Ciò che il fumo nasconde

di Finnick_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***




Il grido di dolore era straziante.
Ruppe il silenzio del luogo buio e smosse terribilmente i sensi acuti che Sherlock aveva sviluppato nell’assoluto silenzio. Barcollò, ma cercò stabilità e piantò i piedi a terra.
Si guardò attorno con foga, ma tutto restò nero.
Ed ecco di nuovo il grido, tremendo, lungo e destabilizzante.
Sherlock sussurrò il nome di John e seguì la direzione da cui era venuto il grido. Era impossibile vedere qualcosa, era tutto così dannatamente buio. E silenzioso. Almeno questo lo aiutava a percepire anche il minimo rumore.
L’angoscia aumentava ad ogni passo.
Di nuovo l’urlo, questa volta era secco e lancinante e terminò con gemiti angustiati.
Sherlock corse, corse attraverso il buio, come se quello non fosse stato un edificio. Come se quella fosse stata solo una notte più scura delle altre. Come se quella fosse stata l’ultima, sensata possibilità di salvare John.
Dov’era Lestrade, adesso?
Ci sarebbe stato bisogno della sua pistola. Avrebbe sparato alla cieca, in quell’infinita oscurità, ma sarebbe stato meglio che correre solo e disarmato.
Dov’era Molly?
Il suo balbettio poco rassicurante, adesso, gli sarebbe stato di enorme conforto.
Continuò a correre e il fiato si fece corto.
Corse finchè non si imbattè in un invisibile, o quantomeno nero, muro. Senza esitare, tastò la parete liscia alla ricerca di una maniglia, un bottone o qualunque cosa potesse far scomparire quell’odiosa oscurità e farlo piombare tra le braccia di John.
La trovò: una maniglia.
La spinse.
Venne travolto da una luce abbagliante. Il grido si ripetè e lui non riuscì a muovere un passo. Gli occhi lacrimarono, le ginocchia toccarono terra.
Una voce lo chiamò.
“John!” gridò lui, ma non rispose nessuno.
Poi la voce di una donna pronunciò il suo nome: “Sherlock” . Si sentì spingere di lato, le forze non lo ressero più e cadde a sedere.
“No!” gridò  Sherlock “No, dov’è  John, dove? John!”
Ma a rispondere fu sempre una voce di donna. Lo chiamava per nome e lui si dimenò, si divincolò da una presa invisibile.
Cadde sdraiato. Tutto era luce, udì solo la voce femminile.
Non riuscì più a parlare.
Si svegliò.
 
“Sherlock, svegliati” di nuovo la voce della donna e la mano che lo spingeva di lato. Sembrava quasi lo volesse svegliare. Ma da che cosa? Doveva salvare John, non poteva pensare ad altro.
Il resto era un’ inutile perdita di tempo.
“Sherlock, vuoi svegliarti? Non fai che ripetere il nome di John”
Sherlock, contro voglia, aprì lentamente gli occhi.
“Bravo” la donna si assicurò che si fosse ripreso e si lasciò andare sul seggiolino accanto con un sospiro.
“Dove…?” lui, invano, iniziò a parlare, ma quando realizzò di essere nella limousine di suo fratello, si interruppe. Si ricompose di scatto, si schiarì la voce e si concesse un secondo di tempo per guardarsi intorno. I finestrini erano oscurati, ovvio. Il vetro che lo separava dal guidatore era alzato, ovvio.
Molly era seduta accanto a lui e si torturava il lembo del maglione, ovvio.
Adesso che tutto era tornato ovvio, la realtà aveva un senso.
Quello di prima era un sogno.
“Che cosa ho detto, mentre...” fece poi a Molly, senza voltarsi a guardarla.
“Oh, niente di strano. Chiamavi solo il nome di John.” borbottò Molly, senza staccare gli occhi dal lembo ormai sgualcito del maglione.
Sherlock, col volto impassibile si appoggiò di nuovo al seggiolino e guardò fuori.
Erano nel pieno centro di Londra. La grande città brulicava della gente di mondo che affollava le strade e che si dirigeva verso i locali notturni più in voga. Le scene più comuni sfrecciavano in rapida sequenza di fronte ai suoi occhi attenti: un giovane che baciava la sua ragazza, un gruppo di scatenati con le birre in mano che cantavano i cori della loro squadra di calcio, un tizio che reggeva un amico mentre vomitava al lato del marciapiede.
Tutte persone così comuni.
Credevano di godersi la vita, quando non sapevano quanto tempo stavano in realtà perdendo dietro al niente.
Il calcio è niente, l’amore è niente, l’alcool è niente.  Forse un sorso ogni tanto può aiutare, ma una quantità esagerata distrugge inesorabilmente quelle poche facoltà mentali che la gente si ritrova.
Sherlock roteò gli occhi.
“Cosa…” iniziò Molly, che aveva intanto cambiato l’oggetto della sua tortura e si stava concentrando su un angolo della sciarpa che Sherlock aveva lasciato cadere accanto a sé. Lui si voltò a guardarla e cautamente le tolse la sciarpa di mano. Molly fece finta di niente e continuò:
“Cosa pensi di fare, una volta arrivato da Mycroft? Al telefono ti ha detto che nemmeno lui sa dove possa essere John.”
“Già, ma non avrebbe mandato una macchina a prendermi, se realmente non avesse saputo niente” rispose lui, indifferente.
“In effetti anch’io non capisco perché sono qui” aggiunse Molly, balbettando.
Sherlock non rispose. Era una domanda che si era effettivamente posto, appena aveva aperto la portiera dell’auto e se l’era trovata davanti. Ma non aveva fatto domande. Molto probabilmente Molly sarebbe stata utile per lo studio di qualche particolare campione. Questo confermava l’ipotesi che Mycroft aveva davvero del materiale fra le mani.
Si arrotolò la sciarpa intorno al collo e attese impazientemente di arrivare a destinazione.
***  
La mattina stessa.
 
L’aria del sottoscala era fredda.
La signora Hudson era uscita per fare le abituali compere, Sherlock se ne era accertato.
Da quando era tornato non aveva fatto che seguire John e Martha per capire quando poter entrare di nuovo nell’appartamento, inosservato.  
Tre anni di assenza pesavano su di lui e sui suoi ricordi. Nel suo palazzo mentale aveva ben conservato tutto, per carità, ma prima di tornare da John a braccia spalancate pretendendo che tutto si sarebbe ricomposto, voleva vedere come procedeva la vita senza di lui.
Uscì dal sottoscala quando fu sicuro che la signora Hudson non sarebbe rientrata alla ricerca di qualcosa di distrattamente dimenticato. Salì gli scalini scricchiolanti e, quando fu in cima, spalancò la porta ovviamente aperta. Non c’era nessuno, come previsto.
C’era solo un caos tale da far pensare a Sherlock che John da solo non sarebbe riuscito a farlo. Lui si era sempre lamentato della confusione che Sherlock lasciava dopo una notte in bianco o una giornata piena.
E adesso quel posto era così.
Il sospetto si fece immediatamente strada in Sherlock e soppiantò la vaga scintilla nostalgica che stava prendendo piede nel suo cuore, alla vista dell’appartamento così tanto condiviso con John.
Mosse qualche passo, lento. Dovette scavalcare soprammobili andati in mille pezzi, riviste strappate e …
Macchie di sangue?
Sherlock si piegò immediatamente a verificarne la natura.
Era sangue, fresco, trall’altro.
C’era stata una colluttazione, in quella stanza, e qualcuno aveva perso. Dov’era John? Perché non spuntava da dietro l’angolo del cucinotto, magari con un livido in faccia, dicendogli che era andato tutto bene?
Perché non era così.
Improvvisamente Sherlock si rese conto della gravità della situazione e corse in cucina.
Sul tavolo un foglietto:
C’è stato un problema, niente di grave, signora Hudson.
La contatterò io, nel frattempo non mi cerchi.
 
John
 
“Nel frattempo non mi cerchi”? Che senso aveva?
A John era successo qualcosa. Sherlock tirò fuori di tasca la fedele piccola lente ed esaminò il foglietto.
“Stropicciato, segno di ansia. La calligrafia è di John, ma è insicura e frettolosa, qualcuno deve averlo costretto a scrivere il messaggio, magari con una pistola puntata alla tempia, ma questo era deducibile fin dall’inizio. Non è sporco di sangue, evidentemente la colluttazione è avvenuta dopo che ha scritto il biglietto” sussurrò fra se, senza preoccuparsi troppo di scandire bene le parole pronunciate di fretta.
Prese il biglietto e lo infilò in tasca insieme alla lente di ingrandimento che portava sempre con sè.
Si diresse a grandi passi verso la finestra. La forzò come meglio poteva, ma era chiusa dall’interno. Non lo avevano portato via da lì.
Con i battiti stupidamente accelerati, corse giù per le scale, tirò fuori il cellulare dalla tasca e decise di correre il rischio. Mentre premeva il tasto di chiamata rapida e si avvicinava il telefono all’orecchio, guardò dallo spioncino della porta d’ingresso per accertarsi che non ci fosse nessuno di conosciuto.
“Che ti è venuto in mente?” la voce dall’altra parte del telefono aveva risposto. Mycroft era evidentemente rimasto sorpreso: usare il cellulare avrebbe aumentato le possibilità di essere rintracciato e questo Sherlock non poteva permetterselo, non prima del suo ufficiale ritorno dall’aldilà.
Sherlock fece come se il fratello non avesse mai parlato e, prima di aprire la porta e uscire in strada, disse secco:
“John è stato rapito.”

NOTA AUTRICE: Vorrei ringraziare in particolar modo Yaya, che nella stesura dei capitoli di questa storia, d'ora in poi, mi ha aiutato con idee e correzioni e a lei devo la bellissima immagine di copertina della storia. Grazie infinite, lo sai già :) E grazie anche a _WhatsErname per il suo perenne appoggio, in tutto quello che scrivo. Infine, ma non meno importante grazie anche a Yllel, con cui abbiamo iniziato un piacevole scambio di recensioni e letture. Un bacio a tutte, sperando di non deludervi andando avanti!

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***




Il palazzo era disabitato, le pareti traspiravano umidità da ogni angolo.
“La demolizione è fissata per il prossimo mese” disse Mycroft, rompendo il silenzio. Si accese un sigaro nella penombra della stanza e si mise a guardare fuori dalla grande finestra opaca.
“Peccato” aggiunse “Da qui la vista di Londra è mozzafiato.”
Sherlock fece un passo avanti, impaziente:
“Sono qui per sapere cos’hai in mano, non indugiare inutilmente.”
Molly era rimasta ferma in piedi, dietro a Sherlock. Mycroft si voltò sorridendo, prese una boccata dal suo sigaro e il sorriso si spense.
“Ti ho già detto che non ho idea di dove si trovi il dottor Watson.”
Sherlock lo guardò impassibile:
“Ci hai mandati a chiamare per farci perdere tempo, Mycroft?”
Molly prese a fissare il pavimento e i piedi di Sherlock. Lei stessa aveva ammesso di non sapere perché era stata convocata anche lei.
“Calmati, fratellino. Non so dove sia John, ma sto lavorando ad un caso di sicurezza che può interessarti” rispose secco Mycroft, gettando la cenere del sigaro in terra e soffiando dalla bocca nuvole di fumo grigio.
“Cosa c’entra con la sparizione di John?” chiese l’altro, immobile in mezzo alla stanza.
Molly giocherellò con il lembo del maglione che aveva torturato durante il viaggio in macchina e gettò una rapida occhiata intorno. La luce di un neon lontano illuminava sufficientemente la zona dove si trovavano in quel momento per scorgere l’uno il volto dell’altro, il terreno era umido e ricoperto da pozzanghere d’acqua in cui si rifletteva l’inquietante atmosfera che si era creata.
“C’entra” rispose Mycroft “La rete di Moriarty era vasta, Sherlock. E’ vero, sei riuscito a intercettarla e a porre i criminali su un piatto d’argento al governo Inglese, ma questo non significa che non sia rimasto qualche pazzo isolato, libero di vagare per Londra.”
Sherlock si fece scuro in volto. Molly lo osservò e sentì la preoccupazione aumentare: non aveva più sentito nominare il nome di Moriarty da due anni, da quando, quel giorno, Sherlock le aveva chiesto drammaticamente aiuto per risolvere un problema più grande di lui. Oh beh, questo lui certo non lo aveva ammesso, ma lei l’aveva capito. Capiva molte cose di Sherlock che erano invisibili agli occhi degli altri. Nessuno lo comprendeva come lei, tranne una persona: John Watson. E adesso era scomparso. Quello era il motivo per cui si trovava lì, insieme ai fratelli Holmes, consapevole di essere l’unica persona a conoscere il segreto di Sherlock, oltre a Mycroft, in tutta Londra.
“Pensi che sia stato uno di loro a rapire John” asserì Sherlock. Non era una domanda.
Mycroft aspirò l’ultima boccata di sigaro, prima di lasciarlo cadere a terra e calpestare il mozzicone con una scarpa. Annuì.
“Non ne sono certo” disse poi.
“Quali indizi hai? Molly è qui perché ci sono evidenze chimiche o biologiche da analizzare. O no?” continuò immediatamente Sherlock. Molly, sentitasi chiamata in causa, alzò lo sguardo dal pavimento e cominciò ad osservare i fratelli.
“Sono al club, ben conservate in sacchetti sterilizzati. Si tratta di campioni di sangue non corrispondenti ad un’unica persona” rispose Mycroft.
Molly prese il coraggio di chiedere:
“Perché non farli analizzare da qualcuno dei biochimici del governo? Non credo che avreste avuto difficoltà a trovarne uno.”
Sherlock si voltò a guardarla. Per un attimo ebbe la sensazione che se fosse andata come Molly aveva appena ipotizzato, non avrebbe avuto la stessa fiducia con cui adesso lasciava che lei venisse a conoscenza dei particolari del caso.
“Oh, nessuna difficoltà, infatti. Quei campioni sono già stati analizzati da un chimico molto competente, nonché mio caro amico” disse Mycroft e il suo sguardo si abbassò.
“Hai degli amici?” sogghignò Sherlock. Molly fece finta di non aver sentito e chiese:
“Allora… qual è il problema?”
Mycroft guardò Molly, poi si rivolse con astio a Sherlock, montando il tono con quanto più sdegno poteva:
“E’ stato ucciso il giorno dopo aver concluso le analisi. Era l’unica persona di cui mi fidassi, nel team d’ipocriti che mi circonda, adesso non è più a nostra disposizione. Ecco perché ho mandato a chiamare anche Molly.”
Il tono era duro. Si stirò la giacca con un gesto secco e attese che Sherlock replicasse, ma, con sua sorpresa, non lo fece.
“Qualcuno non vuole che indaghiamo su questi casi isolati” disse dopo un po’ “anche perché, se ho capito bene, i campioni che hai stupidamente lasciato al club, alla portata di tutti, sono connessi con il rapimento di John. O sbaglio?”
“No, non sbagli” rispose Mycroft “Ma non sono alla portata di tutti, prova a fidarti per una volta. Sono campioni rinvenuti sulla porta di casa tua, la settimana scorsa. Non si sa come sia finito del sangue sulla maniglia del 221. Li ha visti la signora Hudson, dopo aver sentito una gran confusione fuori dall’appartamento: si è impaurita ed ha chiamato la polizia.”
“Sono stati eseguiti i normali controlli, ma è stato trovato qualcosa di strano dalla scientifica di Scotland Yard. A quel punto Lestrade ha pensato bene di venire da te. Questo significa che il sangue trovato corrisponde a qualcuno che il database ben conosce, che è in qualche modo legato a me e che potrebbe essere pericoloso” concluse Sherlock, mettendosi a camminare nervosamente per la stanza, con le mani congiunte dietro la schiena.
Mycroft si limitò ad annuire.
“C’entra qualcosa Jim Moriarty?” chiese timidamente Molly, interrompendo il flusso di parole degli Holmes. Entrambi si voltarono a guardarla e lei continuò:
“Potete rendere partecipe anche me, delle vostre conversazioni, ormai ci sono dentro. Ci sono sempre stata dentro.”
Molly aveva ragione. Che lo avesse previsto o no, con la richiesta di aiuto prima della falsificazione della sua morte, Sherlock aveva coinvolto Molly non solo nella programmazione della sua finta morte, ma anche negli intrecci che si sarebbero venuti a creare in futuro. E, a distanza di due anni, era successo esattamente così.
“La rete di Moriarty è stata sconfitta, ma questi episodi isolati vanno eliminati” disse Mycroft.
“E dobbiamo ritrovare John, il tempo stringe” Sherlock si aggiustò meglio la sciarpa intorno al collo, alzò il bavero del cappotto e si avviò verso l’uscita.
“Dove pensi di andare?” gli gridò Mycroft.
“Al club. E dove sennò? Voglio quei campioni” rispose l’altro. Si fermò a pochi passi dalle scale:
“Molly, hai ragione. Ormai sei coinvolta, vieni con me” distrattamente Sherlock si interruppe.
Fissò Molly che stava timidamente indicando Mycroft col dito e si corresse “…con noi.”
Scacciò via l’inutile pensiero di lavorare solo con Molly e corse giù per le scale, sentendo i passi degli altri cominciare in quel momento.
Qualunque cosa non implicasse un indizio per ritrovare John era un inutile perdita di tempo.
Scendeva le scale immerso nel buio, mentre ascoltava Molly e Mycroft scendere lenti gli scalini.
Improvvisamente, un grido lo scosse. Sherlock si voltò immediatamente per scorgere gli altri due, ma vedeva solo il buio.
Si fermò e spalancò gli occhi.
Era come nel sogno.
Una sensazione orribile lo pervase. Dopo il grido un colpo di pistola, rumori per le scale. Lui si lanciò su per le scale, arrancando per il buio. Il grido proveniva da Molly, l’aveva riconosciuta.
Voleva gridare il suo nome, dirle che stava arrivando, ma urlare sarebbe stato l’errore peggiore. Se quel qualcuno che aveva appena sparato era uno dei folli di Moriarty, gridare non avrebbe fatto che confermare il suo ritorno e adesso non poteva permetterselo.
I passi ricominciarono frettolosi a scendere le scale, finchè Sherlock non si trovò a sbattere contro qualcuno.
“Sherlock!” esclamò Molly, riconoscendolo nell’ombra: “Sherlock… ci stanno attaccando.”
“Dov’è Mycroft?” chiese lui soltanto. Molly stava per rispondere, quando un’ombra scura gli passò accanto, fulminea. Sherlock immobilizzò l’uomo in men che non si dica, prima di rendersi conto che si trattava di Mycroft.
Una parte del suo cervello gli fece notare che nessun criminale avrebbe permesso di farsi immobilizzare così facilmente.
“Dobbiamo andarcene, adesso!” esclamò lui ed estrasse il cellulare dalla tasca.
In quel momento si udì un altro colpo di pistola.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***




Il proiettile rimbalzò rumorosamente sulla ringhiera delle scale e si piantò nel muro.
Mycroft riprese a correre per raggiungere l’uscita e chiamò a gran voce il nome di una delle sue guardie del corpo. Sherlock, mentre tentava di scendere, si voltò verso Molly e chiese:
“Stai bene?”
Nel buio non riusciva a vedere niente se non gli occhi fermi e luccicanti di Molly.
“Sì… sì, vai, usciamo” sussurrò lei, con la voce tremante e sconvolta. Sherlock, sebbene insicuro, si rese conto che la situazione era estremamente delicata: i passi dell’inseguitore si stavano avvicinando. Iniziò a scendere qualche scalino. Dopo pochi secondi sentì la voce flebile di Molly chiamarlo e poi spegnersi.
Sì voltò appena in tempo per vedere l’amica crollargli fra le braccia.
Cercò di tirarla su, ma sentì le proprie mani bagnate e il sudore cominciò a scendergli sulla fronte.
Quando sentì il rumore di un altro sparo, riacquisì la freddezza necessaria a salvare entrambi.
Prese Molly in braccio e, arrancando al buio, continuò a scendere le scale più velocemente possibile.
Lei respirava.
Doveva continuare a respirare, diamine.
Ancora uno sparo.
Avrebbe voluto gridare qualcosa all’inseguitore, ma il pensiero di essere riconosciuto lo fermò di nuovo.
Finalmente giunsero al piano terra, una porta si parava davanti a loro e Mycroft si sforzava di tenerla aperta. Il cadavere della guardia del corpo era ai suoi piedi.
Sherlock gli passò accanto con Molly tra le braccia e gli sussurrò:
“Fa qualcosa, dannazione. Quell’imbecille ha colpito Molly.”
Mycroft osservò, tra le braccia di Sherlock, la ragazza in totale stato d’incoscienza perdere sangue e sbiancò.
In quel momento arrivò una macchina che abbagliò due volte nella loro direzione:
“Sali in macchina con la ragazza e portala via di qui” disse Mycroft a quel punto.
Intanto dalla macchina era sceso un giovane armato, che corse verso di loro:
 “Salga in macchina e vada via, signor Holmes, altre volanti cariche di uomini saranno qui tra pochi secondi”
Perché quell’individuo sconosciuto l’aveva riconosciuto subito senza dubbi? Perché lui sembrava sapere fin dall’inizio che Sherlock non era davvero morto? Lo osservò per un istante: camicia da ufficio nascosta da un giubbotto nero di pelle, jeans stretti e mocassini da serata fuori con gli amici. Era stato chiamato all’ultimo secondo, evidentemente era uno dei pochi, se non il solo di cui Mycroft potesse fidarsi. Stava per uscire a bere qualcosa con gli amici, ma aveva ricevuto una telefonata urgente ed era corso lì.
“Non preoccuparti per me, salirò su una delle macchine che stanno per arrivare” aggiunse Mycroft.
“Non mi preoccupo per niente” disse Sherlock e lasciò i due in balia dell’uomo che stava continuando a scendere le scale.
Una volta in macchina legò ben stretta Molly al seggiolino, si tolse il cappotto e strappò un lembo della sua camicia. Prese il braccio della ragazza e strinse il pezzo di stoffa intorno alla ferita, sperando che il flusso di sangue potesse rallentare.
Fuori intanto era iniziata la sparatoria. Le grida di Mycroft e del suo agente si stavano levando contro l’ignoto aggressore.
Sherlock ingranò la prima marcia e partì a tutta velocità per uscire da quella zona di periferia.
**  
C’era freddo in quella stanza. Freddo e buio.
La sola luce opaca, che illuminava a tratti il pavimento di pietra, era quella di un lampione mal funzionante che faceva luce a intermittenza: proveniva dalla finestrella in alto, sul muro dietro di lui. Era notte fonda e John si sentiva tremendamente solo.
Aveva le mani legate dietro la schiena, il sangue che gli colava dalla faccia e dalle braccia senza poterlo fermare. Ad ogni ora che passava si sentiva sempre più debole.
Era appoggiato con la schiena contro il muro e fissava incessantemente la porta, insicuro se sperare che si aprisse oppure no. Se qualcuno veniva poteva significare che avrebbe voluto farlo fuori da un momento all’altro e questa non era una prospettiva attraente.
Chiuse gli occhi e ricacciò indietro il magone per l’ennesima volta.
Pensò alla signora Hudson: che cosa le sarebbe accaduto, adesso che lui non era più al 221B e si trovava lontano da Londra, in una località sconosciuta? Aveva mandato a chiamare la polizia una settimana prima per le macchie di sangue che aveva trovato sul portone del 221, anche se John aveva fatto di tutto per impedirglielo. Quelle macchie erano sue e di un uomo che aveva la faccia nascosta da un cappuccio nero.
C’era stata una colluttazione proprio sulla porta e l’uomo, senza mostrare il volto, lo aveva costretto ad andare con lui. Non sapeva chi fosse e non sapeva che cosa volesse, per cui aveva rifiutato ed era scattata la rissa. Era stato l’altro ad interromperla, dopo che avevano perso entrambi un buon quantitativo di sangue, e se n’era scappato minacciando di tornare.
Da quel momento in poi il 221 non era stato più sicuro, né per la signora Hudson, né per lui.
Poi era stato rapito, ce l’avevano fatta.
E adesso era lì, in una stanza buia, sopraffatto dalla paura e dalla mancanza di forze.
Continuava a pensare che prima o poi avrebbero aperto quella porta e l’avrebbero fatto fuori con un colpo di pistola, senza nemmeno spiegare il perché.
La stanza si illuminò come se fosse scattato il flash di una macchina fotografica e poi di nuovo ombra.
Se solo Sherlock fosse stato vivo… avrebbe impedito tutto questo.
Ma lui era morto eanche questa volta era colpa sua. Riusciva a creare disagio sia da vivo che da morto e John non pensava che fosse possibile.
Improvvisamente la porta si aprì con un colpo secco.
Un uomo col cappuccio nero calato sopra la faccia entrò con un vassoio su cui erano posati un piatto e un bicchiere con dell’acqua. John reagì d’istinto e si scostò, schiacciandosi contro la parete.
“Mangia e zitto” ordinò l’altro, lasciando cadere a terra piatto e bicchiere.
Parte del cibo rovinò fuori dal piatto e l’acqua si disperse per metà sul vassoio e sul pavimento. John sospirò, forse per sollievo, forse per sfinimento.
L’uomo uscì immediatamente dalla stanza e richiuse la porta con violenza. Anche questa volta John non riuscì a scorgere il viso del suo rapitore e non fu capace di sillabare nemmeno una parola.
Guardò il cibo e l’acqua, immaginandosi pietosamente che cosa potesse esserci di commestibile in quella roba.
Non avrebbe mai mangiato una cosa simile.
Qualcuno sarebbe arrivato a salvarlo, prima di morire. Lestrade si era sicuramente accorto della sua scomparsa e sarebbe arrivato da un momento all’altro. Si stava illudendo? Forse. Ma era meglio sperare, piuttosto che morire da solo e senza sentimenti.
Il lampione illuminò rapidamente la stanza, di nuovo.
Poi John si mise a riflettere: se gli davano da mangiare e da bere, significava che lo volevano vivo. Perché?
Ebbene, non gli avrebbe dato questa soddisfazione. Decise che sarebbe stato in grado di patire la fame per un altro paio di giorni. Gettò un’altra rapida occhiata al cibo e si voltò dall’altra parte.
Non avrebbe toccato niente, avrebbe solo cercato di dormire almeno un’ora. Le forze le avrebbe guadagnate così: riposandosi.
Che cosa avrebbe fatto, il rapitore, dopo aver capito che John non ne voleva sapere di mangiare e voleva lasciarsi morire? John avrebbe aspettato esattamente quella reazione.
**  
Fermo con la macchina nella campagna londinese, Sherlock stava facendo del suo meglio per tenere in vita Molly. Aveva abbassato il sedile della macchina in modo da farla stendere; aveva tolto il pezzo di camicia macchiato di sangue e ne aveva strappato un altro per legarlo intorno alla ferita.
Molly era ancora in stato d’incoscienza e sudava.
Si dimenava sul seggiolino e si lamentava per il dolore. Ogni tanto diceva qualcosa, ma Sherlock non riusciva a capirla.
“Odio sbagliare” disse fra sé.
Uscì dalla macchina, rovistò nei seggiolini posteriori alla ricerca di un pezzo di stoffa o una tanica d’acqua, qualunque cosa potesse mantenere sotto controllo la febbre crescente di Molly. Ma niente. Aprì il portabagagli e non trovò altro che un accurato rifornimento di ventiquattrore messe in fila. Le aprì una ad una, ma il contenuto era costituito solo da pistole di ogni calibro.
Lasciò andare un urlo e richiuse di botto il portabagagli:
“Odio sbagliare!”
“Anch’io” rispose una voce alle sue spalle. Si voltò di scatto e notò dietro di lui il giovane che gli aveva dato la macchina per scappare dalla sparatoria, quello che era rimasto con Mycroft.
“Che ci fai tu qui? Dov’è mio fratello?” chiese impassibile Sherlock, tornando al suo abituale atteggiamento. Fidarsi non era una cosa che gli veniva naturale. Lo squadrò un momento e concluse che la faccenda non doveva essere finita bene.
“La sparatoria è finita pochi secondi dopo che se n’è andato, signor Holmes” disse “sono arrivate altre macchine per Mycroft e approfittando della confusione l’aggressore è fuggito. Suo fratello ha insistito per essere portato immediatamente al club, non so che cosa…”
“Lui lo sa” lo interruppe Sherlock “tu come sei arrivato qui?”
“Con un’altra macchina. Ho visto la sua macchina sfrecciare in questa direzione, quando se n’è andato, e l’ho seguita per accertarmi che andasse tutto bene” rispose quasi meccanicamente l’altro.
Sherlock rimase in silenzio.
Il giovane si avvicinò di qualche passo e si presentò tendendo la mano: “Comunque sono Jeremy. Jeremy Crane.”
Sherlock si voltò dall’altra parte e tornò a concentrarsi su Molly.
“Tanto piacere” disse dopo un po’, quando ormai era entrato di nuovo in macchina.
“Vuoi renderti utile o hai intenzione di rimanere lì impalato?” chiese Sherlock, voltandosi a guardarlo. Aveva tutta l’aria di uno che non aveva fatto molta fatica, quella sera.
“Certo, cosa posso fare?” chiese Jeremy.
“Guida la macchina fino al Bart’s, io sarò ben nascosto nei sedili posteriori. Una volta all’ospedale porta la ragazza dentro, dì che si tratta di un’urgenza e che è la signorina Molly Hooper, capiranno  immediatamente. Dopo di che torna in macchina e discuteremo sul da farsi” spiegò Sherlock, parlando con la solita cadenza veloce.
Jeremy annuì, salì in macchina e fece come gli era stato detto.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Jeremy rientrò in macchina sbattendo la portiera dietro di sé.
Sherlock era accucciato nei seggiolini posteriori, in modo che nessuno lo vedesse dall’esterno. Perché quei finestrini non erano oscurabili? Tutti i finestrini delle macchine di Mycroft erano oscurabili. Quelli no.
“Adesso che cosa dobbiamo fare?” chiese il giovane, allacciandosi la cintura e mettendo le mani sul volante.
Sherlock alzò una mano per zittirlo e continuò a fissare fuori dal finestrino: Molly veniva portata via su una barella; i medici e gli infermieri la stavano circondando per assicurarsi delle sue condizioni. Presto da lei sarebbe arrivata la polizia, se i medici l’avessero chiamata. Per prima cosa, però, avrebbe dovuto continuare a vivere. Sherlock la scrutò entrare nell’ospedale per l’ultima volta e sperò segretamente che tutto andasse bene.
Se solo avesse potuto mostrarsi in giro…
“Mi scusi, signor Holmes, ma dobbiamo andare, se restiamo qui…” Jeremy interruppe il suo flusso di pensieri.
“Parti” disse. Si nascose meglio dietro il seggiolino anteriore del passeggero: “Andiamo al club”
**  
La stanza quella mattina era lievemente illuminata dall’opaca luce grigia che filtrava dalla nebbia.
John fissava la porta. Non aveva fatto altro dalla sera prima.
Si era addormentato, sì, per qualche ora, forse. Ma poi gli incubi l’avevano assalito: Sherlock che saltava giù dal tetto del Bart’s davanti ai suoi occhi, la guerra in Afganistan e i bombardamenti agli accampamenti medici, il rapimento del giorno prima.
La porta si spalancò di colpo ed entrò lo stesso uomo della sera precedente, incappucciato.
Questa volta, John non si mosse di un millimetro e rimase a fissarlo.
L’uomo si avvicinò al cibo e all’acqua accanto a John e gli diede un calcio, furioso:
“Perché non hai mangiato?” gridò, prendendo il piatto e rovesciando quel poco di cibo rimasto addosso a John: “Rispondimi quando parlo!”
“Non è difficile capire perché mi sia passata la fame” sussurrò John. La voce risultò rauca per il silenzio immobilizzante del giorno e della notte appena passati.
L’uomo alzò la mano come per colpirlo, ma fu trattenuto da una voce proveniente dalla porta aperta:
“Calma Tom, non è ancora il momento” l’individuo che aveva parlato non si scostò dall’entrata.
Lui non aveva un cappuccio sul volto, e John lo vide bene: era pelato, i lineamenti duri e la barba da poco rasata. L’accento spiccato era americano.
L’uomo incappucciato abbassò la mano, mentre l’altro continuava:
“Verrà il momento in cui ci divertiremo. Portagli la colazione, invece di versargli la cena addosso”
John rimase a fissarlo mentre si allontanava sorridendo. Tom lo seguì e sbattè la porta dietro di sé.
“Aspettate!” esclamò, ma non aveva fatto in tempo. Nessuno tornò indietro.
L’avrebbero fatto comunque, per portargli la colazione.
Si accasciò di nuovo addosso alla parete. Aveva ancora forze per rifiutare di mangiare la colazione e probabilmente avrebbe fatto la stessa cosa anche per il pranzo e la cena, se ci fossero stati.
Tutto quello che era appena accaduto non aveva fatto altro che confermare l’idea che lo avessero rapito per uno scopo ben preciso e che per il suo raggiungimento, gli serviva vivo. Perciò, gli davano da mangiare e da bere.
Ma lui non avrebbe mai acconsentito. Li avrebbe spinti alle estreme conseguenze, sperando che nel frattempo fosse successo qualcosa a suo favore. Nella tragica impotenza che sentiva, sapeva che quella era l’unica cosa sensata da fare per prendere tempo e scoprire qualcosa di più.
In quel momento Tom fece di nuovo irruzione, appoggiò delicatamente una tazza di tè accanto a lui e si avviò verso l’uscita. John, questa volta, ne approfittò:
“Perché sono qui?” chiese, sempre con voce roca. Era una domanda banale, lo sapeva. Sherlock l’avrebbe sicuramente reputata stupida, ma lui doveva porla.
Tom si voltò.
“Lo scoprirai tra poco. Adesso mangia” abbaiò con un accento americano, ed uscì, assicurandosi di chiudere bene la porta dietro di sè.
John gettò una rapida occhiata al tè e penso che solo un sorso gli avrebbe fatto bene. Solo un sorso gli avrebbe dato la forza necessaria a rifiutare il cibo anche nei giorni seguenti.
Dalla tazza calda saliva del fumo che trasportava con sé l’odore del tè aromatizzato.
John strinse gli occhi e s’impose di non farlo, di non bere.
Quando, però, si mosse per mettersi meglio a sedere, sentì che ogni movimento gli provocava una grande fatica, dovuta alle botte ricevute la mattina del giorno prima e all’assenza di zuccheri nel suo corpo.
Decise in quel momento di piegarsi, solo per infilare un attimo la lingua nella tazza.
Gli venne quasi da ridere, quando cercò di allungare le mani: se davvero volevano che mangiasse, potevano almeno legargli le mani in modo diverso.
Non bevve, semplicemente immerse la lingua nel tè e la estrasse subito.
Si rimise con le spalle al muro ed assaporò per un istante il sapore dello zucchero. Quello doveva bastare per calmarlo.
Si accoccolò per terra, rannicchiandosi su se stesso.
Sherlock avrebbe già trovato il modo di uscire da lì, se solo fosse stato con lui. Sherlock avrebbe capito che cosa volevano quelle persone e chi erano. Sherlock avrebbe avuto l’intera situazione sotto controllo.
Lestrade avrebbe avuto gli strumenti necessari per fermare tutto e l’amicizia nei suoi confronti per farlo.
Molly avrebbe smosso mezza Inghilterra, pur di ritrovarlo e forse… forse lo stava facendo.
Ma lì, in quel momento, John si sentiva dannatamente solo.
Poteva sentire il suo respiro farsi sempre più lento e triste. Avrebbe avuto bisogno di un semplice gesto, qualsiasi cosa, che gli avrebbe dato la forza per agire. E invece l’unica cosa che gli era venuta in mente era di rifiutarsi di mangiare. Un gran gesto ribelle, insomma.
Sentì il magone alla gola e in quel momento fu come udire le parole di Sherlock: ah, andiamo, voi persone comuni siete così… banali. Adorate piangervi addosso e rimanere a guardare, senza osservare.
Aveva ragione, anche se non era lì.
Piangersi addosso a cosa poteva portare? A niente.
Inghiottì il magone e prese a riflettere. Doveva mettere insieme i pochi pezzi di puzzle che aveva racimolato.
In breve la situazione era questa:
era stato rapito da due uomini, con uno dei quali aveva avuto una colluttazione una settimana prima, il che significava che già da tempo lo tenevano d’occhio; entrambi avevano un accento americano, segno del fatto che erano venuti in Inghilterra appositamente per uno scopo; lo volevano tenere in vita, forse perché prima o poi avrebbe dovuto incontrare qualcun altro, qualcuno più potente dei due uomini che lo avevano rapito; si trovava in uno scantinato freddo, lontano dalla città e dalla strada; la finestra era talmente in alto che nemmeno saltando riusciva a vedere fuori.
Questo era tutto quello che aveva in mano.
Cercò di collegare i pezzi, ma, stanco, si addormentò.
**  
“Dobbiamo rifare queste analisi” sentenziò Sherlock, afferrando una busta sulla scrivania di Mycroft e infilandoci dentro i sacchettini sterilizzati con il materiale.
“Come?” chiese il fratello, alzando improvvisamente lo sguardo severo.
Jeremy stava in piedi davanti alla porta, di guardia.
“Fammi accedere ad un laboratorio del Bart’s e avremo le risposte che ci servono” affermò Sherlock, abbassando il tono di voce.
Mycroft scosse la testa:
“E come ti ci faccio entrare nell’ospedale? No Sherlock, è pericoloso. Non puoi permetterti di uscire allo scoperto, non ora.”
Sherlock si passò una mano sulla faccia:
“Quello che ha in mano il governo sei tu, Mycroft, non io. Sono sicuro che troverai un modo”
“Sherlock, tu dovresti essere morto. Lo capisci questo?” domandò il fratello, con un tono troppo simile a quello che si usa con i bambini,
“Sono bravo a travestirmi, procurami i vestiti che ti descriverò”
Mycroft battè un forte pugno sulla scrivania, facendo traballare penne e carte.
 “No!” esclamò violentemente. Continuò a fissare la scrivania, alzò la mano dalla superficie di legno e se la infilò in tasca. Sherlock rimase immobile a guardarlo, poi sussurrò:
“Sei diventato matto? Ho dovuto far sgomberare il club, per farti entrare qui dentro, in modo che nessuno ti vedesse nemmeno di sfuggita. Sono stato costretto a coinvolgere Jeremy, più di quanto non lo fosse già. Tu sei appena uscito vivo da una sparatoria ed è ovvio che l’aggressore voleva te e ti voleva morto.”
Mycroft avanzò di qualche passo, aggirando la scrivania. Tolse la mano di tasca e puntò il dito verso il fratello:
“Non ti lascerò entrare in un ospedale dove dovrei smobilitare una task force per disattivare le telecamere di sicurezza e far sparire tutti i pazienti e i medici, solo perché tu vuoi analizzare dei campioni di sangue. Sanno di te, imbecille. Sanno che sei vivo e lo sanno da quando hai distrutto l’intera rete di Moriarty.”
Sherlock rispose a denti stretti, sussurrando:
“Questo lo so, perché pensi che abbiano rapito John e sparato a Molly, altrimenti? Uno gli serve per far sì che io corra in suo soccorso e per prendermi in trappola, l’altra perché è l’unica in grado di darmi una mano nelle analisi delle prove. Qui, quello imbecille non sono io”
Mycroft rimase a fissarlo negli occhi, indignato. Poi si ritrasse, tornò dietro la scrivania e concluse:
“Non puoi fare niente, senza Molly.”
“Devo! Dammi un microscopio, qualche apparecchiatura che riesci a procurare e lavorerò qui. Non metterò in pericolo nessuno e non uscirò allo scoperto, ma non posso permettermi di perdere altro tempo” rispose Sherlock, appoggiandosi alla scrivania e non staccando gli occhi dal fratello.
L’altro gettò una veloce occhiata a Jeremy, che annuì.
“Ti faremo avere l’occorrente, ma se ti azzardi a muoverti di qui, ti uccido con le mie mani” disse.
Sherlock fece un mezzo giro su se stesso, seccato. Appoggiò il sacchetto con il materiale su una sedia e si mise a sedere su una poltrona, congiungendo le dita delle mani sotto il mento e chiudendo gli occhi.
Mycroft fece un segno a Jeremy, che sparì dallo studio e uscì dal club.
“Che mi dici di Molly Hooper?” chiese poi, rompendo il silenzio.
Sherlock fece una smorfia. Non voleva più parlare con suo fratello, non aveva senso.
“Zitto, Mycroft, mi deconcentri. Sto già sopportando abbastanza, rimanendo chiuso in un club di finti intellettuali” rispose indifferente.
“L’hai portata in salvo” continuò Mycroft, ignorando volutamente le parole appena udite.
“Riflesso incondizionato.”
“Non credo proprio” rise il fratello, accomodandosi meglio sulla poltrona dietro al scrivania.
Sherlock aprì gli occhi per un istante e osservò Mycroft ridere:
“Voglio sapere che proiettile è quello che l’ha colpita. E’ tutto ciò che mi interessa.”
Mycroft allargò la bocca in un sorriso arrendevole:
“Lo saprai solo se lei sopravvivrà.”
Sherlock rimase in silenzio. Richiuse gli occhi. C’era davvero la possibilità che Molly non ce la facesse. Adesso lo capiva e non voleva pensarci.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


 
“Sei coraggioso.”
L’uomo calvo dai lineamenti duri stava in piedi accanto a lui. Osservava il cibo intatto, anche questa volta.
Erano passati un giorno e una notte, da quando John aveva assaporato il tè, e adesso le forze cominciavano a mancargli lentamente.
“Dove troverai le forze, adesso?” continuò sorridendo. Sorrideva sempre, quando gli si rivolgeva, e quel sorriso era in terribile contrasto con le parole che pronunciava e con l’espressione severa degli occhi.
“Sai, noi lo facevamo per il tuo bene. Mangiare ti avrebbe sicuramente aiutato, ma…”
Il sorriso gli si spense, John abbassò lo sguardo e si preparò a ciò che sarebbe successo a breve.
“…adesso sono affari tuoi.”
L’uomo si abbassò, lo afferrò per un braccio e lo costrinse ad alzarsi. John gemette e arrancò per mettersi in piedi: le ginocchia tremavano e non reggevano il peso del resto corpo, la testa girava e non sapeva dove appoggiarsi per tenersi in piedi.
“Andiamo”
Gli venne data una spinta e John cercò di mettere insieme le idee per riuscire a rendersi conto che doveva camminare. Andava troppo lentamente, però, perché d’un tratto sentì lo scatto del caricatore di una pistola e immediatamente dopo percepì l’arma puntata alla schiena.
Chiuse gli occhi e respirò a fondo.
L’uomo lo spinse per uno stretto e buio corridoio, illuminato solo da alcune torce attaccate alla parete.
“Siamo nel Medioevo?” borbottò John, cupamente ironico. Non si stava divertendo, era chiaro, ma stava cercando di estorcere quante più informazioni possibili agli americani. Di questo era certo: chiunque fossero, venivano dagli USA. L’altro non rispose.
Si fermarono di fronte ad una porta di metallo, dopo alcuni minuti di cammino.
L’uomo bussò tre volte, fece una pausa, poi altre due volte, un’altra pausa e in fine una sola.
Dall’altra parte rispose una voce:
“J-M-R”
“S-H-R” annunciò a sua volta l’accompagnatore di John. Dopo qualche secondo la porta si aprì con un rumore secco e metallico e John fu spinto all’interno di un bunker di cemento armato.
Lo riconobbe immediatamente, in guerra ne aveva visti molti simili. E, di solito, chi ci finiva dentro o era il comandante di una guarnigione, o un gruppo di inquisizione, o un medico, o un ostaggio pronto per essere interrogato fino alla morte. John ebbe l’orribile presentimento di rientrare proprio nell’ultima categoria.
Fu fatto sedere al centro della stanza, legato con le mani dietro la schiena e con le caviglie attaccate alle gambe di una sedia.
Prese un profondo respiro: sì, le forze gli mancavano. Si rendeva conto che probabilmente avrebbe resistito molto di più, se solo avesse buttato giù un po’ di quella poltiglia che gli portavano per cena, ma capì anche che era riuscito a rimandare quel momento almeno di un giorno, perché Tom si avvicinò all’uomo calvo e disse, nervoso:
“Siamo in ritardo di dodici ore, credi che J. ne sarà contento?”
L’altro lo scostò con un braccio, seccato, e si andò a sedere in un angolo.
John ebbe il tempo di guardarsi intorno. Due uomini armati in piedi accanto alla porta; c’era un’altra entrata alla stanza, piccola, sul fondo, illuminata da un neon bianchissimo posto sullo stipite, e anche quella porta era sorvegliata da due uomini.
Si accorse che, stranamente, Tom era l’unico con il cappuccio calato sulla faccia che ancora non aveva nemmeno intravisto. Cominciò a domandarsi perché, sforzandosi di utilizzare il metodo deduttivo insegnatogli da Sherlock, ma fu interrotto sul nascere dall’entrata di una nuova figura.
Un uomo vestito con un completo grigio perlato, una cravatta nera e un paio di mocassini lucidi entrò dalla porta in fondo alla stanza.
  Aveva il capo chino e fissava per terra. Avanzò di qualche passo, lentamente e ciondolando, ma nonostante questa malcreanza si vedeva quanto fosse pieno di sé.
Sorrideva.
John era rimasto a fissarlo dal primo secondo in cui l’aveva visto.
L’uomo si fermò precisamente di fronte a John, alzò la testa, lo guardò negli occhi e sorrise.
“Sorpresa” disse, allargando il sorriso e mostrando la dentatura quasi perfetta.
John rimase pietrificato. Per un attimo credette che fosse stata solo una sua allucinazione, dovuta al drastico calo di zuccheri.
Chiuse gli occhi e scosse la testa. Poi tornò a guardare l’altro e rimase di nuovo a bocca aperta.
“Non ti piacciono le sorprese, John?” chiese con la voce stridula e allegra “hai un’espressione tanto seria! Avrei giurato che saresti stato felice di vedermi”
“Sei un’allucinazione” fu solo capace di rispondere John.
“Già” rispose l’altro. Dette un calcio al pavimento e sospirò felice “faccio a tutti questo effetto.
Ma non potevo rimanere nell’oblio per molto tempo ancora. Non è divertente.”
Si voltò di nuovo verso John, sorrise e sussurrò: “Ogni favola ha bisogno di un vero cattivo.”
**  
Sherlock era ricurvo sul microscopio.
Aveva sgomberato la scrivania di Mycroft da ogni cianfrusaglia, come lui definiva carte, penne e documenti, e aveva lasciato solo la lampada, un foglio di carta e una penna, dove ogni tanto annotava qualche appunto. Era lì dal giorno prima. Non aveva chiuso occhio tutta la notte. Jeremy gli aveva portato la cena e la colazione, ma lui non l’aveva degnato di uno sguardo e quando suo fratello gli faceva notare qualcosa, lo liquidava con un gesto impaziente della mano.
Era solo sangue ciò che aveva da analizzare, eppure quello che otteneva era così strano.
Aveva fatto confrontare da Jeremy i risultati ottenuti con il database del governo, ma sembrava che il suo uomo non fosse mai esistito. Non c’era una faccia da collegare a quel sangue. L’unico riscontro certo era stato il sangue di John e Sherlock non se ne era stupito.
“Allora?” chiese Mycroft, entrando nella stanza e aprendo un cassetto della scrivania per cercare i sigari.
Sherlock non rispose.
“Non ti ho mai rivolto la parola per non disturbarti, durante queste ventiquattro ore, e la prima volta che lo faccio non mi rispondi” continuò, chiudendo e aprendo cassetti a ripetizione.
“Mi dai fastidio” sussurrò Sherlock fra i denti.
“Dove diavolo hai messo i miei sigari?” chiese Mycroft, alzando il naso da un cassetto vuoto e guardando Sherlock. Lui fece segno con la mano alla sua sinistra:
“Da qualche parte”
Mycroft sospirò e si piegò sul pavimento alla ricerca dei sigari. Dopo qualche minuto di silenzio disse:
“Di chi è quel sangue?”
Sherlock non mosse gli occhi dal microscopio:
“Di John e di un tizio col cancro”
Mycroft interruppe la sua ricerca:
“Oh, e chi è?”
“Non lo so, adesso sta zitto”
Il fratello si alzò in piedi di scatto con il pacchetto di sigari in mano. Ne prese uno, estrasse l’accendino dalla tasca e lo accese.
Si lasciò andare sulla poltrona più vicina e sospirò:
“Credevo ti interessasse sapere come sta la dottoressa Hooper.”
Sherlock si immobilizzò. Posò la penna sul tavolo e rimase in silenzio un attimo. Poi capì che doveva rispondere in fretta per non dare soddisfazione a Mycroft:
“Mi interessa solo qual è stata l’arma a sparare”
L’altro sorrise arrendevolmente.
Soffiò in aria il fumo e rimase per un attimo ad osservarlo salire e sparire contro il soffitto. Formava immagini, spire; non era mai chiaro cosa volesse rappresentare: se un momento si era riconosciuta una figura, bastava un altro attimo per non trovarla più.
“Beretta 92FS” rispose.
Sherlock alzò finalmente lo sguardo dal microscopio.
Si voltò di scatto verso il fratello e sorrise:
“Americana. Abbiamo un poliziotto americano col cancro fra le mani.”
Mycroft lo osservò con sguardo interrogativo:
“Credi che l’uomo che ha sparato a Molly sia lo stesso che ha rapito John?”
“Ne sono certo. E’ ovvio che non può essere nessun altro e adesso si spiega perché dopo la colluttazione con John ha pensato bene di svignarsela e tornare in tutta sicurezza in un secondo momento. Un poliziotto americano, magari un disertore, non avrebbe potuto permettersi di essere riconosciuto, figuriamoci arrestato.”
Si voltò di nuovo verso la scrivania, afferrò un foglio e scrisse alcune cose.
“Fa sicuramente parte del gruppo di pazzi rimasti fedeli a Moriarty. Fammi avere un computer immediatamente, devo fare delle ricerche.”
Mycroft annuì. Non era rimasto sorpreso dalla celerità del fratello nell’inquadrare la situazione, c’era abituato e, in un certo senso, ci sperava: quella era l’unica cosa che li accumunava e spesso li faceva mettere in competizione.
Si alzò dalla poltrona, spende il sigaro rimasto nel posacenere e si avvicinò alla porta dello studio.
“Va bene” disse in tono neutro “Ma per l’amor di Dio, Sherlock, manda un messaggio a quella ragazza”
Sherlock si voltò appena in tempo per afferrare il cellulare che Mycroft gli aveva lanciato.
“E’ il mio, così non correrai il rischio di essere rintracciato” concluse, aprì la porta e sparì dallo studio.
Sherlock guardò un attimo il cellulare e scartò l’idea di farsi sentire da Molly. Il fatto che Mycroft gliel’avesse chiesto aveva confermato la sua supposizione secondo cui lei si stava rimettendo.
Appoggiò il cellulare su un angolo della scrivania e tornò ad analizzare le tracce al microscopio.
Molly gli avrebbe sicuramente dato una mano. Molly gli avrebbe fatto forza. Molly l’avrebbe aiutato ad aprire illegalmente i database scientifici americani per cercare il suo uomo.
Sherlock strinse in mano la penna: lei era importante, per lui, gliel’aveva detto quasi tre anni prima.
Di scatto lasciò andare la penna sul tavolo ed afferrò il telefono.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Il dolore si faceva sentire, nonostante la quantità ingente di morfina e degli antidolorifici che le avevano somministrato per due giorni. Molly era sdraiata su un fianco, ogni tanto si massaggiava il braccio ferito e guardava sognante fuori dalla finestra. Aveva richiesto le dimissioni il giorno prima, ma il caporeparto non aveva voluto sentire ragioni e l’aveva costretta a letto almeno per un altro paio di giorni.
Il riflesso della luce del sole sulla finestra le impediva di vedere bene cosa ci fosse al di fuori. Scorgeva solo le automobili sfrecciare sulla strada. Molly si stava chiedendo come potesse la vita continuare a scorrere tranquilla, ignara del pericolo che incombeva sulle loro teste come la spada di Damocle. Sherlock era da qualche parte ad analizzare da solo il materiale che aveva Mycroft, probabilmente avrebbe avuto bisogno del suo aiuto. O forse no… No, Sherlock sarebbe riuscito a farcela anche da solo.
Si battè una mano sulla fronte e chiuse gli occhi, rigirandosi in posizione supina nel letto.
Come poteva essere stata tanto stupida da credere alle parole che Sherlock le aveva detto tre anni prima nel laboratorio del Bart’s? Lui aveva solo bisogno di un modo per rimanere vivo e sconfiggere Moriarty definitivamente, non aveva realmente bisogno di lei.
Delle sue abilità sì, ma di lei no. Eppure adesso fremeva per uscire da quella camera di ospedale e correre da Sherlock, dirgli che stava bene e che poteva aiutarlo.
Nel profondo sapeva di non avere alcuna possibilità con lui, eppure non perdeva occasione per dargli una mano, per chiedergli come andava e per stargli accanto. Voleva essere in quel momento con lui, anche solo per scrutare provette al microscopio e analizzare delle sostanze chimiche. Quelli erano gli unici momenti in cui si sentiva parte della strana e rocambolesca vita di Sherlock.
“Ma che te ne importa, Molly?” sussurrò fra sé “Ti cerca solo quando gli servi”
Tentava di convincersi che Sherlock non provava sentimenti, lui si chiudeva nella sua bolla di sapone per ovattare tutto ciò che avrebbe potuto ferirlo. Ma lei non lo avrebbe fatto, no, non lo avrebbe mai ferito. Sherlock doveva solo fidarsi di lei e quella bolla sarebbe scoppiata.
Mi sono sempre fidato di te. Aveva detto, tre anni prima. Era sicura che quelle parole fossero sincere. Sì, in quel momento, ma non dopo. Una volta che l’aveva aiutato ad inscenare la sua finta morte, lui si era dileguato, senza nemmeno salutarla. Ungrazie sarebbe bastato.
Poi era tornato. L’aveva salutata come se niente fosse successo e adesso collaboravano per la risoluzione del nuovo caso.
In tutto quel tempo, Molly si era ripromessa di essere forte, di non lasciarsi più coinvolgere dai tormentosi sentimenti che provava nei confronti di quell’imbecille… intelligente, acuto, simpatico, a volte dolce, ragazzo del 221B di Baker Street. Tutto inutile: non riusciva a voltare pagina.
Doveva, però, fare almeno qualche passo avanti e decise che il primo sarebbe stato non rispondere alle provocazioni, ai messaggi e alle chiamate, a meno che non fossero state urgenti invocazioni di soccorso.
In quel momento, il cellulare vibrò sul comodino accanto al letto.
Molly si voltò lentamente e si mise a sedere.
Osservò il cellulare illuminato e aspettò qualche secondo prima di guardare il messaggio.
Poi prese il telefono in mano, premette il tasto “Leggi” e trattenne il fiato:
 
Stasera, 8 pm, da me.
SH
 
Molly lasciò andare un profondo sospiro. Il numero era quello di Mycroft, ma la firma era di Sherlock.
Era un’urgente invocazione di soccorso o solo un modo per farle capire che le era moralmente accanto?
Ripensò alla sera di due giorni prima: era stato lui a portarla in braccio fuori dall’edificio abbandonato in cui avevano avuto la riunione con Mycroft; lui aveva cercato di salvarla in ogni modo; poi era intervenuto un altro ragazzo, ma a quel punto i ricordi si erano fatti lontani e confusi.
Non rispose al messaggio. Appoggiò il telefono sulla coperta e fissò il muro davanti a sé.
Qualche secondo dopo, il cellulare vibrò di nuovo.
Molly lo prese e lesse il nuovo messaggio:
 
 
Spero tu stia bene. Porta un microscopio decente e il tuo computer.
SH
 
E questo come doveva interpretarlo? Due messaggi uno dietro l’altro. Non era mai successo.
Ogni buona intenzione si sciolse e Molly, senza pensare più, rispose:
 
Non so dove sei. Sto meglio.
Molly
 
Si voltò dall’altra parte del letto, ingoiando il nodo alla gola che si era formato: le faceva sempre questo effetto non sapere se Sherlock avrebbe risposto ai suoi messaggi. Sì maledì per un istante: non avrebbe dovuto rispondere.
“Sono proprio una sciocca, che mi è saltato in mente?”
Prese il telefono in mano e aspettò con il cuore in gola una risposta.
“Tanto non risponderà, quindi mettiamoci l’anima in pace”
Ma il telefono vibrò ancora.
Molly aprì il messaggio in fretta:
 
Stasera, 8pm, da me.
MH
 
Lo stesso messaggio di prima, questa volta firmato da Mycroft. Sherlock aveva abbandonato le redini della conversazione in mano al fratello, doveva aspettarselo. Non spese tempo a riflettere, abbandonò il cellulare sul comodino e chiamò un’infermiera:
“Mi faccia avere subito le mie dimissioni.”
L’infermiera cercò di protestare, ma lei fu veloce a ribattere:
“Ascolti…” quando Molly doveva cercare di farsi valere, iniziava sempre a balbettare “io sto bene e devo lavorare. Se non vuole che mi metta qui a tagliare a Y il torace dei cadaveri che ho in lista, mi consegni le mie dimissioni e… e mi faccia uscire da qui.”
L’infermiera annuì stancamente, senza ribattere.
Non era stata poi così male, in quel momento. Se solo riuscisse ad essere così anche in presenza dei fratelli Holmes…
Il braccio le doleva, ma strinse i denti ed iniziò a cambiarsi. Una volta dimessa, sarebbe dovuta partire immediatamente. Destinazione? Il club di Mycroft.

**

Una secchiata di acqua fredda scosse definitivamente le facoltà sensitive di John, che per un momento credette di non essere più in grado di percepire niente sulla pelle.
Avrebbero potuto continuare a torturarlo per una settimana, se necessario, ma sarebbe morto prima, senza sentire nemmeno dolore.
Continuavano a chiedergli di Sherlock Holmes, del fatto che fosse ancora vivo, eppure lui ormai aveva smesso di rispondere che non ne sapeva niente. Sarebbe stata inutile qualsiasi opera di convincimento, contro quegli uomini. Non gli avrebbero creduto nemmeno in punto di morte.
Sherlock era morto, perché continuavano a chiedergli dove fosse?
“Sei un osso duro, John” disse l’uomo in giacca e cravatta che dirigeva il processo di tortura da un angolo della stanza. Era rimasto lì per tutto il tempo, mentre iniettavano a John qualunque tipo di sostanza nel sangue, mentre lo picchiavano o ricorrevano a metodi estremi.
L’uomo si avvicinò, passo dopo passo, lentamente, e fece segno agli altri di smettere quello che stavano facendo.
John lo osservò, tenendo a fatica gli occhi aperti e dovendo sbattere le palpebre per vedere più lucidamente.
“Eppure tutti, prima o poi, parlano sotto tortura” continuò l’altro, sorridendo.
“Adesso che hai visto me, sai che i morti tornano dall’aldilà. Quindi ti risparmio un ulteriore fatica: dov’è Sherlock Holmes?” concluse, indurendo volutamente i tratti del volto nel porre l’ultima domanda.
John sospirò a fondo. Si stava quasi convincendo che Sherlock fosse davvero vivo da qualche parte, ma in ogni caso non aveva idea di dove fosse.
“Sepolto nel cimitero di Londra” sussurrò, allo stremo delle forze. Alzò lo sguardo per vedere la reazione dell’altro, che annuì.
“Come lo ero io. Mio caro dottor Watson, vuoi davvero continuare a soffrire così tanto?”
“Io… non so niente, Moriarty” rispose John, per l’ennesima volta, scuotendo la testa e abbassando gli occhi. Aveva bruciature e lividi ovunque. Sentiva un fischio continuo nelle orecchie vedeva il suo sangue gocciolare in terra da ogni parte del corpo.
“Già” sorrise Jim. Si spostò, tornò nell’angolo e con un gesto della mano disse:
“Continuate, ma lasciatelo vivo”
In quel momento, il silenzio di attesa che si era creato nella stanza, fu rotto dal grido straziante di John.


NOTA DELL'AUTRICE: Vorre, innanzi tutto, ringraziare tutti coloro che continuano a leggere e recensire la storia. Grazie di cuore, perchè mi fate capire che apprezzate quello che scrivo, sia per quanto riguarda i personaggi, sia per quanto riguarda la trama. Ora veniamo a noi: vi comunico che dopo questo capitolo, il numero 7 arriverà prestissimo, perchè parto lunedì 29 e per dieci giorni non avrò connessione a internet e quindi... niente capitoli .-. Ancora grazie a tutti, spero di non deludervi!

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Sherlock fissò gli appunti scritti sul foglietto accanto al microscopio.
Continuava a torturare la penna fra le dita per il nervoso e di tanto in tanto sospirava spazientito. In uno scatto d’ira la lanciò contro il muro, con un grido di frustrazione. Mycroft, seduto su una poltrona, abbassò sulle ginocchia le carte che stava leggendo e sospirò:
“Spero che l’ospedale abbia dimesso la dottoressa Hooper, altrimenti rischio di ucciderti.”
Sherlock si girò di scatto verso di lui, sudato, le maniche della camicia viola arrotolate fino ai gomiti:
“Come diavolo fai ad essere così tranquillo?”
Si passò una mano sulla bocca, trasse un profondo respiro e sogghignò:
“Dimenticavo, voi persone comuni non avete idea di cosa possa muoversi all’interno di una mente come la mia.”
Mycroft mantenne la calma, mise a posto i documenti che stava esaminando e si alzò in piedi:
“Nessuna novità, credo di aver capito.”
“Non finchè Molly non sarà qui con l’apparecchiatura più completa. Non so nemmeno come orientarmi per trovare John e il tempo sta finendo” rispose Sherlock, concitato. Si appoggiò alla scrivania e tentò di mettere insieme i pezzi del puzzle che aveva in mano, ma in quel momento la porta si spalancò e Jeremy entrò ad annunciare l’arrivo di una persona:
“Scusate l’interruzione, ma c’è una persona che insiste particolarmente per entrare”
Guardò Mycroft e continuò:
“Come fa a sapere che esiste questo posto?”
Sherlock scrutò alle spalle di Jeremy ed intravide una chioma castana spuntare da un ammasso di scatoloni e barcollare sotto il loro peso.
“Perché si tratta della mia patologa” rispose Sherlock, in risposta alla domanda di Jeremy.
 “Falla entrare e dalle una mano con quegli scatoloni, le hanno sparato due giorni fa, sicuramente non è in grado di tenere in braccio quel peso da sola” concluse.
Jeremy si voltò a guardare la ragazza sobbarcata dal materiale, le prese gli scatoloni e li appoggiò per terra, all’interno dello studio. Quando si voltò a guardarla, sbiancò per l’imbarazzo:
“Dottoressa Hooper, mi perdoni, non l’avevo riconosciuta. L’ultima volta che l’ho vista era…”
“Moribonda e sanguinante? Sì, lo so” rispose Molly, sorridendo a stento. Jeremy la fece entrare nella stanza e richiuse la porta.
Una volta dentro, Molly abbassò lo sguardo a terra e con un gesto istintivo si accarezzò il braccio fasciato, sorridendo per l’imbarazzo. Nessuno si mosse. Le sue aspettative rispetto a quel momento erano state decisamente troppe. Nella sua immaginazione Sherlock correva ad abbracciarla e a ringraziare Dio che fosse ancora con lui sulla terra, ma quella non era che la situazione che si era creata da sé.
In silenzio, Mycroft le andò vicino e le strinse diplomaticamente la mano:
“Come sta, dottoressa?” chiese, cercando di sorridere.
Molly annuì: “Meglio, insomma… non ho più una pallottola nel braccio!” e abbozzò quella che lei credeva una risata ironica, che prevedibilmente si smorzò quasi subito, quando le venne in mente la voce di Sherlock che le diceva, imperioso, “Non fare queste battute Molly, non sono divertenti”.
Mycroft rispose al sorriso, freddamente. Forse era sinceramente felice di vederla viva, ma non lo dimostrava. Doveva essere un vizio di famiglia. Aprì la porta e sparì dallo studio.
Allora Molly rivolse lo sguardo a Sherlock, rimasto in piedi a fissarla tutto il tempo. Non aveva mai aperto bocca e lei non sapeva se prenderlo come un complimento o aspettarsi il peggio.
Accorgendosi che lui non accennava a parlare, indicò confusamente gli scatoloni per terra accanto ai suoi piedi:
“Ho portato quello che mi avevi chiesto. C’è il microscopio del laboratorio del Bart’s, il nostro, e c’è anche…”
“Il computer” la interruppe Sherlock e continuò “Sono felice di vedere che stai bene”
Molly rimase a corto di parole per qualche imbarazzante secondo esi ritrovò a sorridere con un’espressione, secondo lei, poco intelligente.
“Grazie… Ora, però, dobbiamo lavorare, giusto?” rispose. Brava Molly. Si complimentò con se stessa per la risposta. Se le parole di Sherlock volevano solo essere il contentino per convincerla ad aiutarlo, lui avrebbe dovuto capire che non sarebbe più stata disposta a farsi imbambolare dai suoi giri di parole. Almeno apparentemente.  
Sherlock aggrottò le sopracciglia.
“Sì” rispose, quasi bisbigliando. Quella risposta non era da Molly.
Non ebbe nemmeno il tempo di rifletterci sopra che lei aveva già cominciato ad estrarre l’attrezzatura dagli scatoloni con grande fatica.
“Mi daresti una mano?” chiese, senza rivolgergli lo sguardo. Sherlock l’aiutò a mettere da parte gli scatoloni e porre tutto sulla scrivania. Accesero il computer e inserirono il cd che Molly era riuscita a recuperare con i database americani, sistemarono il microscopio e ricominciarono ad analizzare il sangue con la nuova apparecchiatura. Cercando di non farsi notare Sherlock stava studiando la ragazza, cercando di cogliere dei cambiamenti, ma trovava solo una rigidità in più.
Mentre Molly metteva a fuoco il microscopio per preparare l’analisi, si rivolse a Sherlock:
“Cos’hai scoperto fin ora?”
Lui si voltò a guardarla, mentre inseriva dei codici sul computer:
“Niente che tu non possa scoprire di nuovo” disse secco, insoddisfatto della sua prima analisi su di lei. Voleva vederla nel suo ambiente naturale, per controllare gli eventuali cambiamenti. Doveva dimostrarsi di poter ancora usare la scienza della deduzione, di avere sempre un cervello superiore alla media.
Molly abbassò lo sguardo. Si sarebbe arresa anche questa volta, avrebbe preso le provette e le avrebbe analizzate in silenzio, anche se le faceva male il fatto che Sherlock la stesse ignorando così meschinamente.
Invece no, decise che quella volta non doveva finire così:
“Sherlock Holmes” disse, traendo un profondo respiro e trattenendo il fiato. Lui si voltò a guardarla e lei strinse i pugni per farsi forza.
“Ho… ho avuto paura, sai? Per un momento, mentre mi portavano d’urgenza in sala operatoria, ho creduto di non farcela. Mi dispiace che tu pensi che il mio incidente ti abbia solo rallentato le indagini. Anch’io tengo a John e voglio ritrovarlo, è solo che…”
“Non te la senti?” chiese Sherlock, immobile. Non stava andando come previsto, e quello lo sconcertava.
Lei scosse il capo, quasi offesa:
“Se non me la sentissi non sarei qui. Voglio aiutarti Sherlock, è che…” lui stava per interromperla di nuovo, ma lei alzò una mano per zittirlo “è che vorrei che tu aiutassi anche me, per una volta.”
Il cuore le mancò un battito. Respirò a fondo e si voltò verso le provette, prese carta e penna e si preparò ad iniziare l’analisi, come se non fosse successo nulla.
Sherlock era rimasto a fissarla. Poteva quasi sentire gli ingranaggi ben oliati muoversi alla velocità della luce dentro il suo cervello.
Lei lo aveva aiutato nel modo migliore in cui avesse potuto, aveva finto la sua morte e da allora, per tre anni, aveva rischiato la vita ogni giorno, mantenendo un segreto più grande di lei. Tuttora lo stava facendo e questa volta la morte l’aveva mancata per un soffio.
Se non fosse stato per lei, lui, in quel momento, non avrebbe avuto tutto quel nuovo materiale per indagare e per ritrovare John. Se non fosse stato per lei, lui sarebbe morto, di noia o gettato da un palazzo non aveva importanza.
Sherlock si alzò dalla sua postazione, aggirò la scrivania e si sedette accanto a lei.
“Sono cellule malate. Ciò che le contamina è cancro” disse, prendendo lentamente una provetta dalle mani di Molly e portandola in controluce per risaltare il contenuto. Lei si voltò e i loro sguardi si fissarono l’uno nell’altro per qualche istante. Sherlock riportò il suo sguardo sulla provetta e le diede un colpetto.
“Il sangue che è contenuto in queste due provette è diverso: uno è di John, l’altro è del misterioso assalitore, sicuramente quello che lo ha rapito e che si trova da qualche parte in Inghilterra. Non è a Londra, no, altrimenti Mycroft lo avrebbe già rintracciato dalle informazioni che gli ho dato” continuò, parlando sottovoce e velocemente.
Molly borbottò: “E quali informazioni sono?”
Sherlock mise di nuovo la provetta nella mano di Molly e la strinse nella sua. Polso accelerato, pupille dilatate. I sintomi, in Molly, erano evidenti. Eppure quella sensazione a Sherlock piaceva. John sarebbe stato disgustato di lui.
“Un poliziotto americano col cancro. Questo è l’identikit che sono riuscito a ricavare dal materiale e questo è l’uomo che ha condotto le operazioni, ma c’è qualcuno più in alto di lui, che comanda tutto. Qualcuno che ha mandato un sicario ad ucciderci, due giorni fa, qualcuno che sa che io sono vivo.”
Molly deglutì a fatica:
“Credo che sia più utile cercare nei database, allora.”
Sherlock la fissò per qualche secondo negli occhi. Sembrava essere tornati alla normalità.
Che strana sensazione, quella. Sentiva il sudore trapelare dai pori delle mani. La chimica gli aveva appena suggerito di lasciar andare la mano di Molly e lui lo fece fulmineo. Tornò a sedere davanti al computer e trasse un’altra sedia, portandola accanto a sé.
“Siediti” disse a Molly.
Lei si avvicinò e pian piano si mise a sedere.
“Sto aprendo i database americani del tuo cd. Ricorda: stiamo cercando un poliziotto” asserì Sherlock.
Ormai aveva spostato la sua attenzione sul caso e il momento di strana esaltazione dei sensi era finito.
Lo scopo era sempre stato chiaro: non doveva lasciarsi coinvolgere. Mai.
Ma forse, in quei tre anni di assenza, qualcosa era cambiato. John avrebbe sicuramente capito: riusciva a carpire quelle sensazioni che il cervello di Sherlock filtrava come irrilevanti.
“Se questo poliziotto ha il cancro, probabilmente dev’essere segnalato nella sua scheda lavorativa. E poi se è in Inghilterra vuol dire che non è più nelle forze dell’ordine, giusto?” Molly aveva abbozzato la sua linea di ricerca. Sherlock sorrise:
“Mi sei mancata Molly Hooper.”
Sì, qualcosa era cambiato. Che cosa? Molly rispose senza pensare:
“Anche tu, Sherlock Holmes.”
Sorrisero entrambi. Quel momento era bello, tranquillo e sereno. I problemi, le ansie, il caso di estrema urgenza che stavano trattando, erano solo quelli i motivi per cui quelle parole erano state pronunciate da entrambi. Era come ai vecchi tempi, come quando la felicità era esultare insieme per una scoperta biologica o chimica.
Molly ringraziò segretamente la parte sensibile di Sherlock, che sperava si stesse addolcendo.
Rimasero lì, seduti uno accanto all’altra alla disperata ricerca dell’uomo che aveva portato a termine il rapimento di John e che probabilmente gli avrebbe suggerito il luogo dove in quel momento si trovava.
Dopo ore di ricerca, Molly puntò il dito verso lo schermo del computer e Sherlock si impietrì:
“Thomas Kletton, ufficiale della Marina Americana, trentaquattro anni. Ha servito gli Stati Uniti dal 2001 al 2010, anno in cui fu ricoverato per gravi ustioni in tutto il corpo e nel viso. Un ‘operazione militare finita male. Nello stesso anno, ha preso congedo dalla Marina e si è trasferito in Inghilterra. Interessante…”
“Che cosa?” chiese Molly, scrutando attentamente la carta di identità e la foto che aveva davanti. A prima occhiata era un ragazzo, un giovane di bell’aspetto, con i lineamenti regolari, gli occhi scuri e i capelli neri. Adesso doveva essere del tutto sfigurato a causa di una missione andata nel verso sbagliato.  
“La sua fedina penale è immacolata, ma da quando si è trasferito in Inghilterra è indagato per tre omicidi, di cui uno durante un furto, e due aggressioni. La polizia locale, ovviamente, non è mai riuscita a rintracciarlo e a catturarlo, non ci si poteva aspettare niente di diverso” continuò Sherlock.
“Dov’è stata registrata la sua ultima residenza?” chiese Molly.
“A Bath” Sherlock si illuminò. Allargò le braccia e si alzò di scatto dalla sedia:
“Ma certo, certo! È lì che si nasconde. La casa è stata posta sotto sequestro dal 2011, ma è abbandonata. Deve avere uno scantinato o qualcosa di simile, troveremo John lì. Grazie Molly!”
Afferrò il cappotto e lo infilò in fretta, si arrotolò la sciarpa intorno al collo con un gesto veloce e si avviò verso la porta. Poi si voltò verso Molly:
“Non sei costretta.”
“Vengo con te.”


NOTA DELL'AUTRICE: Come avevo già accennato nella nota del capitolo 6, ho deciso di pubblicare il 7 a pochissima distanza di tempo, perchè per dieci giorni non avrò connessione internet. Intanto continuerò la storia e mi preparerò a pubblicarla:) Quindi, buona lettura a tutti!

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


“Potrebbe essere pericoloso” la voce di Mycroft ruppe il silenzio calato nell’auto che si stava dirigendo fuori Londra.
“Lo so” fece Molly.
“Lo sa” ripetè Sherlock.
“Dottoressa Hooper, mi permetto di insistere. Finchè è in tempo, rimanga a Londra, le hanno già sparato e non vorrei che succedesse di nuovo” continuò Mycroft, guardando gli altri di sbieco.  
Al volante c’era Jeremy e nei sedili posteriori erano seduti Sherlock e Molly.
“Io credo che…” aveva iniziato Molly, ma Sherlock la interruppe:
“Ci sarà utile.”
“A te o a tutti?” chiese Mycroft, risentito.
Il silenzio calò immediatamente in tutto l’abitacolo. Un silenzio innaturale, imbarazzante.
Molly abbassò lo sguardo sulle proprie dita strette intorno all’orlo delle maniche e per un istante capì che poche ore prima, nello studio del club di Mycroft, era stata troppo impulsiva. Lei non sapeva nemmeno tenere una pistola in mano, come avrebbe fatto a difendersi? Eppure Sherlock le aveva parlato come se non avesse potuto intraprendere questo viaggio senza di lei. Gettò una rapida occhiata fuori dal finestrino: la campagna inglese cominciava a delinearsi intorno a loro, il buio incombeva ovunque e la strada era deserta. Nessuno usciva dalla grande città, durante il week-end: il traffico era tutto nella direzione opposta.
Nemmeno lei aveva mai messo il naso fuori da casa sua, negli ultimi anni.
Con una smorfia di tristezza si rese conto che si era quasi dimenticata quale fosse la sensazione di andarsene da Londra, anche solo per qualche ora.
In quei lunghi tre anni, si era barricata nei suoi laboratori, si era gettata a capofitto nel lavoro e si era dimenticata di poter avere una vita sociale. Non che prima fosse molto attiva.
Sherlock era rimasto immobile, da quando Mycroft aveva tirato la sua frecciatina. Guardava davanti a sé, al di là del seggiolino di Mycroft, e sembrava analizzare la strada in ogni minimo particolare.
D’un tratto il buio si diradò e i fari di un’altra macchina si aggiunsero a quelli della vettura in cui viaggiavano.
Molly lasciò andare un risolino nervoso:
“Cominciavo a temere di essere finita nel mezzo al niente.”
Sherlock si sporse in avanti per vedere meglio il riflesso della macchina che stava viaggiando dietro di loro nello specchietto laterale dell’auto e rimase in silenzio.
I fari dell’automobile si facevano sempre più grandi, segno che si stava avvicinando di sempre più.
“Non mi piace” disse Sherlock, scrutando il riflesso della luce “Accelera Jeremy.”
“Può sempre superarci e non credo che…” abbozzò Jeremy, ma Sherlock lo interruppe immediatamente:
“Ho detto accelera.”
Il tono era duro. Sherlock mantenne sul giovane lo sguardo sospettoso e indagatore di quando stava per inoltrarsi nella rete di pensieri fino alla soluzione di un caso. Jeremy fece come gli era stato detto, mentre Mycroft e Molly rimasero in silenzio, l’uno indifferente, l’altra sorpresa. Se Sherlock aveva reagito così ad un innocuo tentativo di contraddizione da parte di Jeremy, c’era davvero qualcosa che non quadrava.
Per un momento pensò che sarebbe stato meglio continuare a viaggiare da soli, nel buio.
Quando si trovarono davanti ad un bivio Sherlock ordinò:
“Svolta a destra.”
“Ma Bath è dall’altra parte” borbottò Jeremy.
“Ci arriviamo lo stesso anche da qui, conosco questi luoghi meglio di chiunque altro. Svolta a destra” ripetè Sherlock a denti stretti.
Molly cominciò a sentire l’ansia crescere. Quando si voltò ad osservare l’altra macchina, vide che aveva svoltato a destra anch’essa.
“Ci stanno seguendo” disse timidamente, con un tono piuttosto basso.
“Ovvio” asserì Sherlock “Eppure non ci fermano e non ci attaccano. Perché?”
Molly sbiancò, si guardò in torno titubante, ma non riuscì a vedere né in Jeremy, né in Mycroft il minimo segno di sconcerto.
“Perché dovrebbero attaccarci?” chiese.
Sherlock roteò gli occhi, con aria seccata e poi rispose, col solito tono veloce e concitato:
“E’ un SUV nero, quello che ci sta seguendo, la targa è inglese, quindi non è un turista che si è perso. E i turisti di solito non vanno in giro con dei SUV neri. Abbiamo svoltato a destra e loro hanno svoltato a destra, pur sapendo perfettamente che in questa direzione si arriva solo ad un gruppo di ville ottocentesche e ad una scorciatoia nel bosco per arrivare dalle parti di Bath, ma non credo che i nostri inseguitori abbiano intenzione di passare una bella serata nell’ottocento, tanto meno che conoscano la strada secondaria per Bath. Quindi è ovvio che abbiamo dietro alcuni degli uomini di Moriarty. Ma il punto è che non ci superano né ci attaccano.”
Molly rimase a fissarlo per qualche secondo. I sentimenti erano in subbuglio: era stato affascinante sentirlo parlare con così tanta sicurezza, come prima, anche se erano pedinati da uomini armati e pronti a tutto.
Abbassò lo sguardo e rimase in silenzio.
Jeremy continuava a guidare, ma dava segni di insicurezza.
“Non è forse meglio tornare indietro? Se quelli sono uomini di Moriarty, ci seguiranno anche se facciamo inversione” disse Jeremy, ostentando una sicurezza che non gli apparteneva.
“E’ esattamente quello che direbbe uno di loro” rispose Sherlock, balzando di scatto sul sedile.
Molly e Mycroft si voltarono a guardarlo e Jeremy rimase immobile a fissare la strada.
“Che diamine stai dicendo?” esordì Mycroft.
“Adesso puoi dirlo, Jeremy. Sei stato tra di noi tutto questo tempo, avevi le informazioni necessarie per informare i tuoi superiori e sapevi che stasera saremmo partiti per Bath. La tua ultima richiesta non ha fatto che confermare le mie supposizioni.”
“Signor Holmes, io non capisco…” borbottò l’altro, incapace di trovare una risposta.
Sherlock esordì in un’amara risata:
“Sudorazione aumentata, gonfiore delle mani, battito accelerato, addirittura si vede la tua camicia sobbalzare a ritmo dei battiti nervosi del cuore. Stai mentendo, è palese!”
“Sherlock, basta…” Mycroft tentò di fermarlo, ma Sherlock ormai era inarrestabile:
“Adesso cosa vuoi fare? Consegnarci tutti nelle mani dei tuoi complici? Ferma la macchina, te lo consiglio.”
“Io… non posso” rispose Jeremy, deciso.
“Fermala, dannazione!” Sherlock questa volta aveva gridato.
Molly si voltò a guardarlo, trattenendo il fato.
“Non ti permetterò di fare del male a chi di noi non c’entra niente” continuò e, prima che qualcuno potesse fermarlo, si staccò la cintura di sicurezza, balzò in avanti, afferrò il volante e con forza sterzò verso destra.
Le ruote della macchina finirono fuori strada stridendo, la macchina scivolò nei campi sterrati per qualche metro, mentre Jeremy stava lottando per riprendere il controllo del volante.
Sherlock finì completamente addosso a Mycroft e lasciò andare un pugno a Jeremy, che sbattè rovinosamente contro lo sportello.
La macchina si fermò con un rumore assordante nel mezzo della campagna.
Sherlock allungò un braccio e aprì lo sportello del guidatore. Slacciò fulmineo la cintura di Jeremy e gli dette una spinta.
Nel cadere fuori dall’abitacolo, il giovane si aggrappò al cappotto di Sherlock, che finì per cadere anche lui fuori dalla macchina.
Molly, nel panico, si slacciò la cintura con mani tremanti, mentre Mycroft stava già scendendo per cercare di fermarli. Ma la colluttazione si era già evoluta: Sherlock aveva afferrato la pistola di servizio di Jeremy e gliela stava puntando contro, ordinando gli di rimanere immobile.
Molly scese dalla macchina, gridando.
“Molly, resta dietro di me” disse Sherlock, ansimando, senza distogliere lo sguardo dal ragazzo steso a terra. Il suo zigomo destro sanguinava.
“Sherlock, per l’amor del Cielo, metti giù quella pistola e ascoltami!” esclamò Mycroft, le mani a mezz’aria.
“Non ti sei accorto di avere una talpa accanto ogni giorno e adesso lo difendi! Mi sorprendi, Mycroft” rispose freddo il fratello.
In quel momento i fari della macchina che li seguiva li illuminarono. L’automobile si fermò sul ciglio della strada e da lì corsero tre uomini armati nella loro direzione.
Sherlock sparò un colpo, che andò a vuoto.
Uno degli uomini si abbassò di scatto per poi rialzarsi e correre ancora più veloce.
Sherlock fu sul punto di sparare di nuovo, quando Mycroft gli si parò davanti:
“Ora, se vuoi spararmi, fallo, ma devi ascoltarmi” disse Mycroft, tentando di calmare il fratello.
Molly gettò un urlo e si aggrappò al braccio di Sherlock che teneva l’arma:
“Calmati, ti prego…” sussurrò.
Forse furono quelle parole, pronunciate con quel tono tanto apprensivo, a fargli cambiare idea.
Lentamente abbassò l’arma.
“Mettila giù, non vale la pena, davvero” continuava Molly, bisbigliando.
Fu allora che arrivarono gli uomini armati e uno di loro chiese:
“Tutto bene? Signor Holmes, sta bene?”
Sherlock rimase immobile. Lasciò andare la pistola a terra e spalancò gli occhi lentamente.
Mycroft fulminò il fratello, poi si rivolse agli altri:
“Sì…” borbottò “Sì, stiamo bene.”
Poi si voltò verso Sherlock e continuò:
“Sono gli uomini della mia scorta. Non sapevano che tu eri a bordo, li ho fatti venire per sicurezza senza specificare i dettagli del viaggio. Dovevo aspettarmi una cosa del genere da parte tua.”
L’altro sospirò e rimase a fissare prima il fratello, poi Jeremy che si stava alzando, poi gli uomini della scorta.
Abbassò il capo, incapace di rendersi conto di dove avesse sbagliato. Jeremy mentiva, di quello era sicuro.
“Allora perché Jeremy non ha detto niente?”
“Perché gliel’ho chiesto io. Non avresti accettato di essere accompagnato da una scorta, se l’avessi saputo.”
Era vero, non l’avrebbe fatto.
Molly gli strinse il braccio affannosamente. Sherlock si voltò a guardarla: era pallida, sudata, respirava male ed era spaventata. Ancora non si staccava dal suo braccio e per un istante Sherlock pensò che fosse stata lei il motivo per cui aveva messo in pericolo la vita di tutti gli altri.
Per proteggerla.
“Sali in macchina” ordinò Mycroft .
In quel momento, Sherlock si rese conto che non aveva mai sbagliato, riguardo ai sentimenti: erano solo un pericolo. E se voleva trovare John, doveva smettere di provarli.


NOTA DELL'AUTRICE: Eccomi di nuovo qua. Scusate l'assenza prolungata, ma ho potuto connettermi efficacemente solo ora. Spero davvero che nel frattempo nessuno abbia abbandonato la mia storia e spero, al contempo, che questo capitolo possa farmi perdonare per il tempo passato senza aggiornamenti. Ringrazio tutti coloro che commentano la storia, che la leggono, coloro che l'hanno scelta per metterla tra i preferiti e tra i seguiti. Un grazie particolare alle mie assidue lettrici.
Detto questo, buon proseguimento!

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


La testa gli doleva terribilmente. I lividi su tutto il corpo pulsavano di dolore e le bruciature sulle braccia e sulle gambe avevano lasciato segni indelebili di quell’intera giornata di strazio.
John giaceva inerme, accasciato a terra nella stanza buia, illuminata ad intermittenza dalla luce del lampione. Fissava il soffitto, trattenendo a stento i gemiti spontanei di dolore.
Tutto era offuscato, la vista annebbiata, le facoltà sensitive quasi del tutto annullate.
Cederai prima o poi. E allora sarà divertente.
Quelle erano state le ultime parole pronunciate da Moriarty, prima che ordinasse ai suoi scagnozzi di riportarlo nella fetida cella che lo aveva ospitato nei giorni precedenti.
Era riuscito a resistere alle torture, sebbene fossero state dilanianti. Aveva mantenuto salda la determinazione di non dare soddisfazione a nessuno di loro, eppure adesso stava cedendo. Era solo, in quella stanza, e poteva permettersi di lasciarsi andare.
Tossì.
John continuava a chiedersi perché Moriarty fosse vivo, perché era tanto ossessionato dall’idea che Sherlock fosse tornato e perché pensava che lui ne sapesse qualcosa.
In quegli anni di solitudine aveva pensato e ripensato alla morte del suo migliore amico. Mycroft si era fatto sentire raramente, Molly quasi mai, perché?
Era rimasto davvero solo, con la signora Hudson che manteneva la triste abitudine di portare a John un vassoio con tre tazze di tè, una per sé, una per lui e l’altra per Sherlock. Quando John le ricordava che la terza tazza non era necessaria, lei si incupiva e liquidava la situazione con un “Oh, che sbadata. Sai, caro, la vecchiaia fa brutti scherzi.”
 Ma in tutto quel tempo, l’idea che Sherlock fosse sopravvissuto alla caduta dal tetto del Bart’s non aveva mai sfiorato la mente di John, che adesso si stava arrovellando per capire cosa stesse succedendo.
Sherlock era vivo? Nonostante il suo cervello lo spingesse a pensare il contrario, doveva ammettere che le prove erano a favore dell’ipotesi che Sherlock non fosse morto davvero.
Dopo tutto era stato Moriarty a torturarlo e, per quanto ne sapeva, anche lui doveva essere morto quel giorno, sul tetto dell’ospedale.
Eppure c’era qualcosa di strano, che non suonava bene al suo orecchio. Moriarty l’aveva fatto torturare per tutto il giorno, fino al limite umano dell’immaginabile. Non era stato subdolo, ambiguo o finemente indagatore; era passato subito alle maniere forti. Non era da lui, John ricordava bene come aveva agito in passato. Ma erano passati tre anni e in quel lungo periodo di tempo aveva avuto il modo di cambiare, e per tornare a esistere aveva bisogno di sapere dove fosse Sherlock. Ma Sherlock era morto!
John si rannicchiò ancora di più e sentì ogni singola parte del corpo dolergli. Si lasciò sfuggire un gemito. Non si trattenne più e una lacrima gli scorse sulla guancia, bagnando le ferite fresche.
“Se sei vivo, Sherlock, dove sei?” sussurrò, piangendo sommessamente. Non era più riuscito a versare una lacrima dal funerale di Sherlock in cui, paradossalmente, gli aveva chiesto di non essere morto.
In quel momento la porta si aprì e Tom l’incappucciato entrò nella stanza con un bicchiere d’acqua e un piatto con del cibo. Posò il tutto accanto a John e fece per andarsene, quando lui lo richiamò:
“Aspetta” John aveva parlato con tutto il fiato che aveva in corpo.
Tom si fermò sulla porta, senza voltarsi.
“Ti prego…” continuò “Perché sono qui?” chiese con un fil di voce.
Tom si voltò a guardare il suo interlocutore da sotto il cappuccio:
“Ordini superiori.”
“Di chi? Chi è Moriarty?”
“Mi hai preso per scemo?” il tono dell’altro era duro e forte.
John scosse velocemente la testa:
“No, penso solo che ci deve essere qualcosa di più grande di te, dietro a tutto questo, e tu ancora non l’hai capito. Porti un cappuccio e…”
Tom scattò verso di lui:
“Queste non sono cose che ti riguardano!”
Quando fu vicino, John abbassò lo sguardo e sussurrò:
“Hai ragione, è che…”
Trattenne il fiato e dette un calcio con entrambe le gambe all’uomo, che perse l’equilibrio e capitolò a terra. Il cappuccio calò improvvisamente sulle spalle e John potè finalmente vederlo in faccia.
Lasciò andare un’esclamazione stupita, appena lo vide: il volto era completamente sfigurato, un occhio era chiuso, lacerato dalle enormi e orribili cicatrici che gli attraversavano la faccia. I segni di un’esplosione erano palesi ovunque, su quel volto, e continuavano anche giù per il collo.
Tom imprecò e si rialzò immediatamente, si tirò su il cappuccio e si piegò su John. Lo prese per la maglia e lo alzò di qualche centimetro da terra:
“Prova a fare una cosa del genere solo un’altra volta e ti uccido con le mie mani.”
“Non credo che il vostro capo ne sarà contento” rispose John, a stento.
Tom lo tenne per qualche altro secondo sospeso in aria, mentre John arrancava con i piedi per cercare di tenersi, poi lo lasciò andare di colpo, gettandolo contro il muro.
John rovinò a terra, battendo la testa e la schiena con violenza. Chiuse gli occhi per un istante per non imprecare.
“Ci sono due uomini armati, fuori da questa porta. Ti teniamo d’occhio, dottore” minacciò Tom, uscendo dalla stanza e sbattendo la porta dietro di sé.
John si lasciò scivolare a terra, prese dei grandi respiri per controllare il dolore e sorrise.
Tom non se ne era accorto, preso com’era dall’inveirgli contro, ma lui stava giocherellando con le chiavi di quella stanza.
 
 
La portiera della macchina si chiuse con un tonfo metallico.
Sherlock affondò le mani nelle tasche del cappotto e si guardò intorno. Erano appena arrivati nel centro storico di Bath ed erano circondati dalle case georgiane e dagli edifici di epoca romanica e celtica.
Quella sera era fredda; Sherlock chiuse gli occhi e inspirò a pieni polmoni quell’aria tranquilla. Pensò ancora una volta che doveva lasciarsi alle spalle ciò che era successo in campagna, rimuovere le informazioni dal suo palazzo mentale e fare spazio per quello che avrebbe trovato in quella cittadina.
“Da dove si comincia?” chiese Jeremy, chiudendo la macchina e raggiungendo gli altri.
Mycroft si strinse nel cappotto e si accese un sigaro:
“Questo deve dirmelo mio fratello.”
Non si erano ancora rivolti parola, da quando erano rientrati in macchina dopo l’incidente. L’unico a cui sembrava non importare niente dell’attacco di Sherlock era Jeremy.
“Thomas Kletton abitava in periferia, ve l’avevo detto. Perché siamo in centro? Se volete che vi spieghi come agire, dobbiamo spostarci” sentenziò Sherlock, continuando a scrutare ciò che lo circondava.
“Siamo in centro perché questa è un’operazione complessa e non dobbiamo destare sospetti. Ho prenotato delle stanze al The Abbey Hotel, così passeremo come un gruppo di amici in villeggiatura” spiegò Mycroft.
“Amici in villeggiatura” sottolineò Sherlock, con un sorriso ironico sulle labbra “Quali altre trovate geniali hai avuto?”
Mycroft si voltò verso di lui, irritato:
“Vuoi ritrovare John o no? Allora stammi a sentire. Tu sarai mio fratello muto.”
“Cosa?” Sherlock apparve piuttosto risentito.
“Così non potrai aprire bocca e rovinare tutto con il tuo carattere.”
Mycroft si voltò verso Molly e Jeremy e continuò:
“Voi due sarete la coppia di fidanzati che ci accompagna. Non fate parola del caso con nessuno dell’albergo, decideremo tutto insieme. Nessuno prenda iniziativa individualmente. Tutto chiaro?”
Molly sbiancò alle parole appena udite. Doveva far finta di essere fidanzata con un ragazzo che nemmeno conosceva, quando lì, esattamente accanto a lei, c’era l’uomo che amava.
Fece un passo in avanti, timidamente e balbettando:
“Dobbiamo proprio…?”
“Sì” rispose secco Mycroft, che spense il sigaro e si avviò verso l’hotel.
Molly sospirò arrendevolmente e si mise a camminare stringendosi nel giaccone e nella sciarpa di lana.
Era deprimente, più delle miriadi di situazioni imbarazzanti che aveva passato negli ultimi tre giorni.
Jeremy le si avvicinò e la prese a braccetto improvvisamente:
“Dobbiamo interpretare bene la nostra parte” ammiccò, sorridendo.
Molly rispose con un sorriso timido e freddo e si affrettò a distogliere lo sguardo. Si voltò verso Sherlock, che era rimasto fermo, dietro di tutti, in piedi a fissarli. Una sensazione orrenda la pervase da capo a piedi. Quello era il piccolo prezzo da pagare per riavere John, che era anche suo amico. Decise di deglutire il magone e continuare a camminare.
Dopo qualche secondo, Sherlock passò camminando velocemente tra i due, costringendoli a staccarsi:
“Perdonate?” chiese e, senza nemmeno aspettare la risposta, si diresse a grandi passi verso Mycroft.
“Ti voglio bene anch’io” gli disse, quando gli fu vicino.
Mycroft sorrise, continuando a guardare la strada piastrellata davanti a sé.
“Non dirmi che ti ha dato fastidio, perché non ci credo” rispose.
Sherlock fece una smorfia di disappunto:
“E’ chimica, fratello, lo sai. Tutta questione di chimica. Io sono qui per salvare John, non mi interessa altro. Anche se sai perfettamente che non mi fido di quel tizio.”
“Cos’hai contro di lui?”
“Andiamo, Mycroft, anche un bambino avrebbe capito che non stava mentendo solo per proteggere te e le tue informazioni riservate, in macchina. Sta nascondendo qualcos’ altro.”
“Sono solo tue supposizioni e Molly non sembra pensarla così” rispose subito Mycroft, volgendo uno sguardo veloce alle spalle.
“Spero che la nostra presentazione all’hotel sia solo formale” continuò Sherlock, cambiando argomento, dopo alcuni istanti di silenzio “Altrimenti stiamo perdendo troppo tempo.”
Mycroft si fermò di fronte ad un palazzo, la cui insegna portava il nome di The Abbey Hotel. La scrutò per un attimo, poi si rivolse al fratello:
“Non ho intenzione di lasciar morire il dottor Watson. Ci facciamo vedere e poi usciamo.”
Sherlock annuì e in silenzio entrarono tutti in albergo.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


John era immobile, spalle al muro.
La stanza si illuminava a tratti e il silenzio era totale.
Respirava silenziosamente e stringeva le chiavi in mano, aspettando: attendeva pazientemente che un rumore fuori dalla porta lo avvertisse che le due guardie che lo stavano sorvegliando avevano lasciato spazio alle due del turno successivo. Era sicuro che ci sarebbe stato un cambio, gli stessi uomini non sarebbero potuti rimanere svegli tutta la notte.
Era rimasto nella stessa posizione per alcune ore e non azzardava a muoversi, benché ogni singola articolazione gli dolesse. Se si fosse spostato, non avrebbe sentito il cambio delle guardie. John non intendeva rischiare.
Avrebbe dovuto muoversi in quel momento, scattare verso la porta, aprirla e rischiare il tutto per tutto.
Aveva capito che sarebbe morto comunque. Moriarty non era tanto stupido da continuare a torturarlo, perdendo tempo: una volta compreso che realmente non sapeva dove fosse Sherlock, John non gli sarebbe più servito e si sarebbe liberato di lui in men che non si dica.
Tanto valeva provare a scappare.
Aveva riflettuto sulla possibilità di aprire la porta della stanza prima del cambio delle guardie: fuggire con due guardie alle costole sarebbe stato più facile che farlo con quattro uomini all’inseguimento.
Ma, per esperienza militare, era arrivato alla conclusione che il momento di passaggio era quello più vulnerabile. Quattro uomini, sì, ma con la guardia abbassata, due stanchi e abbattuti dal sonno.
Sarebbe stata migliore quella situazione delle due guardie sveglie e pronte a puntarti un fucile addosso senza darti il tempo di sillabare.
John appoggiò la testa al muro, deglutendo a fatica. Il sonno cominciava ad impossessarsi delle sue membra spossate e doloranti. Per un attimo credette che si sarebbe rovinosamente addormentato, lasciando andare in fumo l’unica possibilità di salvezza che si era costruito.
Poi delle voci fuori dalla porta richiamarono la sua attenzione.
In un secondo l’adrenalina cominciò a scorrere nelle sue vene e John si rizzò lentamente con le orecchie tese ad ascoltare. Un paio di uomini ridevano, mente un altro parlava.
Ecco il cambio.
Era il momento.
John si alzò più velocemente possibile, corse alla porta, cercò di contorcere le mani in modo da aprire la serratura. Fece un po’ di chiasso perché la chiave non entrò subito.
“Andiamo” sussurrò e in quel momento la serratura scattò e la porta si aprì di colpo. Le dette un calcio per spalancarla e si ritrovò davanti due uomini armati di spalle e altri due che si stavano sistemando. Uno si voltò di colpo, ma John non perse tempo: corse, raccogliendo tutte le forze che aveva in corpo, oltrepassò i due che si stavano sedendo in quel momento. Mollò un calcio alla mano dell’uomo che stava estraendo la pistola. L’arma volò a terra con un suono sordo.
L’uomo lasciò andare immediatamente un gancio destro, ma John se lo aspettava e lo evitò prontamente lo evitò e, consapevole di non poter rispondere con le mani legate, scivolò a terra tra le gambe aperte dell’altro, raccolse la pistola e si voltò per tentare la fortuna. Sparò un colpo e andò a segno.
L’uomo capitolò a terra, colpito in pieno ventre, mentre il suo compagno aveva estratto la pistola e gli stava sparando addosso. John si mosse per svoltare nel primo corridoio incontrato.
Quando fu all’ingresso dell’altro corridoio, sentì alcune pallottole schiantarsi contro il muro. A quelli si unirono altri colpi che provenivano, evidentemente, dai due uomini che erano rimasti accanto alla porta.
John  prese a correre, trattenendo il fiato per il dolore che pulsava in tutto il corpo.
Si guardò attorno alla disperata ricerca di un nascondiglio e scorse una porta laterale in fondo al corridoio.
Quando tentò di aprirla, si accorse che era chiusa.
Imprecò silenziosamente, mentre una pallottola gli passò accanto sibilando e si andò a conficcare nel muro.
John contorse di nuovo le braccia nella direzione dei tre inseguitori e sparò tre colpi consecutivi, di cui uno colpì al braccio uno di loro. Gli altri si schiacciarono contro il muro e lui sparò un altro colpo.
Si voltò repentinamente verso la porta e sparò alla serratura, che saltò scintillando.
John sentì che le forze non lo stavano aiutando: le ginocchia tremavano e il dolore alle bruciature e alle ferite aperte si era fatto tanto acuto da non essere più sopportabile.
Con un gemito di sofferenza, si rese conto che non poteva lasciar perdere in quel momento. O la va o la spacca.
Dette una spallata alla porta ed entrò in una stanza buia.
Altre porte illuminate dai neon si mostrarono davanti a lui.
Senza riflettere a lungo, corse e le trovò aperte. Passò una serie di stanze, sentendo i colpi di pistola rimbalzare sulle pareti dietro di lui. Doveva muoversi, doveva uscire di lì. A breve sarebbero arrivati i rinforzi e a quel punto per lui non sarebbe stato facile cavarsela.
Ansimava, mentre correva, e sudava freddo.
Era riuscito a farsi perdere di vista dai suoi inseguitori, quindi avrebbe dovuto trovare un nascondiglio. Le gambe non lo avrebbero sorretto ancora per molto.
Entrò annaspando in un'altra stanza, che aveva tutta l’apparenza di un laboratorio chimico e allora realizzò di essere stato tutto il tempo in un centro segreto di ricerca militare.
Ne aveva visti tanti, in Afganistan, lui stesso vi aveva lavorato. E in quei laboratori c’era sempre un condotto di ventilazione atto a far uscire i materiali chimici vaporosi.
Scostò un armadio di legno, ma niente.
Dette un calcio ad un contenitore di plastica attaccato al muro e lo vide: l’ingresso del condotto di areazione.
Aprì con tutte le forze la grata, si infilò dentro, mordendosi le labbra per il dolore, e cercò di avvicinare al condotto il contenitore che aveva spostato . Non avrebbe fatto in tempo, né avrebbe avuto le forze di rimettere la grata al suo posto. Da lì cominciò a strisciare per il condotto stretto e nauseabondo, finchè esso non si trasformò improvvisamente in una sorta di scivolo.
John scivolò giù, trattenendo un grido di sorpresa.
Continuò a scendere per alcuni secondi e intanto pregava di atterrare su qualcosa di morbido e di non finire tra le braccia di chi lo voleva morto.
Vide la luce infondo al condotto, poi sentì un colpo tremendo alla schiena e alla testa.
Gli mancò il fiato, rimase a bocca aperta, annaspando alla ricerca dell’aria e si accorse di essere atterrato sull’asfalto. Il cielo era limpido sopra di lui.
Era fuori.
Non ebbe il tempo di pensarci, perchè i suoi sensi cedettero e tutto divenne buio.
 
 
“Bene, adesso che abbiamo sistemato questa inutile messa in scena, andiamo” disse Sherlock, aprendo la porta della camera d’albergo e fiondandosi nel corridoio.
Mycroft lo seguì, cercando di ricordargli i particolari della situazione:
“Sei muto, Sherlock” asserì, chiudendo la porta della camera con la chiave e fermandosi accanto a lui, sorridendo: “Muto” ripetè.
Sherlock roteò gli occhi e si lanciò giù per le scale.
Una volta giunti alla reception trovarono Molly e Jeremy ad aspettarli. Lei rideva di gusto alle battute del giovane, che stava ostentando simpatia e spontaneità.
Una volta raggiunti, Sherlock fece per aprire bocca, ma fu bloccato sul nascere dal receptionist:
“Perdonate l’intromissione, signori” disse sorridendo, al chè Molly e Jeremy smisero controvoglia di ridere e si voltarono ad ascoltarlo.
“Passerete la serata in hotel o uscirete in città?”
“Usciamo” disse secco Sherlock.
Il receptionist lo guardò inarcando un sopracciglio, costernato:
“Ma non era…”
“Sì” asserì Mycroft, fulminando il fratello con lo sguardo e mettendogli una mano sulla spalla:
“È muto, ma ogni tanto cerca di sillabare qualche parola per sentirsi come tutti noi. Sa, non è facile”
Continuò, assumendo un’aria forzatamente rattristata.
L’uomo sembrò accettare senza riserve la spiegazione e continuò il suo discorso:
“Dato che uscite prendete queste cartine. Sono piccole e facilmente consultabili” distribuì dei piccoli pacchetti di carta per coppia “Vi saranno utili per trovare strade e locali.”
Sherlock passò il suo pacchetto a Mycroft, accompagnato da uno sguardo ed un sorriso ironico che sembrava dirgli: Sono muto, ringrazia tu.
Mycroft la infilò nella tasca dei pantaloni e ringraziò.
Il receptionist sorrise e tornò al proprio lavoro dietro il bancone della hall.
I quattro uscirono dall’albergo.
“Andremo in periferia con la macchina della scorta” disse Mycroft, iniziando a spiegare il piano che aveva elaborato insieme a Sherlock, nella stanza dell’albergo. O meglio, quello era il piano che Sherlock aveva elaborato e che lui aveva approvato con lievi modifiche.
“Ci faremo lasciare poco lontano dall’indirizzo dell’abitazione di Kletton. Sicuramente non sarà stato così stupido da nascondersi lì, insieme ai suoi compagni, ma lo troveremo nelle vicinanze” concluse Sherlock.
In quel momento Mycroft tirò fuori dalla tasca la cartina turistica:
“Forse qui troviamo qualcosa di interessante” disse e aprì di poco il pacchetto di carta.
Ne uscì una sostanza bianca polverosa, che aleggiò in aria e si depositò a terra e sulle sue mani.
Sherlock spalancò gli occhi, dette un colpo al pacchetto che cadde a terra e fece allontanare Mycroft da tutti. Si voltò immediatamente verso Molly e Jeremy ed esclamò:
“Non aprite quel pacchetto!”
Molly si impietrì con l’oggetto in mano. Era sul punto di aprirlo, ma si fermò immediatamente.
“Che… che succede?” balbettò confusa.
Jeremy era rimasto immobile a fissare Sherlock con sguardo accusatorio.
“Le mappe contengono polvere bianca, è ossido di piombo” si voltò fulmineo verso Mycroft che aveva voltato la testa di lato e stava cercando di respirare il più lontano possibile dalle mani.
“Se la respirate non avrete molte possibilità di rimanere su questa terra, stanotte. Molly buttala via immediatamente.”
Molly, spaventata, si avvicinò al primo cestino pubblico e vi gettò il pacchetto ancora chiuso.
Jeremy abbassò lo sguardo.
Sherlock lo osservò di sbieco, poi si avvicinò di qualche passo:
“Cosa c’è che non va?”
Lo osservò meglio, mentre il giovane alzava la testa in difficoltà.
“Oh, forse volevi che Molly aprisse il pacchetto e respirasse la polvere. Tu conosci l’uomo della reception, fate parte della stessa organizzazione, o sbaglio forse?”
Jeremy arrancò:
“Non so di che cosa lei stia parlando, signor Holmes…”
“Sì che lo sai, piccolo bugiardo!” inveì Sherlock, afferrandolo per il bavero del cappotto “E’ ovvio che nascondi qualcosa fin dall’inizio, altrimenti come avresti fatto a trovarmi nella campagna inglese, la notte della sparatoria? Mi hai raggiunto in pochissimo tempo. E stasera qualcuno non vuole che la nostra spedizione abbia inizio.”
Jeremy non rispose e cercò di dimenarsi dalla stretta. Poi Sherlock si voltò verso Mycroft:
“Sai, fratello, penso che questo nucleo di seguaci di Moriarty non sia così piccolo e disorganizzato. Sono riusciti ad entrare nel governo, grazie a te.”
Mycroft, respirando affannosamente con la testa rivolta altrove, non ebbe il coraggio di replicare.
Molly era rimasta tutto il tempo in piedi, terrorizzata.
“Non è possibile…” bisbigliò, muovendosi nervosamente da un piede all’altro.
“Non gli credere Molly cara” borbottò Jeremy.
Sherlock rise di gusto e lasciò il bavero del cappotto del ragazzo. Rimase un istante in silenzio, poi si voltò di colpo e lasciò andare un violento cazzotto a Jeremy in pieno volto.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Sherlock rideva di gusto da alcuni secondi.
Era stata una soddisfazione sbattere a terra Jeremy con un cazzotto nel naso, ma adesso Sherlock rideva per l’insensatezza della situazione: Molly era accorsa immediatamente in soccorso del ragazzo precipitato a terra e Mycroft, borbottando qualche accusa contro il fratello, si stava dirigendo alla fontana pubblica più vicina per sciacquarsi le mani.
Sherlock rideva ancora, quando Molly, in ginocchio accanto a Jeremy, si voltò di scatto verso di lui:
“Perché l’hai fatto?”
Sherlock smise di ridere, ma mantenne il sorriso sulle labbra:
“Molly cara” iniziò, ripetendo le parole pronunciate poco prima da Jeremy “mi sembra di aver parlato ad un muro, prima.”
“Cosa…?” Molly balbettò e prese la testa di Jeremy fra le mani, mentre lui si rialzava lentamente.
“Che prove hai contro di lui?” chiese esterrefatta.
Sherlock apparve sorpreso:
“Chiedilo a lui. Perché non si è difeso, quando l’ho accusato di essere un complice del gruppo isolato di Moriarty? Perché, quando vi ho detto di non aprire il pacchetto e vi ho spiegato il contenuto, lui non ha avuto la minima razione?”
Tuttora Jeremy non fiatava.
“E’ assurdo, Sherlock…” bisbigliò Molly, aiutando il giovane a mettersi in piedi.
Sherlock la fissò, socchiuse gli occhi e assunse l’espressione solita di quando arrivava a capo di un complicato intreccio. Poi puntò il dito verso Molly:
“Lo stai difendendo” sussurrò.
Molly rimase costernata per qualche istante e non ebbe il tempo di rispondere, perché Sherlock continuò:
“Tu sei dalla sua parte, Molly Hooper.”
“Non è necessario essere dalla parte di qualcuno, siamo tutti dalla stessa” intervenne Jeremy.
“Zitto tu, la tua ipocrisia sta facendo morire l’aria qui intorno!” esclamò Sherlock. Si stava irritando, come quando otteneva un successo e non gli veniva riconosciuto.
Si voltò di nuovo verso Molly e sbottò in una delle sue aspre considerazioni:
“Tu sei innamorata di me.”
Molly raggelò e lasciò cadere le mani lungo i fianchi. Il cuore prese a battere a ritmo irregolare.
“Dov’è finita la tua grande cotta per me?” continuò Sherlock.
“Sei orribile” le parole uscirono fulminee e glaciali dalla bocca di Molly.
La tensione era salita alle stelle e ogni parola, da quel momento, sarebbe stata misurata sul filo di un rasoio.
Molly sentì gli occhi colmarsi di lacrime. Sherlock non era cambiato, nemmeno di una virgola. Il giorno prima, nello studio di Mycroft, aveva creduto che potesse istaurarsi tra loro il vecchio rapporto di amicizia, forse anche più stretto, e invece stava accadendo l’esatto contrario. Avrebbe dovuto immaginarselo.
Sherlock rimase a fissarla e capì di aver commesso lo stesso, enorme errore di quella sera di Natale.
Fece per aprire bocca e cercare di scusarsi, quando Mycroft tornò a corsa dalla piazza adiacente:
“Non andremo da nessuna parte stasera.”
Sherlock si voltò lentamente ad osservarlo, sguardo opaco. Mycroft si guardò intorno:
“Che cosa è successo qui?”
“Niente” disse Jeremy, si pulì il naso con il fazzoletto da taschino e continuò:
“Niente di importante. Lei sta bene, signor Holmes?”
Mycroft alternò lo sguardo dal giovane a Sherlock e decise di rimandare le domande a più tardi:
“Io sì, ma la mia scorta no. Venite con me.”
In silenzio lo seguirono tutti, ognuno con il proprio fantasma da nascondere e con la nuova paura innescata da Mycroft.
Quando voltarono l’angolo della strada, l’orrore si mostrò a loro in tutta la sua forma: la macchina della scorta, che era rimasta ad aspettarli a mezzo chilometro di distanza dall’hotel, era cosparsa di buchi provocati da una scarica di pallottole, i vetri erano stati infranti e i frammenti erano volati ovunque.
Mycroft si avvicinò lentamente alla macchina e si mise una mano sugli occhi.
Non appena si furono avvicinati tutti, Molly lanciò un gridolino di sorpresa misto a orrore.
Era abituata ad analizzare cadaveri massacrati, spesso irriconoscibili, ma in quel momento, vedere i corpi degli uomini della scorta, che solo poche ore prima aveva visto essere efficaci e veloci, completamente tumefatti dalle pallottole, fu terribile. Il panico l’assalì completamente e il primo impulso fu quello di aggrapparsi a Jeremy: quel destino avrebbe atteso ognuno di loro, se si fossero spinti oltre nell’indagine.
Sherlock fece un giro intorno alla macchina e chiese:
“Che ne pensate?”
Mycroft alzò lo sguardo sgomento su di lui:
“Cosa che ne penso? Che chiunque abbia fatto questo deve pagare. Hanno già ucciso l’uomo della scientifica che per primo aveva analizzato il sangue una settimana fa e adesso hanno massacrato la mia scorta.”
“Questo conferma la mia teoria secondo cui ci hanno seguiti fino ad ora. Conoscono le nostre mosse in ogni particolare e vogliono impedirci di raggiungere John e chiunque sia con lui. Siamo più vicini a loro di quanto immaginiamo” concluse Sherlock.
Poi, finito il giro intorno alla macchina, si fermò ad osservare i cadaveri, uno ad uno.
“Sherlock, per l’amor del Cielo, dimmi che li troveremo presto” sussurrò Mycroft, osservando il fratello in azione. L’altro rispose:
“Senza volerlo ci stanno aiutando. Il calibro delle pallottole è 7,5 mm, tipico delle mitragliatrici leggere. Sono armi da supporto di squadra, questo ci porta a concludere che fossero almeno in tre, se non quattro. Non agiscono mai da soli, ad eccetto della sparatoria che ci ha coinvolti qualche giorno fa a Londra. Sono più organizzati di quanto pensassimo, ma il fatto che stiano facendo di tutto per impedirci di avvicinarci a loro denota la paura di essere sconfitti: sono l’ultimo focolare di Moriarty rimasto.”
Tutti erano rimasti in silenzio, quando Jeremy parlò:
“Potrebbe essere pericoloso mandare avanti le indagini d’ora in poi. La sorte che è toccata a loro, potrebbe toccare anche a noi.”
“Dì un’altra stupidaggine del genere e ti rispedisco da dove sei venuto a costo di caricarti personalmente sul primo treno della notte” rispose secco Sherlock.
Jeremy fece per ribattere, ma fu interrotto di nuovo:
“Eccellente” esclamò Sherlock. Tirò fuori un fazzoletto dalla tasca del cappotto, afferrò un foglietto stropicciato senza toccarlo con la pelle delle dita e si voltò verso gli altri. Sorrise.
“Qualcuno ci vuole bene” asserì.
“Che c’è scritto?” chiese Molly, lasciando andare goffamente il braccio di Jeremy.
“J-M-R, punto e virgola, S-H-R, sotto c’è scritto 49” recitò Sherlock, scandendo lentamente le parole.
Mycroft scosse la testa:
“Che vuol dire? Perché ci avrebbero facilitato così?”
Sherlock fece qualche passo, abbassò il foglietto e cercò di schiarirsi le idee. Si battè la mano sulla fronte più di una volta e, dopo aver gesticolato per qualche secondo, esclamò:
“Ma certo!”
Gli altri lo guardarono perplessi. Lui sorrise di nuovo, come se tutto ciò fosse finalmente chiaro:
“Le lettere in successione sono dei codici, probabilmente per farsi riconoscere. Chiunque abbia lasciato questo foglio, l’ha fatto cercando di non essere visto, perciò è così stropicciato, inoltre è qualcuno che non ha intenzione di lasciarci messaggi minatori, bensì vuole aiutarci.”
“E come?” chiese Mycroft.
Sherlock rimase un attimo in silenzio, poi cominciò a camminare a grandi passi verso la macchina che avevano lasciato vicino al centro, gridando:
“Il numero, il 49! La chiave è lì!”
Gli altri rimasero per qualche istante a fissarlo. Molly si guardò intorno e vide Jeremy e Mycroft impalati:
“Andiamo, credo che… credo che ci dovremmo fidare” borbottò.
In quel momento, Sherlock si voltò di scatto da lontano e gridò:
“Muovetevi!”
 
 
John fu svegliato dal vocio pungente di un gruppo di uomini che ridevano e calpestavano rumorosamente il terreno, in lontananza. Aprì gli occhi lentamente, con sforzo.
Ormai era notte fonda.
Era rimasto lì, disteso a terra, dopo la caduta di poche ore prima, per tutta una notte e un giorno passati e nessuno si era accorto di lui.
Eppure lo stavano cercando, ne era certo.
Non lo avevano ancora trovato, perché? Evidentemente non pensavano che fosse riuscito ad uscire dall’edificio e lo stavano ancora cercando all’interno, ma era piuttosto improbabile.
Alzò la testa e si accorse che il gruppo di uomini che l’avevano svegliato era infondo al vicolo e stava scendendo da un SUV nero.
John si alzò lentamente e dolorosamente, non aveva davvero più forze. Le aveva usate tutte per la fuga, e adesso si chiedeva come potesse andarsene da lì inosservato. Non avrebbe più avuto la forza di combattere come aveva fatto la notte precedente.
Quando fu a sedere si guardò intorno e realizzò di essere finito in un vicolo strettissimo tra le pareti di due edifici. Sotto di lui ristagnava acqua fangosa e sicuramente contaminata, e qua e là erano sparsi sacchi di spazzatura.
Capì che sicuramente lo avevano cercato anche all’esterno, ma non lo avevano visto in quel vicolo, sommerso com’era dalla sporcizia e nascosto dalle alte pareti dei due edifici.
Scrutò attentamente gli uomini che stavano entrando dentro il bunker da cui era fuggito e si acquattò nella speranza di non essere visto.
Uno di loro guardò nella sua direzione, smise di ridere e lo fissò negli occhi.
John, con una stretta al cuore, si gettò immediatamente a terra.
“Sono spacciato” sussurrò, pensando che tanto lo sarebbe stato comunque, non mangiava o beveva da giorni.
L’uomo aveva un cappello nero con la visiera e John non ne poteva distinguere i tratti somatici. Si voltò verso gli altri e, sorridendo, gli fece segno di procedere. Entrarono tutti all’interno del bunker, mentre l’uomo che aveva avvistato John si stava dirigendo a grandi passi verso di lui.
John iniziò a respirare affannosamente; cercò di strisciare a terra, ma le ferite si fecero sentire e non potè trattenere un gemito. Si voltò dall’altra parte del vicolo per tentare una nuova fuga, quando sentì la fredda canna di una pistola appoggiarsi alla nuca.
Qualcuno la caricò e parlò:
“Muoviti di un centimetro e ti faccio saltare il cervello.”
John spalancò gli occhi. Quella voce era…
Si voltò di scatto, senza più pensare alle conseguenze:
“Non posso crederci” sussurrò non appena vide l’uomo in faccia.
L’altro rinfoderò l’arma e gli sorrise.
“Greg, che ci fai qui?” chiese John, stupito e sollevato allo stesso tempo. Era una sensazione strana, ma bella. Vedere gli occhi di qualcuno di conosciuto era la cosa migliore che gli potesse capitare.
Lestrade gli tese una mano:
“Sono sotto copertura, come uno di loro. Ero certo che tu fossi qui, ma non mi è mai stato dato il permesso di vederti.”
John, appoggiandosi a Lestrade, si alzò con dolore e fatica.
Greg estrasse un coltello dalla cintura e tagliò le corde che legavano le mani di John. Lui si tenne stretti i polsi e sospirò di sollievo:
“Non credevo che avrei mai più provato una sensazione del genere” borbottò stordito.
“Ti accontenti di poco” ammiccò Lestrade “Vieni con me, so dove andare.”

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


“Stiamo per entrare in un camion di gelati?” chiese John perplesso, rivolto a Lestrade, mentre svoltavano rapidamente dietro l’angolo di una casa abbandonata di fronte al bunker.
Il camion con scritte colorate, illuminato da una triste luce a neon, era parcheggiato sul lato della strada.
Era una notte serena, il cielo era impreziosito da alcune stelle che splendevano luminose e il clima era piacevole.
In una qualunque altra occasione John avrebbe apprezzato quell’atmosfera, ma in quel momento la bellezza della natura non riusciva a scalfirlo.
Lestrade fece un gesto di diniego con la mano:
“Quel camion c’è sempre stato, noi lo abbiamo solo riscoperto e adesso lo utilizziamo come centro di controllo. Nessuno ci considera, non abbiamo apportato modifiche all’esterno.”
Così dicendo, mise un piede sullo scalino che conduceva al portellone posteriore. Bussò due volte e qualcuno sbirciò dallo spioncino posto all’altezza degli occhi.
“Sono io” borbottò Greg, poi si guardò in torno per accertarsi di non essere stato né visto né udito.
La porta gli fu aperta e un uomo dall’aspetto rigido e pallido si affacciò, leggermente piegato su se stesso.
Osservandolo John capì che l’interno dovesse avere un soffitto più basso del previsto.
“Chi siete?” chiese l’uomo a Lestrade, mettendo mano alla pistola.
Greg lo fulminò con lo sguardo:
“Tu non sei della mia divisione.”
“Sono dell’FBI, mi hanno mandato oggi pomeriggio, ci sono problemi?” rispose l’altro, seccato e con sguardo superiore.
Lestrade salì un altro gradino, per fronteggiare degnamente l’uomo, mentre John rimaneva ad osservare con il corpo e la mente in subbuglio.
“Non mi interessa da che parte di mondo tu provenga, nessuno mi aveva avvertito che sarebbe arrivato un agente dell’FBI. Sono l’ispettore Lestrade, qui ci si comporta come dico io” fu la risposta lampante e decisa di Greg, che fece comprendere a John quanto la situazione fosse delicata. Lestrade non avrebbe mai parlato con quel tono ad un suo collega.
In un attimo di sconforto si chiese che cosa stesse accadendo di tanto impensabile da smuovere l’FBI.
Scosse la testa per scacciare il pensiero che Sherlock potesse entrarci qualcosa. Lui era morto.
“Vieni John.”
Lestrade era rimasto in piedi sulla porta del camion e gli tendeva una mano, mentre l’uomo era scomparso all’interno.
John entrò e si ritrovò circondato dai computer più attrezzati che avesse mai visto. Entrambi i lati lunghi del camion erano stati occupati da due file di poliziotti al lavoro con le cuffie alle orecchie e lo sguardo concentrato sullo schermo del computer. Su uno di essi riuscì ad intravedere la cella dove era stato rinchiuso fino al giorno prima, adesso vuota, e provò una stretta al cuore.
“Mi avete sempre controllato” disse, quasi sussurrando.
In quel momento, un giovane stranamente tranquillo e sicuro di sé gli corse incontro dall’altra parte del camion.
“Dottor Watson, si sieda. Le porto la cassetta del pronto soccorso” disse concitato.
Fece mettere a sedere sia John che Lestrade e tornò a rovistare tra le apparecchiature.
John avrebbe voluto dirgli che non era in vena di essere curato da un perfetto sconosciuto che tutto aveva tranne l’aria di essere un buon medico, ma si trattenne.
“E’ giovane, ma competente. E tu hai bisogno di una mano per riprenderti” asserì Lestrade, cogliendo lo sguardo costernato dell’amico. John annuì e si portò una mano alla fronte. Quando si accorse che la sua temperatura era terribilmente alta, si bloccò e lasciò che il medico facesse il suo lavoro.
“Come ti senti?” chiese Greg, dopo che il giovane ebbe finito.
John si osservò le fasciature, bevve un sorso di acqua e zucchero che gli era stata imposta e si lasciò andare completamente sullo sgabello di legno, riversando la testa indietro, contro le pareti del furgone.
“Non capisco” disse dopo un po’.
“Che cosa?”
John rivolse a Lestrade uno sguardo pieno di domande:
“Tutto! O meglio… Niente, non ci capisco niente. Perché mi hanno rapito? Perché mi hanno torturato per sapere cosa so di Sherlock? Ma soprattutto… Moriarty è vivo” rispose tutto d’un fiato, cercando di trovare il respiro per parlare.
Lestrade lo guardò per qualche secondo, poi, abbassando il capo in segno di sconfitta, ammise:
“Non lo so.”
Si prese la testa fra le mani e quando alzò di nuovo lo sguardo, l’espressione dei suoi occhi era diventata umilmente sconfortata.
“Eravamo sulle tracce di questo nucleo terroristico già da qualche giorno prima del tuo rapimento, ma non riuscivamo a trovare una pista soddisfacente. Quando poi ho saputo che eri finito nelle loro mani, sono venuto di persona e ho deciso di utilizzare una copertura per tenere sotto controllo la situazione.”
John aveva osservato il grande sconforto di Greg e rimase per un attimo senza le parole giuste da dire.
Se lì c’era qualcuno che aveva il diritto di disperarsi, quello era lui stesso, eppure Lestrade appariva più abbattuto del normale. Per un attimo ebbe la spiacevole sensazione che sapesse molto più di quanto voleva mostrare e che tutto ciò lo stesse cambiando in peggio.
Si portò avanti sullo sgabello e chiese, con il battito accelerato:
“Hai scoperto qualcosa?”
Greg non rispose e non lo guardò.
“Voglio dire… Io ora sono salvo, non pensare a me. Che cosa c’entrano Sherlock e Moriarty in questa storia?” continuò John, sempre più allarmato dal silenzio del poliziotto.
Lestrade esitò qualche secondo, poi lo guardò negli occhi:
“Ho dei dubbi. Se uno è tornato dal mondo dei morti, perché non avrebbe potuto farlo anche l’altro?”
Un silenzio tombale e tagliente scese tra i due.
John lo fissò allibito:
“Mi stai dicendo che Sherlock potrebbe essere… vivo?”
Greg scosse la testa e si affrettò a rispondere:
“No, non sto affatto dicendo questo. E’ che coloro che ti hanno rapito e torturato ne sono convinti e dopo aver visto Moriarty vivo…”
“No” lo interruppe bruscamente John “No” ripetè, al limite dell’esasperazione.
Si alzò di scatto e dovette aggrapparsi alla parete del camion per rimanere saldo in piedi. Poi si voltò verso Lestrade e lo sovrastò:
“Sherlock Holmes è morto, l’ho visto buttarsi dal tetto del Bart’s con i miei occhi! Perché non volete accettarlo?” esclamò, gesticolando e smanettando in preda all’ansia. Si passò una mano sugli occhi e rimase immobile, in piedi, mentre tutti si erano girati a guardare nella sua direzione.
In quel momento un gran vocio e il rumore della strada calpestata da numerosi passi pesanti attirò la loro attenzione.
“Stanno ispezionando la zona” asserì Lestrade, balzando in piedi, intento ad ascoltare.
“Che facciamo?” chiese John, di nuovo la paura addosso.
Greg si guardò intorno fulmineo e iniziò a dare ordini. In pochi istanti i computer sparirono dentro comode valigette che vennero nascoste in alcune botole poste sul soffitto.
Fu allora che una voce esterna gridò qualcosa e il rumore dei passi pesanti si fece più diffuso e veloce.
L’esperienza del tempo passato ad investigare con Sherlock risvegliò in John un certo senso di intuizione.
“Si sono divisi” disse.
Lestrade indossò di nuovo il cappellino nero con la visiera che si era tolto entrando, fece segno ad un paio di uomini di prepararsi e si rivolse a John:
“Nasconditi sotto una delle scrivanie e rimani in silenzio.”
John scosse la testa:
“Non posso guardare senza fare niente.”
“Puoi eccome. Non puoi mettere in pericolo la tua vita e la nostra, quindi nasconditi e non ti muovere”
Sentenziò Greg.
John allora ebbe una nuova conferma sul cambiamenti di Lestrade. Per un momento gli venne di pensare che mai si fosse comportato così in passato. Nei tre anni trascorsi dopo la morte di Sherlock, Greg aveva sviluppato un animo ardito e deciso che John non pensava potesse risiedere in lui.
Dalla scomparsa del suo migliore amico troppe cose erano cambiate. Troppe persone.
I passi si fecero improvvisamente più vicini e forti. John lanciò un ultimo sguardo a Lestrade e fece come gli era stato detto. In pochi secondi si ritrovò schiacciato contro la parete, sotto la scrivania, insieme all’agente dell’FBI con cui Greg aveva discusso poco prima.
John si chiese in che modo l’ispettore avrebbe giustifiicato la sua presenza lì, poi si ricordò della sua copertura e di quella dei suoi uomini e si impose di rimanere calmo e in silenzio.
Lestrade fece segno ai suoi due uomini con la testa e aprì la porta del furgone.
John trattenne il respiro.
Il rumore di pistole caricate riempì l’aria, già satura di tensione.
“Siamo noi” sentì dire a Greg.
Qualche secondo di silenzio e poi:
“Che ci fate qui?” chiese una voce forte e ostile.
“Abbiamo perquisito la zona prima di voi” rispose uno degli uomini di Lestrade.
“Non vi abbiamo visto da nessuna parte” aggiunse l’altra voce, diffidente.
Lestrade rimase qualche secondo in silenzio, poi John sentì i suoi passi lenti e la risposta che diede a quegli uomini:
“Mi sembrava di aver visto qualcosa nel vicolo retrostante il rifugio, chiedilo a Rey se non vuoi credermi. Mi sono accertato da solo che non ci fosse niente, ho incontrato questi due e li ho fatti venire con me alla ricerca del fuggitivo.”
Silenzio.
Poi di nuovo la voce dell’altro:
“Perché nel vecchio camion?”
“Non è custodito, quindi un probabile rifugio per il fuggitivo. Ma non c’è niente” rispose un altro degli uomini di Lestrade.
Passi pesanti ricominciarono a muoversi verso di lui e a John si bloccò l’ansia in gola.
“Fateci vedere” disse l’uomo.
John si schiacciò ancora di più nella speranza che venisse bloccato prima di entrare.
Lestrade si affrettò a controbattere:
“Abbiamo appena controllato.”
“E noi vogliamo controllare di nuovo.”
John udì i passi sulle scalette del camion e capì che tutto sarebbe finito a breve. L’uomo dell’FBI accanto a lui estrasse la pistola e si preparò alla difesa.
L’uomo si fermò sulla soglia, si guardò intorno e John riuscì a scorgere i piedi che stavano per dirigersi verso di lui. Chiuse gli occhi e attese, impotente.
In quel momento dall’esterno si udì uno sparo e l’uomo che era entrato rovinò a terra gridando e reggendosi una gamba.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Moriarty fissava il suo uomo con fare accusatorio.
Stava in piedi, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni. Il messaggero era rimasto impalato di fronte a lui e lo osservava col fiato mozzato.
“Che significa che non è da nessuna parte?” Moriarty ruppe finalmente l’innaturale silenzio.
L’uomo scosse la testa:
“Abbiamo cercato ovunque, signore, ma non c’è traccia del prigioniero.”
Moriarty sorrise. Tolse le mani dalle tasche ed iniziò ad arrotolarsi le maniche della camicia.
“Oh, no. Non capisci vero?”
“Che cosa, signore?”
Moriarty fece qualche passo avanti e l’uomo lo osservò deglutendo.
“Che se entro l’alba non avrò davanti ai miei occhi, in questa stanza, seduto là” e indicò una sedia di fronte ad un tavolo “il dottor John Watson, le conseguenze non piaceranno né a te, né a chi di voi ha creduto di aver cercato ovunque.”
Il tono era secco e duro. I suoi pugni si contraevano in gesti nervosi e, quando credette di essere al culmine di una rabbia soppressa, si voltò verso il muro.
“Lo voglio qui” aggiunse, placando la voce.
“Sì, signore, faremo…”
“Farete del vostro meglio? Sarà meglio per voi.”
L’uomo annuì e battè un tacco a terra, producendo uno spiacevole rumore metallico che rimbombò nella stanza di cemento armato.
Quando se ne fu andato, Moriarty rimase a fissare il muro. Si tirò giù di nuovo le maniche della camicia e le accarezzò bonariamente. Poi sospirò forte, si appoggiò con le spalle al muro e prese a grattarsi dietro l’orecchio destro.
 
 
Lo sparo avrebbe portato una svolta.
Positiva o negativa che fosse, l’avrebbe portata.
John continuò a fissare il corpo dell’uomo che, a terra, si contorceva in preda al dolore lancinante che gli squassava la gamba.
L’agente dell’FBI, che era rimasto accanto a lui, aveva estratto la pistola, l’aveva caricata ed era saltato fuori dal nascondiglio.
Dalla sua posizione accovacciata, John potè scorgere l’agente tirare un calcio violento alla nuca dell’uomo a terra, sufficiente a stordirlo e lasciarlo lì a morire dissanguato, e precipitarsi fuori dal camion.
In men che non si dica l’aria si riempì del frastornante ed orribile rumore di spari.
Le grida fecero capire a John che delle persone, là fuori, stavano morendo.
Strinse le mani in pugni serrati ed affondò le unghie nella carne, ignorando il lieve dolore che provocavano.
Lestrade gli aveva ordinato di rimanere nascosto, ma il pensiero che gli fosse accaduto qualcosa a causa sua lo trafisse violentemente.
Non poteva rimanere lì dentro mordendosi il fegato, mentre fuori gli agenti di Scotland Yard stavano morendo per lui. Ma, d’altra parte, non poteva nemmeno uscire allo scoperto del tutto disarmato e vulnerabile.
Improvvisamente l’adrenalina si impossessò di lui.
Si voltò di scatto verso il corpo inerme dell’uomo colpito alla gamba e intravide una pistola ancora attaccata alla cintura. Trattenne il fiato e in un attimo balzò in piedi, mentre fuori le grida si alternavano a colpi di pistola. Per un attimo gli parve di udire la voce di Sherlock, ma represse immediatamente quella strana sensazione per concentrarsi sull’azione.
Si chinò sull’uomo, estrasse la pistola macchiata del sangue che era uscito dalla gamba e si nascose dietro la porta.
Si sporse di poco, quel che bastò per scorgere Lestrade accovacciato con un altro uomo dietro una macchina.
Aveva la schiena appoggiata alla carrozzeria e fissava il cielo nero, totalmente pallido in volto. Lo osservava mentre lasciava che la pistola ciondolasse dalla mano. Tutto il lavoro lo stava facendo l’uomo accanto a lui.
Perché? Era stato colpito, forse?
Allora una pallottola infranse il vetro del finestrino sopra la testa di Greg. John si voltò immediatamente nella direzione da cui era provenuto lo sparo e vide due uomini che si stavano sporgendo dal tetto di una macchina. Sparò due colpi consecutivi. Nessuno dei due andò a segno, ma il suo inaspettato intervento riuscì a far riprendere le forze agli agenti e a distrarre momentaneamente gli assassini.
Non perse troppo tempo a riflettere e si lanciò fuori dal camion, ringraziando mentalmente il medico per avergli fatto bere acqua e zucchero.
Non appena mise piede sull’asfalto, qualcuno gli andò a sbattere contro.
Agendo d’istinto, John si voltò di scatto, alzando la pistola e puntandola dritta in faccia a quel qualcuno.
Fu allora che nel volto in penombra, seminascosto dai capelli neri e dalla sciarpa avvolta intorno al collo, riconobbe i lineamenti di Sherlock Holmes.
Il tempo si fermò.
John poteva solo udire il suo respiro affannoso confondersi con i battiti del cuore.
Distolse repentinamente lo sguardo, si allontanò di qualche passo e scosse la pistola di fronte a quel volto.
A quegli occhi tanto familiari da fargli paura.
A quell’espressione concentrata e sicura di sé che tante volte gli aveva infuso sicurezza, in passato, nelle situazioni più disperate.
Due colpi di pistola risuonarono prepotenti nell’aria. Un proiettile rimbalzò rumorosamente sulla carrozzeria del camion, per cadere tintinnando a terra.
John tornò a guardare Sherlock, che lo spinse con una mano:
“Via di qui, forza!”
No.
John rimaneva lì, immobile, anche dopo che Sherlock l’aveva spinto.
In quel preciso istante pensò che scappare e vivere o rimanere lì e farsi uccidere non avrebbe fatto differenza. Sarebbe realmente rimasto con i piedi piantati a terra, se non fosse stato che Sherlock l’aveva afferrato per un polso e tirato dietro il camion.
Lo spinse contro la parete ed entrambi si accucciarono.
“Stai bene?” chiese Sherlock.
La sua voce era… sempre la stessa.
E quella domanda era stata posta come se in quei tre anni non fosse successo niente.
John dovette girarsi a guardarlo di nuovo prima di rispondere.
“No, non sto affatto bene” disse dopo qualche secondo.
Sherlock caricò la pistola, si sporse e sparò un colpo, seguito da un grido.
Poi tornò ad appoggiarsi al camion. Non si voltò a guardare John:
“Intendo fisicamente, non psicologicamente.”
John rispose risentito:
“Io invece intendo dire proprio psicologicamente e fisicamente ho passato giorni migliori, grazie.”
Sherlock sorrise e il sorriso si tramutò in una risata:
“Non sei cambiato di una virgola.”
“E tu?”
La domanda di John giunse fredda e improvvisa.
Sherlock smise di ridere.
In quel momento una scarica di pallottole perforò entrambi le pareti del camion e i proiettili schizzarono via a pochi millimetri dalle teste dei due.
Si appiattirono a terra entrambi.
“Mitragliatrici” disse Sherlock alla fine dell’attacco “Muoviti, John, dobbiamo prendere Lestrade e chiuderci da qualche parte.”
John rimase ammutolito, un po’ per l’uso improvviso delle mitragliatrici, un po’ per il fantasma del passato con cui stava parlando. Non riuscì a dire niente, a rispondere.
Col cuore in gola, seguì Sherlock, o colui che aveva il suo volto.
Repentinamente scivolarono da una macchina all’altra, fino a raggiungere quella dietro a cui si era riparato Lestrade.
Con orrore, John riconobbe il cadavere dell’uomo accanto a Greg steso a terra.
“Alzati” gli ordinò Sherlock, non appena lo ebbero raggiunto.
Lestrade lo fissò con aria sconvolta.
Sherlock roteò gli occhi:
“Ah, andiamo, mi hai visto da cinque minuti abbondanti, sono più che sufficienti per accettare lo shock. Adesso alzati e vieni via.”
Cinque minuti?
Allora, quando John aveva visto Greg con il volto pallido e l’espressione sconcertata, non l’avevano colpito.
Aveva visto Sherlock.
E poi, ripensandoci, cinque minuti non erano affatto sufficienti per accettare lo shock!
Ma quello non era né il luogo né il momento adatto per ribattere e impuntarsi.
Si alzarono tutti e tre e, in perfetta concordanza, spararono nell’allontanarsi, abbattendo i due uomini dietro la macchina al lato opposto della strada.
Schizzarono via in un viottolo, corsero per alcuni secondi finchè Sherlock si bloccò:
“Dov’è l’edificio in cui ti hanno tenuto, John?”
Lui, arrancando, tese un dito ad indicare il bunker di cemento di fronte a loro.
“Non rientrerò là dentro” sussurrò, pallido e senza fiato. 
“Infatti non lo farai” disse.
Intorno a loro c’era silenzio.
La sparatoria aveva attirato tutti gli uomini di Moriarty verso il camion di gelati, non avevano molto tempo prima che tornassero a cercarli.
“Cosa?” chiese Lestrade, sbalordito.
“Fidatevi di me” fece Sherlock.
“Neanche per idea, tu… tu sei morto! Noi ti abbiamo compianto al tuo funerale, ci hai ingannati!” esplose John.
Sherlock tentò di aprire bocca per replicare, ma John incalzò, furibondo:
“Non mi posso fidare di te, mi dispiace. Dove sei stato, mentre io scalzavo la solitudine del nostro appartamento a Baker Street?”
“John…”
“Dov’eri, quando Greg ha rischiato la sua vita per venirmi a salvare? Sherlock, sei un ipocrita!”
Sherlock si volse per un attimo dalla parte opposta, mentre Lestrade rimaneva impalato a guardare. Poi si voltò di nuovo, prese John per le spalle e lo scosse forte:
“Ascoltami. Questo puoi farlo? Bene. Il giorno del mio funerale, parlavi con la mia lapide e hai espresso un desiderio, ricordi?”
John sbatteva le palpebre, allucinato.
“Ricordi? Mi hai chiesto un ultimo miracolo: non essere morto. E io non lo sono. Sono davanti a te, John, e ti sto implorando di fare come ti dico, per la tua vita, la mia, quella di Lestrade e di Molly.”
“Molly?” chiese John esterrefatto.
L’aria piena di tensione fu rotta dal rumore di passi in avvicinamento.
Una macchina nera dai finestrini oscurati si fermò accanto a loro.
“Proteggila, promettimelo” sussurrò Sherlock, fissando John negli occhi.
“Tornate a casa, chiudetevi nella mia camera da letto e aspettatemi. Tornerò.”
John fece per aprire bocca, quando lo sportello della macchina accanto a lui si aprì e Sherlock lo spinse dentro. In un attimo le parole dell’amico gli ronzarono in testa, i suoi occhi scomparvero e si ritrovò steso su un seggiolino, accanto a Molly.   

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


“Dov’è?”
Molly lo fissava terrorizzata. La voce era bassa.
La portiera di metallo si era appena chiusa dietro a John e la macchina stava ripartendo.
Lui si raddrizzò sul sedile e cercò di incanalare le informazioni. Non rispose.
“John, lui dov’è?”
John si riscosse al tono inspiegabilmente deciso di Molly.
Si voltò a guardarla e la vide pallida, nella vibrante attesa di una risposta.
“Tu sapevi…” le rispose. Lei sapeva.
Molly chiuse gli occhi, strinse forte un lembo della camicia sgualcita di John e lo supplicò:
“E’ rimasto fuori?”
John avrebbe voluto protestare, arrabbiarsi, gridare. Che non era quello il modo in cui avrebbe dovuto sapere le cose. Che tutti erano a conoscenza del più grande segreto della loro vita, tranne lui.
Fece per urlare davvero, quando incontrò gli occhi smarriti e impauriti di Molly.
Il suo onnipresente lato buono cedette e rispose:
“E’ con Lestrade.”
Molly si voltò sbiancata verso il conducente, Mycroft, e borbottò:
“Si fermi.”
Mycroft la osservò di sbieco dallo specchietto retrovisore e tornò a guardare la strada:
“Non posso, dottoressa Hooper. Dobbiamo andare a recuperare Jeremy, e Sherlock sa quello che fa.”
Jeremy? E adesso chi era Jeremy?
John, frastornato più che mai, si prese la testa fra le mani e chiuse gli occhi nel disperato tentativo di estraniarsi da tutto quanto.
“Non mi importa di Jeremy, fermi subito questa macchina!”
Molly aveva appena gridato. Paradossale.
Molly Hooper, la timida patologa del Bart’s, con la più grande cotta per Sherlock Holmes che si potesse mai immaginare, aveva appena ordinato ad un membro del governo di fermare l’auto nel bel mezzo della strada, mettendo in pericolo la vita di tutti per… Sherlock?
Mycroft rimase a corto di parole, inchiodò immediatamente e si voltò fulmineo verso Molly:
“Torni qui nel giro di pochi secondi, altrimenti mi vedo costretto ad abbandonarla al suo destino. E se consideriamo che esso prevede mio fratello, non mi sento affatto tranquillo a farlo.”
Lei annuì e, con le mani tremanti, aprì la portiera della macchina, si lanciò fuori tenendola aperta e lasciò i due uomini all’interno dell’abitacolo.
“Chi…” cominciò John, non appena Molly fu uscita “Chi è Jeremy?”
“Un mio agente. Sherlock si ostina a non fidarsi di lui e, forse, comincio a pensare che abbia ragione.”
Qualche istante di silenzio e poi: “E’ fuori da qualche parte. Ha insistito per scendere con Sherlock durante la sparatoria al camion del gelati e da lì l’abbiamo perso di vista.”
John annuì sommessamente.
A quel punto di Jeremy non gli interessava più niente. Dalle parole di Mycroft era palese che sia lui che Molly erano a conoscenza del segreto di Sherlock da molto tempo, forse fin dall’inizio.
Lui era rimasto l’unico, insieme a Lestrade, all’oscuro di tutto. L’incredulità per la situazione lasciò il posto alla rabbia. Anche se Sherlock avesse fatto tutto ciò per proteggerlo, in un qualche modo contorto, gli aveva mentito. Lo aveva ingannato.
Una di quelle cose che non si fa con chi si chiama “amico”.
Poi gli tornarono in mente le parole che quello che un tempo era stato il suo migliore amico aveva pronunciato: proteggila, promettimelo, aveva detto riferito a Molly.
Fu allora che si sentì gonfio delle vecchie emozioni, scosso dalla rabbia, dalla rassegnazione, dall’ansia, dalle responsabilità che gravavano su di lui ogni volta che prometteva qualcosa a Sherlock.
Molly Hooper era la più grande promessa che gli avesse mai fatto.
In uno scatto istantaneo si affacciò dallo sportello e gridò:
“Molly, torna indietro, adesso!”
 
“Sherlock!” la voce di Molly proveniva dalle loro spalle.
Lestrade e Sherlock si voltarono contemporaneamente e a Greg sfuggì una rapida esclamazione:
“Molly, che diavolo ci fai qui?”
Sherlock sembrava impallidito:
“Ha ragione Lestrade, che ci fai qui?”
Molly si avvicinò correndo a perdifiato, con il cuore in gola:
“Io non… Non potevo lasciarti andare.”
Sherlock rimase in silenzio per un secondo, poi la prese per le braccia e le si avvicinò, cercando il tono di voce più convincente che potesse avere. Molly ansimava e trattenne il respiro non appena sentì le forti mani di Sherlock sulle sue braccia.
“Sei sconvolta, Molly, posso capirlo. Vedere John in quelle condizioni ha fatto uno strano effetto anche a me, ma adesso devi tornare in macchina, hai capito?”
Lei scosse la testa vigorosamente:
“No, io non ti lascio.”
Sherlock allentò la presa sulle due braccia e si allontanò di poco.
“Io…” Molly si rese conto che aveva appena pronunciato ciò che la sua mente aveva partorito nel panico, senza soppesare le conseguenze che le sue parole potevano avere.
“Molly, torna in macchina. Stai mettendo in pericolo la vita di tutti” rispose Sherlock freddamente.
Lei si sentì avvampare, il cuore smise di battere per un secondo e i suoi pensieri arrancarono alla ricerca di qualcosa da fare. Era andata lì con lui, l’aveva deciso qualche giorno prima con convinzione ed era certa che in qualche modo gli sarebbe stata utile.
Lo stesso Sherlock aveva affermato che gli sarebbe stata utile.
Invece non aveva fatto che rimanere in silenzio per tutto il tempo, era solo un inutile peso di cui gli eroi avrebbero dovuto sbarazzarsi.
E adesso lei si sentiva sulle spalle il peso di se stessa.
Poteva rendersi utile, adesso? Come?
Non c’erano corpi da analizzare, sostanze chimiche da scoprire. Davanti a lei c’era solo Sherlock.
C’era l’uomo che amava dannatamente da anni e anni e che stava per lasciare forse per l’ultima volta.
Capì che rimanere lì con lui e Lestrade non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione.
Molly indietreggiò di un passo, fissando tristemente Sherlock.
Si voltò per tornare alla macchina, mosse qualche passo, poi si fermò di nuovo.
No.
Questa volta non avrebbe vinto lui.
Si voltò di scatto, il cuore che aveva accelerato i battiti.
Tornò a corsa verso Sherlock e gli si gettò fra le braccia.
Per un secondo il cappotto di Sherlock e la sciarpa di Molly sventolarono insieme all’aria della notte, tanto fu forte il movimento veloce e amorevole di lei.
Rimasero per un istante così, fermi.
Lei con le sue braccia intorno al collo di lui.
Lui immobile a fissare un punto indefinito davanti a sé.
Fu dopo qualche secondo secondo, quando Molly stava per lasciare la presa, che lui l’abbracciò. Le sue braccia forti si strinsero improvvisamente intorno al fragile corpo di Molly. E lo fecero sinceramente.
Non c’era finzione in quell’abbraccio.
La dottoressa sentiva quando fosse tragico quel contatto: le sembrava di avere il cuore aperto, e che Sherlock si stesse facendo spazio, ancor più di quanto ne occupasse già.
“Ora sì che devi andartene” sussurrò Sherlock, allentando piano la presa.
“Sherlock io non vorrei, ma dobbiamo andare” proruppe Lestrade, con un lieve moto di impazienza.
Molly si staccò, guardò negli occhi Sherlock e fece per parlare, quando la voce di John, dalla macchina, la richiamò indietro.
“Mi ha promesso di proteggerti. Non fargli fare brutte figure, torna a casa e aspettami” disse Sherlock, allontanandosi di qualche passo.
Molly, incredula di aver ascoltato quelle parole, si voltò prima che fosse troppo tardi e corse verso la macchina.
Lestrade e Sherlock si avviarono verso l’ingresso incustodito del bunker e prima di entrare Sherlock si voltò un’ultima volta: scorse la macchina ripartire in tutta fretta e segretamente sperò che arrivasse a destinazione il più in fretta possibile.
 
 
 
Un colpo forte e secco stese anche l’ultimo uomo rimasto nel corridoio di ingresso del bunker.
Lestrade alzò la pistola col cui manico aveva colpito l’uomo e sospirò.
Sherlock stava in piedi dietro di lui, la pistola impugnata:
“Potrei giurare che non eri così quando ti ho visto l’ultima volta” disse.
L’altro si voltò con un sorriso cupo:
“Cos’è, un complimento?”
Sherlock fece spallucce e ricominciò a camminare: “Andiamo.”
I corridoi erano soffocanti, la luce opaca brillava tristemente da alcune torce appese alle pareti.
“Da che parte?” chiese Sherlock, una volta giunti ad un bivio.
Lestrade lo superò, si guardò intorno e puntò la pistola verso destra:
“In fondo a questo corridoio c’è una porta”
Sherlock si affacciò fulmineo:
Lui è là.”
“Pensavo che prima volessi vedere dov’è stato tenuto John” fece Lestrade, indicando dalla parte opposta.
Sherlock si voltò a guardarlo:
“No. Non ho bisogno di vedere dov’è stato per capire cosa gli hanno fatto.”
Lestrade annuì sommessamente, poi si guardò intorno e si scurì in volto.
“Non ti sembra che…?”
“Sia strano che non ci siano uomini armati in giro? No. Chiunque sia dietro quella porta, e non ho forti dubbi sulla sua identità, vuole me. Sa che sono qui e mi vuole vivo” rispose Sherlock.
Greg soppresse una risata nervosa. Fece mezzo giro su se stesso, frustrato, e poi, spalle al muro, si lasciò scivolare a terra.
“Sai” cominciò, le mani appoggiate alle ginocchia e la pistola che ciondolava “da quando sei… te ne sei andato, la mia vita, la nostra vita, è cambiata completamente. Sentivamo talmente tanto la tua mancanza che ho cominciato a chiedermi che cosa fosse la polizia, chi fossi io prima di conoscere te…”
“Lestrade…”
“No, fammi finire di parlare, per una volta. Dopo la tua scomparsa ognuno di noi ha deciso di migliorare le proprie abilità come tu avresti voluto. John ha aperto un suo studio medico e ha frequentato una palestra specializzata e io ho seguito molti corsi professionali. Mi dicevi sempre, un tempo, che mi avrebbero aiutato. E poi ho ripreso in mano i nostri vecchi casi e mi sono sforzato di capire i tuoi metodi di indagine, di entrare nella tua mente.”
Sherlock si fermò ad osservarlo.
Era cambiato, era vero.
“Sei stato tu a scrivere il biglietto vero?”
Greg annuì:
“Non so, forse speravo davvero che tu fossi vivo. Dopo aver visto Moriarty mi sono convinto che anche tu potevi esserlo sul serio, proprio come tutti si ostinavano a dire. Per questo ho lasciato il biglietto in macchina.”
“Ma non hai ucciso tu quegli uomini. Hai sempre evitato le armi da supporto di squadra, tu sei arrivato dopo sul luogo del massacro” continuò Sherlock.
Greg annuì di nuovo.
Sherlock tirò fuori dalla tasca del cappotto il biglietto stropicciato, lo stirò fra le mani e disse:
“S-H-R e J-M-R sono il codice con cui comunicate, l’hai scritto perché probabilmente pensavi di non essere qui, quando io sarei arrivato, e così avevo comunque in mano la chiave per arrivare a Moriarty o chi per lui.
Il numero 49 è stata una buona mossa. Non era un numero civico, da queste parti si va dal 300 al 510, nemmeno i primi numeri di una targa, cercare una macchina non avrebbe avuto senso. E’ il numero stampato sul camion dei gelati, proprio sulla fiancata visibile ai passanti.”
“Già” gli fece eco Lestrade. Sherlock si alzò, impugnò di nuovo la pistola e si voltò verso Greg:
“Resta qui e chiama Scotland Yard, tra qualche minuto potrebbero essere utili i rinforzi. Devo andare da solo.”
Lestrade alzò lo sguardo: Sherlock appariva preoccupato, forse per la prima volta davvero in tutta la sua vita.
“Non ti far uccidere” rispose. Si alzò da terra ed estrasse il cellulare dalla tasca.

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


La stanza era fredda e male illuminata.
La polvere serpeggiava tra i fasci di luce che le strette finestre lasciavano passare.
Sherlock entrò, lo sguardo fisso e sicuro davanti a sé.
Scorse con la coda dell’occhio una figura seduta dietro ad un tavolo, che tamburellava con le dita sulla superficie di metallo.
Percepì il freddo, fece un mezzo giro su se stesso, richiuse la porta con uno scatto e sprofondò le mani nelle tasche del cappotto.
“Sei solo?” chiese la voce dall’altra parte della stanza.
Sherlock si voltò finalmente a guardarlo e scorse il volto cinico di Moriarty che lo fissava immobile.
Aggrottò un sopracciglio:
“Solo. Come te, immagino.”
Moriarty annuì.
“E’ un piacere rivederti, Sherlock.”
“Per me no. Ti sei trovato un bel posto per passare il tempo, non è vero? Dovresti stare comodo in un bunker di cemento armato, illuminato da neon vecchi quanto la Torre di Londra e celle che venivano utilizzate durante la seconda guerra mondiale” riassunse Sherlock, continuando a guardarsi intorno, con fare indifferente.
Moriarty alzò lo sguardo, sorrise sardonicamente e picchiettò le dita sul tavolo:
“Mi mancavano le tue deduzioni.”
“Non si tratta di dedurre, la mia era un semplice constatazione. Sono felice che tu l’abbia apprezzata” rispose Sherlock, tornando a guardare in faccia il suo interlocutore.
Ebbe un brivido di freddo, lì la temperatura era sicuramente inferiore a quella esterna.
Osservò Moriarty, seduto a sorridergli in faccia: non batteva ciglio ed indossava solo una camicia. Ed una cravatta, ovviamente.
“Dovresti fidarti di più di me” disse, con quella stessa voce che tre anni prima lo aveva costretto a fingere la propria morte per la salvezza dei suoi amici.
“E tu di me” rispose secco Sherlock, immobile.
“Non sei curioso di sapere come sono sopravvissuto? Io voglio sapere come hai fatto tu.”
Moriarty concluse di parlare e prese a grattarsi dietro l’orecchio destro, come un tic nervoso.
Sherlock sorrise.
Si avvicinò alla sedia che lo aspettava di fronte al tavolo e chiese:
“Permetti?”
Moriarty acconsentì con un ampio gesto della mano e Sherlock si sedette lentamente.
“Bene. Sentiamo come sei sopravvissuto” ammiccò Sherlock dopo qualche secondo.
Si sporse sul tavolo, appoggiandosi sui gomiti, e si mise a fissare Moriarty, in attesa di spiegazioni.
Anche l’altro si mosse in avanti e cominciò:
“Sono molti i trucchi del mestiere di cui non sei a conoscenza, Sherlock.”
“Illuminami.”
Passò qualche secondo, i due erano a pochi millimetri l’uno dall’altro.
Moriarty poggiò una mano su una pila di fogli accanto a lui e disse:
“Queste sono le chiavi che mi hanno permesso di essere qui oggi. Ho un’intera task force di uomini di Scotland Yard alle calcagna da tre anni, ma nessuno ha mai individuato questo materiale. Nemmeno tu ci sei riuscito.”
Sherlock mantenne gli occhi sul volto dell’interlocutore e intanto allungò una mano ad afferrare uno dei fogli sulla pila. Lo sventolò davanti al naso di Moriarty e chiese:
“Qui sopra, ad esempio, che c’è scritto di tanto importante?”
Non diede tempo all’altro di rispondere: stese il foglio, lo avvicinò ad uno zigomo di Moriarty e lo strusciò velocemente, provocandogli un netto taglio rosso sangue.
Non scorgendo alcuna reazione, fece lo stesso con il suo zigomo: avvicinò il foglio e si tagliò la pelle.
“Pessimo bugiardo. Certo, devo ammettere che all’inizio mi avevi quasi ingannato” fece Sherlock, gettando il foglio sulla scrivania e facendo notare a Moriarty la ferita.
Lui esaminò qualche altro secondo il sangue, poi appoggiò le dita insanguinate sul tavolo:
“Sono sempre stato bravo ad ingannare, ricordi?”
Sherlock sorrise di nuovo.
Ad un primo sguardo sembrava che i ruoli si fossero invertiti: il sorriso ironico era sempre presente sulle labbra di Sherlock, mentre dal viso di Moriarty stava sparendo piano piano.
“Ricordo, certo. Ricordo Jim Moriarty, il miglior criminale che Londra abbia mai conosciuto. E tra i più furbi uomini d’Europa, se non del mondo. Ma no, non ricordo di averti mai conosciuto, Sebastian” sentenziò Sherlock, voltandosi di scatto per osservare la reazione dell’interlocutore.
Il sorriso si spense definitivamente e gli occhi si spalancarono pian piano. Era un’espressione strana da leggere un un volto simile a quello di Moriarty.
Per un attimo sembrò che le mani gli sudassero e che il volto si facesse pallido.
Poi sorrise, e tutto tornò ad una strana normalità.
“Mi aveva avvertito riguardo a te, Sherlock Holmes. Mi ha sempre detto che sei furbo e che in qualche modo avresti risolto il problema finale.
Sherlock tirò silenziosamente un sospiro di soddisfazione.
 Aveva giocato la sua carta migliore e adesso doveva solo completare l’opera. Ma a quale costo?
“Si può sopravvivere ad una caduta, se si ha gli strumenti adatti per farlo. Ma non si può sopravvivere ad un proiettile piantato dritto nel sistema nervoso” rispose, con calma.
L’altro si alzò in piedi e affondò le mani nelle tasche dei pantaloni.
“Da cosa l’hai capito?” un attimo di silenzio e poi “Che io non sono Jim?”
“Se non mi avessi dato tu stesso tutte quelle prove, forse non ci sarei arrivato tanto facilmente da solo. Ma sin dal primo momento in cui sono entrato in questa stanza, non hai fatto che fornirmi i giusti indizi. Puoi ingannare chiunque, lo ammetto, un travestimento perfetto, ma non me.”
Sebastian, l’ex Moriarty, deglutì a fatica, ostentando sicurezza. Passò una mano sull’apertura di un cassetto nel tavolo e chiese:
“Non sto tessendo le tue lodi, Holmes, voglio capire come, prima di…”
“Prima di cosa?”
“Dimmi come l’hai capito” concluse, la mano ancora appoggiata al cassetto, il sorriso era nuovamente comparso sul suo volto.  
Sherlock lo osservò attentamente, poi decise di parlare:
“La prima frase, “sei solo?”, è stato il primo indizio che mi ha fatto insospettire. Il buon vecchio Jim non avrebbe mai fatto una domanda così banale. Aveva una grande mente, ci sarebbe arrivato da solo e soprattutto lui stesso avrebbe voluto un incontro solitario, mai avrebbe chiesto se ero da solo.”
Sebastian aprì piano il cassetto, fissandolo.
Sherlock non gli staccava gli occhi di dosso. Aveva composto tutti i pezzi del puzzle, eppure percepiva ancora qualcosa che gli sfuggiva.
Continuò:
“Ma quello è solo un particolare. In questa stanza fa freddo, molto freddo. A giudicare dallo stato delle finestre in cima al muro, qui dentro la temperatura è inferiore rispetto all’esterno, che è già fredda di per sé. Io ho dovuto infilare le mani nel cappotto, per non sentirle congelare, mentre tu sei in maniche di camicia fin dall’inizio della nostra chiacchierata e non hai battuto ciglio. Significato? Percezione della temperatura esterna da parte della pelle notevolmente diminuita. In parole povere non senti né il caldo né il freddo, la tua temperatura è standard.”
Sherlock si bloccò non appena vide che Sebastian aveva estratto dal cassetto una pistola e la stava accarezzando con una mano.
“Vai avanti” disse, richiudendo il cassetto.
“Oh, il graffio sulla pelle? Un attacco repentino molto utile. Ciò che mi ha dato la conferma è stato il graffio.
Non te ne sei accorto, finchè non te l’ho fatto notare io. Hai tastato tutta la faccia prima di sentire qualcosa di liquido sotto le dita e scoprire che era sangue. Non hai sentito dolore, quando te l’ho inferto.
Poi ho fatto la stessa cosa con la mia pelle: ho provocato un lieve graffio sul mio zigomo ed ho percepito un legittimo dolore, tanto da fare una smorfia. Tu no. Quella pelle non è tua.”
Sherlock si fermò per qualche istante prima di ricominciare a parlare:
“Ah, stavo dimenticando un particolare interessantissimo: per quale ragione ti gratti dietro l’orecchio destro?”
Sebastian si era alzato, aveva aggirato il tavolo e si avvicinò a Sherlock con la pistola in mano, ma senza puntarla.
“Te lo dico io: l’attaccatura della nuova pelle ti provoca prurito. Non riesci a trattenerti nemmeno di fronte a me, consapevole che avresti potuto commettere un errore, grattandoti. In conclusione?
Hai affrontato una lunga serie di operazioni chirurgiche e vorrei congratularmi con il medico in questione, perché ha fatto un ottimo lavoro. Hai sostituito la pelle di quasi tutto il tuo corpo, tanto che non riesci più a percepire né caldo, né freddo, né dolore. Anche l’udito è rallentato. Beh, sì, questi sono gli svantaggi della chirurgia plastica” dedusse Sherlock, quasi tutto in un fiato.
Sebastian si fermò a pochi centimetri da lui, sorridendo.
“E perché mi hai chiamato Sebastian?”
Sherlock non si mosse.
Fece sparire il sorriso dal suo volto e bisbigliò:
“Quante operazioni chirurgiche hai subito? Tante, immagino. Non dev’essere stata piacevole la convalescenza, o sbaglio? Una sofferenza che solo un amico fidato e leale avrebbe patito per Moriarty. Non riesco a pensare a nessun altro eccetto che ad un solo nome: Sebastian Moran, la seconda persona più pericolosa di Londra, dopo il defunto Jim.”
Sebastian annuì.
Il sorriso c’era ancora, ma era strano, quasi sofferente.
Accarezzò il calcio della pistola.
“Gli ho fatto una promessa, il giorno della sua morte, prima che ti raggiungesse sul tetto: mi sarei assicurato che tu fossi morto e se non lo fossi stato davvero, ti avrei trovato, ucciso e portato con lui nella tomba. Se sai così tanto di me, sai anche che sono uno dei migliori cecchini in circolazione. E che non sbaglio mai mira.”
Alzò la pistola e lentamente la appoggiò sotto il mento di Sherlock.
Lui si preparò al colpo finale, ma Sebastian continuò:
“Poi ho promesso a me stesso che se avessi fallito, se tu mi avessi scoperto prima che io fossi riuscito a vendicare Moriarty, allora sarei stato io a raggiungerlo nella tomba.”
Sherlock rimase perplesso, sentì la pistola muoversi repentinamente da sotto il suo mento e non fece in tempo ad aprire bocca, che dovette allontanarsi e assistere ad una scena orrenda:
Sebastian aveva premuto il grilletto e la pistola aveva sparato.
Il sangue schizzò in tutte le direzioni, il volto rimase completamente sfigurato, coperto di sangue e carne.
Un lembo di pelle cedette e sotto comparve la vecchia pelle.
Quella di Sebastian Moran, il braccio destro di Moriarty che si era appena ucciso nello stesso modo del suo vecchio amico: un colpo di pistola dritto in bocca.
Sherlock si voltò non appena udì il colpo e si voltò di nuovo ad osservare il cadavere.
Si portò una mano alla bocca e sospirò pesantemente.
“No…” sussurrò.
“No, no, no! Perché avete tutti questa maledetta mania del suicidio?” gridò, in preda all’isteria.
Tirò un calcio al cadavere e si voltò verso la porta che era appena stata sfondata.
Osservò Lestrade irrompere armato seguito dagli agenti di Scotland Yard appostati nelle vicinanze.
Osservano l’ispettore dovette ammettere che c’erano state delle conseguenze positive, con quell’ultimo passo. Lui era libero di tornare alla vita, e tutti i suoi amici erano salvi.
Era vero, John e Molly non erano più in pericolo.
Sherlock aveva smascherato il piano di Sebastian Moran, ma adesso non avrebbe più potuto avere le informazioni che gli servivano per completare il ritratto dello stesso Moran e di Moriarty.
“Sherlock stai bene?”
La voce di Lestrade lo riscosse dal suo sconvolgimento.
Sherlock non rispose e continuò a fissare il cadavere:
“Si chiamava Sebastian Moran, era il braccio destro di Moriarty. Fate fare l’autopsia a Molly, sarà l’unica in grado di provare che non si tratta di Moriarty, ma del suo fedele amico. Il mio lavoro qui è finito, lui non potrà più rispondere a nessuna mia domanda.”
Sherlock guardò un’ultima volta il cadavere a terra. Mancava qualcosa.
Mancava qualcuno.
“Jeremy…” sussurrò.
“Cosa?” chiese Greg.
“Niente.”
Sherlock si avviò verso la porta, a passo spedito, quando Lestrade lo richiamò:
“Sono contento che tu sia di nuovo qui.”
Passò qualche secondo, Sherlock si voltò, mentre gli uomini di Scotland Yard ronzavano intorno a loro.
Sospirò e sorrise:
“Anch’io.”
 
 
Bip bip.
E poi ancora: bip bip.
Il macchinario posto accanto al letto di ospedale suonava la stessa cupa melodia da ore.
Le condizioni del malato sul letto di ospedale erano stabili.
Ma per quanto?
Cosa sarebbe successo, quando il cuore avrebbe smesso di battere?
Jeremy era seduto accanto al corpo dell’uomo intubato e attaccato ai macchinari tramite delle flebo.
Lo fissava con il mento appoggiato alle mani incrociate.
Tom Kletton giaceva morente su quel letto e le possibilità che ne uscisse indenne erano praticamente nulle.
Jeremy si agitò sulla sua sedia:
“Abbiamo combattuto tutto questo per una nuova vita, Tom” sussurrò “non molleremo, d’accordo?”
Tirò su col naso, come a trattenersi dal piangere.
“Questa copertura non mi serve più, Sherlock Holmes sospetta già di me. Ma non permetterò che vinca.”
Si asciugò una lacrima che, nonostante i suoi sforzi, era scesa.
“Ti giuro, fratello, che nessuno di loro rimarrà impunito. Dal genio Sherlock Holmes ai suoi amici.
Avremo la vendetta che ci spetta e la vita che ci meritiamo. Fosse l’ultima cosa che faccio, otterremo la nostra vendetta.”
 
 
 
 
NOTA DELL'AUTRICE:
Eccoci in fondo.
Questo è l'ultimo capitolo, prima dell'epilogo, che rappresenterà comunque un finale aperto.
Due parole su questo capitolo: alcune delle idee per lo smascheramento di Sebastian le ho tratte da "Sherlock Holmes-Gioco di Ombre" il film. Per ogni aggiunta particolare, i dettagli e le soluzioni devo ringraziare anche la fantasia di _yaya, che mi ha seguita da ottima beta dall'inizio.
Ogni ringraziamento e nota mia personale arriverà, però, solo all'epilogo, quindi se non ho citato qualcuno è solo perchè lo farò in seguito.
Grazie in aticipo a tutti, alla prossima :)
 

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Capitolo 16
*** Epilogo ***


C’era qualcosa di strano in quel sole di Dicembre: era tristemente offuscato dalla nebbia londinese e dalle nubi cariche di pioggia.
Fissare quella luce argentea dalla camera da letto del 221B rendeva l’atmosfera ancor più surreale. Molly se ne stava stesa nel letto, le coperte tirate su fino al mento, gli occhi fissi sulla finestra. Aspettava il momento di potersi alzare da tutta la notte, ma non era ancora arrivato. Il cuore aveva ripreso a battere a ritmo regolare, dopo il calmante che John le aveva somministrato.
Eppure non era riuscito a farla addormentare.
Cominciò a piovere in quel preciso momento.
La pioggia formava una fitta rete di spilli che riflettevano la luce grigia della città.
John si voltò a guardare la pioggia scendere, attirato dallo scrosciare di questa sulla strada e contro il vetro della finestra. Era rimasto con il cellulare in mano per tutto il tempo, nella speranza di ricevere il segnale che Sherlock gli aveva promesso. Si erano stretti l’un l’altro delle promesse in pochi secondi, ma John sapeva che ciò che si erano detti andava oltre il dovere.
Molly era una di quelle promesse.
Quando si voltò a guardarla la vide pallida, stanca e ancora sporca, quasi come lui.
“Vuoi che ti prepari un tè?” abbozzò John.
Moriva dalla voglia di uscire da quella stanza e preparare un tè a Molly non avrebbe messo in pericolo la vita di nessuno.
Lei si limitò a scuotere la testa.
Male, dedusse John, molto male. Molly amava prendere il tè in qualunque momento della sua vita. Lo prese anche dopo il finto funerale di Sherlock. Già… Finto.
Avrebbe voluto che Sherlock fosse stato lì per farsi spiegare come avesse potuto organizzare una cosa simile, ma non c’era. E forse questa volta stava rischiando di morire davvero.
“Non vuoi niente?” chiese di nuovo.
Molly fece di nuovo segno di no con la testa. Era stato tremendo per lei. Era stato tremendo per John.
Tutto ciò che stava accadendo era terribile e surreale.
La pistola di John era ancora appoggiata su cassettone, accanto al letto, e lui la guardava con l’intenzione di afferrarla, correre a prendere una macchina e raggiungere Sherlock. Ma non avrebbe fatto niente di tutto questo. Avrebbe mantenuto la promessa di non perdere mai di vista Molly, finchè gli Holmes non fossero tornati. Finchè Sherlock non fosse di nuovo a casa, in quella stanza, con lui e con lei.
“Dovresti odiarmi.”
Più che una voce, quello era un sussurro e proveniva dal groviglio di coperte in mezzo al letto.
“No…” John cercò di divagare. Lui stava male, era ferito e avrebbe avuto bisogno di cure specifiche.
Molly era moralmente e fisicamente a pezzi. Quello non era il momento di arrabbiarsi per il passato.
“Invece sì. Ti ho nascosto la verità, io mi odierei per questo. Anzi mi odio” continuò Molly, con un fil di voce.
Come doveva essere stato, per lei, mantenere un segreto tanto grande?
John si alzò dalla sedia e si mise a sedere sul letto, accanto a Molly.
“Io avrei fatto la stessa cosa” le disse, abbozzando il miglior sorriso che potesse trovare.
“Davvero? Ma tu sei stato male ed è anche colpa mia.”
“Anche tu non sei stata bene, o sbaglio? Se Sherlock, quel giorno, avesse chiesto a me di aiutarlo, io l’avrei fatto” continuò John.
“Non poteva” rispose Molly, rannicchiandosi ancora sotto le coperte.
John si lasciò andare ad una risata amara:
“Questa è una delle cose che dovrà spiegarmi.”
Molly sorrise. Senza dire niente, John le si stese accanto e si mise a fissare il soffitto. Tese il cellulare a Molly e disse:
“Lo teniamo qui, nel mezzo. Così appena Sherlock si farà sentire, leggeremo insieme il messaggio.”
Lei annuì. Dopo qualche secondo di silenzio, bisbigliò:
“Sei sicuro che tornerà?”
“Sì.”
“Io mi fido di lui” concluse lei.
John sospirò. Guardò Molly negli occhi e si rese conto dei sentimenti che la stavano tormentando. Pensò che Sherlock gli aveva mentito per tutti quegli anni. Eppure adesso lo voleva lì, se non fosse anche solo per tirargli un cazzotto su uno degli zigomi di cui si era sempre vantato tanto.
Il cellulare vibrò ed entrambi trattennero il respiro, ma nessuno dei due lesse il messaggio per primo.
Lui rispose dopo un po’:
“Anch’io” rispose John dopo un po’ “Anch’io mi fido di Sherlock Holmes.”

NOTA FINALE:
Benissimo, siamo giunti al capolinea.
Avevo già preannunciato che l'epilogo avrebbe comportato un finale aperto, ma che comunque è comprensibile se si guarda alla luce degli avvenimenti del capitolo 15 (o almeno spero ;P). Ringraziamenti? Troppi. Ringrazio, e non è una cosa banale e scontata, ma sincera, tutte le persone che hanno seguito la storia, l'hanno messa tra i preferiti, tra le ricordate e hanno commentato.
Un ringraziamento speciale va a _Jaya che ha collaborato fin dall'inizio alla stesura completa della storia, grazie davvero, senza di te non so dove sarei potuta arrivare.
E l'ultimo, ma non meno importante a _WhatsErname che... vabbè, inutile, lo sai già. Se non avessi letto ogni capitolo passo passo con tanto di accuratissimo commento, la storia avrebbe avuto meno importanza, per me.
Ah, grazie anche a yllel, il tuo perenne appoggio ha significato molto!
Detto questo, grazie ancora a tutti quelli che l'hanno seguita e commentata comunque, siete stati eccezionali.
Spero davvero: alla prossima :)

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