Your hand and walk away.
“Ho
paura”, continuavo a ripetermi. Non amavo mentire a me stessa
e,
per occupare almeno un pochino la mia mente, ripetevo tra me quel
terribile mantra. Avevo paura, terrore, di farmi schiacciare da quel
peso che in quegli ultimi mesi stava diventando man mano più
leggero. Avevo paura di non poter sopportare quello che i genitori di
Jacob stavano venendo a dirmi. Non sopportavo l’idea di
rivederli…eppure il giorno prima, come una stupida, avevo
accettato. Ero sempre stata una ragazza speranzosa, di quelle che
credevano alle possibilità…in quel caso ne avevo
regalata una alla
famiglia del nemico. Lui era morto, lavandosi le mani di tutto quello
che aveva causato. Mi era dispiaciuto saperlo, avrei preferito
pensarlo in galera a morire col senso di colpa che gli avrebbe
schiacciato lo stomaco per poi ingoiare il suo cuore proprio
lì,
dove meritava stare; nel confine più profondo delle tenebre.
Odiavo
essere cattiva…ma, gli avvenimenti, mi avevano portata ad
esserlo
spesso nell’ultimo periodo. Quando dissi a Edward della
telefonata
dei Black e della mia risposta positiva ad un confronto, lui rimase
impassibile. Mi aspettavo che si arrabbiasse e, ammisi a me stessa,
che nel momento in cui accettai non avevo pensato ad una possibile
reazione di Edward: mi disse che lui avrebbe fatto lo stesso e che,
forse, quest'incontro ci avrebbe fatti vivere serenamente. Lui mi
capiva, aveva guardato i miei occhi ed era entrato dentro di me con
forza pura. Lo amavo, ogni giorno sempre di più, era quello
per il
quale valeva lottare, ogni singolo istante. Il campanello
suonò ed
io feci uno scatto fulmineo ritrovandomi in piedi davanti al divano.
Edward, da perfetto padrone di casa, aprii la porta facendoli
accomodare nella stanza in cui mi trovavo anch'io; il salotto.
"Bella...",
un sussurro flebile quello di Sarah, preceduto da un pianto quasi
isterico. Credetti di sembrare un fantasma. Billy, non appena mi
squadrò da capo a piedi, strabuzzò gli occhi e si
sedette quasi
come se stesse per cadere. Io fissai Edward, almeno lui era rimasto
tale a cinque secondi prima.
"Ciao",
gracchiai tra l'imbarazzo e la confusione.
"Da
quando non mangi?" Mi chiese la moglie. Feci spallucce e mi
accomodai di fronte a loro. La mia pelle si ricoprii di brividi non
appena realizzai che i genitori dell'abominio erano proprio
lì, nel
mio territorio, quello che fino a poche ore prima era il mio paradiso
e il mio più prezioso rifugio. Rimasero in silenzio per
minuti
interminabili mentre io guardavo Edward e mi torturavo le dita per
l'attesa pressante. Non capivo perché se ne stavano zitti.
Erano
venuti per parlarmi, di cosa non ne avevo idea, eppure stavano
lì,
appollaiati sul divano come se stessimo aspettando il té. Mi
schiarii la voce e, finalmente, attirai la loro attenzione, Edward,
dal suo canto stava per scoppiare a ridere. Quasi sorridevo anch'io,
mi bastava vedere un piccolo, accennato sorriso sulle sue labbra per
trovare quello spiffero di felicità di cui avevo tanto
bisogno.
"Siamo
venuti per farti presente del rammarico in cui ci troviamo. Sai bene
che per noi sei stata sempre come una figlia e, io stesso, alle volte
mi chiedevo come facessi a trovare qualcosa di bello in mio figlio.
Sapevo che prima o poi mi avrebbe fatto versare lacrime di sangue,
eppure, non credevo che lo avesse fatto anche con te. Un mi dispiace
sarebbe troppo fatto e banale. Siamo distrutti, Bella. E non
riusciamo a capacitarci di quello che è successo. Non
sapevamo
nemmeno che tu aspettassi quel bambino...", non appena Billy
Black nominò mio figlio cominciai ad urlare. Presa da una
rabbia
incontrollata finii per terra.
Di
quel pomeriggio, ricordo poco; grosse ciocche dei miei capelli
giacevano sul pavimento di
marmo,
strappati via dalle mie mani. Le mie dita sanguinavano e gli occhi di
Edward imploravano pietà.
Aprii
gli occhi e la luce fioca dell'abat-jour me li fece strizzare per un
paio di volte. Piansi silenziosamente, ero troppo confusa. Mi sentivo
la testa vuota e, allo stesso tempo ero consapevole di avere un
macigno grosso quanto una casa sopra la testa. Con la coda
dell'occhio osservai Edward, mi guardava fisso aspettando una
qualsiasi mia reazione, pronto nel caso avessi perso ancora una volta
le staffe. Mi passai una mano sulla fronte sudata e cominciai a
guardarlo anch'io.
"Perdonami",
mormorò. Aggrottai le sopracciglia e lo guardai confusa.
"Non
avrei dovuto permetterti di incontrarli".
Scossi
la testa e le lacrime scesero per l'ennesima volta.
"E'
stata colpa mia!" Esclamai stringendo le lenzuola tra le mani.
Presi la mia testa a pugni ignorando le braccia di Edward, mi sentivo
indemoniata, presa da una forza che sapevo non mi apparteneva. Mi
addormentai solo quando stremata non avevo più lacrime da
versare né
forza per parlare.
Non
riuscii mai a darmi una spiegazione razionale per quello che accadde
lo stesso pomeriggio. Di certo, Billy Black e signora, non erano
stati i soli ad aver nominato mio figlio; mia madre, Alice, le mie
amiche, e tanti altri, quasi ogni giorno nominavano il mio piccolo,
eppure, il nome di mio figlio sulla bocca dei Black mi fece andare il
cervello in panne. Chiusi gli occhi e mi feci cullare dal respiro di
Edward che, dolcemente, accarezzava la mia pelle e la mia mente. Era
lui la soluzione a tutto. Lui era l'antidoto. Avendo la
consapevolezza che, nonostante tutto, lui fosse rimasto al mio fianco
potevo ammettere a me stessa che in un modo o in un altro la mia era
vita.
'Per
sempre', mi dicevo. Per sempre era solo il termine con la quale davo
il nome al mio futuro con Edward ma, 'per sempre' non rendeva chiaro
quello che era il mio concetto. 'Per sempre' era solo una frase,
Edward ed io eravamo molto di più.
"Ti
amo", sussurrai con gli occhi chiusi.
"Sempre"
mormorò, accarezzandomi la fronte con le sue labbra calde e
profumate. Mi accoccolai di più al suo petto e ricaddi tra
le
braccia di morfeo.
Scesi
dal letto e, a piedi nudi, mi diressi in cucina. Sentivo delle voci
familiari e, dato che, al mattino, appena sveglia, avevo bisogno di
minimo mezz'ora per realizzare tutto ciò che mi accadeva
attorno,
non capii immediatamente chi era venuto a farci visita. Appoggiai il
mio corpo sul telaio della porta della cucina e diedi una
sbirciatina, il cuore poteva seriamente uscirmi dal petto; vidi
Edward, rideva come non faceva da quelli che mi erano sembrati mille
anni.
Le
persone erano due. Esme e mia madre.
Mi
sedetti sul divano e appoggiai il capo sul cuscino dello schienale,
volevo avere la mente lucida e, sopratutto, non sembrare una specie
di elefante goffo di fronte mia mamma e Esme. Volevo fare una bella
impressione, meritavano di vedermi stare meglio dopotutto. Da
lì
riuscivo a sentirli chiaramente.
"E
tu, Edward? Come ti senti?” Era stata mia madre a parlare.
Strinsi
gli occhi in due fessure, non volevo che mi si sbattesse, per
l’ennesima volta, in faccia la realtà; odiavo
sentir tintinnare e
sospirare Edward ad ogni ‘come stai?’
“Bene.
Insomma, ce la caviamo”, la sua voce era stranamente
limpida...e,
osai pensare, solare. Diedi una sbirciata al piccolo orologio a
pendolo e notai con orrore che era mezzogiorno, avevo dormito per un
giorno intero.
“Bella
ha bisogno di me. Mi rendo conto che, negli ultimi mesi non le sono
stato molto d’aiuto...”, si fermò con un
sospiro per poi
riprendere con vigore. “Fino ad oggi è sempre
stata lei a tenermi
su, non pensando a tutto il male che si faceva, che io le facevo. Lo
ha sempre fatto...sono riuscito ad accettare che per quanto potremmo
dire o fare, niente e nessuno ci riporterà indietro nel
tempo,
niente potrà evitare tutto quello che è successo.
Devo pensare a
lei, potrei davvero dedicare tutta la mia vita per riuscire a vederla
sorridere ancora. Mi manca, lei, il suo sorriso e tutto quello che
era quando l’ho conosciuta. Non so se ormai è
tardi per farla
tornare com’era prima, ma ci proverò, non
è mai troppo tardi...”.
Scoppiai a piangere, non solo per le bellissime parole che aveva
appena sussurrato ma anche per quella nota profonda nella sua voce;
il senso di colpa. Scossi meccanicamente la testa e le lacrime
bagnarono il tessuto impeccabile del divano. Mi alzai promettendomi
di sorridere non appena avessi varcato la soglia della cucina.
Sigillai in un cassetto l’episodio del giorno prima e
sospirai.
Aveva ragione Edward, nessuna cosa ci avrebbe portati indietro nel
tempo. Lo avevamo sempre saputo, era anche arrivato il momento di
accettarlo.
“Bella!”
Esclamò Esme correndo ad abbracciarmi. Chiusi la bocca
maledicendomi
per non aver lavato i denti e la strinsi forte. Esme era fantastica,
il suo sorriso era sempre stato contagioso, ero sempre stata convinta
che avesse trasmesso lo stesso dono a Edward. Con gli occhi cercai il
figlio e lo guardai dritto negli occhi; vidi la ragione per la quale
dovevo assolutamente lottare, anche con i denti se si fosse
presentato necessario. La ragione di voler lottare per davvero e per
essere felice con lui ancora una volta, sperando in una
felicità
permanente.
Non
avremmo mai dimenticato il nostro piccolo Ted, era impossibile.
Avremmo però deciso di continuare a vivere sempre e per
sempre,
insieme. Immaginai la sua mano, tesa verso di me e la sua voce
sussurrarmi: “Prendi la mia mano, vieni con me, andiamo via
da
tutto questo dolore”.
‘Amami’,
urlavano i suoi occhi di smeraldo. Mi morsi il labbro superiore,
accorgendomi di essere rimasta immobile per minuti interi. Salutai
mia madre e le sorrisi.
“Non
sai che rivelazione tesoro!” Esclamò mia madre
puntando il dito
verso Esme. La guardai aggrottando le sopracciglia, inizialmente,
qualche secondo dopo, però, mi ricordai di una vecchia
conversazione
con Edward, quasi non le scoppiai a ridere in faccia...forse non lo
feci solamente perché il senso di nostalgia aveva preso
irrimediabilmente il sopravvento.
“Io
e Esme ci conoscevamo già...”, persi la voce di
mia madre via via
che continuava a parlare. Guardai Edward e non appena scovai
l’imbarazzo nel suo viso e nel suo modo di grattarsi la nuca,
una
cosa che, tra l’altro, trovavo adorabile, scoppiai a ridere.
Ripensai a quella sera, credendo che potesse far male invece,
continuavo a tenermi lo stomaco per le risa. Edward aveva avuto una
piccola cotta per mia madre, quando sua madre era stata ammalata e si
era recata dalla mia per farsi curare. Quella sera faceva parte del
mio periodo felice, eppure, ripensandoci riuscivo solamente a
rallegrarmi...mi sentii strana, forse era stato il tono e le parole
di Edward di poco prima a farmi ridestare.
Le
nostre madri restarono per pranzo. Mi sembrava incredibile da
pensare, eppure, Edward era diventato per davvero un’altra
persona
e il tutto in meno di quarantotto ore, ci avevo impiegato mesi e mesi
senza risultati, non appena fossimo stati da soli avrebbe dovuto
svelarmi il trucco. Sospirai di sollievo e capii il motivo per il
quale, ancora, non ero riuscita ad alzarmi del tutto; io ero quella
più forte tra i due. Avevo cercato di far alzare lui con
tutta la
forza che potevo possedere, ma la mia forza non era andata persa del
tutto, non almeno come credevo che fosse. Edward aveva preso la mia
energia, l’aveva piegata al suo volere per poi scaraventarla
come
un fulmine su di me. Avevo dato a lui la spinta giusta e,
inconsapevolmente, l’avevo data anche a me stessa. Si era
alzato e
con delicatezza aveva preso la mia mano e mi aveva portata con
sé.
Ci completavamo a vicenda, qualsiasi gesto potessimo fare per
l’altro
aiutava entrambi, non era questo forse essere seriamente
l’una per
l’altro? Sorrisi a quella mia potente rivelazione e corsi ad
abbracciarlo.
“Soli...”,
sussurrò sulle mie labbra, trasmettendomi tutto il suo
calore.
“Finalmente”,
mormorai con una punta di malizia. Non feci nemmeno in tempo a
chiedergli cosa volesse farmi che fui catapultata sul nostro letto.
Lo spogliai con foga, immaginando già il culmine del mio
piacere
datomi solo da lui, dall’unico. Guardai il suo petto nudo e
mi
dissi che ogni pensiero formulato dalla mia mente non era mai
abbastanza. La sua presenza mi annientava, mi metteva in ginocchio
per poi portarmi all’apice del piacere, dell’amore,
della fedeltà
e della consapevolezza che solo lui avrebbe potuto farmi cose di quel
genere. Scompigliai i suoi capelli e sorrisi ai suoi occhi, quella
sera ancora più splendidi. Ero dolce e lui lo era
altrettanto,
almeno fin quando non mi ritrovai con il seno tra le sue labbra e le
sue dita che scavavano con foga dentro di me. Mi penetrava forte per
poi uscire piano muovendo le dita in modo circolare. Il piacere fu
così immenso che quasi non mi misi a piangere.
Non
sentivo, non volevo, non pretendevo niente...niente che non fosse
Edward. Mi sentivo una molla, chiusi gli occhi e accolsi
l’ondata
di piacere, cercai di godermela, ma, non appena sentii le sua braccia
sotto le mie cosce capii che il meglio non era ancora arrivato. Con
un unico, potente e crudo colpo di reni il suo membro si
schiantò
dentro di me. Potevo sentire le canzoni di natale...o forse il mio
cervello si era fritto come i miei ormoni ormai in palla. Accarezzavo
ogni lembo della sua pelle, restando sorpresa ad ogni tocco, era
morbido, caldo, fresco e di marmo allo stesso tempo. Eravamo il sole
e la luna, qualcosa di fantastico come un’eclissi. Nonostante
il
piacere mi stesse portando al limite della ragione mi ricordai una
vecchia lezione di scienze; il sole e la luna non possono incontrarsi
troppo spesso. Dicevano che il sole e la luna sono troppo diversi, io
avevo trovato un eccezione alla regola. Noi eravamo perfetti. Venni
violentemente trasportandomi l’orgasmo di Edward, avevo preso
anche
quello. Avevo pensato al senso di sottomissione che mi prendeva negli
amplessi con Edward. Soltanto il quel momento, capendo più a
fondo
quello che eravamo, non solo partecipando ma anche guardandolo mi
resi conto che ci dominavamo e sottomettevamo a vicenda. Pensai a
tutto quello che mi ero persa negli ultimi mesi a quelle sensazioni
che, sì, puoi provare ogni volta ma nonostante possano
essere le
stesse la volta dopo sono sempre più intense, fortificate,
indimenticabili. Lo abbracciai stretto e mi addormentai senza neanche
volerlo. Un secondo prima di cadere nel sonno però, ebbi
paura che
non appena mi fossi svegliata tutto sarebbe divenuto solo un sogno.
I
capelli appiccicati alla fronte furono la causa del mio risveglio.
Era notte fonda e, nonostante fossi ancora nuda e dalla finestra
filtrasse un venticello niente male, ero tutta sudata. Toccai
l’altro
lato del letto e mi accorsi che ero da sola. Mi alzai di scatto e
spaventata rammentai l’ultima volta che era successa la
medesima
cosa. Cercai di scacciare quel prepotente senso di Dejavù e
mi
alzai, non mi curai nemmeno di cercare le ciabatte.
Mi
resi conto però, avviandomi in sala, che il solo motivo per
il quale
non era a letto era perché non voleva svegliarmi col rumore
che
poteva causare lo riempire due valigie. Una era già colma,
la mia,
piena zeppa di bikini e vestitini estivi, la sua era vuota solo per
metà. Se il caldo non fosse stato così
asfissiante il mattino
seguente lo avrei trovato nel letto con le valigie già
pronte.
Ancora nuda mi avvicinai a lui in punta di piedi, baciai il suo naso
e lo guardi confusa.
“Perché?”
Domandai alludendo alle valigie.
“Bella,
vuoi essere felice con me?”
“Farei
di tutto per essere felice con te, lo sai...”, mormorai
sicura con
non mai delle parole che avevano appena lasciato le mie labbra.
“Chiedimelo
allora”, sussurrò guardandomi intensamente negli
occhi. Capii
immediatamente cosa voleva sentirsi dire che, allo stesso tempo, era
quello che io stessa volevo dirgli. Presi la sua mano tra le mie e
con le labbra accarezzai la base del suo collo, inspirai forte il suo
profumo da uomo e lo guardi negli occhi.
“Prenderò
la tua mano e, andremo via. Andremo via da tutto questo dolore. Ti
amo, Edward...non hai idea di quanto ti amo”.
“Ti
sbagli. So benissimo quello che intendi”. Mi prese in braccio
e
ridendo facemmo ancora l’amore.
Dovevamo
partire per una vacanza e non sapevo dove saremmo andati, sapevo
solamente che sarebbe stato importante, come ogni avvenimento della
nostra storia.
Purtroppo
eccomi qui a dirvi che sì, sono viva. Oltre al negozio che,
mi tiene
impegnata tutti i giorni e il periodo di merda non ho altre scusanti.
Mi è mancata
questa storia e già non vedo l’ora di mettere il
prossimo capitolo. La mia mente è stata così
tanto occupata che non
c’era lo spazio per pensare a questi due poveri cristi. Mi
sono
sentita in colpa, lo ammetto e NON LO DICO PER DIRE! Ma
cercherò di
non ritardare, ci metterò tutta me stessa, anche
perché ho una
storia sospesa che è come una spada di Damocle sopra la
testa.
Che
ne dite del banner? Secondo me è perfetto! E’
stato creato dalla
admin di questa pagina! Ve la consiglio in caso vi si presentasse il
bisogno :3 :https://www.facebook.com/JulietGraphic
Ora
vado.
Come
sempre spero che il capitolo sia di vostro gradimento e che sarete in
tante a non essere deluse!
Fatemi
sapere :3
Con
affetto e chiedendo perdono.
Roby
<3
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=1975444
|